Blobblog HanabĂŽ(me) di neo-linguaggi interrotti, da Blob ai blog
Di Cristina Sivieri Tagliabue Interrotta da enrico ghezzi (incorsivo)
Conversazione in occasione del 1 numero di Nòva Review (Il Sole 24 Ore)
Introduzione: Questo scritto è un’improvvisazione di una prova. Come accade ai neolinguaggi nati dal tentativo di narrare attraverso media sconosciuti, o dal tentativo di innovare media già conosciuti attraverso nuovi racconti, Enrico Ghezzi e la sottoscritta si sono cimentati in un saggio a due voci, scritto ed elaborato in un fitto scambio di e-mail. Ne è uscito un testo a due chiavi di lettura. La prima, consequenziale, cerca di affrontare le similitudini linguistiche e di formato tra il Blob televisivo e i blog internettiani. La seconda, in corsivo, è una riflessione sulle possibilità (e impossibilità) della scrittura internettiana fatta da Enrico Ghezzi. Le cui parole, come in Blob (o nei blog) sono state scientificamente e chirurgicamente spezzate, per poi essere ridistribuite nello spazio dei prossimi fogli. 1 - Blob, che storia Il 19 aprile del 2004, per festeggiare 15 anni di Blob, al cinema sociale di Brescia si tiene una maratona di 15 ore di proiezioni senza sosta del format che ha cambiato la televisione italiana. Al buio – conditio sine qua non del cinema – e fuori dall’orbita – conditio sine qua non di Ghezzi come anche il fuori orario, e tutti gli altri “fuori” del grande gioco mediatico – l’inventore del neo-linguaggio catodico per eccellenza, ispirandosi a Paul Valery, spiega come “ogni telespettatore fa il suo blob”. Sono passati solo tre anni dal primo “we blog” detto in italiano. Ovvero dal primo tentativo di scrittura personale e diaristica su internet nella nostra antica e nobil prosa. Interrotti e interattivi, e tuttavia continuum ossessivi intervallati solo da spazi bianchi del “non detto” e del “non successo”, i blog si diffondono nella rete come un enorme lingua di blob ininter-mediato e al contrario im-mediato. Invadendo – senza chiedere il permesso - luoghi letteralmente abitati, e occupando spazi inesistenti. Che diventano nuovi post-i di interdialettica, libera da qualsiasi schema precostuito e “fuori” dalle leggi della comunicazione tout-court.
Ciao cara sivi, solo per inestirpabile passività e ignavia ivi e qui e nonsodove ti scrivo e mi scrivo. Dal o nel terribile dolcissimo e affollatissimo e infinitamente sovrimpresso futon, sito immediatamente archeologico che è lo spazio in cui non sto scrivendo graffiando stridendo (scr, scr), ma –da ben
prima che nascessi (almeno da quando Sterne e Kafka e Benjamin lo seppero)- se mai scolpendo forme nell’acqua se non nell’aria. Quasi disperato d’esser sempre salvato come tutti. Ogni telespettatore fa il suo blob, dice Ghezzi. E ogni rete-spettatore fa il suo blog, diciamo noi. Le due formule mediatiche, televisiva – vero e proprio format scuola – e internettiva, sono l’una l’anticipazione dell’altra. Con una sostanziale identità nominale (b e g, le desinenze, sembrano declinazioni di uno stesso suffisso, come di una stessa idea di libertà – non liberista – di espressione) e di formato.
E che il tuffo di narciso sia un’illusione cosi’ ebete e spietata, di poter infrangere gloriosamente la propria immagine toccandola abbracciandola precipitandola precipitandovi annegando in essa, quando invece è superficie ghiacciata su cui scivoli godi cadi provi dolore ma non muori, perché gli specchi non si rompono mai davvero, se si rompono si moltiplicano, e anche se si dissolvono non ti inabissi né ti manca l’aria ; eri e sei già in apnea e continui a nonrespirare quella nonaria, pulviscolo di immagini di specchi in cui già nuotavi senza riuscire a inabissarti (il mare di plastica del casanovadifellini, in cui sei già annegato perché vivi, ancor prima di esserti reso conto che è finto e allora sei spacciato perché non puoi uscirne, sarà specchio fluido finché vivrai ; la morte appunto non sarà piccola gloria del prometeo precipitato in narciso, ma burocratico spegnimento o camicia che si ripiega e si ripone forse per essere perfino riusata riindossata riassegnata a chi da chi). Incapsulati all’interno di palinsesti – quello di Rai Tre, per Blob, e quello di un programma software, per i blog – i bloblog hanno creato nuove formule espressive, dando voce al “fuori” programma, invece che al dentro. Alle persone, invece che ai personaggi, e alle idee, invece che alle icone. La stigmatizzazione e la satira del reale è stata la prima e inevitabile conseguenza di questa rivoluzione – da dentro – dei media. Blob, però, ha avuto una responsabilità superiore. Perché con lui, il suo creatore, si è fatto carico di una rottura, di un’apertura degli spazi e dell’innesto del “nuovo”. In una ricerca del reale che, nel 1989 non poteva che avvenire attraverso il virtuale.
Minterrompo da solo ; come vedi ; con questo spazio che spero lascerai (e con questi punti e virgola che, nella tastiera che mi si presta stanotte per i
settantacinque minuti circa in cui cedo alla performance, occupano lo spazio in cui di solito i polpastrelli trovano la virgola ; non sempre me ne accorgo e mi correggo, né avro’ il tempo di abituarmi ; quando restano e li trovi qui riposati ostinati resistenti e infine interrompenti, lasciali), e provando a abbandonare questo primo inutile goffo salto carpiato che neanche sfiora l’acqua. E allora una rappresentazione di successo in Blob diventa un in-successo. Il processo è scientifico: la commedia della quotidianità mediatica, se interrotta, tagliata e mediata da una regia o dal pubblico stesso, diventa un’assurda rappresentazione del nulla, dell’in-esistente. Portando invece l’altrove, quello che succede nel mentre al pubblico che guarda e che osserva, alla dignità di vero-storico.
