Cronaca&Dossier24

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 24, Marzo 2016

Verità TOSSICHE nel caso

ALPI-HROVATIN

Nicola Longo, ex collaboratore del SISMI: «False società e coperture: così avveniva il traffico illecito di armi»

Il palazzo dei bambini che precipitano

La P2 dopo 35 anni: 10 cose da sapere

La disabilità portata sul grande schermo


Indice del mese 4. Inchiesta del mese

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PERCHÉ SONO MORTI ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN?

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10. Criminalistica

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«FU UNO SPARO A DISTANZA CHE NON ESCLUDE UN’ESECUZIONE»

16. Inchiesta del mese

«COSÌ AVVENIVA IL TRAFFICO ILLECITO DI ARMI»

24. Diritti e minori

I RIFIUTI TOSSICI E RADIOATTIVI SCARICATI IN SOMALIA

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30. Dossier società IL BUSINESS DEI RIFIUTI IN ITALIA

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36. Media crime

LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI

38. Dossier da collezione LA P2 DOPO 35 ANNI: 10 COSE DA SAPERE

42. Sulla scena del crimine

ANNO 3 - N. 24 MARZO 2016

48. Storie di tutti i giorni

Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi

IL PALAZZO DEI BAMBINI CHE PRECIPITANO

Rivista On-line Gratuita

LA DISABILITÀ PORTATA SUL GRANDE SCHERMO

Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Paola Pagliari, Mauro Valentini, Gianmarco Soldi.

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Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013


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PERCHÉe SONO MORTI

ILARIA ALPI e

MIRAN H ROVATIN? Cronaca di una morte mai annunciata e i misteri che circondano la fine dei due giornalisti

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La mattina del 20 marzo 1994 Ilaria Alpi e Miran Hrovatin hanno appena realizzato un’intervista che avrebbe potuto aggiungere il tassello che mancava, in quel puzzle all’apparenza indistricabile che era il sistema di cooperazione tra Italia e Somalia. Un sospetto che ormai era una certezza aleggiava dentro quel suo taccuino fitto di appunti, e cioè che dietro il sistema di scambi “umanitari” tra governo italiano e quel potere fantoccio che si era insediato a Mogadiscio appena dopo il “cessate il fuoco” nella guerra civile, ci fosse molto di più, e molto di meno di quello che si sbandierava come “aiuto”. Un grande business stava emergendo nel nostro paese, appena dilaniato da “Mani Pulite”, ma che le mani non cercava di lavarle. Anzi, l’affare dello smaltimento dei rifiuti tossici, proprio per la difficoltà da parte del sottobosco del malaffare ad acquisire acquiescenza a buon mercato da parte degli organi di controllo dovuto a questa campagna di moralizzazione del Paese, costringeva a cercare altri luoghi dove “smaltire” senza dover pagare il dovuto. Le grandi industrie hanno una voce in rosso elevata quando fanno le cose secondo legge in materia di smaltimento delle sostanze tossiche. Costa troppo farlo legalmente, ed allora si cercano sistemi nuovi. E la Somalia, con quel via vai di navi cariche di aiuti era un luogo perfetto. Lontano, senza regole,

Ilaria Alpi

senza quei noiosi ed idealisti movimenti ecologisti a mettersi di traverso. Quel 20 marzo Ilaria è in procinto di chiudere il cerchio. Conosce la rotta, conosce i nomi degli artefici di quell’interscambio che verso Mogadiscio porta rifiuti in quell’antesignana “Terra dei fuochi” insieme alla parcella che quegli sversamenti illegali porterebbero in dote: le armi. Tante armi che avrebbero dovuto continuare a uccidere, sopraffare e sventare una possibile deriva democratica nel Corno d’Africa.

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Con lei, con Ilaria Alpi, inviata del TG3, c’è Miran Hrovatin, operatore alla camera, che ha un feeling professionale perfetto con la giornalista romana. Lui sa sempre dove inquadrare, lo stile di Ilaria è asciutto e senza fronzoli, le immagini di Miran sono la prosecuzione colorata di quello che lei dice. Coppia perfetta. Ilaria su quegli appunti ha il nome di un tratto autostradale: Garoe-Posase, chilometri di asfalto verso il nulla, costruita in fretta e furia con i soldi degli aiuti umanitari, dove sotto quella lingua di catrame senza senso, vi sarebbero seppellite scorie radioattive, veleno messo sotto il tappeto in nome della cooperazione. Miran e Ilaria sono su una macchina, scortati da qualcuno che non sembra proprio professionista, hanno pronto quel materiale, lo lanceranno forse nel TG del giorno dopo. Ma ad un incrocio un commando armato di kalashnikov li circonda, arrivano degli spari. Precisi, colpiscono i due giornalisti. Li uccidono. In quel teatro terribile di sangue arrivano subito dopo due giornalisti italiani, immediatamente seguiti da Giancarlo Marocchino, un imprenditore italiano che, strani a volte gli incroci della vita, passa di lì per caso. Marocchino ufficialmente

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Miran Hrovatin

fa il trasportatore, ma cosa trasporti e per conto di chi lo si saprà solo venti anni dopo. È lui a prendere i corpi e il materiale di Ilaria e Miran, con la sua macchina li porta al vecchio porto di Mogadiscio, dove ci sono le nostre navi militari e dove molto del materiale di Ilaria sparirà. «Sono morti di giornalismo» diranno la sera al TG3. «Vogliamo giustizia» gridarono ai funerali


i genitori di Ilaria e i colleghi dei due giornalisti. Ma quale Giustizia? Le indagini si arenano in mille depistaggi, si riesce a portare a processo soltanto un uomo, il giovane somalo Omar Hashi Hassan, accusato di aver fatto parte del commando che uccise Ilaria e Miran, accusato da un connazionale che lo riconosce facente parte del gruppo di fuoco. Chi lo riconosce è Ali Rage Ahmed, detto Gelle, un altro misterioso personaggio invischiato

guarda caso in quei traffici di cui Ilaria voleva parlare, che dichiara in un verbale al pm che segue il caso, Franco Ionta, che è stato anche Hassan a sparare. Motivo? Per una rapina. Una dichiarazione senza riscontro, non suffragata in aula perché Gelle in aula non si presenta. Eppure, Hassan viene condannato a 26 anni nel 2006. Ma Gelle, qualche anno dopo ritratta e, scovato dalla bravissima Chiara Cazzaniga di Chi l’ha visto?

