Cultura Commestibile 194

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Con la cultura non si mangia

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N° 1

“Quando il viaggio diventa un momento da condividere a prescindere dalla meta� Testo di uno spot della Bmw

Contesto editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012


Da non saltare

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Barbara Setti twitter @Barbara_Setti di

Per noi è un grande risultato riuscire a esporre anche in via di allestimento le navi e mostrarle al pubblico, una grande soddisfazione che corona tanti anni di attività di progettazione e di esecuzione di un restauro estremamente complesso. Il museo è in via di allestimento, ci vorranno ancora due anni almeno per completarlo, ma nel frattempo si potranno vedere le prime navi restaurate: la Nave A, il traghetto I, la piroga e la nave D, un grande relitto di nave fluviale, di proporzioni e con uno stato di conservazione veramente considerevole.” Così ha esordito Andrea Camilli, Direttore Scientifico del cantiere e Progettista e Direttore dei Lavori del Museo nella giornata di apertura al pubbliche di due degli otto padiglioni di cui sarà composto il museo. Per chi ha avuto la fortuna di lavorare, in questi 18 anni, al cantiere della Navi Antiche di Pisa, questa è stata una giornata di grande soddisfazione, nel vedere il concretizzarsi di un percorso, lungo, difficile, irto di ostacoli scientifici e amministrativi. La scoperta risale al 1998, quando le ferrovie iniziarono uno scavo presso la Stazione di Pisa San Rossore. Emersero oggetti di legno di cui gli archeologi compresero subito l’eccezionale valore. Da lì iniziò il grande cantiere-laboratorio delle navi. Oggi che gli scavi sono terminati (anche se il deposito non è esaurito), si contano trenta relitti, tra navi integre e frammentarie, e migliaia di reperti. Per capire l’area, bisogna immaginarsi il territorio, in epoca romana, appena alle spalle di un delta fluviale complesso, perché ramificato e in continuo movimento. Poco a monte dell’Arno, che allora scorreva poco distante, si trovava un bacino naturale del fiume Auser, l’antico Serchio. Non si trattava di un porto vero e proprio, ma di una zona portuale, dove si trovavano navi alla fonda. Non c’erano solo navi da mare, ma anche piroghe e navi di fiume, proprio per il carattere “ibrido” dell’area. Il percorso dell’Auser fu inciso da canali che coincidevano con

Naufragio con spettatore le maglie della centuriazione. Questa strategica organizzazione del territorio causò però periodici disastri a causa della difficoltà dell’assorbimento delle piene fluviali: la portata d’acqua non veniva assorbita dal mare tornando indietro con estrema forza e causando, nelle navi in rada nel bacino dell’Auser, il loro naufragio. Questo avvenne circa ogni 80/100 anni da età augustea (015 d.C.) fino al V secolo d.C., a quanto ci testimoniano gli scavi. In questo cantiere, oltre a scavare le navi e i reperti, sono stati individuati i resti delle alluvioni che hanno causato il naufragio delle imbarcazioni (sedimenti) e i diversi fondali che si sono formati nel corso del tempo e dalle turbolenze che, a più riprese, hanno sconvolto i depositi alluvionali. I materiali – ceramica,

oggetti in legno, corda, cuoio, resti vegetali e di fauna, relitti – sono stati rinvenuti negli scafi o nelle porzioni dei relitti, nei carichi delle imbarcazioni o nei fondali, caduti presumibilmente durante i trasbordi da un’imbarcazione all’altra, in seguito ad attività di pesca o al trasporto di legname. A complicare la situazione è naturalmente l’azione delle correnti, che hanno eroso gli strati più antichi, trascinando i materiali originariamente contenuti e rimescolandone i contesti. L’eccezionale stato di conservazione dei reperti ha condizionato l’attività di scavo, che ha dovuto evitare che le parti in legno fossero eccessivamente esposte agli agenti atmosferici e garantire allo stesso tempo una completa documentazione scientifica. È solo l’ambiente

umido, infatti, che consente la conservazione dei reperti. Il legno, conservatosi sott’acqua in assenza di ossigeno, è riuscito a mantenere la sua struttura anatomica: la mancanza di ossigeno impedisce a funghi e batteri di proliferare e di intaccare la cellulosa e la lignina, componenti fondamentali del tessuto cellulare. I tecnici di cantiere hanno studiato un preliminare sistema di protezione dei reperti con pannelli in vetroresina. Durante lo scavo, i relitti sono stati liberati dal terreno secondo il metodo proprio dello scavo archeologico, e dai pannelli in vetroresina, procedendo per piccole fasce di 50 centimetri/1 metro, rilevate tridimensionalmente con il sistema Laser Scanner 3D, e quindi nuovamente protette con un tessuto in grado di trattenere l’umidità. Per garantire l’umidità necessaria, si è fissato sui reperti un impianto di nebulizzazione, progettato espressamente per ogni imbarcazione, A questo è stato sovrapposto un nuovo guscio di vetroresina in grado di preservare l’imbarcazione durante il sollevamento, il trasporto e la messa a dimora. Nella successiva fase di restauro l’imbarcazione è stata incapsulata in un guscio in vetroresina, fissata a un telaio metallico e quindi sollevata e spostata in laboratorio.


Da non saltare

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Non si è aperto tutto il Museo, all’interno degli Arsenali Medicei sul lungarno pisano. Per vedere i quasi 5 mila metri quadri di esposizione si dovranno aspettare ancora un paio d’anni. Quello che d’ora in poi si potrà visitare, solo su prenotazione, guidati dagli archeologi e dai restauratori che hanno curato lo scavo e il restauro, saranno due padiglioni: il padiglione IV, che introduce le tecniche di costruzione delle navi in epoca romana ed espone la nave da trasporto A (fine del II sec. d.C.) con il suo materiale di bordo fatto soprattutto di anfore. Nel padiglione V saranno in futuro esposte tutte le navi restaurate e a oggi ne presenta al pubblico 4: la grande nave D, che è in corso di montaggio sulla sua struttura metallica, una nave da fiume per il trasporto di sabbia che per le sue dimensioni e il suo peso era trainata da riva da bestie da soma; il traghetto I (fine II d.C. - inizi III sec. d.C.), a fondo piatto, una barca costruita interamente in quercia che serviva per il trasporto delle merci lungo le vie fluviali e manovrata a riva da un argano; la piroga F, sempre in legno di quercia, con la prua scolpita in un unico blocco in legno e con la forma asimmetrica come le gondole, per essere pilotata da un solo lato; è datata agli inizi del II sec. d.C.. È esposta anche la ricostruzione della Nave C, una cosiddetta liburna, cioè una nave da pattugliamento; consistenti tracce di colore del relitto hanno permesso di riprodurre il colore originario dello scafo, bianco, con rifiniture in rosso e il nero per il simbolo dell’occhio, una sorta di comune “portafortuna” a protezione delle avversità di chi va per mare. Altro particolare interessante, è l’unica nave in cui è stato ritrovato, sul banco dei rematori, inciso il suo nome, alkedo, che significa gabbiano. “Delle 30 navi rinvenute”, spiega Laura Franci, direttore Tecnico del cantiere di restauro per Cooperativa Archeologia “5 sono sostanzialmente integre. Di queste, due sono state restaurate per intero: avvolte nel guscio in vetroresina e messe a bagno in un prodotto specifico, la Kauramina. Le altre tre

Dopo 18 anni il Museo delle Antiche Navi apre le porte a Pisa

sono state smontate e sono state separate elemento per elemento e ricomposte poi al Museo delle Antiche Navi di Pisa, secondo i criteri di ritrovamento sullo scavo: la cosiddetta Nave A è adagiata come è stata ritrovata nell’area di scavo, la I per esigenze di conservazione è stata chiusa in un guscio in vetroresina. La Nave F è stata restaurata per intero, senza smontaggio. Queste quattro navi sono state restaurate in due anni, dal 2013 al 2015. Bisogna considerare che, a seconda delle dimensioni degli elementi, varia anche il trattamento. Il trattamento con la Kauramina, infatti, impregna il legno per un centimetro circa al mese. Ogni volta è stato quindi necessario fare una valutazione delle dimensioni del singolo pezzo e del suo spessore.” www.navidipisa.it


riunione

di famiglia

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Le Sorelle Marx

Cene eleganti a Firenze

Abbiamo partecipato anche noi alla benemerita cena di solidarietà organizzata dalla Fondazione “Filippo Turati” all’Obihall di Firenze, con lo zampino del mitico Graziano Cioni, qualche sera fa. Non potevamo mancare perché c’era tutta la Firenze popolare che conta. Menù minimalista, ma che importa: la causa è buona e quanto basta. Ma era soprattutto sul palco che la serata ha dato il meglio di sé. Poteva forse mancare il siparietto musicale del sindaco Nardella con il suo fido violino? No, certo. E, infatti, eccolo lì inforcare un violino (che, ha tenuto a precisare, non è il suo e questo spiega perché proprio non gli rispondeva) e sorprendere gli oltre mille commensali con un pezzo davvero raro ed eseguito con ancor più rara maestria: nientepopodimenoche... la “Mattinata fiorentina” di Odoardo Spadaro! Il fiorentinume è proseguito con Riccardo Azzurri che ha cantano Massimo Cavezzali cavezzalicartoons@hotmail.com di

una canzone anch’essa originalissima di Aleandro Baldi, “Firenze madre”, dal testo profondo e indimenticabile: “Firenze madre, Firenze viola, la gente vince, non è più sola”. Abbiamo temuto che da un momento all’altro salisse sul palco Bob Dylan a cantare “115th Florence dream”. Ma la serata ha offerto di meglio: un Eugenio Giani in grande spolvero che ha voluto spiegare all’uditorio, ormai giunto alla carne arrosto con patatine e soprattutto al vino rosso, che Filippo Turati “inventò a essere riformista!” E così, di artista in artista, passando per promesse economiche e panettoni Conad, romanze verdiane e cotillon, la serata si è distesa fino al finale. Iniziativa veramente pregevole, ma impreziosita da questi saltimbanchi e dalle clownerie della politica cittadina che solo la nostra piccola cittadina di provincia sa regalare.