Allora scrivo da sempre (lo dico criticamente e dolendomene, anche se sarei felice che cosi’ fosse, che non avessi quindi il tempo di accorgermene) nella condizione di un grande cineoperatore specialista di reportage dal vivo sui lanci di paracadutismo estremo, che un giorno –seconda meta’ anni ottantasi getto’ dall’aereo con la sua cinepresa ma (senza volerlo, come testimoniarono le sue urla e i suoi movimenti sempre piu’ disperati e inconsulti) senza il paracadute. Un eroe del nostro spazio (di cui ho gia’ perso il nome; presto perdero’ (li cito troppo spesso questi due filosofi del comportamento post-tecnico) anche quello della vestale della registrazione, una viceministra, che in pieno dibattito tv in diretta durante una campagna elettorale si fermo’ confusa insoddisfatta interdetta facendo segno alla regia e dicendo la possiamo rifare? Silenzio sconcerto imbarazzo) Ghezzi quindi, parcellizzando la televisione “da dentro”, ha auto-denunciato il falso-mediatico in funzione della riappropriazione del mezzo a favore delle persone che ne fruivano. I blog, oggi, sono semplicemente – e forzatamente - il seguito della stessa storia…
Interrompimi tu quando vuoi, blocca la pasta che cola ; falla a pezzi, usala per interromperti. Ho scorso ho scorto quello che hai scritto o stavi scrivendo. Una volta sola o neanche.
2 - Che cos’è la neo-televisione? L’alienazione, secondo Guy Debord, filosofo e cineasta suicidatosi nel 1994, "n'est pas un ensemble d'images, mais un rapport social entre des personnes, médiatisé par des images". L’alienazione, non è un insieme di immagini, ma il rapporto sociale tra persone mediato dalle immagini (tesi numero 4 de “La società dello Spettacolo”).
Risibili precisazioni spaziotemporali, cronografie da quotidiano o da giornale cnn o ondine, indicazioni di secche da mappa nautica , di scogli fari spiagge. Non vezzi. Non abitudine. Se mai, la rivolta inane contro l’abitudine infine allo scriversi al chiudersi al definirsi, interrompendo il doveroso eroico patetico processo di annullamento del se’ che scrive come di quel che e’ oggetto del suo scrivere, e della stessa distanza o differenza tra questi due annullamenti. Nel tempo continuo colloso pastoso pienodivuotifittissimi di internet, i riferimenti indifferenti e precisi agli accidenti del finto fluire personale sono un appiglio quasi urlato (certo comicoromantico) a un impersonale e ripetuto trovarsi inevitabili nel mezzodelcammindilorovita, sempre ‘mezzo’ perche’ ne’ inizio ne’ fine furono mai dati. Il secolo scorso ha avuto tanti detrattori della signora tv. Senza fare la cronistoria del tubo-catodico-pensiero, da Douglas Kellner (che con il suo “Media Spectacle” ha denunciato la società degli eventi di massa) a Karl Popper (100.000 copie best seller anche in Italia, con la sua televisione cattiva maestra) sono stati tutti d’accordo. La tv ha volgarizzato il durante delle nostre esistenze nell’attesa che qualcosa succeda “fuori” da noi, e dentro lo schermo, o intorno a noi. L’importante che ci siano tante persone a cui succede la stessa cosa, o che la guarda, o che vi partecipa. Altrimenti, nulla è successo… Dando il fenomeno per acquisito – e omettendo analisi sociologico-culturali - oggi gli studiosi dei media sono passati ad interrogarsi circa il “contenuto” della televisione. E dall’analisi dei palinsesti e dei loro termini tecnici – una vera e propria disciplina, ormai - allo svisceramento dei generi, vanno molto di moda parole come paleotelevisione. E soprattutto neotelevisione. Questo termine, in particolare, piace ai professionisti e studiosi dei nuovi media, che anche per giustificare un passaggio di contenuto dalla piccola scatola casalinga all’internet e ai telefonini. La neo-televisione è un concetto acquisito dallo stesso Aldo Grasso, che già nella sua pubblicazione (“Che
cos’è la televisione”, Garzanti, 2003) dà per scontato il termine di neo-tv, e passa alla narrazione dei suoi generi: la reality tv e il talk show. Ammettendo quindi il genere neotelevisivo, la sua presenza, e la sua trasversalità attraverso i media - i generi neotelevisivi sono anche quelli che vengono più agilmente adottati dai palinsesti delle compagnie telefoniche e delle televisioni via internet, o del digitale terrestre – vorremmo capire il perché di questa scelta (non obbligata). Davvero il futuro dei contenuti tubo-catodici sono i reality show? E davvero la chiacchiera su sgabello, poltrone bianche, a conduttore semi-inpiedi o semi-seduto con ospiti sono il modello della televisione prossima sventura? A nostro parere, semplicemente, sono modelli dati. Quelli che come “follower”, segugi e seguitori dell’imprinting a stellestrisce abbiamo seguito, di buon grado. O almeno, che i tecnici, addetti ai lavori, professionisti e manager della televisione hanno “adottato”. Un po’ per “andare sul sicuro”, e un po’ perché i reality, in realtà, sono stati la notizia del nuovo secolo. E’ durata poco, è vero (già dopo sei anni il modello è in calo) ma sono stati i media stessi a creare il meccanismo di santificazione.
Nel breve spazio intagliato nella notte cortissima, provo a trovare non le risposte o le reazioni su (quel che dici o dicono di) blob, ne’ il bandolo della storia di un programma senza programma o del ‘programma piu’ innovativo della storia della tv’ che e’ ‘fatto solo di cose gia’viste’ in una sorta di gesto uroborico che e’ anche burocratico (buroborico infine). E se invece si fossero sbagliati? E se invece il modello da seguire fosse stato un altro? Se da una parte i “costruttori” di consensi televisivi (audience) lavorano sulle psicopatologie dei singoli da denudare - in puro stile pornografico - chi sta iniziando a sperimentare e costruire contenuti su media diversi (i contenuti video di internet, per esempio) si rivolge a modelli di narrazione molto più simili alla televisione di Enrico Ghezzi. E a Blob.
