The Land We Grab - Appropriazione della foresta tropicale e del suolo

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THE LAND WE GRAB

Photo background: © GRAIN / Greenpeace Photographer

APPROPRIAZIONE DELLA FORESTA TROPICALE E DEL SUOLO

Change the Power – (Em)Power to Change: Local Authorities towards Change the Power – (Em)Power to Change: the SDGs and Climate Justice Local Authorities towards the SDGs and Climate Justice

TOGETHER FOR CHANGE


Questa pubblicazione è stata realizzata in collaborazione con il sostegno finanziario dell’Unione Europea attraverso i progetti “Change the Power – (Em)Power to Change: Local Authorities towards the SDGs and Climate Justice” e “From Overconsumption to Solidarity” Il contenuto di questa pubblicazione è di esclusiva responsabilità di ASTM /Climate Alliance Lussemburgo, COSPE e non riflette necessariamente il punto di vista dell’Unione Europea.


THE LAND WE GRAB La mostra CARI VISITATORI Noi europei usiamo molta più terra per la nostra alimentazione e per sostenere il nostro stile di vita di quella disponibile in Europa. La mostra invita a riflettere sull’allevamento industriale, sulle monocolture intensive, in particolare in Amazzonia e in Africa, e in generale sul sistema agricolo industriale mondiale ed i suoi impatti sulla deforestazione, sul cambiamento climatico e sulle popolazioni. Una particolare attenzione è riservata al fenomeno del land grabbing, l’accaparramento delle terre da parte di grandi gruppi finanziari, multinazionali o governi che causa l’emarginazione, la povertà e i flussi migratori di milioni di persone. Attraverso le nostre scelte ed il nostro stile di vita anche noi europei siamo responsabili di questi fenomeni ma abbiamo al tempo stesso il potere di contrastarli…

APPROPRIAZIONE DELLA FORESTA TROPICALE E DEL SUOLO Introduzione Coltello e forchetta L’agricoltura intensiva: un modello fallimentare Una nuova ondata di land grabbing

Report dall’Amazzonia, dall’Africa centrale e dall’Europa Brasile: L’Amazzonia, un paesaggio culturale indigeno Brasile: In prima linea nella distruzione della foresta pluviale: allevamenti intensivi e soia Brasile: Canna da zucchero: una storia amara Bolivia: La foresta depredata Bolivia: La lotta delle popolazioni indigene Bolivia: La terra perduta Bolivia: La repubblica della soia Camerun: Nella foresta pluviale dell’Africa centrale Camerun: Il caso delle fattorie di Herakles Camerun: L’oro verde: un’alternativa dannosa Africa: Un continente in vendita Romania: La foresta rumena sotto pressione Regno di eSwatini: La resilienza degli swazi

Conclusioni Cosa puoi fare come cittadino?

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© Fleischatlas/Heinrich - Boll-Stiftung

Coltello e forchetta

LA FORESTA MINACCIATA DAL CONSUMO DI CARNE La produzione ed il consumo di carne da allevamenti intensivi sono in gran parte responsabili del progressivo processo di deforestazione in Amazzonia. Si abbatte la foresta per far posto agli allevamenti intensivi di bovini o per ricavare grandi estensioni di terra da destinare alla produzione di soia, componente principale per la produzione dei mangimi destinati agli animali allevati in Europa o in Asia. La FAO calcola che il 26% delle terre emerse, un quarto della superficie del pianeta, pari ad Africa ed Europa, è destinato agli allevamenti e ai campi per produrre mangimi. Sempre una proiezione della FAO stima che nel 2050 l’allevamento del bestiame crescerà sino ad arrivare a 5,8 miliardi di capi aumentando così la richiesta di terra. A livello globale, infatti, il consumo di carne è tuttora in forte crescita (+ 1,9 nel periodo 2007-2017) e a causa di quest’aumento una quantità sempre maggiore di foreste è destinata a scomparire. Dove 40 anni fa c’era la foresta pluviale, oggi circa 73 milioni di capi di bestiame pascolano nella sola Amazzonia brasiliana.