Scavezzacollo

I Cugini Engels

Il filibustiere del Cilento

Montecitorio, interno giorno. Un preoccupatissimo Gianni Cuperlo cerca di guadagnare gli scranni del Governo per interloquire con il Presidente del Consiglio. “Matteo, ma ti rendi conto cosa ha detto quel filibustiere del Cilento? “Ma chi, Gianni? Di chi parli? Stai calmino che ti piglia una sincope: non mi sembri il tipo da reggere queste botte di adrenalina. Che succede, dillo al presidente tuo” “Non fare lo spiritoso, lo sai benissimo: Vincenzo De Luca ha detto delle cose terribili su Rosy e poi ha detto ai suoi di promettere qualunque cosa alla gente per farli votare Sì al referendum. Lo sai come si chiama questo? Voto di scambio! Se non lo fermi subito, cambio idea e voto No” “Siiiii, stai buonino, che se dici di votare No non ti crede più nessuno e noi del Sì facciamo il pieno di voti. Comunque, dai, lo sai che Vincenzo è un mattacchione: avrà fatto una battuta. Magari era Crozza travestito da De Luca. Comunque, per farti stare tranquillo parlo subito con Luca Lotti e sistemo la cosa”. “Va bene, ma se mi prendi in giro ancora una volta, torno a Trieste e non mi vedi più” Il premier, fra sé: “Volesse Iddio! Va beh facciamo anche questa. Ma cosa mi tocca fare per il Pd: manco fossi il segretario. Ah già, ma lo sono.... Pronto Lotar? Senti, come sta questa cosa di De Luca che avrebbe fatto dichiarazioni un po’ avventate sul referendum?” “Ah Matteo, hai sentito? Grandeeeeee! Vincenzo è un mito! In Campania si fa il pieno e stron-

chiamo così le corna anche a quel guappo di De Magistris: una fava con du’ piccioni. Ho architettato tutto io: eh, che te ne pare? Dai, dimmelo che sono meglio di Richelieu!” “Ho capito Luca, ma c’ho qui Cuperlo sull’orlo di una crisi di nervi; quegli schifiltosi della Repubblica che magari ci ripensano e votano no; e i grillini che ci spaccano le palle su questa vicenda...” “Ma scusa Matteo: Cuperlo si sa conta meno del due di cuori quando briscola è fiori, i voti dei campani sono ormai il triplo dei lettori di Repubblica e i grillini vadano pure a frinire alle Cascine. E poi Vincenzo si è ispirato direttamente a te, mi ha detto. Io ho dichiarato che siccome lui sta dando una mano al Pd per spiegare agli elettori le ragioni del Sì, chissenefrega delle altre dichiarazioni!” “Mah, se lo dici tu... Ma che posso perdere tempo con queste scemenze io...” “Ma ho degli altri colpi in canna di questo tipo: quella Gialla dei Teletubbies che spiega la riforma ai bambini che la spiegano ai loro genitori (tanto non ci ha capito nulla nessuno, quindi tanto vale la Gialla!). Leoluca Bagarella e Totò Riina organizzano uno spettacolino di varietà con i pupi per convincere i siciliani. Poi ho inventato un videogioco che va fortissimo: Call of Duty: ammazzare un D’Alema al giorno toglie il medico di torno. Una figata: te lo porto così ci giochi con Orfini!” “Va bene, Lotar: mi hai convinto. Sali su da me, che accendo la consolle”


26 NOVEMBRE 2016 pag. 5 Danilo Cecchi danilo.c@leonet.it di

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aston Paris (1903-1964) non ha che venticinque anni quando Lucien Vogel (1886-1954) fonda a Parigi la rivista “VU”, una delle principali riviste europee illustrate fotograficamente del periodo fra le due guerre. Forse è bene ricordare che le riviste, illustrate fotograficamente, nascono in Europa negli anni Venti, fra la Germania e la Francia, con buona pace degli americani che si sono assunti indebitamente il merito di questa invenzione. Henry Luce con il suo “LIFE” arriva con dodici anni di ritardo rispetto alla tedesca “AIZ” e con otto anni di ritardo rispetto alla francese “VU”, ma grazie alle “Storie” scritte e divulgate dagli americani, tutti conoscono “LIFE” e pochi ricordano “AIZ” e “VU”. Così come pochi ricordano il fotografo Gaston Paris (dal nome così perfetto che sembra falso), che della rivista “VU” diventa una delle colonne portanti, per ciò che riguarda l’aspetto fotografico, aspetto che la redazione di “VU” cura in maniera particolare, fino dalla scelta del nome della rivista (passato del verbo “voir” - vedere). Nel corso di tutti gli anni Trenta Gaston Paris mette il suo poliedrico talento al servizio dell’informazione, fotografa la cronaca, gli avvenimenti, le cerimonie, i personaggi dello spettacolo, della politica e della cultura, frequentando tutti gli ambienti parigini, dai più popolari ai più élitari. Alla rivista contribuiscono, in maniera più episodica, altri fotografi di nome, da Laure Albin-Guillot a Germaine Krull, da André Kertész a Martin Munkacsi, da Cartier-Bresson a Brassai, fino a Man Ray e Robert Capa. Fortemente impegnata politicamente in senso antifascista, e curata per un certo periodo dall’art director Alexander Liberman, “VU” svolge un ruolo innovativo anche nel campo della grafica e dell’impaginazione, oltre che nella scelta dei temi e delle immagini di copertina, e viene pubblicata dal marzo del 1928 fino al maggio del 1940. Con lei Gaston Paris cresce, ma in maniera defilata, realizzando migliaia di imma-

Gaston Paris e l’epopea di

Vu gini e contribuendo a formare un imponente archivio di oltre quindicimila negativi, che alla sua morte viene rilevato dall’agenzia Roger-Viollet. L’attività fotografica di Gaston Paris non si limita alla collaborazione con “VU” e si esplica, oltre che nelle ricerche personali, nella realizzazione di immagini dal sapore leggermente surrealista destinate all’illustrazione delle copertine dei romanzetti “polar” o “noir” della serie “Détective”, in cui volti truci ed enigmatici si alternano a quelli di sofisticate “femmes fatales”, e vengono mimate le più sordide scene criminali. La distanza fra le rigorose ed impegnate o raffinate copertine di “VU” e quelle fantasiose e sovraccariche di “Détectives” rappresentano due mondi solo apparentemente inconciliabili. La differenza fra il realismo della cronaca, da quella rosa a quella nera, ed il surrealismo della narrativa popolare, non appare poi così incolmabile nelle immagini di Gaston Paris. Le immagini degli uomini volanti del Circo Medrano, delle ballerine seminude delle Folies Bergéres, dei concorsi di bellezza in costume da bagno alla piscina Molitor, delle sfilate di alta moda in cui manichini e modelle si confondono, hanno un che di surreale, pur essendo legate ad eventi più che reali e più che concreti, così come le sovrabbondanti immagini di improbabili delitti, agguati o esecuzioni criminali, non sono che l’eco e la raffigurazione simbolica di un certo sottobosco parigino in cui le attività criminali sono fatti ricorrenti e più che concreti. La grandezza di Gaston Paris sta nel congiungere gli estremi, nel trattare l’ordinario come se fosse straordinario, e l’immaginario come se facesse parte della quotidianità. A più di mezzo secolo dalla sua scomparsa, il suo archivio conserva ancora molte sorprese per chi sappia o voglia addentrarvisi senza pregiudizi.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 6 Laura Monaldi lauramonaldi.lm@gmail.com di