I tre geni ‘ – gin da mille e una notte- citati prima sono quelli che piu’ arditamente e coscientemente hanno provato a sperimentare l’incosciente e l’impersonale che formano il soggetto, e che hanno giocato a mettere in scacco il gioco stesso del linguaggio e dell’aprirsi e chiudersi delle storie, bloccandosi in surplace o puntando sul rinvio e sulla deviazione/detour interminabili, dilatando lo spazio vuoto impercettibile che c’e’ tra fonemi/parole/discorsi e il supposto ‘mondo’ fino a far esplodere il palloncino/linguaggio, o comprimendolo di colpo facendolo implodere e
annullando la distanza fittizia della rappresentazione/spettacolo. Nulla di ‘teorico’ in questo. Ahime’ (o per fortuna), e’ la prassi, la norma del nostro scrivere dire crederdicomunicare di questo istante. O, se vuoi, quel che rifluisce in continua immensa quasi comica risacca (quel che abbiamo ‘visto’ dello tsunami; la tremenda catastrofe evocata dal nome non e’ visibile in forma di ultimaonda immane che spazza via l’immagine stessa e chi la riprende; abbiamo registrato e divulgato una sorta di alluvione un po’ piu’ inattesa e mobile e mossa dalla terra invece che dalla pioggia dal cielo) nelle varie forme della/nella rete e’ proprio l’inanita’ anche fascinosa dei linguaggi, il rovello di formiche che giocano a palla accanite e di ragni che tessono tele a infittire i nodi della rete a renderla tela sempre piu’ spessa. Un istantaneo orbita/fuoriorbita per tutti, senza bisogno di essere mandati in giro da un razzo perche’ si e’ gia’ (in) questo razzzo, si e’ gia’ astronave non importa se in (una) vena o in spazio interstellare. Una parte di audience sta scappando dalla televisione per ricrearnese una a proprio uso e consumo, anche soltanto visiva (come i blog) senza il televideo di mezzo. E sta ripercorrendo non il seppur geniale Mike Buongiorno style. Ma quello di Ghezzi. Che già nell’89 aveva messo a nudo tutto e tutti. Senza la creazione fittizia della notizia. Semplicemente, aveva ripreso il meccanismo stesso di ripresa.
3 - Apologia dell’interruzione a – Blob, circolarità e autocritica In “Prima della pioggia” Milcho Manchewski (1994) terminava il suo film laddove aveva iniziato. E lo spettatore intuiva soltanto alla fine, prima che le luci si riaccendessero, che il finale della storia era in realtà l’incomincio. L’elemento della circolarità introduceva nel cinema una forte critica a se stesso, oltre che poesia e autenticità di una storia che nasce e continua per sempre. Chiusa nella sua circolarità, come lo siamo tutti noi, che ci ripetiamo sempre, qualsiasi cosa ci accada, e ripetiamo sempre, all’infinito, le nostre ricerche e i nostri comportamenti. Il continuum dell’esperienza circolare era già stata sperimentata dalla tv, proprio da Blob. Che introduceva lo spettatore all’inizio di una storia che terminava laddove non si sa, poteva essere la fine, anche. Se Blob non fosse stato inserito in un palinsesto ma avesse avuto modo e occasione di girare su se stesso, magari su Internet, lo spettatore avrebbe avuto la sensazione di collegarsi al tempo stesso all’inizio e alla fine di una storia, che era quella della peggio televisione di una giornata solare. Dove inizia il male, e dove finisce il bene? Blob, riproducendo secondo un suo criterio critico il peggio – o il meglio – della produzione catodica quotidiana, riproducendo il male lo purificava, e perdonava delle sue nefandezze. Trasformava il profano in sacro, in un processo di beatificazione. E al tempo stesso, espiava la televisione, attraverso un processo di confessione aperta, dai suoi mali.
Notte. E’ notte, mi pare. Briciole di suoni aeroportuali attutiti dal computer, fracasso e stridere di inferno dantesco un quarto d’ora fa per uno dei tre passaggi rituali della ‘spazzatura’ il cui urlo buio sale fino alla finestra dalla luce della strada, triturata in diretta sotto i nostri occhi (se mi affaccio) in un crepitare automaticamente rumoroso di vetri e plastiche rotte di giocattoli torturati e schiantati tessuti avvinghiati a cartoni che scoppiano con pannolini o pannoloni di vecchi e bambini nelle lame della presa, poi il tonfo rassicurante del cassonetto vuoto rimesso a posto. Poi la cosa piu’ semplice e quieta e gradevole, anche se ancora un bambino versa pianto in un cortile lontano che riecheggia di ostacolo in ostacolo fino al tuo orecchio destro, o una voce maschile grida ruggendo ‘hai capito?!’ e una femminile strilla ‘machecazzoce’dacapire?!’. Scrivi una mail, un messaggio, una risposta che non e’ piu’ una risposta perche’ e’ passato troppo tempo (e soprattutto, anche se non ci pensi mai, e’ passato troppo spazio), non ti soffermi sul fatto che
non sei ne’ sarai mai piu’ in terraferma, sei (su) una deriva domestica, vicinissimo a scoprire o verificare che la ‘casa’ sei tu se ce n’e’ ancora una (e non e’ neanche il corpo, che tra bioingegnerie e bioarchitettura e biobiografie e biobiologie e biovita ci si accinge –pulcini, bio bio- a mutare in una serie di bio(ri)scritture, facendo girare in altri voli l’elica del codice che pur fu trovata). Una telefonata, un appunto, una nota, una battuta, un biglietto come quelli che si scambiavano (tra se’ e se’ soprattutto, come dimostrano Diderot e Goldoni) i Kant i gentiluomini gli Hume le nobildonne i cortigiani e tutti quanti gli altri in attesa di telefono. Ci si riposa, sembra, e’ quasi un sonno leggero, rispetto all’affollamento di segni che un’immagine e’ sempre specie se non ci pensiamo, specie se crediamo di averla risibilmente imbrigliata in un ‘linguaggio’ e in una grammatica e in scuole perfino. Ma non e’ di fuga dall’immagine che ti sto parlando (ne’ di difesa; ne’ di resistenza all’immagine in senso stretto; se mai, di resistenza (e (r)esistenza ) nell’immagine); piuttosto, di fuga dalla fuga dall’immagine e dalla fuga di immagini, dal fiotto che prendiamo –affascinati o orripilanti, sedotti o travolti- per la ‘cosa’, mentre e’ appunto un fiotto una fuga una perdita un prillare da una circolazione infinitamente ramificata e di densita’ variabili. O meglio e peggio: di quanto possa essere impervio esaltante e scorante (necessario quindi, se si vuol provare a credere di vivere l’istante) trovare nell’immagine, in quell’immediatezza del vedere che ci pare assoluta (eppure sappiamo quanto sia anch’essa lenta e ‘relativa’ la velocita’ della luce, e forse stiamo cominciando perfino a percepirne la lentezza, dopo secoli di fantascienza stiamo per ‘iper-immaginarla’ questa distanza che e’ nell’immagine, la distanza e la distorsione che sono l’immagine; operazione che ci obbliga a fare il giro del mondo in questistante di immagine, per rovesciare l’immagine, prenderla di sorpresa da dietro attraversarla), lo scarto l’interminabile distanza il viluppo di mosse del cavallo che costituiscono infine lo spazio , intricato di sensi e piani e direzioni quanto piu’ ci appare desertico e semplice, anzi desertico semplice trasparente quanto piu’ infinitamente e’ tessuto, in un inesausto prezioso malandrino ‘levigarsi’ dall’interno. Al suo interno, il tubo catodico italiano aveva trovato il suo Purgatorio. E allora, se all’inizio apparire su Blob poteva sembrare un peccato, quasi subito le celebrità televisive ne erano ammirate e attirate. “Attenti, che ci mettono su Blob” era in realtà un desiderio recondito, più che una paura della gaffe. Chi non avrebbe voluto passare dalla critica di Blob, che li avrebbe portati agli onori del perdono pubblico? Perché per il pubblico, l’unico luogo riconosciuto come libero, era Blob. E di conseguenza, un passaggio