“La zootecnia dovrebbe essere al centro dell’attenzione politica quando si affrontano i problemi del degrado del suolo, dei cambiamenti climatici, dell’inquinamento dell’aria, della carenza e dell’inquinamento dell’acqua e della perdita di biodiversità. Il contributo del bestiame ai problemi ambientali avviene su scala massiccia.” Jonathan Safran Foer


L’agricoltura intensiva: un modello fallimentare

eeUn mercato in Burkina Faso

UN NUOVO PARADIGMA: L’AGROECOLOGIA L’agricoltura intensiva su larga scala, caratterizzata da monocolture, determina gravi impatti ambientali, sociali ed economici: dall’emissione dei gas responsabili del riscaldamento globale all’impoverimento dei suoli, dalla perdita di biodiversità all’ inquinamento idrico con l’utilizzo massiccio di pesticidi. Inoltre, la concentrazione in mano a poche multinazionali dell’intera filiera alimentare mondiale (sementi, pesticidi, produzione, trasformazione, distribuzione) spinge ai margini migliaia di piccoli produttori, costretti a livello globale ad affrontare crescenti difficoltà economiche e occupazionali. Non sono solo i piccoli agricoltori ad essere minacciati, ma la stessa libertà di scelta, la salute, la sovranità alimentare in tutto il mondo. La FAO ha lanciato l’allarme per la crescente uniformità delle colture mondiali che ha portato nell’ultimo secolo ad una riduzione del 75% della biodiversità vegetale, stimando un rischio da qui al 2050 di una perdita di circa un terzo delle specie rimaste. È urgente cambiare rotta e sostituire l’attuale paradigma agricolo basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse con un nuovo paradigma che coniughi agricoltura ed ecologia: l’agroecologia. Occorre, inoltre, riconoscere il ruolo strategico che i piccoli agricoltori hanno nella lotta contro la malnutrizione e la tutela della biodiversità.

“Non è un investimento, se distrugge il pianeta” Vandana Shiva

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Una nuova ondata di land grabbing

eeLivellamento per una piantagione di palma da olio in Camerun

CHE COS’È IL LAND GRABBING? Il land grabbing si riferisce all’acquisto, alla locazione o all’acquisizione di terreni agricoli da parte di un investitore locale o straniero, pubblico o privato, che causa l’espropriazione e l’espulsione di piccoli agricoltori e comunità indigene. I diritti di utilizzo dei contadini vengono ignorati perché, nella maggior parte dei casi, non hanno titolo legale sulla terra pur coltivandola da generazioni. Ciò che risulta un’acquisizione formale e legale della terra è in realtà una rapina per i contadini, contro la quale non possono difendersi. Nel perdere la loro terra perdono i mezzi di sostentamento ed il loro modo di vivere. Le stesse popolazioni che vivono nelle città, in particolare quelle più povere, sono colpite dall’aumento dei prezzi determinato dalla riduzione dei prodotti destinati ai mercati locali e cittadini. Si calcola che oltre 42 milioni di ettari nel mondo sono attualmente frutto di operazioni riconducibili a land grabbing di cui il 61% destinato all’industria agroalimentare ed il 21% destinato alla produzione di agrocombustibili, in particolare attraverso la lavorazione della canna da zucchero. Milioni di ettari sono così impiegati per la monocoltura industriale che utilizza in gran parte piante geneticamente modificate, fertilizzanti chimici e pesticidi per una produzione volta soprattutto all’esportazione verso i mercati mondiali. In questo sistema gli habitat naturali vengono distrutti, l’approvvigionamento idrico sovrasfruttato e l’ambiente avvelenato. Nel 2016 il land grabbing è entrato a far parte, insieme alla deforestazione e ad altri crimini ambientali, della lista dei reati classificati come crimini contro l’umanità, secondo la Corte Penale Internazionale dell’AIA.

© PATRICK GALBATS

Sulla scia della crisi finanziaria mondiale del 2007 che ha fatto crollare le banche ed il settore finanziario, investitori e speculatori hanno iniziato a cercare investimenti sicuri per il loro denaro. Da allora il fenomeno del land grabbing è cresciuto del 1000%. L’obiettivo è l’acquisizione massiccia, soprattutto in Africa, Asia e America Latina, di terreni per lo sviluppo di monocolture. Che si tratti di sceicchi dell’Arabia Saudita, dell’industria agroindustriale indiana o di investitori provenienti da Londra o New York, è iniziata una nuova corsa volta a controllare i terreni per la produzione di beni agricoli per il mercato globale.


Brasile

L’Amazzonia, un paesaggio culturale indigeno Abadio Green

eeInsediamenti e piantagioni di popolazioni indigene che vivono in isolamento volontario

Abadio Green: "Vediamo la natura come nostra madre, che si prende cura di noi. È ancora più importante di una madre, perché quest'ultima se ne andrà ad un certo punto della nostra vita. Ma Madre Terra sarà sempre lì e ci accoglierà perfino dentro di sé dopo la nostra morte. Tutto ciò che possediamo e consumiamo nel nostro mondo così come nel mondo occidentale, viene alla fine dalla terra ".