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irenze ha perso inaspettatamente una delle sue figure artistiche di maggiore rilevanza. Gianna Scoino si è spenta improvvisamente, lasciando inerme la città che le aveva aperto la strada a una carriera pittorica internazionale e a importanti riconoscimenti nel campo della pittura e dell’educazione artistica. Fin dagli anni Sessanta aveva portato avanti una personalissima ricerca sui materiali e su texture particolari attraverso l’uso di tessuti, carte e fotografie, offrendo allo spettatore un linguaggio poliedrico e sapientemente combinato. Volti, segni, scritture, sguardi e cuciture entrano in contatto con il mondo personale dell’artista: una dimensione fatta di ricordi, sogni, riflessioni ed evanescenze, una dimensione intima e soggettiva che non guarda alla tradizione ma procede in autonomia contro le restrizioni e i circoli viziosi della cultura contemporanea. I volti appaiono assorti in strane ed oniriche introspezioni; le scritture si confondono con le trame dei tessuti; i simboli dialogano con i segni lasciati dal filo e dalle cuciture; il tutto appare come un canto soave e ammaliante nella totalità della costruzione sintattica della tela e delle carte. Le opere di Gianna Scoino fanno sognare e si lasciano leggere nella leggerezza dell’incanto contemplativo, dando allo spettatore il senso di appartenere a un mondo diverso ben lontano dalle logiche del canone. L’Arte per lei è stata uno strumento di riflessione e di messa in pratica, di conoscenza e di rivelazione: dalla singola sensazione, dal più piccolo evento emotivo e dalla propria forza creatrice, l’artista si è mossa nella direzione della scoperta delle infinite possibilità dei linguaggi attraverso cui poteva esprimere se stessa e realizzare il proprio Ego estetico. Dalla sperimentazione di linguaggi e materiali sono scaturite opere uniche e originali che hanno riflettuto sul tema dello sguardo come presa di coscienza che il silenzio contemplativo che avvolge il mondo è capace di aprire la coscienza verso nuovi orizzonti. Allo stesso modo la pittura si fa materia viva e i segni intessuti

Addio Gianna al suo interno instaurano un intimo dialogo con il lettore che sa gustare il taglio poetico di una prassi artistica che non cede al

tempo, ma si pone oltre il tempo e lo spazio alla ricerca simbolica dell’ignoto e dell’introspezione. Quella di Gianna Scoino è stata

una poetica inattesa che ha colto nel simbolo e nelle trame misteriose dell’ordito e del colore la forza comunicativa ed espressiva.

Sopra Silence, 2009 Stampa su tessutonontessuto, ovatta e filo es. unico La bombetta dello sciamano, 2000 Tarlatana e carta riso in forma di cappello cm. 14x30x21 Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato


26 NOVEMBRE 2016 pag. 7 Andrea Granchi studiogranchirestauri@gmail.com di

L

a scomparsa di Gianna Scoino, artista, insegnante e donna di speciale autorevolezza, apre un vuoto difficilmente colmabile nel variegato mondo dell’arte contemporanea. Si era formata tra gli anni ’60 e ’70 all’Accademia di Belle Arti di Firenze alla Scuola di Pittura di Fernando Farulli ma la sua natura volitiva e indipendente l’aveva ben presto avviata a percorrere una singolarissima ricerca, rivelatasi ben presto tra le più rigorose della sua generazione. Ineguagliabile la sua capacità di manipolazio-

fermamente centrale come una sorta di “risarcimento”, di rivalsa, per una condizione di subalternità del mondo femminile da lei sempre fermamente combattuta con le armi di un linguaggio di straordinario e lucido equilibrio, di innata e finissima orditura, di grande forza evocativa e simbolica. Significativo il suo lungo ruolo di insegnante all’Accademia di Belle Arti di Firenze avviato nel 1975 e concluso poi nel 2012. Di questo lungo tempo ho avuto il piacere di condividere con lei un largo spicchio quando, nel 2001, rientrai anch’io a Firenze dopo quasi

Nel segno della leggerezza

ne dei materiali più disparati: dal vetro - di cui ha lasciato mirabili esempi nelle vetrate (1987) del Teatro della Compagnia a Firenze - fino all’opera in forma di libro d’artista, di cui era attenta cultrice, con una predilezione, nella parte centrale della sua lunga e variegata attività artistica, per l’utilizzo di carte e tessuti, in particolare i più leggeri e trasparenti, come la tarlatana e l’organza. Nel suo lavoro è sempre stata presente la ricerca di texture particolari che riusciva a ottenere assemblando mirabilmente carte di riso, tele e applicazioni tramite preziose cuciture-colore accostate poi a un raffinato ed evocativo utilizzo di impronte fotografiche e disegni. Di singolare valore numerosi cicli di opere in cui univa caratteristiche e segni legati alla più alta cultura fiorentina del Disegno con il suo interesse per l’oriente e il mondo mediterraneo da cui era da sempre affascinata e che corroborava con viaggi o permanenze di lavoro (Grecia, Turchia, India…), che le hanno valso importanti mostre come quella del 2004 a Palazzo Pitti incentrata sui suoi Kimono. Forte e ricorrente la presenza dell’iconografia femminile nel lavoro di Gianna sempre tenuta

una vita in Accademie di altre città. Ci conoscevamo già fin da giovani, ma fu bello ritrovarsi, ci intendemmo dunque subito e fu esaltante lavorare assieme e condividere la cattedra di Pittura circondati da giovani provenienti da tutto il mondo e che mantengono ben salda la sua memoria come dimostra la straordinaria ondata di affetto e di costernazione che ha invaso letteralmente il web una volta appresa la notizia della sua improvvisa e prematura scomparsa. Quando, ed è la storia più recente, la nominammo nel 2014 Accademica delle Arti del Disegno accogliendola per i suoi meriti artistici, prima donna nella storia recente, nella Classe di Pittura della più antica Accademia del mondo occidentale, ella ne fu orgogliosa e dette subito un contributo di eccellenza con l’installazione “Corpi aerei” in occasione dell’esposizione “Tema con variazioni” che allestimmo con la Classe di Pittura nella primavera del 2015 nelle Grotte di Villa Salviati. Ci mancherà Gianna Scoino, la sua intelligenza, le sue sollecitazioni, il suo spirito vivace e ribelle, ma il suo lavoro, il suo Sguardo crudele, continuerà ad accompagnarci a lungo nella nostra vita.

Sopra Sposa di guerra Sotto Prove di colore (foto Massimo Chiacchio)


26 NOVEMBRE 2016 pag. 8 di

Francesco Gurrieri

I

l “teatro di ricerca”, temporaneamente assente dallo scenario regionale (e fors’anche nazionale) entra all’università, luogo deputato alla trasmissione e all’elaborazione della cultura. Prima con un ciclo di letture-presentazioni, assai vivaci e partecipate, ora nella dismessa e non ancora restaurata chiesa di Santa Verdiana, prossima al “Chiostro delle Geometrie”, nell’ambito del meritorio Laboratorio sperimentale di teatro della Facoltà di Architettura (oggi declinata a “Dipartimento”), diretto da Carlo Terpolilli. Anche gli studenti sono stati coinvolti, consentendo loro una riflessione non solo teorica ma anche reale: un esercizio pragmatico, usando mani, tavole martello e chiodi, forbici e colla, con le quali hanno forse “costruito” il loro primo progetto. Un traliccio di tubolari metallici, pannelli e uno schermo nel chiostro, un telaio ligneo più complesso a costituire il supporto di una simulata cascata da cui scende violenta l’acqua, nell’allestimento scenico all’interno della chiesa. Giancarlo Cauteruccio ha progettato e realizzato una singolare “performance immersiva” intitolata “Idrosss”. Il riferimento e, forse, l’occasione, corrono alla disgraziata alluvione del novembre 1966, quando l’acqua dell’Arno, con una violenza mai vista dalle ultime generazioni di cittadini

di

Remo Fattorini

Segnali di fumo La riforma della Costituzione su cui siamo chiamati al voto il 4 dicembre non mi piace. In politica, e non solo, i compromessi servono. È comprensibile che si approvi una legge o un altro provvedimento anche se non si condivide totalmente. Ma la Costituzione si approva solo se si è convinti. Se è scritta male, se ci fa tornare indietro, se restringe gli spazi di democrazia e di partecipazione, se riduce solo a parole i poteri del palazzo ma rafforza quelli dei palazzi romani (la parte

La ricerca di Cauteruccio

fiorentini, invase la città. Certo, chi a qualche titolo – “angelo del fango” o meno – partecipò a liberare persone, monumenti, libri e quadri dalla melma e dalla nafta di quei giorni, ha ancora sulla pelle quell’esperienza. Ma come simularla, come trasmettere, oggi, quella sofferenza e quell’ansia e quella violenza? È l’interrogativo che deve essersi posto il nostro regista nell’immaginare una messa-in-scena che non fosse solo evocazione storica, ma un’immersione, una con-fusione con un fondamentale “elemento di natura”, con l’acqua, la sua violenza e la sua maledetta furia distruttrice. La messa in scena sull’Acqua sembra doversi inquadrare in un programma annunciato: una “quadrilogia” ( o “tetralogia”)

dedicata agli elementi di natura, Acqua, Aria, Terra, Fuoco. Vedremo. Intanto godiamoci questa impressionante, emozionante, sconcertante realizzazione, costruita con quella cifra artistica propria a Cauteruccio: la dinamizzazione e la modulazione della luce, dei suoni, dell’immagine, costituita questa da un’amalgama davvero unica della violenza dell’acqua e dalla interpretazione di una figura femminile (meravigliosamente interpretata da Chiara de Palo) che, muovendosi ora lentamente, ora violentemente, è a rappresentare la potenziale violenza dell’acqua, ma anche la sua dolcezza. Un’Acqua che, nel suo momento più intenso, grida disperata per poi, progressivamente calmarsi, fino ad invocare il ritorno – dolce

e silenzioso – alla sua origine, alla sorgente. La parte dinamica dello spettacolo è preceduta da un “introibo”: una lettura di Leonardo da Vinci, sincronicamente accompagnata dagli splendidi disegni a sanguigna delle pagine dei suoi Codici. Leonardo è letto da Roberto Visconti, il commento musicale è di Gianfranco De Franco, le belle elaborazioni video di Massimo Bevilacqua. È un regalo per pochi spettatori, per ragioni di spazio ma fors’anche per costringere a un coinvolgimento fisico ed emotivo, un’immersione, appunto. Il risultato è di grande suggestione. E conferma come Giancarlo Cauteruccio sia oggi, nel nostro Paese, uno dei rari registi sperimentatori d’avanguardia.