all’interno di questa lavatrice mediatica prometteva da una parte espiazione, e dall’altra, addirittura, acquisizione di autorevolezza. Nessuno conosceva come e perché sarebbero stati selezionati gli errori, le imperfezioni dei nostri tempi, le diversità o le uguaglianze. Il mondo dello star system all’amatriciana e il pubblico stesso della Penisola dei Famosi non poteva sapere cosa sarebbe stato esteticamente di valore, al montaggio… E questo conferiva un ulteriore elemento di mistero. Che è proprio quello che definisce le discipline artistiche e le allontana dai format. Perché Blob era arte cinematografica (e non papere) regalata alla tivù. b - Piccolo spazio pubblicità
“È difficile fare un documentario televisivo che sia incisivo ed approfondito, quando ogni dodici minuti viene interrotto da conigli ballerini che decantano una carta igienica” Rod Serling (il creatore della serie americana del ‘59 “Ai confini della realtà”) I tempi televisivi sono cambiati, in cinquant’anni. Come anche i tempi di attenzione e la capacità di concentrazione delle persone. Secondo Johnson Steven (“Tutto quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono intelligenti”, Mondadori, 2006) i videogiochi, oggi, dimostrano che la capacità di elaborazione del pensiero dei ragazzini è x volte superiore a quella delle generazioni precedenti. Quando nacque Blob, nel 1989, la pubblicità della televisione pubblica italiana era lieve. C’era il famoso dibattito veltroniano-felliniano “non si interrompe un’emozione”, per l’introduzione della pubblicità durante i film (chi se lo ricorda?) e il problema dell’intasamento promozionale anche attraverso televendite e sponsorship era lontano anni luce. Ciononostante, Blob intuisce che la formula del cortometraggio è quella da seguire. E infatti, i primi anni di Blob (a guardarli, molto diversi da oggi, più lenti, e meno incalzanti, e per questo forse ancor più affascinanti) sono scanditi da piccoli e brevi video tagliati con sapienza, seguendo una consecutio temporum autoriale e al tempo stesso, slegabili l’uno dall’altro nella loro indipendenza.
Mi pare di scriverti allora, anche se a te non sembrera’, e soprattutto ti parra’ ch’io stia scrivendo di nulla. Cosi e’. Sento montare, in questa quiete, lo tsunami di scritture vane e pienissime, un’energia possente che produce piccoli innalzamenti di livello d’onda, lievi differenze di maree, graduali scioglimenti dell’iceberg terminale (la calotta polare), intere popolazioni
dolcemente sommerse, poi altro fango altri germi e vita. E’ nulla perche’ e’ chiaro, quello che ti sto scrivendo. Il tempo del vuoto televisivo non c’è più, annullato da un Blob magmatico di eventi-corti. Formato che oggi utilizza per lo più la pubblicità, o il videoclip musicale (allora, ai primordi). Al contrario della pubblicità, però, Blob offre senso. E all’interno di un non-sense televisivo all’interno del quale, forse, gli unici messaggi chiari sono quelli commerciali, Blob utilizza la logica disincantata del creativo promozionale per uccidere la tv. Esattamente come ha fatto la pubblicità, in un certo senso. E vendicando quindi il medium televisivo rispetto all’onnipresente invadenza delle aziende, che si assommano, paganti, per pochi secondi di presenza. c - Telecomando
“La gente, drogata dal telecomando, legge molto meno, mentre leggere è vivere, e chi non legge più è colto di asfissia morale” Camilla Cederna La televisione le famiglie la guardavano dopo cena. A cena, una volta, non stava bene guardare la tivù. E tuttavia oggi, gli schermi sono ovunque e l’attenzione sfugge. Il telegiornale, poi, è un “dovere piacere” del capofamiglia. E’ la scusa per i ragazzi per accendere prima, quando si mangia. E per continuare poi, per tutta la serata. Il telecomando non ha liberato davvero la scelta del telegiornale. Quella, è stata liberata dai palinsesti televisivi, che hanno proposto l’informazione in una fascia che copre l’ora e mezza dell’orario di “raccolta” famigliare. Dalle 19.00 alle 20.30. Il telegiornale è il “dovere televisivo” per eccellenza, e si guarda. Il telecomando ha liberato lo zapping libero tra il telegiornale e la disillusione dal telegiornale. La notizia e il suo contraltare. Che non è Striscia la Notizia – da quando è stata inventata, segue gli orari dell’informazione e non è reale alternativa – ma Blob. Posizionato nella stessa fascia oraria dei super-ascolti informativi, Blob è la contro-informazione tele-comandata da Rai Tre. La via d’uscita a quelle che vengono identificate, nelle aziende, come scelte “top down”. Le scelte dall’alto, della redazione e dei direttori dei telegiornali. Che oltre che gestire le notizie, gestiscono il potere degli spazi ad esse legate. Blob, creando un montaggio smontabile di fatti non successi – perché appunto, successi in tivù – ha spezzato le logiche del Quarto Potere dei
telegiornali, e del potere televisivo in sé. Decontestualizzando l’informazione nello stesso orario della sua “emissione” controllata, ha scardinato i tempi e i ritmi del consumo informativo. Dando una reale chance di vendetta al telespettatore, e appropriandosi di un meccanismo “bottom up” di critica (scelta dal basso) all’interno del quale identificarsi. Pur essendo esso stesso un programma “controllato” dalla televisione, Blob ha aperto l’era dell’accesso mediatico televisivo. Inventando l’alternativa non televisiva alla televisione. Dando un senso, nella fascia oraria più “calda” del tubo catodico, al primo You-Tube (il sistema Internet per caricare i filmati personali più conosciuto al mondo) della storia. Perché a Blob passano le scelte della regia, e anche le scelte delle persone. E perché, paradossalmente, in quel miscuglio incredibilmente kitsch di spezzoni montati – non a caso – casualmente, ha introdotto l’elemento “spettatore” nella televisione di Stato. Oltre che alla ribellione, alla rivoluzione, e alla