la crisi, Anwar Shaihk

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RACCOLTA DI SAGGI DI ANWAR SHAIKH


Connessioni Edizioni connessionic@yahoo.it http://connessioniedizioni.blogspot.it/

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INDICE

Presentazione

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Un riconoscimento e una critica ad Anwar Shaikh, Antonio Pagliarone

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Introduzione alla storia delle teorie delle crisi

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La crescita e la caduta del welfare state negli USA

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Una spiegazione dell'inflazione e della disoccupazione: una sfida alla teoria economica neoliberale

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Il mercato azionario e il settore corporate dell'economia Usa Un approccio basato sui profitti

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La Prima Grande Depressione del XXI Secolo

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PRESENTAZIONE

Questo quaderno vuole essere un contributo alla discussione inerente alle teorie della crisi, attraverso una raccolta di scritti di Anwar Shaikh: homepage.newschool.edu/~AShaikh/

Analizzare la crisi, vuol dire innanzitutto riconoscere i limiti interni del capitalismo, la possibilità dell’emersione del nuovo corrisponde al disfacimento del vecchio, non neghiamo l’importanza della lotta di classe, ma questa assume un connotato particolare solo quando il vecchio diventa una barriera troppo gravosa, e solo in questa condizione di bisogno che si possono sviluppare nuovi rapporti di produzione attraverso la lotta di classe stessa. Il non prendere in considerazione la crisi, rifiutare di riconoscere che il capitalismo ha dei limiti oggettivi sposta inevitabilmente l’attenzione dalla sfera della produzione a quella della distribuzione, e di conseguenza, dai rapporti sociali di produzione ai rapporti di mercato che costituiscono l’unico oggetto di analisi della teoria economica borghese. Il problema economico si traduce a una questione di una più equa distribuzione del prodotto sociale che andrebbe a eliminare le frizioni all’interno del sistema. In questo senso riaffermare e riconoscere i limiti stessi del capitalismo è l’unica condizione/possibilità per i pro-rivoluzionari, dove la stessa teoria rivoluzionaria è essenzialmente una teoria delle crisi.

Riprendiamo se pur modestamente quel lavoro importantissimo aperto dalla rivista Plusvalore negli anni 80-90 (una parte di articoli usciti sulla rivista Plusvalore si possono trovare sul sito www.countdowninfo.net), che diede vita ad un lavoro di ricerca in merito alla crisi e alle tendenze del capitalismo. Riteniamo importante pubblicare questo quaderno, perché al di la di alcune posizioni di Anwar Shaikh, criticità messe in evidenza nella presentazione al quaderno curata da Antonio Pagliarone, offre un punto di vista inedito in Italia. Ringraziamo Antonio Pagliarone, senza il suo contributo non sarebbe potuto uscire il quaderno.

Connessioni Edizioni 2012, Italia

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Un riconoscimento ed una critica ad Anwar Shaikh Antonio Pagliarone

Ma, forse, la rivoluzione sarà possibile solo una volta compiuta la contro-rivoluzione (Marx).

Questa raccolta di testi prodotti da Anwar Shaikh avrebbe dovuto essere molto più corposa, purtroppo sono stati pochi ad essere disponibili nel collaborare ad un progetto del genere. La rivista Connessioni invece ha rivelato estremo coraggio nel voler pubblicare e diffondere questo volumetto in un ambiente poco incline ad affrontare uno studio approfondito sulle dinamiche economiche del capitalismo moderno. Si è scelto Anwar Shaikh poiché rimane, nonostante qualche deviazione dal corso originario, uno studioso attento che ha introdotto nell’ambito del marxismo quel metodo dell’Empirical Evidence totalmente estraneo agli intellettualoidi marxisti nostrani impegnati da sempre nell’analizzare rozzamente lo stato dell’economia sulla base di scelte politiche o della governance di dinamiche oggettive. I primi lavori di Shaikh, tra i quali abbiamo selezionato l’ottimo Introduzione alla storia delle teorie delle crisi del 19781, partono dal presupposto che tutto il marxismo del secolo scorso si è impantanato su analisi delle dinamiche economiche fondate su lavori proposti da economisti non marxisti introducendovi semplicemente il solito linguaggio di sinistra come farcitura di tesi, in realtà tutte interne al sistema capitalistico, impegnate nel risolvere i problemi derivati dalle crisi cicliche. L’eresia iniziale di Shaikh consisteva semplicemente nel rimettere al centro della analisi marxiana delle crisi e delle riprese fattori fondamentali come la profittabilità e l’accumulazione che lo stesso Marx aveva proposto nei suoi scritti più importanti ma in seguito completamente dimenticati dai mastodonti del 900 fatta eccezione per Henryk Grossmann, con il suo famoso Das Akkumulationsund Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie)2 scritto nel 1929, ed in seguito Paul Mattick3.

Non è importante rivendicare una sorta di fedeltà al

marxismo, come molti si sforzano ancora di dimostrare, ma semplicemente di usare le categorie e l’approccio marxiano in quanto risultano ancora indispensabili per comprendere l’andamento del modo di produzione capitalistico. Lo stesso Marx nella prefazione alla edizione tedesca del I libro del Capitale nel 1867 afferma:

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La traduzione è stata curata da Marco Riformetti.

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Il crollo del capitalismo. La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalista, Milano, Mimesis,

2010 3

Il sito Connessioni ha fatto un lavoro eccezionale per l’Italia raccogliendo molti scritti di Mattick

[http://paulmattickarchivio.blogspot.it/] e proseguendo nella traduzione di altri, inoltre il sottoscritto ha scritto una biografia meticolosa di Paul Mattick che uscirà per le Edizioni Colibri di Milano.

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“Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. D’altra parte né il microscopio né i reagenti chimici possono essere utili per l’analisi delle forme economiche. La forza d’astrazione deve sostituirli entrambi. Ma per la società borghese la forma di merce del prodotto di lavoro, cioè la forma di valore della merce, è la forma economica che corrisponde alla forma di cellula. Agli illetterati può sembrare che l’analisi di tali forme si aggiri tra semplici sottigliezze, ma solo come se ne trovano nell’anatomia microscopica”

L’evidenza empirica avrebbe dovuto dimostrare una volta per tutte che la teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto era corroborata da dati e valori concreti ricavabili dalle statistiche moderne messe a disposizione dai centri di ricerca e di rilevazione più o meno ufficiali. Da allora, ovvero a partire dalla fine degli anni 70 nel pieno di una crisi capitalistica globale, molti studiosi di lingua anglosassone hanno seguito il metodo empirico della analisi producendo una massa enorme di studi che venivano regolarmente presentati e discussi nelle convention che li riunivano quasi annualmente. L’obiettivo non era quello di trovare una sorta di aggregazione monolitica tra marxisti di vari paesi ma di favorire lo scambio di dati e di interpretazioni dei fenomeni che potevano essere utili a chiunque avesse a cuore il futuro dei lavoratori superando le barriere precostituite da un marxismo ideologico che aveva fatto della separazione e del settarismo la quintessenza della sua sopravvivenza. Naturalmente col passare del tempo questo nuovo modo di fare ricerca e di utilizzo dei risultati si è frantumato in molti rivoli e non sono mancate le solite polemiche, a volte sterili, di intellettuali che si erano dimenticati dei lavoratori e dei loro problemi reali per concentrarsi nelle immancabili diatribe da prime donne tipiche dei cattedratici, ma resta il fatto che alcuni di questi intellettuali, e tra questi Shaikh, hanno alternato studi empirici raffinatissimi ad interventi diretti sulla pubblicistica di base e conferenze destinate a giovani lavoratori. Questo nuovo approccio empirico venne introdotto in Italia, a partire dai primi anni 80, dalla rivista Plusvalore che ha pubblicato tra gli altri diversi articoli di Shaikh sull’andamento del saggio del profitto negli Stati Uniti e sul problema della trasformazione da Marx a Sraffa4, un tentativo ambizioso in un paese dove vige una tradizione culturale di tipo sociologico poco incline all’utilizzo di modelli matematici al posto di affermazioni ideologiche, ripetute ancora oggi come un mantra, finalizzate alla propaganda o al proporsi come esperti in grado di risolvere tutti i problemi una volta entrati nel sistema burocratico. Infatti dopo dieci anni Plusvalore fu costretta a chiudere le sue pubblicazioni proprio per l’impossibilità di favorire l’approfondimento dei temi proposti in una rivista dalla tiratura modesta e dalla distribuzione sommersa da una montagna di pubblicistica di basso livello che si fregiava di non utilizzare le grandezze di una scienza triste come l’economia

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Rispettivamente in Plusvalore n 8 1990, n 11 1993 e n 3 1984.

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(considerata dai più come borghese) per mascherare in realtà la totale ignoranza delle categorie economiche utili per confermare l’inevitabilità della crisi capitalista. Shaikh, nato a Karachi nel 1945, si era avvicinato ad un approccio economico proprio in coincidenza delle lotte studentesche alla Columbia University dove aveva iniziato a frequentare i corsi di economia considerandoli piuttosto poveri per una mente vulcanica come la sua ed una volta letto un saggio di Geoff Harcourt venne completamente attratto dal lavoro metodico. Infatti egli stesso afferma: “Sono entrato alla facoltà di Economia della Columbia University nell’inverno del 1967 ed ho partecipato alla occupazione dell’ateneo durante gli scioperi studenteschi del 1968 e in genere disprezzavo la teoria neoclassica quando mi veniva insegnata. Il saggio di Geoff ebbe un impatto immediato e forte sul mio modo di pensare e mi introdusse ai lavori di Joan Robinson, Sraffa, Pasinetti, Garegnani. Bhaduri e di molti altri. Mi mostrò inoltre che l’economia classica e marxiana possono essere alternative rigorose alla teoria neoclassica”. Da questo momento Shaikh inizia a produrre lavori sempre più raffinati pubblicati in numerose riviste specializzate che gli garantiranno la cattedra di Economia alla New School for Social Research di New York e la collaborazione a numerosi Istituti di Ricerca tra i quali il Levy Economic Institute . Appena laureato nel 1978 scrisse l’articolo “Marx’s Theory of Value and the Transformation Problem avviando una dibattito, che prosegue tuttora, sul problema della trasformazione dei valori in prezzi. In seguito ha prodotto numerosi libri ed articoli tra i quali Measuring the Wealth of Nations: The Political Economy of National Accounts

scritto con E.

Ahmet Tonak nel 1996, nel quale vi è un meticoloso lavoro empirico sullo stato dell’economia nei maggiori paesi industrializzati, fino a Globalization and the Myths of Free Trade del 2008. e il più recente Economic Policy in a Growth Context: A Classical Synthesis of Keynes and Harrod del 2009 (un testo molto interessante che non siamo riusciti ad inserire nella raccolta) Tutte le sue pubblicazioni sono disponibili nel suo sito newschool.edu/anwar-shaikh. Occorre notare che negli scritti iniziali di Shaikh risulta evidente la teoria delle crisi secondo la quale le dinamiche delle onde lunghe portano ad un declino della profittabilità generato dall’aumento della composizione organica. Il capitalismo ad ogni fase di ripresa pone immediatamente le basi per una successiva stagnazione e crisi come accaduto negli anni 70, dopo la fase del Golden Age, nelle maggiori economie del pianeta ma la crescita successiva diviene sempre più difficoltosa per effetto della dinamica concorrenziale provocata da nuovi investimenti. Comunque il capitalismo non è ancora morto per cui Shaikh col passare del tempo ha fatto della teoria delle onde lunghe una sorta di oscillazione permanente poiché non è riuscito nemmeno ad intravedere il processo di trasformazione subito dal capitalismo a partire dagli anni 80 sino ad oggi. Purtroppo i marxisti quando si impegnano ad analizzare le dinamiche del capitalismo si fanno affabulare a livelli tali da divenire essi stessi apologeti del capitale trasformandosi, quando va bene, in keynesiani “radical”. Infatti Shaikh non si è accorto della mutazione del capitale e della

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sua dinamica speculativa e lo si nota chiaramente nell’articolo Il Mercato Azionario ed il settore Corporate negli USA nel quale si preoccupa esclusivamente di dimostrare che la finanza non è assolutamente separata dall’economia reale anzi ne è condizionata dai fondamentali tanto da mettere a confronto l’andamento del saggio del profitto nel settore corporate con quello dei rendimenti azionari di Wall Street ricavandone una sorta di correlazione che lascia molto a desiderare. Infatti l’errore madornale di Shaikh è quello di considerare il settore corporate come se fosse unico cadendo nella trappola piuttosto ingenua di trascurare la parte finanziaria delle stesse corporate accorpando i profitti speculativi a quelli relativi alla produzione di merci. In sostanza vengono confrontate grandezze delle quali una comprende parte dell’altra invece di mettere in relazione l’andamento dei saggi di rendimento della Borsa con quello del saggio del profitto nel settore non finanziario delle corporate, come ha suggerito Paolo Giussani in una discussione su questo articolo, e si può notare tra l’altro che la correlazione tra le due grandezze5 di Shaikh si perde dopo gli anni 80 (vedi grafico di Figura 4). Nell’articolo Una spiegazione dell'inflazione e della disoccupazione Una sfida alla teoria economica neoliberale Shaikh mette in seria discussione il luogo comune che lega l’inflazione al tasso di disoccupazione formulato sia dai neoliberisti sia dai keynesiani naturalmente secondo prospettive decisamente diverse. Vorrei aggiungere che questo luogo comune è stato definitivamente messo in discussione dai fenomeni che stiamo vivendo proprio nei nostri tempi dove assistiamo ad un continuo incremento della disoccupazione, legato a fenomeni endogeni, mentre l’inflazione reale cresce in maniera considerevole. Ne l’articolo La Crescita e la Caduta del Welfare State negli USA del 2002 di A. Shaikh e Tonak vengono sistemate ulteriormente le considerazioni presenti nel vecchio lavoro, scritto sempre con Tonak, The Welfare State and the myth of the Social Wage del 1987 periodo in cui molti studiosi vicini al marxismo empirico hanno pubblicato studi sull’argomento relativi a vari paesi come A. Freeman, Lo Stato sociale in Germania in Plusvalore», n. 12; A. Freeman, Il Welfare State in Gran Bretagna in Plusvalore n. 10; Diego Guerrero, Lavoro, capitale e redistribuzione del reddito da parte dello stato: l’evoluzione dell’«imposta netta» in Spagna (1970-1987), in Plusvalore n. 8. Tutti questi interventi avevano come obiettivo quello di contrastare l’ ideologia keynesiana dominante nel passato che aveva generato l’illusione di un capitalismo in crescita permanente all’interno del quale i lavoratori avrebbero beneficiato del sostegno statale in eterno. In realtà i lavoratori lo stato sociale se lo sono pagato, eccome. Anzi attraverso la tassazione dei salari è stato possibile addirittura finanziare le avventure belliche del secondo dopoguerra. Shaikh arriva così alla conclusione per gli Stati Uniti secondo la quale:

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Giussani suggerisce inoltre che quello che Shaikh (e molti altri) definisce rendimento di Wall Street è in

realtà una grandezza spuria composta da due quantità non sommabili: aumento del valore nominale delle azioni e dividendi incassati, cosa che rende tale nozione non del tutto sensata.

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Nel complesso è la tassazione sulla popolazione lavorativa che essenzialmente finanzia le spese statali relative alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla disoccupazione, ai sussidi statali, alle abitazioni e a tutta una serie di programmi sociali. In tutto il periodo postbellico, in media il bilancio netto tra tasse pagate direttamente dai redditi degli occupati e le spese sociali ricevute direttamente dalla stessa popolazione è di un mero 0,6% delle retribuzioni totali percepite dagli occupati. In altre parole essa è praticamente zero.

Nel testo più recente La Prima Grande Depressione del XXI° Secolo, pubblicato dalla rivista annuale indipendente Socialist Register, Shaikh tende a sottolineare la correlazione inversa tra tasso di interesse e tasso di rendimento così da favorire l’indebitamento che a sua volta ha alimentato le bolle finanziarie ed immobiliari a livello mondiale. La massa di capitale, secondo lui, riversato nelle imprese e nelle banche non è stato rivitalizzato in termini di investimento in conseguenza dell’incremento del grado di rischio. Ma la cosa che sorprende è che Shaikh in seguito afferma che per gli Stati Uniti il boom successivo agli anni 80 è da imputare al progressivo indebitamento delle famiglie che avrebbe determinato un aumento dei consumi che a loro volta avrebbero dato alimento all’incremento dei profitti di impresa. Purtroppo Shaikh non ci mostra nel suo lavoro alcun dato sulle direzioni che hanno preso i capitali presi a prestito dalle famiglie americane. Egli genericamente ci indica la via dei consumi ma dati più particolareggiati ci rivelano che l’indebitamento delle famiglie è causato principalmente dall’aumento dei costi dei servizi come l’istruzione, la sanità ecc. mentre i consumi di beni comuni sono andati declinando in maniera più pronunciata nell’ultimo decennio. Purtroppo Shaikh non riconosce che l’incremento del saggio del profitto tra il 1982 ed il 2007 è stato determinato dai profitti speculativi che vengono annoverati nella contabilità nazionale ed è testardo nel non voler ammettere l’importanza di prodotti finanziari totalmente anomali come i derivati, nemmeno in uno scambio di lettere con Nasser Saber6 che avevamo pubblicato nel vecchio sito countdown. Quindi torniamo a ripetere che Shaikh essendosi impantanato nella sua visione troppo classica sull’andamento del saggio del profitto mostra una

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Nasser Saber è stato il primo e forse l’unico ad introdurre lo studio dei derivati e della finanza speculativa

sin dal 1999 anno della pubblicazione del volume Speculative Capital volume 1. The invisible hand of global finance. (Financial Times-Prentice Hall, Londra, 1999). Saber ha poi pubblicato un secondo volume intitolato Speculative Capital & Derivatives (Financial Times-Prentice Hall, Londra, 1999) e dedicato peculiarmente alla teoria dell’impiego delle opzioni, e nella serie ne ha annunciati in gestazione altri tre. Il terzo intitolato The enigma of options, il quarto Dialectics of finance e il quinto e finale Systemic risk (vedi www.sabersystem.com). Nessuno di questi testi è stato mai tradotto e tanto meno pubblicato o diffuso in Italia.

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certa miopia nell’analizzare la dinamica speculativa degli ultimi decenni7. Secondo me ha ragione Shaikh nel definire l’attuale crash come una Grande Depressione, non mancando di fare i soliti parallelismi con quella più famosa del 1929, ma ahimè non ne scorge la causa principale che risiede in una radicale trasformazione dell’economia globale in una sorta di casinò sostenuto da un indebitamento senza precedenti. Ma Shaikh cosa ci propone? La solita ricetta per la quale lo stato dovrebbe direttamente intervenire nel garantire reddito ai lavoratori e soprattutto ai disoccupati, attraverso politiche di New Deal, anche se non lo ammette direttamente, in modo da favorire i consumi e quindi la profittabilità delle imprese incentivate ad assumerli. Se non è keynesismo questo...

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A tale proposito vorrei rimandare ad un paio di vecchi articoli di Paolo Giussani poco diffusi, e purtroppo

non tradotti in inglese, dal titolo significativo “L’Arcano Globale” del 2002 e “Il capitale Speculativo” del 2004. Inoltre vorrei segnalare anche il mio Mad Max Economy Sedizioni Milano 2008.

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Introduzione alla storia delle teorie sulla crisi Anwar Shaikh

U.S. Capitalism in crisis, U.R.P.E New York, 1978

Introduzione

Questo articolo tratta della storia delle teorie sulla crisi. A grandi linee, quando useremo il termine “crisi” ci riferiremo ad un insieme generalizzato di fallimenti nel sistema delle relazioni politiche ed economiche della riproduzione capitalistica. In particolare, le crisi che andiamo ad esaminare sono quelle verso cui il sistema è diretto per ragioni di origine interna. Come vedremo, è nella natura stessa della produzione capitalistica di essere costantemente esposta ad una serie di problemi sia di origine interna che esterna. Ma solo in certi momenti questi “shock” fanno esplodere crisi generali. Quando il sistema è sano esso si riprende rapidamente da tutti i tipi di problemi; quando è malato, praticamente ogni cosa può innescare il suo collasso. Ciò che andiamo ad esaminare sono le diverse spiegazioni di come e perché il sistema periodicamente si ammala.

I

Riproduzione e crisi

Si consideri quanto peculiare sia la società capitalistica. È una rete sociale interdipendente e complessa la cui riproduzione richiede un preciso modello di complementarietà tra diverse attività produttive; e queste attività sono condotte da centinaia di migliaia di singoli capitalisti interessati solamente alla fame di profitto. È una struttura di classe nella quale l'esistenza della classe capitalista richiede l'esistenza della classe operaia: e ancora, nessuna stirpe, nessuna tradizione, nessun principio religioso stabilisce chi deve governare e chi deve essere governato. È una comunità umana cooperativa eppure nello stesso tempo oppone incessantemente gli uni contro gli altri: il capitalista contro il lavoratore, ma anche il capitalista contro il capitalista e il lavoratore contro il lavoratore. La vera domanda su questo tipo di società non è perché non collassi, ma perché continui a funzionare. A questo riguardo è importante rendersi conto che qualsiasi spiegazione su come il capitalismo riproduca sé stesso è allo stesso tempo (in modo implicito o esplicito) una risposta alla

Questo articolo è stato tradotto a cura di Marco Riformetti. Le frasi tra parentesi quadra sono state

introdotte dal traduttore per migliorare le frasi originali in inglese.

