Estratto da "Nell'orizzonte degli eventi", di David Valentini

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David Valentini

Nell’orizzonte degli eventi

Nulla die sine Narrativa


Domenica 14 settembre 2014 “La superficie di un buco nero (o orizzonte degli eventi) è il confine della regione dalla quale non può uscire alcun segnale: questa superficie (ove la velocità di fuga eguaglia la velocità della luce), può essere attraversata da materia o radiazione che cada verso il buco nero, ma non nel senso opposto.” — Dalla voce “buco nero” su Treccani.it



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La chiave entra nella toppa, ed è di nuovo la normalità. Il portachiavi tintinna appena all’urto con la porta color mogano, mentre una minuscola mucca viola di plastica fissa con occhi spenti la sua proprietaria. Gli occhi gialli di un gatto nero accompagnano lo sguardo della ragazza verso l’interno dell’appartamento; attraverso la copertina consumata dei Racconti del mistero spuntano imprecazioni e pensieri vergati a mano. Dentro la casa regna quel silenzio pesante che solo uno spazio vuoto può dare. Le finestre chiuse impongono una calma ovattata e lasciano tutti i rumori del mondo esterno fuori dai vetri. L’orologio in cucina e quello in salone sono muti: il tempo sembra essersi fermato, e la vita rimasta altrove, da qualche parte nella città caotica e membranosa. La ragazza resta in attesa a metà tra il pianerottolo e l’appartamento, immobile come uno scatto fotografico. L’afa è soffocante, la tensione sul viso indecifrabile. Per trenta secondi resta sulla soglia trattenendo il respiro; sussulta quando il portone di ferro dell’androne si schianta su stesso, quattro piani più in basso. Dalla tromba delle scale l’eco fugge via, come a nascondersi da un assassino. Come a rincorrere i suoi peccati. Dove sono finiti tutti? Si volta verso l’ascensore, scruta la tromba delle scale, si rimangia il saluto che stava per lanciare come un’esca. Sistema lo zaino sulle spalle, scomodo come un corpo morto, prende fiato, infine si dà un contegno ed entra in casa di soppiatto, come una ladra. Lo specchio all’ingresso le rimanda l’immagine di una ragazzina in preda al terrore — lo sguardo fisso, gli occhi sgranati e acuti. Rilascia un respiro che si espande nel silenzio tombale.


Scialla, Sofia: qua non c’è nessuno. Ti è andata bene. L’hai sfangata! L’appartamento è buio e statico. Nel salone all’americana dorme un enorme gatto rosso, silenzioso come un fuoco spento: ozioso, alza la testa baffuta di qualche centimetro e annusa il vuoto con smorfie di disgusto, quasi abbia percepito il puzzo stantio di alcol nell’aria. Dalle budella di Sofia parte un rumore sgraziato, libro e portachiavi si schiantano sul pavimento silenzioso. Dacci un taglio con l’ansia, è solo il tuo corpo che sta sistemando il casino che hai combinato ieri sera. Stupida, stupida, stupida! Il primo comandamento è: Tu non mischierai mai! E qual è il secondo? Lo sai! Tu non scenderai mai di gradazione! Due semplici regole! Lancia un rutto che sa di acido, si avvicina al gatto e lo coccola dietro le orecchie. Un suono gutturale parte dalla ciambella di pelo immobile. «Come sempre sei il primo a venirmi a salutare. Ma come si fa a chiamarti “Gigio”? Tu sei il mio James Poe!» Dopo aver lanciato il giacchetto di pelle e il libro sul tavolo in cucina, Sofia corre in bagno a gettare in lavatrice i vestiti ancora pregni dei succhi gastrici di qualcun altro: la maglietta, i jeans e persino i calzini sono incrostati di macchie verdi disgustose. Fortuna che il profumo zenzero e vaniglia ha coperto il puzzo nello zaino. Guarda che schifo qua dentro, mi toccherà ricomprare il libro di greco. Vacca puttana, come glielo spiego che ho dovuto buttarlo? Faccio prima a non dirglielo: tanto non capirebbero. Si fa largo tra la montagna di boxer, reggiseni e magliette. Uno dei compiti di una brava donna è saper fare la lavatrice... vero, mamma? Sente il battito cardiaco rallentare quando la luce verde trascina con sé il ronzio tanto bramato. Un paio di accorgimenti e poi sarà tutto sistemato: innanzitutto, dare una pulita veloce allo zaino e disfarsi delle bottiglie. Vodka alla pesca e Vov... e che cazzo, gocciano ancora! Ma che schifo! Nel giro di un paio di minuti le mattonelle blu si ricoprono di ammassi di carta igienica ingiallita. Le due bottiglie grumose sembrano prendersi gioco di lei.