più inefficiente e costosa di tutta la pubblica amministrazione), beh allora non si può votare, né approvare. È una riforma che interessa molto ai politici. Tanto che si scambiano insulti e accuse, mezze verità e intimidazioni, con toni spesso sopra le righe. Mentre da parte degli elettori prevale il disincanto, l’incertezza e l’astensione. Un brutto clima che non aiuta certo a capire. Tra le tante campagne elettorali che abbiamo vissuto questa è la più velenosa e la più lunga: se ne parla da mesi come fosse il problema dei problemi. Se n’è parlato tanto ma, guarda caso, un aspetto – non affatto secondario – è rimasto nell’ombra. È la questione sempre più anacronistica delle Regioni a statuto speciale. La loro abolizione

farebbe risparmiare allo Stato 14 miliardi e 476 milioni: 29 volte di più rispetto a quanto previsto con la riforma del Senato. La spesa pro capite di queste 5 regioni è tre volte più alta delle altre 15. Si va dagli 11.125 euro per abitante della Val D’Aosta ai 9.290 del Trentino per poi passare ai 3.338 euro dell’Umbria, ai 2.920 del Veneto o ai 2.988 del Piemonte. Altro paradosso: la riforma prevede che i consiglieri regionali abbiamo un compenso uguale a quello dei sindaci capoluogo. Ma nelle 5 regioni speciali non si applicherà. Lì continueranno a guadagnare come prima. Differenze ingiustificate e di difficile comprensione. Buon

senso vorrebbe che tutte le regioni italiane fossero trattate allo stesso modo e con la stessa autonomia, senza più cittadini di serie A (quelli delle 5 regioni speciali) e cittadini di serie B delle altre regioni. Oppure, visto che si vuole modernizzare e rendere più efficiente la macchina pubblica, trasferire la stessa autonomia anche alle 15 regioni ordinarie, sgonfiando lo Stato centrale, i ministeri, i tanti uffici statali sparsi nel territorio, spostando le sedi decisionali più vicine ai cittadini. In poche parole attuare quel federalismo di cui si è parlato tanto ma si è fatto poco e in maniera confusa. In pratica, il contrario di quanto previsto dalla riforma Renzi-Boschi.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 9 Alessandro Michelucci a.michelucci@fol.it di

M

olti compositori italiani hanno sviluppato un rapporto particolare con un paese straniero fino a trasformarlo in una seconda patria: da Ferruccio Busoni (Germania) a David Sylvian (Giappone), da Giambattista Lulli (Francia) a Giuseppina Torre (Stati Uniti). Ma soltanto Alessandra Garosi, almeno in tempi recenti, si è spinta fino alla remota Australia. La pianista senese, della quale abbiamo già parlato in passato (nn. 96 e 103), non si è limitata a soggiornare nell’isola per periodi più o meno lunghi, ma si è dedicata allo studio della musica contemporanea australiana. Una scelta insolita e stimolante, grazie alla quale ci ha permesso di conoscere un universo musicale ingiustamente trascurato. Il suo legame con questo paese nasce grazie a Sonya Hanke, la sua prima insegnante di piano, una musicista australiana che vive per alcuni anni a Siena. Nel 1983 questa la invita in Australia. Il soggiorno segna l’inizio del suo legame con il lontano paese, che assumerà un rilievo centrale nella sua carriera. Successivamente ci torna a più riprese, stabilendo numerosi contatti con alcuni musicisti locali. Da queste collaborazioni nascono dischi e concerti:

Grazia Pantano graziapantano21@libero.it di

Esistono donne emananti un particolare fascino, non sempre corrispondente con l’oggettiva bellezza, ma che riescono a scatenare l’immaginario maschile. Nel passato, molti artisti hanno più volte ritratto queste ammaliatrici, facendole divenire le loro muse ispiratrici. Osservando alcune immagini fotografiche degli anni ‘ 20-’30, ho potuto constatare che molte sono state le “donne icone” e tra loro, anche Theda Bara. Theodora Burr Godman (questo era il suo nome) nacque a Cincinnati nel 1885 e divenne famosa dal 1914 alla fine degli anni ‘20, interpretando sulla scena (probabilmente anche nella vita) il ruolo di donna libera sessualmente. Ecco la prima “Donna fatale, o vamp”, ossia vampira.

Grande come l’Australia

insieme al sassofonista Adam Simmons realizza The Melting Pot (Ema Records, 2014). Il CD successivo, Sky Circle (Ema Records, 2015), viene registrato dal vivo alla Sydney Opera House. Il programma include composizioni di due autori importanti australiani, Peter Sculthorpe e May Howlett. Un omaggio specifico a quest’ultima è il nuovo CD, May in Black and White (Wirripang, 2015), dove la pianista senese propone sette composizioni di May Howlett. Fra l’altro, sia detto per inciso, non capita spesso che una musicista italiana registri con una casa discografica australiana. I brani scelti, composti fra il

1995 e il 2014, riescono a dare un panorama piuttosto ampio della musica composta da questa artista, attiva anche come attrice teatrale. Questo è un disco che Alessandra doveva realizzare, perché qui lo stretto legame con l’Australia viene espresso nella dimensione solistica che rappresenta la sublimazione di ogni pianista. La scelta viene sottolineata nel titolo, che allude al colore dei testi dello strumento. “The Bundanon Suite”, origi-

nariamente scritta per clavicembalo, è dedicata al periodo che May Howlett ha trascorso come artista residente al centro culturale di Bundanon. Come molti compositori australiani, primo fra tutti Peter Sculthorpe, la musica di May Howlett trova spesso ispirazione nella natura. Lo attestano titoli come “Salutes to the Sun”, “Boyd’s River” e “Waves”. La pianista si trova in perfetta sintonia con la musica, confermandosi interprete accurata e sensibile. L’amore per l’Australia, comunque, non le ha impedito di sviluppare un respiro internazionale, come attestano i suoi dischi e le sue collaborazioni. Ha suonato in tutto il mondo: dal Messico all’Irlanda, da Melbourne a Praga. Nei primi mesi del 2017 dovrebbe uscire il CD che ha realizzato insieme al trombettista tedesco Markus Stockhausen (figlio di tanto padre). Inutile dire che sarà l’occasione per parlare ancora di questa pianista grande come l’Australia.

Theda Bara, icona dal torbido fascino zione egizia (dal film Cleopatra del

Con i suoi occhi pesantemente bistrati, evidenziati dal bianco-nero delle pellicole, semisvestita e spesso fotografata con costumi di ispira-

1917), incarnò simbolicamente il prototipo di donna perversa e tentatrice. Il suo torbido fascino non lasciava alcuno scampo agli uomini, che prima ammaliava e poi metaforicamente distruggeva. Rolf Armstrong. Nato nel 1889 negli Stati Uniti, è stato un famosissimo disegnatore, grafico pubblicitario e illustratore di copertine di riviste americane. Le donne da lui raffigurate, sprigionano un fascino raffinato, patinato ed un sottile erotismo. Sue sono le copertine illustrate, con i volti di dive famose negli anni ‘30 e le pin up degli anni ‘50. Con ogni probabilità, Rolf si ispirò a Theda per la realizzazione di due immagini, in cui si riconoscono

i lineamenti somatici dell’attrice, privandoli però di quello sguardo torbido che la contraddistinguevano.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 10 Andrea Caneschi can_an@libero.it di

V

oi sapete cosa sia il Beghinaggio? Noi l’abbiamo appreso seduti al tavolo di un accogliente caffè, a metà di una bella giornata di sole trascorsa da turisti nella campagna belga. Sulla via del ritorno a Bruxelles, ci fermiamo a Kortrijk, cittadina a poco più di trenta chilometri da Ostenda, dove ammiriamo una grande chiesa gotica fiamminga e ci riposiamo infine nell’accogliente caffè di cui sopra. Mentre aspettiamo le ordinazioni, leggiamo una piccola targa sul muro accanto al nostro tavolo, e scopriamo di essere seduti nella sala da pranzo di quella che una volta era la casa della responsabile della comunità di beghine di Kortrijk. I beghinaggi erano dunque congregazioni laiche di pie donne, le beghine per l’appunto, che avevano scelto per necessità o virtù di vivere una vita riparata, quasi monastica, in questi luoghi separati, piccoli raggruppamenti di case spesso circondate da un muro a segnare ulteriormente l’isolamento delle comunità rispetto alla vita cittadina. Nati nel 12° secolo nelle Fiandre, i Beghinaggi hanno goduto di buona fortuna per oltre un secolo, espandendosi nella Francia settentrionale e in Germania, in molti casi strutturandosi nel tempo in comunità di centinaia o migliaia di persone, che erano spesso sostenute da munifici signori e si aiutavano con il loro lavoro in favore della comunità o verso l’esterno. Secondo gli storici avrebbero rappresentato una alternativa al convento per donne sole e bisognose, in epoche di grande insicurezza, segnate anche dal rarefarsi di uomini con cui fare famiglia, a causa delle crociate e delle frequenti guerre locali. Contrasti con la Chiesa ufficiale avrebbero più tardi indebolito il movimento, che tuttavia, tra rarefazione della presenza nei territori e nuovi picchi di diffusione, si è protratto fino ai nostri giorni. Ansiosi di capire di più, beviamo il nostro caffè e siamo subito fuori a visitare il complesso, quasi completamente restaurato e in parte abitato. Le costruzioni che stiamo ammirando risalgono