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domanda su come e perché avvenga la sua “non-riproduzione” e vice versa: in altre parole, l'analisi della riproduzione e l'analisi della crisi sono inseparabili. Questo è vero, che tale connessione sia resa esplicita da una particolare teoria o meno. Nella storia del pensiero economico possiamo distinguere tre correnti di pensiero sulla questione della riproduzione capitalistica. La prima, e la più conosciuta, è la nozione secondo cui il capitalismo è in grado di auto-riprodursi in modo automatico secondo un meccanismo che può essere regolare ed efficiente (teoria neo-classica) oppure imprevedibile e inefficiente (Keynes), ma [il sistema] comunque si auto equilibra. Soprattutto, non ci sono limiti necessari all'esistenza storica del sistema capitalistico: che sia lasciato sé stesso (teoria neo-classica) o che sia opportunamente gestito (Keynes), esso può durare per sempre. Naturalmente, questa è sempre stata la concezione dominante nelle teorie borghesi. La seconda posizione assume l'approccio opposto: in essa si sostiene che, di per sé, il sistema capitalistico è incapace di auto-espansione. Deve crescere per sopravvivere, ma richiede fonti esterne di domanda (come ad esempio la parte non capitalistica del mondo) per continuare a crescere. Questo significa che, in definitiva, la sua riproduzione viene regolata da fattori esterni al sistema: i limiti del sistema sono esterni ad esso. Le diverse scuole sotto-consumiste, incluse quelle marxiste, traggono la loro origine da questa linea di pensiero. Per ultima, la tesi secondo cui, sebbene il capitalismo venga considerato capace di autoespansione, il processo di accumulazione approfondisce le contraddizioni interne che sottostanno ad esso, finché queste non scoppiano in una crisi: i limiti del capitalismo sono al suo interno. Questa corrente di pensiero è quasi esclusivamente marxista e include, come spiegazioni della crisi, sia “la caduta [tendenziale] del saggio di profitto” che il “profit squeeze”. Ognuna delle posizioni citate implica una corrispondente nozione di crisi, perché [questa] avviene e cosa comporta. Le esamineremo quindi una alla volta.

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II

Il capitalismo è capace di riprodursi automaticamente

In ciò che segue discuteremo, in sezioni separate, la tradizione del laissez faire della teoria ortodossa e quella keynesiana.

A. La tradizione del laissez-faire

Sfortunatamente siamo tutti estremamente influenzati dalla definizione di capitalismo come di un sistema capace di autoregolarsi, equilibrato, efficiente e armonioso. Dalle origini con la “mano invisibile” di Adam Smith fino all'inconsistente eleganza delle moderne analisi sull'equilibrio generale, questa concezione ha dominato la teoria borghese. Si assume che la contraddizione fondamentale dell'umanità nasca dall'insaziabilità dei bisogni umani rispetto alla limitata disponibilità di risorse fisiche81. L'avidità insaziabile del capitalismo viene così trasformata in un attributo della Natura Umana; la sua bramosia di depredare il pianeta è quindi solo “naturale”, il risultato inevitabile di una battaglia all'interno della Natura stessa. La Natura Umana incontra la Natura Fisica. In questo modo avidità, competizione ed egoismo sono eterni: non possiamo farci niente, non possiamo eliminarli. Su questa base, infatti, il capitalismo viene presentato come quell’insieme sociale di norme che consente l'espressione più libera dagli “intrinseci” istinti dell'uomo. Inoltre, poiché rappresenta la soluzione istituzionale ottimale ad un conflitto “naturale” eterno, il capitalismo risulta ottimale [a sua volta] in eterno. Non ha limiti se non a causa di inimmaginabili mutazioni nella Natura Umana o inimmaginabili distruzioni nella Natura Fisica. Lasciato a sé stesso il capitalismo si rigenera in modo regolare, efficiente e probabilmente per sempre. Così va la storia. Dal momento che il sistema viene concepito come in grado di auto-regolarsi, la questione del processo di regolazione tende ad essere ignorata. La tendenza dominante in questo contesto è quella di concentrarsi sugli equilibri di crescita, statici o bilanciati. Così, sembra trascurabile anche la questione dei processi di aggiustamento. Questa strategia [di trascurare i processi di regolazione e di aggiustamento] è necessaria poiché [il riconoscimento di] una nozione di aggiustamento prolungato mina il concetto di [auto] equilibrio e di conseguenza la tanto desiderata ottimalità del sistema. Nonostante questo, le crisi avvengono comunque, cosa che a volte, tende ad amareggiare gli economisti e a renderli piuttosto intrattabili. Tuttavia, la loro funzione ideologica li costringe

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Cfr. A.A. Alchian e W.R. Allen, Exchange and production theory in use (Belmont, Ca.: Wadsworth

Publishing Co., 1969), Cap. 1-4, per una realistica presentazione della concezioni neoclassiche

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(almeno di tanto in tanto) a trattare il problema delle crisi. Gli economisti che studiano l'andamento dei fenomeni empirici sono inevitabilmente sorpresi non solo dalla frequenza delle crisi, ma anche dalla loro apparente regolarità. Negli Stati Uniti per esempio, Wesley Clair Mitchell conta 15 “crisi” nei 110 anni che vanno dal 1810 al 1920, mentre Paul Samuelson elenca sette “recessioni” nei trent'anni che vanno dal 1945 al 19759. E in mezzo c'è stata la Grande Depressione durata almeno 10 anni! Ci sono fondamentalmente solo due modi per includere questa evidenza empirica all'interno del corpo principale della teoria senza danneggiarla in modo permanente. Anzitutto, si può sostenere che, in linea di principio, non si verifica mai la necessità delle crisi; il fatto che esse avvengano può allora essere attribuito a fattori esterni al normale funzionamento della riproduzione capitalistica. Senza alcuna causa interna, il sistema è periodicamente interrotto dalla crisi. In questa tradizione la causa delle crisi viene attribuita alla Natura (macchie solari, raccolti perduti, ecc...) e/o alla Natura Umana (cicli psicologici di ottimismo e disperazione, guerre, rivoluzioni, bestialità politiche)10 Ma la regolarità delle crisi prova che è difficile addossare la colpa alle macchie solari o ai bioritmi del consumatore, così come spiegazioni improvvisate come guerre e bestialità politiche non sono per niente adeguate a chiarire fenomeni apparentemente ciclici. Arriviamo così al concetto di ciclo economico che rappresenta l'altro modo fondamentale di includere i fenomeni delle crisi nelle teorie ortodosse. Secondo questo concetto, il sistema viene ancora visto come capace di auto-regolarsi; solo che adesso il processo di aggiustamento viene visto come ciclico piuttosto che lineare. Diversi fattori interni al funzionamento del sistema danno vita a dei cicli che si auto-generano, in modo tale ché l'auto-riproduzione abbia un suo ritmo interno. È importante notare che nella teoria ortodossa un ciclo non è una crisi. Per essere compatibile con la struttura teorica globale, i cicli devono essere pensati come “piccole fluttuazioni”, variazioni di secondo ordine che in prima approssimazione è giustificato trascurare. In questo modo, la natura ciclica del processo di aggiustamento non rappresenta un limite alla capacità del sistema di autoriprodursi. Il ramo dell'economia ortodossa conosciuto come teoria del ciclo economico è una combinazione di questi due approcci fondamentali. Nel sistema ci sono fluttuazioni regolari e non violente: le contrazioni e le espansioni fanno parte del normale ciclo economico. Contrazioni ed espansioni violente o prolungate nascono da fattori esterni che hanno origine dalla Natura o dalla Natura 9

Wesley Clair Mitchell, Business Cycles in Readings in business cycle theory, American Economic

Association (London: George Allen and Unwin, 1961), p. 43; Paul Samuelson, Economics (New York: McGraw-Hill Book Co., 1976), pp. 250-251. 10

Samuelson, op. cit., p. 257.

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Umana [...]. Le crisi perciò rimangono al di fuori del processo normale della riproduzione capitalistica. Nonostante il servizio che intendeva rendere, la teoria del ciclo economico ha sempre occupato un ruolo minore nell'economia del laissez-faire. La sua tesi era troppo pericolosa e la sua storia troppo contaminata da sentimenti anti-capitalistici per essere integrata tranquillamente nel corpo principale della teoria. Con l'avvento dell'economia keynesiana tutto questo cambiò. A breve vedremo perché.

B. La tradizione Keynesiana (di destra)

Abbiamo fin qui parlato della tradizione del “laissez-faire” nell'ambito della teoria borghese poiché essa è stata quasi sempre quella dominante. Ma il gigantesco crollo del capitalismo mondiale durante la Grande Depressione assestò un colpo spaventoso a tale tradizione. Il crollo stesso venne “facilmente” spiegato dai suoi fedeli in una varietà di modi simili a quelli descritti sopra così risultava inspiegabile il fatto che il sistema non sembrava mostrare alcuna tendenza a ritornare rapidamente al “normale” equilibrio di pieno impiego. Anche le stime ufficiali (per difetto) evidenziano che la disoccupazione negli Stati Uniti si aggirava intorno alla cifra di circa 10 milioni di persone nel 1939 - ben 10 anni dopo il “Grande Crollo”. Via via che la Grande Depressione si trascinava e il malcontento sociale cresceva, la teoria del laissez-faire si screditava e la teoria keynesiana prendeva rapidamente il suo posto. Keynes attaccò la nozione ortodossa secondo cui “l'offerta determina la propria domanda” poiché questa nozione portava alla conclusione che il capitalismo tendeva, più o meno spontaneamente, ad utilizzare in modo integrale i mezzi di produzione e la forza-lavoro disponibili. Invece, nella sua analisi, era il livello della spesa per investimenti pianificato dai capitalisti ad essere il fattore cruciale nel determinare i livelli produttivi e occupazionali. Ma i piani di investimento dipendono significativamente dalle previsioni sui profitti, dalle “aspettative” e dagli “animal spirits” dei capitalisti. Da questo seguono due conclusioni principali. Primo, poiché le “aspettative” sono notoriamente imprevedibili, la riproduzione capitalistica è [a sua volta] necessariamente

imprevedibile. Secondo, ed anche più importante, non esiste alcun

meccanismo automatico nel capitalismo che possa determinare una pianificazione da parte dei capitalisti capace di generare gli investimenti necessari ad assicurare il pieno impiego. Si noti che si presume ancora che il sistema si auto-equilibri automaticamente,: solo che l'equilibrio non evita disoccupazione persistente o inflazione. La cosiddetta Rivoluzione Keynesiana era comunque ambigua. Gran parte della struttura “profonda” dell'analisi di Keynes era la stessa di quella ortodossa che attaccava11: la divisione

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Robert Lekachman, A history of economic ideas (McGraw-Hill Book Company, 1976), p. 343.

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della società in produttori e consumatori (e non in classi), la stessa fondamentale visione della natura umana, l'importanza cruciale attribuita alle preferenze e alle “propensioni” psicologiche, il ruolo della domanda e dell'offerta e, soprattutto, la fiducia in una analisi basata sull'equilibrio. Non c'è da meravigliarsi dunque che una parte dell'economia ortodossa sia stata capace di assorbire Keynes all'interno di una nuova versione della teoria borghese. Riconosciuto infatti che non esisteva alcun meccanismo automatico per rendere la riproduzione capitalistica regolare, efficiente e senza crisi , i neoclassici keynesiani (keynesiani bastardi, come li chiamava Joan Robinson) si rivolgevano allo Stato come al meccanismo che avrebbe riportato a nuova vita la società tratteggiata nelle favole del laissez-faire. Se lo Stato avesse svolto bene il proprio compito, avrebbe manipolato la domanda aggregata in modo tale da mantenere [una condizione di] quasi pieno impiego con poca o nessuna inflazione; con questa modifica, “il resto delle tesi dell'(ortodossia) poteva essere ripristinato”12 Dal momento che le fluttuazioni economiche sono una parte accettabile della teoria keynesiana, la teoria del ciclo economico diventa un ramo dell'economia molto meno pericoloso. Infatti, poiché lo Stato in linea di principio può eliminare le fluttuazioni, diventa imperativo studiare nel dettaglio i cicli e le crisi al fine di sapere come neutralizzarle. Di conseguenza, dalla cosiddetta Rivoluzione Keynesiana è emersa un'enorme ricchezza di informazioni sulle crisi . Non c'è da meravigliarsi che i keynesiani tendano a considerare l'erratica e violenta storia dell'accumulazione capitalistica come una serie di errori di “politica economica”6. e non fanno eccezione le loro opinioni sulla crisi in corso13. Keynes generò anche un altro ramo di seguaci, i cosiddetti “keynesiani di sinistra”, tra i quali Joan Robinson costituisce la figura predominante. I suoi punti di vista, insieme a quelli di Michael Kalecki e Joseph Steindl, saranno discussi nella sezione successiva.

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Joan Robinson, Economic heresies (New York: Basic Books, Inc., 1971). Eresie dell'economia : un

riesame della teoria per il nuovo dibattito economico Milano : ETAS Kompass, 1972. 13

Lekachman, op. cit., p. 347-348. Questo (approccio) è stato molto vero per Keynes e continua a riflettersi

nei suoi seguaci..

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III

Il capitalismo è incapace di auto-espansione

Sin dall'inizio, la visione del laissez-faire di un capitalismo armonioso e privo di crisi è stata tormentata da una altrettanto vecchia e persistente visione di un capitalismo strutturalmente incapace di accumulazione. [In questa visione] si assume che le forze interne del sistema possano al più riprodurlo in modo stazionario: ma, se stagnante, il capitalismo degenera rapidamente. La competizione mette gli uni contro gli altri, e non c'è crescita che qualcuno possa realizzare se non a discapito di qualcun altro. Capitale contro capitale, lavoratore contro lavoratore, classe contro classe. O l'antagonismo diventa troppo intenso e il sistema esplode oppure degenera in una società (come la Cina di una volta) nella quale una ristretta élite di potere grava su una condizione di povertà di massa e di miseria umana. In entrambe i casi, un capitalismo che non accumula non dura a lungo. È interessante osservare come questo argomento a confutazione si basi sullo stesso assunto originario della teoria che attacca. La teoria ortodossa ha sempre sostenuto infatti che lo scopo finale di tutta la produzione capitalistica è quello di produrre per il consumo: ciò che non viene consumato viene ora reinvestito nella produzione allo scopo di garantire un consumo futuro. In tutti i casi è il consumo che detta legge. Nell’oscurità della teoria sotto-consumista, questa stessa nozione dovrebbe diventare un'arma per attaccare il capitalismo. Attraverso la lunga e complessa storia di questo ramo di teoria della crisi, ricorre di continuo il seguente argomento: sì, il regolatore finale di tutta la produzione è nei fatti il consumo, attuale o futuro; d'altra parte, la produzione capitalistica non risponde ai bisogni, ma al potere di acquisto; non alla domanda, ma alla domanda “effettiva” (cioè a dire, la domanda solvibile). E tale è la natura contraddittoria della produzione capitalistica che, ove lasciata a sé stessa, è incapace di generare sufficiente domanda effettiva per supportare l'accumulazione. I meccanismi intrinseci del sistema, in altre parole, tendono a condurlo verso la stagnazione: esso necessita pertanto di fonti esterne di domanda effettiva - esterne ai suoi meccanismi fondamentali - al fine di continuare a crescere.

A. Il concetto di “demand gap”

Negli ultimi 150 anni, vi sono stati molti tentativi di definire l'esatta natura del problema del sottoconsumo. Nonostante la varietà delle formulazioni è comunque abbastanza sorprendente quanto sia costante la nozione secondo cui è la domanda per beni di consumo il regolatore ultimo dell'intera produzione. Supponiamo di dividere tutta la produzione sociale in due rami principali o “Sezioni”.

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La Sezione I produce mezzi di produzione (materie prime, carburante, impianti, attrezzature, ecc.) mentre la Sezione II produce beni di consumo e servizi (cibo, abbigliamento, divertimento ecc.). Il principio fondamentale della teoria sotto-consumistica è, quindi, che la domanda di beni di consumo e servizi determina non solo il livello di produzione del Settore II (beni di consumo), ma anche quello del Settore I (mezzi di produzione). La produzione nell'industria dei mezzi di produzione è alla fine regolata dalle richieste dell'industria dei beni di consumo: la domanda di mezzi di produzione è perciò “derivata” dalla domanda per beni di consumo. Si osservi che questo non afferma semplicemente che la produzione della Sezione II influenza la produzione della Sezione I e viceversa. Dice qualcosa di molto più forte e cioè che la causalità è unidirezionale, che la Sezione II dirige e la Sezione I lo segue. Parallelamente a questa nozione troviamo quella della circolazione come di un processo in base al quale il prodotto sociale viene ripartito tra i lavoratori e i capitalisti. Così, del prodotto sociale totale, una parte è concepita come sostituzione delle risorse impiegate nel produrlo e la parte rimanente, il prodotto netto, è concepita come disponibile per la “redistribuzione” tra lavoratori e capitalisti. Un'analoga dicotomia viene fatta dal lato del reddito. [Del ricavato] delle vendite di tutte le aziende, si dice che una quota di denaro venga accantonata per sostenere le spese in mezzi di produzione sostenute durante la produzione. Il resto è il margine operativo netto delle aziende che viene diviso tra salari e profitti. Questo reddito netto, che gli economisti ortodossi chiamano reddito nazionale netto, sta all'origine della domanda effettiva. La produzione netta comporta pertanto due lati. Da un lato abbiamo beni e servizi e dall'altro lato abbiamo il reddito netto in denaro che è uguale alla somma di salari e profitti: offerta da una parte e domanda effettiva dall'altra. Possiamo adesso esporre il problema fondamentale della teoria sotto-consumista. I lavoratori di solito spendono tutti i loro salari. Essi perciò “ri-acquistano” una porzione del prodotto netto, al suo prezzo normale, ma poiché essi non ricevono mai l'intero reddito netto, non possono mai riacquistare l'intero prodotto netto. Il consumo dei lavoratori lascia sempre un “demand gap”; inoltre, più bassa è la quota di salario, più grande è il “demand gap”. A questo punto dell'analisi il surplus del prodotto è ancora da vendere, e il reddito del capitalista - il profitto - deve ancora essere speso. Se surplus e profitto potessero accoppiarsi, tutto il prodotto sarebbe venduto e il “demand gap” completamente colmato. Ma a quali condizioni questo può accadere? I primi sotto-consumisti tendevano a concepire il prodotto netto come composto solamente da beni di consumo. Data la loro premessa fondamentale che la produzione della Sezione I è regolata dalle richieste della Sezione II, essi finivano inevitabilmente per ritenere che in qualsiasi momento la produzione della Sezioone I fosse appena sufficiente a rimpiazzare le risorse usate complessivamente dal sistema. Ciò significa che, sebbene il prodotto sociale totale sia costituito da

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mezzi di produzione (Sezione I) e da beni di consumo (Sezione II), il prodotto netto (il totale meno ciò che serve per rigenerare il ciclo) è costituito solamente dai beni di consumo* Secondo questo punto di vista, dopo che i lavoratori hanno speso i propri salari per “riacquistare la propria parte” del prodotto netto, restano, da un lato, un surplus di prodotto sotto forma di beni di consumo e, dall'altro, profitti non spesi che formano il “reddito” del capitalista. Ne consegue perciò che il “demand gap” sarà colmato solo se i capitalisti spenderanno tutti i loro profitti in consumi personali. Ma allora non ci possono essere investimenti [ulteriori], dunque [non ci può essere] alcuna crescita e alcuna accumulazione generata internamente. Ciò non significa che i capitalisti non cercheranno di accumulare, ma che, in effetti, i tentativi di accumulazione della classe nel suo insieme saranno contro-producenti. Dopotutto, nella concorrenza accanita tra capitalisti, le dimensioni del patrimonio sono un indice di forza importante. Un modo importante per aumentare dimensione e potenza è [quello] di risparmiare, investire e perciò crescere. Pertanto i capitalisti continueranno a cercare di accumulare. Si immagini perciò di partire dalla situazione iniziale descritta sopra, nella quale la Sezione I produca il minimo indispensabile di mezzi di produzione per mantenere la capacità produttiva del sistema e la Sezione II produca un quantità di beni di consumo integralmente “ricomprati” dai lavoratori e dai capitalisti che consumano tutto il proprio reddito. Supponiamo ora che la prossima volta i capitalisti spendano solo parte dei loro profitti in beni di consumo; il resto lo investono comprando mezzi di produzione, assumendo [altri] lavoratori e creando aziende nella Sezione I e/o nella Sezione II. A questo punto accade una cosa curiosa. Poniamo che il profitto totale ammonti a 200.000$ che i capitalisti in un primo momento spendono interamente in consumi personali. Ora supponiamo che [i capitalisti] riducano il proprio consumo [personale] a 150.000$ e che investano i rimanenti 50.000$ usandone 30.000$ per comprare mezzi di produzione (dalle scorte della Sezione I) e 20.000$ per assumere lavoratori (dall'esercito di riserva dei disoccupati). Il calo netto nella domanda di beni di consumo è di 30.000$, dal momento che la diminuzione nei consumi dei capitalisti è parzialmente compensata dal consumo extra [20.000$] dei nuovi lavoratori assunti. Tuttavia, la domanda per beni di consumo diminuirà, cosicché le vendite nella Sezione II cadranno facendo cadere la domanda di mezzi di produzione riducendo così le vendite [anche] nella Sezione I. Tuttavia, proprio l'azione che porta a tutto questo ha simultaneamente ampliato la capacità produttiva in generale. Il tentativo di espandere la capacità ha perciò reso eccedente, non solo la

Il prodotto netto è quella parte di prodotto totale molto al di sopra di quella necessaria per mantenere il

sistema produttivo. Se sottraiamo da esso il consumo dei lavoratori, abbiamo quella parte del prodotto totale ben oltre i requisiti di mantenimento del sistema produttivo e dei lavoratori che lo fanno funzionare: è il prodotto in surplus.