diversità. Caratteristiche, queste, che non necessariamente, durante l’ascolto, impegnano. Perché se durante il telegiornale bisogna stare zitti (il papà che dice “silenzio fatemi ascoltare”) Blob è anche incitamento alla disattenzione. A interessarsi del magma mediatico per farlo scorrere, nel suo nonsense. Blob è un invito a guardare, e lasciar perdere e chiacchierare. A interessarsi della tivù spazzatura per metterla da parte, e accantonarla in funzione di relazioni più importanti dell’uomo-schermo. E ritornare alla dimensione uomo-uomo. Alla chiacchiera a tavola sopra il flusso televisivo (Antonio Campo Dall’Orto ha appena inaugurato una sua Flux tv che però chiede tutt’altro che disattenzione) e all’osservazione da “fuori”, e non da dentro. Agli occhi vaganti tra lo schermo e altro rispetto alla fissità ipnotica che il resto della macchina televisiva chiede. Ché altrimenti, non esisterebbe. Blob, nel suo impegno al disimpegno, ha guardato allo spettatore come essere pensante, presente, ma non condizionabile. Non ci sono occhi che chiedono sguardi, soltanto immagini che educatamente si mostrano nella loro lontana artificiosità. d - Quei loro incontri
“Il ricordo è il tentativo di ripetere una passione” Danièle Huillet, Jean-Marie Straub La disillusione dalla fascinazione dal piccolo schermo forse era già avvenuta, negli anni Ottanta. Con l’arrivo della tivù commerciale e Drive In, insieme a tutti i programmi declinati in –issima. E tuttavia, la sfiducia del pubblico
pensante rispetto alla televisione, è andata via via crescendo. In modo esponenziale negli anni. Alla sua nascita, Blob si innestava all’interno dei palinsesti come un’iniezione di rottura degli schemi: un programma per antonomasia “spezzato”, fuori dalle regole canoniche, una mostruosità dentro l’armonico fluire dei format. Blob ha “sformato” i format per formare un senso senza cornice. Se il contenitore in televisione era tutto, con il volto presentante e il nome della trasmissione erano la conditio sine qua non della messa in onda, Blob ha eliminato la dittatura del contenitore (mummificata fissità) in funzione di una logica di contenuto (movimentata lingua, invasione – non barbarica - per antonomasia). Da questo contenuto catodico, per la prima volta, il pubblico è stato spiazzato, stupito, e solo successivamente catturato. Lo shock impresso alle persone è stato grande, e dopo il disorientamento della novità, Blob non è stato consumato, digerito e assorbito come tutti gli altri format (i reality, per esempio). Blob, innovando quotidianamente, è stato capito, come un fratello o un compagno, come un “essere” con identità senza carta. E ha lentamente conquistato autorevolezza, amicizia, compiacimento, e fiducia. Il legame in assoluto più forte che un autore, un artista, un personaggio pubblico possa creare con la platea. Quella ricetta impagabile – e incomprabile – che in pochissimi, in televisione, riescono davvero a conquistare. La credibilità. I fattori sono stati il genio, la creatività, il relazionarsi “alla pari”, e il tempo. Esattamente come succede per tutto ciò che cattura la fiducia delle persone. E Blob, per la prima volta, ha fatto incontrare autori e spettatori, esattamente come succede oggi nei blog di internet. Creando fiducia, credito, (anche in questo caso, non come le carte), condivisione di intenti e di spirito, fratellanza, riconoscimento. In una parola, una cor-rispondenza. E questo ha fatto sì che ogni cosa mandata in onda su Blob fosse più credibile del sistema televisivo stesso. Finita l’epoca del “l’ho visto alla tv”, è iniziata quella del “l’hanno passato a Blob”. Il passaggio, è diventato legge.
Sono affezionato, per esempio, all’errore nelle mail. Per alcuni (anche per me, a volte, quando la mail vuole essere solo trasmissione di un’altra formula di ‘lettera’ piu’ o meno ufficiale; quando vuol essere esatta e puntigliosa, legale e notarile, e poi pero’ non si cura d’esserlo fino in fondo, trascurando proprio di considerare la sublime trascuratezza che la velocita’ ingenera) e’ insopportabile. Per me, e’ la ‘cosa in piu’’ della scrittura in rete (il che non vuol dire che non mi piaccia o interessi trovare in rete mail correttissime concise e sobrie o estese deliranti, o materiali saggi diari blog articoli ben riletti
riguardati puliti). Qualcosa di vicino a polaroid infinite, che sviluppassero centinaia di fotogrammi del loro mutare sotto i nostri occhi che tante volte ci hanno illuso che stesse (ri)accadendo qualcosa ‘in diretta’, li’, all’immagine e nell’immagine, invece che essere ‘gia’ accaduto’, essere cioe’ infine (gia’) ‘un’immagine’. O fotografie che cogliessero non solo l’adorabile ombra il gomito guizzante il profilo impertinente del passante distratto dispettoso che attraversa sporca segna l’inquadratura del set (nostro o dell’esploratore giapponese dell’inconscio fotografico pulsionale di massa) rivelandolo tale, ma che industrialmente vedessero e registrassero alcune almeno delle affollate tracce che non vediamo (non c’e’ neanche bisogno di chiamarle fantasmi; da decenni ne abbiamo rudimentali esempi in radiografie cromatografie termografie eccetera), che so una nuvola di iodio una traccia di zolfo un profumo di cedro un’aureola d’amore. Penserei che dipende dal corpo, troppo piu’ lento e scoordinato rispetto alle tastiere (di fronte a esse, che pure ci risultano lente rispetto alla sempiterna maschera e promessa di istantaneita’ in cui la bolla/rete, le dita sono sempre in ritardo, tutti diventiamo dislessici, il corpo arranca e i lapsus si fanno da soli, ancora piu’ lapsus ancora piu’ geniali, ancor piu’ impersonalmente nostri e rivelatori). E comunque sarebbe semplice ‘pulire’, anzi e’ piu’ semplice, e’ troppo semplice, direi. E se in tv usa il verbo passare, in internet invece è bello navigare. E nella ricerca del reale attraverso la rete virtuale, come il passaggio a Blob è sinonimo di verità, così nei blog funziona. Che non basta un singolo a dire il vero, ma un insieme di singoli collegati tra loro. Nemmeno Beppe Grillo è autorevole, nonostante abbia il blog più visitato in Italia. E’ il legame di fiducia tra le persone che lo hanno “linkato” (indirizzato, collegato a sé) che rende quell’informazione reale. L’ha detto lui, lo conosco, è sicuramente vero. E’ la fiducia che passa, e non l’autorevolezza di un marchio. E Grillo, purtroppo, si sta trasformando in un marchio, perché tutti sanno che dietro al suo sito si nascondono ghostwriters atti ad “alimentare” il sistema. Blob, invece, percepito già dal suo principio come un insieme di istanze – e voci – diverse rispetto che un’unica, univoca – e invasiva – informazione, è incontrovertibile. Perché è più di una persona. E’ un blog televisivo, appunto.
