Corriere della Piana - Speciale n.14 San Martino

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Speciale Festa di San Martino


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Editoriale

Un luogo della Memoria

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an Martino, un luogo della memoria. Un nome che oltre il retaggio di un evidente richiamo devozionale al Santo di Tours evoca anche il richiamo ad una Calabria Medievale il cui fascino resta intatto tanto quanto sconosciuta resta - agli occhi di moltissimi - la storia medievale del nostro territorio. Un tempo la Piana - che dalle rive del Mar Tirreno, fra Medma e il Porto d'Oreste, giungeva fino ai primi contrafforti della montagna non era chiamata Piana di Gioia Tauro ma Piano di "Sancto Martino". Il fulcro di questo comprensorio, nel medioevo in gran parte selvaggio e caratterizzato da piccoli agglomerati di modesti abituri lontani dai centri abitati più organizzati e persi nell'immensità di un territorio aspro - mutevole patrimo-

Corriere della Piana Speciale Festa di San Martino

Supplemento al n° 14 del Corriere della Piana Periodico di politica, attualità e costume della Piana del Tauro corrieredellapiana@libero.it

Direttore Responsabile: Luigi Mamone Vice Direttore: Filomena Scarpati Lettering: Francesco Di Masi Hanno collaborato: Giuseppe Deraco, Domenico Caruso, Francesco Sofi, Rocco Carpentieri

nio per consistenza e estensione dei casati nobili del tempo, era rappresentato dal fortilizio che dominava la valle del Mauros - l'odierno Marro affluente dell'antico Metauro o, come avrebbe detto Argiroffi "Matàuro". Il Castello di San Martino appunto, che per la sua importanza finì per dare il nome all'intero comprensorio. Qui si confrontarono in armi Spagnoli e Angioini; qui si scrissero pagine importanti di una storia che meriterebbe migliore conoscenza soprattutto in ambito scolastico. Manlio Bellomo nella sua "Storia del Diritto italiano" ne fa riferimento. Ai calabresi, troppo presi da questioni più prosaiche, difendere e riproporre il passato non è mai stato argomento considerato prioritario. Addirittura in queste campagne dove la terra è pronta a restituire memorie di vita , contadini , agricoltori, capimastri, e ogni genìa di utilitaristi appena si ritrova fra le mani un reperto si guarda bene dall'informare la Soprintendenza. Così anche per il Castello di San Martino, dei cui resti, ancora visibili e fruibili nella prima metà dello scorso secolo e anche nei primi anni del secondo dopoguerra, non è rimasta traccia. Voci impersonali, quanto l'Io narrante del Verga dei Malavoglia, parlano di reperti custoditi qua è la nelle case: monete, spade medievali, corazze, alabarde. Quanto ciò sia vero non è dato sapere. Soccorra il dubbio allora. E la speranza. Prima o poi una campagna di scavi, così come accaduto a Mella di Oppido Mamertina, a Castellace e a Oppido Antica forse sarà fatta, anche solo per ricostruire l'area di sedime di un manufatto che si dice imponente. O forse, pia speranza, i cittadini in possesso di reperti concorderanno sull'importanza culturale di costituire un museo che li raccolga tutti e li difenda da nuove e definitive dispersioni jure hereditatis. Nell'attesa accontentiamoci di mantenere desta l'attenzione, anche attraverso un nuovo speciale del Corriere della Piana incentrato sulla Festa in onore di San Martino. Anche qui emerge nelle scansioni e nelle gestualità l'orgoglio della medievalità perduta e i retaggi di una lunga stagione di economia curtense e contadina in un lembo di Calabria nel quale i coloni greci prima, e poi i monaci basiliani in maniera più estesa impiantarono l'ulivo che ne è il simbolo più evidente insieme alle viti. Coltivazioni, queste, un tempo estese a perdita d'occhio nelle terre che dall'attuale San Martino digradano verso il mare e oltre Palmi e che fornivano l'uva destinata a diventare vino: pregiato, nettare che da secoli e ancor oggi vede nei giorni della Festa l'apertura delle botti, i primi calici e gli auspici per una nuova stagione di lavoro. La festa di San Martino è anche questo. Un ponte fra il passato e il futuro, per una comunità che si ritrova nella devozione al Santo di Tours e intorno alle proprie origini. Luigi Mamone

Sommario

Foto: Archivio Caruso Archivio Carpentieri Grafica e Impaginazione: Stampa: Litotipografia Franco Colarco Responsabile Marketing: Luigi Cordova phone +39 3397871785 cordovaluigi@alice.it Editore Circolo MCL “Don Pietro Franco” Via Benedetto Croce 1 89029 Taurianova (RC) La collaborazione al giornale è libera e gratuita. Gli articoli anche se non pubblicati non saranno restituiti. Chiuso per l’impaginazione il 28 Ottobre 2013

Speciale Festa di San Martino - 9 Novembre 2013

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Un luogo della memoria

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Martino di Tours Il Santo della carità

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Inno a San Martino

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Il restauro della statua

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Popolarità e modernità di San Martino

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La statua di San Martino venerata nella Parrocchia di Maria della Colomba Il miracolo del 1917 nella testimonianza di Rocco Caruso

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San Martino dolce santo


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Martino di Tours Il Santo della carità di Don Pino De Raco Parroco di San Martino

