Cultura Commestibile 155

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redazione@culturacommestibile.com culturacommestibile@gmail.com www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile direttore simone siliani

redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto grafico emiliano bacci

Con la cultura non si mangia

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N° 1

L’evoluzione della specie

La presenza non soltanto della madre ma anche del padre permette che la nostra specie abbia una possibilitĂ di sviluppo maggiore, con un cervello piĂš grande degli altri animali rispetto alla nostra statura

I babbiferi

Lucio Malan, senatore della Repubblica

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Paolo Marini p.marini@inwind.it di

P

ochi mesi fa, il 29 ottobre 2015, è stato aperto al pubblico il nuovo Museo dell’Opera del Duomo con una superficie espositiva più che raddoppiata (da 2.500 a 5.500 mq). Ne parliamo con Monsignor Timothy Verdon, il direttore. Questo importante cambiamento allude anche ad un mutamento qualitativo - anzitutto di missione – dell’istituzione? Sì. Con la possibilità di riconfigurare le opere in una logica precisa, la missione diventa esplicitamente quella di evidenziare i valori artistici e religiosi. Nell’attuale consiglio di amministrazione ci sono stati condivisione ed incoraggiamento in tal senso: si voleva un grande museo e ora ci prepariamo ad accogliere le folle. I visitatori mostrano di apprezzare il carattere narrativo del percorso museale, l’esplicitazione di valori. Come si colloca il Museo dell’Opera del Duomo nella rete di istituzioni museali e culturali della città? Noi siamo e restiamo un museo privato. A parte i normali legami di cortesia che regnano tra istituzioni analoghe, non è più possibile per noi partecipare agli eventi e alle mostre con cui i nostri musei si propongono di animare la vita culturale della città, prestando – come pure si è fatto in passato – le nostre opere. Perché le opere importanti oggi debbono stare qui, anche se mi rendo conto che questo possa deludere qualcuno. C’è un rapporto di tipo competitivo con gli altri musei della città? No. Del resto quello dell’Opera del Duomo è un museo sui generis, un ‘site-specific museum’. Qui vige un unico schema, quasi obbligatorio, di tipo espositivo: noi offriamo al visitatore una narrazione. Uno dei problemi per i frequentatori dei musei è, d’altronde, che spesso essi non trovano un filo conduttore e al termine della visita si sentono disorientati e frustrati. Il nuovo Museo promuove se stesso nel mondo? Prima della chiusura eravamo un museo di nicchia, con grandi capolavori presentati in modo, diciamolo, maldestro. Ci aspettava un grande lavoro di costruzio-

Lo spettacolo del bello al servizio del sacro

ne dell’immagine. Siamo riusciti a piazzare il nuovo Museo sulla stampa internazionale. Questo è solo un piccolo inizio e sappiamo che nei primi 5-10 anni bisognerà lavorare con molta energia per far sapere che molte delle opere che hanno fatto grande l’arte a Firenze, sono qui. Con il nuovo Museo è cambiata la filosofia della visita? Sì. Ad esempio, prima le Cantorie erano sistemate in un’unica sala assieme alle statue del Campanile; ma le prime sono arredi interni di grande raffinatezza, le seconde sono arredi esterni. La logica era puramente storico-artistica: erano tutte sculture del 1430 circa. Oggi non è più così, per esempio la Sala del Paradiso è, si, ricostruita storicamente ma lo scopo è far vedere com’era questo spazio tra la facciata del Duomo e il Battistero mettendo insieme, necessariamente, opere di vari periodi. E così la Sala della Maddalena ricostruisce una condizione interiore, altrettanto importante, quella della devozione, della pietà. La religiosità, per

così dire, di rappresentanza della Sala del Paradiso è seguita dalla religiosità intima della Cappella delle Reliquie e della Sala della Maddalena. All’interno di parametri storici e spirituali precisi si tenta di orchestrare il sentimento che accompagna la percezione del visitatore. Ci sono opere che a tutt’oggi, malgrado l’ampliamento degli spazi, rimangono in magazzino? Esiste un piano di rotazione delle opere? Opere importanti in magazzino non ci sono. Nel nuovo Museo hanno trovato posto più di 100 opere che prima rimanevano al chiuso. Un piano di rotazione esiste per i paramenti su grucce - il peso dei fili d’oro e d’argento a lungo andare strozza le stoffe - così come per i libri liturgici. Non altrettanto vale per i 27 ricami del Parato di San Giovanni, di Antonio del Pollaiolo, raffiguranti la vita del Battista e risalenti agli anni ‘60-’80 del ‘400: ci dice l’Opificio delle Pietre Dure che, esposti con quella angolazione e illuminati con luci a led, non dovrebbero soffrire.

Parliamo di numeri: che differenza è riscontrata a pochi mesi dall’inaugurazione tra numero medio di visitatori prima e dopo? Nei primi 3 mesi abbiamo avuto il numero di visitatori che prima accoglievamo in un anno: circa 200 mila. V’è una qualche stima che ci dica come sono ripartiti i visitatori tra fiorentini, italiani e stranieri? Non abbiano strumenti in tal senso. Vedo tanti fiorentini e vedo che sono contenti. Moltissimi sono gli stranieri. Abbiamo lavorato molto con le guide professioniste. Partendo dall’idea che, per esempio, turisti indiani e cinesi non sono interessati a capire tutto in dettaglio, abbiamo illustrato alle guide il modo in cui possono tagliare i tempi della visita, proponendo il percorso breve - Corridoio dei nomi-Sala del Paradiso-Sala della Maddalena-Tribuna di Michelangelo – ma con una campionatura eccezionale di opere comunque commisurata al prezzo del biglietto. E’ attuata dal Museo una politica


Da non saltare

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di misurazione del gradimento? Avevamo qualcosa del genere nel vecchio museo, per ora qui no. Ma l’attenzione alle esigenze del visitatore c’è, in ogni caso. Per esempio, ci siamo resi conto che nei bagni non esistono supporti che consentano alle mamme di cambiare i propri bambini e quindi provvederemo. Poi c’è la formazione del personale: otto dei nostro custodi, da me preparati e che parlano inglese, francese, tedesco, possono spiegare ai visitatori stranieri il percorso. La formazione aumenta la dignità di tutti. Quali criteri sono stati seguiti per la predisposizione degli apparati di comunicazione? Abbiamo preso la decisione di questa linea narrativa, per fornire almeno minime indicazioni. Così ogni sala ha un numero, un nome, un titolo che possa suggerire evocativamente perché in quella sala vi sono quelle opere. Abbiamo inserito in tutti i 28 spazi pannelli del colore della parete della sala, in modo da non essere intrusivi e affinché il visitatore non si senta in colpa se non li legge. I pannelli, con testi di non più di 1000/1200 battute, sono l’ossatura concettuale del percorso. Molto apprezzati sono i filmati, come per esempio quello sulla ricostruzione della facciata del Duomo nella Sala didattica: abbiamo notato che moltissimi guardano con interesse tutto il filmato. Nell’era dello zapping, nella quale si vive un senso di frammentarietà, qui è offerta una serie di cose nella sua interezza, in un unico racconto. Lei ha scritto che “l’essenziale chiave di lettura del nuovo museo è... lo spettacolo del bello al servizio del sacro”. Dunque l’arte qui non vale tanto per sé stessa, bensì in quanto ispira nel visitatore il senso, la percezione di Dio? Per molti secoli è stato così. La storiografia marxista sviluppata dal Dopoguerra fino agli anni ‘90 ha insistito sul valore sociale di ogni forma di cultura. Noi presentiamo sempre la religiosità come devozione e teologia ma anche nel suo fluido contesto storico-culturale. E’ solo l’università moderna che ha separato queste cose. Si può sostenere che storicamente nella Chiesa il rapporto tra arte e religione si sia risolto nel senso di

Intervista a Monsignor Timothy Verdon, Direttore del Museo dell’Opera del Duomo

affermare un primato dell’istanza religiosa, tale da lasciare in secondo piano esigenze di conservazione e restauro delle opere giudicate non più ‘utili’? Questo era vero non solo nella Chiesa ma più in generale nella società. Non solo la Chiesa ha consumato il suo passato, ma anche i palazzi dei principi. La preoccupazione della conservazione è globalmente moderna e nasce al tempo della Rivoluzione industriale perché si ha la sensazione che non ci sia più continuità con le epoche precedenti, com’era stato fino ad allora. Anche dopo l’inizio dei lavori della nuova Cattedrale gli artisti continuarono a decorare Santa Reparata, che sarebbe scomparsa nell’arco di una generazione. C’era un rapporto più vitale, più naturale con l’arte. Vivevano nella serena fiducia che si sarebbe potuto rifare tutto e non si preoccupavano che anche l’opera d’arte un giorno sarebbe finita. Lei condivide l’idea che, almeno dal punto di vista artistico, la fabbrica del Duomo sia un po’ la ‘fabbrica del Rinascimento’? Si’ Veramente è il grande progetto cittadino, avviato nel 1296, il laboratorio continuo a cielo aperto in cui vengono formati gli artisti, forgiati i linguaggi e da questa fucina incredibile sono nate tante altre cose. Dal percorso delle 28 sale museali qual è, secondo Lei, l’artista ‘raccontato’ in modo più completo? I nostri grandi artisti rappresentati qui come da nessun’altra parte sono Lorenzo Ghiberti, Andrea Pisano, Arnolfo di Cambio, Donatello e Luca della Robbia. La straordinaria concentrazione di uomini, talenti, idee, progetti e opere per l’edificazione di una cattedrale, come verificatasi a Firenze nei secoli XIV e XV, è immaginabile oggi? Penso di no. Per molti motivi, tra cui anche il progresso tecnologico, per cui un progetto non può durare così a lungo come è stato per questo. Lo sforzo iniziò con il Battistero, ricostruito forse dalla metà dell’XI secolo. Fu il Battistero che preparò le professionalità, i mosaicisti. Da lì si decise di spostare il lavoro sulla Cattedrale. Ci fu un eccezionale accumulo di expertise e di fiducia, nei secoli, tale da far ritenere che si potessero tentare altre sfide.