L’AMAZZONIA: UN ECOSISTEMA FRAGILE

La foresta amazzonica non solo è la più grande foresta pluviale della Terra, estendendosi nel continente sud americano per circa di 7 milioni di chilometri quadrati, circa venti volte il territorio italiano, ma rappresenta una delle più grandi estensioni di territori indigeni del pianeta. Sono circa 400 i popoli indigeni, oltre un milione di persone, che vivono in questi territori che da secoli chiamano “casa”. Comunità come quelle dei Karipura, Guarani, Yanomani, Kichwa, Suar, Wajapi, Kayapo, Baniwa Hunikuin Tagaeri, Machsco che hanno contribuito a proteggere e conservare la biodiversità dei grandi sistemi forestali. L’Amazzonia può essere quindi considerata un “paesaggio culturale indigeno” plasmato da secoli di storia e tradizioni, connesse ad una visione cosmica secondo cui animali, piante ed esseri umani sono tutti esseri viventi ed uguali. Un patrimonio ambientale, sociale, culturale gravemente minacciato da una lunga storia di aggressioni, accaparramento di terre e di risorse, distruzione. I popoli indigeni e le loro terre sono ambiti da governi, industrie, gruppi criminali sin dai tempi della colonizzazione sia per le risorse preziose (legni pregiati, oro e diamanti, uranio, petrolio, nichel, zinco) sia come forza lavoro. Il recente sviluppo di infrastrutture come strade, dighe, miniere ha contributo ad accelerare lo sfruttamento in proporzioni senza precedenti. Per difendere i diritti degli indigeni e proteggere la foresta sono nate numerose organizzazioni, riunite nel coordinamento COICA (Coordinatora de las Organizaciones Indìgenas de la Cuenca Amazònica). Change the Power – (Em)Power to Change: Local Authorities towards the SDGs and Climate Justice

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© Miranda Gleilson, AG Noticias

© Grupo Sal

del popolo Tule in Colombia


Brasile

© Patrick Galbats

In prima linea nella distruzione della foresta pluviale: allevamenti intensivi e soia

Gli allevamenti intensivi di bestiame insieme alla coltivazione della soia, utilizzata in gran parte per mangimi animali, determinano circa l’80% della deforestazione dell’Amazzonia. Questo fenomeno, oltre alla distruzione della foresta e della biodiversità e al rilascio di circa 0,3 miliardi di tonnellate di carbonio l’anno, innesca una spirale perversa aumentando drasticamente il rischio di incendi boschivi e forestali.

IL BOOM DELLA SOIA

È la crescente domanda di soia in Europa e in Asia a sostenere, insieme agli allevamenti intensivi di bestiame, l’aumento drammatico della deforestazione nella regione amazzonica e in generale in Sud America. La terra utilizzata per la coltivazione della soia è in continuo aumento, solo per fare un esempio, nel 2016, tre soli produttori Brasile, Argentina e Paraguay hanno fornito quasi la metà della soia nel mondo in un’area più grande della Francia. In Brasile la produzione si concentra soprattutto nel Sud-Est del bacino amazzonico del Mato Grosso sino all’Atlantico, dove progressivamente i terreni vengono convertiti alla produzione di semi di soia ed piccoli proprietari sono costretti ad abbandonare le loro terre. Il 70% circa della produzione di soia non è destinata al consumo umano ma viene trasformata in mangimi per gli animali degli allevamenti intensivi, molti dei quali non potrebbero esistere senza le grandi estensioni delle monocolture di soia.

“Nel 2050 per rispondere alla domanda di mercato saranno necessari circa 120 miliardi di animali allevati, nutriti principalmente con la soia”. Tony Weis, da The Ecological Hoofprint. The Global Burden of Industrial Livestock.


Brasile

Canna da zucchero: una storia amara

eeSugarcane labourers in Pernambuco

Il Brasile è il principale produttore ed esportatore mondiale di canna da zucchero. Metà del raccolto è destinato alla produzione di zucchero per l’industria alimentare, una percentuale sempre più importante (circa il 25%) è utilizzato come agrocombustibile. Le condizioni di lavoro all’interno della filiera della canna da zucchero sono notoriamente molto dure, i lavoratori sono generalmente sottopagati, senza protezione rispetto all’elevato utilizzo di pesticidi, con fenomeni di sfruttamento compreso il lavoro minorile.