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l Vangelo ci ricorda che saremo giudicati sull’amore a Dio e al nostro prossimo. La liturgia annovera San Martino tra coloro che hanno saputo riconoscere Cristo nei poveri e nei sofferenti. Sicuramente egli è tra coloro ai quali il Signore ha rivolto l’invito finale: “Venite, benedetti dal Padre mio”. San Martino con la sua carità operosa ha ricevuto in eredità il Regno preparato per lui fin dalla fondazione del mondo e viene annoverato nella schiera dei beati. Lo stesso Cristo gli ha poi scandito le motivazioni del premio finale: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”. Esulterà di gioia indicibile Martino, nel ricordare che con il suo mantello ha avuto l’onore, non solo di coprire e riscaldare un povero infreddolito, incontrato nelle strade del mondo, ma di aver ricoperto di amore e dato calore al corpo stesso di Cristo, che si nascondeva sotto le spoglie di quel povero. È la sorte che toccherà anche a noi se sapremo con la stessa fede, con la stessa generosità, riconoscere Cristo negli ultimi e nei poveri e soccorrerli dando loro qualcosa di nostro. Viene da pensare quanto grande è la generosità di Dio verso noi: noi diamo a Lui le povere cose del mondo, un po’ di cibo o di bevanda, un mantello, una visita, un soccorso, e Lui ci ripaga con un premio eterno. Dovremmo aprire il nostro cuore all’amore fraterno nella ferma convinzione che aprendoci al nostro prossimo facciamo spazio a Dio. Egli ci ripete: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Non ci mancano certo le occasioni di incontrare e soccorrere i poveri: occorre solo aprire occhi e cuore, poi anche le nostre mani si muoveranno. San Martino, il Santo della carità, egli ha ora intorno a sé, nel Cielo, tutti coloro che ha aiutato, ed è stato mezzo dell’incontro con Dio. Egli ha vissuto la carità di chi si offre al Signore nella sua persona e la carità fattiva che si offre ai fratelli; è mezzo e segno che riconduce all’amore suo. San Martino ha diviso non solo il mantello, ha diviso sé stesso, donandosi al Padre Celeste e ai fratelli. La via che San Martino ci ha mostrato è quella della carità, dell’amore. Non però un amore inteso come sentimento o come virtù umana in quanto non ha nulla a che vedere con la simpatia e la benevolenza. Paolo non intende qui contrapporre

alla comunità di Corinto, che ricercava nei doni spirituali il fine ultimo della sua religiosità, una semplice pratica morale, ma vuole far capire che l’amore di cui sta parlando è il più grande dono di Dio che esista e si può trovare soltanto là dove agisce lo Spirito Santo. Ai Romani al cap. 5, v. 5 Paolo infatti scrive: “Che l’amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.


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Inno a S. Martino

Testo di Domenico Caruso - Musica di Oronzo Talenti

I Strofa: O glorioso San Martino, nostro grande Protettore, il Tuo popol sempre chino rende grazie al Redentore. Ritornello: Ebbe esso tanti mèriti sol con Te per avvocato, tra gli assalti impertèrriti dei nemici ch’hai assediato. La Tua grande carità Ti spogliò del Tuo mantello, per coprire la nudità d’un cencioso poverello. II Strofa:

I miracoli son grandi e prodigi d’ogni sorta, nei pericoli s’accresce la fiducia di Tua scorta.

Ritornello:

Ti preghiamo, San Martino, di assisterci ogni istante e con petto adamantino vola in mezzo a noi festante. Ed un dì ci unirem a cantar con Te nel Cielo le Sue glorie al Redentor che godremo senza velo.

Finalino: O San Martino, Nostro Patrono, sia gloria a Te…

(L’inno, composto dal rev. Don Giulio Celano è stato raccolto da Rocco Caruso, ed è stato adattato alla musica dal prof. Domenico Caruso).

A Santu Martinu (A S. Martino) Santu Martinu, nostru protettori, Vu’ stati sempri ’nda lu nostru cori, ca se pe’ sorta po’ nd’abbandunati si chiùdinu pe’ nui tutti li strati. O grandi Santu chi lu mundu chiama, di caritati jè la Vostra fama e se volìmu a Vui vicinu stari lu pròssimu ’ndavimu e rispettari. Santu Martinu, grand’omu di paci, ’mbiatu cu’ lu Vostru ’sèmpiu pìgghja, ’nu paradisu ’nda ’sta terra teni e n’atru quandu doca ’ssupra veni. Veniti, Santu meu, ’nda me’ famìgghja: sulu pe’ Vui mu càmbia eni capaci! Domenico Caruso


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Il restauro della statua di San Martino di Rocco Carpentieri

Foto bianco e nero, prima del restauro

Associazione Culturale Abbadia San Martino con la supervisione storica di Francesco Sofi

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a notte del 25 dicembre del 1976, nella Chiesa di San Martino, una candela lasciata accesa inavvertitamente davanti al presepe, provocò un incendio che coinvolse il presepe medesimo e la statua di San Martino che si trovava a breve distanza dallo stesso. Lo spettacolo che si presentò la mattina seguente agli occhi del parroco di allora, Don Pasquale Scappatura ( 1974 - 1984), fu desolante: la statua del Santo protettore dell’omonimo paese presentava bruciature per circa il 60 % della sua superficie. La notizia dell’accaduto si sparse subito nel paese ed in molti accorsero per verificare di persona quello che era successo: le persone che già si trovavano riunite in piazza in attesa della messa di Santo Stefano, entrando, constatarono i danni causati dalle fiamme della notte precedente. Agli occhi di tutti apparve evidente che era stata una vera fortuna che il fuoco non si fosse propagato ad altre parti della vecchia chiesa costruita, nelle alte cornici, con canne e gesso. L’impegno profuso da tutta la cittadinanza per riportare agli antichi splendori la statua di San Martino, ormai ridotta ad un rudere, fu esemplare.