Voi sapete cosa sia il Beghinaggio?

al 17° secolo e testimoniano di una comunità piccola ma saldamente costituita. Si tratta di piccoli edifici a due piani addossati gli uni agli altri all’interno di un alto muro perimetrale con due ingressi muniti di porte; le abitazioni guardano all’interno, verso lo spazio comune, e sono accessibili attraverso minuscole corti private che fronteggiano ognuna di queste case, e sono delimitate anch’esse da un altro giro di mura, interno al primo, più basso e segnato da altrettante porticine ad arco, a misura evidentemente delle pie donne che lì vivevano. Colpisce la ripetitività del motivo costruttivo e l’uniformità del manto di intonaco, di un bianco che sembra appena steso, a forte contrasto con la fascia di un nero intenso dipinta alla base degli edifici, che lega insieme tutto il complesso e più ancora del muro esterno, che circonda la comunità, dà un senso di esperienza condivisa, di un piccolo mondo pieno di riferimenti interni, distinto dalla vita della città, ma – possiamo immaginare – non

estraneo. Interessati ad approfondire la conoscenza di questo fenomeno, ci rechiamo il giorno successivo a Lovanio, storica e ricca città delle Fiandre sede della più antica Università del Belgio e, per quanto ci riguarda, di ben due Beghinaggi, il Grande e il Piccolo, che si sono costituiti alle due parti opposte del centro storico, accanto a canali che intersecano i quartieri cittadini e che dovevano fornire a suo tempo acqua ed energia per le necessità della comunità. Il grande Beghinaggio è oggi un sito bellissimo ed evocativo, che noi abbiamo la fortuna di visitare al mattino di una domenica piena di sole così da apprezzarne al meglio l’atmosfera del tutto particolare; un piccolo salto nel tempo in un luogo speciale, fondato nel 1232 ed abitato per tutti i secoli successivi fino agli anni 80 del novecento. Passato recentemente nella proprietà della locale Università, è stato restaurato con grande rispetto e messo a disposizione di studenti, professori, ospiti dell’Università, che animano questo

piccolo campus – una città nella città – divenuto, come tutti i Beghinaggi delle Fiandre, un sito Unesco Patrimonio dell’Umanità. Passeggiamo nel silenzio delle stradine, ancora con l’acciottolato antico, tra le caratteristiche case a due piani, qui con i mattoncini rossi a vista, con i tetti alti e spioventi, alcune con l’antica struttura a graticcio della facciata. Non c’è rumore: gli ospiti forse dormono ancora o sono tornati alle loro case per il fine settimana. I pochi che incontriamo sembrano come noi compresi di esistere in un mondo sospeso, che ci permette di immaginare di là dai bassi muretti interni che cingono le abitazioni e delimitano i giardinetti, la vita ritirata di generazioni di donne che hanno animato con le loro esistenze questo particolare mondo. La luce del sole è filtrata dagli alberi che circondano ed invadono il campus e si riflette sulle facciate delle case, acquistando le tonalità rosse dei mattoncini che si attaccano l’uno all’altro, l’uno sull’altro, a ricoprire le superfici con un colore rossastro più acceso o più cupo a seconda che domini il sole o l’ombra delle case e degli alberi. Solo sul bordo delle vie, che si incrociano tra loro aprendosi in piazzette riparate, i mattoncini si arrestano tutti in fila e lasciano spazio all’acciottolato grigio scuro che ricopre il selciato. Anche qui l’uniformità degli edifici e la loro scala ridotta, pur se misurata su dimensioni più ampie e diffuse del Beghinaggio di Kortrijk, rinforzano la sensazione di un “a parte” speciale, che della città fuori riprende le linee architettoniche delle antiche abitazioni ancora visibili nel centro cittadino, ma in una dimensione modesta e appartata che definisce questo mondo e le donne che lo hanno abitato. Lasciarlo ci richiede una sorta di riorientamento spazio-temporale, per rientrare nel traffico, nel rumore del passeggio, tra le persone affaccendate nel quotidiano di ogni città a noi contemporanea.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 11 Simone Siliani s.siliani@tin.it di

Me lo ricordo così, Vittorio Sermonti, quando ci siamo conosciuti una sera d’estate del 2003 dopo la prova della sua lettura dantesca nel chiostro di S.Croce: in un ristorante dove scherzava, sorridendo sotto i baffi, fra una fetta di prosciutto e l’altra. Ero intimorito di trovarmi a parlare con un intellettuale di una tale levatura, ma scoprii ben presto che era un uomo di una simpatia strepitosa. Aveva una ironia pungente e mi facevano impazzire i siparietti che faceva con Ludovica Ripa di Meana, la sua musa nell’arte e nella vita. Ma poi, quando si metteva dietro il leggio, diventava un altro: mi sembrava posseduto da Dante, chiudeva gli occhi 10 secondi e partiva. Commenti colti e comprensibili, in diretto contatto con il pubblico, per ogni singolo canto e poi la lettura; non una lettura scenica, ma filologica. Era una grande filologo, che metteva al servizio del pubblico perché, credo, avesse un grande rispetto per i lettori, che avevano il diritto di capire Dante, come gli studiosi: potevano e, dunque, dovevano comprendere non un Dante edulcorato, banalizzato, bensì un Dante filologicamente corretto. Abbiamo mantenuto, nel corso degli anni, non una frequentazione ma una certa amicizia, alimentata dai brevi incontri in occasione delle sue presenze a Firenze, telefonate, mail o sms, in bilico fra simpatia, ironia e, per me, una sconfinata ammirazione. Si discuteva, ovviamente di libri, ma anche di politica culturale, di musica. Ora, Vittorio – come ha scritto nel suo ultimo tweet, si è preso un po’ di riposo. Mi mancherà certamente, ma la sua Voce risuonerà in me ad ogni strofa dantesca che inizierò a leggere. Qui gli rendiamo omaggio ripubblicando una intervista che ci concesse nell’aprile 2013 e che pubblicammo nel n.27 di Cultura Commestibile: come parlava Sermonti, una intervista colta ed ironica.

Il riposo di Vittorio V

ittorio Sermonti è stato a Firenze lo scorso 11 aprile (2003) per tenere una Lectura Dantis dal titolo L’ombra di Dante nell’ambito del programma annuale della Società Dantesca. Ha accolto volentieri il mio invito a fare quattro chiacchiere per Cultura Commestibile. Una chiacchierata lieve eppure colta, autoironica ma seria, generosa ed essenziale, come è Vittorio Sermonti. Leggere (e ascoltare) Dante è diventato un fenomeno di massa grazie soprattutto alle letture e al racconto critico di Vittorio Sermonti in diverse città italiane: come vivi questa passione del pubblico tu che sei dall’altra parte del leggio? Cosa sedimenta nel pubblico e quale contatto instauri con chi ti viene ad ascoltare? Tu dichiari che se capire significa contenere, padroneggiare un oggetto complesso nelle sue articolazioni e funzioni, allora della Divina Commedia in generale tu non avresti mai capito troppo pur frequentandola da quasi tre quarti di secolo, non avendo capienza mentale sufficiente; cosa ti aspetti possa ritenere il pubblico che occasionalmente ascolta o si avventura per lo gran mare di questo monumento della letteratura mondiale? Se Dante è diventato “un fenomeno di massa”, non è colpa mia, o, quanto meno, non è a questo che mi adopero da decenni. Non si appella, Dante, al minimo comune buonsenso, al presunto buoncuore dei lettori, tanto meno di lettori posteri di sette secoli, che fra loro condividono poco più che rancori e spaventi. Dante è spigoloso, non è simpatico Dante. Ma quando il suo discorso si fa più enigmatico e denso: “Pensa, lettor!” scrive, non scrive: “Pensate gente! Dài, che facciamo coro...”. Vuole stanare da te la tua povera unicità che ti fa fratello degli altri poveri unici che tutti noi uomini siamo. Dirò di più: vuole cavarti di dentro il timido poeta che sei anche senza saperlo, comunque testimoniandolo con lo stupore e la confidenza