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capacità extra aggiunta, ma anche una parte della capacità che esisteva prima. Inevitabilmente questo porta a ridurre i costi. L'accumulazione generata internamente nega sé stessa. Dal momento che l'espansione avviene gradualmente e richiede tempo per realizzarsi, si può immaginare che ci voglia un po' di tempo affinché la carenza di “domanda effettiva” faccia sentire i suoi effetti e ancora altro tempo affinché la contrazione che ne consegue si realizzi. La conseguenza della tentata accumulazione sarebbe perciò un'espansione seguita da una contrazione con una accumulazione netta nel ciclo pari a zero. Questo, secondo la logica della teoria del sottoconsumo, sarebbe il comportamento atteso da una economia capitalistica lasciata a sé stessa. I cicli di espansione e contrazione non sono estranei alla storia del capitalismo. Allo stesso tempo, [proprio] lo studio della storia rende chiarissimo che questi cicli sono accompagnati da enormi crescite secolari nelle economie capitalistiche reali - un fatto che si pone in netto contrasto con un capitalismo intrinsecamente stagnante come quello sottinteso da una logica sotto-consumista. Perciò, le teorie sotto-consumiste hanno dovuto inevitabilmente fare ricorso a fattori “esogeni” (esterni) per spiegare questo stridente contrasto tra storia e teoria. Nelle prossime due sezioni che trattano la storia delle teorie sotto-consumiste pre e post Marx, vedremo quale importante posizione occupino questi elementi esterni.

B. Teorie sotto-consumistiche conservatrici e radicali

Nella parte precedente ho tentato di presentare sia la logica essenziale che sta dietro le argomentazioni sotto-consumistie, sia le implicazioni che ne derivano e nel fare ciò ho usato strumenti concettuali moderni come quello delle “due sezioni” di Marx e quello dell'analisi dell'offerta e della domanda aggregate di Kalecki. Ma questi [ultimi] concetti sono relativamente nuovi ed è abbastanza naturale che l'argomentazione non appaia precisamente in questa forma nella storia delle teorie sotto-consumiste. In effetti, ciò che colpisce di questa storia è che mentre la nozione di “demand gap” appare ovunque, l'implicazione [ad essa] corrispondente circa l'impossibilità di un'accumulazione capitalistica auto-sostenuta viene colta raramente. Questa implicazione viene costantemente evitata in particolar modo tra le teorie marxiste. E' una ben difficile condizione quella di vivere e scrivere nel XIX secolo, in un periodo di crescita capitalistica quasi esplosiva e teorizzare che la crescita non è intrinseca alla produzione capitalistica. Convinti della validità della loro posizione fondamentale, sebbene ignari su - o poco propensi ad accettare - le sue implicazioni, i primi sotto-consumisti adottarono quasi universalmente la posizione secondo cui troppa accumulazione avrebbe causato la crisi. Partivano dal presupposto che l'economia cresceva ad un certo tasso “sostenibile” e seguendo la logica che ho delineato nella parte precedente, essi quindi presumevano che i capitalisti avrebbero ridotto una parte del

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consumo e investito l'ammontare così risparmiato in un supplemento di mezzi di produzione e lavoratori. Così, mentre questo investimento avrebbe esteso la capacità produttiva, la riduzione netta della domanda di beni di consumo e il suo effetto successivo sulla domanda di mezzi di produzione si sarebbero risolti nel sottoutilizzo anche della capacità [produttiva] che esisteva in precedenza. “Troppo risparmio” avrebbe portato ad un crollo. Ma ciò che in realtà implicava la loro logica era che qualsiasi risparmio avrebbe portato a un crollo, un fatto che venne presto fatto notare dai loro avversari. Nel suo eccezionale studio intitolato Le teorie del sottoconsumo, Michael Bleaney riassume così il dilemma dei primi sotto-consumisti:

“la posizione generale di questi autori indicava che esiste un limite oltre il quale il saggio di accumulazione diventa pericolosamente alto, minacciando di accelerare il crollo. Ma la logica dell'argomentazione da essi sviluppata è che questo limite è, in effetti, un saggio di accumulazione pari a zero, come viene fatto notare in modo efficace da Chalmer. Così essi cadono in una trappola dalla quale devono uscirne abbandonando parte dei loro risultati oppure dichiarando apertamente l'assurdità delle loro conclusioni14.

Il primo importante economista che approdò a questo dilemma fu Thomas Malthus (anni '20 dell'800). Fedele alla tradizione del sottoconsumo, Egli sosteneva che è la domanda dei beni di consumo che regola la produzione cosicché solo un certo tasso di crescita è “sostenibile”. Ovviamente, data la logica della sua argomentazione e l'implicita conclusione in essa contenuta, Malthus non fu mai in grado di dire quale fosse questo tasso di crescita “sostenibile”. Tuttavia egli enfatizzò [il fatto] che risparmiare (troppo) fa sì che il consumo dei capitalisti non possa colmare il “demand gap” lasciato dal consumo dei lavoratori, cosicché le crisi di sovrapproduzione (sottoconsumo) diventano chiaramente possibili nel capitalismo. Nelle mani di Malthus questa tendenza al sotto-consumo diventò un'apologia reazionaria a favore dei proprietari terrieri feudali i cui alti tenori di vita e i cospicui consumi venivano presentati come un gradito contrappeso alla tendenza dei capitalisti all'eccessivo risparmio. (Malthus è anche celebre per il suo attacco alla classe dei lavoratori attraverso la sua cosiddetta teoria della popolazione. Allora, come adesso, queste brutali “leggi naturali” non furono mai destinate a rappresentare il comportamento delle classi dominanti “civilizzate”). 

I sotto-consumisti non concepiscono alcuna discrepanza keynesiana tra il risparmio e l'investimento

pianificato. I capitalisti pianificano entrambe, e ciò che risparmiano viene investito, non accumulato. L'accumulazione non gioca un ruolo principale nelle teorie del sottoconsumo, come sottolinea Bleaney. (op. cit., pp 50-51). 14

Michael Bleaney, Underconsumption Theories: A History and Critical Analysis (New York: International

Publishers, 1976), p. 63.

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Simonde de Sismondi, contemporaneo di Malthus, vide anche lui nel capitalismo una tendenza al sotto-consumo. Ancora una volta troviamo l'assunzione che il livello di consumo regola la produzione totale cosicché la produzione può crescere solo tanto quanto cresce il consumo. Ma il capitalismo restringe il consumo delle masse tenendole in povertà; i lavoratori sono troppo poveri per ricomprare il prodotto del proprio lavoro (qui [appare] di nuovo l’onnipresente “demand gap”). Inoltre, via via che il capitalismo si sviluppa, la distribuzione del reddito diventa sempre più diseguale, cosicché il consumo delle masse cresce più lentamente della ricchezza totale (si allarga il “gap”). In Sismondi perciò non solo esiste una tendenza sotto-consumista, ma essa peggiore sempre più con la progressiva maturità del capitalismo. Con il tempo le crisi si aggravano e la competizione tra le nazioni per i mercati esteri diventa sempre più violenta. A differenza del reazionario Parson Malthus, Sismondi era un radicale profondamente impressionato dalle sofferenze dei contadini e dei lavoratori sotto il capitalismo. In questo periodo egli fu a capo di quello che Marx chiamò il socialismo piccolo-borghese impegnato a lottare contro la crudeltà e la distruzione provocata dal capitalismo cercando di riformarlo, così da migliorarne le condizioni [sociali]. Sismondi stesso sosteneva cambiamenti radicali nella distribuzione del reddito a favore dei contadini e dei lavoratori, e guardava allo Stato per realizzare queste ed altre riforme economiche15 Tanto la scuola sotto-consumista malthusiana quanto quella sismondiana si riferiscono ai mercati esteri come fonti per la domanda di consumi. In Malthus questo è solo un riferimento di passaggio, in Sismondi, invece, i mercati stranieri sono uno sbocco importante per la sovrapproduzione interna e considera la crescente concorrenza internazionale come derivante dall'aggravarsi del problema del sotto-consumo. Ovviamente, affinché il commercio internazionale sia una soluzione a questo problema, una certa nazione deve esportare verso altre nazioni più di quanto importi da esse. Questo è evidentemente impossibile per il mondo nel suo insieme. Se tutto il commercio è confinato solo alla sfera capitalistica, allora il commercio estero è interno al sistema capitalistico e non offre via d'uscita al problema del sotto-consumo. Di conseguenza Sismondi non concepisce il commercio estero come una soluzione generale del problema. Tra il periodo di Sismondi (metà dell'800) e il periodo di J.A. Hobson (inizio del '900) si verifica la grande svolta nella storia del capitalismo che segna l'inizio dell'era dell'imperialismo. Nel periodo che va dagli anni '70 al 1914, ad esempio, gli investimenti europei all'estero crebbero di oltre il 700%, molti dei quali verso il cosiddetto Terzo Mondo. Non è quindi affatto sorprendente che dal primo '900 il commercio estero, attraverso l'imperialismo, iniziasse a sembrare una soluzione al problema del sotto-consumo. Dopotutto, se si concepisce il mondo in termini di nazioni capitaliste imperialiste e Terzo Mondo sottosviluppato, diventa possibile anche immaginare che questo Terzo Mondo possa assorbire i risparmi in eccesso dei paesi capitalisti sviluppati - sia direttamente nella

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Michael Barrat-Brown, Economics of Imperialism (London: Penguin Books, 1974), p. 170

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forma di investimenti esteri, sia indirettamente sotto forma di esportazioni di merci. Sia in Hobson che in Rosa Luxemburg (di cui tratterò nella prossima sezione) il legame tra sotto-consumo e imperialismo diventa molto importante. Hobson inizia nel modo ormai familiare di tutti i sotto-consumisti identificando esplicitamente l'oggetto ultimo di tutta la produzione, anche sotto il capitalismo, come produzione di beni di consumo. Inoltre, fu il primo a trattare in modo esplicito la Sezione I (l'industria dei mezzi di produzione) come strettamente subordinato alla Sezione II (l'industria dei beni di consumo) cosicché l'intero processo di produzione possa essere trattato come sistema integrato verticalmente che inizia con le materie prime e procede attraverso diversi stadi fino al prodotto finale che consiste solo in beni di consumo. Per ultimo, anche Hobson inizia ipotizzando un tasso di crescita “sostenibile” (che ovviamente non può definire) e va quindi avanti a mostrare che (troppo) risparmio porta a un crollo. Le crisi nascono dal (troppo) risparmio16 Hobson introduce anche il concetto di “surplus” che gioca un ruolo importante nella sua successiva analisi. In termini generali, il “surplus” viene definito da Hobson come l'eccedenza di valore dell'output, in termini monetari, rispetto ai costi strettamente necessari per produrre quell'output17. Questo concetto comporta la distinzione tra costi di produzione necessari e costi di produzione non necessari, così come tra costi di produzione e altre spese (costi di vendita, tasse sul fatturato, ecc...). E' un concetto più ampio rispetto a quello che ho definito in precedenza come profitti (ricavi meno costi), ma è necessario puntualizzare qui la differenza. In ogni caso, la nozione di surplus di Hobson include “costi” non necessari come i profitti di monopolio e la rendita terriera (poiché questi non derivano da nessun tipo di produzione). Via via che il capitalismo si sviluppa, questi “redditi improduttivi” aumentano e poiché i loro beneficiari tendono a consumare poco, finisce per realizzarsi un risparmio eccessivo. C'è quindi un peggioramento del problema del sotto-consumo18 Secondo Hobson, il commercio estero fornisce uno sbocco per il risparmio in eccesso e un mercato per la produzione in eccesso, anche nel quadro di un capitalismo competitivo. Comunque, mentre l'industria si concentra e si diffonde il monopolio, il problema del sottoconsumo si sposta ad un livello qualitativamente più elevato, infatti da un lato i profitti monopolistici accrescono il surplus portando ad un risparmio maggiore; dall'altro, poiché i monopoli ottengono questi extra profitti grazie all'aumento dei prezzi tendono a restringere il mercato. Gli stessi fattori che espandono il risparmio riducono così i suoi sbocchi e l'imperialismo si presenta come soluzione: l'imperialismo è la fase suprema del sottoconsumo. Ma per Hobson le cose non devono andare necessariamente in questo modo. La radice delle crisi

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Bleaney, op. cit., pp. 153-168.

17

Ibid., p. 180

18

Ibid., p. 171.

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e dell'imperialismo sta nella disuguaglianza di reddito e negli eccessivi redditi dei monopolisti e dei rentiers, mentre la soluzione sta in riforme appropriate:

“facciamo in modo che ogni passaggio politico-economico dirotti il reddito in eccesso di questi proprietari per farlo fluire, o verso i lavoratori sotto forma di salari più alti, o verso la comunità sotto forma di riduzione delle tasse, cosicché [questo reddito] venga speso piuttosto che risparmiato servendo, in entrambi i modi, a sostenere la crescita del consumo – e non ci sarà più bisogno di combattere per mercati esteri o aree di investimento straniere”19

Un numero sorprendente di tesi avanzate da Hobson all'inizio del '900 riappare in analisi marxiste successive. Nel 1916 Lenin enfatizza il legame tra monopolio e imperialismo, sebbene rigetti l'analisi sotto-consumista di Hobson. D’altro canto, negli anni '20, la rivoluzionaria tedesca Rosa Luxemburg sostenne che le radici dell'imperialismo sono da ricercarsi, in effetti, nel problema del sottoconsumo, sebbene ella rifiutava, ovviamente, le conclusioni che Hobson trae da questo fatto. Più recentemente, negli Stati Uniti, gli autorevoli lavori dei marxisti Paul Sweezy e Paul Baran hanno rilanciato nozioni hobsoniane come quella dell'integrazione verticale della produzione globale, il concetto di “surplus”, la nozione che il monopolio tende ad innalzare il surplus e soprattutto l'argomentazione secondo cui l'assorbimento del surplus rappresenta un problema intrinseco alla produzione capitalista che diventa tanto più acuto con il prevalere del monopolio. Analizzeremo queste teorie più avanti.

C. Teorie marxiste del sottoconsumo e sproporzionalità

Nelle prime teorie sotto-consumiste, il problema è posto invariabilmente in termini di tasso di accumulazione troppo elevato. Secondo la logica di queste teorie qualsiasi accumulazione tende a negare sé stessa, così i sotto-consumisti sono spinti inevitabilmente alla conclusione che il capitalismo tende verso la stagnazione; un'auto espansione del capitalismo è impossibile. Marx distrusse completamente questo argomento, ma per capire perché, dobbiamo vedere alcune innovazioni concettuali che egli ha formulato. Abbiamo già familiarità con la prima grande innovazione di Marx che è stata quella di rappresentare la produzione totale in due branche principali o Sezioni, mezzi di produzione (I) e beni di consumo (II). Ciò significa che il prodotto totale, in qualsiasi momento, è composto da questi due tipi di merci. La seconda svolta operata da Marx è stata quella di chiarire la natura della domanda effettiva. I

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Hobson citato in Bleaney, op. cit., p. 166.

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sotto-consumisti, si ricorderà, identificavano fondamentalmente tre tipi di domanda effettiva: domanda di sostituzione per rimpiazzare i mezzi di produzione consumati, domanda per consumi dei lavoratori per comprare la loro “quota” di ricchezza prodotta e domanda per investimenti e per consumi dei capitalisti per colmare il “demand gap” nel prodotto netto. Il primo punto di partenza di Marx implica una questione temporale. Supponiamo che il processo di produzione in ogni Sezione necessiti di un dato periodo di tempo, diciamo un anno. Bene, i mezzi di produzione consumati nell'intero processo non possono essere acquisiti in questo anno di produzione, perché il primo prodotto finito che deriva dalla produzione iniziata quest'anno non uscirà dalla catena di montaggio fino alla fine dell'anno. In modo analogo, i lavoratori impiegati durante questo anno non possono “ricomprare” i beni di consumo risultanti dalle loro presenti attività perché questi beni non saranno pronti fino alla fine dell'anno; neppure i capitalisti possono consumare ciò che non è ancora disponibile. Ritorniamo all'inizio dell'anno. Per mantenere l'esempio il più semplice possibile, ipotizziamo che tutti i mezzi utilizzati nell'anno siano comprati all'inizio (è solamente un artificio espositivo). I capitalisti decidono il livello di produzione che vorrebbero [realizzare] nell'anno che comincia. Essi acquistano perciò una certa quantità di mezzi di produzione e assumono un certo numero di lavoratori; i lavoratori, a loro volta, usano i salari per comprare beni di consumo. Allo stesso tempo, anche i capitalisti devono comprare una certa quantità di beni per il proprio consumo personale relativamente a quell'anno. Si noti che la domanda effettiva ha origine interamente dalla classe capitalista: i salari dei lavoratori fanno parte delle spese di investimento lorde annuali dei capitalisti. Non è quindi lecito trattare il consumo e l'investimento come se fossero funzionalmente indipendenti poiché la maggior parte dei consumi deriva dai salari, che sono essi stessi un aspetto necessario delle spese di investimento. All'inizio dell'anno, perciò, è la classe capitalista che determina la domanda effettiva attraverso i propri consumi e investimenti. Ma chi vende i beni? La classe capitalista ovviamente! L'inizio di quest'anno è anche la fine dell'anno precedente; è perciò anche il momento in cui il prodotto finito del processo produttivo dell'anno precedente diventa disponibile. La produzione dell'anno precedente fornisce alla classe capitalista l'offerta di merci disponibile per la vendita durante quest'anno; le spese di quest'anno della classe capitalista in investimenti e consumi personali determinano la domanda effettiva per quell'offerta di merci. Se ciò sembra bizzarro, si ricordi che bizzarra è la riproduzione capitalistica. Le decisioni su produzione e consumi vengono prese da centinaia di migliaia di capitalisti individuali senza alcun tipo di considerazione per la riproduzione complessiva del sistema. Benché sia la classe capitalista a determinare entrambi gli aspetti della relazione offerta-domanda, i capitalisti non si comportano come classe, ma piuttosto come individui. Il difficile è spiegare perché riescono sempre a “venirne fuori bene”. Ma ritorneremo su questo punto a breve. Non è difficile proseguire da qui per mostrare che una crescita stabile è facilmente realizzabile, con

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la domanda effettiva che ogni anno è appena sufficiente a comprare l'offerta disponibile a prezzi “normali”20 Se gli investimenti crescono del 10%, allora la produzione cresce del 10%. Se perciò anche i consumi dei capitalisti crescono del 10%, la produzione annuale troverà ad aspettarla la domanda effettiva per comprarla. Dopo Marx, la possibilità della “crescita equilibrata” è diventata un luogo comune. Crescita equilibrata significa che capacità produttiva e domanda effettiva possono crescere approssimativamente alla stessa velocità. Di per sé stesso, tuttavia, questo non implica necessariamente che il capitalismo realizzi qualcosa di simile anche solo lontanamente,comunque il fatto che la riproduzione allargata sia possibile, rappresenta una chiara minaccia alle teorie sottoconsumiste ed è alla luce di questa sfida che incontriamo le versioni marxiste della teoria del sottoconsumo. È utile fare ora un piccolo approfondimento sugli scritti di Marx. Durante il periodo 1858-1865, Marx scrisse e riscrisse il grosso dei manoscritti che formano la sua grande opera in tre volumi, il Capitale. Il volume I venne pubblicato nel 1867, ma il volume II - nel quale appare l'analisi del processo della riproduzione capitalistica - non raggiunse mai la stesura finale, anche se venne rivisitato agli inizi degli anni '70 e di nuovo alla fine dello stesso decennio. Marx non visse abbastanza per completare il suo lavoro e gli ultimi due volumi vennero compilati e pubblicati da Engels. Durante la vita di Marx, perciò, le parti pubblicate del suo lavoro non trattavano della riproduzione e della crescita21 Nel I Volume Marx dimostra che può realizzarsi un surplus solo se i lavoratori nel loro insieme lavorano più ore, in un dato giorno, di quanto necessario per produrre i beni [di consumo] che essi stessi consumano e i mezzi [di produzione] che servono per sostituire quelli usati nel processo di produzione. È questo tempo di pluslavoro, che va ben oltre quello necessario a mantenere i lavoratori e il sistema produttivo, a fornire il surplus di cui si appropria la classe capitalista. Nella Russia zarista, questo provocò una reazione. Il capitalismo aveva iniziato a distruggere le [vecchie] forme sociali ed in particolare la vecchia comunità contadina, il mir. Negli anni '50, i populisti sostenevano che il mir poteva servire come base per una transizione diretta al socialismo, senza dover passare per gli orrori dell'industrializzazione capitalistica. Dal 1880, il primo volume del Capitale aveva fornito ai populisti marxisti non solo una critica devastante del capitalismo in generale, ma anche - con una certa estrapolazione - un'importante arma teorica contro il 20

Per una trattazione su cosa sono i prezzi “normali” e su come essi sono determinati in Marx, cfr. il mio

articolo “Marx's Theory of Value and the Transformation Problem” in The Subtle Economy of Capitalism, ed. Jesse Schwartz, (Santa Monica, Cal.: Goodyear Publishing Co., Inc., 1977), pp. 106-137. 21

Karl Marx, Grundrisse, (London: Penguin Books, 1973) traduzione e prefazione di Martin Nicolaus, pp. 56-

58.

