Come un'eclissi solare estratto

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Come un’eclissi solare David Valentini david.valentini87@gmail.com www.darvax.com www.facebook.com/darvax www.facebook.com/CrepuscoloDelleIdee

Questa versione del testo è provvisoria, essendo il romanzo in fase di editing. Qualsiasi refuso sarà eliminato nella versione finale. Proprietà intellettuale. Tutti i diritti riservati.


Al mio Alberto

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Alberto e il suo presente dal passato mi aspettavano a pochi passi, ma non ne avevo coscienza. E quando d’un tratto la sua immagine mi è apparsa davanti, il mio braccio, per il riflesso di un atavico istinto di conservazione, ha colpito la tazzina di caffè abbandonata sul tavolo. Si sta per frantumare a terra, spargendo cristalli di porcellana e onde sonore in giro per la strada umida e cosparsa di cicche. Volevo mantenere l’anonimato, ma questo gesto sta per tradirmi. Osservo con occhi allucinati il suo lento percorso, e dentro di me lancio un urlo silenzioso. 3


Lui se ne accorgerà di sicuro. Non era così che doveva andare, con il caos di una tazzina frantumata. Sospesa nel tempo, mi osserva beffarda. Ma lei non c’era, non era prevista quando ho messo piede fuori dalla stazione Tiburtina in questo affollato mattino di dicembre. Non c’era, ovviamente, neanche quando ho preso il treno da Fiumicino, quella carcassa mobile fatta di sedili spellicciati, di scritte sulle pareti, di controllori svogliati. E men che mai era presente, o ne pregustavo la necessità incalzante mentre fissavo gli oblò sull’aereo da Heathrow. Stamattina ero a Londra, nel letto di piume, abbracciato a Rachel. Elisabeth fra noi, una testolina bionda fra l’azzurro delle lenzuola. Cosa ne sa questa tazzina, bianca e macchiata di caffè, delle mie donne? Ma soprattutto: cosa ne sa Alberto? Appena giunto alla stazione, prima di prendere il treno per Roma, ho sentito i nervi dello stomaco contrarsi, e tutti i miei vecchi stress e tic e nervosismi tornare a galla come una pallina da golf finita nello stagno. Ci ho provato, davvero, a resistere alla tentazione. Ho ceduto subito, però, quando il mio sguardo si è posato sui cantieri in costruzione, sui fumi verdi e grigi, sulle folle rumorose del piazzale della stazione Tiburtina. Ogni volta che torno a Roma riprendo a fumare e a bere caffè. Ogni volta che torno a casa, poi, mi ritrovo qualche chilo addosso e dei circoli neri intorno agli occhi, che devo 4


eliminare subito facendo yoga o portando le mie due ragazze all’inSpiral Cafè di Camdem Lock, o in un Pret a Manger. Ancora una volta dovrò purificarmi dalle secrezioni venefiche di questa città. Dai suoi miasmi, dal suo fetore. E dire che, come si fa con un’amante perduta, un tempo ne sopportavo i difetti. Era per me così debole e indifesa dinnanzi al tempo implacabile che provava in tutti i modi a deturparla. Oggi invece non tollero il suo fiato: ogni sua voce è una pugnalata che vorrei rispedirle contro, la forza moltiplicata dal potere dell’odio represso e accumulato. Due ore di aereo, un ritardo all’arrivo per problemi di pista, e quasi un’ora a bordo di un treno vecchio quanto il mondo – i sedili malconci e spesso impregnati di materiale non ben definito – hanno fatto sì che il mal di testa, mio compagno perenne, sia tornato a bussare alle mie tempie, accogliendomi con un caloroso benvenuto all’uscita della stazione di ferro e cemento. Insieme a lui, suoni e odori mai scordati hanno subito urlato “Bentornato!”, con tanto di striscione: “Ti siamo mancati?”. No. Così, già con l’astio nelle vene, mi sono ritrovato catapultato su questo grande stradone consolare, immerso nel traffico quotidiano. Una valigia e un cappotto di finta pelle mi hanno fatto compagnia, mentre il reflusso gastrico della stazione sputava sul grigio il verde delle facce colleriche della gente. Ho aperto il pacchetto di Chesterfield appena comprato e ne ho accesa una per riempirmi i polmoni di quel sapore morbido e avvolgente. Un colpo di tosse mi ha sorpreso, disabituato al fumo. Ho percepito il mio volto contrarsi, farsi duro, spigoloso. 5