26 NOVEMBRE 2016 pag. 12

con cui ascolti e assimili quelle terzine inappellabili. E a quegli “uni” mi indirizzo anch’io da anni, frugando con la trivella della Commedia falde profonde della loro emozione del reale, del loro sentimento della vita. Se poi c’è fra loro qualcuno che di Dante capisce più di me, tanto meglio. Escluderlo sarebbe insensato. La voce, questo mi pare il tuo vero “strumento critico” nel quale il saggista e il critico si scioglie. Non il ponderoso saggio, ma la capacità di porgere attraverso il medium vocale un testo tanto complesso quanto affascinante come la Commedia agli italiani. Come è nata in te questa idea e quando hai compreso cosa stava diventando per il pubblico? Questa è una storia che ho già raccontato... Insomma, quando nella primavera dell’85, su istigazione di Ludovica (Ripa di Meana, n.d.r.), il poeta che ha avuto la sventatezza di sposarmi, andai a trovarlo qui a Firenze, via Lorenzo il Magnifico, per proporgli di assistermi nel nostro progetto dantesco, quel genio di Gianfranco Contini, dopo aver pazientemente ascoltato una ardente dichiarazione di intenti, per verificare la mia idoneità alla dissennata impresa, sillabò quello che lui stesso avrebbe definito un “continema”: “Mi foni!”. Gli fonai scrupolosamente il canto dei cognati romagnoli (Inferno, V); e lui: “Me lo ha solfeggiato benissimo. Ora me lo legga”. Glielo lessi con la libertà di mente e di cuore che mi sembrava lui volesse intimarmi. E proprio in ordine a quella libera esecuzione Contini decise di mettermi una mano sulla testa, e condividere i rischi dell’avventura; e io mi permisi l’impudenza di leggere Dante in pubblico. D’altra parte sono da tempo convinto che la nostra voce sappia di noi più di quello che sappiamo noi stessi, e che non esista strumento con cui dichiarare più compiutamente, più spudoratamente che cosa ci passa per la mente e per il cuore, e di chi sono quella mente e quel cuore. Fra i “dantisti” con cui hai lavorato per costruire questi racconti critici c’è Gianfranco Contini, di recente celebrato a Firenze in

Omaggio a Sermonti una bella mostra al Gabinetto Scientifico “G.P.Vieusseux”, “Fli scartafacci di Contini”. Come era lavorare con lui? Appunto. E lavorare con lui (anche questa devo averla già detta; d’altra parte, se uno non si ripete alla mia età, mi domando che aspetta a ripetersi)... lavorare con lui è stato meraviglioso: da lui mi aspettavo la sanzione del maestro, e lui mi ha insegnato la famelica, ilare, meticolosa umiltà di uno scolaro sublime. Solo a lui — come ho scritto— si deve se i libri su cui si basa la mia “missione vocale” non contengono svarioni o sciocchezze, ma gli si deve anche, se quei libri esistono. Perché esistessero, almeno a me dovevano piacere. E devo al genio della sua generosità, e alla passione severa di Ludovica, se piacciono almeno a me. Hai confessato, durante l’incontro al cinema Odeon a Firenze su “L’Ombra di Dante”, di avere una predilezione speciale per il Purgatorio. Perché? L’ha definita “la Cantica più bella, come peraltro ognuna delle altre due, in quanto condivide con Paradiso e Inferno il privilegio della incomparabilità”. Tuttavia se un angelo con la spada ti costringesse a mettere in piazza le tue inconfessabili predilezioni, diresti il Purgatorio. Sono così vive le anime di questa “terra di mezzo”, così umani e sofferenti ma aperti alla speranza? Qui mi sembri di quegli intervistatori che includono la risposta nella domanda. Che dire? Sono d’accordo. E penso che la mia “predilezione per la cantica seconda” stia proprio nella constatazione che nessun poeta, nessun teologo, forse nessun essere umano ha mai immaginato morti così creaturalmente, così disperatamente vivi come le anime di purgatorio, che Dante racconta: quei penitenti sospesi, in una proroga speculare della vita, fra il rimpianto del corpo lasciato sulla terra e il desiderio del corpo che recupereranno in cielo dopo il giorno del Giudizio. Così vive, queste

anime d’ombra, da suggerirci, da ingiungerci l’illusione senza la quale, forse, non sapremmo sopravvivere: che i morti pensino a noi. Nell’incontro di Firenze hai messo in relazione l’iconografia con cui si è accompagnata la Commedia nel corso dei secoli e la nostra percezione dei luoghi e degli “abitanti” delle tre Cantiche: una indagine che non si ferma agli illustratori storici (a partire da Gustave Doré) ma prosegue anche oggi. Puoi dirci qualcosa delle tue preferenze? Come conto si sia capito all’Odeon l’11 aprile scorso, fra l’ingente repertorio delle illustrazioni dantesche, canonizzate nelle litografie di Doré, e le immagine fosche, allarmate, discontinue, contraddittorie che ogni singolo lettore della Commedia spilla dalla propria esperienza di veglia e di sogno per collazionarle con il testo di Dante, io non avverto — in via di metodo — un rapporto felice, fermo restando che nei secoli non sono mancati illustratori di straordinario tratto, talora francamente geniali (basterebbe pensare al Botticelli). Mi sembra comunque che le illustrazioni finiscano per intercettare e inamidare il flusso attivato nella visionarietà del lettore dalla visionarietà del poeta, dalle sue figure, dai suoi ritmi, dalle sue parole, e perfino dal rumore che fanno quelle parole nella tua testa. Perciò — scherzando ma non troppo — mi sono permesso di accennare a una mia speciale condiscendenza per le vignette di un buffo disegnatore newyorkese, dove Dante ha l’impermeabile di Humphrey Bogart e la sigaretta in bocca, e Virgilio è un atticciato boss goffamente insaccato nello smoking. D’altra parte, visto che giocare con Dante è un metodo tutt’altro che spregevole per cominciare a frequentarlo ed amarlo, confesso di considerare quei disegnini a china più danteschi, più curiosi, più scrupolosi di Dante del body building neoclassico di Gustave Doré. Paradossalmente?

Sì, ma mica tanto. L’ombra è, infine, il segno della vitalità, non solo in Dante (hai mostrato il valore salvifico della stessa nel ciclo degli affreschi del Carmine di Masaccio con S.Pietro che guarisce gli storpi allungando su di loro la sua ombra, riecheggiando la lezione di Longhi). L’ombra che Dante stampa contro la roccia e sbalordisce le “ombre senz’ombra” sulla spiaggia del purgatorio, come l’ombra terapeutica che più d’un secolo dopo i santi-popolani del Masaccio verseranno nei vicoli di Firenze, è un “controllo esistenziale”, un salvifico indizio di vita, più che un segno di vitalità: indizio che rianima — a sentir Longhi, e sarà bene sentirlo — la pittura del primo Quattrocento, e nella Commedia vale a definire la concretezza spaziale tutta terrena del secondo regno e insieme, fungendo da meridiana, a scandirne il calendario penitenziale. Hai parlato delle tue frequentazioni fiorentine negli anni di “Paragone” , la frequentazione di Longhi e della sua Parte, l’amicizia con Garboli: rievoca anche per noi il senso, l’insegnamento, la passione per la cultura e le lettere di quell’ambiente? E’ a rischio – notizia di questi giorni – la stessa eredità Longhi nella Fondazione a lui dedicata di via Benedetto Fortini, come ci ha ricordato in questi giorni Mina Gregori Sulle fortune a rischio dell’eredità Longhi non dispongo di informazioni confidenziali. D’altra parte, rimpiangere quei remoti anni del millennio scorso, quelle remote persone (e Dio voglia che stiano ancora pensando a noi...) mi sembra un esercizio languido e debilitante, per quanto più che legittimo. Longi, Contini, qualche altro personaggio della mia giovinezza sono stati effettivamente grandissimi: a noi sta il duro ma emozionante compito di contagiare a chi non li ha conosciuti, e magari non sa nemmeno che sono esistiti, qualche coriandolo della loro grandezza. Quanto ai miei personali ricordi, tante volte ne ha parlato, che onestamente, a questo punto, non saprei se sto raccontando quei fatti lontani o il mio penultimo racconto.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 13 Gianni Biagi g.biagi@libero.it di

A

rtemisia Gentileschi dipinse due tele raffiguranti Giuditta che uccide Oloferne. Una di queste (l’altra è conservata al museo di Capodimonte a Napoli) è esposta per tre giorni dal 25 novembre, e fino a domenica 27 novembre, nella sala dei Gigli di Palazzo Vecchio. È stata “prestata” dal limitrofo Museo degli Uffizi per la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Nella stessa sala è esposta la Giuditta che uccide Oloferne opera in bronzo di Donatello. Due raffigurazioni diverse per tempo e per caratteristiche materiche e simboliche. Artemisia, che ha conosciuto a 18 anni la violenza sessuale del suo maestro Agostino Tassi (condannato per questo atto in un celebre processo), rappresenta in questa tela non solo la vicenda biblica. “E per questo Artemisia non fa sgozzare Oloferne da Giuditta intendendo salvare un popolo, in difesa della libertà e della fede. No. La verità del quadro è altra cosa. Sta nella sua funzione riparatrice, espiatrice, vendicatrice” Con queste parole Sergio Risaliti, curatore dell’evento, presenta questa tre giorni delle due Giuditta. La Gentileschi quando dipinge quest’opera ha quasi sicuramente visto la Giuditta del Caravaggio e ritrae una scena di rara efferatezza e violenza con il sangue che esce dalla giugulare di Oloferne e macchia il vestito e il seno di Giuditta . “Questo sgocciolamento richiede, allora, una revisione critica.” continua Risaliti. Non quindi una Giuditta che si discosta dal corpo di Oloferne ma “Una goccia di sangue che nella donna, come in Artemisia, è impronta indelebile di vita come di morte, di godimento come di dolore, di sopruso e di sacrificio” conclude il curatore. Le due opere stanno nella grande sala una di fronte all’altra a raffigurare due mondi e due epoche ma anche il ruolo, non solo meramente rappresentativo, ma simbolico e di strumento di presa di coscienza sociale e politica che l’arte ha compiutamente rappresentato proprio a Firenze. Perchè se la “Giuditta che decapita Oloferne abbrutito dal vino” dipinta nel 1620 assume anche il