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capitalismo in Russia22 I marxisti populisti vedevano l'enfasi attribuita da Marx al tempo di pluslavoro come la prova che in Russia fosse impossibile il capitalismo e secondo il classico stile sotto-consumista, sostenevano che il mercato interno non sarebbe mai stato sufficiente per consentire la crescita visto che i lavoratori producevano più di quello che consumavano. Le nazioni capitaliste occidentali sviluppate avevano superato questo dilemma trovando mercati stranieri; ma la Russia, sostenevano, era troppo sottosviluppata per competere in modo efficace sul mercato mondiale, per cui il capitalismo non era realizzabile in Russia. La via del socialismo era l’organizzazione dei contadini. Il Volume II del Capitale venne pubblicato nel 1885, due anni dopo la morte di Marx. Nonostante questo, quindici anni dopo, i marxisti populisti insistevano ancora che “è impossibile per un paese capitalista esistere senza mercati esteri”23. Ma a questo punto si era già sviluppata una controargomentazione all'interno del marxismo russo, con nomi autorevoli dalla sua parte: Bulgakov, Tugan-Baranowsky, Struve, Lenin. Questo ultimo gruppo di marxisti rivolse due critiche fondamentali all'argomentazione del sottoconsumismo populista. In primo luogo, essi notarono che era un fatto la rapida crescita in tutta la Russia dei capitalisti e dei rapporti mercantili. Il primo libro di Lenin, Lo sviluppo del Capitalismo in Russia (1899) aveva lo scopo di sostenere proprio questo punto. In secondo luogo, Lenin e gli altri attaccavano la base logica degli argomenti dei populisti affermando che l'errore di fondo stava nell'immaginare che anche nel capitalismo il consumo fosse l'obiettivo della produzione. Ma il capitalismo produce per il profitto, non per il consumo, e l'analisi di Marx della riproduzione allargata dimostrava senza alcun dubbio che questa produzione guidata dal profitto era interamente capace di generare il suo stesso mercato interno. Il sottoconsumo non era un problema intrinseco ed il capitalismo era già lì, vitale e in espansione, per cui un compito urgente era quello di organizzare il proletariato urbano. Quel dibattito venne decisamente vinto da Struve, Bulgakov, Tugan-Baranowsky e Lenin, ma la loro vittoria stabilì solo la base per un'altra, ancora più importante, serie di questioni: se il capitalismo è capace di auto generare la propria crescita, che cosa gli impedisce di crescere all'infinito? In altre parole, quali sono i suoi limiti? Inoltre, come possiamo comprendere le devastanti crisi alle quali esso è periodicamente soggetto? Tugan-Baranowsky sosteneva la posizione estrema che il capitalismo era totalmente indipendente dal consumo, purché le Sezionii I e II crescessero nelle giuste proporzioni l'una rispetto all'altra, ma sosteneva che, considerata l'anarchia della produzione capitalistica, questa esatta proporzionalità era un terno al lotto. La natura “per tentativi e aggiustamenti” della riproduzione

22

Russell Jacoby, The politics of the crisis theory: towards the critique of automatic marxism II, Telos, 23,

Spring 1975, pp. 5-11. 23

Ibid., p. 10. la citazione è da Danielson.

27


capitalistica avrebbe perciò periodicamente portato a squilibri di tali proporzioni che la riproduzione si sarebbe bloccata facendo esplodere la crisi. Lenin rifiutò l'affermazione di Tugan-Baranowsky secondo cui il consumo fosse irrilevante,, ma in quella fase non andò oltre all'enfatizzare l'anarchia della riproduzione capitalistica come fonte di crisi e non fornì una teoria della crisi chiara e inequivocabile e non tornò mai più su questo tema. Circa dieci anni dopo, in Germania, emerse nuovamente la teoria delle crisi per sproporzionalità, questa volta nell'enorme opera di Rudolph Hilferding sul capitalismo monopolistico. Sia Tugan-Baranowsky che Hilferding convennero sul fatto che, essendo l'anarchia del capitalismo a provocare le crisi, la pianificazione avrebbe eliminato le crisi e la soluzione, nella terminologia di Hilferding, era il “capitalismo organizzato” ed il mezzo la via parlamentare per il controllo dello Stato24 Rosa Luxemburg rifiutò di accettare questa conclusione del dibattito ed essendo una attivista rivoluzionaria si opponeva al riformismo che la teoria della sproporzionalità sembrava legittimare. Se si ammette che “lo sviluppo capitalistico non va nella direzione della propria rovina”, dichiarava, “il socialismo cessa di essere oggettivamente necessario”. Abbandonare la teoria del crollo del capitalismo significava abbandonare il socialismo scientifico e si iniziò così a rivitalizzare il dibattito marxista sul sottoconsumo25. Dal momento che proprio gli esempi di Marx sulla riproduzione allargata (crescita bilanciata) rappresentavano l'elemento decisivo del dibattito originario tra i marxisti russi, la Luxemburg attaccò direttamente questi esempi. Marx ha dimostrato chiaramente la possibilità astratta della riproduzione allargata, ammetteva la Luxemburg, ma non si rendeva conto che, d'altro canto, essa era impossibile nella realtà perché, dal punto di vista sociale, il comportamento del capitalista necessario [per realizzarla] non ha alcun senso26 Immaginiamo che alla fine di un ciclo di produzione l'intero prodotto sociale venga depositato in un magazzino. A questo punto i capitalisti si presentano e ritirano una parte del prodotto totale per sostituire i mezzi di produzione consumati nell'ultimo ciclo, mentre i lavoratori si presentano a ritirare i propri beni di consumo. Rimane il prodotto in surplus del quale i capitalisti ritirano una parte per il proprio consumo personale. Ora, chiede la Luxemburg, da dove vengono gli acquirenti per il prodotto rimanente? (si presenta ovviamente il tradizionale problema sotto-consumistico del riempimento del “demand gap”). Se Marx ha ragione, dice, allora è la classe capitalista che compra il resto del prodotto per investirlo ed espandere così la capacità produttiva. Ma questo non ha alcun senso perché “chi sarebbero i nuovi consumatori per la soddisfazione dei quali la produzione dovrebbe aumentare sempre più?”. Se i capitalisti fanno ciò che dice Marx, nel

24

Ibid., pp. 14-16.

25

Ibid., p. 22.

26

Bleaney, op. cit., p. 89.

28


ciclo successivo la capacità produttiva sarà ancora maggiore e così pure il gap da riempire; il problema sarà così ancora più difficile da trattare. “Lo schema dell'accumulazione di Marx non risolve il problema di chi alla fine debba beneficiare della riproduzione allargata...”. La riproduzione allargata è algebricamente possibile, ma socialmente impossibile27 Ne consegue che l'accumulazione capitalista può essere spiegata solo grazie ad alcune forze esterne alle “pure” relazioni capitalistiche. La Luxemburg osserva che la soluzione malthusiana di una terza classe di consumatori improduttivi non ha alcun senso poiché il reddito di questa può derivare solo da profitti o salari. Analogamente, il commercio estero tra nazioni capitaliste non fornisce alcuna soluzione per il capitalismo nel suo insieme, poiché [tale commercio] è interno al sistema [capitalistico] mondiale. Ella sostiene perciò che l'accumulazione capitalistica richiede un segmento di compratori che sta al di fuori del mondo capitalistico e che compra continuamente più quanto essa non venda. Così il commercio tra mondo capitalistico e mondo non capitalistico è una necessità primaria per la sopravvivenza storica del capitalismo; e l'imperialismo sorge con la lotta tra le nazioni capitalistiche per il controllo di quelle importanti fonti di domanda effettiva. Inoltre, via via che il capitalismo si espande sul pianeta, l'ambito non capitalistico di conseguenza si restringe e con esso si restringe anche la prima sorgente dell'accumulazione. La tendenza verso le crisi aumenta e si intensifica la competizione tra le nazioni capitaliste per [il controllo] delle aree non capitalistiche rimanenti ed i risultati inevitabili di tale processo sono le crisi mondiali, le guerre e le rivoluzioni . Anche se la Luxemburg avesse avuto ragione circa l'impossibilità dell'accumulazione, la sua soluzione non poteva comunque funzionare poiché richiede un “Terzo Mondo” che compra continuamente più di quanto venda. [In questo caso] da dove sarebbero venute le entrate in eccesso? Ma nei fatti si sbagliava anche a proposito della possibilità di accumulazione. Per comprenderlo dobbiamo tornare brevemente all'analisi presentata all'inizio di questa parte. Ricordiamo che alla fine del ciclo di produzione i capitalisti sono in possesso del prodotto sociale totale e al tempo stesso sono i loro investimenti lordi e le loro spese per il consumo personale che stanno alla base della domanda effettiva di questo prodotto (dal momento che i salari dei lavoratori sono una parte degli investimenti globali). Ora, a parte il consumo personale dei capitalisti, la spesa rimanente (gli investimenti lordi) non è in alcun modo motivata dal consumo in quanto tale ma è motivata integralmente dall'aspettativa di profitto. Ciò che mostrano gli esempi di Marx è che se i capitalisti fanno investimenti quantitativamente appropriati, allora sono appunto in grado di vendere il prodotto e ricavare i profitti attesi.

27

Ibid., p. 193.

29


Se questo successo li stimola a reinvestire nuovamente, nell'aspettativa di profitti ancora maggiori, saranno ricompensati ancora una volta, e così via. Il consumo si espanderà continuamente grazie al crescente impiego di lavoratori e alla crescente ricchezza dei capitalisti. Ma questa espansione del consumo sarebbe una conseguenza, non la causa* Ora, [anche] se questo confuta la critica di Rosa Luxemburg nei confronti della riproduzione allargata, non risponde ancora alle due domande cruciali con le quali [ella] ha iniziato. Primo, quali forze, se ve ne sono, rendono possibile la riproduzione allargata nella realtà? E secondo, non è vero che se la riproduzione allargata è effettivamente possibile, allora “lo sviluppo del capitalismo non va nella direzione della propria rovina?” Ciò che la teoria discute, la realtà decide. Nel 1929 scoppiò una devastante crisi capitalistica mondiale seguita da oltre 10 anni di profonda depressione e disoccupazione. Con questo background, i problemi della riproduzione capitalistica divennero ancora una volta immediatamente rilevanti. Il primo importante tentativo per rivisitare la teoria del sottoconsumo come spiegazione delle crisi venne fatto da Paul Sweezy nel suo autorevole libro La teoria dello sviluppo capitalistico (1942). Sweezy si accinse a formulare una teoria del sottoconsumo esplicitamente “libera dalle obiezioni che erano state avanzate alle versioni precedenti”28 In questo primo tentativo Sweezy è ancora stretto nella morsa della nozione tradizionale di sottoconsumo secondo la quale la domanda per beni di consumo regola la produzione totale. Da questo punto di vista la Sezione I appare come parte dell'apparato produttivo verticale della Sezione II cosicché i cambiamenti nella produzione della Sezione I (mezzi di produzione) sono nei fatti cambiamenti nella capacità di produrre beni di consumo. Inoltre, Sweezy sostiene che “l'evidenza empirica” dimostra come una variazione dell’1% nella produzione della Sezione I aumenti la capacità di produrre beni di consumo dell'1%. Questa è una virtuale risposta ad Hobson, che abbiamo analizzato in precedenza. Consideriamo la domanda effettiva che, come abbiamo visto, è composta dal consumo dei capitalisti e dalle spese totali di investimento (queste a loro volta sono composte dalle spese per mezzi di produzione e dall'assunzione di lavoratori). Sweezy osserva che, con lo sviluppo del capitalismo, la meccanizzazione procede rapidamente e sono necessarie sempre più macchine e materie prime per far lavorare un singolo lavoratore; ciò significa che le spese di investimento 

I lettori che conoscono bene il Volume I del Capitale ricordano che Marx distingue due tipi di circolazione

che comportano acquisti e vendite: M-D-M e D-M-D'. Nel primo l’oggetto è il consumo, nel secondo è l’espansione del capitale. Quest’ultima rappresenta la circolazione dominante della riproduzione capitalistica. La Luxemburg lo dimentica. 28

Paul Sweezy, The Theory of Capitalist Development, (New York: Monthly Review Press, 1942), p. 179.

“La teoria dello sviluppo capitalistico”, Einaudi, 1951; Bollati Boringhieri, Torino, 1970

30


capitalistico in mezzi di produzione aumentano più velocemente di quelle in salari. Data la sua analisi della produzione, le spese di investimento in mezzi di produzione comportano un proporzionale aumento della capacità di produzione di beni di consumo, mentre le spese in salari, che aumentano molto più lentamente, si traducono come è ovvio in consumo dei lavoratori. Sembra perciò che la capacità di produrre beni di consumo si espanda più velocemente della domanda di beni di consumo da parte dei lavoratori, così si manifesta un “demand gap”. Naturalmente la domanda di consumo dei capitalisti può riempire il gap, ma con lo sviluppo del capitalismo i capitalisti tendono ad investire proporzionalmente un parte maggiore ed a consumare proporzionalmente un parte minore dei loro profitti, cosicché il loro consumo resta indietro rispetto alla [crescita della] capacità produttiva della Sezione II. Sweezy conclude

“...ne consegue che vi è una tendenza naturale della crescita dei consumi a restare indietro rispetto alla crescita della produzione di beni di consumo... questa tendenza può sfociare in crisi, in stagnazione, o in entrambe”29

Quello di Sweezy è l'errore sotto-consumista tradizionale di ridurre la Sezione I al ruolo di [semplice] “input” della Sezione II. Una volta fatta questa ipotesi ne consegue necessariamente che un aumento nella produzione di mezzi di produzione deve espandere la capacità [di produrre] beni di consumo. Ma ciò è falso: i mezzi di produzione possono essere usati anche per produrre [altri] mezzi di produzione ed [anzi], come abbiamo notato nella critica della Luxemburg, la riproduzione allargata esige che essi siano utilizzati così. Contrariamente al ragionamento di Sweezy, è perfettamente plausibile avere un tasso in aumento di macchinari e materie prime per lavoratore e una crescita proporzionale nelle produzioni di entrambe le Sezioni, avendo ancora riproduzione allargata. Il secondo tentativo di Sweezy, fatto assieme a Paul Baran, arrivò vent'anni dopo ne “Il capitale monopolistico”. Nel primo tentativo, come abbiamo visto, Sweezy sosteneva che il capitalismo aveva una tendenza intrinseca ad espandere la capacità produttiva della Sezione II più velocemente rispetto alla domanda di consumo. “Il capitale monopolistico”, scritto tenendo conto di Marx, Keynes e Kalecki, non si limitava più alla Sezione II o alla sola domanda dei consumatori, ma sosteneva, piuttosto, che il capitalismo moderno ha una tendenza ad espandere la capacità produttiva totale più velocemente rispetto alla domanda effettiva generata internamente – cosicché, in assenza di fattori esterni, “il capitalismo monopolistico sarebbe affondato sempre più profondamente nella palude di una depressione cronica”30

29

Ibid., p. 183.

30

Paul Baran e Paul Sweezy, Monopoly Capital (New York: Monthly Review Press, 1968), p. 108.Il capitale

31


Da questa diagnosi si evince che, “i periodi piuttosto lunghi durante i quali il (reale) processo di accumulazione è proseguito in modo vigoroso con [...] la domanda di forza lavoro in rapida espansione e la capacità produttiva utilizzata alla piena, o vicino alla piena, capacità” deve essere spiegato attraverso fattori esterni31 Quindi Baran e Sweezy suggeriscono come fattori cruciali per il superamento della congenita natura stagnante del capitalismo monopolistico, le principali innovazioni (motore a vapore, ferrovie, automobili), l'espansione imperialistica, le guerre e in generale lo stimolo della domanda in generale attraverso pubblicità, politiche governative, ecc... L'associazione del monopolismo con crescita lenta e capacità [produttiva] in eccesso non è nuova. Molte teorie (come vedremo) tentano di spiegare questa correlazione. Lo specifico contributo di Baran e Sweezy è stato quello di sostenere che questi fenomeni emergono dalla persistente tendenza del capitalismo monopolistico ad espandere eccessivamente la propria capacità produttiva e pertanto di dirigersi verso la crisi e/o la stagnazione. Dobbiamo perciò scoprire le basi logiche di questo argomento. Si ricordi che nell'analisi di Marx sono l'investimento totale e le spese per il consumo capitalistico a determinare la domanda effettiva (gli investimenti totali includono le spese sui salari, che a loro volta determinano il consumo dei lavoratori). Inoltre, dal momento che il consumo personale della classe capitalista risponde più o meno in modo passivo ai profitti presenti e passati, è l'investimento totale che nei fatti rappresenta la variabile cruciale. Supponiamo ora che all'inizio di un certo anno, le spese totali per gli investimenti relativi alla produzione dell'anno successivo siano abbastanza grandi da espandere la capacità produttiva, ma non abbastanza per comprare tutto il prodotto sociale esistente. In questo modo i capitalisti avranno iniziato, da un lato, un'espansione della propria capacità produttiva futura e, dall'altro, avranno una domanda insufficiente anche per la loro capacità presente. Data la natura anarchica della produzione capitalista, tale risultato ricorrerà abbastanza spesso, il punto è se questa sia semplicemente una caratteristica delle normali fluttuazioni della riproduzione capitalistica o qualcosa di più. Marx, per esempio, sostiene che i capitalisti sono spinti ad accumulare il più rapidamente e concretamente possibile, cosicché una discrepanza come quella di cui sopra tenderebbe ad auto-correggersi. Ma se si dovesse in qualche modo rilevare che in ogni periodo l'investimento tende a rimanere nel range descritto - abbastanza grande da espandere la capacità, ma non così grande da comprare l'offerta del periodo precedente - allora è chiaro che la capacità produttiva supererà la domanda effettiva e il sistema si troverà di fronte ad un “demand gap” cioè ad un “problema di realizzazione”. L'argomento contenuto implicitamente nelle asserzioni di Baran e Sweezy si riferisce proprio al (potenziale) surplus [produttivo] che si espande più rapidamente della capacità del sistema di

monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, 1968. 31

Paul Sweezy, The Economic Crisis, Monthly Review, Vol. 26(10), Marzo 1975, pp. 1-8.

32


assorbirlo. Inoltre, sebbene essi tendano ad attribuire gran parte della responsabilità di questo problema

al monopolismo,

non

spiegano

perché

i monopolisti dovrebbero

persistere

nell’espandere in eccesso la capacità produttiva nonostante una domanda insufficiente. L'elemento cruciale della loro intera tesi resta perciò non spiegato. Nella sua recente ricognizione sulle teorie marxiste della crisi, Erik Olin Wright nota questa carenza di vitale importanza:

“La debolezza più grave in (questa) posizione sotto-consumista è che in essa manca una qualsiasi teoria sulle determinanti del tasso di accumulazione reale... Molti scritti sotto-consumisti hanno, almeno implicitamente, optato per la soluzione di Keynes relativa a questo problema concentrandosi sulla soggettiva previsione di profitto dei capitalisti quale elemento chiave del tasso di accumulazione. Da un punto di vista marxista è una soluzione inadeguata. Non ho ancora visto un teorico marxista sotto-consumista che abbia scritto una completa teoria degli investimenti e del tasso di accumulazione e pertanto, ad oggi, la teoria rimane incompleta”32.

Nel loro libro, Baran e Sweezy citano contributi di Joan Robinson, Michael Kalecki e Joseph Steindl. Poiché questi autori sono anche parte integrante della tradizione teorica della sinistra keynesiana, ci aiuterà l'analizzare le implicazioni delle loro analisi sulla questione delle crisi. Gli investimenti giocano un ruolo cruciale sia nell’analisi keynesiana che in quella marxista, ma nella teoria keynesiana l'enfasi è [posta] soprattutto sulle determinanti di breve termine nelle scelte di investimento. Da come gli autori sopra citati trattano le scelte di investimento deriva il fatto che essi tendono a concentrarsi principalmente sui cambiamenti strutturali di breve termine e solo secondariamente su quelli di lungo termine. La prima parte dell'opera di Joan Robinson tratta solo en passant i cambiamenti strutturali, mentre le sue opere più mature fanno riferimento principalmente a Kalecki33 che, a sua volta, quando tratta – e brevemente – dei cambiamenti di lungo termine, postula semplicemente che, in assenza di fattori esterni, il capitalismo tende alla stagnazione. L'innovazione rappresenterebbe dunque il principale fattore che spinge gli investimenti sopra il livello necessario alla sola riproduzione del sistema e sostiene che sarebbe [proprio] la declinante intensità delle innovazioni nel capitalismo monopolistico che spiegherebbe la sua bassa crescita recente34. Tutto questo è molto “ad hoc” e nel suo ultimo lavoro importante (1968) Kalecki enfatizza [il fatto] che manca ancora una spiegazione soddisfacente sulle scelte di investimento nel lungo periodo35. 32

Erik Olin-Wright, Alternative perspectives in the marxist theory of accumulation and crisis, in Schwartz, pp.

215-226. 33

Bleaney, op. cit., p. 225.

34

Ibid., pp. 245-248.

35

Cfr. Joseph Steindl, Maturity and Stagnation in American Capitalism, (New York: Monthly Review Press,

1976), p. XVII, nota 7

33


Per ultimo, Steindl inizia osservando l'incompletezza dell'analisi di Kalecki sul lungo periodo e si propone di porvi rimedio, ma alla fine anche egli è ricondotto a postulare il declino nell'intensità dell'innovazione come fattore primario nella lenta crescita del capitalismo moderno benché sottolinei il fatto che il monopolismo tenda ad esacerbare gli effetti di questo declino. Come Kalecki prima di lui, anch’egli conclude con l'ammettere che una spiegazione soddisfacente deve ancora essere trovata36 Non è sorprendente, perciò, che Baran e Sweezy abbiano preferito esporre una propria versione del problema.

36

Ibid., pp. XV-XVI.