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dice che si è inventato tutto, che era stato indotto dai servizi segreti a fare quel nome. Eppure la Commissione d’inchiesta parlamentare, presieduta da Carlo Taormina, aveva già la lista degli uomini del SISMI che erano presenti prima, durante e dopo quell’agguato. La ritrattazione di Gelle ha reso urgente una revisione di quel processo, che infatti è ripartito da Perugia, il 13 gennaio scorso. La Corte d’Appello della città umbra

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proverà, attraverso i testimone dell’epoca e a distanza di 22 anni, a ricostruire l’agguato; l’istruttoria dibattimentale è il prossimo 5 aprile. Il Procuratore vuole riascoltare gli uomini dei Servizi, poi Giancarlo Marocchino e i somali presenti al momento dell’agguato, per cercare di restituire la libertà ad Hassan ma soprattutto per verificare se, anche a distanza di così tanto tempo, i colpevoli di quella morte possano avere un nome.


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«Fu uno sparo a distanza che

non esclude un’esecuzione» Analizzò il proiettile che uccise Ilaria Alpi e oggi il professore Martino Farneti racconta la dinamica del delitto

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Il 20 marzo del 1994 vengono barbaramente uccisi a Mogadiscio, in Somalia, la giornalista Ilaria Alpi e il suo cameraman Miran Hrovatin, corrispondenti del TG3. Un duplice omicidio condotto con armi da fuoco che da subito ha alimentato sospetti, che a 22 anni di distanza ancora annebbiano la verità sulla vicenda impedendone la sua definitiva chiusura. Sappiamo che il pick-up Toyota sul quale viaggiano Ilaria e Miran viene inseguito e quindi bloccato da un Land-Rover con a bordo il commando omicida, che colpisce a morte i due inviati. Miran, seduto nel posto del passeggero anteriore, muore sul colpo raggiunto da un proiettile alla testa. Ilaria che si trova sul sedile dietro Miran o al centro dell’autovettura, viene colpita alla testa da un proiettile e muore dopo circa 45 minuti. Dopo il rientro dei corpi in Italia, un primo sommario esame medico condotto senza autopsia, conclude che ad uccidere Ilaria è stato un colpo esploso a contatto da un’arma corta, come fosse stata un’esecuzione. Nell’ambito dell’indagine aperta dalla Procura della Repubblica di Roma viene richiesta una consulenza balistica al prof. Martino Farneti, il quale riporta che in base ai due reperti forniti per l’analisi, ovvero il proiettile di piombo recuperato dalla testa di Ilaria

Il prof. Martino Farneti durante una sua lezione

ed un frammento di camicia di proiettile recuperato sul sedile posteriore, la giornalista è stata uccisa da un colpo sparato a distanza di qualche metro, da un’arma lunga, probabilmente un fucile d’assalto kalashnikov in calibro 7,62 x 39. Viene chiesta successivamente una seconda consulenza e, questa volta grazie al prof. Farneti, viene riesumata la salma per poter meglio comprendere la

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dinamica dell’omicidio. Da questa analisi, in cui vengono utilizzati metodi di indagine radiografica, si osserva che il proiettile ha prodotto un foro di entrata nella regione parietale alta di sinistra, andando poi a colpire la regione occipitale di destra, finendo la sua corsa nei tessuti muscolari della regione laterale destra del collo.

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Nella circostanza viene trovato all’interno del cranio di Ilaria Alpi anche un frammento di lamierino metallico non riferibile ad una camicia di proiettile, che viene attribuito ad una porzione di lamiera della Toyota strappata dal passaggio del proiettile e condotta dallo stesso all’interno del cranio di Ilaria. Il risultato di questa nuova consulenza conferma uno sparo a


distanza con arma lunga. Negli anni a seguire vengono effettuate ulteriori consulenze e perizie, i cui risultati si alternano tra l’ipotesi dello sparo a contatto con arma corta e quella dello sparo a distanza con arma lunga. Alla conclusione di uno sparo a distanza con arma lunga porta anche la perizia eseguita dal professore Vincenzo Pascali per la Commissione Parlamentare 2004/2006. In tutti questi anni si sono susseguite anche diverse consulenze di parte per conto della famiglia Alpi, le quali hanno sempre appoggiato l’ipotesi di un’esecuzione con un colpo a contatto. Per fare il punto della situazione abbiamo chiesto un parere direttamente al prof. Farneti, adesso docente di Balistica Forense presso l’Università della Tuscia e direttore del Centro di Balistica Forense con sede a Latina. Alla domanda perché, in base alla sua esperienza, è improbabile che ad uccidere Ilaria Alpi sia stato un colpo di pistola sparato a contatto o a distanza ravvicinata, ecco la sua risposta: «Essenzialmente perché se fosse stata utilizzata un’arma corta avremmo dovuto trovare un proiettile ancora camiciato e

pressoché integro, invece di un pezzo di piombo informe come in effetti fu repertato nel collo della Alpi». A ciò vanno aggiunti altri particolari degni di nota. «Manca il tatuaggio (segno distintivo di un colpo a distanza ravvicinata, ndr) sul cuoio capelluto ‒ continua il prof. Farneti ‒ o comunque sulle mani che Ilaria pare avesse messo a protezione della testa. Il caso di Ilaria Alpi rimane di difficile interpretazione anche perché mancano dati sulla scena del crimine: non sappiamo ad esempio

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la posizione esatta di Ilaria al momento dello sparo, di conseguenza ricostruire la traiettoria del proiettile diventa veramente difficile». Si arriva così alla dinamica vera e propria. «Il fatto che il colpo fu sparato a distanza di qualche metro non esclude che probabilmente si trattò di un’esecuzione. Se c’è il preciso intento di uccidere una persona lo si può fare in tanti modi, sia

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con un colpo sparato a contatto sia con un colpo sparato da un cecchino appostato a 1.000 metri di distanza. Ogni omicidio è un caso a sé e la sua interpretazione richiede una notevole conoscenza della materia, utilizzo del metodo scientifico appoggiandosi alle statistiche note in letteratura, ma soprattutto tantissima esperienza pratica formata direttamente sul campo».


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«FALSE SOCIETÀ,

FINTE ATTIVITÀ DIPLOMATICHE

E COPERTURE:

COSÌ AVVENIVA IL TRAFFICO ILLECITO DI ARMI»

Nicola Longo

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Nicola Longo è stato collaboratore del SISMI oltre che poliziotto di fama, oggi direttore della Nicola Longo Investigazioni e infiltrato nei principali gruppi criminali degli anni Settanta e Ottanta. Nel periodo in cui accadevano i fatti relativi alla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Longo ha lavorato sotto copertura nel mondo del traffico delle armi. Non indagò personalmente nel caso Alpi-Hrovatin ma venne a conoscenza di informazioni che ricostruiscono come avvenivano attività illegali inerenti il traffico di armi.