Che palle! Mi tocca nasconderle nell’armadio. Sto proprio sfasata oggi, perché cazzo non le ho buttate prima? Andando avanti e indietro a piedi nudi per la casa, accende il PC e la radio — la voce di Eros Ramazzotti che si spande nell’aria le fa storcere il naso —, mette su il caffè e si apre una lattina di aranciata. Senza pensarci. Corre in bagno e fa appena in tempo a sputare l’ondata acida nella tazza. Osserva il vortice ipnotico ruotare, e dall’oblò le sembra quasi di percepire l’odore degli estranei scivolare via dai vestiti. Fortuna che mi ero portata il cambio. Mai più senza, mai più! Ma il peggio è passato ormai, la bravata di ieri resterà inosservata, dopo tutto. Scuote la testa. Che poi bravata un paio di palle. Vacca troia, i miei si sono scordati cosa vuol dire essere giovani: sempre lì a consigliarmi dove andare, dove non andare, con chi uscire... chi sono quelli pericolosi e quelli che invece passerebbero la dogana senza problemi. Che non si fuma, che non si beve. Che non si scopa. Se non rompessero così tanto, non dovrei sempre raccontargli cazzate. Già che c’è libera la vescica, gettandosi la testa pesante fra le mani: sebbene non come un paio d’ore prima, le tempie continuano a pulsare senza sosta. Quello soprattutto, che nervoso! Sempre a scassarmi con questa storia del sesso, ma al mio Dada perfetto mai una volta li ho sentiti fare il discorsetto; quasi che lui abbia il diritto di fare alle sorelle degli altri quello che alla sua è vietato. Ipocrisia borghese del cazzo. La verginità è importante, è una virtù, un dono da conservare, ma andate a fare in culo tutti quanti con ‘ste puttanate. Mia madre, poi: la più ipocrita di tutte. Lei che manifestava ai tempi dell’università — era tutta un: “L’utero è mio e me lo gestisco io!” — e ancora oggi usa il suo cognome al lavoro invece di quello di papà. «Ma vaffanculo te e il tuo utero.» Si lava al volo con l’acqua fresca e pulita, mentre la lavatrice scalcia e scalpita.


Voler uscire la sera non dovrebbe essere una colpa, ma scherziamo? Che facciano i vecchi dentro casa, loro, con i loro film d’annata e i loro party scicchettosi della domenica. Io voglio vivere la mia età. Non si torna indietro. Vicino alla cesta dei panni sporchi spunta l’edizione Newton & Compton delle poesie di Leopardi. Si è giovani una volta sola, vero Giacomino? Che cosa resterà dopo, quando sarò vecchia e decrepita? Al dopo ci si pensa dopo, non ora. «Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta!» Mio fratello esce la sera da quando ha quattordici anni, e io devo ancora inventarmi la vaccata che vado a dormire da Camilla, e solo perché è l’unica di cui ancora si fidano. Come se non sapessero: come se non lo facessero tutti. Come se mamma e papà, proprio loro cresciuti negli anni Settanta, non fossero stati a loro volta giovani. Ma cosa c’è di male, dico io? Tutti fuggiamo da casa ogni tanto; tutti lasciamo il nido per volare altrove, anche solamente per ubriacarci e dimenticare i problemi in famiglia. Voliamo verso una casa scono-sciuta, col telefono — oooops — dimenticato sul letto per non essere disturbati. Non facciamo gli ipocriti, santo Dio! Si ritrova a fissare l’oblò, il suo moto circolare che intrappola i colori nel cestello. «L’orologio e il pendolo, tic tac.» Sarà pur d’oro, ma questa casa è la mia gabbia. È tutto già visto, già vissuto — sempre i soliti discorsi e le solite prediche: potrei recitare la trama delle serate come la mamma il rosario la domenica. Io bra-mo l’imprevisto e ricerco case sconosciute, dove estranei dagli sguardi intimi possano leggerci negli occhi la solitudine; magari anche approfittandone un po’ in cambio di una notte diversa, di un’occasione per sentirsi vivi. Per esprimersi. Camilla ne ha approfittato, io ne approfitto: che c’è di male nel consolarsi a vicenda? Il richiamo di Windows sveglia Sofia dai suoi pensieri. Era ora. È arrivato il momento dell’ultima parte dell’operazione pulizia: controllare l’account di Facebook ed eliminare commenti e foto che quegli idioti dei miei amici — che si dimenticano sempre che io, a differenza loro, sono prigioniera in casa e non sarei dovuta essere lì ieri — hanno pubblicato.