34


IV

Il capitalismo auto limita l'accumulazione

Le teorie sotto-consumiste radicali e marxiste tendono a concentrarsi sulla domanda effettiva quale fattore limitante dell'accumulazione capitalistica. D'altra parte, nell'analisi di Marx la domanda effettiva non è un problema intrinseco, al contrario, dal suo punto di vista i capitalisti sono stimolati ad accumulare il più rapidamente possibile, cosicché è l'auto espansione della riproduzione, e non la stagnazione, ad essere la normale tendenza del sistema. Ciò non significa che il processo di accumulazione sia regolare o che crisi parziali non possano avvenire lungo la strada a causa di raccolti perduti, ecc... Significa invece che i limiti al processo di accumulazione non emergono dalla scarsità della domanda. Questo significa, come sosteneva eloquentemente Rosa Luxemburg, che se si rifiuta la teoria del sotto-consumo poi si è obbligati ad accettare il principio che l'accumulazione (e quindi il capitalismo stesso) sia capace di espansione illimitata? Per niente. Secondo Marx i limiti all'accumulazione sono completamente interni al processo. “Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”37 L'accumulazione capitalista è motivata dal profitto, ma, come spiega Marx, il processo di accumulazione fa diminuire progressivamente il saggio di profitto, cosicché [l'accumulazione] tende ad indebolire sé stessa. Si tratta della famosa legge della caduta tendenziale del saggio di profitto che analizzeremo tra breve. Nello stesso tempo, l'accumulazione comporta l'estensione dei rapporti sociali capitalistici, l'aumento del proletariato e della sua forza. Il declino della profittabilità implica tassi di accumulazione declinanti e aumento della concorrenza spietata tra capitalisti per i mercati (a livello nazionale e internazionale), le materie prime e la forzalavoro a basso costo. I capitali più deboli vengono eliminati ed aumenta la concentrazione e la centralizzazione economica (diciamo, i “monopoli”). Inoltre, per i capitalisti diventa sempre più necessario attaccare i salari, sia direttamente attraverso la meccanizzazione, sia attraverso l'importazione di forza-lavoro a basso costo e/o l'esportazione di capitale nei paesi più poveri. Contemporaneamente cresce di continuo la massa della classe lavoratrice e l'entità della sua esperienza collettiva nella lotta contro il capitale. Così, il crescente attacco del capitale al lavoro incontra una crescente resistenza e un contro-attacco (nel lungo periodo). La lotta di classe si intensifica. È importante comprendere che la tendenza alla caduta del saggio di profitto (come si ricava da Marx) non è causata da alti salari, sebbene un aumento dei salari reali possa aggravarla. Questo

37

Karl Marx, Capital (New York: International Publishers, 1967), Vol. III, p. 250.

35


significa che le crisi periodiche derivate dalla caduta del saggio di profitto non possono essere attribuite alle richieste [economiche] dei lavoratori o alla loro resistenza sebbene, naturalmente, le diverse fasi storiche e situazioni politiche siano molto importanti per spiegare come reagisce il sistema, nel suo insieme, ad ogni crisi. Fintanto che prevalgono i rapporti capitalisti, dunque, continueranno ad agire le tendenze generali [del capitalismo] e di conseguenza, Marx enfatizza che l'obiettivo del proletariato non è solo quello di resistere al capitale, ma di rovesciarlo. Da questa breve descrizione dovrebbe risultare chiaro che la crescita dei “monopoli”, la caduta del saggio di accumulazione e l'approfondirsi della lotta di classe devono essere spiegate come conseguenze delle leggi fondamentali dello sviluppo capitalistico piuttosto che come fattori che danno origine a nuove leggi - come tentano di fare, ad esempio, Baran e Sweezy. Poiché la legge della caduta [tendenziale] del saggio di profitto è centrale in questa esposizione, dobbiamo esaminarla ulteriormente.

A. La teoria della caduta del saggio di profitto di Marx

Il problema della profittabilità ha due aspetti importanti. Primo, su cosa si fonda la profittabilità e che cosa determina la sua grandezza? Secondo, come sviluppa il capitalismo questo fondamento e, a sua volta, quale effetto ha sulla sua grandezza? Per rispondere alla prima domanda Marx inizia dal processo lavorativo. In tutte le società, osserva, gli oggetti necessari per soddisfare i bisogni e i desideri umani comportano una certa allocazione di tempo di lavoro sociale, delle sue attività produttive, in determinate proporzioni e quantità. Diversamente, la riproduzione della società è impossibile. Mentre la ripartizione del lavoro sociale è fondamentale per tutte le società, l'estrazione di pluslavoro sta alla base delle società classiste e questo pluslavoro costituisce la base materiale e sociale dei rapporti di classe. L'estrazione del pluslavoro deve essere imposta dal momento che fornisce alla classe dominante, non solo i mezzi di consumo, ma anche i mezzi di dominio. Nella maggior parte delle società, la ripartizione del tempo lavoro sociale e l'estrazione del pluslavoro sono regolati socialmente dalla tradizione, dalla legge, dalla forza, ma nella società capitalista l'attività produttiva viene intrapresa privatamente da capitalisti individuali sulla base di un profitto atteso. La riproduzione non è una preoccupazione esplicita [dei singoli capitalisti] eppure deve avvenire ed avviene. A prima vista, sono i prezzi e i profitti a fornire il “feedback” quotidiano che determina le decisioni

Fra l'altro, vale la pena notare che quando, come conseguenza della redditività in declino, i capitalisti

riducono le loro spese per gli investimenti, parte del prodotto disponibile non sarà venduto e sembrerà che la crisi sia causata da una scarsità di domanda effettiva, dal “sottoconsumo”. Ma in realtà questo “sottoconsumo” è solamente una reazione alla crisi del profitto. E' un sintomo, non una causa.

36


dei capitalisti, ma, sostiene Marx, in realtà è il tempo di lavoro totale (il valore del lavoro) coinvolto nella produzione delle merci a regolare il fenomeno del denaro. Questa regolazione dei prezzi e dei profitti tramite il valore del lavoro e quello del surplus [plusvalore] è in effetti il modo nel quale nella società capitalista si manifestano le necessità della riproduzione. D'ora in poi, quindi, tratteremo direttamente con valore del lavoro e plusvalore poiché questi sono i veri elementi regolatori. Durante il processo lavorativo, i lavoratori usano strumenti di lavoro (impianti e attrezzature) per trasformare le materie prime in prodotti finiti. Il tempo di lavoro totale richiesto per il prodotto finito è dunque composto da due parti: la prima, il tempo lavoro implicito nei mezzi di produzione usati (materie prime, impianti e attrezzature); la seconda, il tempo di lavoro speso dai lavoratori nel processo produttivo stesso. Marx chiama il primo elemento “capitale costante” (C) poiché si ripresenta (integralmente) nel prodotto finale, mentre chiama il secondo “valore aggiunto dal lavoro vivo” (L). Il valore totale di qualsiasi prodotto è perciò C+L. Del prodotto finale, una parte è proprio l'equivalente dei mezzi di produzione consumati ed il suo valore sarà perciò C poiché questo è il valore dei mezzi di produzione utilizzati. Questo ci lascia il prodotto netto da una parte e il valore aggiunto dal lavoro vivo (L) dall'altra. Il prodotto netto è l'equivalente materiale del tempo di lavoro vivo (L). Se ci deve essere un surplus, allora solo una parte del prodotto netto deve andare a rimpiazzare i beni consumati dai lavoratori. Il valore aggiunto dal lavoro vivo (L) è quindi composto da due parti, una delle quali corrisponde al valore relativo alle necessità in beni di consumo dei lavoratori (V) mentre l'altra corrisponde al valore del prodotto in surplus (S). In altre parole, è la differenza tra il tempo che in realtà i lavoratori impiegano (L) e il tempo necessario per riprodurre loro stessi (V) il loro tempo di pluslavoro (S) - che fa nascere il prodotto in surplus e da esso i profitti: La suddivisione del tempo di lavoro vivo in necessario (V) e in surplus (S) è perciò la base nascosta della società capitalistica e Marx chiama il rapporto S/V “saggio di plusvalore” o “saggio di sfruttamento”. A parità di altri fattori, maggiore è il saggio di sfruttamento maggiore è la quantità di plusvalore e, da qui, maggiore è il profitto. Il tempo che i lavoratori impiegano complessivamente (L) è determinato dalla durata della giornata lavorativa. Il tempo necessario per riprodurre loro stessi (V) è determinato, d'altro canto, dalla quantità di beni che essi consumano (il loro “salario reale”) e dal tempo di lavoro che serve per produrre questi beni. La massa di plusvalore (S) e il saggio di sfruttamento (S/V) possono perciò essere aumentati in due modi: direttamente, allungando la giornata lavorativa cosicché il tempo pluslavoro sia aumentato direttamente; e indirettamente, diminuendo il tempo di lavoro necessario (V) cosicché un parte maggiore della giornata lavorativa venga spesa in tempo di pluslavoro.

L'autore usa in questa parte il termine “labor value” per sottolineare che qui il valore è espresso in tempo di

lavoro coerentemente con la teoria del valore-lavoro (NdT).

37


Quest'ultimo metodo per aumentare S e S/V richiede che i salari reali dei lavoratori siano ridotti, che la produttività del loro lavoro sia aumentata cosicché sia necessario meno tempo per produrre i loro beni di consumo, o entrambe le cose. I capitalisti cercano costantemente di aumentare in tutti i modi il saggio di sfruttamento, ma nel tempo la forza crescente dei lavoratori ha fortemente ridotto i tentativi di allungare la giornata lavorativa e di abbassare il salario reale e, di conseguenza, l'aumento della produttività del lavoro è diventato il mezzo principale per aumentare il saggio di sfruttamento. Ma la cosa paradossale del capitalismo, come spiega Marx, è che proprio i mezzi usati per aumentare il saggio di sfruttamento tendono ad abbassare il saggio di profitto. L'aumentata produttività del lavoro si manifesta in una caduta della profittabilità del capitale38 Il saggio di plusvalore S/V esprime la suddivisione della giornata lavorativa in tempo di lavoro necessario e pluslavoro e misura il grado di sfruttamento dei lavoratori produttivi, ma, per i capitalisti, l'elemento cruciale è il grado di profittabilità del capitale. Dal loro punto di vista, essi investono denaro in mezzi di produzione (C) e in [salari dei] lavoratori (V) con l'intento di realizzare profitto (S). L'ammontare di profitto (S) relativamente al proprio investimento ( C+V) costituisce la misura capitalistica del successo. In altri termini, è il saggio di profitto S/(C+V) che regola l'accumulazione del capitale. Ed è qui che emerge il paradosso. Nella loro continua guerra gli uni contro gli altri i capitali individuali sono costantemente obbligati ad abbassare i costi unitari così da guadagnare punti sui loro concorrenti (la battaglia attuale sulle calcolatrici tascabili è un esempio eccellente di questo processo). Fin tanto che si tratta di vincere la battaglia delle vendite sarà utile qualunque cosa che faccia abbassare i costi unitari. Ma i capitalisti sono costantemente impegnati anche in un'altra battaglia - la battaglia della produzione nel processo lavorativo. Ed è qui che la meccanizzazione diventa il mezzo principale per aumentare la produttività del lavoro e, di conseguenza, abbassare i costi unitari. I capitalisti assumono lavoratori per un certo periodo e il loro obiettivo è quello di spremere da loro, durante il processo lavorativo, la massima produttività possibile al costo più basso possibile ma ciò comporta non solo lotte sul salario reale e sulla durata e intensità della giornata lavorativa, ma anche sulla natura stessa del processo lavorativo. Fin dall'inizio i capitalisti hanno cercato di “perfezionare” il processo lavorativo suddividendolo in mansioni sempre più specializzate e di routine. Con il controllo capitalista del processo lavorativo l'attività produttiva umana è stata resa sempre più meccanizzata, automatica, così non è una sorpresa che queste funzioni umane meccanizzate

38

Ibid., p. 213.

Queste guerre sono ciò che Marx chiama “concorrenza tra capitali”. Ma questo utilizzo del termine

“concorrenza” non è lo stesso che viene utilizzato in “concorrenza perfetta”, il cui contrario è “monopolio”. In Marx, la continua concentrazione e

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vengano progressivamente rimpiazzate da macchinari reali. Via via che le macchine sostituiscono alcune funzioni umane, altre funzioni siano sempre più soggette alla tirannia della meccanica, fino a che anche queste funzioni non vengano sostituite da macchinari, e così via. La tendenza verso la meccanizzazione è pertanto il principale metodo capitalistico per aumentare la produttività sociale del lavoro e va al di là del controllo capitalistico sul processo lavorativo, sull'attività produttiva umana e come tale, né la resistenza crescente dei lavoratori, né l'aumento reale dei salari sono cause intrinseche della meccanizzazione, sebbene esse possano amplificare questa tendenza. L'incremento della meccanizzazione è ciò che Marx chiama incremento della composizione organica del capitale in crescita, così una massa sempre più grande di mezzi di produzione e di materie prime viene messa in funzione da un certo numero di lavoratori. Secondo Marx, questo implica, a sua volta, che il valore totale del prodotto finale (C+L) proviene sempre più dai mezzi di produzione consumati e sempre meno dal lavoro vivo. In altre parole, la crescita della composizione organica è riflessa in termini di valore come crescita della quota di lavoro morto su quello vivo, di C su L. Il saggio di profitto, come abbiamo visto, è S/(C+V). Ma S=L-V, dal momento che il tempo di pluslavoro (S) è uguale al tempo di lavoro totale (L) meno il tempo necessario per la propria riproduzione (V). Perciò, anche se “i lavoratori vivessero d'aria” (V=0), S potrebbe corrispondere, al massimo, ad L. Di conseguenza, L/C è il limite massimo del saggio di profitto, mentre quello minimo è, naturalmente, zero. Ora, se una composizione organica crescente si riflette in un crescente rapporto C/L – e di conseguenza in un rapporto L/C in diminuzione - allora il saggio di profitto corrente sarà progressivamente schiacciato tra un estremo superiore che si abbassa e un estremo inferiore fisso, cosicché esso deve manifestare una tendenza verso il basso. Questo è ciò che Marx intende per caduta tendenziale del saggio di profitto. La tendenza “alla caduta” sopra descritta è indipendente da come L sia suddiviso tra V e S, e dunque è indipendente dal tasso di sfruttamento S/V. Infatti, se il salario reale dei lavoratori fosse costante, la crescente produttività del lavoro derivante dalla meccanizzazione farebbe aumentare continuamente il rapporto S/V; maggiore è la produttività del lavoro, minore il tempo necessario ai lavoratori per produrre un certo numero di beni di consumo, cosicché una quota maggiore della giornata lavorativa diventa tempo di pluslavoro. Anche quando i salari reali aumentano, posto che essi aumentino meno rapidamente della produttività, il tasso di sfruttamento continuerà ad aumentare pertanto è sicuramente possibile avere sia un aumento del salario reale che un

Per un'analisi brillante del processo lavorativo moderno vedere Labor and Monopoly Capital di Harry

Bravesman, Monthly Review Press, New York, 1974 Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo Einaudi 1978

39


aumento del tasso di sfruttamento39. Questa è infatti la situazione generale tratteggiata da Marx dal momento che i lavoratori non possono mai prendersi tutta la produttività creata attraverso la meccanizzazione senza fermare l'accumulazione e quindi uccidere la gallina dalle uova d'oro.Per Marx, la lotta di classe sui salari funziona entro certi limiti oggettivi, i limiti dati dall'accumulazione del capitale e tali limiti sono intrinseci al capitalismo stesso e possono essere superati solo rovesciandolo. Quasi tutti gli opinionisti marxisti accettano come dato di fatto che la meccanizzazione sia una realtà dominante della riproduzione capitalistica. D'altra parte, un'importante scuola di pensiero considera la meccanizzazione, non tanto come controllo capitalistico del processo produttivo, come fa Marx, quanto piuttosto come reazione del capitale alla crescente resistenza dei lavoratori e/o all'aumento dei salari reali (nel lungo periodo). Di solito essi iniziano presupponendo un aumento dei salari reali in certe condizioni produttive che porta ad una caduta del saggio di profitto che, a sua volta, obbliga i capitalisti a sostituire i lavoratori con le macchine. Da questo punto di vista ovviamente, la meccanizzazione e l'aumento della produttività del lavoro che ne discende sono gli strumenti principali per aumentare la redditività, diminuita dall'aumento dei salari. Essi sostengono che a seconda di quale fattore prevarrà, il saggio di profitto potrà andare in una o nell'altra direzione. Paul Sweezy e Maurice Dobb, per esempio, condividono entrambi questo punto di vista40. Questa analisi è corretta - finché funziona. L'aumento dei salari reali spinge infatti alla meccanizzazione e [l'effetto di] questa potrà compensare o meno l'effetto dei più alti salari sulla redditività, ma in Marx la crescita dei salari è resa possibile da una causa precedente, vale a dire dalla meccanizzazione che sorge dalla battaglia nella produzione. Di conseguenza, l'effetto che Sweezy e Dobb analizzano è un effetto secondario, sovrapposto su (e nei fatti possibile solo grazie a) quello primario. Considerato che ignorano la causa primaria, non è sorprendente che essi non riescano a trovare alcuna ragione particolare affinché il saggio di profitto debba diminuire. Un'altra tra le principali obiezioni alla legge sostiene che la meccanizzazione (qualunque ne siano le cause) non comporta necessariamente una caduta tendenziale del saggio di profitto. Si

39 

Karl Marx, Capital (New York: International Publishers, 1967) Vol. I, p. 604.

Marx analizza precisamente questo punto nel Volume I del Capitale, nella prima parte del capitolo intitolato

“La legge generale dell'accumulazione capitalistica” (Cap. XXV, Sezione I) quando osserva che i salari reali possono aumentare solo se essi “non interferiscono con il progresso dell'accumulazione” (pag. 619). 

Per una discussione più dettagliata di questa posizione, così come della matematica utilizzata per

supportarla (come i cosiddetti teoremi della “scelta della tecnica”), vedere “Political Economy and Capitalism: Notes on Dobb's Theory of Crises”, di questo autore, di prossima pubblicazione nel Cambridge Journal of Economics. 40

Sweezy, op. cit., p. 88; Maurice Dobb, Political Economy and Capitalism (London: Routledge & Kegan

Paul, Ltd., 1937), pp. 108-114. Economia politica e capitalismo, Torino, Giulio Einaudi Editore [1937], 1950.

40


consideri un certo numero di lavoratori cosicché L sia dato. Meccanizzazione implica un aumento della massa dei mezzi di produzione impiegati da questi lavoratori, ma tale [aumento] è accompagnato anche da un aumento della produttività del lavoro e quindi da una caduta del valore delle merci, poiché adesso è necessario meno tempo per produrre una determinata merce. Perciò il valore dei mezzi di produzione (C) non aumenterà così velocemente come la loro massa che può addirittura diminuire. Marx sostiene che tuttavia C aumenterà, cosicché C/L aumenterà e si verificherà la caduta tendenziale, ma, dicono i critici, supponiamo che il valore dei mezzi di produzione cada altrettanto o anche più velocemente di quanto aumenti la sua massa? In questo caso C/L rimarrà costante o diminuirà e nessuna spinta a decrescere verrà esercitata sul saggio di profitto. Si deve dire subito che questa è una obiezione valida poiché evidenzia una lacuna nell'argomentazione della caduta del saggio di profitto. Nella letteratura attuale, vi è la forte convinzione che un crescente rapporto tra macchine e lavoratori debba comportare anche un crescente rapporto tra “lavoro morto” e lavoro vivo (ovvero di C rispetto ad L), ma i tentativi per specificare la correlazione esatta tra i due (come quello di Yaffe)41 non sono risultati soddisfacenti cosicché rimane aperta la possibilità dello scenario tratteggiato dai critici. Questo tema rappresenta ancora un elemento molto dibattuto e viene trattato in modo esteso nell’articolo a cui si riferisce la nota precedente (*). Un'altra obiezione diffusa è quella che i capitalisti non sceglierebbero mai di impiegare una tecnica di produzione che faccia abbassare il loro saggio di profitto, perciò un saggio declinante è escluso a priori. Questo argomento viene spesso esposto matematicamente, come nel cosiddetto “Teorema di Okishio”42 ma il suo presupposto fondamentale sta alla base di una cornice analitica ampiamente condivisa che va dai keynesiani di sinistra, come Joan Robinson, a marxisti come Bob Rowthorn. Nei termini della discussione sopra esposta, qui l'errore cruciale risiede nel presupporre che il progresso tecnico sia una semplice questione di “scelta” da parte del capitalista e non di necessità. Marx osservò, molto tempo fa, che nel capitalismo è la necessità dettata dalla concorrenza ad obbligare i capitalisti a scegliere la tecnica che consente costi unitari più bassi, anche quando comporta un saggio di profitto minore. Chiunque faccia questa mossa per primo, può vendere a prezzi più bassi degli altri e l'unica “scelta” che questi dovranno affrontare sarà dunque tra quella di fare profitti ad un saggio inferiore rispetto a prima oppure non fare affatto profitti perché il loro prodotto costa troppo43 Infine, alcuni marxisti rifiutano la nozione di un aumento di C/L su base empirica. Poiché C è il

41

David Yaffe, Inflation, the crisis and the post-war boom, Revolutionary Communist, No. 2,1976, pp. 5-.

42

N. Okishio, Technical change and the rate of profit, Kobe University, Vol. 7,1961, pp. 85-99.

43

Marx, op. cit., Vol. III, p. 264. Si veda anche l'esempio di questo processo che Marx fornisce ed analizza

nei Grundrisse, op. cit., pp. 383-385.