LA “CORSA ALLA TERRA” E LA MARGINALIZZAZIONE DEI PICCOLI CONTADINI La principale area di coltivazione della canna da zucchero si trova nello stato di San Paolo. Così come la monocoltura della soia anche quella della canna da zucchero è in costante espansione. L’acquisizione di terreni su larga scala determina spesso casi di land grabbing. Questo fenomeno è particolarmente diffuso nelle piccole fattorie, dove gli agricoltori, pur coltivando la terra da generazioni, non possono dimostrare la proprietà perché privi di titoli fondiari. Approfittando di questo vuoto giuridico grandi gruppi internazionali riescono ad ottenere dai governi nazionali concessioni sulle terre. Centinaia di migliaia di contadini, insieme alle loro famiglie, vengono così allontanati dai terreni e dalla loro principale fonte di sostentamento. Perdendo la terra si spostano in altre zone della foresta pluviale, oppure diventano braccianti giornalieri per i grandi proprietari terrieri o lavoratori mal pagati nelle periferie delle città più vicine. In alcuni casi si uniscono ad altri contadini senza terra per occupare campi inutilizzati. Il movimento MST (Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra), dei lavoratori senza terra, conta circa 1,5 milioni di membri ed è impegnato nella fondamentale lotta per la riforma agraria in Brasile.

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Bolivia

Nelle pianure amazzoniche della Bolivia, come in altre parti dell‘Amazzonia, sta avendo luogo un costante processo di deforestazione. La popolazione indigena che tutela e protegge la foresta, come parte integrante della propria esistenza, viene spinta ai margini. Prevalgono coloro per cui la foresta deve essere resa produttiva, in altre parole aperta al mercato. Nell’arco di una sola generazione gran parte della foresta pluviale a nord di Santa Cruz, nelle pianure della Bolivia, è stata convertita a favore delle monocolture agricole destinate all’esportazione. Seguono alcune fasi tipiche:

© PATRICK GALBATS

La foresta depredata

Le fasi della deforestazione

1. Estrazione del legname tropicale e di materie prime come l’oro. Parti del manto forestale vengono

2. In seguito arrivano i coloni che abbattono ulteriormente la foresta per far spazio ai pascoli. Oppure, come nel caso di questo gruppo di Mennoniti per coltivare girasoli e soia.

© PATRICK GALBATS

© PATRICK GALBATS

distrutte e diradate, le vie di comunicazione aperte per consentire il passaggio dei mezzi di trasporto.

3. Infine, i piccoli agricoltori vendono la terra ai

grandi proprietari terrieri, ponendo le basi per la creazione di enormi monocolture per prodotti da esportazione come la soia o i bovini.


Bolivia

La lotta delle popolazioni indigene

Osbin Macua

eeLavaggio di vestiti a San Pablo

“Mi chiamo Osbin Macua, Sono Guarayo e vivo a San Pablo, una comunità di circa 12.600 residenti nel dipartimento di Santa Cruz, in Bolivia, di cui sono il sindaco. Da bambino dovevo lavorare come bracciante nella fattoria di un grande allevatore, perché non avevamo terra. Dopo molti anni di lotta, abbiamo ottenuto il riconoscimento dei nostri tradizionali diritti sulla terra. Ciononostante, dagli anni ‘90, una parte importante della foresta è stata abbattuta illegalmente. I mennoniti e i grandi proprietari terrieri di Santa Cruz espandono costantemente le loro piantagioni con semi di soia geneticamente modificati. Non voglio che i miei figli entrino di nuovo nella schiavitù del debito. Pertanto, sono determinato a conservare la nostra terra”.*

IL SANGUE DELLA TERRA L’acqua viene chiamata dagli indigeni il “Sangue della Terra”, risorsa che viene in gran parte sottratta e prelevata in grandissime quantità per sostenere gli allevamenti e le monocolture intensive. Fertilizzanti chimici e pesticidi finiscono inoltre nei fiumi, contaminando le acque e avvelenando il pesce. Le monocolture di soia geneticamente modificate “asciugano” il terreno, e, soprattutto nei mesi invernali, aumentano il rischio di incendi incontrollati. I forti venti, non più ostacolati dagli alberi ad alto fusto che fungevano da frangivento, possono diffondere gli incendi per centinaia di chilometri. Solo nell’estate del 2019, circa 1,7 milioni di ettari di foresta sono stati abbattuti nell’Amazzonia boliviana e più di 2 milioni di animali sono morti negli incendi.