E tra tutti i giorni che avrei potuto scegliere per il mio rientro per le vacanze natalizie, ho beccato proprio un venerdì di sciopero dei mezzi pubblici: l’eterno dramma per i pendolari romani, un cubo di Rubik a milioni di facce, da risolvere a occhi chiusi e mani legate. Se avessi aspettato qualche stakanovista dell’ATAC per arrivare a casa dai miei, a pochissimi chilometri da qui, avrei impiegato ore, immerso tra gli insulti e le bestemmie. Già lo sentivo l’ingorgo vicino, la cacofonia del concerto meccanico, centinaia di pazzi chiusi nei loro cubicoli con il riscaldamento al massimo, ferventi come gelatine molli intenti a scrivere al mondo che oggi è un’altra giornata di merda, a chiedersi che motivo abbiano gli autisti per scioperare, a ribadire che c’è troppa gente in macchina e a ripensare che la guida non è sportiva come nelle pubblicità – una scogliera vuota, un’autostrada solitaria, e solo un unico, fiammante bolide sparato a centocinquanta all’ora. Già la sentivo la preghiera di milioni di voci che chiedevano solo di poter tornare a casa per lanciarsi davanti alla TV e disattivare la batteria cerebrale, almeno per un pochino. Almeno per una vita intera. La nausea. La Chesterfield, bruciata quasi fino al filtro, scottava fra le mie labbra. Dimentico subito delle mie abitudini acquisite da nordeuropeo, l’ho lasciata cadere a terra, osservando la scia leggera di fumo compiere acrobazie voluttuose nell’aria, finché l’ultimo bagliore rossastro ha incontrato l’umido piastrellato della stazione esterna. Mi sono accorto dopo un istante del secchio vicino a me, ma ormai il danno era fatto. Ho calpestato la cicca, percependo il sibilo frizzante della sua morte. 6


Welcome back home, Italian man. Alzato lo sguardo, i miei occhi sono stati stuprati dalla macabra scena di quattro carcasse rosse di autobus incastrate tra le lamiere congelate. Quando una di queste si è aperta per accogliere gli animali da salvare dal diluvio universale, gli starnazzi incendiari della gente hanno iniziato a scotennare l’autista, chiedendogli perché l’autobus ci ha messo un’ora per arrivare, e dove fossero quelli che avrebbero dovuto controllare gli zingari che si fregano i cellulari. Perché non hanno mai voglia di lavorare, come facevano loro quand’erano giovani, quando il pane si faceva a casa e tutto era più bello? È colpa loro se avrebbero fatto tardi per pranzo, e dire che c’è tanta gente che ha voglia di lavorare, non come loro! Loro. Basta, stop! Non ce la potevo fare. Ho voltato le spalle alla disperazione e a passi svelti mi sono allontanato, lasciandomi alle spalle l’inferno. Ho torturato il Nokia col martello del palmo, sperando in una benedizione divina. «Che palle» mi ha accolto Natalia nella bufera di suoni. «Dai, sono appena arrivata a casa, mamma e papà sono di là con Sergio e i bambini. Dove sei? Non puoi tornare per conto tuo?» «Hi sweet sister, I’m pretty good today, thanks for asking. What about you?» «Sto bene, ma non fare lo stronzo e parla italiano!» «Stavo giocando, datti una calmata, scema. Sono alla stazione, ma qui è il delirio. Non posso tornare per conto mio perché oggi c’è sciopero.» 7