4 – Blobbblog, lingua di gamma. E di gomma. Oltre al nome quasi coincidente, se non nella desinenza comunque consonante, Blob e i blog hanno analogie di linguaggio che possiamo assimilare nel concetto di Blob come raccoglitore di casualità ordinate, e nei blog come disordine casuale del lessico narrativo. Se Blob lavora su minuti e immagini, i blog lavorano su scrittura e spazi. E tuttavia, se le ascisse e le ordinate dei due linguaggi portano nomi diversi, possiamo però trovare analogie trasversali, che portano i due insiemi a essere quasi sovrapponibili, nella loro identi-ci-tà. Qui di seguito, qualche regolarità di percorso, che ci sembra entrambi abbiano attraversato, e attraversino tuttora.
Via le inversioni e le ripetizioni di lettera, gli spazi a caso, poi le ripetizioni ossessive di ogni idioletto. Qui gia’ ricomincia la vecchia cara polverosa letteratura, anzi l’adorabile calco di essa. Si perde il fascino fisico e filosofico (come di una scrittura che si guarda automaticamente da fuori di se’, infine capace di sfiorare l’insondabile abisso che e’ nella piu’ semplice specchiera tripartita da toilette) di uno scrivere che quasi inevitabilmente porta con se’ le proprie ombre pur restando il gesto che scolpisce trova individua forme nitide e corpi strappandoli allo spessore sovrimpresso del buio. Grandezza e miseria della scrittura/(in)rete. Essere insieme il capolavoro sconosciuto di balzac (la forma indistinta e sovrimpressa prodotta dall’esacerbato lavoro di frenhofer, maniacalmente capace di rendere tutti insieme –visibili fino all’invisibilita’- i diversi istanti frattali di un semplice dettaglio corporeo) e una forma scelta/(o)trovata, una delle forme ‘semplici’ possibili. La correzione automatica (gia’ piu’ curiosa e generativa nella sua follia), e l’automatico correggersi tradiscono proprio il nitore la trasparenza la nonviolenza gentile e comunicante (la ‘correttezza’ appunto) cui si rifanno o cui aspirano. Cercano di cancellare l’ombra che e’/era apparsa. Ritrovano tutti i generi (il diario, il romanzo, la novella, la ‘recensione’ perfino), si aggrappano agli scogli temendo anche la risacca piu’ debole. Spesso (vedi i blog) l’anonimato stesso, ovvero il nickname, e’ piu’ vigliaccheria o difesa timida e garanzia di impunita’ e immunita’ che non gioco sfrenato e abissale di maschere (vedi le chat, comunque sia pur pallide maschere troppo fisse della mobilita’ e morbilita’ delle vite parallele, e della morte stessa quale ombra della vita-volevo dire il contrario, lo dico ma non torno indietro a cancellare, tanto qui c’e’ spazio, non vedo nessuna montagna nessun confine all’orizzonte, a guardar bene non vedo neanche l’orizzonte). L’immagine e’ vecchia/antica, blob e’ vecchissimo. Cosa trovo di bello inane
giovane nello scrivere (male) e-mail? La sintesi acefala di cui dicevo. Questo biglietto che si disfa in mano gia’ a chi scrive, che infatti e’ sideralmente vicinolontano a chi legge, e gia’ li’ con lui? La telefonata muta, con tutte le incertezze e gli intorcinamenti della voce, con lo scriversi e il ragionare che si fanno raucedine ripetizione esitazione grido sussurro monotonia di gola golosita’ della sorpresa che gia’ si immagina si vuole tra tre secondi –un secolo- dall’interlocutore o dal corrispondente che non corrisponde mai. Il sentirsi ‘espione’, spione che espia, che seguendo il dipanarsi del proprio incepparsi spia e espia quello degli altri, quello di tutto il credersi parte attiva del sistema linguaggio. L’errore, ancora. Lo si puo’ credere gia’ ‘adesso’ evitabile, grazie a tastiere non piu’ da toccare, neppure da sfiorare, tastiere virtuali attivabili mentalmente, non piu’ legate al ritardo analogico del corpo. Doppia illusione razionalista, cui un sano illuminismo pragmatico non puo’ che contrapporre non tanto il progressivo saperne di piu’ sulla macchinauomo quanto la possibilita’ e la necessita’ (se quella puo’ o vuole essere la direzione) di trovare in questa macchina un ‘esser gia’ rete’, di studiare gli stati mistici e autoabbandonici , quelli luminosi come quelli piu’ dark, come nodi precisamente troppo stretti o troppo larghi di quell’esser rete, di quell’essere (in) comune di cui la ‘comunicazione’ e il ‘comunicare’ fanno parodia. a - De-strutturazione “Gabbia dé matti è il mondo” Tommaso Campanella Entrambi i format, Blob e i blog, hanno inventato un nuovo linguaggio destrutturato. Immagini, parole, video senza precise connessioni logiche stanno insieme, in formula compatta, per raccontare a scatti, spezzare discorsi, fare a meno di una gabbia contenitore perché il contenuto stesso sia semplicemente l’unico volto a presentarsi. Collegamenti ipertestuali per i blog (e concettuali per Blob) sono fili conduttori più di ogni titolo, sigla, canovaccio o scaletta da rispettare. Entrambi rispecchiano mondi altri, entrambi contengono mondi altri, entrambi sono contenuti di senso.