Statua di San Martino prima del restauro dove sono visibili i colori pastello originali

La statua di San Martino viene preparata per essere trasferita a Lecce


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Nelle foto il comitato con la statua annerita dalle fiamme

In tempi record, fu costituito un comitato per il restauro della statua. Il Comitato era composto da Antonino Sofi, Carmelo Calabrò, Felice Melara, Rocco Caruso, Domenico Maio, Simone Frazzica, Carmelo Speranza, Domenico Caruso, Antonio Ciccone, Pasquale Puntilo, Vincenzo Ciano, Antonino Cutrì e Domenico Bitone. Nei primi mesi del 1977 il comitato contattò diversi restauratori in tutta Italia, cercando di raccogliere diversi preventivi di spesa sia per verificare quanto potesse occorrere per restaurare la statua sia per cercare di capire quale, tra le numerose ditte contattate, sarebbe stata all’altezza del compito. Alla fine di questa ricerca la scelta cadde sulla ditta “Malecore” di Lecce. Il prof. Antonio Malecore, prima che la statua del San Martino fosse trasportata a Lecce nel suo laboratorio, venne al paese per verificare di persona le condizioni della stessa ed illustrò al comitato il procedimento di restauro al quale sarebbe stata sottoposta. Aggiunse, inoltre, che la statua poteva essere restituita alla popolazione di San Martino presumibilmente per l’estate

La statua danneggiata dal fuoco

dello stesso anno. La Statua, che in attesa del restauro fu portata presso l’oleificio dei Fratelli Sofi, fu smontata e la mattina del 18 aprile del 1977, fu trasferita nel laboratorio del prof. Malecore di Lecce. Approfittando dell’occasione, lo stesso comitato decise di mandare al restauro anche la statua piccola di San Martino, che era depositata in pessime condizioni nel campanile della chiesa, il Cristo Morto e il quadro della Madonna del Carmelo che si trovava all’ingresso della chiesa. Per il restauro del quadro però fu interessata una ditta di Roma, città dove fu portato approfittando dell’occasione del viaggio per Lecce. Come si accennava prima, il restauro di tutte le opere fu completato per l’estate del 1977 , mentre il quadro è stato ritirato in un secondo momento a Roma. La mattina del 24 luglio 1977 alcuni membri del Comitato Restauro (Francesco Sofi, Antonino Sofi, Domenico Maio e Pasquale Puntillo) andarono a Lecce per il ritiro delle statue. Il rientro della statua o meglio delle statue avvenne presumibilmente nei giorni 25 o 26 luglio 1977 ed una volta arrivati

L'allestimento della statua prima del trasferimento a Lecce per il restauro


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Il restauro del mantello di San Martino da parte del prof. Francesco Marafioti 6 ottobre 2012

I componenti del comitato restauro posano per una foto ricordo vicino alla statua di San Martino, appena tornata dopo il restauro


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La statua di San Martino subito dopo il restauro

a San Martino le opere restaurate vennero portate, per essere custodite, presso l’oleificio Sofi dove sarebbero state addobbate per la festa del 7 agosto. Gli addetti al montaggio della statua, si accorsero, però, che i bulloni (torniati a mano), necessari per fissare la statua di San Martino alla base, erano stati dimenticati a Lecce. Per rimediare a questo inconveniente, Francesco Sofi, insieme a qualche altro membro del comitato, ritornò a Lecce per ritirare i bulloni dimenticati. A questo punto tutto era pronto per la festa! Ma facendo un passo indietro fino al momento in cui i membri del comitato al gran completo andarono a Lecce a ritirare le statue, occorre soffermarsi su un episodio alquanto singolare. Infatti, arrivati alla bottega del Malecore, il comitato constatò l’assenza del professore, il quale aveva incaricato una vicina di

accoglierli e di avvertirli che sarebbe rientrato di lì a breve; a quel punto i membri del comitato, impazienti di vedere il lavoro compiuto dal restauratore, entrarono nella bottega dove c’era la statua del loro Santo, appoggiata su una base alta 60 centimetri , con il volto coperto da un cappuccio di carta; tutti si chiesero: “a cacciamu o spettamu?…….cacciamula cacciàmula!!!…….”. Fu così che venne tolta la carta che nascondeva il volto del Santo e lo stupore per la bellezza dell’opera fece cadere i presenti in un ossequioso silenzio...per più di dieci minuti parlarono le loro lacrime! Questa fu la scena che si presentò agli occhi del professor Antonio Malecore all’arrivo alla bottega: il volto della statua di San Martino scoperto ed il comitato in lacrime! Ritornando, comunque, al momento in cui le opere restaurate erano pronte

all’ingresso in paese, occorre premettere che durante la primavera del ’77 il Comitato Restauro, si prodigò di organizzare una festa in onore del ritorno della statua di San Martino, restituita agli antichi splendori. La prima domenica di agosto, esattamente il 7 agosto 1977, venne organizzata una grandissima festa così come si fa per l’11 di novembre. Calorosa e forte fu la partecipazione di tutti i cittadini e degli emigrati venuti da ogni parte. Quell’anno rimarrà per sempre impresso nella mente e nei cuori degli abitanti di San Martino perché il Santo del paese venne festeggiato per ben due volte: il 7 di agosto e l’11 novembre. La mattina del 7 agosto ’77, la statua di San Martino venne portata trionfalmente in processione al paese, come se arrivasse il quel momento dal restauro.