«Ah, giusto. E come sei arrivato alla stazione dall’aeroporto?» «Dio ascolta le nostre preghiere: il bellissimo treno dall’aeroporto funzionava – con quello che costa! Il problema sono le metro e i bus. Dovresti saperlo che bastano due gocce d’acqua e uno sciopero per bloccare tutto.» «Okay, okay, vengo. Che rottura però! Devo portarti un ombrello? Ha piovuto all’aeroporto?» «No, tranquilla. Basta che mi eviti questo caos, ti prego. Non ci sono più abituato.» «Sì, va bene. Mi devi un favore, e ti costerà caro! Fra una quarantina di minuti sarò da te, spero.» «A dopo, scema.» Non era per niente entusiasta di uscire di casa con questo freddo, soprattutto perché, ne ero convinto, la casa doveva essere piena di profumi invitanti. Mia madre ieri mi aveva promesso cannelloni ricotta e spinaci e timballo di patate. Un ottimo benvenuto, decisamente più accogliente. Per colpa di questi pensieri la fame aveva iniziato a farsi sentire, e oltretutto avevo una quarantina minuti da buttare. Mi sono guardato intorno, trovando la stazione addobbata con stelle e scritte di auguri. Perché loro desiderano veramente che tu – proprio tu, nessun altro! – passi un buon natale e un felice capodanno. Ho cercato un bar, per prendere qualcosa di caldo prima di morire assiderato e affumicato. Ho scansato facce isteriche che, senza guardare, correvano ovunque in preda al tempo che se le portava via. Cercavano di evitare le pozzanghere melmose, in bilico tra pacchi di regali incartati e nastri colorati e luccicanti. Offerte tre per due, sconti eccezionali e promozioni imperdibili 8


affollavano i negozi vuoti. Aromi di kebab appesi e cibi tandoori bruciati completavano lo strano quadro, che rendeva questa parte di città molto simile a decine di altre che ho visitato negli anni. Roma, la città eterna e che non dorme mai, si è svegliata di malumore stamane. Ne ho osservato lo sguardo vacuo, ne ho annusato il profumo da due soldi, da puttana d’alto bordo. Era in depressione cronica: gli psicofarmaci dai mille colori non bastavano a tirarla su, e le crepe delle strade non si sarebbero riempite col botulino. Sembrava destinata a una lenta e agonizzante vecchiaia. Ho ordinato un caffè e una cioccolata calda nel bar meno squallido della zona, gettandomi sulla sedia mezza arrugginita. «Con panna, per favore.» Due margherite e qualche altra pianta azzurra mi osservavano da un vaso di terracotta lungo e sbeccato. Ho osservato una goccia scendere sinuosa da un petalo lenta come il tempo, portando con sé uno strato di fumo incrostato. Dopo qualche minuto il caffè e la cioccolata sono arrivati in una bella tazza Eraclea dal colore caldo, insieme allo scontrino. Ho sperato che questi cinque euro fossero ben spesi, avendo convertito poche sterline che sarebbero dovute bastare per i prossimi quattro o cinque giorni. Ho buttato giù il caffè in un solo colpo, e subito il sapore amaro e il profumo confortante mi hanno avvolto come un abbraccio estivo, facendomi scordare il fastidio che mi avvinghiava da dietro. Le mie labbra si sono incurvate appena. Ho sentito il desiderio di abbracciare papà, parlargli dei miei studi sui centri emotivi dell’encefalo; baciare mamma, 9