30 GENNAIO 2016 pag. 4 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

È

sempre un grande rischio proporre ai sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti di riflettere sulle tracce di quell’ideologia razzista che oggi si possono intravedere nelle pieghe dei drammi contemporanei perché l’unicità della Shoah è non solo un fatto ormai storicamente chiarito, ma qualcosa che ha segnato indelebilmente la loro vita per sempre e il rispetto per il loro dolore deve sempre essere la prima preoccupazione. Tuttavia la Regione Toscana nel Meeting con gli studenti nel Giorno della Memoria 2016 svoltosi al Mandela Forum di Firenze, si è assunta questo rischio, con un titolo forte, Voi che vivete sicuri - Accoglienza e respingimenti ieri e oggi. Per non scadere nella facile retorica, potremmo limitarci a ricordare – come ha ben fatto Giovanni Gozzini – la Conferenza di Evian in Svizzera del luglio 1938 convocata dal presidente USA Franklin D. Roosevelt (perché la Svizzera voleva mantenere la propria strategia di paese unicamente di transito dei profughi evitando che essi si fermassero) con l’obiettivo di gestire il movimento dei profughi ebrei della Germania e dell’Austria attraverso canali di emigrazione organizzati e spingere i governi partecipanti ad accogliere un numero di profughi proporzionale alle proprie dimensioni. Il vertice, non solo evitò di condannare la Germania nazista per il trattamento degli ebrei, ma si risolse in un nulla di fatto. Le motivazioni andavano dalla crisi che ancora dopo il 1929 mordeva sulle economie occidentali, alla carenza di risorse necessarie per l’accoglienza. Il delegato australiano dichiarò: “non avendo problemi razziali, non desideriamo certo importarli”. Il delegato francese invece affermò che la Francia aveva raggiunto il punto estremo di saturazione riguardo all’accoglienza di rifugiati. L’unica nazione che si propose di accogliere rifugiati ebraici fu la Repubblica Dominicana che ne accettò circa 100.000, così che nel 1940 il generale Rafael Leonidas Trujillo con un accordo mise loro a disposizione 26.000 acri di terra. Se guardiamo ai vertici UE sui migranti di oggi non sarà difficile

Il giorno della Memoria ritrovare gli stessi leit motiv di allora, naturalmente a parti rovesciate. Nel 1938 Hitler ebbe buon gioco nel dire che questi profughi ebrei non li voleva nessuno e quindi avrebbe dovuto occuparsene la Germania a suo modo. Oggi, i profughi del Medio Oriente contro cui l’inetta Europa lascia che si erigano muri (soprattutto quelli dell’indifferenza, ben più invalicabili di quelli fisici) o che si sospendano le libertà di movimento statuite dai trattati, diventano facile preda di fanatismi religiosi, Stati terroristici e vanno ad ingrossare le fila dei “dannati della Terra”. Che presto o tardi decideranno di non accettare più di essere trattati come sub-uomini dai paladini e retori dell’Europa della democrazia e dei diritti umani. Potremmo fermarci qui, dicevo. Ma le voci dei sopravvissuti, dei testimoni della Shoah che hanno parlato al Mandela Forum vanno menzionate per aver avuto il coraggio di aprire lo scrigno dei loro dolori privati agli 8.000 studenti

toscani che in religioso silenzio li ascoltavano. Fra le molte e commoventi cose e storie raccontate, voglio riprenderne una e dedicarla a quanti di quei ragazzi si dichiarano e sono convintamente antifascisti, sfrontatamente impegnati contro il sistema globale che comprime spazi di uguaglianza, libertà, creatività. Solo per segnalare come queste dichiarazioni non siano innocue romanticherie. Per questi valori si può, in certi momenti storici, essere chiamati a coerenze molto dure perché ciò che oggi può essere una posizione legittima, impegnativa ma sicura esercitata nelle nostre tiepide case, ieri era l’anticamera dell’inferno. Fu così per Vera Michelin Salomon arrestata per aver distribuito volantini contro l’occupazione nazista di Roma davanti alle scuole. Non ebrea ma Valdese e arrestata per motivi politici fu mandata nel carcere di Aichach, ha ancora la forza spavalda dei suoi vent’anni e ai suoi coetanei del Mandela Forum infonde coraggio: “Cari ragazzi, pensate sempre che potete concorrere perché vi possa

capitare il meglio. Io non sono pessimista”. Una generazione più tardi, per la stessa passione per il mondo di Vera, tocca a Silvia figlia di Vera Vigevani Jarach, nell’Argentina della dittatura militare, essere arrestata per il suo impegno politico nel movimento studentesco ed entrare nel silenzio dei “desaparecidos”, un esercito di 30.000 vittime della violenza istituzionalizzata. Ma risuona forte nel catino del Mandela Forum il “nunca mas el silencio” di sua madre Vera, una militante della memoria come lei stessa si definisce. Insieme a Vera Salomon: “il dopoguerra è stato il silenzio. Nessuno voleva ascoltare niente. Chiedevano di dimenticare e di ricostruire, anche perché molti italiani avevano collaborato con i tedeschi fino alla fine. E su questo l’Italia non ha mai voluto fare una seria riflessione”. Toccherà, forse, a questi ragazzi farla quando diffonderanno i loro volantini militanti svergognando l’Europa che di fronte ai profughi di oggi, come a quelli di ieri, di è voltata dall’altra parte.

Aldo Frangioni aldofrangioni@live.it a cura di

Un’occasione per capire, attraverso una selezione di immagini dei suoi quadri e la testimonianza diretta della sua voce via Skype, come la pittura sia riuscita a svolgere per Buba Weisz Sajovits, un’artista ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, una essenziale funzione catartica negli anni successivi alla liberazione. La Fondazione il Fiore e il Centro Studi Jorge Eielson partecipano alle iniziative regionali della Toscana per la celebrazione del Giorno della Memoria 2016 con l’incontro “Testimonianza di Auschwitz nella pittura di Buba Weisz Sajovits (A-11147)”, in programma mercoledì 27 gennaio, alle ore 17, nell’aula magna ex Architettura di piazza Brunelleschi 3/4 dell’Università di Firenze. L’appuntamento è organizzato in collaborazione con la Biblioteca Umanistica dell’ateneo fiorentino diretta da Floriana Tagliabue ed è a ingresso libero. Buba Weisz Sajovits, ebrea di origine ungherese, nata nel 1928 a Kolozsvár (Cluj), fu deportata a Auschwitz e liberata dai sovietici nel 1945. Insieme al marito si tra-

A-11147 Testimonianza di

Auschwitz nella pittura di Buba Weisz Sajovits sferì in Messico, dove vive tutt’ora. Durante l’incontro, coordinato da Maria Giuseppina Caramella, presidente della Fondazione il Fiore, Martha Canfield, presidente del Centro Studi Jorge Eielson e professore ordinario di Lingua e letteratura ispanoamericana all’Università di Firenze, e Flavio Fiorani, prof. di Lingua e letterature ispano-americane all’Università di Modena e Reggio Emilia,

presenteranno prima, con l’ausilio di slide, alcune delle opere pittoriche più significative di Buba che sono nate dalle esperienze vissute nel campo di sterminio (tratte dal libro Ebraismo: una cifra unica e molteplice di prossima pubblicazione). Seguirà una preziosa intervista in diretta con Skype alla pittrice che, attraverso la sua testimonianza e i suoi racconti, getterà ulteriore luce su come l’attività artistica sia diventata per lei un fondamentale strumento di sopravvivenza. Il 27 gennaio sono state presentate le opere e un’intervista dal Messico alla sopravvissuta al lager, a cura di Martha Canfield e Flavio Fiorani, presso l’aula magna dell’Università di Firenze.


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Ugo Caffaz

C’era da tutelare le minoranze linguistiche. I testimoni di Geova erano anch’essi finiti nei campi della morte. Le opinioni politiche erano state eliminate per vent’anni e migliaia di dissidenti mandati nei campi

di concentramento a morire di fame e di fatica. Tutto spiegabile quindi nel ’48. Oggi il clima e i termini della questione sono diversi. Il tempo passa ma i problemi restano anche se hanno bisogno di soluzioni e linguaggi rinnovati. Non si tratta però soltanto di togliere o sostituire le parole, ad esempio “sesso” con “orientamento sessuale” o “razza” con “etnia, colore della pelle, cultura“. Credo che l’articolo 3 debba fermarsi alla parola “legge”: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge”. Punto. Anzi, dato che poi si aprirebbe un odioso dibattito su chi sono i cittadini, sarà meglio dire che tutte le “persone “ sono uguali davanti alla legge. In Francia la parola Razza è stata cancellata da un paio d’anni dalla Costituzione e dalle leggi. In Italia un gruppo di antropologi ha preso l’iniziativa. Ora spetta alla politica. Nel Giorno della Memoria 2016 sarebbe un bel segnale.

(il più copioso fra gli archivi sulla scuola con oltre 14.000 foto) le immagini dei bambini ebrei, né li si vedranno nominati in altri testie materiali perché sono immediatamente epurati, allontanati dalla scuola. E’ questo il primo luogo dove il razzismo si esplica perché il campo della formazione dei giovani è la maggiore minaccia al razzismo, è il campo dove si coltivano le idee e il coraggio. Il Fascismo lo sa e proprio qui mette in atto il suo maggior sforzo propagandistico. Così nella mostra si possono osservare copie dell’epoca dei fumetti, molto moderni e elaborati graficamente, come “La piccola italiana”, “il Balilla”, “il

Corriere dei Piccoli” (che tutti noi nati negli anni ‘60 hanno letto avidamente). Vi sono i libri (anzi “il libro”, unico in tutta la penisola) di testo scolastici con tutta l’iconografia razziale. Ma soprattutto i quaderni degli studenti. Aperto alla pagina iniziale quello di Leo Neppi Modona, la cui famiglia si trasferì a Firenze nel 1938, con un saggio breve (si direbbe oggi) sui “Barbari del XX secolo”. Ragazzini che non capiscono cosa sta succedendo; perché sono avvertiti come diversi. Il ruolo dell’immagine nella politica razzista del Fascismo fu proprio qui, a scuola, amplificato. Educatori, scrittori, artisti e illustratori, in molti contribuirono a diffondere il seme del razzismo, traducendo in linguaggio pedagogico, materiali didattici e immagini colorate temi e atteggiamenti discriminatori verso gli ebrei per costruire una identità “pura” per gli italiani. Non, come qualcuno ha detto, per imbonire l’alleato tedesco, bensì una autonoma, convinta, autoctona politica razzista del Fascismo italiano.

I

n questi giorni il Parlamento italiano sta riformando parti importanti della Costituzione e tra pochi mesi tali modifiche verranno sottoposte a referendum confermativo. Procedura assolutamente corretta. Mi piacerebbe che si cogliesse l’occasione per correggere e quindi migliorare un articolo particolarmente importante come il 3 che così recita : “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali“. L’esemplificazione a garanzia dell’uguaglianza si spiega molto bene tenendo conto del contesto storico-politico in cui il testo è stato redatto e approvato. La parità fra uomo e donna faceva i primi passi. Il fascismo aveva mandato al confino gli omosessuali e i nazisti li avevano fatti morire

La parola razza nei lager. Gli ebrei erano stati messi al bando in Italia per la loro appartenenza “razziale” fin dal 1938 per essere poi consegnati al boia nazista verso le camere a gas e i forni crematori, uomini, donne, bambini.