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Popolarità e modernità di San Martino di Domenico Caruso

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a popolarità di Martino di Tours è testimoniata dalle migliaia di località e di chiese a lui dedicate dovunque: Francia, Belgio, Italia e altri Stati del mondo. Nell’omelia pronunciata in Francia nel settembre 1996, in occasione del XVI centenario della nascita, Giovanni Paolo II ha sostenuto: «Contemplando la vita di Martino, e soprattutto il suo ardore nel praticare l’amore verso il prossimo, la Chiesa è giunta subito alla conclusione che il Vescovo di Tours si trovava nel novero degli eletti (N.d.A., del giudizio universale). Per riconoscere il Cristo presente in ognuno dei suoi “fratelli più piccoli” bisogna aver percepito la sua presenza nel raccoglimento interiore. Uomo di preghiera, Martino si lasciò completamente prendere da Cristo. Poté affermare, come san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. La sua esistenza fu contrassegnata dalla ricerca della semplicità». Nato nel 316-317 d.C. a Sabaria, provincia romana della Pannonia (attuale Ungheria) da genitori pagani, trascorse la fanciullezza a Pavia dove il padre esercitò la mansione di tribuno militare. Fu questi a forzarlo, appena quindicenne, ad intraprendere la carriera di ufficiale della guardia a cavallo. Nel 336 circa venne incorporato nella milizia armata, dove ebbe modo di praticare le virtù della pazienza e della carità nei confronti dei camerati vivendo “più da monaco che da soldato”. Per circa tre anni, prima del battesimo, fu trattenuto sotto le armi. Si colloca in tale periodo il celebre episodio di Amiens. Il suo compito di circiter consisteva nel servizio notturno di ronda per l’ispezione dei posti di guardia e di sorveglianza delle guarnigioni. Riporta Sulpicio Severo: «Così, un giorno in cui non aveva con sé nulla all’infuori delle armi e del solo man-

tello militare, nel pieno di un inverno che, più aspro del solito, faceva rabbrividire, e a tal punto che l’intensità del freddo mieteva moltissime vittime, si imbatte presso la porta di Amiens in un povero nudo. Mentre questi pregava i passanti di aver compassione di lui e tutti passavano oltre allo sventurato, quell’uomo pieno di Dio si rese conto che il povero, al quale gli altri non accordavano misericordia, era riservato a lui. Eppure, che cosa avrebbe potuto fare? Egli non possedeva nulla oltre la clamide che indossava: aveva già consumato tutto il resto in un’opera dello stesso genere. Così, afferrata la spada che portava al fianco, taglia la veste a metà e ne porge una parte al mendicante, mentre lui si ricopre con l’altra». La notte seguente Cristo gli apparve in sogno vestito con la parte del mantello regalata al povero. Dopo l’eccezionale evento, in occasione della Pasqua del 339, Martino si fece battezzare e continuò formalmente la vita militare per altri due anni volendo fare un piacere al tribuno a lui legato da sincera amicizia. Nel marzo 354 partecipò alla campagna sul Reno, mossa dall’imperatore Costanzo contro gli Alemanni. Ma alla vigilia della battaglia presso Basilea rifiutò il donativum distribuito ai soldati, con l’intenzione di non combattere asserendo di essere un soldato di Cristo. Tacciato di viltà e posto agli ar-

resti, si limitò a dire che all’indomani avrebbe affrontato il nemico da solo col simbolo della croce. Così avvenne ed i barbari, alla sua vista, inviarono rappresentanti a chiedere la pace. Abbandonato l’esercito si recò a Poitiers dal vescovo Ilario, erudito nel campo della divina dottrina e noto per la sua lotta contro le teorie di Ario. L’incontro dei due amici, secondo un’antica tradizione, avvenne vicino all’attuale Cattedrale dove si può scorgere l’orma dei loro piedi impressa nel suolo. Non riuscendo Ilario a conferire il ministero del diaconato a Martino, ostinato a dire d’essere indegno, gli ordinò di diventare esorcista. Deciso, quindi, di evangelizzare la sua patria e di visitare i genitori, Martino


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lasciò il vescovo e fino al 360 risedette in varie località: in Pannonia, a Milano, nell’isola di Gallinara, a Roma. Durante la prima tappa, nell’attraversare le Alpi fu fatto prigioniero dei briganti. Ma il malvivente al quale venne affidato, nell’ascoltare la parola evangelica di Martino, si convertì e intraprese la vita ascetica. Proseguendo per Milano l’uomo di Dio incontrò il demonio che gli dichiarò la sua opposizione ad ogni opera di bene. In Pannonia riuscì a convertire soltanto la madre. Nel capoluogo lombardo, dove aveva creato una dimora solitaria per meditare, fu perseguitato e fatto malmenare dal vescovo ariano della città per cui, seguito da un amico sacerdote, si ritirò nell’isoletta ligure di Gallinara. Nel 360 Martino raggiunse Ilario, rientrato dall’esilio, a Poitiers dove venne ordinato diacono, prima che sacerdote l’anno successivo. Chiese, quindi, al maestro di voler condurre una vita solitaria e fondò il monasterium di Ligugé, il più antico d’Europa. Ebbero, così, inizio i primi miracoli: la resurrezione di un giovane defunto e di un altro che si era impiccato. Deceduto nel 371 Liborio, vescovo di Tours, i fedeli del luogo ricorsero ad un espediente per eleggere al suo posto il riluttante Martino. Per 26 anni egli curò le visite pastorali e la formazione del clero, stabilendosi in una piccola cella attigua alla chiesa fuori della città: a Marmoutier (il piccolo monastero). Martino impegnò sempre le sue migliori energie per distruggere gli idoli. Nella religione celtica gli alberi rivestivano un ruolo sacro, così in un pino dedicato alla dea Cibele si svolgevano i riti pagani. Alla decisione di Martino di farlo tagliare, i suoi oppositori accettarono la proposta a patto che egli venisse legato nel punto in cui non avrebbe potuto evitare di venire schiacciato. Ma quando l’albero cominciò a vacillare, il vescovo alzò la mano e fece un segno di croce. Allora il pino, per prodigio, si schiantò sul lato opposto mettendo a repentaglio la vita dei contadini vicini. Il carisma di Martino era tanto straordinario che bastava avvicinarsi a lui per riacquistare la salute. L’episodio più eclatante avvenne nel 386 a Treviri, dove una giovane pa-