* La schiavitù del debito (peonaje): si tratta di lavoro forzato non pagato imposto per pagare un debito. I membri di una famiglia indebitata non sono pagati per il loro lavoro in contanti ma piuttosto in natura, ad esempio con abbigliamento o cibo. Questo sistema di sfruttamento in cui non si riceve mai una remunerazione adeguata implica l’impossibilità per le vittime di ripagare i loro “debiti”.

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© Patrick Galbats

del popolo Guarayo


Bolivia La terra perduta

“Nell’arco di un decennio la vita dei Guarayo è stata stravolta dalla perdita della terra e dal drastico cambiamento del loro ambiente naturale. Lo Stato all’epoca aveva iniziato gradualmente a concedere i diritti di proprietà sulla terra. I diritti fondiari includevano anche il diritto di vendere terreni già trasferiti a terzi. In seguito a minacce ed intimidazioni alcuni capi indigeni hanno così venduto terre appartenenti alle loro comunità ai grandi proprietari terrieri di Santa Cruz. In questo modo i Guarayo hanno perso circa due milioni di ettari di terra in un solo decennio. Coloro che hanno criticato queste politiche sono stati isolati e sottoposti a forti pressioni. Inoltre, i media, controllati per la maggior parte dalle industrie agricole e minerarie, cercarono di influenzare la popolazione inondandola di informazioni sui benefici per la comunità delle produzioni ed esportazioni di soia e di materie prime.”

eeUna famiglia guarayo a San Pablo

I DIRITTI VIOLATI

In Bolivia vivono 37 popoli indigeni e il 40,6% della popolazione boliviana si riconosce come parte di un popolo o nazione indigena. Le varie comunità si dividono tra le alte montagne delle Ande, le valli interandine, i boschi del Chaco e le ampie foreste dell’Amazzonia. Nonostante la costituzione garantisca i diritti dei popoli indigeni e protegga le risorse naturali, la sopravvivenza di queste comunità è costantemente minacciata e tali diritti sono sistematicamente violati: continuano lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali, l’avanzare della frontiera agricola, la costruzione di nuove strade. Si calcola che ogni anno circa 300.000 ettari di foresta vengono abbattuti nella sola Amazzonia boliviana.

“En tiempos inmemoriales se erigieron montañas, se desplazaron ríos, se formaron lagos. Nuestra amazonia, nuestro chaco, nuestro altiplano y nuestros llanos y valles se cubrieron de verdores y flores. Poblamos esta sagrada Madre Tierra con rostros diferentes, y comprendimos desde entonces la pluralidad vigente de todas las cosas y nuestra diversidad como seres y culturas.” (Preambolo della Costituzione boliviana del 2009)

© CEDIB / Bolivia

Testimoninza di Alicia Tejada è arrivata nel territorio di Guarayos 20 anni fa come dipendente della Food and Agriculture Organization (FAO).


Bolivia

La repubblica della soia

La “Repubblica Unita della Soia” è il soprannome della filiale regionale di Syngenta coniato dai giornali argentini. Questa regione ha la più grande concentrazione al mondo di colture geneticamente modificate e il più alto livello pro capite di contaminanti agricoli e tossine. eeSoya plantation

L’AGRO-INDUSTRIA DI SANTA CRUZ A partire dagli anni ‘90, la Banca Mondiale ha costretto la Bolivia a fare “aggiustamenti strutturali”, a ridurre cioè i disavanzi pubblici attraverso i tagli alla spesa e l’aumento delle entrate derivanti dalle esportazioni. Dal 2001, la principale esportazione agricola della Bolivia soprattutto verso il Nord America e l’Europa è la soia. La regione di Santa Cruz è oggi dominata dall’industria agricola e dall’utilizzo di sementi modificate. Quando si coltivano semi geneticamente modificati, vengono utilizzati in modo massiccio fertilizzanti chimici e pesticidi forniti da grandi società come Monsanto, Syngenta e Bayer. L’industria agricola è di fatto controllata da una manciata di famiglie, che hanno stretti rapporti commerciali con questi gruppi e società finanziarie. Negli ultimi anni anche l’industria agroalimentare brasiliana e argentina sta acquistando terreni in Bolivia.