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Una piccola ma intensa mostra questa Scuola e libri durante la persecuzione antisemita (1938-1943), inaugurata il 26 gennaio e aperta fino al 28 febbraio presso la sinagoga di Firenze. Promossa e organizzata dalla Comunità ebraica di Firenze, dalla fondazione Ambron Castiglioni, in collaborazione con INDIRE (Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa), curata da Pamela Giorgi, Giovanna Lambroni e Dora Liscia Bemporad. La mostra bibliografico-documentaria merita di essere osservata da addetti ai lavori ma anche, soprattutto, da ragazzi, studenti e insegnanti: gli effetti delle Leggi razziali del 1938 si vedono qui nella loro immediata efficacia e nella organizzazione in strumenti di propaganda, didattici e di organizzazione della scuola. E’ una storia di separazione: i bambini ebrei che vengono messi immediatamente in classi separate che si tengono nel pomeriggio per non disturbare gli italiani,

Scuola e libri antisemiti la nazione più pura di tutte (in mostra si trova una tavola che illustra graficamente la composizione etnico-nazionale dell’Italia al 91% composta da “italiani”, accanto a quella della Polonia, della ex Jugoslavia e di altri paesi ben più “misti”). Così non si vedranno nelle foto che vengono dall’archivio dell’INDIRE


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx Come la Regina di Cuori in “Alice nel paese delle meraviglie”, il Presidente Renzi all’indomani della visita del Presidente iraniano Rouhani ha tuonato: “Chi è stato a coprire le statue: voglio una risposta entro 24 ore! Voglio una relazione scritta entro questa mattina! Tagliatele la testa!!!”. A lui, notoriamente, non gli importa un fico secco del fatto in sé; ciò che proprio non digerisce è che lui (e Franceschini) non ne sapesse nulla, che la cosa non fosse sotto il suo controllo. Così ha scosso ben bene il suo fido luogotenente Luca Lotti che, colto di sorpresa, ha cominciato a fare un po’ di nomi random: “Non so, Matteo... Avrà dato l’ordine quel mattacchione di Dario...”. “Macché, Dario! Oh Luca quel pesce bollito non sa nemmeno dove sta di casa, ti pare che possa dare ordini? Qui, sia chiaro, gli ordini li do solo io! Chi è stato?” “Mah, Matteo, forse sarà stata l’Ilva...?” “Oh Luca, ma sei rincoglionito? Cosa c’entra Taranto con la visita di Rouhani? E’ stato a Roma, mica in Puglia!” “No, no... io dicevo Ilva Sapora, il capo del cerimoniale...” “Sapora? O chi è? Ah quella lì... Io quella ce l’ho trovata, eh. Era di quelli di prima!! Vai Luca, questa è una bella battuta per i giornali: ha funzionato tanto bene quando ero sindaco a Firenze!” “Però, Matteo, come si fa: lei è una protetta di Ortensio Zecchino e soprattutto dello Zio Letta...” “Ah no, allora tutto cambia! Non si può mica farle ruzzolare la testa a questa. No, no, no: se si incazza Gianni Letta posso dire addio ai miei pateracchi con la destra. No, bisogna trovare un altro responsabile” “Matteo, i musei capitolini sono del Comune: si potrebbe buttarla addosso a loro. Che ne dici?” “Oh Luca, tu sei sfasato oggi: non c’è mica più Marino e il giochino di fargli il mazzo a lui è belle che finito. Ora c’è Tronca, la luce dei miei occhi. No, no, no, non va bene neanche lui” Dopo un po’ di lavoro di meningi, il Lotti se ne esce con un’ideona. “Senti Matteo, si potrebbe fare così: la colpa è di Tiberio Calicchia! L’omino delle pulizie

I Cugini Engels

Chi ha coperto Tu chiamalo se vuoi... un rimpasto le statue? S’avanzano le orde fameliche, della sala della Venere capitolina: certamente le scatole di compensato a coprire le statue ce le ha messe lui!” “Grandeeeee Luca! Sei un mito! Senza di te, mi sentirei in mutande. Hai sempre la soluzione geniale a portata di mano. Vai, le jeux sont fait: licenziate Tiberio Culicchia e la partita è chiusa!”

ormai saziate, del rimpasto renziano e troviamo volti nuovi, ma soprattutto vecchi della politica nostrana. Si sa, il termine “rimpasto” era assai ostico al premier versione rivoluzionario. Ricordate gente, ricordate. S’era al 14 di gennaio ma del 2013 quando Renzi, ancora sindaco fiorentino ma leader PD sale di corsa al Quirinale e s’intrattie-

Bobo

Le avventure di Nardelik La città di Sottofaesulae era in preda al panico. C’erano personaggi poco raccomandibili che volevano vivere in città. Venivano da paesi lontani, spesso avevano strani colori della pelle, e avevano fame. E per vivere vendevano da mangiare agli altri. Ma non erano salsicce, ribollita e pane sciapo. No. Vendevano curry, riso di tutti i tipi, strane foglie per insaporire il cibo. Troppa confusione sotto il sole della città guidata dal Servitor Cortese. Ma non si riusciva a fermare l’invasione. Ci voleva Nardellik. Bisognava salvare l’idea della città pura e intatta nel suo passato.La città chiusa nelle sue mura di cristallo e amorevolmente soffocata dai milioni di turisti. La città che il Leader Minimum aveva pensato alcuni anni prima. E Nardellik trovò la soluzione. Che diamine pensò. L’Unesco ha detto che la città è bella così com’era. Fermi tutti. D’ora in avanti nel centro si vendono solo bistecche e salsicce. E bisogna avere il gabinetto grande per vendere le salsicce.Ma solo per vendere le salsicce. Se vendi i diamanti puoi avere anche il gabinetto piccino.

ne con Giorgio Napolitano per un’ora. Il paludato ufficio stampa del Quirinale commenta: “uno scambio di idee su prospettive, confronto e iter per la riforma della legge elettorale e per le riforme istituzionali, in attesa della sentenza della Consulta sulla legge elettorale”. Mentre il giovane leader, molto più ganzo, twitta: “Parlare di rimpasto è roba da prima Repubblica”. L’anno successivo, l’8 febbraio 2014, in vista dell’incontro fra il primo Ministro Letta e il presidente Napolitano per il patto di programma, Renzi ribadisce il concetto durante un comizio a sostegno del candidato del centrosinistra alla Regione Sardegna Francesco Pigliaru: “Quando mi parlano di rimpasto mi prendono le bolle e torno a Firenze”. Vero è che Alessandro De Angelis su Huffington Post, riferisce che da Palazzo Chigi vogliono che si chiami “integrazione di governo” e non “rimpasto”, se non altro per evitare la fastidiosa orticaria del Premier, ma come dicevano i latini, nomina sunt consequentia rerum. Così, in virtù della integrazione di governo si accalcano su poltre, poltronicine, seggiole e strapuntini ben 12 “volti nuovi” della politica, a cui dedicheremo le nostre attenzioni nei prossimi numeri della rivista. A partire dalla luce dei nostri occhi: Dorina Bianchi, sottosegretario alla cultura, in quota alla corrente “Forza Crotone” all’interno di Area Popolare”, nota per il suo impegno parlamentare per far inserire lo stadio “Ezio Scida” di Crotone fra gli impianti sportivi destinati a ricevere i finanziamenti per il loro adeguamento ed ammodernamento (Decreto per il Giubileo): “Il #Crotone calcio è nel mio cuore”. Ipse dixit.


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Filippo Camperio

fotografo della guerra russo-giapponese

Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

M

entre si moltiplicano gli studi e le ricerche sulla fotografia e sui fotografi italiani, diventa sempre più evidente l’importanza delle raccolte fotografiche contenute fino ad ieri in archivi privati e non accessibili al pubblico, ma anche in archivi pubblici quasi sconosciuti al pubblico, ed il cui accesso era comunque altamente problematico. L’arrivo della fotografia digitale, accanto agli aspetti positivi e negativi che presenta, almeno un indubbio merito lo ha avuto, quello di rendere possibile la digitalizzazione di molti di questi archivi e di renderne agevole l’accesso attraverso internet. Così una serie enorme di dati e di immagini è diventata di dominio pubblico, sia pure con le ancora inspiegabili numerose zone d’ombra, rendendo possibili nuove letture e nuove interpretazioni della storia, e non solo quella della fotografia. Fra i tanti archivi è notevole quello della famiglia Camperio, di Villasanta in Brianza, in cui sono raccolte migliaia di immagini, ricordo delle relazioni, degli spostamenti e dei viaggi compiuti da Manfredo Camperio (1826-1899) e soprattutto dal figlio Filippo Camperio (18731945). Ereditando dal padre un forte spirito d’avventura, Filippo, dopo avere ottenuto nel 1893 il grado di guardiamarina all’Accademia di Livorno, accompagna per un tratto il padre ed il fratello Giulio diretti in India ed in Malesia, per proseguire per proprio conto, compiendo fra il 1894 ed il 1895 il suo primo giro del mondo. Nel secondo giro del mondo effettuato nel 1901 toccherà anche l’Australia. Avviato alla carriera militare, si imbarca nel 1902 per la Cina, dove sbarca nel 1903 per presidiare un forte occupato dagli italiani durante la spedizione internazionale contro i boxer, e dove nel 1904 lo raggiunge la notizia dello scoppio della guerra russo-giapponese per il controllo della Manciuria, la prima guerra in cui una potenza militare orientale riesce ad avere ragione di un esercito europeo. Filippo viene inviato come osservatore militare presso l’esercito russo, e nel corso del suo soggiorno in Manciuria realizza oltre un migliaio di fotografie, che costituiscono uno dei capitoli più interessanti dell’intero

archivio Camperio. Partecipa poi alla Grande Guerra come capitano di corvetta, terminandola con il grado di ammiraglio, ed una volta cessato il servizio attivo si ritira a Villasanta. Le immagini scattate in Manciuria rappresentano un insieme omogeneo di estremo interesse, paragonabile all’opera di molti fotografi ben più noti e presenti nelle storie “ufficiali” della fotografia. Le fotografie di Filippo Camperio, raccolte ed organizzate in un paio di album, vengono in parte utilizzate da lui stesso per illustrare il suo libro “Al campo russo in Manciuria - note di un marinaio” pubblicato nel 1907. Le immagini rese pubbliche documentano in maniera puntuale non solo le operazioni militari, gli spostamenti delle truppe e la vita negli accampamenti, ma anche la vita ed i costumi degli abitanti della Manciuria, una terra che all’epoca si presenta ancora ammantata di mistero e suscita notevoli curiosità. Accanto alle immancabili immagini di tipo quasi “ufficiale”, ma realizzate ancora in maniera informale, con i componenti degli Stati Maggiori assorti in consultazioni ed incontri al vertice, ci sono le immagini dei soldati impegnati nel condurre i carri, guadare i fiumi, riposarsi o lavarsi, e ci sono le immagini degli abitanti delle regioni attraversate, gli uomini in abito tradizionale, i cavalli, le donne, i bambini, le cerimonie. Fino alle immagini più crude, con i feriti ed i caduti in combattimento, ma anche quelle delle esecuzioni, con i corpi decapitati e le teste raccolte ai bordi della strada. Immagini da un tempo e da un mondo lontano, scattate da un militare con l’occhio attento, e terribilmente simili a quelle proposte oggi dalla cronaca.