41


valore dei mezzi di produzione e L è il valore aggiunto dal lavoro vivo, i loro equivalenti in denaro sono K - il valore monetario dei mezzi di produzione - e Y - il valore monetario aggiunto o “prodotto nazionale netto” -. Su questa base viene esaminato il “rendimento del capitale” K/Y e, poiché le statistiche ufficiali indicano che esso tende ad essere costante nel lungo periodo, pare che questo si opponga alla nozione di un rapporto C/L in aumento44. E' interessante notare che questi stessi marxisti rifiutano con forza di accettare la validità delle statistiche ufficiali su disoccupazione, entità della povertà, incidenza della malnutrizione, ecc... - in base all'argomento che le concezioni borghesi di queste categorie ne dominano la costruzione al punto tale da renderle praticamente inutilizzabili. Le statistiche sulla disoccupazione, ad esempio, non tengono conto di coloro che hanno smesso di cercare lavoro, di coloro che non hanno mai trovato un lavoro (come gli adolescenti di colore) e di coloro che non entrano affatto nelle forze di lavoro perché non hanno più speranze (come le casalinghe). Non è perciò insolito che radicali e i marxisti calcolino una “disoccupazione reale” da due a tre volte superiore rispetto alle stime ufficiali. Invece, quando si arriva a categorie assolutamente fondamentali come quelle di “capitale” e “valore aggiunto”, le statistiche ufficiali vengono improvvisamente accettate senza alcun problema. Ritorneremo su questo importante punto nella discussione sulle teoria delle crisi chiamata “profit squeeze”. Per il momento è sufficiente osservare come l'unico statistico marxista che si sia preoccupato di esaminare come queste statistiche siano redatte e di correggerle tenendo conto delle differenze concettuali tra categorie marxiste e ortodosse, abbia scoperto precisamente che il rapporto “capitale-output” sembra crescere progressivamente45.

B. Storia della teoria della caduta del saggio di profitto.

La tendenza del saggio di profitto a cadere con lo sviluppo del capitalismo era diffusamente accettata dagli economisti classici, il problema consisteva nel come veniva spiegato questo fenomeno . Adam Smith (1770) per esempio, osservò che quando i capitali si concentrano in un particolare ramo dell' industria essi espandono l'offerta, abbassano i prezzi e, di conseguenza, i profitti ed allo stesso modo, sosteneva, via via che si sviluppa il processo di accumulazione, che il capitale nel suo complesso diventa sovrabbondante e questo fa abbassare il saggio di profitto. I critici chiarirono immediatamente che i capitali si concentrano in una particolare industria solo quando essa ha un saggio di profitto sopra la media e così facendo finiscono semplicemente per

44

Geoff Hodgson, The theory of the falling rate of profit, New Left Review, 84, Marzo-aprile 1974.

45

Cfr. Victor Perlo, Capital-Output ratios in manufacturing, Quarterly Review of Economics and Business,

8(3) Autunno. 1966, pp. 29-42.

42


riportare quel saggio di profitto verso il suo valore medio. Il tasso medio, di conseguenza, non viene spiegato e Smith non fornisce alcuna ragione per cui l'accumulazione dovrebbe in qualche modo alterarlo. Circa quarant'anni dopo, David Ricardo (anni '10 dell'800) offrì una spiegazione alternativa, infatti egli sosteneva che con lo sviluppo della società, deve essere coltivata sempre pià terra per sostenere una popolazione in crescita. Questo significa che terra meno fertile viene via via sottoposta a coltivazione e che dunque diventa sempre più costosa la produzione del cibo. In termini marxisti, il valore del cibo aumenta, quindi per una data giornata lavorativa, il tempo di lavoro necessario aumenta e il tempo di pluslavoro diminuisce in modo proporzionale. Così, via via che la società di sviluppa, il saggio di plusvalore diminuisce e, con esso, cade il saggio di profitto non perché aumentano i salari reali dei lavoratori - ma perché la produttività del lavoro agricolo diminuisce. La conclusione cruciale di Ricardo è che in agricoltura la produttività tende a declinare. Nella sua critica alla teoria ricardiana della rendita, Marx dimostra che questa conclusione non è vera, né dal punto di vista logico, né dal punto di vista empirico, infatti, tutta la storia del capitalismo è caratterizzata da una crescente produttività della forza-lavoro, tanto nell'industria quanto nell'agricoltura. Come abbiamo visto nella parte precedente, la spiegazione di Marx della caduta del saggio di profitto si basa sulla crescente produttività del lavoro sociale e sul crescente saggio di plusvalore.

“Il saggio di profitto cade, non perché il lavoro diventa meno produttivo, ma perché diventa più produttivo. Non perché il lavoratore è meno sfruttato, ma perché è più sfruttato.46

Marx considerava la propria spiegazione della “tendenza del saggio di profitto a cadere con il progredire della società (capitalistica)” come “uno dei maggiori trionfi sugli ostacoli posti dall'economia precedente”. Essa costituisce il fulcro della sua analisi delle leggi di movimento del sistema capitalistico, e, d'altra parte, è abbastanza curioso che questa legge giochi un ruolo abbastanza limitato in gran parte della storia del pensiero marxista ed è' completamente assente, per esempio, nelle teorie del sottoconsumo e, come vedremo nella sezione successiva, è altrettanto assente nella teoria del “profit squeeze”. Parte delle ragioni di questa trascuratezza deriva dalle obiezioni, precedentemente esaminate, che sono state mosse alla logica delle conclusioni di Marx sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto. Ma un altro, motivo, forse anche più importante, che porta a rifiutare questa legge è di

46

Karl Marx, Theories of surplus value (New York: International Publishers, 1967), p. 439.

43


natura politica47 Concepire il capitalismo come soggetto a “leggi di sviluppo”, equivale a trattare un complesso umano sociale come se fosse una macchina o un processo fisico, cosa che minimizza e svilisce il ruolo degli esseri umani nel determinare il corso degli eventi. Le persone, non le leggi di sviluppo, fanno la storia. Inoltre, si afferma, concordare con l’asserzione che il saggio di profitto tende a declinare conduce ad un comportamento fatalistico e passivo nei confronti dell'obiettivo di rovesciare il capitalismo. Per ultimo, talvolta si aggiunge anche il fatto che, in ogni caso, l'analisi delle cause delle crisi è un tema troppo astratto per essere usato nella pratica della lotta di classe. Non c'è alcun dubbio che Marx concepisse la storia del capitalismo in termini di leggi di sviluppo e la storia umana in generale in termini di forze oggettive che agiscono limitando l'azione degli uomini, ma d'altra parte è lo stesso Marx che ha elevato la lotta di classe al livello più alto, che ha sostenuto attivamente il rovesciamento immediato del capitalismo (dunque non in qualche fatalistico futuro) e che ha partecipato alla più pratica attività politica sulla base della propria analisi teorica. C'è una contraddizione tra questi due aspetti di Marx? Per niente. Al contrario, come sostengono Henryk Grossman (Germania), Paul Mattick (USA) e David Yaffe (Gran Bretagna), è precisamente dalla struttura teorica [del pensiero] di Marx che sorge la [sua] politica rivoluzionaria. Grossman fu il primo importante marxista a spostare la discussione sulla crisi dalle teorie del sottoconsumo e della sproporzionalità. Fortemente critico di queste teorie sia dal punto di vista logico che politico, Grossman enfatizzò invece la centralità della legge della caduta del saggio di profitto come teoria delle crisi. Ègli osservò che in Marx era di particolare importanza il fatto che quando il saggio di profitto diminuisce, la crescita della massa totale di profitto deve rallentare e alla fine arrestarsi. Nel momento in cui i nuovi investimenti non generano più profitti addizionali essi saranno ridotti e scoppierà una crisi48. All'aggravarsi della crisi, i capitali più deboli e meno efficienti saranno spazzati via e quelli più forti saranno in grado di comprare in blocco i loro asset a prezzi estremamente bassi. Con l'aumento della disoccupazione la forza dei lavoratori si indebolisce, i salari reali tendono a cadere mentre il processo produttivo tende ad intensificarsi cosicché aumenta il saggio di sfruttamento. Tutti questi fattori fanno aumentare il saggio di profitto. In questo modo, ogni crisi pone le condizioni per la ripresa e per il prossimo ciclo di crescitadecrescita. Nessuno sa quando scoppierà una particolare crisi poiché molti fattori possono ritardare o accelerare gli effetti della caduta del saggio di profitto. In questo senso, la lotta di classe è cruciale, non solo per quanto riguarda il “quando” delle crisi, ma anche per il “dove”, l'arena entro cui combattere i loro effetti. Ancora più importante per Grossman è che le crisi sono “situazioni oggettivamente rivoluzionarie”. Mostrare la necessità delle crisi all'interno del capitalismo significa quindi mostrare la necessità di prepararsi in anticipo per cogliere il momento di questi periodi

47

La trattazione seguente deriva in larga parte da Jacoby, op. cit., sezione V

48

Ibid., p. 35.

44


oggettivamente rivoluzionari. Per ultimo, basandosi sulle proprie letture di Marx, stabilisce un collegamento importante tra teoria e pratica:

“...nessun sistema economico, non importa quanto indebolito, collassa da solo in modo automatico. Deve essere “rovesciato”. L'analisi teorica delle tendenze oggettive che conducono ad una paralisi del sistema serve a scoprire gli “anelli deboli”. Il cambiamento avverrà solo attraverso l'operare attivamente dei fattori soggettivi”49

Paul Mattick rielaborò il lavoro di Grossman in diversi modi. Di particolare importanza è il punto in cui Mattick sostiene che la ragione per cui Marx parla della società capitalistica in termini di leggi di sviluppo è precisamente perché il capitalismo è regolato non da decisioni umane consapevoli, ma piuttosto da “rapporti basati sulle cose” - i rapporti che regolano mercato, prezzi e profitti. Come Grossman prima di lui, Mattick enfatizza (il fatto) che le crisi forniscono opportunità rivoluzionarie e reazionarie, ma solo la lotta di classe può determinare quale via verrà imboccata. Se il capitalismo si trasformerà in fascismo o in socialismo non è stabilito a priori50. Negli ultimi anni, David Yaffe ha presentato nuovamente l'analisi economica di Marx e applicandola alle crisi attuali. L'ampiezza della sua analisi va oltre l'ambito di questa discussione. Per quanto riguarda la teoria della crisi, oltre ai punti analoghi a quelli espressi da Grossman e Mattick, Yaffe aggiunge i seguenti. Primo, dal momento che una crisi si manifesta in termini di prezzi e profitti, vi è la tendenza a considerare prezzi e profitti quali cause delle crisi. Per esempio, dal momento che, per definizione, il profitto è la differenza tra le vendite e i costi, qualunque cosa provochi una caduta della redditività [cioè delle vendite] comporterà necessariamente una caduta dei profitti. Ma una parte dei costi è costituita semplicemente dal prezzo di alcune merci, come le materie prime ecc... (e, di conseguenza, dalle vendite di altre industrie), perciò, qualsiasi declino nella profittabilità tende a essere attribuito alla parte rimanente dei costi, ossia ai salari, e da qui si arriva velocemente alla tesi secondo cui gli “alti” salari sono la causa del declino. In questo modo un effetto si trasforma in una causa. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la stagnazione, la disoccupazione crescente, l'inflazione, l'aumento della spesa statale e l'inasprirsi delle lotte di classe in tutto il mondo. Ognuna di queste, sostiene Yaffe, è una manifestazione dello sviluppo della crisi, non una causa. Via via che il saggio di profitto cade, l'accumulazione rallenta e la disoccupazione aumenta. I capitalisti aumentano i prezzi per cercare di mantenere la propria profittabilità, dando così vita a una spirale inflazionistica. Contemporaneamente, lo Stato è obbligato ad intervenire, da un lato per

49

Ibid., p. 37.

50

Ibid., p. 43.

45


mantenere l'occupazione a livelli politicamente accettabili e, dall'altro, per sovvenzionare o anche per rilevare le industrie in via di fallimento. La spesa dello Stato, quindi, aumenta rapidamente. Ma il debito dello Stato accelera solamente l'inflazione, mentre il sostegno ai livelli occupazionali impedisce che i salari diminuiscano abbastanza da ristabilire la profittabilità. In questo modo la contraddizione si approfondisce e diventa sempre più difficile inventarsi politiche [economiche] che “funzionino”. Questo è, secondo Yaffe, lo stadio in cui ci troviamo adesso, in tutto il mondo capitalistico51.

C. Lotta di classe e Profit Squeeze

Ogni crisi evidenzia l'importanza dei profitti nella produzione capitalistica e solleva nuovamente il problema di cosa regola la profittabilità. Ogni declino della profittabilità, a sua volta, tende, prima o poi, ad essere ricondotto agli alti salari. Ora, è certamente vero che una riduzione dei salari, a parità di altre condizioni, farà aumentare i profitti, ma ciò non significa che un declino dei profitti sia necessariamente dovuto a salari eccessivi. Il problema è, come possiamo distinguere la causa dall'effetto? Nell'analisi di Marx ci si aspetta che un aumento del salario reale sia accompagnato da un aumento nel tasso di sfruttamento, cosicché, da solo, l'aumento del salario non contribuirà alla caduta della profittabilità. In termini marxisti perciò, solo quando l'aumento dei salari reali è abbastanza elevato da abbassare realmente il tasso di sfruttamento possiamo dire che la caduta della profittabilità sia dovuta (in parte, almeno) ad “alti salari”. Marx, ovviamente, rifiuta questa spiegazione sulla base del fatto che l'accumulazione di capitale stessa definisce i limiti oggettivi entro i quali le lotte per il salario sono confinate cosicché, in generale, il saggio di sfruttamento aumenta. Infatti, egli osserva che il saggio di profitto cade perché i lavoratori sono più sfruttati, non [perché lo sono] meno. A livello più astratto l’equivalente in denaro del saggio di plusvalore S/V è il rapporto tra “profitti” e “salari” Π/W, per cui una caduta del rapporto profitti/salari potrebbe essere vista come prova di un eccessivo aumento dei salari reali. Ma questo ragionamento è falso. Anzitutto, è assolutamente possibile che i lavoratori siano più sfruttati e che, di conseguenza, producano un maggiore plus-prodotto, mentre, allo stesso tempo, i capitalisti siano incapaci di vendere questo maggior prodotto e di tradurlo in profitti. Per esempio, in una crisi causata dalla caduta del saggio di profitto (“a la Marx”) mentre alcuni capitali escono dal mercato altri perderanno compratori per parte dei loro prodotti così i prezzi diminuiranno e con essi

51 

Yaffe, op. cit., pp. 5-32. Niente è più assurdo....che spiegare la caduta del saggio di profitto con un aumento del tasso dei salari

sebbene questo possa essere eccezionalmente il caso” (Marx, Il Capitale/V.I, Cap. XVI, p. 240).

46


diminuiranno i profitti e il rapporto profitti/salari. Per compensare questo, i capitalisti che sopravvivono faranno lavorare più duramente i lavoratori e li sfrutteranno di più, nel tentativo di abbassare i costi [di produzione] e di restare sul mercato. Negli spasimi di una crisi, perciò, un rapporto profitti/salari in diminuzione sarà accompagnato da un aumento del saggio di sfruttamento, inoltre, in questo contesto, entrambi sono sintomi, non cause, della crisi. Ma il modello descritto non può darsi prima dello scoppio di una crisi. Non potrebbe, quindi, essere legittimo vedere il rapporto profitti/salari come indice del saggio di sfruttamento durante periodi non di crisi? Se così fosse, una diminuzione del rapporto profitti/salari precedente una crisi, sarebbe la prova evidente che i lavoratori hanno avuto successo nell'aumentare i propri salari reali abbastanza velocemente da abbassare il saggio di sfruttamento e, di conseguenza, da accelerare la crisi. E' precisamente questa identificazione teorica di Π/W come indice di S/V che definisce la branca delle teorie marxiste della crisi nota come “profit squeeze”, come stabilito da Glyn, Sutcliffe e Rowthorn in Gran Bretagna e da Bobby e Crotty negli Stati Uniti52. Apparentemente la loro tesi si basa sull'osservazione empirica che le crisi sono precedute da una caduta nel rapporto profitti/salari, ma questa stessa osservazione viene fatta frequentemente anche dagli economisti borghesi, come nel caso, recentemente, di William Nordhaus del Brooking Institute53, comunque, a differenza di Nordhaus, i marxisti fanno un passo in avanti identificando il rapporto profitti/salari osservato con il saggio di sfruttamento. Da questo consegue che il declino nella profittabilità è effettivamente un'espressione della caduta del saggio di plusvalore che, a sua volta, può essere dovuta solo ad un aumento sufficientemente elevato dei salari reali. Ironicamente, laddove l'economista borghese Nordhaus assegna la responsabilità del declino al “costo del capitale” i marxisti lo attribuiscono a “questioni del lavoro”! In un certo senso, gli argomenti [dei sostenitori] del “profit squeeze” sono vecchi tanto quanto il capitalismo. Nessuno sa meglio dei capitalisti quanto siano importanti i profitti per il sistema e per ovvie ragioni nessuno è stato più rapido di loro nell'indicare nei salari troppo elevati la causa dell'accelerazione della crisi. In questo senso,ad ogni crisi emerge una versione capitalistica del “profit squeeze” . Ad un livello leggermente più astratto, gli economisti borghesi hanno a lungo sostenuto che una profittabilità decrescente sia dovuta al fatto che i lavoratori sono in grado di aumentare la loro “quota” di prodotto nazionale netto (a spese della “quota” dei capitalisti, ovviamente). Commentando due suoi contemporanei, il francese Frederic Bastiat (anni '40 dell'800) e l'americano Henry Carey (anni '60 dell'800), Marx osserva che benché “essi accettino il fatto che il 52

Cfr. Andrew Glyn e Bob Sutcliffe, British Capitalism, Workers and the Profit Squeeze, (London: Penguin

Books, 1972); Bob Rowthorn, Mandel's late captialism, New Left Review, 98, Luglio-Agosto 1976, pp. 59-83; e Raford Boddy e James Crotty, Class conflict and macro-policy: the political business cycle, Review of Radical Political Economics, Vol. 7, No. 1,1975. 53

William Nordhaus, The falling share of profits, Brookings Papers, 1976, No. 1, pp. 169-208.

47


saggio di profitto diminuisce... essi [in modo erroneo] lo spiegano come dovuto semplicemente e interamente alla crescita di valore della quota che va ai lavoratori...”54 Da molti punti di vista, l'attuale teoria marxista del “profit squeeze” è simile a quella di Bastiat e Carey. Erik Olin-Wright, nella sua indagine sulle teorie marxiste della crisi, riassume la versione moderna nel modo seguente:

“La questione fondamentale è molto semplice: la quota relativa di reddito nazionale che va ai lavoratori e ai capitalisti è quasi interamente una conseguenza delle rispettive forze nella lotta di classe. Nella misura in cui la classe dei lavoratori sviluppa un movimento abbastanza forte da ottenere aumenti di salario che superano gli aumenti di produttività, il saggio di sfruttamento avrà la tendenza a diminuire e così pure il saggio di profitto (sarà “ristretto” dal costo dei crescenti salari). Tale declino nei profitti conduce ad un corrispondente declino degli investimenti e così anche a minori aumenti della produttività. Il risultato finale è la crisi economica”55.

La versione marxista moderna del “profit squeeze” perciò, segue la logica economica di Bastiat e Carey nel considerare la caduta tendenziale del saggio di profitto come conseguenza della caduta del saggio di sfruttamento, ma vi è una differenza politica cruciale tra le due versioni perché, laddove gli economisti borghesi denunciano questa situazione, i marxisti la celebrano. La teoria marxista del “profit squeeze” rende la lotta di classe sulle condizioni di lavoro il fattore cruciale che (in ultima istanza) determina il corso della riproduzione capitalistica. Per questi marxisti è segno di speranza il fatto che lo sviluppo del sistema abbia raggiunto una fase in cui i lavoratori sono abbastanza forti da far precipitare le crisi. Se la classe dei lavoratori è capace mettere in ginocchio il sistema attraverso le proprie richieste salariali, allora può essere già abbastanza forte da resistere agli attacchi al salario reale che sono parte integrante del processo di “recupero” [del sistema]. Essi forse possono essere abbastanza forti anche per “risolvere” la crisi subentrando nel potere politico. Il grande vantaggio di questa teoria è la sua semplicità. Anche nel capitalismo abbiamo “al comando” la politica, così, per capire la storia del capitalismo, dobbiamo analizzare le politiche concrete della lotta di classe e non qualche astratta legge di sviluppo. L'accumulazione capitalistica è infatti limitata internamente, ma è il lavoro e non “il capitale stesso” (come sostiene Marx) che rappresenta la prima barriera all'accumulazione. (Ma) la semplicità è davvero un vantaggio solo se la spiegazione semplice è anche quella corretta.

Di prodotto nazionale netto.(NdT)

54

Marx, Grundrisse, op. cit., p. 755.

55

Wright, op. cit., p. 216.

48


Se fosse sbagliata, lo svantaggio sarebbe, alla fine, il suo fallimento. E così torniamo al punto teorico centrale e ci chiediamo: possiamo davvero parlare di saggio di sfruttamento in diminuzione a fronte di una caduta verificata del rapporto profitti/salari? In altre parole, Π/W è davvero un indice di S/V? Per rispondere a queste domande, dobbiamo delineare le forme monetarie di S e V. Poniamoci alla fine di un ciclo di riproduzione del capitale totale. A partire dalle entrate ricavate dalle vendite possiamo progettare come spendere questa somma di denaro. Supponiamo che le vendite totali (M') ammontino a 100.000$. Di questa somma i capitalisti mettono da parte 40.000$ per rimpiazzare i costi delle materie prime e dei macchinari utilizzati (C*) per produrre le merci che sono state vendute, e 20.000$ per rimpiazzare i salari anticipati (V*) ai lavoratori impiegati nel processo di produzione. La somma rimanente - 40.000$ - è quello che i capitalisti stessi chiamano profitto lordo sulle vendite (S*).costituito dalle entrate delle vendite delle merci, meno le materie prime e i costi della manodopera per produrrle. Dal punto di vista del sistema nel suo insieme, questi profitti lordi rappresentano l'equivalente in denaro del prodotto in surplus. Dal punto di vista marxiano, i “profitti lordi” (S*) rappresentano l'equivalente in denaro del tempo di pluslavoro dei lavoratori produttivi, mentre i salari (V*) di questi lavoratori rappresentano l'equivalente in denaro del tempo di lavoro necessario. L'indice reale dello sfruttamento dei lavoratori nella produzione - ovvero il saggio di plusvalore - è pertanto

S*/V*= 40.000/20.000 = 200%

Ma ai capitalisti le cose sembrano molto diverse. Dai profitti lordi essi devono ancora togliere il denaro speso per cercare di vendere le merci. Queste spese di vendita, come le chiamano i capitalisti, consistono nei costi dei materiali (C*j) e della forza-lavoro (V*j) [impiegati] per trasformare le merci prodotte in denaro derivante dalle vendite. Inoltre, essi devono anche dedurre le tasse indirette T (sulle vendite, licenze e tasse di proprietà, ecc...) perché dal loro punto di vista anche queste sono una “spesa” dell'attività. Ciò che resta dopo tutte queste deduzioni, viene chiamato reddito aziendale netto* (T T). Se le 

Uso il termine lavoratori della produzione perché non è possibile sviluppare in modo adeguato il concetto di

forza-lavoro produttiva dentro i confini di questo documento. Similmente, uso il termine merce per comprendere sia i beni che servizi che vengono venduti per denaro. La distinzione tra forza lavoro produttiva e non produttiva non si riduce a una semplicistica distinzione tra beni e servizi 

Net corporate income. Il reddito aziendale netto sarà a sua volta diviso in imposte sul reddito aziendale,

rendita pura (opposta alla svalutazione e manutenzione degli edifici e attrezzature, che è, per l'esattezza una parte dei costi di produzione o di spese di vendita), interesse/dividendi, e profitti non distribuiti. **Oltre a/a parte la produzione statale reale.