ralitica, figlia dell’asceta spagnolo Priscilliano, era agonizzante. L’intervento del vescovo la riportò in vita. Gli storici sono concordi nel definire Martino: Il santo contro i potenti. La sua determinazione e il suo coraggio si possono rilevare da un episodio riguardante il violento Massimo. Recatosi mal volentieri alla sua tavola, curata personalmente dalla regina, «verso la metà del convito, come d’uso», (annota Sulpicio), «un servo porse all’imperatore una coppa. Questi ordina che sia offerta piuttosto al santissimo vescovo, aspettando e augurandosi di ricevere la tazza dalle sue mani». Il vescovo, invece, venendo meno al gesto simbolico, dopo aver bevuto passò la coppa al proprio accompagnatore. Il comportamento di Martino aveva lo scopo di avanzare, a favore di Priscilliano, la sua tesi secondo la quale era inaudito strumentalizzare a far giudicare una questione da un giudice secolare. Ma dopo una prima illusoria vittoria del vescovo e a sua insaputa, l’imperatore - come stabilito dal Concilio di Bordeaux del 384 - fece giustiziare il colto teologo unitamente a sei allievi accusati di eresia. Martino, tornato a Trèviri dall’imperatore per difendere i priscillianisti spagnoli ancora perseguitati, complici i vescovi Itacio e Britto, onde evitare altre persecuzioni fu costretto a prendere l’eucaristia con gli Itaciani. Ma rifiutò l’invito di sottoscrivere l’evento e lasciò per sempre Trèviri. Nel viaggio verso Marmoutier, addentratosi con tristezza nella foresta, fu consolato dall’apparizione di un angelo. Ritiratosi Martino, per un decennio il caso Priscilliano divise l’episcopato della Gallia; Papa Siricio scomunicò il vescovo Felice e quanti avevano condannato il teologo spagnolo; l’imperatore Massimo (per come gli aveva vaticinato Martino) nel tentativo di conquistare l’Italia venne ucciso dalle armate di Teodosio (388). Nel 394 si celebrò inutilmente un sinodo a Nîmes cui Martino non volle presenziare, pur desiderando di conoscere l’esito, in polemica coi 21 vescovi che vi aderirono dopo quanto accaduto a Priscilliano. Il Concilio di Torino (398 o 399) pose fine allo scisma, mentre Felice si dimetteva. Anche a Marmoutier Martino subì gravi persecuzioni e


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le critiche ingiuste del monaco Brizio che gli succedette sulla cattedra di Tours (dal 397 al 442). Nel novembre 397, accompagnato da una schiera di discepoli, il santo si mise in cammino per sedare la diatriba accesa tra i monaci di una parrocchia da lui fondata. Giunto a Candes ristabilì la pace tra i fratelli, prima di convocarli per annunciare la sua prossima fine. Visse gli ultimi giorni con una febbre ardente, stremato dalla fatica e dalla penitenza. Manifestò, quindi, il desiderio di venire disteso al suolo, sopra un letto di cenere e un cilicio, coperto da una ruvida pelle di capra. Ai discepoli che tentavano di rendergli meno scomoda la morte, esortò: «Io, se vi lasciassi un altro esempio, avrei peccato!». Comunque, Martino dovette subire gli ammonimenti dei fratelli: «Padre, perché ci abbandoni? A chi ci lasci, tutti soli? Sul tuo gregge, lupi rapaci stanno per scagliarsi, e chi ci scamperà dal loro morso se il pastore è raggiunto per primo?». Il vescovo, piangente e commosso, pregò il Signore di non rifiutare il compito se necessario al suo popolo e concluse: «Ma se tu avrai compassione della mia tarda età, è un bene della tua volontà! Quanto a loro, per i quali ho paura, tu li custodirai...». E si spense con gli occhi aperti e le mani protese in alto. Era la domenica 8 novembre del 397. La notizia della morte si propagò do-

vunque. Dai diversi punti del territorio accorse una gran folla attorno al presbiterio di Candes. Gli abitanti di Tours e quelli di Poitiers si contesero la salma. Sopraggiunta la notte, furono chiuse a chiave le porte della camera in cui riposava Martino, guardato a vista dai due partiti. Ma nell’ora tarda, approfittando della circostanza che i rivali si assopivano uno dopo l’altro, quelli di Tours diedero il segnale ai compatrioti che vigilavano al di fuori e, senza strepito, calarono dalla finestra il corpo del loro vescovo. Quindi lo deposero sopra un battello che, dalle acque della Vienne, passava nel letto della Loira. Furono intese, allora, alcune voci intonare un cantico, alle quali risposero altre migliaia dal fiume e dalle sponde. Quell’armonia svegliò i cittadini di Poitiers che crederono di sognare nell’ammirare anche la Loira illuminata dalla luce di innumerevoli ceri che si rifletteva nelle acque. Pertanto, decisero di fare ritorno alle loto case. Il beato fu ricondotto a Tours per un funerale degno dell’amore che i popoli gli tributavano. Si dice che, al gran numero di fedeli, si aggiungessero le vergini in lacrime e quasi duemila monaci accorsi da ogni parte. Lo storico, più che di un funerale, parla di un vero trionfo. Il corpo di Martino fu deposto, provvisoriamente, nel cimitero cristiano allora situato alle porte della città.