Anche se Lei non ha seguito direttamente il caso di Ilaria Alpi, le chiediamo in merito a fatti collaterali che avvenivano in quel periodo circa le attività che svolgeva. «Era un momento storico molto particolare per me: in quel periodo avevo appena lasciato un incarico sul traffico clandestino di armi e, su diposizioni della Super Procura Antimafia, mi ero calato nei panni di una nuova identità: dottor Massimo Massimi, funzionario ispettivo di un noto Istituto di Credito italiano che avrebbe dovuto agevolare il riciclaggio di oltre seicento miliardi di lire provenienti dai sequestri di persona, traffico di droga, armi, tangenti e altro. Le persone indagate e coinvolte erano i capi storici di uno dei più potenti sodalizi associativi criminali della ‘Ndrangheta e dell’Anonima Sequestri sarda. Dopo il fermo di un’auto con a bordo due persone appena sbarcate a Cagliari dietro mia segnalazione, e che detenevano ben occultata una cospicua somma di denaro proveniente da diversi sequestri di persona, proprio mentre si stavano per raccogliere sviluppi clamorosi di una delicatissima operazione sottocopertura s’innesca una vicenda giudiziaria abbastanza anomala e perversa impiantata in modo strumentale e calunnioso presso il Tribunale penale di Palmi che ha l’effetto di bloccarmi per un periodo di tempo abbastanza lungo. In precedenza, quasi parallelamente a

quest’ultima, ero riuscito a penetrare la diffidenza del mondo del traffico internazionale delle armi, infiltrandomi su precisi connotati di copertura. Ero quindi riuscito a farmi assumere da una famosa fabbrica di armi di cui la mia particolare conoscenza e la destrezza nel maneggiarle, furono un eccellente passepartout. Collaborando prima con il SISDE e poi con il SISMI, conducevo una vita avventurosa, dinamica, ma molto pericolosa. Assunto il nuovo ruolo di “undercover” nella qualità “shooter of firearms new generation”, riuscivo ad accattivarmi la simpatia di diversi addetti militari delle varie ambasciate a Roma, interessati a seguire le nuove tecnologie ed io, a loro insaputa, l’excursus del prodotto acquisito, prima che arrivasse a destinazione definitiva. Più volte ebbi la fortuna di segnalare in tempo la posizione del prodotto, prima che venisse triangolato in un itinerario diverso e definitivo. Un’avventura pericolosa che da Roma mi spingeva prima a Cipro, poi in Grecia facendomi spostare lungo i confini Balcani, o in Libano anche in tempo di guerra, in Palestina fino al Sudafrica. Paesi posti nella black list, ma che attraverso triangolazioni geopolitiche, erano in grado ricevere le forniture di altri paesi. La Grecia, in particolare la zona del Peloponneso, Atene, punti di riferimento e luoghi cui ero collegato con i servizi segreti del luogo. Un lavoro abbastanza avventuroso e rischioso».

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MESE L E D o nom ESTA I o H B C o N

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rt e Albe Ragon i d a r e a cu asqual P e

Esiste un reale collegamento tra la Il quotidiano La Repubblica in un Somalia e il traffico di armi sulla articolo del 10.4.2015 [a firma di base delle Sue attività da infiltrato? Daniele Mastrogiacomo] cita una «Si mormorò che la questione traffico flotta della società Schifco, donata di armi in Somalia fosse cosa reale, dalla Cooperazione italiana alla non ricordo esattamente da dove partì l’informativa ma ricordo nitidamente che Somalia, per incrementare l’industria si parlava di collegamenti oscuri con le peschiera nell’Oceano Indiano del attività di cooperazione internazionale in Corno d’Africa. Cosa ne pensa? cui l’Italia partecipava fornendo alcune imbarcazioni, tipologia peschereccio per intenderci, navi da pesca. Il mio obiettivo, supportato da alcune segnalazioni che ricevetti da un ingegnere che si occupava per vie traverse di questa faccenda, era quello di indagare e scoprire possibili traffici di armi celati da queste attività diplomatiche».

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«La questione a quanto ricordo è che in quelle zone c’era un’ampia distesa desertica. Il territorio di cui stiamo parlando era strutturato, dal punto di vista “politico” se così possiamo dire, con connotazioni tribali ovvero ogni zona era comandata da un “boss” e da quello che ne so io, erano proprio questi “boss” che prendevano accordi sul traffico di armi in cambio di altri benefici di vario genere. Poi, detto sinceramente, io non ho mai accertato se vi fosse o meno questo traffico, ma si è parlato molto di questa concreta possibilità. Ma si è parlato molto anche del traffico di mine antiuomo e di tanto altro. Si parlava di società che ufficialmente vendevano e poi in realtà non vendevano proprio nulla, c’erano piloti di aerei di linea che ufficialmente giravano il mondo per lavoro, ma in realtà di volta in volta raggiungevano posti prestabiliti per tessere rapporti e accordi con addetti militari. Ho avuto il compito di controllare alcuni di questi individui e personaggi, uno di questi riuscimmo ad arrestarlo».


Nel medesimo articolo si parla anche di «spedizione in Somalia di una partita di 5.000 fucili d’assalto e 5.000 pistole da parte degli Usa. Ufficialmente. Ma in realtà, attraverso una triangolazione che aggirava l’embargo decretato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 2002, una partita destinata alla neonata federazione croato-bosniaca durante la guerra nell’ex Jugoslavia». «Quando Ilaria Alpi e Hrovatin indagarono su questo traffico venne fuori che c’erano giri che conducevano in ex Jugoslavia per la fornitura di armi sottobanco. Quale giro facessero non è mai stato

accertato, personalmente io mi sono interessato principalmente al traffico di munizionamenti nei Balcani. Ricordo che al tempo c’era (omissis) di Atene che era una delle più grosse industrie di munizionamenti per obici e calibri pesanti. Io ho fatto lo sparatore ufficiale ‒ sempre sotto falsa identità ‒ per la ditta di armi (omissis) perché ero molto bravo nelle esibizioni a fuoco. In questo contesto ho avuto modo di capire alcuni meccanismi e quando il quadro fu chiaro, mi resi conto che le armi erano esportate in Grecia e da lì, per i buoni rapporti, erano mandate a Cipro e poi ancora in Libia. Mi impegnai attivamente per contrastare questi traffici sul nascere e devo dire che nel tempo alcuni interessanti sequestri sono arrivati».