49


spese di vendita (sono)

C*j+V*j = 15.000$ + 10.000$

e le tasse indirette T = 5.000$, allora il reddito aziendale netto è Π = 10.000$. Dal punto di vista della classe capitalista tanto le spese di vendita quanto le tasse indirette sono spese vive dell'attività. Del resto anche dal punto di vista del sistema nel suo complesso esse possono essere considerate spese strettamente necessarie dal momento che, sia il capitale commerciale (commercianti all’ingrosso e al dettaglio), che lo Stato, svolgono funzioni indispensabili, ma il fatto che queste siano spese indispensabili non altera in alcun modo il fatto che esse siano forme derivate di plusvalore. È necessario produrre il surplus prima che esso possa essere venduto; il venderlo cambia solamente il titolo di proprietà di questo prodotto, non la sua entità [di valore]. La misura in cui parte del prodotto in surplus viene assorbito dalle attività relative al cambio di titolo di proprietà (comprare e vendere) e dalle attività dello Stato è solo un indice delle spese di distribuzione e legittimazione del sistema. Sfortunatamente,

i

teorici

del

profit-squeeze

non

colgono

questo

punto

cruciale.

Immancabilmente essi identificano il tasso di plusvalore con Π/W, come rapporto tra reddito aziendale netto e [l'insieme di] tutti i salari. Nei termini di quanto illustrato sopra, Π = 10.000$ e W = salari dei lavoratori produttivi + salari e retribuzioni dei venditori, ecc... = 20.000$ + 10.000$ = 30.000$ cosicché Π/W = 10.000/30.000 = 33,3%. Questo è molto diverso dal reale saggio di plusvalore S*/V* = 200%. Nel confondere Π/W con S*/V*, il vero saggio di sfruttamento in qualsiasi arco di tempo viene ampiamente sottostimato, come mostrano gli esempi di cui sopra (i cui ordini di grandezza corrispondono abbastanza da vicino agli effettivi ordini di grandezza reali che ho ricavato sulla base di un'analisi molto più complessa e dettagliata dell'economia statunitense. La cosa peggiore è che, Π/W ha una tendenza a decrescere nel corso del tempo, relativamente al vero tasso S*/V*, in quanto, in tutte le economie capitalistiche, tanto le spese di vendita quanto le

Oltre a/a parte la produzione statale reale.



Questa critica importante della logica del profit squeeze è fatta anche in una recensione di Boddy-Crotty

(op. cit.) apparsa su The Communist, Vol. 1, No. 2. 

Nella pratica reale, ricostruire l'equivalente in denaro di S*, V* e W è molto più complicato di quanto

indicato sopra. In effetti, questo comporta la trasformazione dei dati sul reddito nazionale, basati sulle categorie keynesiane, in dati basati sulla categoria di valore di Marx. Questo è un obiettivo teoricamente ed empiricamente difficile. Tuttavia, è fattibile e nei fatti assolutamente necessario. Sulla base di calcoli piuttosto dettagliati (che non posso ovviamente presentare qui), ho scoperto che il vero saggio di plusvalore S/Vp* aumenta dal 1900 al 1972, mentre Π/W cade nello stesso periodo. I “costi” crescenti e le tasse crescenti motivano gran parte di questa discrepanza.

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tasse indirette sono aumentante considerevolmente e ciò è particolarmente vero dalla Seconda Guerra Mondiale. È ingannevole, perciò, spiegare la caduta osservata nel rapporto profitti-salari (Π/W) con una presunta caduta del saggio di sfruttamento. Al contrario, è possibile piuttosto che un saggio di sfruttamento in aumento, accompagnato da un saggio di profitto in declino “a la Marx”, si combini con un saggio di accumulazione decrescente ed un aumento della disoccupazione. Alla luce di questo, la crescente rivalità capitalistica e il crescente intervento dello Stato appaiono come risposte al peggioramento della crisi, non cause di essa. Empiricamente, tali risposte si manifestano come aumento delle spese di vendita e delle imposte, che sembrano far diminuire Π/W anche se S*/V* sta aumentando. Questa, in effetti, è la spiegazione di Yaffe dell'attuale crisi mondiale. Vale la pena ripetere che un declino osservato nel rapporto profitti/salari (Π/W) non fornisce, di per sé, alcuna spiegazione. Per andare oltre la pura osservazione, serve una teoria delle determinanti del profitto per capire quali fattori sono responsabili dell'andamento empirico, ma dobbiamo anche sapere in che modo le categorie empiriche corrispondono a quelle teoriche, perché altrimenti finiremo per indicare la causa sbagliata. Questo è proprio l'errore compiuto dalla scuola del “profit squeeze”: essa si basava sulla teoria del plusvalore, ma sbagliava completamente nel considerare la differenza tra questa complessa e potente categoria marxiana e la categoria borghese di “profitto” (margine operativo netto). In questo modo attribuiva erroneamente il declino secolare della profittabilità - e di conseguenza l'attuale crisi mondiale – ad una contrazione dei profitti derivante dai salari [alti].

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Conclusioni

La storia ci insegna che il capitalismo è periodicamente soggetto a rotture nel suo tessuto economico e sociale ed in questi periodi le tensioni sociali proprie del sistema si stagliano in forte contrasto. Le banalità borghesi delle varie ortodossie iniziano ad andare strette, ad assumere un'aria disperata e la lotta tra le classi irrompe allo scoperto. Ancora una volta impariamo questa lezione della storia del capitalismo . Il boom del dopoguerra che ci avrebbe dovuto condurre attraverso porte dorate nel XXI secolo è ora ufficialmente morto ed in tutto il mondo capitalistico abbondano le crisi economiche e politiche. La concorrenza internazionale si intensifica a causa della lotta dei capitalisti per sopravvivere; banche e giganti industriali falliscono, il sistema monetario internazionale stesso passa barcollando da una crisi all'altra; la disoccupazione aumenta mentre i prezzi continuano a salire e ovunque si intensifica la lotta di classe. Come facciamo a comprendere questa ultima crisi del capitalismo? Certamente dobbiamo studiarla ed analizzarla in dettaglio, non solo a livello locale o nazionale, ma su scala mondiale, ma questo, di per sé, non sarà mai abbastanza. Dobbiamo capire allo stesso tempo che le crisi non sono nuove per il capitalismo. Le loro periodiche e devastanti apparizioni sono state riconosciute, analizzate e comprese teoricamente da tanti altri molto prima che noi ci facessimo queste domande. Capire questo significa capire la necessità di studiare le spiegazioni dei nostri predecessori, affinché se ne possa beneficiare e costruire a partire da esse. Se l'obiettivo è rovesciare il sistema, allora è imperativo comprenderlo. Il prezzo dell'ignoranza è il fallimento. L'obbiettivo di questo documento era quello di presentare e analizzare le posizioni fondamentali che sono emerse storicamente sulla questione delle crisi capitalistiche. Ho cercato di essere il più rigoroso possibile in questo compito e allo stesso tempo non ho dato per scontata alcuna conoscenza pregressa sulla questione. Ho cercato di presentare non solo ciò che viene affermato da un particolare tipo di teoria, ma anche perché si sostiene quella determinata argomentazione, come tale argomentazione si sia sviluppato storicamente e quali posizioni politiche sono state associate ad essa nelle varie fasi. Piuttosto che riassumere ciò che è stato trattato nel corpo di questo documento, vorrei invece concentrarmi su tre lezioni che credo siano implicite nella storia delle teorie sulla crisi. La prima lezione riguarda il rapporto tra teoria e politica. Ogni posizione teorica suggerisce un certo modo di cambiare il sistema e in tal senso, ogni teoria ha implicazioni politiche per la pratica che si basa su di essa. Ma è importante rendersi conto che non può essere fatta alcuna connessione semplicistica tra un particolare insieme di concetti teorici e le posizioni politiche che ci si aspetta siano ad essi collegate. Prendiamo, per esempio, il caso della teoria del sottoconsumo. Tra chi la propone ci sono reazionari come Parson Malthus, socialisti piccolo-borghesi come Simone de Sismondi, attivisti rivoluzionari come Rosa Luxemburg e l'intera scuola moderna del

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“capitalismo monopolistico” basata sul lavoro di Paul Sweezy e Paul Baran. D'altro canto tra coloro che si oppongono alla teoria del sottoconsumo vi sono teorici borghesi di tutti i tipi, da Ricardo in avanti, ma anche Marx e Lenin. Né tra i sostenitori, né tra gli oppositori della teoria del sottoconsumo si può evidenziare una posizione politica comune e gli stessi argomenti possono essere usati per ogni altra teoria della crisi. La seconda lezione importante riguarda la teoria e i “fatti”. E' un errore molto serio supporre che i “fatti” siano in qualche modo dati a prescindere da qualsiasi cornice concettuale. Anche un breve studio del calcolo storico del reddito nazionale dimostra rapidamente che i dati con i quali ci confrontiamo, in qualsiasi arco di tempo, non sono che la rappresentazione numerica di particolari categorie teoriche e questi dati si basano ovviamente su eventi del mondo reale, ma il modo in cui questi eventi vengono letti ed elencati dipende da una teoria sul mondo. Il modello che emerge sulla base delle categorie keynesiane (che sta alla base dell'attuale calcolo del reddito nazionale) non è per niente lo stesso di quello che emerge sulla base delle categorie marxiste. Nella discussione sulle teorie del “profit squeeze”, ad esempio, abbiamo visto quanto fosse importante non confondere il rapporto profitti/salari (Π/W) con il saggio di sfruttamento (S/V). Sarebbe quindi una terribile perdita abbandonare una teoria corretta [solo] perché non corrisponde a “fatti” basati su categorie completamente differenti. La terza lezione è stata già discussa all'inizio di questa parte. In sintesi, nell'analizzare la crisi non è sufficiente studiare solo la sue manifestazioni fenomeniche, è ugualmente necessario studiare le spiegazioni delle crisi, sia passate che presenti. Altrimenti è molto probabile reinventare ciò che, semplicemente, era già stato inventato e fare gli stessi errori che altri prima di noi hanno [già] fatto. Si dice spesso che coloro che ignorano la storia sono condannati a ripeterla. A questo bisognerebbe forse aggiungere che coloro che ignorano la teoria sono condannati a ricostruirla.

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La crescita e la caduta del welfare state negli USA° Anwar M. Shaikh e E. Ahmet Tonak

Introduzione

Le moderne democrazie capitaliste sono caratterizzate dall’aumento del Welfare State. In Europa il welfare venne introdotto tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo attraverso i programmi di sussidio sociale e pensionistico che in seguito, tra il 1930 ed il 1950, venne ampliato da tutta una serie di programmi destinati al sostegno sociale. Al contrario lo stato americano iniziò a sperimentare i sussidi sociali e l’assistenza pubblica durante la Grande Depressione degli anni 30 ma vennero notevolmente ridotti nel periodo postbellico (Skocpol 1987). Tuttavia nel dopoguerra il ruolo dello stato nel Welfare crebbe rapidamente in tutti i paesi capitalisti avanzati come dimostra il tasso di

crescita significativo delle spese statali e della tassazione ma in

particolare delle spese sociali. Purtroppo quando cerchiamo di riflettere sul finanziamento del welfare state veniamo fuorviati in quanto ci concentriamo esclusivamente sull’aumento delle spese sociali anche se la tassazione sia cresciuta velocemente allo stesso modo (OCSE 1985, 16-17). Così quando si prende in considerazione l’impatto sulle entrate degli operai, sarebbe più appropriato esaminare il salario sociale netto ossia le spese per l’assistenza ricevuta dagli operai cui vanno sottratte le tasse che hanno pagato. Un saldo positivo, rappresenta un supplemento ai salari degli operai, un trasferimento netto dallo stato agli operai; ma quando è negativo rappresenta una tassa netta sugli operai ossia un trasferimento nella direzione opposta. Una delle principali rilevazioni che abbiamo effettuato è che nel periodo postbellico tra il 1952 e il 1997 il salario sociale netto, come percentuale della retribuzione degli occupati, è al contrario molto modesto, raramente fluttua tra un ± 4% ed è in media un misero 0.6% (Figura 3). In effetti nella maggior parte delle nazioni i flussi del salario sociale si diffondono nuovamente ed in maniera allargata verso salari e stipendi nel loro complesso ed anche in questi paesi l’effetto redistributivo all’interno dei lavoratori appare decisamente limitato (OCSE 1986, cap. 7, sezione B, 203). Gli andamenti anno per anno del salario sociale netto sono fortemente condizionati dal livello di disoccupazione in quanto questa influenza le spese statali per il welfare, il sussidio di disoccupazione ecc. e le tasse pagate dagli operai. Mentre a sua volta la disoccupazione dipende dalle lunghe ondate di crescita accelerata e di rallentamento caratteristiche delle economie capitaliste. Così negli Stati Uniti quando al lungo boom del 1947-1968 è seguita dal 1969 al 1989 una lunga fase di rallentamento e di stagnazione il conseguente aumento della disoccupazione strutturale, verificatosi nell’ultimo periodo, ha automaticamente innescato un aumento delle spese statali ed un declino simultaneo delle imposte. Combinato con l’aumento delle spese per la difesa nello stesso periodo il deficit di bilancio statale come percentuale del PIL aumentò di quasi sei volte.

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La destra fu in grado di trarre vantaggio da questo squilibrio fiscale strutturale e dalla lievitazione del debito statale di questo periodo concentrando il suo attacco al welfare state. Vi fu una immediata restrizione dell’assistenza pubblica e del sussidio di disoccupazione e vennero sistematicamente indeboliti i sindacati. In questo periodo diminuirono rapidamente gli iscritti ai sindacati, i salari reali declinarono: le concessioni degli operai verso la controparte e gli arretramenti divennero una cosa normale e crebbe immediatamente il numero di lavoratori a salari modesti (Rosemberg 1987). D’altro canto nonostante i tagli alle spese sociali e la riduzione delle tasse alle imprese sono state mantenute le spese militari. Queste politiche hanno ottenuto gli effetti desiderati, L’era di Reagan e Bush ha portato sin dagli inizi del 1982 ad un aumento sensazionale dei profitti. La successiva epoca neoliberista di Clinton, dal 1992 fino ad oggi, ha manifestato profitti egualmente favorevoli benché come vedremo vi fu un moderato attacco ai lavoratori una volta ripristinate le condizioni favorevoli all’accumulazione di capitale (Albelda 1999,13; Mishel et Al. 1999).

La Misura del Salario Sociale

Ad un livello molto astratto, possiamo considerare il prodotto netto di un paese suddiviso in una parte che va ai lavoratori e ciò che rimane, il plusprodotto, se ne appropria il capitale, ma effettuando una analisi più concreta risulta fondamentale esaminare il ruolo dello Stato nel modificare tale ripartizione del prodotto netto. L’accumulazione capitalista dipende dal livello dei profitti mentre gli standard di vita degli operai dipende dal loro accesso al consumo, alla sanità, all’istruzione e così via. Il welfare state moderno interviene attraverso la tassazione di entrambi mentre ridistribuisce simultaneamente le spese verso i due soggetti. Intendiamo in primo luogo focalizzare l’attenzione sul coinvolgimento dello stato nella tassazione e nelle spese destinate alla redistribuzione di una parte del plusprodotto nazionale alla, o dalla, classe operaia. Prendendo in esame il nostro concetto di classe, definiamo la “popolazione lavoratrice” come costituita da quei membri della popolazione che non hanno la proprietà del capitale come fonte principale di reddito. Il nostro obiettivo è quello di accertare l’impatto dell’azione di governo sulle entrate e sui consumi di tale popolazione utilizzando la contabilità sia della spesa diretta ad essa sia delle tasse dedotte dal flusso delle entrate relative alla popolazione lavorativa. Per la contabilità delle entrate, dopo la tassazione, è importante notare che esistono due metodi tradizionali. Il primo, che riguarda l’incidenza osservata della tassazione, consiste nel calcolare le entrate percepite dagli operai dopo aver dedotto tutte le tasse dai salari lordi. Questa è la misurazione che intendiamo effettuare. Ma nelle analisi economiche si tende frequentemente a cercare ed a stimare le entrate che gli operai potrebbero ipoteticamente conseguire in assenza di una particolare tassazione. Quest’ ultima misura relativa all’ incidenza del mutamento della

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tassazione viene adottata da Miller (1988, 1989) e da molti altri. Entrambe queste rilevazioni sono fondamentali ma pongono differenti questioni piuttosto importanti (Shaikh e Tonak 1987,193, nota 8). Quando abbiamo esteso il nostro studio utilizzando la seconda metodologia sono state rafforzate le nostre conclusioni sulla insufficienza del salario sociale netto in quanto le risultanti (controfattuali) della sua misurazione sarebbero state decisamente molto più negative

e

sicuramente simili a quelle riportate da Miller56. Da lato dei benefit elargiti dal governo ai lavoratori abbiamo conteggiato tutte le spese per il salario sociale (sanità, istruzione, welfare, alloggi, trasporti, parchi e forme ricreative, sussidi agli operai ecc) ma sono state escluse le altre spese governative (sussidi alle imprese, spese generali per l’amministrazione, per la difesa ecc)57. Ciò è in aperto contrasto con la metodologia convenzionale che tende a considerare tutte le spese governative come benefit diretti alla società, così che un aumento delle spese militari equivale ad un aumento delle spese per welfare state. Dal lato della tassazione conteggiamo tutte quelle imposte che sono state riscosse direttamente dai lavoratori (tasse sulle entrate, tasse per la Previdenza Sociale, sulla proprietà ed altri tipi di tassazione) ma escludiamo quelle riscosse dalle imprese (tasse sui salari, sui profitti ecc)58. Come sottolineato in precedenza ciò che ci interessa principalmente è l’incidenza delle tasse osservate e non il confronto tra il livello registrato e un ipotetico parametro alternativo. Quest’ultimo

56

Dal lato delle spese sociali se fossero stati conteggiati i benefit ed i servizi per i veterani, le pensioni

militari e i disabili (entrambe queste misure sono state da noi escluse in quanto costi della guerra) e dal lato delle tasse se avessimo spostato il 50% delle tasse delle imprese (tasse sulle entrate delle corporation e le tasse indirette sulle imprese) alla contabilità dei lavoratori, la nostra stima del salario sociale netto dovrebbe porsi tra quelle rilevate da Miller dell’SSA (Social Security Administration) ed il metodo di O’Connor (Miller 1989, 85 Tabella 3) 57

Le spese che sono state escluse sono di due tipi 1) Esecutivo Centrale, attività legislative e giudiziarie,

affari internazionali, spaziali, difesa nazionale, sicurezza, benefit ai veterani e per l’agricoltura che sono le spese generali per la riproduzione ed il mantenimento del sistema (ciò che Marx chiama faux frais (spese accessorie) della società capitalista [Marx 1977, 446 (Libro I, Cap. 11. pag. 374. Editori Riuniti 1974)]; e 2) spese per lo sviluppo economico, per direttive e servizi, per interessi ed altre non distribuibili rappresentate dalle spese destinate esclusivamente alle piccole imprese, quelle relative alle attività amministrative ed il pagamento degli interessi alle categorie più elevate dei contribuenti. Tutte le spese menzionate vengono quindi escluse dalle entrate dei lavoratori e dal consumo. 58

Sono state esclusi due tipi di tasse: le imposte dirette ed indirette sugli utili di impresa, quelle sul

patrimonio e sulle donazioni. Poiché quelle del primo gruppo vengono riscosse dalle imprese e quelle del secondo gruppo in gran parte da coloro le cui entrate non sono da lavoro o dalla ricchezza entrambe vengono escluse dalla contabilità dei lavoratori.

56


riguarda la questione importante della “traslazione di imposta”59 come controfattore che è corretta, ma è una questione diversa rispetto a quella più apprezzabile su cui cerchiamo di concentrarci. Sorge un ulteriore problema poiché una parte delle spese sociali (E1) e delle tasse (T1) è associata interamente agli operai mentre un’altra (E2;T2) include sia gli operai che i non operai. Per trattare tale questione assumiamo che gli operai ricevano una parte di quest’ultima in proporzione alla quota delle entrate da lavoro come entrate personali (LS). La differenza tra le spese sociali nel loro complesso ricevute dai lavoratori e le tasse pagate dagli stessi rappresenta il salario sociale netto (NSW). Infine confrontiamo questo salario sociale netto con la remunerazione totale degli occupati (EC) che rappresenta il costo totale dei capitalisti relativo ai lavoratori assunti (Tonak 1984)60. Questo costituisce il salario lordo degli operai e comprende stipendi, salari, contributi ed altre entrate da lavoro. NSW = NSW1 + NSW2 = (E1– T1) + (E2 – T2) LS = Salario Sociale Netto.