30 GENNAIO 2016 pag. 8 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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sprimersi artisticamente significa porsi oltre i limiti della percezione quotidiana e affacciarsi a un mondo originale, il cui punto di vista è inedito rispetto al modo di osservare, guardare e contemplare della collettività. Allo stesso tempo operare nel contemporaneo significa scegliere una strada divergente, priva di omologazioni e facilmente riconoscibile, al fine di lasciare un segno nella Storia in quanto indelebile traccia di riflessione. L’artista da anonimo diviene un nome risuonante e dona al pubblico la propria intenzionalità estetica, qualificandosi come un manipolatore, un creatore e un demiurgo che dà vita a sensazioni e immagini fuori dall’ordinario. Nella solitudine dell’atto creativo l’artista vive il proprio tempo, lo manipola, lo decostruisce e ricostruisce a proprio piacimento; crea cultura e la valorizza promuovendo uno speciale taglio ideologico, enfatizzato dalla possibilità della contemplazione diretta in sede espositiva; dà voce alla propria personale poetica traducendo in immagini il sé e immettendo nell’opera d’arte risultante tutta la forza e l’energia vitale che il momento estetico concerne. È in tal senso che l’individualismo sta pian piano divenendo la parola-chiave dell’attuale Sistema e in tale abbandono esistenziale e concettuale opera Piero Maffessoli, in arte Malipiero. Si tratta di una ricerca evocativa e suggestiva sulle immagini che hanno fatto la storia dell’attualità, sui miti e sui simboli di una cultura ancora oggi viva ed energica. Malipiero scompone l’immagine fotografica in infinite stringhe concettuali e le ricompone sovrapponendo realtà attigue e sincretiche, rafforzando l’idea che quelle stesse immagini portano con sé. L’opera d’arte che ne deriva è un’anafora visuale e cromatica dal forte ma delicato impatto visivo, nonché dal particolare taglio fotografico che, al tempo stesso, non dimentica l’importanza della tecnica. La maniacale decostruzione e sovrapposizione si qualifica

Osmosis Malipiero

Dall’alto a sinistra in senso orario Osmosi, 2014 Man Ray Collage cm. 49x50 Osmosi, 2015 Mao Tse Tung – Man Ray Collage cm. 47x48

Osmosi, 2015 Audrey Hepburn – Dominique Ingres Collage cm. 49x50 Osmosi, 2015 Nascita di Venere – Audrey Hepburn Collage cm. 47x47

Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

come un valore aggiunto alle icone moderne, che sono divenute nel corso del tempo opere ideologiche della concretezza storica e delle arti umanistiche. Luoghi, personaggi, volti, ritratti, simboli e miti vengono manipolati con una tecnica acuta e precisa con lo specifico intento di mettere in relazione la muta poesia dell’immagine con la rappresentazione visiva. Quella di Malipiero è una poetica e una prassi decisa volta a dare voce a un linguaggio nuovo fatto di relazioni e osmosi, là dove il pieno e il vuoto s’incontrano e misteriosamente generano un Tutto suggestivo e affascinante.


30 GENNAIO 2016 pag. 9

Lezione di musica

Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

Nel diciassettesimo secolo i Paesi Bassi esprimono una grande vitalità culturale e commerciale: è il cosiddetto Gouden Eeuw, (secolo d’oro). La pittura raggiunge vette altissime: pensiamo ad artisti come Rembrandt, Vermeer e van Wittel (da noi noto col nome italianizzato di Vanvitelli). Anche la musica assume grande importanza, sebbene il paese esprima un solo compositore di rilievo internazionale, Jan Sweelinck (1562-1621). Il canto polifonico viene eseguito negli ambienti aristocratici e in quelli religiosi; la musica viene utilizzata nei matrimoni e nelle festività; si suona e si canta in ogni ceto; fioriscono le edizioni musicali. L’importanza della seconda arte viene confermata dalla grande quantità di quadri con soggetti musicali, come quelli di Jan Steen (Il concerto di famiglia, La lezione di clavicembalo) e del suddetto Vermeer (La donna seduta alla spinetta, La lezione di musica). Musica e pittura si intrecciano e si contaminano in un continuo gioco di specchi dove l’una si riflette nell’altra. Questi legami fra le due arti hanno giocato un ruolo centrale nella vita del grande musicista e musicologo olandese Louis Peter Grijp, Fabrizio Pettinelli pettinellifabrizio@yahoo.it di

Pare che Pio XI l’11 febbraio 1939 avrebbe emesso un motu proprio (il cui testo fu distrutto per volere del suo successore, papa Pio XII) di condanna del fascismo e del nazismo e avrebbe annunciato un’enciclica, la “Humani generis unitas”, contro l’antisemitismo. Peccato che proprio la sera precedente, colto da un attacco cardiaco, morì mentre era assistito dal dottor Francesco Petacci, padre di tale Claretta. Ma le parole del Papa, sia pure non dette, ebbero vasta eco negli ambienti ecclesiastici, andando ad alimentare un già diffuso sentimento contro il nazi-fascismo e a favorire l’amicizia dei cattolici verso il popolo ebraico. Negli anni a seguire, mentre sempre da più fonti arrivavano notizie sulla persecuzione degli ebrei, in Italia si moltiplicavano le iniziative di solidarietà. A Firenze, su iniziativa del cardinal Dalla Costa, di Giorgio la Pira e del giovane rabbino Nathan Cassuto, nacque nel settembre del

scomparso il 9 gennaio all’età di 61 anni. Nato a L’Aia nel 1954, Grijp impara a suonare il liuto sotto la guida di Toyohiko Satoh nel conservatorio della città natale. A Utrecht, invece, studia musicologia con Willem Elders e Kees Vellekoop. Ha appena ventun anni quando si unisce alla Camerata Traiectina, un gruppo di musica antica fondato poco prima a Utrecht (Traiectum è appunto il nome latino della città). Grijp proseguirà questa attività musicale fino alla morte, dando vita a una discografia ricchissima che costituisce un affascinante viaggio attraverso la storia olandese

del Seicento. I legami fra musica e pittura vengono approfonditi da numerosi dischi dedicati ad artisti come Bosch, Hals e Steen. Il gruppo non dimentica i rapporti dei Paesi Bassi col resto dell’Europa, come dimostrano i dischi dedicati a Calvino (Calvijn in de Gouden Eeuw, 2009) e al compositore inglese John Dowland (Dowland in Holland, 2015). Ricercatore appassionato e meticoloso, Grijp lascia un’eredità preziosa che non possiamo descrivere dettagliatamente, ma della quale meritano particolare attenzione due esempi. Uno è la Nederlandse Liederenbank, la monumentale banca dati che raccoglie oltre 150.000 canzoni scritte nell’area neerlandese (Fiandre e Paesi Bassi) dal tredicesimo secolo ai nostri giorni. L’altro è la ricostruzione dell’Antwerps Liedboek, il più antico canzoniere in lingua neerlandese, pubblicato ad Anversa nel 1544. L’interesse per la pittura trova ulteriore conferma nel catalogo della mostra Music and Painting in the Golden Age, che Grijp cura nel

1994 insieme ad Edwin Buijsen. Nel frattempo lo studioso ha guadagnato un notevole prestigio accademico collaborando col Meertens Instituut di Amsterdam. Nel 2001 ottiene la cattedra di Cultura canora olandese all’Università di Utrecht. Pur concentrandosi sulla musica del Seicento, Grijp possiede una vasta cultura musicale che gli permette di spaziare altrove. Per questo gli viene affidata la cura di un’altra opera imponente, Een muziekgeschiedenis der Nederlanden (Amsterdam University Press, 2001), che ripercorre la storia musicale dell’area neerlandese dai tempi più remoti fino al 2000. Nel libro Blues en Balladen: Alan Lomax en Ate Doornbosch, Twee Muzikale Veldwerkers (Amsterdam University Press, 2005), scritto insieme a Herman Roodenburg, compara la figura del celebre ricercatore americano a quella di Doornbosch. Quest’ultimo ha svolto un ruolo fondamentale nel campo della musicologia olandese, come attesta il CD Chansons Oubliées. The Netherlands: Songs Adrift (Ocora, 1996)

nastero dello Spirito Santo a Varlungo, le Piccole Sorelle dei Poveri in Via Andrea del Sarto, le Suore di S. Giuseppe in Via Gioberti, la Comunità del Padri Gesuiti in Via Spaventa, il Ricreatorio S. Giuseppe in Via Cirillo, le Pie Operaie di S. Giuseppe in Via dei Serragli, le Missionarie di Maria in Piazza del Carmine, le Suore di

S. Marta a Settignano, le Povere Figlie delle Stimmate all’Erta Canina, gli Scolopi di S. Giovannino, la Mantellate in Via Leonardo da Vinci, le Suore Addolorate in Via Faentina, i Domenicani di S. Marco, i Monasteri di Piazza della Calza e di Piazza S. Ambrogio, le Filippine di Via Giusti, i Carmelitani di S. Paolino, il Convitto di Via S. Leonardo, il Convento di Montughi, l’orfanotrofio di Via del Guarlone, le Benedettine di Via Faentina, la Madonnina del Grappa, le chiese di S. Felice, S. Francesco, S. Gervasio, S. Stefano, Divina Provvidenza e S. Gaetano. Grazie a ignobili delazioni, gran parte dei rifugiati fu rastrellata nel novembre del 1943, ma resta comunque il ricordo dei tanti religiosi e religiose che, a costo della loro libertà, diedero rifugio e protezione a tanti perseguitati. Fra gli altri dovrò almeno riassumere, in altra occasione, le testimonianze di padre Cipriano Ricotti di S. Marco e di don Leto Casini di Varlungo.