Regredisco ancora, mentre vorrei fare l’elenco dei testi, dei ‘pezzi’ promessi o da promuovere o da sbloccare, dei romanzi da insoddisfare, delle lettere (anzi della lettera) d’amore senza la quale non posso non potro’ non potei mai scrivere altro, e che sto ‘perdendo’ io ora qui nello spazio in cui mi abbandono al gioco futile dei tre specchi nell’armadietto nel bagno minuscolo. Siamo cosi’ sicuri che l’occhio/spia/macchina/detector/scanner
piu’ accurato e esatto nel leggere chiaramente il nostro desiderio/intenzione di un’istante, la ‘parola’ il suono il senso che vorremmo dire o essere, fotograferebbe isolerebbe ridarebbe infine un’immagine a sua volta chiara, una forma inequivocabile, un discorso perfettamente ‘a fuoco’? b - De-regolazione “La più grande unità sociale del Paese è la famiglia. O due famiglie: quella regolare e quella irregolare” Federico Fellini Chi ha mai dato delle regole di etichetta a Blob, e chi ai blog? Se su internet esistono etichette e netichette, in televisione esistono le regole di rispetto per i minori, e poco altro. Chi decide il tono di una trasmissione, e chi del proprio blog. Semplicemente, gli autori stessi del programma, e dei propri scritti. Su Internet la varietà di volume, di toni, di approcci è sconvolgente e differente. Il singolo non ha un senso se non inserito nel grande magma degli altri blog collegati. Così in Blob il singolo contenuto non ha senso a sé stante, se non collegato e messo in successione con altri. Dai toni alti, e bassi, mischiati insieme.
Non c’e’ almeno una probabilita’ che (cosi’ come terribilmente la vita e’ l’anagramma dei nostri desideri) questa sopravvisione, questa ultravista, questa tastiera magica o magico pennello, disegnino sotto e con i nostri occhi –molto ‘realisticamente’- una torsione, un’immagine sfocata, una forma illeggibile una parola che non esiste? Hai presente quando si sfiora il tasto ‘insert’ senza volerlo (ovvero perche’ una parte piu’ attenta o furbina o ascoltante della marionetta che sei ha ‘sentito’ che eri tornato indietro e stavi inserendoti in una pagina gia’ scritta), e senza alzare la testa scrivi per dieci minuti rimangiandoti letteralmente quello che hai appena detto/scritto, erodendoti, modificando/annullando il futuro che avevi gia’ scritto? c - De-citazione “Pop Art is linking things” Andy Warhol Secondo Andy Warhol l’arte è l’insieme di tanti singoli contributi messi insieme. E collegati. Sia Blob sia i blog hanno utilizzato il link in modo del tutto innovativo creando una forma artistica popolare e alta al tempo stesso. Una nuova modalità di citazione del pregresso e del futuribile inseriti in forma di hyperlink spaziali (Blob alla tv a cui fa riferimento, i blob al mondo
Internet) legando i fatti e gli eventi in modo creativo, e sensato. O insensato, e al tempo stesso pensato.
Mi e’ appena successo, ho perso cosi’ l’ultimo spazio che avevo voluto darmi cioe’ darti/vi. Era noioso. Scrivevo ancora dell’esser gia’ accaduto (con esempi semplici e chiari dallo spettacolo enciclopedico della cronaca quotidiana) come cifra dell’immagine, cioe’ di tutto quel che scorgiamo o di cui cui accorgiamo. Cioe’ del vivere troppotardi (del resto si vive solo il troppotardi, il fatto di non essercene accorti in tempo, di non averlo potuto evitare), dell’accorgercene nel troppopresto della rete (o quanto piu’ si vive). d - De-partitura
“L'arte consiste nelle limitazione. La parte migliore di ogni dipinto è nella cornice” Gilbert Keith Chesterton I Blobblog abbandonano la cornice di riferimento. La sigla di Blob distrugge la sigla, trasfomando in sigle in successione i filmati precedente e successivo a quello che il pubblico sta guardando. Il contenuto fa da contenutore per altri contenuti. E lo stesso, se le cornici dei blog funzionano per i singoli, ma messe in connessione con altri si eliminano l’un l’altra, creando un continuum di discorso destrutturato. E - De-titolazione
“La tv all'assalto di una delle ultime roccheforti dei quotidiani, i necrologi. Un'emittente bergamasca, TeleClusone, a mezzogiorno, al termine del telegiornale, trasmette annunci funebri. Ora si sta scegliendo il titolo: Ci Guardano Da Lassú" Indro Montanelli Se la televisione prende in prestito dalla carta stampata – o lo ruba – l’utilizzo del titolo e dell’intervista dal quotidiano, Blob elimina i titoli per salvaguardare la diversità del contenuto. Non esiste IL titolo di una puntata o di una giornata Blob, esistono serie e titoli di serie. Come non esiste il titolo di un blog, se non il provvisorio nome di un diario sempre in mutazione. L'insieme delle sensazioni emozioni che pervengono dall'insieme dell'esperienza visiva, e che possono rimanere tali, oppure cambiare. La titolazione dei singoli argomenti scorre sotto un magma di parole che spesso non hanno senso.