dirle che le volevo bene, mostrarle le foto di Elisabeth addormentata nel mio letto col pigiama verde con le orecchie da rana. Avrei rivisto mia sorella e i miei nipoti, che non vedevo da sei mesi. Loro sì che mi sono mancati, l’ansia di rivederli mi divorava. E lui era lì dietro di me, a un tavolo di distanza; ma io non ne avevo la minima idea. Ho alzato lo sguardo dalla tazza di caffè, lasciando quella di cioccolata a intiepidirsi appena. Intorno a me un sommozzatore urbano era per metà infilato dentro un cassonetto, ne tirava fuori stracci e un gioco da tavola ancora buono. Magari un regalo per il figlio, per fargli vivere un Natale fantasma. Non è questo a farmi venire ogni volta la nausea. Per quanto non mi ami tutto ciò, è qui che, quando ho mollato tutto per i cieli bassi di Londra e le aule dorate del dottorato, ho lasciato un frammento di me – tanti frammenti di me, a dire il vero. Un microscopico pezzo di pelle, di capelli o di ossa per ogni volto familiare che non vedo più nella mia quotidianità, che non mi saluta la mattina quando mi alzo e non beve con me una birra fredda a San Lorenzo, tra le centinaia di commenti su una partita andata male e gli insulti verso il governo che alza le tasse. La mia vita è continuata altrove, in altri lidi mai visti e ora conosciuti; altri volti e altri nomi mi riscaldano nel mio quotidiano, come questa tazza qui davanti. Altrove ho conosciuto, amato e odiato persone, che come me hanno lasciato pezzi di sé a casa, in luoghi lontani e dai nomi esotici – Istanbul, Hanoi, Laos. Tutti noi – come puzzle incompleti – abbiamo cercato di incastrarci a vicenda, martellando le facce nuove su quelle 10


vecchie, tentando di comporre un collage di emozioni, sentimenti e volti. La fortuna – e l’audacia – ha trasformato la prospettiva di un’esistenza part-time in una vita a tempo pieno. Ho avuto la possibilità di continuare il mio percorso accademico, e questo è molto più di quanto potessi sperare in questa fogna dove al massimo avrei potuto sguazzare fra i liquami del passato e l’olio inquinato di un Mc Donald’s. Molti dei libri e dei quadri che avevo nella mia stanza ora riempiono le pareti della casa londinese, insieme ad altri arrivati in seguito. Ma… cosa allora? Ho assaggiato una cucchiaiata di cioccolata. Non male. I dipinti di Rachel, con cui ha sfogato il dolore per la morte del padre e l’angoscia per il lavoro perduto – e per fortuna subito ritrovato – costellano i muri altrimenti spogli. Il più bello, My dreadful love, ci osserva dal soffitto ogni volta che ci svegliamo. Io e lei, due chiazze di colore – lei giallo, io nero – avvolte e disciolte l’uno nell’altra. Il suo regalo per il nostro quarto anniversario. Il mio è stato un banale anello. Che pena. Però… ecco, sono le anime vaganti che s’incontrano nei primi venti anni di vita che restano attaccate dentro come un nuovo strato di pelle. Non si staccano, neanche quando appassisce il ricordo e lo si gratta via per il prurito. Ancora oggi faccio fatica a comprendere alcune battute troppo sofisticate, dette in una lingua che non ha sentito pronunciare le mie prime parole. Persino l’insulto biascicato dal poveraccio emerso dai rifiuti è più comprensibile di certe sciorinate irlandesi o scozzesi. 11


Il bar era affollato. La combinazione di sciopero dei mezzi pubblici e spese natalizie ha portato la gente ad ammucchiarsi in posti caldi, come criceti. Il freddo ha dato corpo all’inquinamento e ai malumori in questo grumo di catrame sopra di me, che sovrasta tutto e tutti. Se dovesse piovere, cadrebbero giù bestemmie. Infossato in questi pensieri, la cioccolata è diventata prima tiepida e poi fredda, e quel che ne restava era coperto di una patina molliccia e budinosa. Mi ha disgustato. La panna, raggrumata qua e là come nuvole di vomito, era un orrore indescrivibile. Lo stomaco mi si è serrato come un castello, e, ne ero sicuro, si sarebbe riaperto solo con i cannelloni di mia madre. Ho scodellato la tazza lontano e buttato giù mezzo bicchiere d’acqua gelata. Dalla valigia ho tirato fuori The Solitude of Prime Numbers, Edizione Penguin, acquistato all’aeroporto di Heathrow. Leggerlo in questa lingua mi ha fatto sentire uno straniero, e la traduzione sembra perdersi parecchio delle sfumature originali. Resta comunque un gran bel libro, adatto al mio umore. Uno sputo di vento ha fatto volare via lo scontrino usato come segnalibro, che è andato a perdersi in una pozzanghera verde e stantia, per poi mescolarsi in un gruppo di foglie che, come piccole pecorelle vermiglie, si accoccolavano ai lati delle strade. L’ho guardato allontanarsi. La lettura risultava storta e forzata. Qualcosa nell’aria sembrava distorcere le parole, e una risata femminile mi ha distratto per l’ennesima volta. Dietro di me due ragazze stavano vedendo un video su un iPhone, qualcosa che aveva a che fare con una capra che belava. Vicino a me è passato un signore che urlava al telefono – non riusciva a trovare 12