OLIGARCHIA REGIONALE E CAPITALE INTERNAZIONALE Con la crescita della domanda globale di mangimi per animali e agrocombustibile, è aumentata anche l’importanza economica e politica dell’alleanza tra i grandi proprietari terrieri, le multinazionali della chimica e della produzione di macchinari agricoli e le istituzioni finanziarie. Il Sud dell’Amazzonia rappresenta oggi una regione non solo definita “Repubblica” come suggeriscono i media, ma un territorio governato da un’alleanza tra l’oligarchia regionale e il capitale internazionale. Questa alleanza è così forte che l’élite agricola delle pianure di Santa Cruz fu in grado, ad esempio, di minacciare apertamente il presidente boliviano, Evo Morales, di secessione. In Paraguay, l’alleanza ha sostenuto il colpo di stato contro il vescovo legittimamente eletto Bishop Lugo e, in Brasile, ha impedito la riforma agraria fino ad oggi.

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Camerun

Nella foresta pluviale dell’Africa centrale

© Patrick Galbats

In Camerun gran parte dell’area meridionale è ancora coperta dalla foresta pluviale tropicale. Come in Amazzonia, per i suoi abitanti la foresta riveste un importante significato economico ed esistenziale.

UN RAPPORTO DI INTERDIPENDENZA

I DIRITTI FONDIARI

Oltre ai giardini e ai terreni agricoli dove vengono coltivati mais, manioca, verdure e allevati animali ogni villaggio ha il suo bosco. Nella foresta gli abitanti coltivano il cacao, raccolgono banane, manghi, frutti selvatici.Molte famiglie possiedono alcune palme da olio che viene trasformato in piccole raffinerie artigianali. La foresta è quindi per i suoi abitanti la principale fonte di sopravvivenza per questi popoli, in un rapporto di reciproca interdipendenza. È la stessa foresta che trae beneficio dalla presenza dei popoli indigeni che attraverso la raccolta dei frutti selvatici, la coltivazione di alcune piante ne aumentano la biodiversità, come sostiene l’antropologo Jerome Lewis.

Secondo la legge tradizionale, non esiste la proprietà privata della terra, solo i diritti di utilizzo. I capi villaggio decidono ancora oggi, soprattutto nelle zone rurali, la divisione della terra. Tuttavia, a partire dal 1974 un titolo fondiario registrato diventa il solo mezzo valido per determinare la proprietà di un terreno. La proprietà di un qualsiasi terreno, il cui titolo non sia stato registrato, ritorna automaticamente allo Stato. Le comunità possono ottenere il riconoscimento della terra al fine di acquisire un titolo fondiario, ma si tratta di una procedura lunga e costosa e nella pratica non esiste un catasto nazionale. Pertanto, quasi nessuno tra la popolazione possiede titoli di proprietà della terra.

“Gli indigeni Baka appartengono alla loro terra, non è un’entità separata da loro”. Jerome Lewis, antropologo all’Università UCL di Londra


Camerun Il caso delle Fattorie di Herakles

Dominic Ngwesse,

Presidente della ONG Nature Cameroon

© Patrick Galbats

© Ong Grain/Greenpeace

eeClearing for oil palm in the Herakles Project

Le comunità dei villaggi hanno capito che il progetto li priverà del loro sostentamento e che sarà ecologicamente disastroso. Combattere però contro un progetto di una grande azienda americana comporta dei rischi. Molti attivisti sono stati bersaglio di molestie, azioni penali o arresti. Sono state presentate rimostranze ma l'azienda può contare su alcuni alleati nel governo. Abbiamo una terra molto preziosa, ecologicamente parlando, con molte specie arboree che vale la pena proteggere e che può portare benefici diretti alle comunità e al paese. Sia in termini di biodiversità che di comunità, una piantagione così grande non ha senso.

UN SUCCESSO DELL’ OPPOSIZIONE LOCALE

Nel settembre 2009, la SG Sustainable Oils Cameroon (SGSOC), una controllata della società agroalimentare americana, Herakles Farms, firmava un contratto con il governo del Camerun per una concessione in affitto di 73.000 ettari nel sud-ovest del paese per sviluppare una piantagione di palma da olio ed una raffineria. Il contratto prevedeva una locazione di 99 anni ed esonerava la SGSOC dagli obblighi fiscali e doganali per dieci anni. La SGSOC otteneva così l’accesso gratuito a quantità illimitate di acqua e di risorse naturali, avviando un processo di deforestazione nell’area coinvolta. In seguito a numerose proteste, nel giugno 2013, due ONG camerunensi citavano in giudizio la società Herakles Farms negli Stati Uniti. Il governo del Camerun fu costretto a fermare i lavori e a ridurre drasticamente la superficie della concessione.