Via Nathan Cassuto

Il rabbino di Firenze

1943 il comitato cristiano-ebraico che organizzò il ricovero di centinaia di ebrei negli istituti religiosi fiorentini che, a loro rischio e pericolo, avevano aperto generosamente le porte ai perseguitati. Furono moltissimi gli istituti che offrirono accoglienza agli ebrei fiorentini e, via via, a quelli provenienti da ogni parte d’Italia e d’Europa: perché ne rimanga memoria, cerco di citarne la maggior parte, cominciando dall’orfanotrofio delle suore di Peretola, in Via Pratese, dove trovò rifugio Susanna, di sette anni, figlia del rabbino e di sua moglie Anna (nella foto): deportati ad Auschwitz, Nathan vi trovò la morte. Anna sopravvisse e arrivò in Israele, dove morì durante la guerra del 1948. Cito poi in ordine sparso: il Mo-


30 GENNAIO 2016 pag. 10 Cristina Pucci chiccopucci19@libero.it di

S

i va a visitare la villa dove è vissuta fino alla morte, avvenuta nel 1982, Elisabeth Chaplin, pittrice di origine inglese, cui è dedicata una intera stanza alla Galleria d’Arte Moderna di Pitti. “Il treppiede” si chiama, è a San Domenico, ci accompagna alla ricerca delle sue tracce e dei suoi quadri l’attuale proprietario, Riccardo Tendi Cobianchi, dell’omonima ditta distributrice di ferramenta. Ci racconta che nel 1971 suo padre andò a vivere in una colonica attigua alla villa e che avendo visto più di una volta un uomo scavalcare la rete di cinta del giardino decise di avvisare di ciò la proprietaria, l’anziana Elisabeth che, serena, gli rispose “è il mio Armando..” il contadino-giardiniere che si occupava di campi e olivi. Si avviò così una conoscenza rinsaldatasi nel corso degli anni, l’anziana pittrice viveva da sola in quella che era stata una splendida magione in maniera del tutto spartana, cucinava poco e se mai su fornelli a carbone, spesso il signor Cobianchi le portava pietanze pronte. Dipingeva, dipingeva sempre, tutto il giorno, alla sua morte c’erano così tanti quadri da far ritenere opportuna la distruzione di un gran numero di essi per non infiacchire la valutazione delle tante sue tele donate alla Galleria d’arte Moderna di Pitti e il loro valore sul mercato. A 90 anni decise di farsi intervistare da Giuliano Serafini, cui si deve la più ampia monografia su di lei, e ,ogni volta che si vedevano, gli regalava un quadro. Lasciò in eredità villa ed opere al Comune di Firenze, in seconda istanza all’Ambasciata Francese, ma gli eredi legittimi, sia pur non diretti,impugnarono il testamento e, vinta la causa, misero il tutto in vendita. La villa è completamente rinnovata,segnalo solo l’impareggiabile terrazza sul tetto da cui si vedono le ridenti colline contigue a tutto tondo e, un po’ più in basso, Firenze con il suo inconfondibile sky-line mozzafiato. La vecchia limonaia, che era lo studio della Chaplin, porta sulla facciata, restaurate, varie case di piccioni in legno, l’artista amava gli animali,che spesso compaiono nei suoi quadri. In fondo al giardino piccole lapidi dei suoi amati cani defunti. E’ qui,in questa costruzione, sia pur rimessa a nuovo,

La villa di Chaplin

che si trovano, numerose, le tracce di Elisabeth. Su un tavolo scatole dei suoi colori, gessetti e pastelli, poi le scale...ai muri quadri, se non gli stessi, simili e nella stessa disposizione di quelli che c’erano , ritratti di Nenette, della madre ed Ida Capecchi ( Riccardo dice sia stata l’Istitutrice, fu invece la donna della sua vita) un autoritratto, delle foto. Il muro delle scale predi

Sergio Staino

C’è chi disegna per raccontarci storie, chi per spiegarci le cose, chi per trasmetterci emozioni e chi, come Franco Matticchio, per regalarci il segno. Ho sempre pensato che la prima ragione che spinge Franco a disegnare sia proprio il piacere di tracciare dei segni. Io lo capisco, è un lavoro bellissimo: è bella la superficie della carta, è bello il suo profumo ed è bello il leggerissimo sfrigolio che si emana dal passare il pennino su di essa, ed è bello vedere il segno che cammina, che si muove, che si incespica, che svolta repentino, che si allarga, si assottiglia e costruisce immagini. Immagini che fino a che non sono compiute neanche lo stesso autore sa con precisione come saranno; neanche l’autore sa con precisione se e quanta

senta disegni di grandi fiori molto belli, altri affreschi o accenni di decorazioni compaiono qua e là. Alcune curiosità, c’è un tavolinetto rotondo che serviva per le sedute spiritiche, molti scritti,occupano 7 volumi, sono dedicati a “I dialoghi con i morti”, la sua libreria , riacquistata ad un’asta, conserva dei libri in cui è stata pubblicata una parte della sua imponente

Nel segno di Matticchio poesia riusciranno ad emanare. Credo che la poesia visiva che riesce a costruire Matticchio abbia di per sé un grande valore e che se anche si fermasse qui, già questo avrebbe ampiamente ripagato il lavoro necessario al disegnarla. Ma ovviamente non si ferma qui, poi entra la dolcezza, la tenerezza

e poliglotta corrispondenza (sei valigie piene da cui sono state tolte le lettere ad artisti e letterati di chiara fama) ,ne cura la trascrizione e traduzione Alan Bullock. Residuano molti altri “fogli” con le poesie di Marguerite, madre di Elisabeth. Molti i suoi quadri alle pareti compreso l’ultimo ,dipinto il giorno prima di morire, nature morte,una mostra le vecchie mattonelle dipinte da lei sullo sfondo, paesaggi fiesolani,altri ritratti. delle cose che Matticchio rappresenta, persone, animali, cose che tutte insieme ci raccontano delle minime storie, sufficienti però a farci scaturire un sorriso, a darci un tocco di tenerezza. Silenzioso come Altan e timido quanto Ellekappa, Franco Matticchio vive schivo nella cittadina di Varese dalla quale è difficile spostarlo, ma al contrario di lui i suoi disegni viaggiano per il mondo. Partito da “Linus” ha girato molti periodici italiani. Apprezzatissimo in Francia è arrivato poi sulla copertina del New Yorker. I suoi disegni sono stati usati in dolcissime animazioni: dai titoli di testa del film di Benigni “Il Mostro” ad un breve spot che diffonde i principi etici di Legambiente. Una mostra e un incontro davvero da non perdere quello di sabato prossimo.


30 GENNAIO 2016 pag. 11 Michele Morrocchi twitter @michemorr di

L

a lotta di classe non è conclusa come spesso ci dicono. Non si combatte nemmeno solo nelle periferie o davanti ai cancelli dei magazzini della logisitica. Vi è una lotta di classe quotidiana, non violenta ma non per questo non cruenta, che si combatte, per esempio, nel centro storico di Firenze. Una lotta di lunga durata, ininterrotta, che vede ormai soccombere proletariato, borghesia liberale e semplici cittadini. Una lotta che non vede cambiamenti significativi di fronte da quasi sempre e che ha avuto, la più recente, battaglia decisiva nella pedonalizzazione di Piazza Duomo e soprattutto nell’impedire il passaggio della tramvia dal centro storico. Un’operazione che ha portato a dare un limite, un perimetro, al centro storico, favorendone la trasformazione in compound. Ennesimo processo di gentrizzazione, isolamento: il ghetto del bello, usufruibile formalmente a tutti, ammiccante in realtà a turisti e clienti. Una volta delimitato il perimetro si procede alla “pulizia”. Ecco dunque l’ultimo tassello, il provvedimento contro i cosiddetti minimarket. Atto in cui elementi di Stato Etico si fondono con la brama del capitale (ché solo i rivoluzionari da tastiera confondono il capitale col liberismo e dimenticano che il primo ha sempre fatto migliori affari con gli statalisti che con i liberali) al suono di parole come decoro, salute, pulizia e bellezza. Un provvedimento talmente classista che ha fatto gridare al razzismo chi, ormai disabituato a usare categorie politiche, maneggia soltanto quelle sociali. Un intento e un pensiero che sappiamo estraneo ai nostri amministratori ma che la natura del provvedimento ha reso passibile di fraintendimento. Il pubblico che torna a dare patenti di liceità: Tiger (quella simpatica catena di chincaglierie made in china) sì perché nordico e lindo, the king of Lahore no perché privo di lampade di design (spesso di lampade toutcourt) e diciamocelo piuttosto sudicio. Una lotta in cui non ci è stato risparmiato, almeno per pudore del ridicolo, la retorica del cancro

Lotta di classe dal kebabbaro

da estirpare, così maschia e virile. E’ in gioco la salute dei nostri figli! Quelli a cui abbiamo abdicato il nostro ruolo di educatori preferendo indossare la maschera più semplice (ma dozzinale) dei guardiani. L’alcool quindi, il nemico, fetic-

cio secolare dei proibizionisti di ogni risma. L’alcool come nemico della meglio gioventù, quella che si riprende il futuro. E ho tremato passando davanti a Procacci, con in vetrina le sue splendide bottiglie di ottimo Chianti. Anche lui un nemico? O forse

saranno i tre bicchieri a garantirci come già fecero le stelle gialle? Una siffatta battaglia poi è talmente perfetta che salda gli entusiasti del capitale, buttafuori addetti alla door selection su base censitaria, agli optimates del belllo. I tutori dell’arte e della bellezza, conservatori e tutelatori, progressisti reazionari che sognano un mondo di fruitori del bello a cui loro han dato educazioni e patenti di apprezzabilità. Pronti a brandire oggi la Costituzione Repubblicana come, ieri, brandivano il libretto rosso; non avendo probabilmente letto sino in fondo nessuno dei due. Capaci di indignarsi per i manifesti sui restauri (e meno male) ma in fondo felici per la ripulitura dal piccolo minimarket africano, così fuori contesto. Oggi più di ieri si avvertirebbe il bisogno di una Rivoluzione. Liberale.

Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Per andare oltreconfine “I confini chiedono spesso sacrifici di sangue, provocano morte. ...Forse l’unico modo per neutralizzare il potere letale dei confini è sentirsi e mettersi sempre dall’altra parte”. Così scriveva Claudio Magris nel suo magistrale “Microcosmi”. Così, credo, si siano sentiti e collocati i quattro straordinari musicisti del Note Noire Quartet, Ruben Chaviano (violino), Roberto Beneventi (fisarmonica), Tommaso Papini (chitarra) e Mirco Capecchi (contrabbasso), incidendo “Oltreconfine”, un CD davvero strepitoso. Non c’è uno solo dei dieci brani che compongono l’album che non ti sorprenda scartando improvvisamente di lato dal suo tema, attraversando appunto un confine, da una terra sicura, conosciuta, familiare, in un paese sconosciuto, forse pericoloso ma affascinante. Le diverse storie musicali dei quattro favoriscono questa ibridazione, ma ogni identità è ben delineata, solo che si completa, si sviluppa dall’incontro con le altre: la musica cubana con il tango, il jazz zigano con la fusion, l’improvvisazione jazz con una etno raffinata. Il tributo che il quartetto paga ai loro numi tutelari disegna questo quadro a

tinte forti, anzi rompe la cornice che tutto pretende di contenere: Count Basie, Ottorino Respighi, Tony Murena, Piazzolla, Andrè Minvielle sono solo alcuni dei dedicatari che compongono (e scompongono) il loro universo musicale. Così i quattro ci conducono in terre lontane, oltre ogni confine, appunto: “Migrando” è un inno alla necessità del movimento e del rinnovamento, “Porrajmos” (termine Rom che indica lo sterminio hitleriano) è una ballata porteňa dedicata a quanti

hanno pagato con la shoah una vita oltreconfine. Ma “Le petite valse de la note noire” ci porta in una Parigi dove dalla cornamusa antenata della fisarmonica dei grandi virtuosi dello strumento del Novecento; “Zeta Chansong – Esta Cancion” porta in una Cuba trasgressiva immaginata dal trovatore vocalchimista Andrè Minvielle. “Aubade” attraversa i confini della musica melodica popolare di Respighi per avventurarsi nella ricerca armonica moderna di Debussy e Stravinskij. Rom rumeni, violinisti cubani, fisarmonicisti francesi, jazzisti americani tutti si danno convegno in questo disco sorprendente del Note Noire Quartet. Un’esperienza unica.


30 GENNAIO 2016 pag. 12 Annamaria Manetti Piccinini piccinini.manetti@gmail.com di

L

a mostra di Alfredo Pirri alla galleria “Il Ponte” (23 gennaio-18 marzo 2016 ) non poteva avere ‘padrini’ più nobili di quelli a cui si è ispirato l’Artista: i Kindertotenlieder di Gustav Mahler e le poesie del poeta e orientalista tedesco Friederich Rukert (1788-1866), ispiratore, a sua volta, di Mahler per le liriche dedicate alla morte dei figli. La grande suggestione delle opere di Pirri, plexiglass rettangolari alcuni di notevoli dimensioni(206x106x5), formati da due pannelli sovrapposti, ma con uno spazio, fra l’uno e l’altro, che permette al quadro - per così dire - di ‘respirare’, trasmettono una straordinaria luminosità, tanto più che la pasta di colore, un rosa deciso che sfuma in varie tonalità - dal bianco al verdazzurro tenuissimo, al rosa pallido - è stesa sul retro della superficie visibile, creando un effetto d’incredibile evanescenza. In alcuni quadri il plexiglass è traforato con piccoli buchi rotondi, come fossero quelli di strumenti musicali a fiato, facendo sì che il colore rosato formi un’aureola intorno, che traspare ma non si vede come dato materico. L’operazione dell’artista, minuta e precisa da un punto di vista tecnico, scompare nelle levità del risultato, che può essere letto, a seconda della fantasia dell’osservatore che s’incrocia con quella dell’Artista, in vari modi . Ma ‘stare ai testi’, come sempre, sembra il modo più corretto, anche perché, questa volta, i testi sono evocati dall’Autore stesso. Se andiamo a leggere le poesie di Rukert, possiamo trovare un suggerimento poetico avvincente per l’interpretazione di queste immagini, talvolta quasi ineffabili nella loro delicatezza ma, insieme, drammatiche. Scrive Rukert e canta Mahler nei “Canti per i bambini morti” : (….)Si è spenta nella mia tenda una piccola lucerna/ma sia gloria alla luce cara e gioiosa del mondo! Ora so finalmente perché fiamme così scure /mi lanciavate, occhi, in certi istanti ! (…)Ma

I Kindertotenlieder di Pirri ma la sua trasformazione: alcuni di quegli “occhi” sono stretti fra loro; altri si presentano più volatili; altri ancora in superfici frammentate e sfrangiate, quasi ad indicare un diverso destino avuto in sorte. Ma tutto in metamorfosi continua, com’ è la vita e, in questo caso, pittoricamente, la luce.. In altri quadri l’Artista sembra disancorare la sua fantasia più liberamente: non fantasmi di piccole anime che s’inabissano e risuscitano, ma tepore di colori tenui e forme fluorescenti come bolle di sapone fermate nel loro breve esistere. Tutto si espande, nella candida sala della galleria, in un’armonia semplice - quei colori quasi infantili - e complessa nei suoi simbolismi, anche di morte, come la musica di Mahler. Infine, in una piccola installazione all’ingresso - un quadro fatto come di grandi batuffoli incipriati su una leggerissima consolle - l’invito ad entrare con passo leggero e fidente nella casa della vita, quale che sia.

non presentivo (…)preso dentro la rete e accecato dal destino / che il raggio già si piegava a riprendere il cammino/verso quella dimora dove ogni raggio ha origine(…).Solo guardaci: noi saremo lontani, presto!/ Quelli che per te sono soltanto occhi, in questo/giorno, saranno stelle nelle notti a venire.

Ecco che allora non è una “licenza poetica” pensare che quei buchi neri, ma circondati da un’aureola rosa, possano essere gli occhi dei bambini precipitati nella morte che pur tendono alla resurrezione in una luminosa aurora. Come nei “Passi” di Pirri, l’arte non è più specchio del mondo

Lido Contemori lidoconte@alice.it

Il migliore dei Lidi possibili

di

Coppia di fatto del marinaio col sorriso dei suoi sogni Disegno di Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni


30 GENNAIO 2016 pag. 13 Simonetta Zanuccoli simonetta.zanuccoli@gmail.com di

Alla Fondation Pierre Bergé Yves Saint Laurent in rue Lèonce Reynaud 3 a Parigi, si tiene una piccola, preziosissima mostra fino al 14 febbraio dal titolo Vivre pour l’art. Nei 200 metri quadri della fondazione, nella raffinata scenografia di Jacques Grange e Nathalie Mane, si possono ammirare una selezione di 120 opere tra arredi e quadri che mettono a confronto la passione condivisa, con le loro differenze e affinità elettive, di due grandi stilisti collezionisti, Jacques Doucet e Yves Saint Laurent. Jacques Doucet (1853/1929), citato anche da Proust nella Alla ricerca del tempo perduto, era un ricco proprietario di una famosa casa di moda e grande collezionista di opere d’arte del XVIII secolo alle quali si ispirava per creare i suoi abiti dai colori delicati di pizzi e lini ricamati. Nel 1912 vendette questa sua prima, preziosa collezione per dedicarsi, con l’aiuto di giovanissimi consiglieri, Andrè Breton e Andrew Suarez, alla scoperta di artisti e designers d’avanguardia acquistandone le opere che al tempo nessuno voleva e che in seguito sarebbero diventate icone dell’arte contemporanea. Questi quadri come Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, L’incantatore di serpenti di Rousseau, la Musa dormiente di Brancusi.... affollavano le pareti della galleria che fece costruire per personale diletto nel suo appartamento in rue Saint James. Yves Saint Laurent (19382008) rispetto a Doucet ha vissuto più di nostalgia dell’eleganza di un tempo perduto collezionando nel suo appartamento in rue de Babylone opere antiche, artisti del passato, arte tribale miscelando però, con grande libertà e gusto provocatorio, Goya e Warhol, Burnes-Jones e Mondrial, marmi romani a preziosi intarsi Art Deco e a mobili d’avanguardia. Entrambi i collezionisti, nella loro peculiarità, hanno amato spesso gli stessi artisti come Braque, Brancusi, Picasso, Derain, Duchamp, Modigliani e, molti anni dopo,

Vita con l’arte di Doucet e Yves Saint Laurent alle aste Saint Laurent ha comprato delle opere appartenute a Docet come il Ritomante di De Chirico. Tutti questi artisti sono presenti in questa incredibile mostra che si svolge sul filo rosso dell’emozione piuttosto che su un percorso cronologico di storia dell’arte. Entrambe le collezioni, alla morte dei loro proprietari, sono state vendute all’asta. Non è stato quindi facile, dopo aver fatto un’attenta selezione delle opere più significative da presentare alla Fondation, rintracciare e averle in prestito dai tanti musei che le avevano comprate, come il Louvre, il D’Orsay, il Centre Pompidou, il Guimet, il Cernuschi, la Biblioteca Nazionale, il Museo delle Arti Decorative, solo per citare quelli in Francia. In un’intervista recente Pierre Bergè, compagno per anni di Yves, che ha organizzato questa importante esposizione, rivela che la maggiore affinità tra Bergè e Sain Laurent è che collezionavano non per speculare o accumulare ma perché vivere per l’arte era per entrambi la vera arte di vivere. Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

S cavez zacollo


30 GENNAIO 2016 pag. 14 Stefano Vannucchi svann1170@gmail.com di

Tanto tempo fa sulle rive di un lago un Uomo speciale compì un prodigio moltiplicando pani e pesci per una folla assiepata sulle rive. Uomini e donne affamati di tutto (cibo, Verità, Giustizia, Libertà, Spiritualità) che, è scritto, non riconobbero né l’Uomo né il nutrimento interiore di cui quei pani e pesci erano metafore. La Moltiplicazione, così come il rapporto con il Divino, sono insiti nell’animo umano fin dalle origini. Così, la tradizione cristiano-cattolica e il consumismo che spesso ne fa merce ricorrono spesso nella parabola artistica di Lunardi e non potrebbe essere diversamente in quanto elementi portanti della nostra società. Una società che vede l’attualità del lungo percorso fatto dall’uomo nel confronto con Moltiplicazione e Divino. Ai tempi in cui si svolse quel famoso evento sulle rive di un lago c’era chi cercava modi per moltiplicare raccolti, ricchezze, schiavi e chi era in attesa di Messia portatori di un rinnovamento totale degli animi e del mondo. Nel corso dei secoli poi l’uomo ha continuato a cercare di accumulare, denari e piaceri come risposte, perfezionando metodi per garantirsi una soddisfazione sempre sfuggente. Con le età dell’industria e del consumo l’uomo ha raggiunto il culmine del progresso nei sistemi di moltiplicazione compiendo anch’esso, a suo modo, un prodigio raggiungendo la capacità “divina” di riprodurre in quantità indefinita gli Oggetti. Quegli “oggetti” che sono un’altra costante dei lavori di Lunardi. In una prima fase le persone pian piano vennero trattate come oggetti. Alla catena di montaggio i gesti ripetuti ossessivamente per anni esaltarono la parte “meccanica” dell’uomo rendendolo mero ingranaggio della macchina produttiva in crescita. Nei periodi più bui dell’umanità poi uomini e donne vennero spersonalizzati. Rasati, denutriti, vestiti tutti allo stesso modo, marchiati. L’individualità annullata fino a che non restano che serie di meri numeri di ingranaggi terribili, cifre di una contabilità tanto più tremenda quanto più