Istituita la festa per l’11 novembre, anniversario delle esequie, per i Francesi a buon diritto il culto divenne nazionale. «Laddove è il nome di Cristo, Martino è in auge», sosteneva Venanzio. La letteratura e l’arte esaltano il nome di Martino, «il modello di santità delle regioni occidentali, colui che diventerà il più celebre santo d’Europa». Nella tradizione medievale Martino è stato definito il “Tredicesimo Apostolo” ed ancora oggi è il Santo più noto per la sua carità. Considerate le analogie tra il tempo di Martino e il nostro, possiamo ben dire che egli è il Santo più moderno e attuale da cui il mondo deve prendere esempio. Nell’intervista su “I Santi nella Storia” di Alberto Bobbio a don Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana, questi alla domanda: «Qual è il santo della carità che lei ama ricordare?» esalta il gesto di Amiens nel quale Martino: «...Non solo dà del suo e lo scalda, ma cambia la vita al povero, gli restituisce dignità, lo copre alla vista dei passanti indifferenti. L’accento va posto sul vestito e richiama l’immagine della veste bianca che la Chiesa dona nel battesimo: il dono della dignità dei figli di Dio, liberati dal peccato». (Per maggiori particolari, consultare il libro dell’autore: «Martino di Tours» Il Santo della Carità - Centro Studi “S. Martino” - Novembre 2007).


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La Statua di San Martino venerata nella Parrocchia Maria Santissima della Colomba

di Rocco Carpentieri Associazione Culturale Abbadia San Martino

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a ricostruzione storica sull’origine della statua di San Martino a cavallo che si venera nella chiesa di San Martino, richiede una riflessione particolare data la scarsità di documenti che ne attestano con certezza la sua origine e la sua fattura. Infatti relativamente a tale problematica delle origini nulla di scritto è stato rinvenuto nell’archivio storico della Diocesi di Mileto, pertanto è necessario fare alcune importanti considerazioni legate principalmente alla tradizione orale di fedeli e cittadini mediante la quale è possibile elaborare qualche ipotesi per risalire alla data probabile di quando fu scolpita e sul suo autore. Sappiamo con certezza che la statua fu commissionata dai fedeli di San Martino verso la metà del XIX secolo ad uno scultore del legno con bottega nella vicina Varapodio di nome: Francesco De Lorenzo. Dai documenti in nostro possesso sappiamo che questo scultore nacque a Varapodio il 15 gennaio 1807 da Domenico e Nicolina Morabito e il 24 settembre del 1831, all’età di 24 anni, fu ordinato sacerdote. Dal 1850 al 1854 fu parroco della chiesa di San Nicola suo paese natale. Gli impegni che derivavano dalla sua attività di sacerdote non gli impedirono di dedicarsi alla lavorazione artistica del legno, infatti nelle adiacenze della chiesa di San Nicola aveva allestito una bottega per scolpire le sue statue utilizzando il legno di ulivo facilmente reperibile essendo una risorsa inesauribile del territorio locale, con la caratteristica principale che il legno di ulivo è uno dei più duri e compatti che si conosca.

La statua del San Martino fu ordinata presumibilmente allo scultore Varapodiese intorno al 1862 ed in quel periodo la Parrocchia era guidata dal sacerdote taurianovese don Antonio Drago.

Si presume che l’anno di commissione sia il 1862, dal momento che, come riporta uno studio di Domenico Caruso si ha per memoria storica che il De Lorenzo impiegò circa tre anni per scolpirla nel duro legno di olivo e poi dipingerla. Racconti popolari tramandati per via orale, riferiscono che gli abitanti di San Martino andarono a ritirare la statua con un carro trainato da due pariglia di buoi in occa-

sione della festa del patrono del 1865 e quando si presentarono alla bottega del De Lorenzo, l’artista Varapodiese, si era talmente affezionato alla sua opera che quasi rifiutava l’idea di consegnarla al punto che non si voleva staccare da quella statua così bella, tanto che s’ammalò e morì. Ancora oggi si raccontano due aneddoti rimasti vivi e famosi nella memoria storica della nostra cittadina. Si racconta per primo che il De Lorenzo passava ore e ore a contemplare la meravigliosa statua lignea tanto da chiedere alla statua: Martino perché non parli? Il secondo aneddoto racconta che lo scultore si affacciò alla porta della sua bottega e mentre la statua di San Martino lasciava Varapodio, il De Lorenzo esclamò: Martino tu vai via ed io muoio. Presso l’archivio del Comune di Varapodio è stato rintracciato l’atto di morte del De Lorenzo datato 13 febbraio 1866 dal quale si evince che morì a Varapodio la sera del 12 febbraio del 1866 all’età di 59 anni. Vista la data di morte, possiamo affermare con certezza che iniziò a scolpire la statua nel 1862 – 63, quindi tre anni prima della sua scomparsa e che molto probabilmente terminò i lavori di rifinitura tra la fine del 1865 e l’inizio 1866 anno in cui morì. È da mettere in evidenza che la statua è rimasta danneggiata da un incendio la notte del 25 dicembre 1976 e fu restaurata nel 1977. I colori pastello originali della statua furono modificati totalmente, come pure si presume sia stato sostituito il povero rappresentato ai piedi del santo. 1) Antonino De Masi “Varapodio Ieri e Oggi”, anno 1990, pag. 443. 2) Domenico Caruso “Storia e Folklore Calabrese”, anno 1988 pag. 97. 3) Idem op. cit. “Storia e Folklore Calabrese”