Semplicemente, sono state digitate prima di altre. f - De-finizione
“E’ più facile resistere all’inizio, che alla fine” Leonardo Da Vinci Il continuum imbastardito di Blob e blog rappresenta l’incapacità, da parte della popolazione autoriale, di definire dei limiti. Per entrambi i format, assistiamo ad continuum imbastardito - dove iniziano i blog e dove finiscono? Dove inizia blob e dove finisce? g - De-frazione
“Il loro nome era ignorato dal grosso pubblico, E anche da quello sottile” Eik Satie Ogni blog si rispecchia in un altro (altrimenti non esisterebbe). L’’intervento esterno non è chirurgico, le iniezioni non sono controllate e controllabili, semmai selezionabili. Ognuno segnala quello che crede, ognuno invia alla “redazione” la propria opinione o segnalazione. Blob è un programma aperto, i blog un sistema aperto per definizione. Grazie a questo meccanismo il pubblico e il Blobblog diventano un tutt'uno. h - De-costruzione
“Non dipingo un ritratto che assomiglia al modello. Piuttosto, è il modello che dovrebbe assomigliare al ritratto” Salvador Dalì Blob è diventato un modello di riferimento per nuove espressioni artistiche (la video-arte video-clip musicale, video-senza-parole). Lo stesso è accaduto ai blog: se sono usciti libri, televisioni, programmi (le blog-tv di Antonio Campo Dall'Orto e Nessuno tv, per esempio). i - De-volgarizzazione
“L’utopia di un secolo spesso diviene l’idea volgare del secolo seguente” Carlo Dossi Il superamento del radical chic per il radical kitch (più adatto alla nostra
epoca televisiva?) è storia di Andy Wharol. E tuttavia, se il mondo artistico (quello che fa riferimento a illustrazioni puramente figurative) ha ampiamente digerito lo shock, il mondo della cultura non ha ancora “digerito” il kitch televisivo. Che nella sua bruttezza, tocca sommità estetiche di prepotente fascino. Questo fascino è stato carpito da Blob, che ha de-volgarizzato (portandolo ad eccellenza mediatica) il peggio televisivo per assumersi la responsabilità di svilire lo svilito, e al tempo stesso di elogiare l’insensato. L’operazione di pubblicare l’impubblicabile (ma già pubblicato) è simile a quella dei blog, che riprendono, ribattono, discutono e circondano un singolo commento, anche stupido, fino a farlo divenire autorevole. Il kitch di osservazioni insensate che vengono raccolte e riportare – primo tra tutti Beppe Grillo – fotografano nella loro crudità il nulla mediatico (che anche nei blog, esiste). l - De-composizione
“Ogni nuova conoscenza determina scomposizione e integrazione” Hugo von Hofmannsthal Il meccanismo che porta a leggere (o guardare) selezionare e ri-pubblicare appartiene all’editoria tutta. E tuttavia, Blob l’ha attuato scientemente con il mezzo televisivo, e i blog lo praticano quotidianamente su Internet. La scomposizione delle frasi è sistematica, come quella dei brani video scelti dagli autori. Da una parte un selezionare professionistico, e dall’altra un carpire per gusto e diletto, ogni contributo carpito viene scomposto dal suo contesto e ri-proposto in chiave differente. m - De-formattazione “All'uomo non capita nulla che dalla natura non sia stato formato a sopportare” Marco Aurelio Dopo l’arrivo dei format televisivi e dei format per internet (un sito, un portale, un quotidiano online, un diario, un album fotografico, una community, un vortal, un dating site, un entertainment site…) è arrivato chi ha “sformato” i formati. Costituendo, certo, a sua volta un format. Che è un insieme in-sensato di format altrui. E al tempo stesso rifiuta la logica del formato. Così è stato per Blob. Così è per i blob, che rinunciano alla forma, per contenere altre forme. E la cui forma, ritorna ad essere quella dell’insieme,
orizzontale, di una linea retta di continuità temporale, invece che un “momentum” spezzato all’interno della rete.
Addirittura risalendo allo scrivere piu’ antico, alle narrazioni (no, non ti racconto di Blob; ti dico solo che sono fiero e disperato –lo dico perche’ anche qui sento che sto regredendo e recedendo dai miei intenti e dal mio entusiasmo e dalla fierezza e dalla disperazione stessa sperando di volgerla in speranza-di esserne un ‘ri’autore’ immobile, un demiurgo dormiente incosciente, che sa poco di quel che avviene nel farsi tecnico preciso del programma, e che ora ancora riesce a preferire cosi’; riuscire solo a far si’che si faccia, tecnicamente praticamente televisivamente anarchicamente politicamente, assolutamente insoddisfacente il programma), penso alla geniale intuizione di Montagne, sul mentitore come figura forte della memoria, persona obbligata a avere una memoria forte, atta a ricordare i dettaglio del proprio/detto scritto, e gli aspetti le vedute le forme del sapere e degli accadimenti condivisi con un individuo o con un gruppo o una societa’. Lo stesso, almeno fino a tutto l’ottocento,ma -con qualche mutamento importante- fino all’avvento della rete, si puo’ dire del romanziere, di chi tiene un diario, di chi vuole in qualche modo pubblicare e farsi leggere godere vedere giudicare pubblicamente. Le ripetizioni in Balzac Dickens Hugo sono il segno della grandezza. Dello sporgersi oltre la possibilita’ di controllo e di revisione. Di rintracciare e eliminare ripetizioni e incongruita’, rileggendo catalogando riscrivendo. (Ovvero, scrivere un ‘solo’ o virtualmente solo romanzo, come avverra’ con Joyce o con l’immane ‘recherche’ infine di un solo istante). Si sa quanto sia facile far questo scrivendo al computer. Quanto oscenamente diffuso l’ “ora controllo le ripetizioni”, l’uso dei postsinonimi, il mentire sul sentire odorare profumare puzzare della propria scrittura, in favore di un’asettica nitidezza nonnoiosa chiarezza, armoniosa ritmata mai impropria; in effetti stantia noiosissima, impersonale senza rendersene conto, pensando di dover ‘rappresentare qualcosa’ (all’ occorrenza –e’ il massimo di un’audacia vivissima- se stessa, la scrittura consapevole del proprio vuoto o del proprio posto in una galleria sempre piu’ fitta di gesti di linguaggio; insomma il postmoderno) invece che provare a render conto della situazione in cui non c’e’ aria ne’ acqua ne’ posto per nessuno che si proclami ‘autore’, perche’ c’e’ posto per tuttinessuno. Allora, la chance credo sia quella (ribadisco, e-spiando tutto questo nulla) di provare a scoprire le forme lussureggianti e infinite del non esserci, ovvero dell’essere che e’ il riesserci (e’ cosi’ facile adesso; davvero, come intuiva
benjamin, la durata dell’infinito dubbio di amleto e’ un attimo). Basta tener premuto un testo, cliccare, addormentarsi in essoooooooooooooooooooooo