Vicino al respiro

fredda e burocratica. All’uomo, una volta caduto in tale gorgo, non resta che poco più di un respiro (Anthropometry). Oggi addirittura, come viene detto da uno dei protagonisti de “Il grande Lebowski”, si “trattano gli oggetti come persone”. Sì, perchè attraverso radio, tv, computer ecc.. gli oggetti hanno preso vita (e Intelligenza Artificiale) e spesso hanno preso la Vita delle Angela Rosi angela18rosi@gmail.com di

Spazio vuoto, punti di sospensione, nel bianco il nulla, l’inizio e la fine di tutto, la vita e la morte. Luce, silenzio assoluto impalpabile e ovattato, colore e bagliore, possibilità infinite. Bianco dei fogli e paura del gesto poi il timido balbettio che si fa sempre più forte, enfatico e ancora traccia e ritmo, disegno e pittura, colore e amore. Lo spazio bianco azzera, cancella per ricominciare dal principio, è essenza e purezza, è anarchia e apertura. Le parole sono divise, le sillabe allontanate, il suono diventa armonia e bellezza nella diversità, il ritmo cambia, si aggiusta, è sincopato, dolce o sommesso, è difficoltà, è un accenno a un dolore remoto, è l’urlo nell’incubo. Em) i!c, iCL . i è lo spazio dove nuove situazioni possono accadere. Rivelare lo spazio

persone che li posseggono. Al punto che poco sarebbero senza quel collegamento divenuto vitale che spinge a fare di tutto per apparire nella realtà virtuale e senza il quale si è persi. O salvati. (The Idol). A furia di moltiplicare e di vedere la propria individualità moltiplicata negli oggetti si è così arrivati al punto che quell’Uomo speciale, a cui tanto tempo fa folle

guardavano sulle rive di un lago, è stato disconosciuto e al suo posto l’uomo ha sistemato il prodotto del suo “miracolo”. Così sull’altare verso cui guarda la piccola folla di The idol non vi è un crocifisso, ma dei televisori che possono fornire però solo risposte effimere come un brand o una moda passeggera, prodotti della spinta al Consumo che le sorregge e guida. Quella soddisfazione, quelle risposte continuano così a sfuggire e quel vero e proprio “corpo a corpo” con aspetti della nostra realtà che è il lavoro di Lunardi apre piccoli, significativi squarci nella ricerca e nel confronto che ci accomunano dall’Inizio. Ci sono respiri dentro i freddi contenitori di Anthropometry così come c’è un respiro dietro lo sguardo che compare nello schermo nel finale di The Idol. E c’è possibilità di staccare il ciclo perverso così come il filo che ci connette a una versione comunque mediata di noi stessi. Lunardi ce lo ricorda riportandoci a noi stessi, illuminando i rischi di trattare le persone come oggetti e gli oggetti come persone, ponendo al centro la Persona dietro la moltiplicazione e la realtà virtuale.

bianco fra le parole e nelle parole è lasciare affiorare altri significati nascosti, è incontrare musica, gesti, colori, immagini, voci. Se facciamo spazio bianco, riusciamo a scorgere altre dimensioni occultate dal “fitto delle parole”, i confini si estendono, le frasi diventano

spaziose, si spezzano e si perdono creando bianchi vuoti accettanti di tutto ciò che è diverso da noi. Em) i!c, iCL . i è il luogo non luogo, è un abbraccio che non costringe come quando allarghiamo le nostre braccia per accogliere l’altro.

Em) i!c, iCL . i


30 GENNAIO 2016 pag. 15 di

Paolo Ciampi

Ricordate Buffalo Bill di Francesco De Gregori? Quella differenza che salta agli occhi tra un bufalo e una locomotiva? Un treno va dritto, sulla strada tracciata dai binari, dritto fino alla stazione successiva, male che vada può accumulare ritardi. Un bufalo, no, non ha strade segnate: può diventare preda di un cacciatore, cadere sotto i suoi colpi, ma intorno a sè ha la prateria e può sempre scartare di lato. Ecco, è da questa canzone - ma soprattutto dalla consapevolezza di essere partito come treno per poi farsi bufalo che scarta di lato - che comincia Quell’idea che ci era sembrata così bella, ultimo libro di Tito Barbini (Aska edizioni), il più intenso, il più sofferto: libro di viaggio anche questo - non saggio o autobiografia - come in realtà tutti gli altri che finora ci ha scritto. Ma viaggio di un particolare tipo, perché non imperniato solo su una geografia dello spazio. Viaggio nel tempo, viaggio nella storia che è quella di Tito e insieme quella dei tanti che generazione dopo generazione si sono spesi generosamente per un’idea che prometteva giustizia, eguaglianza, libertà. Questa è la mia storia, afferma con orgoglio Tito, nella prima pagina. Lo avevamo lasciato con le sue narrazioni di pirati, missionari, anarchici, sognatori negli ultimi lembi dell’America Latina e ora lo ritroviamo alle prese con una trama di vita che annoda i suoi fili nella Toscana dove, ai tempi, non era davvero difficile innamorarsi del comunismo. Quindi, se si possedevano voglia e stoffa, succedeva di percorrere le varie tappe della militanza e dell’impegno amministrativo. La storia di Tito, insomma, la strada segnata. Lui poi un giorno, come il bufalo, ha scartato di lato. Ed è grazie a quello scarto se si è messo a viaggiare e da quei viaggi sono nati libri belli e importanti. Le nuvole non chiedono permesso fu il primo, titolo splendido, titolo che in fondo racchiude il destino di Tito, uomo che con il suo bagaglio leggero si è fatto anche nuvola che attraversa i confini.

Quell’idea che ci era sembrata così bella Chi lo conosce, chi conosce i suoi libri, sa bene che viaggiare non ha mai significato liquidare una volta per tutte la passione della politica. Casomai a quella passione il viaggio ha portato in dono nuova linfa, uno sguardo più profondo, la forza dell’incontro, il senso di un cambiamento della realtà delle cose che non può prescindere dal cambiamento interiore. Quell’idea per cui si era tanto spe-

di

Vicent Selva

Consigliere comunale di Esquerra Unida

Quattrocento anni fa è morto uno dei più grandi geni della letteratura castigliana, spagnola e universale: quel genio di Alcala de Henares nato nel 1547 e morto 69 anni dopo, il 23 aprile 1616 a Madrid. In quella strada che fu la sua vita ha lasciato una parte di se stesso che l’ha fatto diventare immortale e collocarsi al vertice, insieme ad altri autori come l´inglese Shakespeare, dell’Olimpo della letteratura. Poco prima di morire, 401 anni fa, fu pubblicata la seconda parte di quella grande opera conosciuta come el Quijote. Una seconda parte che è nata per screditare falsari, come, anche lui castigliano, Alonso Fernández de Avellaneda che, nel tentativo di appropriarsi del successo del genio di Alcala, ha scritto una seconda parte della storia dell’Hidalgo Manchego, conosciuto come il Quijote de Avellaneda. Tutti quelli che conoscono la storia di questo eroe cervantino sanno che la sua principale missione era lottare contro le ingustizie, come doveva fare un buon cavaliere errante, anche se guidato dalla follia di chi si è lasciato assorbire dalla letteratura di fantasia. E questa era la sua ragione di vita.

so e che la Storia ha avuto molto fretta di liquidare Tito in qualche modo l’ha ritrovata proprio per il mondo: magari sotto altri nomi e bandiere, con parabole che hanno portato molto lontano, in un gioco di scomposizioni, rimandi, contaminazioni che non sono la fine di una storia, semmai un’altra storia. Ed è anche vero che a quell’idea Tito ha già dedicato molte pagine di altri libri. Uno scritto anche insieme a me, il più esplicito rispetto al sentimento della sconfitta, Caduti dal Muro: un lungo viaggio nei paesi dove il socialismo reale ha lasciato le sue macerie. Però penso anche alle Rughe di Cortona, un libro di singolare bellezza, il racconto di un viaggio che è tutto un ritorno.

Auguri Quijote

L’unico problema, insormontabile, è che i cavalieri avevano cessato di esistere. Il Medioevo era finito e nellla penisola iberica si stava costruendo un nuovo Stato moderno che, lungi dal favorire le avventure di lotte eroiche contro i mori come nei secoli precedenti, le aveva rese impossibili. L’avventura in quel momento era ormai al di là dell’oceano. Il mito della Reconquista lasciò il passo al mito del Nuovo Mondo, e Don Chisciotte, il cui nome era in realtà Alonso Quijano e che altro non era se non un vecchio membro della piccola nobiltà, un signore fatiscente, era stato rinchiuso in un mondo che non gli permetteva grandi conquiste, che sarebbero state possibili alcuni secoli prima o dall’altro lato

Ma questo libro ora è tutt’altra cosa: quell’idea Tito non l’affronta dopo che da buon bufalo ha scartato di lato. Questo è un viaggio per intero, con un giovane affamato di futuro, appassionato come solo la “meglio gioventù”, poi uomo che incrocia straordinari momenti della storia e grandi protagonisti del Novecento - da Pietro Ingrao a Gorbaciov e Mitterand. Un viaggio che in ogni caso parte da dove deve partire. Come quando si scende un fiume e lo si fa dalle sue sorgenti. In questo caso una cittadina toscana, una famiglia comunista, un bambino con i suoi sogni. Ne avrà di strada davanti a sè, quel fiume, prima di incontrare il mare. Prima di donare le sue acque al mondo.

dell’Atlantico.In questo 2016 si celebra in Spagna l’Anno Cervantes, in omaggio al grande scrittore che ci ha lasciato non solo un immortale e magnifico lavoro in anticipo sui tempi, ma anche un riferimento culturale che perforasse i confini dei libri per prendere forma nella cultura popolare. Ancora oggi in Spagna, è facile sentir chiamare qualcuno come Chisciotte, quando si è una persona determinata nella lotta, in un modo appassionato e romantico per ottenere giustizia, a prescindere dalla realtà che lo circonda e dalle altre persone che lo trattano come un pazzo. Forse questo 2016, quest’anno Cervantes, così come lo ha nominato il governo spagnolo, è un buon momento per sostenere che il mondo ha bisogno realmente di persone che sono disposte a lottare per la giustizia, senza che gli importi di essere considerato un pazzo o un anacronistico. Un buon momento, infine per affermare che l’essere umano è più di un individuo meschino senza ideali e utopie. E quale modo migliore di utilizzare, per rappresentarlo, il più universale dei personaggi nella nostra letteratura? Si prega di spegnere il cellulare. Aprite il Quijote. Godetevelo.