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Il miracolo del 1917

nella testimonianza di Rocco Caruso di Domenico Caruso

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Festa di San Martino anni '60. In primo piano il delegato sindaco Rocco Caruso

io padre, Rocco Caruso (1904-2000), ricoperse un ruolo importante nello sviluppo di San Martino. Essendo il paese prevalentemente agricolo, i cittadini fecero sempre ricorso all’Ufficio del Lavoro da lui gestito per la soluzione dei loro problemi assistenziali ed occupazionali. Oltre a detta mansione s’interessò della nostra storia e delle tradizioni scrivendo, sui giornali dell’epoca (come “Il Mattino” di Napoli e “Il Messaggero” di Roma) nonché su qualche pubblicazione personale, anche le vicende del nostro Santo protettore. «La devozione dei sammartinesi per il Grande Taumaturgo», afferma il mio genitore in una sua stampa del 1959, «non è mai venuta meno […]. La tradizione storica della festa nell'anno 1917 solo per volere del Santo non si spezzò. Infatti, il 10 novembre di quell'anno il sig. Girolamo Muratori, allora delegato sindaco del paese, un po' turbato per Foto storica. Processione di San Martino 11 novembre 1937 con, in prino piano, il Rev. Don Giulio Celano


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Processione San Martino anni '60

il furente incalzare della guerra mondiale, aveva stabilito di sospendere la celebrazione. Ma San Martino gradiva che le anime, nei giorni della Sua ricorrenza, potessero riconciliarsi con Dio chiedendo perdono dei loro peccati, ed andò dal sindaco per esortarlo a solennizzare la Sua giornata. Nella notte, come a S. Severino - vescovo di Colonia ed a S. Ambrogio che nel medesimo istante faceva vedere la Sua gloriosa ascesa al Cielo, appariva anche al sig. Vincenzo Romeo, uomo benestante, molto devoto al Santo e capo del comitato per i festeggiamenti. Mentre quest'ultimo stava all'aperto, nel fondo ChiusaCiani da lui tenuto a colonia, scrutando il cielo che si faceva minaccioso, fu abbagliato da una luce vivissima che l'indusse ad inginocchiarsi. Appena si riebbe, alzò la testa per controllare il fenomeno che l'aveva costretto a tale posizione e gli si parò dinanzi un cavaliere, circondato da un'aureola meravigliosa. Il misterioso personaggio l'invitò, quindi, a prestare la sua opera affinché la festa patronale si svolgesse come gli anni precedenti. Scomparsa la visione, il Romeo si alzò da quell'atteggiamento di adorazione e sconvolto si portò a casa del sindaco per riferire l'accaduto e stabilire sul da fare. Ma con grande meraviglia, appena giunto dal Muratori, trovò il primo cittadino che, inginocchiato dinanzi all'immagine del Santo, implorava la benedizione. Entrambi si recarono dal rev. don Giulio Celano ed esposti i fatti delle singole apparizioni - decisero di aprire quella sera stessa la chiesa e al suono delle campane invitare i fedeli alla preghiera, in segno di pentimento e di omaggio all'eccelso Santo».

Processione San Martino anni '50

Raffigurazione del miracolo del mantello di San Martino in un disegno della prof.ssa Adriana Caruso

Processione San Martino anni '50


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“Ciùcci” e Giganti nella tradizione popolare di Domenico Caruso

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nche S. Martino possiede i suoi Giganti che, oltre a quelle locali, allietano le feste di tanti paesi. I due simpatici fantocci si presentano addobbati con eleganza e sono costruiti in cartapesta con la stessa tecnica dei colossi di Palmi, i quali - a loro volta - si rifanno a Mata (la donna) e Grifone (il moro) di Messina. Con i Giganti si tramandano alle nuove generazioni un eccezionale momento storico e alcuni aspetti folcloristici del nostro glorioso passato. Ad essi, infatti, si accompagnano l'asinello finto (’u ciucciu) - animato da un uomo - e i tamburi (i tamburinari). Con un diverso ciuchino ('u ciucciaredu), che viene "ballato" da una persona e che risulta composto da parti mobili che si staccano man mano che bruciano fra la fantasmagorica esplosione dei fuochi pirotecnici di cui è inzeppato per poi disintegrarsi con lo scoppio del petardo finale, si annunciano ('u 'mbitu) ogni anno a S. Martino i solenni festeggiamenti

dell'11 novembre in onore dell'omonimo Santo protettore. Mentre i nostri Giganti vengono indossati da un individuo che si nasconde all'interno e che può vedere attraverso una piccola apertura praticata nelle vesti all'altezza dell'ombelico, a Messina per il giorno dell'Assunta (15 Agosto) vengono portate in giro le due maestose figure. Queste, entrambe a cavallo, bianco per Mata e nero per Grifone, rappresentano - fra l'altro - Cam e Rea, i leggendari progenitori della città. Nella sua pubblicazione: "Palmi - I Giganti e la festa di San Rocco" (Jason Ed. - R.C., 1991), Francesco Lovecchio riporta varie ipotesi riguardanti la nascita e la simbologia dei Giganti messinesi. La più attendibile è legata alla venuta in città di Riccardo I Re d'Inghilterra, noto come Riccardo Cuor di Leone: «Giunto a Messina il 23 ottobre del 1190 per congiungersi con le armate di Filippo, Re di Francia, per muovere assieme verso la Terra Santa, dando così origine alla Terza Crociata, il re sostò