Spiaggia somala

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MESE L E o D nom STA o E I B H o C

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rt e Albe Ragon i d a r e l a cu asqua eP

A cavallo tra il 1993 e il 1994 ricorda qualche importante operazione che ha fatto fare? «Beh, ne ricordo una del ‘92, un’operazione connessa al terrorismo e al traffico delle armi, sembrava assurdo ma l’operazione nacque per caso in un quartiere residenziale di Montesacro a Roma. Protagonista una falange palestinese che risultava in contatto con un’emittente privata della zona che tesseva rapporti in arabo con certi personaggi libici e palestinesi. Non appena gli indizi furono più nitidi, partirono le intercettazioni e poi le perquisizioni e si scoprì un imponente traffico di armi legato al terrorismo.

20 20

Ancora più interessati erano gli israeliani. Si riuscì a identificare e ad arrestare qualcuno dell’aria militare, ma io non ero un “operativo” sul piano fisico, mi limitavo alle segnalazioni sui traffici legati anche ai somali e all’Eritrea e alla Libia. A seguito di quest’indagine fui trasferito dalla sede di via Pasiello in un’altra zona periferica di Roma».

E come si collega Alpi-Hrovatin?

al

caso

«Come dicevo prima in quelle zone c’era uno di questi boss che gestiva il territorio, Mohammed Farah Aidid il signore della guerra. I luoghi deserti caratteristici di certe zone del globo si prestavano per essere trasformati in discariche per rifiuti tossici dietro un corrispettivo in armi, questa è la mia idea maturata perché in quella zona non vi era altro da offrire, zero densità demografica, nulla; nonostante ciò giravano davvero troppi affari. Forse l’illegalità girava anche tramite i famosi pescherecci della cooperazione internazionale. Insomma, il posto ideale per cose che non si devono sapere. Io però non ebbi mai la possibilità di indagare personalmente».


Come funzionava il meccanismo poco sviluppati che riconoscono un affare dell’embargo e quali giri d’oro seppure a fronte di una tecnologia superata». facevano queste armi? «Diciamo che ci sono dei Paesi per cui la Comunità internazionale ha imposto delle regole, il veto, o l’embargo viene posto a tutti quelli che non danno garanzie di rispettare le regole e che in precedenza, per fatti gravi e specifici sono stati posti sulla lista. Ma i trafficanti, grazie a diverse strategie, riescono a superare il problema agendo per un paese che non risulta in pregiudizio, e che poi da lì è in grado di far arrivare comunque la fornitura al Paese a cui è stato posto il veto d’importare le armi. Gli ostacoli sono dunque superabili agendo sulle discipline. Quando si presentava una società con delle credenziali per un Paese che non aveva l’embargo ‒ parliamo di società con copertura militare, non società qualsiasi, siccome queste cose non si fanno facilmente ‒ esse si presentavano con finti intenti e dietro questi intenti a volte anche d’interesse sociale, come costruire o ricostruire intere zone disagiate, conducevano trattative per il traffico illecito con i Paesi senza autorizzazione intenti ad acquistare armi. Forse non si riesce a comprendere l’affare monetario dietro la vendita, ad esempio, di 50.000 pezzi, per noi obsoleti, a Paesi

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MESE o L E D om STA Bon CHIE

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to lber agone A i ra d eR a cu asqual eP

E riguardo proprio ai carichi che solo a qualcuno che poteva comprare e poi le armi seguivano un altro percorso. arrivavano nella ex Jugoslavia? «I veri traffici sono in grado di raggirare qualsiasi problema. In quegli anni riguardavano principalmente armi facili da costruire. Il kalashnikov era una di queste. Un’arma semplice, calibro 7,62 o 5,56; calibri da guerra molto veloci e potenti con grossa forza di penetrazione e ampio volume di fuoco che, per l’appunto in Afghanistan venivano realizzate anche manualmente da piccole fabbriche artigianali riproducendo i fucili d’assalto abbastanza fedelmente».

Sempre lo stesso meccanismo. Raggiunti i canali ufficiali ipoteticamente riuscivano a giungere nell’ex Jugoslavia così come in Somalia ma la certezza non esiste, solo un grosso giro di sospetti. Si consideri che sono giri molto chiusi in cui è quasi impossibile entrare. Non ci s’improvvisa trafficante di armi. Diversamente dal traffico di droga in cui tu puoi anche avere una brutta faccia e portare avanti i tuoi affari, nel traffico delle armi devi essere un accreditato, o stare dentro un certo giro».

E sul traffico tra Italia ed ex Cosa pensa della morte di Alpi e Jugolsavia? Hrovatin?

«In Italia c’era un veto per tanto se le armi erano vendute lo si faceva sottobanco. «Penso come tanti che Ilaria Alpi Esistevano dei canali con o senza la aveva trovato qualcosa di concreto, e complicità delle fabbriche; si vendeva non escludo lo scambio di armi con lo smaltimento rifiuti tossici o radioattivi, qualcosa di grave, altrimenti non sarebbe morta. Che questa sia una vicenda sporca e anche se non posso affermarlo con certezza, che scavando nel passato fino ad arrivare ai rifiuti tossici, si possa arrivare alla verità, ma per arrivarci, bisogna giungere al posto giusto. Solo così, riaprendo il caso e localizzando i luoghi in pregiudizio dove si ritiene che siano state sepolte le scorie, sarà possibile riesumare tasselli importanti per rafforzare precise teorie».

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I RIFIUTI TOSSICI

E RADIOATTIVI

SCARICATI

IN SOMALIA

Il traffico di rifiuti illeciti vĂŹola i diritti fondamentali dei bambini alla vita, alla sicurezza alimentare e allo sviluppo

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Malgrado molti Paesi in via di sviluppo, soprattutto africani, abbiano subìto gli effetti nocivi dello scarico dei rifiuti altamente tossici originati dai Paesi industrializzati, il caso della Somalia è particolarmente preoccupante. Nell’ultimo ventennio la Somalia è stata devastata da una miriade di problemi, tra cui la violenza politica e la protratta guerra civile, la migrazione in massa dei civili colpiti dal conflitto (sia come rifugiati nei Paesi confinanti sia come sfollati interni), la mancanza di leggi e di istituzioni pubbliche, i disastri naturali e il degrado ambientale senza precedenti. A tutto ciò si aggiungono lo Tsunami, la deforestazione, la pesca eccessiva e illegale da parte delle flotte straniere e le operazioni di scarico continuo su larga scala di rifiuti chimici e radioattivi altamente tossici. Da alcuni dossier di agenzie internazionali ambientaliste come l’UNEP (United Nations Environmental Program), Greenpeace e altre ancora, e da varie inchieste da parte di autorità giudiziarie, emerge che la Somalia sarebbe stata utilizzata dalle industrie occidentali, tra intrecci e connivenze con le organizzazioni di stampo mafioso e i governi, come terreno di scarico per esportare, e quindi nascondere, grandi quantità di rifiuti tossici. A metà degli anni ‘80 era già vittima del cosiddetto “Colonialismo tossico”, ma è solo dopo gli anni ‘90 che lo scarico illegale di scorie pericolose in Somalia diventa un fenomeno dilagante.