30 GENNAIO 2016 pag. 16 di

Mario Sodi

H

o amato questo libro, scritto non solo per “conoscenza e sapienza” ma con amore. E quando si ama si penetra nei più nascosti meandri, si riesce a svelare le più tenaci pieghe aprendole con delicata pazienza, svelando segreti che sono nascosti ai frettolosi indagatori. È per i libri come per gli uomini, specialmente come nel caso di Dino Campana, quando un libro come i Canti Orfici si identifica con l’Uomo che l’ha pensato/ vissuto riversando se stesso, e meravigliosamente, in forma di Poesia. Campana, uomo del Silenzio e dello Sguardo nel tempo che crea il suo viaggio terrestre/celeste, affida alla parola/logos il contatto creativo fra sé e tutto ciò e coloro che traversano i suoi giorni pieni. Ma come i grandi poeti, con la parola suscita una nuova creazione e tutto ciò che tocca con i sensi lo sustanzia in una visione salvifica. È la Verità che lo fa libero, perché germina dalla sua verginità naturale che lo fa sentire “felice di essere povero ignudo”. Felice nelle sue estasi contemplative, povero in quanto libero da di

Eleonora Farina

E siamo già in viaggio, su un’imbarcazione che ci porterà a riva, incolumi o naufraghi. Non sappiamo quale sarà il nostro punto di approdo, perché la bussola ogni tanto perde il Nord e la rotta è spesso difficile da seguire. Ma le paludi non sono sabbie mobili; ne usciremo quindi, a riveder le stelle . “Folli Naviganti nelle Paludi” è la mostra obliquamente eponima dietro la quale si dis-velano i lavori di Luca Matti, Aroldo Marinai ed Enrico Pantani. Matti Marinai (nei) Pantani: tre viaggi di scoperta del mondo, di formazione del sé, di interrogazione circa la vita. Luca Matti (1964) ci accompagna attraverso i cunicoli architettonici del nostro pianeta-terra: un Supermondo in cui la natura è stata fagocitata dall’urbanizzazione insensata ed estrema, in cui il cemento si è ampliato dando vita ad un’unica città-mondo ed in cui la quotidianità fugace e solitaria risulta essere la sola realtà visibile ed esperibile

Scandicci – Castelpulci, nella villa, ex-manicomio, venne ricoverato Dino Campana dal 1918 al 1932 (foto di Andrea Ulivi)

Felice di essere povero ignudo

tante sovrastrutture ideologiche, ignudo perché senza maschere ma splendente e purissimo come il Bambino delle Maternità che egli ama. Questa sua condizione spirituale rivela una “religiosità” creaturale, in cui tempo natura ed uomini – nel filtro del suo talento poetico – si configurano in “sublimi scoramenti” nell’incontro con il Mistero. Nel Mistero, da cui egli avverte essere scaturito come «torrente inquieto e cupo di profondità», balena la visione salvifica: «sentivo le stelle sorgere e collocarsi luminose». Ed è un Mistero religiosamente incarnato nel suo viaggio di eterno fanciullo a sfidare/amare, con la sua voglia tremenda di vivere, le creature visibili ed invisibili che “sono” quando gli si manifestano e vivono con lui l’immortale sogno della Bellezza. Questo ed altro ho inteso nell’appassionato saggio di Lorenzo Bertolani “Felicità e religiosità nell’opera di Dino Campana” di Lorenzo Bertolani (Edizioni della Meridiana, Firenze 2014) e credo che altro ormai non si possa dire di questo meraviglioso poeta dopo tale esemplare lavoro.

Variazioni per un viaggio d’inverno per la quale lo stesso essere umano è obbligato a cambiare volto (Buildinghead). Labirinti piranesiani nei quali si può sopravvivere tramite l’«accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più», o forse e meglio il «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (Calvino, Le città invisibili). La bituminosa trama nera, ricorrente in Matti, ad un certo punto si dipana: il colore e la confusione si schiariscono lasciando spazio ad una porzione di cielo, luminoso e imprevedibile. Aroldo Marinai (1941) si perde, invece e nuovamente, in quella natura selvaggia che accompagna il genere umano dalla sua nascita ed ancor prima; natura che l’attuale era geologica dell’Antropocene sta lentamente cancellando, ma che oggi come ieri ci fa percorrere gli stessi cammini dei nostri avi illustri. La racconta e la cataloga in

maniera precisa, questa geografia floristica, Boccaccio nel suo De montibus sulle tracce della tradizione biblica e dei classici greci e latini, dove le silvae sono luoghi di passaggio, di smarrimento e di (ri) scoperta, e dove le paludes attraversate possono essere, anche, quelle stìgie dell’Oltretomba, che secondo il Virgilio epico circondano la reggia di Dite. E la racconta su tela Marinai nella serie De silvis, con tratto leggero e veloce, inoltrandosi in camminamenti che attraversano e deviano, in boschi e in foreste, nei quali il solo sentiero attuabile è una doppia linea, decisa – prolungabile all’infinito. Enrico Pantani (1975), infine, intraprende il viaggio morale, spirituale ed intellettivo dell’Uomo, dove la mente risulta essere luogo immateriale di conflitto e risoluzione, di dualità e cambiamento. La figura del Matto si aggira in paesaggi interiori non rassicuranti, nei quali il sentimento di spaesamento,

che è di oggi ed è di sempre, è la spinta propulsiva verso un equilibrio stabile. Tra i tòpoi letterari per eccellenza, la follia sfugge alla norma; ed è perciò che nel periodo pre-Riforma Brant ammassa tutti i folli su una nave – das Narrenschiff – diretta verso il Paese della Cuccagna. Ma la navigazione di Pantani, fatta di vignette iconiche e sferzanti, di colori brillanti e sarcasmo noir, contiene in nuce l’essenza stessa della trasformazione; il Matto non avanza verso la perdizione ma al contrario verso un inevitabile seppur drammatico (ri)trovamento del sé nello stato animale (Balena Squalo).


30 GENNAIO 2016 pag. 17 Filippo Mannucci mannuccif@gmail.com di

N

o, non dovete giocare alla lotteria, e neppure non uscire di casa per paura della classica tegola. Anche se in questi giorni prima dell’alba è possibile vedere insieme tutti i 5 pianeti classici (visibili a occhio nudo) potete continuare a fare le cose solite. A parte una volta alzarsi un po’ prima dell’alba per vedere il raro “allineamento”: per alcuni giorni prima del sorgere del Sole i 5 pianeti più la Luna saranno visibili verso est e verso sud. Dato che tutti gli oggetti maggiori del sistema solare si muovono circa sullo stesso piano, dal punto di vista della Terra percorrono la stessa fascia del cielo, cioè le dodici costellazioni dello zodiaco. Le loro orbite hanno velocità diverse, più il pianeta è lontano dal Sole più è lento. Per questo

Un super allineamento di pianeti OSSERVATORIO DI ARCETRI

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VISTA ALTO-AZIMUTALE DEL CIELO PER IL GIORNO 31-01-2016 Localita’: Firenze

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Z

80

Ercole

7 h 00 m 00 s

LATITUDINE

43 o 45’00"

LONGITUDINE E.

0 h 45 m 00 s

80

Boote

60

TEMPO CIVILE

60

Corona Boreale GEMMA

Chioma di Berenice

Serpente

40

40

Piccola Volpe

20

Vergine

Ofiuco

ALTAIR

Scudo

Aquila

Bilancia

20

ANTARES

Corvo Idra

Scorpione

Cratere

Lupo

E

Sestante

S

90

120

R. Andreoni - G. Forti 1996

= f i n o a 1.5 magnitudini = da 1.6 a 2.5 magnitudini = da 2.6 a 3.5 magnitudini = da 3.6 a 4.5 magnitudini

150

180

QUADRANTE SUD ECLITTICA

EQUATORE CELESTE

210

LUNA: Fase = 0.58 0.42 dopo la Luna Piena

240

W

Pianeti visibili MERCURIO VENERE MARTE GIOVE SATURNO

270

motivo la loro distanza reciproca varia, così come la possibilità di osservarli di notte. La cartina riporta la loro posizione alle 7 della mattina del 31 gennaio, poco prima del sorgere del Sole. A parte la Luna che si sposta nel cielo di circa 15 gradi al giorno, le posizioni dei pianeti cambiano poco con la data, mentre in un dato giorno tutto si sposta verso est a passare delle ore. Per osservare questi oggetti non serve andare molto fuori città, sono oggetti di piccole dimensioni che si osservano bene anche se il cielo non è particolarmente buio. Se però avete a disposizione un binocolo o un telescopio portatelo, gli anelli di saturno e i satelliti Medicei di Giove sono sempre uno spettacolo!


lectura

dantis

30 GENNAIO 2016 pag. 18

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Di facili costum, donna scorretta, era Taide, io lessi in Cicerone, procuraa fanciulle in tutta fretta

ad una che credevo al Purgatorio, ad occhio poi non mi parea bellezza, ma chi son’ io per far liberatorio?

ma l’orda dei pellegrin avea accettata. Nella fetida melma ben ci stava, duchessa per il retro assai ammirata,

e chi sa di Terenzio ne ha visione. Ma della pena quel gruppo è meritorio? Mi chiesi facendone allusione

Toglierla non poteo dalla durezza. In Alemagna d’oriente ell’era nata e l’impero guidò con sua fermezza

il popolo d’Albion molto l’amava, ma pur con la Reina, novantenne per arrivar sul tron fu cosa grava, presso di lei una bianca di cotenne che tutto il mondo tenne col guinzaglio e dei quattrin non fece mai le strenne.

Canto XVIII 8° cerchio 2a bolgia

Immerse in un fiume di merda, tra le molte meretrici chi è Taide “ che la si graffia con le unghie merdose “ ? Il Divino Poeta si avvicina e la riconosce. Insieme a lei si vedono Angela l’ Alemmanna dell’Est, Caterina di Britannia, Cristina La Bianca de’ Quattrini,...)


L immagine ultima

C

30 GENNAIO 2016 pag. 19

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

entral Park, manifestazione contro la guerra del Viet-Nam e contro l’impiego di sostanze chimiche e defolianti usate in abbondanza dall’esercito americano. Come si può ben vedere non ci sono solo i giovani a protestare. E’ una folla composta da persone di tutte le età che, a cadenza ormai quasi quotidiana, riempie ormai le strade del centro di New York per tenere sempre accesi i riflettori su questa sciagurata guerra che tanti lutti ha già portato, non solo tra la popolazione vietnamita, ma anche tra le fila delle forze armate d’occupazione.

NY City, agosto 1969


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