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Camerun

L’oro verde un’alternativa dannosa

© Patrick Galbats

eeOil palm seedlings in deforested land

GLI AGROCOMBUSTIBILI Il bio combustibile o agro combustibile, si riferisce a combustibili di origine vegetale anziché fossile. Non si tratta quindi di prodotti biologici, ma al contrario di biomasse generate da monocolture su larga scala (canna da zucchero, mais, palma da olio, soia, colza etc.) che contribuiscono ad aumentare la domanda di terreni arabili. Gli agro combustibili non solo non diminuiscono le emissioni di CO2, ma contribuiscono ad aumentare il cambiamento climatico, la deforestazione, compromettendo la biodiversità e la sovranità alimentare. L’IPCC (The Intergovernmental Panel on Climate Change) e la Commissione Europea confermano che la produzione di agrocombustibile di prima generazione è dannosa per l’ambiente, l’uomo ed il clima. Circa il 54% delle importazioni in Italia di olio di palma è destinato alla produzione di biocarburante e ogni volta che facciamo il pieno di gasolio acquistiamo anche olio di palma (dal 3 al 15%). In Europa i tre quarti dei biocarburanti sono bio diesel derivanti da semi di colza, soia e palma da olio.


Africa

Un continente in vendita

Camerun

eeOil palm seedlings in deforested land

Kenya

Mozambico

L'ONG Grain, stima che negli ultimi anni l'Etiopia abbia ceduto il 10% della terra arabile, il Congo il 6%, il Senegal il 5% e così via. Queste operazioni sono condotte da paesi che vogliono garantirsi l’approvvigionamento di risorse esternalizzando la produzione di cibo o di materie prime e da società finanziarie che prospettano importanti investimenti per i loro capitali. Gli impatti sull’ambiente e sulla sopravvivenza delle comunità locali sono purtroppo disastrosi.

MALI

MOZAMBICO

KENYA

Il governo ha già ceduto 470.000 ettari di terra ad aziende provenienti dalla Libia, Cina, Gran Bretagna, Arabia Saudita etc. La maggior parte di queste terre sono situate nel delta interno del fiume Niger, la principale zona agricola del Mali. Gli esperti hanno lanciato l'allarme sulla scarsità dell’acqua, mentre gli agricoltori e i pastori locali perderanno i loro mezzi di sostentamento.

L’ex presidente del Mozambico Guebuza (2005-2015) ha offerto agli investitori stranieri 14 milioni di ettari, un'area più grande della Svizzera e dell'Austria messe insieme, in cui milioni di persone praticano un’agricoltura itinerante. Il cosiddetto "Progetto ProSavanna" nel nord del Mozambico è stato spinto dai governi di Giappone, Brasile e Mozambico.

Il governo ha concesso diritti di utilizzo e proprietà per migliaia di ettari di terreno nel Delta del Tana per le piantagioni di canna da zucchero. Secondo uno studio più di 25.000 persone di 30 villaggi delle tribù di allevatori Orma e delle tribù contadine di Pokomo sono minacciati di sfratto dalle loro terre ancestrali.

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© Johann Kandler, CA Austria

Mali


Romania

La foresta rumena sotto pressione

DISBOSCAMENTO LEGALE E ILLEGALE

LA CORSA INTERNAZIONALE AL TERRENO ARABILE

La contesa per i terreni agricoli e per le foreste esiste anche in Europa. La Romania è oggi minacciata da fenomeni di deforestazione pur detenendo più della metà delle foreste vergini in Europa ed un ecosistema unico: circa il 30% dei grandi animali, piante rare e alberi centenari. Tra il 2001 e il 2017 l’organizzazione Global Forest Watch ha stimato che sono stati abbattuti 317mila ettari di foresta primordiale, l’equivalente di 444mila campi da calcio. Il disboscamento avviene legalmente con gruppi importanti come gli austriaci Schweighofer che acquistano milioni di metri cubi di legname destinati principalmente ai mercati giapponese e americano. Ma, con percentuali ancora maggiori, illegalmente. Il commercio illegale di legname rappresenta in Romania un grosso affare per una criminalità organizzata violenta e senza scrupoli.

Non è solo la foresta ad essere sotto pressione in Romania, ma anche il suo territorio, in particolare i terreni arabili. Si stima che più del 6% dei terreni arabili in Romania sia nelle mani di investitori internazionali come l’Arabia Saudita, il Regno Unito, l’Austria. La corsa alla terra è stata facilitata dai costi ridotti: secondo un’indagine Eurostat, la Romania è il paese con i terreni agricoli più economici d’Europa, nel 2016 un ettaro costava in media solo 1.958 euro. Multinazionali, banche, fondi pensione stanno così comprando terre in Romania da destinare all’agricoltura industriale, senza alcun beneficio per la popolazione locale. Come in Africa anche in Romania l’accaparramento delle terre è tra le cause dei flussi migratori.