Proprio in quegli anni le parti in guerra avrebbero accettato i rifiuti tossici in cambio di armi e munizioni. Si intuisce facilmente, quindi, come lo scarico di rifiuti tossici è stato in Somalia uno dei maggiori elementi trainanti della guerra civile che ha rovinato l’intero paese; tutto questo a favore dei governi occidentali che in questo modo “avrebbero risparmiato” miliardi nello smaltimento dei loro rifiuti pericolosi. Anche l’Italia avrebbe partecipato a queste operazioni, facendosi aiutare dalla criminalità organizzata, soprattutto dall’Ndrangheta calabrese, come sarebbe venuto fuori dalle rivelazioni di alcuni boss pentiti e dal Rapporto Ecomafie 2006 di Legambiente. Ci sarebbe tutto questo dietro la morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, forse proprio perché “colpevoli” di investigare sulle pratiche illecite guidate dai paesi occidentali in Somalia e di aver scoperto un traffico pesante di armi e rifiuti?

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Come dicevamo, sin dagli anni ‘80, la Somalia è stato oggetto di lunghe operazioni di scarico di rifiuti tossici e radioattivi illegali. Queste azioni sono state compiute sia lungo la costa sia nell’entroterra e hanno avuto ‒ e continuano a causare ‒ conseguenze pericolosissime sulla salute, sui mezzi di sussistenza e sulle prospettive future per uno sviluppo sostenibile della popolazione locale. La questione dei rifiuti tossici ha contribuito alla continuazione e alla esacerbazione degli effetti mortali del conflitto armato che è in corso in Somalia da ormai due decenni. Tutto ciò ha compromesso la salute degli uomini, l’ambiente naturale, la sicurezza alimentare e le prospettive di sviluppo a lungo termine degli autoctoni. Più in generale, ha negato alle vittime il soddisfacimento dei loro diritti fondamentali, ossia il diritto alla vita, ad un ambiente sano e alla sicurezza alimentare. Immediatamente dopo lo Tsunami, avvenuto nell’Oceano Indiano, che colpì anche la costa somala nel dicembre del 2004, il mare fece venire a galla containers e fusti pieni di sostanze tossiche che erano stati precedentemente scaricati o sotterrati. Il contenuto velenoso contaminò le fonti d’acqua e l’aria, e gli effetti negativi

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arrivarono sino a 10 km di distanza. È noto che in Somalia, a causa della caduta del regime nel 1991 e della violenta guerra, quasi tutte le istituzioni pubbliche hanno cessato di funzionare, tra questi i principali ospedali del paese e altri servizi pubblici sanitari. Soprattutto, nel centro e nel sud della Somalia, che non solo sono stati gli epicentri del teatro sanguinoso del conflitto, ma anche dello scarico illegale di rifiuti, soltanto poche cliniche private sono riuscite ad operare attraverso postazioni sanitarie messe in piedi da organizzazioni


umanitarie internazionali. Da ciò si comprende come sia stato impossibile monitorare i problemi sanitari del popolo somalo in modo sistematico e coordinato e permettere di risolvere la situazione adeguatamente. Da metà degli anni ‘90, gravi problemi di salute, tra cui malattie sconosciute, hanno colpito sia la popolazione che gli animali in Somalia. L’UNEP ha dichiarato infatti che gli scarichi tossici hanno infettato l’acqua e l’aria causando infezioni acute delle vie respiratorie, tosse secca pesante, bocca sanguinante da emorragia addominale e strane reazioni chimiche sulla pelle. Inoltre, è stata riscontrata un’eccessiva

incidenza di cancro, malattie sconosciute, aborti spontanei e malformazioni nei neonati (microcefali e macrocefali, la cui frequenza è così abnorme che non si trova riscontro in alcun testo scientifico). I diritti fondamentali dei bambini somali sono stati costantemente violati, tra cui il diritto ad avere una vita, a godere dei più semplici standard di salute, a potersi sfamare, a bere acqua pulita e il diritto allo sviluppo. A fronte della gravità della situazione di crisi profonda in Somalia, i governi e i Paesi occidentali non devono più ignorare i comportamenti criminali e le conseguenze devastanti, ma dovrebbero iniziare finalmente a trovare soluzioni e misure urgenti contro il traffico di scorie, valutando la natura e le dimensioni di questi rifiuti e del loro impatto sulla popolazione, e contrastare i trafficanti a livello internazionale. Sarebbe bello finalmente poter vedere pulite le spiagge di North Hobyo e Warsheik e i bambini poter giocare tra le strade di Bosaso e Mogadiscio serenamente, come fanno i nostri, come è giusto che sia e come tutti i bambini nel mondo meritano. Nessuno deve sentirsi superiore ad un altro e togliere i rifiuti tossici dal proprio paese e sporcare e rendere malsana la terra altrui.

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IL BUSINESS DEI RIFIUTI

IN ITALIA

Dall’indifferenza generale alle modalità di smaltimento, fino all’import-export dei rifiuti in Italia

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Il problema dei rifiuti in Italia, negli ultimi anni, suscita l’attenzione dell’intera comunità, non solo per la difficile gestione organizzativa dello smaltimento, ma anche per le numerose conseguenze negative riscontrate sullo stato di salute di molte persone. In Campania, la famosa questione della “Terra dei fuochi” lascia spazio a molteplici riflessioni. Per anni, rifiuti di ogni tipo sono stati smaltiti in una maniera assurda, interrati e sversati illegalmente. Tutto ciò è accaduto nell’indifferenza generale, fin quando non si è arrivati al limite. I roghi quotidiani hanno contaminato

intere aree diffondendo nell’atmosfera e nel sottosuolo sostanze nocive che hanno innalzato fortemente il tasso di mortalità tumorale degli abitanti di alcune zone campane. Numerose aree sono state poste sotto sequestro e si parla oggi di bonifica del territorio, ma la coltivazione e la diffusione illegale dei prodotti della terra resta ancora un dubbio irrisolto. Tralasciando l’aspetto di queste aree a rischio, la questione dello smaltimento è molto più complessa. Dal Rapporto Rifiuti urbani 2015 effettuato dall’ISPRA (Istituto Superiore per la