nella città per ben sei mesi, in quanto aveva trovato condizioni climatiche avverse per attraversare il Canale di Sicilia». In tale periodo (riferisce Lovecchio) notò i nobili di estrazione grecobizantina, spalleggiati dai monaci basiliani - occupanti il convento fortificato di San Salvatore all'ingresso del porto - che spadroneggiavano nella vita politica e amministrativa. Essi venivano definiti con disprezzo dalla plebe Grifones, cioè ladroni. Riccardo Cuor di Leone, in contrapposizione al convento di San Salvatore, fece costruire con rapidità sulla collina di Roccaguelfania un enorme castello che, appena ultimato, venne chiamato dal popolo il Castello di Matagriffone, individuando in Mata (macta), ammazza, ed in Grifone, (Grifones), ladro. Poiché dalla città peloritana i Giganti vennero introdotti nella nostra provincia, anche a Palmi, come altrove, rivestono un significato liberatorio e ricordano le numerose incursioni straniere. Circa la loro origine oscura si legge nel volume: "Tradizioni e costumi d'Ita-

Carmelo Alessi (al centro con il tamburo piccolo) e la sua "Band", che accompagna i giganti con un ritmo ripetitivo e trascinante

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lia" - (Istituto Geografico De Agostini) - 1983 - pag. 384: «A Palmi, tutta nuova dopo il terremoto del 1908, la più importante festa tradizionale è la processione dei giganti, enormi pupazzi raffiguranti un cavaliere e una dama, ma tradotti in sembianze e fogge molto grossolane. - Si dava a questi giganti - narra Bruno Tedeschi - una figuraccia orribile e spaventosa, si situavano sull'alto di una loggia pensile chiusa da un palancato, e mercé certi ordigni e una elasticità data nelle mani e nella gola, al toccare di alcuni fili, l'enorme capo poteva mutar di posizione -. Ancora oggi il gigante e la gigantessa attraversano le vie del paese, accompagnati dal suono del tamburo e da una folla di giovani e di ragazzi festanti. Non si sa l'origine della festa dei Giganti, certo è che ha molti secoli di vita; risale al periodo normanno o saraceno o turchesco e ricorda vicende dei mori o dei paladini? Non è possibile dare una risposta.

Forse non si tratta che di una generica esigenza popolare di ridurre a gioco il ricordo mitizzato di antichi eroi locali o di protagonisti di antiche leggende tramandate oralmente e, quindi, deformate in modo vago e vario». Al ballo “du ciùcciu”, che preannuncia i festeggiamenti patronali di S. Martino, vi partecipa una gran folla, giunta anche dai luoghi vicini. La tradizione, come per i Giganti, risale all’epoca delle invasioni turche. Scrive, a proposito, l’amico giornalista Franco Vallone (nel cui libro include la nostra storia) che gli animali finti «simboleggiano goffi personaggi del periodo saraceno, l’ingresso dei normanni, il trionfale ingresso a Messina di Ruggero d’Altavilla, o semplicemente voraci belve che mangiano di tutto. Secondo alcuni racconti popolari il ballo si riferisce all’incendio delle navi musulmane ad opera della flotta cristiana nella Battaglia di Lepanto. Altre volte

il fantoccio dell’animale viene bruciato e questa operazione ha dei riferimenti propiziatori, di protezione, con una funzione apotropaica: il fuoco purificatore chiude la festa e riporta la normalità del quotidiano vivere». (Da: Giganti - Cammelli di fuoco, ciucci e cavallucci nella tradizione popolare calabrese - Adhoc Edizioni - Vibo Valentia, 2009). La presenza dei Giganti nel nostro paese dovrebbe significare, oltre al ricordo di un triste passato (non dimentichiamo che S. Martino, come tante altre località della Piana, ha avuto origine dai profughi di Tauriana), il presagio per un futuro di giustizia e di libertà, nonché di rivalutazione della dignità umana. (Aggiornamento e adattamento da: Domenico Caruso, “S. Martino: un paese e un Santo & Il miglior folk calabrese” - Centro Studi "S. Martino" - S. Martino (Reggio Cal.) - Nov. 2000).


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San Martino dolce Santo Testo e musica di Alfredo Politi

Nelle foto momenti delle feste negli anni '50 e '60

I Strofa: San Martino dolce Santo, ti spogliasti del tuo manto, per vestire il poverello che nel cuor t’ era fratello. Ora noi soccorri ed ama, questo popol che ti chiama, questo popol che ti vuole nella gioia e nel dolore. II Strofa: San Martino tutto amore, chi non t’ama non ha cuore nella luce dei gran santi tu perdona tutti quanti. Tu perdona, tu consola, tu consiglia e tu raffrena, tutti gli animi rasserena, i dolenti di ogni pena. III Strofa: La concordia tu ci doni, nelle case e nel paese, nel riposo e nel lavoro San Martino mio tesoro. Per il popol che lavora sia giustizia e comprensione, togli al ricco un pò il mantello, in favor di un suo fratello. IV Strofa: Apri al ricco un pò il suo cuore, a chi vive negli affanni, a chi cerca il suo lavoro, a chi chiede uman decoro. Fa di tutti un sol partito, la famiglia e il paese, la concordia e il lavoro, San Martino mio ristoro. V Strofa: Sia l’amor pel fratello il partito ognor più bello le goismo sia distrutto esso il male ognor più brutto. Sia l’amore per la chiesa, sia l’amore per la mamma, quell’amore che mai non muore, quell’amore che più l’infiamma. VI Strofa: San Martino degli emigrati rendi tutti consolati, nel lavoro e nell’onore, nella fede del signore. San Martino degli immigrati, rendi lieti pure loro, apri lor la buona via, San Martino e così sia.

L’inno è stato composto dal prof. Alfredo Politi negli anni 50.


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