Artemisia e Giuditta valore di riscatto sociale, e dalla violenza subita, della ormai affermata Gentileschi, la Giuditta di Donatello, realizzata tra il 1453 e il 1464, viene issata sul basamento dell’arengario di Palazzo Vecchio (togliendola dalla sua iniziale collocazione nel giardino di Palazzo Medici in via Larga) nel 1495 all’affermazione della Repubblica fiorentina e dopo la “cacciata” dei Medici. Lido Contemori lidoconte@alice.it di

Il migliore dei Lidi possibili

Il Trump-oliere di Wall Street

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Il curatore Sergio Risaliti, il direttore della Galleria degli Uffizi Eike Schmidt e l’assessore alle Pari opportunità Sara Funaro


26 NOVEMBRE 2016 pag. 14 Sara Chiarello esse.chiarello@gmail.com di

Avanti popolo

C

rimini di stato; leggi globali non rispettate; regole assurde e divieto di uscire dopo le 23 e, secondo Amnesty International e Human Rights Watch, il livello di rispetto dei diritti umani è uno dei più bassi del mondo. È la Corea del Nord raccontata nel potente e originale documentario “While They Watched” di Jake J. Smith. Il documentario è tra i 70 presentati alla 57/esima edizione del Festival dei Popoli che si terrà dal 25 novembre al 2 dicembre a Firenze, tra il cinema La Compagnia, Spazio Alfieri e Istituto Francese. “Abbiamo selezionato – ha spiegato Alberto Lastrucci, direttore del festival – il lavoro di Smith perché ci ha colpito l’importante e complessa ricostruzione compiuta da un punto di vista originale: immaginare il futuro il crollo del regime”. Jake J. Smith dopo la laurea in cinema documentario ha iniziato a produrre e dirigere i propri film. Ha debuttato alla regia con il cortometraggio The People’s Kitchen (2013). In While They Watch si chiede se “possiamo davvero sedersi nel comfort delle nostre società libere e permettere che questo accada a chi non può difendersi?” facendo riferimento ai crimini di stato commessi in Corea del Nord. Il regista parte da inquietanti interrogativi: “Può la comunità internazionale vivere con questa passiva accettazione? Abbiamo intenzione di aspettare, ancora una volta, fino a quando l’orrore sarà finito prima di provare il desiderio fare qualcosa a riguardo?”. Il documentario è ambientato in un futuro distopico dove il regime nordcoreano è crollato. Pertanto, tutte le testimonianze raccolte parlano al passato, dal contesto di questo futuro immaginario. Questo fornisce alle interviste una qualità unica che consente a coloro che hanno offerto il proprio contributo al film una distanza e una chiarezza che rivelano in modo efficace chi sono i responsabili, sia locali che internazionali, del disastro in corso e ciò che alcune nazioni, istituzioni e privati hanno tentato di fare per cambiare il destino del paese. Con questo espediente il film denuncia i crimini di stato e mette in dubbio la moralità dell’inazione

Le forme della memoria di

Pasquale Comegna

dalle potenze globali nei confronti del regime dittatoriale in vigore in Corea del Nord. Il film mette in discussione la sostenibilità morale dell’attuale inerzia dei poteri regionali e globali nei confronti dei dittatori nordcoreani. Il Festival dei Popoli inoltre presenta in programma un focus sui migranti e rifugiati; una sezione interamente dedicata alla musica e molti ospiti tra cui Elio Germano che presenterà No Bordes, corto documentario sugli immigrati a Ventimiglia, e l’attrice italiana Valeria Bruni Tedeschi (28/11) che presenterà il suo prima documentario da regista dal titolo Une jeune fille de 90 ans, ritratto delicato di un’anziana ammalata di Alzheimer che vive presso il reparto geriatrico dell’ospedale Charles Foix d’Ivry, non lontano da Parigi. Tra i documentari da segnalare: la geniale carriera di David Bowie ripercorsa attraverso preziose immagini d’archivio in “David Bowie, l’homme cent visages ou le fantôme d’herouville” di Christophe Conte e Gaetan Chataigner (26/11); un ritratto ravvicinato del politico statunitense Anthony Weiner noto per le accuse di sexting in “Weiner” di Josh Kriegman e Elyse Steiberg (26/11); la vita e l’opera di Frank Zappa raccontata da lui stesso nel documentario “Eat that question” di Thorsten Schutte” (27/11) e le scioccanti testimonianze delle madri di jihadisti in “La Chambre Vide” di Jasna Krajinovic (30/11). Da segnalare il focus dedicato a Firenze previsto per domenica mattina 27 novembre con la proiezione di Shalom Italia (Israele, Germania, 2016) organizzata in collaborazione con la comunità ebraica di Firenze (alle ore 11.00, presso La Compagnia). Il documentario di Tamar Tal Anati racconta la storia di Andrea, Emmanuel e Reuven Anati, tre fratelli fiorentini (oggi di 73, 82 e 84 anni, presenti in sala) sfuggiti alle persecuzioni razziali del 1943 nascondendosi per molti mesi in un bosco fuori città e riuscendo a sopravvivere in una grotta con la complicità delle persone del luogo. Sopravvissuti alla persecuzione, gli Anati si stabilirono in Israele. A distanza di 70 anni sono tornati a ripercorrere i boschi nei dintorni di Firenze alla ricerca della grotta che fu la loro salvezza.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 15 Ruggero Stanga stanga@arcetri.astro.it di

Dark matter

L

a Terra impiega un anno a fare un’orbita intorno al Sole, alla velocità di circa 30 km/s; Giove, che dista dal Sole circa 5 volte più della Terra, impiega circa 12 anni; e Saturno, ancora più lontano, circa 10 volte più della Terra, occorrono circa 29 anni e mezzo: il Sistema Solare non ruota come un corpo rigido, come un disco di legno. Queste osservazioni sono state incorporate nella terza legge di Keplero, che dice che il periodo di rotazione dei pianeti intorno al Sole dipende dalla massa del Sole (addirittura, è un buon modo per valutare la massa del Sole), e aumenta con la distanza del pianeta. Quello che misurò Keplero è stato spiegato dalla legge di gravitazione di Newton, che vale per tutti i corpi legati dalla gravitazione, e può essere applicato in altre situazioni, con gli adattamenti del caso. Per esempio si può applicare alla Via Lattea, la nostra galassia. Le galassie sono collezioni di centinaia di miliardi di stelle. Buona parte di esse è bene ordinata, come devono essere le collezioni, ed ha la forma di una spirale piana, di un vortice, di stelle e gas e polvere che ruota intorno ad un rigonfiamento centrale, anche esso composto di stelle e polvere. Proprio come il sistema solare le galassie sono tenute insieme dalla forza di gravità di Newton. Il Sole non è proprio al centro della Via Lattea: è lontano circa 26000 anni luce, ed impiega 230 milioni di anni circa per completare un’orbita, alla velocità di circa 230 chilometri al secondo. Giusto per dare un riferimento, da quando comparvero i dinosauri sulla Terra, il Sole ha fatto un solo giro intorno al centro della Via Lattea. Questo periodo è determinato dalla distanza del Sole dal centro e dalla massa compresa all’interno della sua orbita, rigonfiamento centrale incluso. La Via Lattea è grande, rintracciamo gas che le appartiene anche a 100.000 anni luce dal centro. La velocità delle parti più esterne della Via Lattea è stata misurata, e misurarla per oggetti così remoti già questo è un fatto notevole. Si è trovato che la velocità è più o meno la stessa del Sole. Ma dovrebbero andare molto più lentamente, come ci fanno vedere i pianeti del Sistema

Solare, come ci dice la Terza Legge di Keplero se contiamo le stelle e il gas che compongono la Via Lattea, e vediamo come sono disposti. Misure come queste sono state ripetute su diverse galassie finché nel 1980 Vera Rubin presentò una quantità di dati sufficiente a convincere anche i più scettici che la realtà non era come ci si aspettava. Abbiamo un problema: non è chiaro se e perché la terza legge di Kepler non governi la rotazione delle galassie. Prima di accettare una crisi così profonda, si cercano soluzioni “tradizionali”. Il punto delicato qui sta nella massa della Via Lattea. Abbiamo detto che la rotazione è più veloce quanto più è grande la massa intorno a cui si ruota: dunque secondo le misure una galassia ruota come se la sua massa fosse molto più grande di quella che vediamo e, tra l’altro, distribuita non solo su un disco piatto, ma su una sfera molto più grande. La massa di una galassia o di una parte di galassia si valuta dalla luminosità delle stelle che la