Immagine dalla Terra dei Fuochi

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Protezione e la Ricerca Ambientale) emerge che in Italia la maggior parte dei rifiuti finisce in discarica. L’analisi dei dati mostra che al Nord viene pretrattato il 61% dei rifiuti smaltiti in discarica, al Centro l’82% ed al Sud il 68%. Nella regione Lazio solo il 6% dei rifiuti urbani viene avviato in discarica mentre in altre regioni il ricorso allo smaltimento in discarica è ancora elevato come per la Puglia e per la Sicilia. Sotto al 5% si collocano anche Lombardia (3%), Friuli Venezia Giulia (3%), Umbria (5%) e Molise (2%). Ancora molto indietro appaiono Valle d’Aosta (100%), e Basilicata (75%). Trentino Alto Adige (79%), Liguria (79%) In Italia ci sono anche 44 diversi impianti di incenerimento per rifiuti urbani (13 solo in Lombardia), 8 al Centro (5 in Toscana e 3 nel Lazio) e 7 al Sud. L’analisi dei dati regionali mostra che il maggior quantitativo di rifiuti urbani è incenerito nelle regioni del Nord (70,4% del totale nazionale). Sono interessanti anche i dati relativi all’import e all’export dei rifiuti, da non sottovalutare. Nel 2014, i rifiuti del circuito urbano esportati sono stati oltre 321.000 tonnellate, di cui 320.000 risultano essere non pericolosi (il 99,6%). In particolare 99.000 tonnellate esportate

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sono costituite dai rifiuti che provengono dal trattamento meccanico dei rifiuti urbani, 83.000 tonnellate sono i combustibili (CSS), 54.000 tonnellate sono le frazioni merceologiche da raccolta differenziata e 74.000 tonnellate sono i rifiuti di imballaggio. Tali scarti vengono esportati maggiormente in Austria e nei Paesi Bassi. Le importazioni, invece, provengono dalla Svizzera. Le tipologie di rifiuti maggiormente importate sono plastica (62.000 tonnellate), vetro (circa 62.000 tonnellate) e scarti di

abbigliamento, con circa 32.000 tonnellate. L’Italia si affida quindi ad altri Paesi per lo smaltimento di tantissimi rifiuti speciali, ma ne importa altrettanti di non pericolosi, da avviare a riciclo. Questo avviene a causa dell’inefficienza di molti grandi comuni e per la carenza di impianti adatti. Per tale motivo, lo smaltimento nazionale risulta più oneroso rispetto all’estero, dove soprattutto nell’Europa centro-settentrionale esistono dotazioni impiantistiche ben più estese.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI

a cura di Mauro Valentini

1994 – L’ANNO CHE HA CAMBIATO L’ITALIA

Un anno che sembra di passaggio, tra Prima e Seconda Repubblica, ma è al centro dei misteri del paese Quattro misteri tra la Prima e la Seconda repubblica. Il delitto Rostagno (1988), la tragedia del traghetto Moby Prince (1991), gli omicidi dell’ufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi (1993) e dei reporter Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (1994). Una controinchiesta qui riproposta in un’edizione ampliata, con una nuova premessa degli autori, che impiega i risultati di diverse indagini della magistratura. 1994 (Edizioni Chiarelettere) è un libro coraggioso, che affronta casi che sembrano lasciati all’oblio, con testimonianze e documenti inediti che accendono una luce su omissioni, depistaggi e prove inquinate. Negli anni emergono brandelli di verità sulla tragedia del Moby Prince, nella rada di Livorno, dove erano in corso manovre illecite di trasbordo di armi e materiale bellico. Mogadiscio, Livorno, Trapani, Palermo, Roma, Milano: tappe di un unico percorso che porta alle stragi di mafia del 1992-1993 e pone sotto una nuova luce la svolta elettorale del 28 marzo 1994, una settimana dopo l’uccisione in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i due giornalisti del TG3 pronti a mandare in onda un servizio annunciato e clamoroso. Il centro di tutto questo libro inchiesta è quel legame misterioso e sottile che lega il dramma della Moby Prince a Livorno con l’omicidio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin a Mogadiscio e che, è la tesi degli autori Luigi Grimaldi e Luciano Scalettari, legame solo sfiorato soltanto da un’inchiesta parlamentare che non ha fatto chiarezza. Ecco la faccia nascosta della Seconda Repubblica, che appena nata mostra già i terribili difetti della prima. Chiarelettere è sempre attenta al giornalismo d’inchiesta, ne fa una collana ma soprattutto un vanto, e quest’opera con il taglio che compete ai due bravi giornalisti e autori, cerca, scruta, non ha paura di dire. E di raccontare.

Diritto di Cronaca,

la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

Al cinema

IL CASO SPOTLIGHT

a cura di Gianmarco Soldi

Fresco vincitore dell’oscar per il Miglior Film e acclamato nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, Il caso Spotlight sembra essere destinato a lasciare una traccia nella storia dei film d’inchiesta, proponendosi come capofila delle ormai numerose pellicole di denuncia partorite dall’industria cinematografica americana negli ultimi anni. Si tratta di una storia vera, cruda, avvincente perché estremamente realistica. Tutto comincia nell’estate del 2001, quando da Miami arriva un nuovo direttore per il “Boston Globe”, Marty Baron, deciso a infondere nuova linfa vitale al giornale scavando a fondo all’interno di tematiche scottanti e spesso celate agli occhi della cattolicissima Boston. Viene così creato il team di giornalisti investigativi chiamato “Spotlight”, messo immediatamente sulle tracce di presunti abusi sessuali su minori perpetrati da sacerdoti nell’arco di trent’anni. Marty Baron condivide con la squadra la convinzione che il cardinale di Boston fosse a conoscenza dei drammatici fatti, ma che abbia usato tutto il suo potere affinché la questione venisse insabbiata. Nasce così un’inchiesta destinata a far luce su una lunga serie di abusi su minori in ambito ecclesiale, nonché ad aprire una vera e propria voragine all’interno della Chiesa ancora oggi non rimarginata. Risultano estremamente commoventi i racconti dei sopravvissuti, di quegli adulti che sono riusciti con il passare degli anni a superare gli abusi subiti nella cattolica Boston, in netto contrasto con la crudezza dei racconti e della rappresentazione di una classe politica irresponsabile, capace anche di intimidire i primi testimoni. In tutto questo spiccano le figure quasi eroiche dei buoni giornalisti, protagonisti di un film fiume la cui narrazione è al centro di tutto senza la necessità di colpi di scena. L’eccelsa sceneggiatura e gli ottimi interpreti, capaci di destreggiarsi con eleganza in un tema tanto drammatico quanto attuale, fanno de Il caso Spotlight una perla pregiatissima dell’odierno giornalismo d’inchiesta.

In radio

La Storia Oscura

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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Nel 1981 fu ritrovata l qualche informazio

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2. La storia della P2 cambia quando entra in scena la figura di Licio Gelli: nel 1970 l’imprendito

toscano viene delegato dal Gran maestro a rappresentarlo in tutte le sue funzioni, poi n 1975 diventa Maestro Venerabile.