Regno di eSwatini La resilienza degli swazi

AGRICOLTURA L'agricoltura è la principale voce dell'economia: 13% del PIL; Il 70% della popolazione dipende dall'agricoltura di sussistenza; Il mais senza irrigazione rappresenta l'84% dei raccolti; La canna da zucchero irrigata è la principale coltivazione da reddito;

Sudafrica

Mozambico

©COSPE

70.000 gli ettari stimati coltivati a canna da zucchero nel 2020.

BUONE PRATICHE PER UNA TRANSIZIONE ECOLOGICA

Nel Regno di eSwatini, ed in particolare nella Regione di Lubombo, il cambiamento climatico e lo sfruttamento della REGNO DI ESWATINI terra per coltivazioni intensive di canna da zucchero (che AREA: 17.365 sq. km drenano il 90% delle risorse idriche) o altri beni alimentari per POPOLAZIONE: 1,1 milioni l’esportazione come la frutta, hanno drasticamente abbassato ECONOMIA: basata sull’agricoltura la produttività e la sostenibilità ambientale di ampie zone a PIL pro capite: US$ 7.739 vocazione agricola. Oggi un progetto promosso dall’Agenzia 63% della popolazione vive Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), gestito da sotto il livello di povertà COSPE, GVC- We World e MLAL, cerca di ripartire dalla capacità Indice di sviluppo umano: 0.588 dei contadini di mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici. 138° su 189 paesi Il programma prevede strumenti concreti come i piani di Alta incidenza di Hiv/Aids adattamento comunitari, tecniche di agro-ecologia, l’utilizzo di sementi locali prodotte e selezionati dagli agricoltori, lo sviluppo di filiere agricole e tecnologie innovative, la conoscenza e diffusione delle previsioni metereologiche. L’interazione tra i diversi attori ed il protagonismo delle donne costituiscono i fattori di successo e di sostenibilità del programma.

Change the Power – (Em)Power to Change: Local Authorities towards the SDGs and Climate Justice

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Cosa puoi fare Conclusioni come cittadino? Approfondisci e diffondi le tue conoscenze sull’impatto dell’agricoltura intensiva industriale, sul land grabbing, sul processo di deforestazione. Riconosci e promuovi i diritti delle popolazioni indigene, sono i principali custodi delle foreste da millenni. Sostieni le vittime del land grabbing, come i piccoli contadini e gli indigeni. Chiedi di rispettare il loro diritto di accesso alla terra. Riduci il consumo di carne. E prediligi la carne biologica che non viene alimentata con soia importata. In generale orienta i tuoi consumi verso prodotti alimentari biologici, locali e stagionali. Se puoi scegliere, evita di riempire il serbatoio del tuo veicolo con biocarburante. È possibile richiedere un’etichettatura chiara delle miscele. Rifiuta il taglio illegale delle foreste primarie. Promuovi l’utilizzo di specie arboree locali, non è necessario utilizzare specie esotiche. Riduci il consumo e lo spreco di carta e di legno e ricicla. Prediligi prodotti certificati FSC e PEFC. Prima di investire il tuo denaro (banche, fondi pensione, assicurazioni) informati e chiedi garanzie affinché nessun accaparramento di terreni venga finanziato con i tuoi soldi. Sostieni le campagne contro il land grabbing, la deforestazione ed il cambiamento climatico. Partecipa, attraverso organizzazioni non governative, comitati, associazioni o partiti politici al dibattito e ad azioni collettive a sostegno di una transizione ecologica in Europa e nel mondo.


Change the Power – (Em)Power to Change: Local Authorities towards the SDGs and Climate Justice

TOGETHER FOR CHANGE


Le seguenti organizzazioni non governative hanno contribuito a questa mostra:

GRAIN www.grain.org

COSPE www.cospe.org

ASTM / Climate Alliance Lussemburgo www.astm.lu / www. klimabuendnis.lu

Climate Alliance CEDIB www.cedib.org

Alleanza per il Clima delle CittĂ Europee con le popolazioni indigene della foresta pluviale (CAI) www.climatealliance.org

La mostra è stata cofinanziata da EuropeAid: http://ec.europa.eu/europeaid


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