L’odore del caffè si spande nell’aria. «Oh, di bene in meglio!» Dalla tazzina emana il dolce odore di miele d’acacia. Sofia si sofferma qualche secondo a osservarla. Così nero e amaro da ricordarti che sei vivo; così dolce e sensibile da innamorarsi e volerci scopare. Amante fedele di troppe interrogazioni e nottate brutte da Camilla. Mio infinito personale, annegherei in te tutti i giorni. «Amore mio, tu oggi mi salvi per l’ennesima volta.» Sofia va al PC soffiando sul caffè bollente. Ma perché non lasciano i miei cazzo d’incensi accesi quando non ci sto? Sempre quest’odore asettico di deodorante: la mia stanza sa di macchina nuova. Come quelle di Patrick e di Dada: piena di ricordi e di orgasmi la prima, così innocente la seconda. Odio l’odore di macchina nuova, così privo di personalità e di storia. Non sembra nulla, sa di vuoto; di ospedale, di corsia per malati terminali; sa di nonna e di Flavia — Flavia dopo, non prima, quando stava sul letto con il sorriso della morte in faccia, il sorriso di chi vuole tranquillizzarti, ma non ci riesce perché sembra uno scheletro. O forse erano solo i narcotici e le droghe, quella merda di morfina sparata in vena giorno e notte, notte e giorno. Mi manchi ancora, Faffi mia. Scrolla la testa per rimuovere il velenoso ricordo di quella fiamma spenta in fretta. Tristezza in volto, stanca tristezza che ormai non porta più neanche le lacrime. Da Firefox punta subito sull’icona di Facebook, e, col caffè ancora in gola, quasi si strozza quando appare una bacheca invasa di numeri rossi. «Oltre cinquanta notifiche: serio!» C’è sempre il rischio di incontrare degli idioti, però è stupendo conoscere facce nuove, parlare con menti stupende: Giovanni l’artista di strada, che suona a piazza del Popolo per pochi spicci e morirà giovane come nelle canzoni di Faber; Marco, che vuole scrivere il romanzo del-la sua vita viaggiando per l’Europa. Vai, vai giovane Kerouac, spacca il culo ai nostri Fabio Volo e ai nostri Alessandro Baricco! Annalisa,


stupenda Annalisa mia, hai scritto una poesia su di me, su “questi occhi della tristezza, che la vita taglia e accarezza”: fossi lesbica, mi ti farei all’istante, ti amerei ogni giorno della mia vita, morirei ogni giorno! I miei baci, però, li avrai sempre, promesso! Tutti voi, amori miei impossibili, portatemi via di qui per un minuto, per una notte, per un’eternità: uno di voi, vi prego, mi porti via da qui. Salvatemi da questo mondo di ipocriti e carte contabili e discorsi sul lavoro. Non voglio fare la segretaria, non voglio entrare in uno studio: voglio solo vivere! È chiedere tanto voler vivere? Dada, fratello mio, non finire come mamma e papà, ti prego. Non fare del male a Giorgia, a quella povera stella. Non farlo più, non trattarla come hai fatto ieri. Idiota che non sei altro! Non finire come mamma e papà. Quei due neanche si guardano negli occhi quando si svegliano, e scommetto che non lo fanno neanche quando... E se non guardi gli occhi, che cazzo guardi? Le scarpe? Oh, cazzo! Il caffè ha fatto effetto! Gli intestini in rivolta la costringono a tornare in bagno. Lavandosi di nuovo le mani, incontra per la prima volta il suo volto nello specchio: i capelli lunghi, tenuti raccolti in uno chignon mezzo smontato, sono ancora più biondi. Un sorriso compiaciuto compare quando si sofferma sul corpo atletico e le gambe forti, la pelle ramata resa più luminosa dalla biancheria azzurra. Peccato che l’estate stia finendo. Che palle. Sorride alla propria immagine. Fino a poco tempo fa qui c’era il corpo di una ragazzina, piatto come una tavola. Oggi molti ragazzi farebbero a botte per avere questo cor-po. Solo il corpo però: non la mia mente, non la mia anima. Ogni vol-ta, con Camilla, mi tocca imbruttire più di un provolone analfabeta. Ragiono bene, io, me lo dicono tutti che sembro più grande. Per questo mi hanno scelta come capoclasse, per questo vado bene a scuola. Non sono più una ragazzina: sono una donna. E voglio ... esigo di vivere le esperienze di una donna. Che si fottano i miei, ho smesso da un po’ di essere una bambina; e ho uno specchio qui che lo testimonia. Si avvicina ancora e scruta ogni dettaglio del volto. Il trucco sta coprendo alla grande le occhiaie e i segni sul collo, ma