quel maledetto videogioco del cazzo, quello in cui bisogna sparare ai nazisti – e mi sono ricordato d’improvviso che sì, qui si urla sempre al telefono. È un’abitudine che non muore mai, e che mi ha fatto vincere più di un’occhiataccia nei primi mesi abroad. Ricordo quando, in un ristorante in Croazia con degli amici ormai una vita fa, ci siamo guardati intorno per constatare che, nonostante il locale straboccasse di turisti, nell’aria troneggiava un totale silenzio. Le persone parlavano a voce così bassa da sembrare sordomute. Dietro di me la capra belava e la ragazza rideva, fra le due notavo una certa somiglianza. Mi sono guardato intorno, sentendo ancora nell’aria un distorsione magnetica e rumorosa. Un distinto signore vicino a me leggeva il Corriere, altrove una giovanissima coppia si scambiava sguardi languidi cibandosi vicendevolmente. Anni fa, tra le pile di libri per la tesi, lessi che esiste un’intima connessione tra lo scambio di baci fra innamorati e quello di cibo che avviene tra madri e figli nelle altre specie animali. Baciarsi sarebbe dunque una regressione infantile verso l’alba della specie. Ho ripensato a Rachel ed Elisabeth, che mi avrebbero raggiunto domani col volo del pomeriggio. Bambini. Sorrido, pensando alla mia ranocchia. Mi sono voltato verso un altro tavolo. E il mio cuore ha perso un battito. Subitaneo come il big bang, il sangue è sparito dalle mani ed è corso giù, lontano, verso le gambe. Il braccio ha fatto uno scatto, colpendo la porcellana della tazzina. Un atavico riflesso accompagnato a uno schizzo cardiaco. Il corpo si è preparato alla fuga, pur in assenza di pericolo. 13


Non c’erano predatori in questo affollato bar o nei pressi della stazione. Nessun pericolo fra le strade, il traffico congestionato impediva qualsivoglia corsa. La tazzina ha rumoreggiato sul tavolo argentato, scivolando verso l’orlo. Niente di razionale avrebbe potuto causare questa reazione di terrore; eppure il mio corpo ha captato qualcosa nell’istante in cui mi sono voltato verso un tavolo, e ha pensato di reagire così. Agitazione Ansia. Terrore. Non la capra o la ragazza che belavano, non l’uomo al telefono, non la coppia di bambini che si nutriva a vicenda stavano trucidando le parole di Giordano. Il mio udito non corticale aveva percepito la voce di un altro essere umano che io, individuo cosciente dotato di storia e identità personali, non avevo ancora sentito. La tazzina ha oltrepassato il bordo appena rialzato, lasciando il piattino sul tavolo mentre lei continuava il suo percorso verso il marciapiede. Chissà da quanto era lì, seduto vicino a me, col suo laptop aperto a lavorare, concentrato, il volto teso nel suo mondo virtuale. Senza occhiali da vista mi ci è voluto un attimo per riconoscerlo, col volto rasato, i capelli corti e il completo giacca-camicia-cravatta. È lui. Questa banale consapevolezza è stata quasi sufficiente a farmi cacciare un urlo rivelatore, un urlo che avrebbe portato lui a sapere che io ero lì, al tavolo di fianco. 14


Dopo anni di nulla, qualcosa dal profondo delle budella avrebbe potuto far incontrare i nostri sguardi, le nostre voci. Nella mia mente, mentre il mio occhio scatta dall’individuo al portatile verso la tazzina, si sono formati un nome e mille immagini. Alberto. Il mio Alberto. Con uno scatto fermo la tazzina un istante prima che tocchi terra.

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