Graziano Braschi, un uomo d’ingegno Il 29 novembre 2016 a un anno dalla scomparsa di Graziano Braschi, all’Accademia di Belle Arti (aula del Cenacolo) Via Ricasoli 66 – Firenze si svolgerà la Giornata di studio:“Graziano Braschi, un uomo d’ingegno. La giornata ha lo scopo di raccogliere quante più informazioni e testimonianze possibili sulle numerose e poliedriche attività che ha svolto nel corso della sua fertilissima vita: dall’impegno politico sul territorio fiesolano;

compongono e dalla radiazione che viene prodotta dal gas e dalla polvere. Quindi, quello su cui bisogna riflettere è il fatto che “vediamo” meno massa di quello che le misure fatte applicando le regole della gravitazione richiedono. Il punto sconvolgente è che nell’Universo questa massa mancante, la materia oscura, è circa 5 volte più grande della massa che riusciamo a vedere. La via più semplice per uscire dal dilemma è quella di supporre che la massa mancante sia dovuta a “qualcosa” che non emette luce, quella radiazione elettromagnetica che ci consente di vederla. Intanto la chiamiamo “materia oscura”, dark matter, che ha anche un bel suono misterioso ed evocativo. Non è composta da pianeti o stelle molto deboli, perché uno studio statistico nella Via Lattea, con metodologie piuttosto precise, anche se molto sofisticate, ha escluso che ce ne siano in quantità sufficiente. E allora si fa l’ipotesi che la materia oscura sia composta di particelle elementari insolite, diverse dai protoni, elettroni, neutroni, e all’attività di grafico e di fondatore e redattore della prima rivista italiana di umorismo grafico e satira politica, “Ca Balà”, pubblicata dal 1971 al 1980; alle molteplici attività svolte al Gabinetto Vieusseux e all’attività letteratura in tutte le sue declinazioni, con particolare riguardo al giallo, al noir e all’horror, in veste sia di critico, sia di autore che di curatore e organizzatore. Graziano fu un intellettuale poliedrico, un uomo “dal multiforme ingegno”, come lo definisce Roberto Pirani citando l’Odissea.

compagnia, che sono già note, e che compongono la materia “visibile”. E siccome bisogna capire se l’ipotesi è vera o falsa, andiamo alla caccia di queste particelle insolite. Debbono avere massa, altrimenti la legge di Newton non le riguarderebbe, e non servirebbero allo scopo. Non si possono aggregare in masse molto più grandi, perché gli studi sulla Via Lattea citati sopra lo escludono. D’altra parte, se ce ne sono tante nella Via Lattea, la Terra deve essere attraversata ogni secondo da un gran numero di esse, troppo veloci per rimanere intrappolate dalla gravità terrestre. Come possiamo sperare di identificarle? Possiamo sfruttare l’urto fra queste particelle veloci di materia oscura e gli atomi della materia ordinaria e rivelare l’atomo che rincula. Compito arduo: bisogna discriminare questi eventi dagli urti fra atomi e particelle ordinarie. L’esperimento va fatto (e viene fatto!) in laboratori sotterranei, come i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, ma ce ne sono altri nel mondo, in grandi serbatoi schermati da chilometri di montagna dalla radiazione cosmica, in siti in cui la radioattività residua ambientale sia bassa, in modo che eventi spuri dovuti a particelle ordinarie siano minimizzati; si utilizzando materiali ultrapuri da contaminazioni radioattive e capaci di produrre e trasmettere un debole lampo di luce ogni volta che un atomo gli si muove attraverso. Anni di esperimenti alla caccia di particelle elusive. Per ora senza evidenze certe. E se queste particelle di materia oscura non saltano fuori? Beh, allora la crisi diventa seria, e bisogna ripensare alcune leggi della Fisica.


26 NOVEMBRE 2016 pag. 16 di

Mariangela Arnavas

B

rigitte viene dal Congo, è una maman di 35 anni, ha 4 figli ed era una donna orgogliosa e fiera del suo lavoro; era infermiera ed aveva due cliniche a Matadi, “Dieu le veut” si chiamavano, erano a pagamento, ma lei accettava di far credito a chi non aveva abbastanza soldi per pagare subito, senza perseguitare chi poi non lo faceva. La vita di Brigitte precipita quando rifiuta la proposta del governo di uccidere 7 manifestanti, feriti in una manifestazione di protesta, che sta assistendo: sarà imprigionata, spaventosamente torturata e si salverà dalla condanna a morte solo perché l’ultimo carceriere si ricorderà del bene che lei aveva fatto a sua moglie e a suo figlio, curandoli gratis nella sua clinica; approderà a Roma, Stazione Termini, sola e completamente disperata, senza denaro, senza conoscere nessuno, senza parlare italiano. Il romanzo di Mazzucco è sicuramente da leggere per la scrittura calda e asciutta, come ci immaginiamo la voce di Brigitte, dai cui colloqui con l’autrice è scaturita la narrazione e per l’emozione dentro cui ci sa portare raccontando la storia di questa fuggitiva con sapienti pause, che danno al lettore la possibilità di prendere respiro dalle forti sensazioni che la storia suscita, intervalli di pacata descrizione del progressivo reinserimento nel tessuto sociale in Italia. Ma c’è qualcosa di più; come la stessa Mazzucco dice, la storia di Brigitte somiglia a tante altre, ma è al tempo stesso unica e irripetibile; è questo che favorisce una vera e propria presa di coscienza in chi legge, perché siamo a conoscenza di tantissime vicende tragiche di profughi e immigrati, ma proprio la quantità e la genericità ci rendono indistinta e lontana la percezione della loro enorme sofferenza . Un altro pregio del libro è la capacità costante di evitare i facilissimi luoghi comuni: i cattivi sono veramente cattivi e così i buoni, poi ci sono tanti che semplicemente passano e non si

Storia di Brigitte

fermano o che non sono all’altezza della situazione; c’è un’accoglienza con punte di altissima capacità e umanità e improvvisi baratri di assoluta inefficienza; c’è, oltre all’immenso dolore dei vivi, un’angoscia per i corpi dei morti che scompaiono, che proviene da antiche culture ed ha, da sempre, valenza femminile, Antigone docet. C’è la descrizione di una tradizione bellissima, quella del “nome d’anima”, ovvero l’abitudine di dare ai figli anche il nome di qualcuno che ha fatto loro del bene, al quale restano legati appunto come sorelle o fratelli d’anima: anche il fratello d’anima, come la tessera di adesione alla Croce Rossa, saranno talismani che contribuiranno al salvataggio di Brigitte. È un libro che risveglia le nostre coscienze, abituate a considerare gli orrori del sadismo collettivo organizzato, quelli dell’olocausto, come un abominio appar-

tenente al passato; in Africa e non solo, questi orrori accadono oggi e investono masse di persone, fra le quali le donne sono le più colpite, perché più esposte anche per i forti legami con i figli. Sposta l’idea che molti di noi si sono fatta che chi emigra venga sempre da una condizione di miseria e deprivazione; nel caso di Brigitte come in molti altri, si trattava di una donna realizzata nel suo lavoro e benestante, travolta dalla ferocia dei governanti del suo paese. Se un appunto dobbiamo fare a Mazzucco, riguarda la parte finale del romanzo. dove il passaggio al metalinguaggio ovvero la descrizione della formazione del libro, delle circostanze per le quali ha incontrato Brigitte e del particolare momento che l’autrice stava vivendo per effetto della precedente scrittura (“Sei come sei”), appaiono fuori luogo e poco comprensibili anche per inevitabile eccesso di sintesi,

così come il finale, vero incubo dell’autrice (l’unico romanzo in cui lo ha risolto è “Un giorno perfetto”dove il finale è l’incipit), che è spezzettato e ripetuto, mettendo a disposizione del lettore la scelta, cercando quindi di non assumersi responsabilità, ma un bel libro non deve necessariamente essere perfetto, anzi, a volte sono le imperfezioni che lo fanno amare di più. Una bella sintesi del giudizio inespresso, ma presente in ogni pagina sull’atteggiamento degli Europei e degli Italiani ovviamente nei confronti delle terribili vicende africane, è la frase con cui si conclude l’introduzione al romanzo ovvero la risposta che dà Mazzucco a Brigitte che chiede se i Romani hanno davvero ammazzato Gesù Cristo: “Sì, ammetto, alla fine. Non lo abbiamo salvato anche se pensavamo che fosse innocente. Ce ne siamo lavati le mani”.


L immagine ultima

26 NOVEMBRE 2016 pag. 17

Dall’archivio di Maurizio Berlincioni berlincioni2@gmail.com

Q

uesta è una strada semicentrale della città, ma onestamente non ricordo con precisione il luogo. Siamo attorno all’una del pomeriggio, quando molte persone lasciano il posto di lavoro per un lunch frettoloso prima di rientrare sul pezzo. In quella fascia oraria si vede un po’ di tutto, impiegati in giacca e cravatta, uomini e donne, giovani e meno giovani che si muovono ad un ritmo piuttosto frenetico. Per fortuna il traffico e i semafori permettono loro dei brevi momenti di sosta, come in questo caso. In questa metropoli, fino al tardo pomeriggio, è quasi sempre un corri corri da e verso il posto di lavoro!

NY City, agosto 1969


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