di sicuro una madre che copre la sua vecchiaia da quando ha trent’anni si accorgerà di tutto. Per le occhiaie pazienza, ma i segni devono sparire. A febbraio sciarpa e maglione a collo alto avrebbero risolto tutto: a settembre ci penseranno i capelli sciolti. L’oro scende d’improvviso sulle spalle, illuminando lo sguardo stanco. È ora di rimetterci al lavoro. Quattro richieste di amicizia — accettata, accettata, col cazzo che l’accetto... accettata! —, sedici messaggi — poi, poi: ora non ho voglia — e cinquantatré notifiche: dodici richieste di giochi, ventitré risposte a commenti di gruppi musicali... il resto riguarda gli eventi della serata, come immaginavo. Sbuffa sorridendo. Si mette a cancellare i tag nelle foto e i commenti sul profilo, qualsiasi cosa possa svelare i misfatti della sera precedente: la bottiglia di vodka in mano (cancellata!), lei in braccio a Stefano (cancellata!), il bacio con Camilla (un bacio innocente ma... cancellata!), Tiziano steso per terra quasi in coma etilico e tutti intorno a ridere (cancellata!). D’un tratto compare un post che ha ricevuto quindici “mi piace” e sette commenti. Lo legge al volo, e il meccanismo si rompe. È uno scherzo? Se è così, non fa ridere! Scorre il commento, rileggendolo più volte. Il volto s’increspa come un mare in tempesta, gli occhi sembrano uscire dalle orbite. I commenti successivi le martellano direttamente nelle tempie e nel petto. La mano trema sul mouse, poi passa a tremare sulla bocca. L’aroma del caffè fuoriesce rapido attraverso il respiro affannato. «No, no, no, no!» Che cazzo succede qui? Nessuno... nessuno mi ha avvisata? No no no no, non potevano chiamarmi, porca vacca: il telefono l’avevo lasciato sul letto. Con i vestiti puliti ancora in mano, Sofia è immobile in mezzo


alla stanza, il respiro impazzito. Il corpo seminudo trema nella penombra, contorcendosi di spasmi. La mente vola, fa connessioni sconnesse, pensa a cose fatti eventi persone. Rintraccia l’iPhone abbandonato sul letto, venticinque chiamate senza risposta lampeggiano sullo schermo. Tutte di mamma. Tutte di stanotte. Dio... Sofia preme di nuovo il tasto verde, nelle orecchie il rombo temporalesco del suo cuore; nel ventre le budella si contorcono e urlano di ansia e succhi gastrici. «Dai dai dai, dai cazzo, rispondi, rispondi, rispondi porca vacca!» Il telefono squilla quattro, cinque volte, poi una voce la inonda di parole. Dopo la terza, Sofia smette di ascoltare. Sul muro c’è un poster di Scarface, sul comodino vicino al letto la foto di una vacanza al mare in famiglia. Quattro persone appaiono nella foto, sorridenti e abbracciate tra loro. Che cazzo è successo? Che cazzo è stato? Che dici, mamma? Non ti capisco, cazzo! «Dada...» Si appoggia al muro ma, incerta, scivola ai piedi del letto. «Aaaaaaah...» Gli occhi fissi nel nulla, Sofia si raccoglie le ginocchia, come un feto che ha rinunciato a venire al mondo.


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