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OPO 35 ANNI: SE DA SAPERE

la lista degli appartenenti alla Loggia P2: ecco one per non cadere nei soliti luoghi comuni Il ritrovamento della lista degli appartenenti alla P2 è stato un passo importantissimo per la storia della Repubblica italiana. Eppure, molti dei nomi rinvenuti in quella lista sono ancora ai loro posti di potere in Italia. Perché non sono stati presi provvedimenti? E cos’era effettivamente la P2? Ecco dieci cose da sapere per non cadere in facili luoghi comuni.

oggia “Propaganda 2” nasce dalla Loggia “Propaganda” fondata nel 1877. Faceva parte (il Grande Oriente d’Italia), un’obbedienza massonica fondata a Milano nel 1805 e tuttora e: ad oggi conta ben più di 20 mila iscritti (in continuo aumento), tutti alla luce del sole. più di 800 logge sul territorio e sono incentrate al volontariato e alla filantropia.

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3. Il 17 marzo 1981 viene rinvenuta la lista degli appartenenti alla P2: a fare notizia tanto q

i quasi mille nomi dell’elenco, sono le circostanze del ritrovamento. La lista infatti viene ritr nel corso delle perquisizioni a Villa Wanda e nella fabbrica “La Giole” di proprietà di Licio G provincia di Arezzo, durante le indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona.

4.

La Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi ha il compito di accertare «l’origine, la natura, l’organizzazione e la consistenza dell’associazione massonica denominata Loggia P2». La Loggia viene definita come una vera e propria organizzazione criminale ed eversiva e ne viene decretato lo scioglimento con una legge ad hoc, il 25 gennaio 1982.

6. Per questi motivi molti dei nomi rinvenuti nella lista sono (o sono stati) ai loro posti di

sono risultati iscritti, tra gli altri, Berlusconi Silvio (tessera n. 625), Calvi Roberto (tessera Costanzo Maurizio (tessera n. 626), Pecorelli Carmine (tessera n. 235), Rizzoli Angelo (tes 532), Vittorio Emanuele di Savoia (tessera n. 516), Sindona Michele (tessera n. 501).

8.

Nonostante la sospensione dal GOI nel 1976 il gran maestro Lino Salvini (e il suo successore Ennio Battelli) confermano la “posizione speciale” di Gelli all’interno della massoneria.

9. La Commi

Settanta il co titolare e cioè definirsi riserv solo nei confr che ad essa a

Giulio Andreotti

10. Gelli sostenne sempre di avere po 40

che quella ritrovata fu solo una piccola fu mai riscontrato un coinvolgimento di sempre smentito di conoscere Licio Gel


quanto rovata Gelli, in

Licio Gelli

5. La relazione della Commissione Anselmi del 12 luglio 1984 giudica la lista degli

appartenenti alla P2 assolutamente autentica ed attendibile. Ciononostante molti nomi risultano iscritti alla loggia ben prima dell’insediamento di Gelli, mentre altri dicono di essere stati iscritti ad insaputa da alcuni amici. Tutti gli iscritti hanno negato il coinvolgimento in attività della loggia, tanto che l’elenco dei nomi è stato diffuso al solo scopo documentale e non probatorio.

i potere: n. 519), ssera n.

7.

Dall’insediamento di Gelli la P2 viene avvicinata ad alcuni dei più grandi scandali e misteri della Repubblica italiana: parliamo del tentato golpe Borghese, della strage dell’Italicus, della strage di Bologna, dei vari sequestri di persona organizzati dal gangster dei marsigliesi Albert Bergamelli e molti altri.

issione Anselmi arriva alle conclusioni che «Gelli ha acquisito nella seconda metà degli anni ontrollo completo ed incontrastato della Loggia Propaganda Due, espropriandone il naturale è il Gran Maestro» e che «la Loggia Propaganda Due non può nemmeno eufemisticamente vata e coperta: si tratta ormai di una associazione segreta, tale segretezza sussistendo non ronti dell’ordinamento generale e della società civile ma altresì rispetto alla organizzazione aveva dato vita».

ortato la lista completa (quella con i nomi più importanti) a Montevideo e parte della P2: nonostante le accuse della vedova di Roberto Calvi, non Giulio Andreotti (da lei indicato come li vero capo della P2). Andreotti ha lli, fino alla pubblicazione di una foto che li ritrae insieme a Buenos Aires.

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IL PALAZZO DEI BAMBINI CHE PRECIPITANO Nel Parco Verde di Caivano dove cronaca nera, spaccio e lotta al crimine si intrecciano

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“Il Parco Verde” di Caivano (Napoli) sorge nel 1980 per fornire una rapida soluzione abitativa agli sfollati del terribile terremoto di quell’anno. La solita soluzione provvisoria che in Italia diviene inesorabilmente definitiva. Un luogo, comunque, dove dare una parvenza di serenità e crescere pure dei figli; invece nel corso dei decenni in questi grigi palazzi, costruiti in economia, è successo di tutto: dallo spaccio al consumo di ogni tipo di droga, fino alla pedofilia. Sì, perché in questo luogo si parla di bambini solo come vittime di orribili fatti di cronaca nera. Come quella di Fortuna, bambina che, al contrario del suo nome, ha avuto un orribile destino finendo la sua brevissima vita sull’asfalto dell’Isolato3, a soli 6 anni, in un caldo 24 giugno 2014. Vittima non solo di un volo da non si sa bene quale piano, forse l’ottavo, del palazzo in cui viveva, ma anche di altro: l’autopsia rivelerà che la piccola subiva da tempo abusi sessuali. Dopo la caduta venne soccorsa da un uomo, Salvatore Mucci, che sulle prime apparve come un angelo che tentava di salvarla, ma che il 23 dicembre 2014 verrà arrestato con una turpe accusa: violenza sulla figlia di 12 anni. E venne arrestata pure la mamma dell’amichetta da cui Fortuna Loffredo era andata a giocare quel giorno maledetto, accusata di sapere e coprire il suo convivente Raimondo Caputo, pure

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arrestato, che avrebbe abusato di un’altra sua figlia, di soli tre anni. Secondo gli investigatori, l’uomo avrebbe costretto la bambina a subire atti sessuali in presenza della madre «la quale – scrive la Procura – sebbene a conoscenza dei comportamenti assunti dal convivente ai danni della bimba, non li impediva, omettendo altresì di denunciarli, in spregio al dovere di protezione su di lei incombente, né si attivava per evitare il

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protrarsi dei fatti delittuosi sopra descritti». La donna, Marianna Fabozzi, era già indagata per omicidio colposo per la morte di suo figlio Antonio che a due anni, il 27 giugno 2013, era precipitato dal settimo piano di quello stesso palazzo, dalla casa della nonna. Una coincidenza che ha destato sospetti. Due bambini precipitati nello stesso luogo diventa troppo anche per Caivano, Parco Verde. E diventa sempre più difficile


credere alla tragica fatalità. Particolare inquietante, in un caso già di per sé atroce: sia Antonio che Fortuna sono stati ritrovati senza una scarpa, la destra. In entrambi i casi sparita. Qui nessuna situazione famigliare è semplice: la mamma di Fortuna, Domenica Guardato, ha dovuto trasferirsi da una sorella in Emilia, in seguito al divieto di abitare a Caivano perché coinvolta in un’indagine su un giro di soldi falsi. Il padre della piccola, invece, era in carcere già prima della morte della bimba. Una realtà anche estremamente omertosa, dove persino le Forze dell’ordine faticano a mettere piede, dove microspie ed altri apparati per le indagini vengono sistematicamente distrutti. Un luogo quasi maledetto anche per chi indaga, infatti uno dei titolari dell’indagine, Federico Bisceglia, perse la vita in un tragico incidente stradale. Il primo ad aver deciso di indagare anche su altri bambini possibili vittime di abusi. Altra inquietante coincidenza. Il quadro del degrado di questo quartiere emerge dalle cronache dai titoli agghiaccianti, come Rivolta nel Parco Verde, in 50 aggrediscono una pattuglia di polizia, oppure Evade dai domiciliari per spacciare: arrestato, e via di seguito.

Qui persino i giochi dei bambini si trasformano in mezzi per spacciare droga. Le sorprese all’interno degli ovetti di cioccolata, per esempio, offerti ai piccoli non come ricompensa per un compito scolastico ben fatto, ma come sistema per far circolare impunemente dosi di cocaina. Sul caso della piccola Fortuna ora si attendono sviluppi, ma l’ultima novità, al contrario, è la soppressione dell’Istituto Viviani-Papa Giovanni che dal primo settembre 2016 non esisterà . Ridimensionamento, si chiama. Il Comune ha fatto sapere al Ministero che ci sono pochi alunni e serve ottimizzare i

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costi. «Ogni giorno, ora qui al Parco Verde almeno 500 bambini sono a rischio. E senza la scuola, lo saranno ancora di più. Vedranno solo spaccio e tossici, senza alternativa», afferma Bruno Mazza, ex affiliato alla Camorra, ora volontario dell’associazione Un’infanzia da vivere. I docenti, una novantina, hanno pure scritto al Ministro dell’Istruzione parole molto accorate, ma che difficilmente potranno modificare le sorti di questo plesso scolastico: «Tanti di noi stanno qui da anni, tanti sono venuti a insegnare qui perché gli altri rifiutavano, tanti negli anni

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sono ritornati perché sono stati calamitati in un progetto educativo capace di strappare dal nulla i ragazzi per accompagnarli nel cambiamento possibile. Ora però viene ufficializzata la soppressione giuridica del nostro istituto con una suddivisione di alunni, docenti ed Ata come se fossimo “cose”. Ma la cosa inverosimile è che è stato messo in vendita il progetto educativo, il patrimonio culturale e strumentale della scuola». Un altro pezzo di legalità che ne se va.



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Quando il cinema aiuta a farci comprendere l disabilità e le difficoltà, emozionando

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Quante volte ci siamo trovati nella condizione di guardare un film e di sentirci parte di esso, tanto da provare sensazioni così forti da commuoverci. Questa capacità di coinvolgere lo spettatore nella trama di un film, ha indotto alcuni registi a introdurre elementi nuovi e originali, quali la disabilità. Il cinema è sempre stato fin dai primi del ‘900 attratto da una forma di diversità che poi, a seconda del ruolo, ha modellato rendendo delle volte il personaggio terrificante, grottesco ed altre sensibile, dolce e vulnerabile. La rappresentazione della disabilità è maturata nel tempo assieme alla condizione della nostra società. In alcuni casi è stato anche un azzardo, perché mostrare la disabilità sul grande schermo, vuol dire porre l’attenzione su qualcosa che molti vorrebbero non vedere, nascondere.

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Johnny Eck e Angelo Rossitto in Freaks

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Invece in questi casi si obbliga il pubblico a guardare in faccia alla realtà, a scontrarsi con un’evidenza che è palese: un corpo diverso dal loro, un modo di vivere differente. Oppure la sofferenza di una malattia, la disperazione, lo sconforto ma anche la rinascita e la forza di chi non si arrende nonostante tutto. Troviamo nella storia del cinema una grande differenza tra la disabilità mostrata nei primi film come quello del 1932 e quelli di oggi. Parliamo del caso più noto in assoluto e cioè nel film Freaks dove il protagonista Tod Browning (disabile anche nella vita) Joseph Merrick nel 1886

rappresentava la malvagità, la cattiveria portata proprio dalla sua diversità rispetto agli altri. Invece nel famoso film La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak, la protagonista che è una donna con un handicap (ha perso la parola per un blocco psicologico) è la vittima di uno spietato killer che vuole uccidere tutte le donne disabili. La dolcezza e lo spirito di conservazione della giovane spingerà lo spettatore a Tod Browning nel 1921

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volerle bene, a tifare per lei, tanto che fino all’ultimo spera nella sua salvezza. Nel corso degli anni tanti sono stati i film che hanno trattato il tema della diversità: fisica o mentale. E le vicende ruotano più attorno al tema che non al personaggio in sé, quindi al suo essere diverso. Questa condizione può portare reazioni di attrazione, così come di rifiuto negli altri. Per chi non vive sulla propria pelle un disagio, una disabilità, non è facile delle volte comprendere. Pertanto trovarsi davanti un corpo deformato per una malattia o un incidente e fare anche i conti con le esigenze di tutti i giorni, quali amare ed essere amati, non è semplice da capire. Pensiamo per un attimo al film The Elephant Man, che narra la storia vera di Jonh Merrick, un uomo che a causa di una malattia rarissima, ha il corpo tanto deformato da renderlo mostruoso. Mostrato come “uomo elefante” in un circo, viene sfruttato come una bestia. Eppure è dotato di grande intelligenza e sensibilità, ma questo non basta perché le persone hanno timore di lui. Ricordiamo questa frase toccante che urla disperato verso la fine del film: «Non sono un elefante. Non sono un animale. Sono un essere umano, sono un uomo».

Su questa frase emblematica dobbiamo tutti fermarci e riflettere. Impariamo a vedere oltre le apparenze, oltre il corpo, oltre la disabilità, perché solo così scorgeremo la persona che abbiamo dinanzi.

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