E1 = Spese governative per la formazione nel lavoro e nei servizi, servizi per la casa e per la comunità. Sostegno alle entrate, Sicurezza e welfare (con l’esclusione delle voci minori come il sostegno ai disabili dell’esercito e le pensioni militari, che vengono considerate come costi di guerra).

E2 = Spese governative per Istruzione, Sanità ed ospedali, attività culturali e ricreative, energia, risorse naturali, trasporti e servizi postali.

T1= Tassazione relativa ai contributi totali (degli occupati e del datore di lavoro).

T2 = Tasse sulle entrate personali, licenze per i motoveicoli, tasse sulla proprietà (principalmente sulla casa) ed altre tasse e non imponibili (una categoria estremamente limitata che comprende il rilascio dei passaporti, multe ecc).

LS = la quota del lavoro = le quote di salari e stipendi come entrate totali personali.

59

La translazione di imposta è il trasferimento di un imposta da un contribuente di diritto ad un altro,

contribuente di fatto. Un esempio potrebbe essere l’IVA trasferita dal venditore al compratore. (NdT) 60

Secondo la terminologia marxiana questi costituiscono il capitale variabile (nominale) se facciamo

astrazione dalla distinzione tra lavoro produttivo ed improduttivo. Più precisamente, dovremmo eliminare dalla retribuzione dei lavoratori le entrate degli impiegati e dei dirigenti d’azienda ed includere una sorta di salario equivalente percepito dalla maggior parte dei lavoratori autonomi, ma dato che queste due correzioni sembrano compensarsi, noi non le prendiamo in considerazione in questo studio.

57


Tali derivazioni ci portano ad osservare che cambiamenti nei dati relativi alla quota dei lavoratori incidono solo in parte sul valore del salario sociale netto61. La tabella1 mostra in maniera dettagliata la derivazione del salario sociale netto ed illustra proprio le misure in questione per il 1964. Una serie di ulteriori dettagli per il periodo 1952-1997 sono reperibili in Appendice62. Vale la pena sottolineare che, come risulta dalla Tabella1, in tutto il periodo postbellico il valore di NSW1 è positivo mentre quello di NSW2 è negativo (e rappresenta quindi la tassazione netta sui lavoratori). In effetti il sostegno diretto alle entrate dei lavoratori eccede sempre le tasse dirette (stato sociale) prelevate da esse, mentre le spese generali per la sanità, istruzione ecc è sempre inferiore, anche se di poco, alla tassazione generale sulle entrate e sulla proprietà (vedi Appendice). Per l’intero periodo la parte relativa alla tassazione netta sui lavoratori che emerge da queste ultime cancella in pratica i benefit destinati ad essi rappresentati dalle prime. Tabella 1 Stime del Salario Sociale (1964) on miliardi di dollari

Spese

Totali

Lavoratori

Totale Spese Gruppo I: destinate interamente ai lavoratori = E1

34,08

34,08

Sostegno alle entrate, Previdenza e welfare (escluso settore militare)1

29,88

29,88

Abitazioni e servizi per la comunità

3,50

3,50

Servizi e formazione per i lavoratori

0,70

0,70

Spese per il Gruppo parzialmente annoverabile ai lavoratori = E2 x LS

36,07

Totale Spese Gruppo II = E2

50,02

Istruzione

28,20

28,20

Sanità ed Ospedali

5,10

3,57

Attività ricreative e culturali

1,20

0,84

Energia

1,40

0,98

Risorse Naturali

2,10

1,47

Servizi Postali

1,10

0,77

Trasporto Passeggeri = Trasporti x GCONS (Gas Consumption)

10,92

7,64

Trasporti

15,60

Consumo di Gasolio per automobili = GCONS2

0,70

61

Come indicato nella nota 4, i valori dettagliati della quota relativa ai lavoratori che include gli stipendi dei

dirigenti di impresa e dei manager cui va aggiunto l’equivalente in salario della maggior parte dei lavoratori autonomi, non dovrebbe cambiare in maniera significativa la quota dei lavoratori al contrario dovrebbe influenzare l’NSW2. 62

Abbiamo deciso di non pubblicare questa lunghissima tabella ricca di valori ma è reperibile nell’articolo

originale in inglese presente nel sito http://homepage.newschool.edu/~AShaikh/

58


E1 + E2 x LS = Benefit ed entrate totali ricevute dai lavoratori

70,15

Tasse Tasse del Gruppo I pagate interamente dai lavoratori = T1

30,08

30,08

Contributi per la previdenza

30,08

30,08

Tasse del Gruppo II: parzialmente annoverabili ai lavoratori = T2 x LS Tasse Totali del Gruppo II = T2

43,57 60,43

Tasse sul totale delle entrate = Tasse federali, statali e locali sulle 49,83

35,93

entrate Tasse federali sulle entrate

45,83

33,04

Tasse statali e locali sulle entrate

4,00

2,88

Altre tasse ed imposte varie3

1,10

0,79

Motoveicoli e patenti

1,10

0,79

Tasse sulla proprietà personale

8,40

6,06

Altri tipi di tassazione sulla proprietà personale

0,70

0,50

Tassa sulla proprietà degli edifici non agricoli

7,50

5,41

Tassa sulla proprietà degli edifici agricoli

0,20

0,14

T1 + (T2 x LS) Totale delle tasse pagate dai lavoratori

73,65

NSW1= E1 - T1

4,01

NSW2 = (E2- T2) x LS

-7,50

Salario sociale netto totale = NSW1+ NSW2

-3,49

Fonte: National Income and Product Accounts of the US Statistical Tables. 1) Escluse le “pensioni” militari e l’”invalidità” 2) Questi dati sono stati calcolati utilizzando informazioni da vari volumi dell’US Statistical Abstract (in particolare Tavola 1107 del 1979) 3) Queste sono la somma delle imposte federali e di altre tasse ed imposte statali e locali.

La Figura 1 dimostra, cosa che avviene in tutti i paesi avanzati, che le tasse ed i benefit percepiti complessivamente dai lavoratori americani aumentano continuamente in tutto il periodo postbellico. Da ciò ne segue che quando si tratta la questione dello stato sociale è importante considerare entrambe i piatti della bilancia

59


Figura 1: Benefit e tassazione dei lavoratori (1950-1967)

La figura 2 mostra le stesse misurazioni espresse rispetto alla retribuzione totale degli occupati. In questo caso risultano evidenti tre cose. Primo, nonostante le quote dei benefit e delle tasse aumentino nel tempo, durante la fase di boom del 1952-1969 la prima aumenta inizialmente in maniera più rapida rispetto alla seconda in quanto sono cresciuti i benefit e si è estesa la copertura. Tuttavia quando alla fine degli anni 60 si esaurisce il boom, dal 1969 al 1975, il tasso di disoccupazione risulta più del doppio (dal 3,6% all’8,5%), si aggrava la povertà ed il conseguente aumento del sostegno economico ai disoccupati e del welfare provoca una accelerazione della quota di benefit ed un rallentamento della parte relativa alla tassazione – così si viene automaticamente ad espandere sia il salario sociale netto sia il deficit governativo totale. Dopo il 1975 il tasso di disoccupazione diminuisce parzialmente e con esso la quota di benefit. Ma nonostante la disoccupazione e la povertà rimangano elevate rispetto alla media registrata nella fase di boom, è in questo periodo che inizia la controffensiva del capitale e dello stato. In particolare sotto i governi Reagan e Bush questo assalto riuscì a smantellare lo stato sociale e a indebolire le organizzazioni operaie. Negli Stati Uniti il tasso di sindacalizzazione, piuttosto basso, crollò immediatamente, le restrizioni alla idoneità a ricevere il welfare impedì il sostegno ad un numero considerevole di persone, diminuirono i benefit ed in media diminuì considerevolmente il potere d’acquisizione dei benefit (Amott 1987, 51). Così quando nella prima fase dell’era ReaganBush aumentò improvvisamente il tasso di disoccupazione, la quota relativa ai benefit a mala pena fluttuava, cadendo in seguito, per la prima volta in 14 anni, al di sotto del livello di tassazione. L’improvviso aumento dei profitti nell’era Reagan Bush finalmente riuscì a ripristinare la crescita e fece diminuire la disoccupazione – benché a seguito di una riduzione del salario reale e di un peggioramento delle condizioni di lavoro per la maggior parte degli operai. Alla fine di questo periodo l’aumento della quota di benefit e la caduta piuttosto modesta della quota di tassazione

60


costituisce semplicemente il riflesso, consueto, dell’aumento del tasso di disoccupazione63. Tuttavia. è interessante notare che nell’epoca successiva di Clinton la quota di tassazione aumenta mentre il tasso di disoccupazione diminuisce, come ci si dovrebbe aspettare, ma, nonostante tale diminuzione, la quota relativa ai benefit invece di diminuire resta stabile. Ciò sembrerebbe indicare che la base non ciclica della quota di benefit sia aumentata durante l’amministrazione Clinton. La Figura 2 mostra anche che nel periodo Reagan-Bush venne ripristinato il salario sociale negativo registrato nella prima metà del periodo postbellico, eccetto nelle fasi di picco della disoccupazione. Ancora una volta l’eccezione, benché in maniera modesta, si manifesta durante l’epoca di Clinton nella quale la quota di benefit non diminuisce con il calo della disoccupazione, cosicché il salario sociale netto permane positivo. Ma aumenta di conseguenza la quota delle tasse (con la crescita della occupazione si verifica uno spostamento della popolazione verso una fascia di tassazione più alta) così a partire dal 1997 le due quote sono praticamente le stesse.

Figura 2: Quota dei Benfit e delle tasse e tasso di disoccupazione (1950-1997)

.

63

Quando il tasso di disoccupazione aumenta, diminuiscono le retribuzioni dei lavoratori dipendenti ed

aumentano i benefit nel loro complesso (in quanto aumentano le persone che li ricevono), di conseguenza aumentano i benefit e la quota di benefit destinata alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Sul fronte delle tasse, se tutti pagassero la stessa quota di tassazione, le tasse complessive dovrebbero scendere ma la quota di tassazione resterebbe invariata, per la verità una riduzione dei redditi degli occupati sposterebbe tali individui nella fascia di tassazione più bassa così che quando aumenta il tasso di disoccupazione la quota delle tasse si dovrebbe ridurre (modestamente). Tali aspetti sono evidenti nella Figura 2.

61


La Figura 3 mette insieme i benefit precedenti e la quota delle tasse con la quota del salario sociale netto, ossia il salario sociale netto come frazione delle retribuzioni degli occupati. I tre periodi identificati in precedenza risultano immediatamente evidenti, Nel fase di boom che va dal 1952 al 1969 la quota del salario sociale netto è negativa benché la sicurezza garantita da una crescita stabile spinge gli operai ad aumentare relativamente la loro forza e a ridurre gradualmente il loro sostegno economico al capitale. La seconda fase dal 1969 al 1975 segna l’inizio della crisi economica in cui l’improvviso aumento della disoccupazione e della povertà trascina verso l’alto la quota di benefit e fa aumentare la quota del salario sociale netto. Tuttavia nell’epoca di Reagan la controffensiva del capitale e dello stato dà il via ad un secolare declino della quota base del salario sociale netto travolgendone ogni insito aumento di fronte al più alto tasso di disoccupazione dalla Grande Depressione. Ed è solo allora, partendo da questo nuovo livello, che l’aumento successivo della disoccupazione nell’era di Bush (1988-1992) dà il via ad un aumento automaticostabilizzatore del salario sociale netto.

Figura 3: Quota del salario sociale netto (salario sociale netto/retribuzioni degli occupati)

Allorché negli anni di Clinton il tasso di disoccupazione inizia a diminuire, la quota di salario sociale netto segue lo stesso andamento, ma non nella stessa misura e ciò avviene, come abbiamo notato precedentemente, perché la quota base dei benefit in questa fase sembra essere aumentata. Infine è interessante sottolineare che nell’intero periodo che va dal 1952 al 1997 la quota del salario sociale medio è pari allo 0,6% - praticamente zero. La Figura 4 mostra l’impatto del salario sociale netto in termini di salario reale medio per operaio (retribuzione reale degli occupati per operaio equivalente a tempo pieno). Secondo questo punto di

62


vista il salario sociale vero è la somma del salario sociale netto ed il salario osservato (apparente) espressi entrambi in dollari costanti.

Figura 4 Salario apparente e vero (per operaio equivalente a tempo pieno, dollaro 1982)

Colpiscono molte cose. Prendendo in esame i valori piuttosto bassi della quota di salario sociale netto, il salario vero raramente differisce dal salario apparente, invece il primo è frequentemente al di sotto di quest’ultimo, in particolare nella fase di boom che va dal 1952 al 1969 benchè questo scostamento si restringa nel tempo, ma quando il boom dà il via ad una stagnazione ed al declino dopo il 1969, le misure di entrambe i valori del salario reale iniziano a decelerare e con la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 cadono ancora. Benché in seguito essi aumentino modestamente per un certo periodo, iniziano a ristagnare nuovamente nell’epoca di Clinton. Soprattutto il loro saggio medio di crescita dopo il 1969 permane molto più basso rispetto a quello della fase di boom che precede il 1969. Lo strascico dovuto all’attacco concentrato ai benefit ed ai sussidi dei lavoratori risulta evidente in tutto il periodo. La figura 4 ci ricorda che nonostante il grande sviluppo del welfare state, attualmente la base dello standard di vita medio degli operai si riduce al salario reale che sono in grado di ottenere dai loro datori di lavoro. Il suo continuo aumento nella fase di boom ed il suo ristagno e declino nella successiva fase di crisi ci induce fortemente a tener conto del ruolo importante della lotta di classe, e della funzione dell’esercito industriale di riserva, che continuano ad essere in quest’epoca i protagonisti di una vecchia saga.

63


Infine, la Figura 5 mostra il salario sociale netto in rapporto al deficit di bilancio governativo; entrambe le scale sono espresse come frazione delle retribuzioni degli occupati. Si può notare che in questo grafico il deficit governativo (un eccesso di spesa rispetto alle entrate) viene rappresentato con valori positivi per renderlo evidente rispetto alla simbologia tradizionale utilizzata per il salario sociale.

Figura 5 Salario Sociale Netto e Deficit relativi alla retribuzione degli occupati

Così un deficit di bilancio negativo è un surplus di budget ossia una entrata netta di tasse mentre un salario sociale negativo è un pagamento netto di tasse, per cui risulta quindi estremamente evidente che nell’epoca di Reagan-Bush le due variabili hanno un andamento molto simile. Nella fase di boom che va dal 1952 al 1969 la tassazione netta sui lavoratori (il salario sociale negativo) incide su una parte considerevole del surplus governativo totale. D’altro canto nella fase di crisi, dal 1969 al 1980, i benefit netti destinati ai lavoratori (il salario sociale positivo) è la causa fondamentale della riduzione del surplus del budget e del deficit che ne è seguito. Sono state le amministrazioni Reagan e Bush a rompere queste connessioni attraverso un espansione del deficit di bilancio e, simultaneamente, con tagli al salario sociale netto. Finchè il salario sociale netto permane negativo per la maggior parte di questo periodo non si può affermare che abbia avuto un qualsiasi ruolo nel deficit di bilancio relativo allo stesso periodo. Al contrario, proprio perché negativo, possiamo affermare che durante questo intervallo la tassazione netta imposta ai lavoratori rende il deficit minore di quello che avrebbe dovuto essere. In questo periodo l’aumento sempre maggiore del deficit governativo totale è da imputare alla crescente espansione delle

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spese per la difesa, infatti tra il 1987 ed il 1989 la tassazione netta sui lavoratori copre quasi il 16% delle spese militari64.

Riepilogo e Conclusioni

La storia del periodo postbellico nei paesi capitalisti più avanzati è caratterizzata da una eccezionale espansione dell’intervento statale e in particolare la poderosa crescita delle spese statali relative ai programmi sociali ha introdotto per lo stato capitalista moderno il concetto di welfare state. Ma anche se tale nozione può essere vera, non ne segue, come alcuni hanno cercato di affermare, che il welfare state abbia fornito al netto beni e servizi. Al contrario, quando si cerca di mettere in evidenza il parallelo aumento della tassazione, che costituisce allo stesso modo un aspetto caratteristico dello stato moderno, allora emergono delle sorprese. Nel complesso è la tassazione sulla popolazione lavorativa che essenzialmente finanzia le spese statali relative alla salute, all’istruzione, alla previdenza, alla disoccupazione, ai sussidi statali, alle abitazioni e a tutta una serie di programmi sociali. In tutto il periodo postbellico, in media il bilancio netto tra tasse pagate direttamente dai redditi degli occupati e le spese sociali ricevute direttamente dalla stessa popolazione è di un mero 0,6% delle retribuzioni totali percepite dagli occupati. In altre parole essa è praticamente zero. Noi richiamiamo il concetto di salario sociale netto, posto in primo piano per effettuare tale confronto, che è la differenza tra le spese sociali per i benefit (Sanità, Istruzione, welfare, abitazioni, trasporti, parchi e divertimenti, bonifici di pagamento agli operai ecc) e le tasse prelevate direttamente alla popolazione lavorativa (la quota relativa alla tassazione sulle entrate dei lavoratori, trattenute previdenziali, tasse sulla proprietà ed altre tassazioni) . Abbiamo verificato che il salario sociale netto fluttua entro margini abbastanza ristretti tra ± 4% delle retribuzioni degli occupati (Figura 3) e per l’intero periodo tra il 1952 ed il 1997 è stato in media praticamente pari a zero. Ma le sue variazioni sono state condizionate dalle variazioni del tasso di disoccupazione in quanto un aumento relativo del numero dei disoccupati induce aumenti delle spese statali per il mantenimento dei redditi e per l’indennità di disoccupazione, mentre il corrispettivo crollo del numero di occupati riduce le tasse percepite (Figura 3). Lo stesso meccanismo fa aumentare il deficit di bilancio allorché aumenta il tasso di disoccupazione. Per questa ragione le fluttuazioni del salario sociale netto tendono ad essere fortemente correlate al deficit di bilancio (Figura 5). Ma c’è di più sull’andamento delle fluttuazioni cicliche, infatti sono di notevole importanza anche il livello e la tendenza del salario sociale netto ed è impressionante che questo fosse negativo durante il lungo periodo di boom tra il 1952 ed il 1969 – ossia in questo periodo venne imposta ai

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I dati congiunti del deficit di bilancio e dei sussidi ai lavoratori possono essere ricavati dalla Appendice. I

dati relativi alle spese per la difesa sono disponibili per diversi anni nel Survey of Current Business del BEA

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lavoratori una tassazione netta. Ma poiché si era in una fase di boom, con una disoccupazione piuttosto bassa e con salari reali in continuo aumento, i benefit per operaio crebbero più rapidamente di quanto non fece la tassazione e con il passare del tempo i benefit percepiti dai lavoratori divennero sempre più compatibili con le tasse versate. Tutto ciò smette di funzionare quando finisce il lungo boom. Nei primi anni 70 la disoccupazione inizia ad aumentare velocemente e continua il suo trend di crescita fino al 1983. Il periodo in cui l’economia cresceva a stento fu caratterizzato da un attacco sempre più grave al welfare state, ai sindacati e a tutte quelle istituzioni che sostenevano i lavoratori. Verso la fine degli anni 70 la retribuzione reale per lavoratore relativa agli occupati cominciò a diminuire ed in seguito il suo aumento fu irrisorio. Inoltre con lo smantellamento del welfare state vennero tagliati i benefit per operaio, sia in termini assoluti sia relativamente alle tasse, in particolare nell’era di Reagan-Bush che va dal 1980 al 1992. Così, anche se il tasso di disoccupazione raggiunse livelli record in quel periodo il salario sociale diminuì fino a diventare negativo. I lavoratori erano costretti a standard di vita sempre più ristretti e in più subivano una tassazione netta – in un periodo spacciato per una fase di “tagli alle tasse” per i benefit ai lavoratori. La retorica e la realtà di quei tempi non potevano essere più contraddittorie ed è particolarmente ironico il fatto che in quel periodo la tassazione netta sui lavoratori contribuì in maniera notevole a sostenere l’espansione vertiginosa delle spese militari. Un risultato importante di questo attacco ai lavoratori, associato al sostegno del capitale, è che è servito per ristabilire le condizioni della accumulazione: la profittabilità iniziò ad aumentare velocemente dopo il 1982 e da allora ha continuato a salire. Il conseguente aumento del tasso di accumulazione negli Stati Uniti alla fine ha iniziato a compensare la continua sostituzione dei lavoratori dal “dowsizing”65, così a partire dagli anni 80 l’andamento della disoccupazione invertì il suo corso (Figura 2). Il regime neoliberista di Clinton trasse notevoli benefici da tutti questi eventi (si potrebbe affermare che sopravvisse proprio grazie ad essi) e si dimostrò poco incline a modificare la struttura che si era stabilita. Quando nel 1990 si verificò un caduta della disoccupazione con essa diminuì corrispondentemente il salario sociale netto secondo un meccanismo classico ma non sembra essere diminuito allo stesso modo, esistono una serie di dati in grado di mostrare che il livello non ciclico dei benefit nell’epoca di Clinton sia in qualche modo aumentato. In ogni caso a partire dal 1997 il salario sociale netto è sostanzialmente tornato al valore zero. Il nostro studio dimostra che negli Stati Uniti i trasferimenti netti relativi al welfare state hanno avuto un impatto estremamente limitato sugli standard di vita degli operai ed è impressionante notare che il salario reale degli operai aggiustato con il salario sociale netto non è molto diverso dal salario reale senza aggiustamenti, ossia dalla remunerazione reale per operaio (Figura 4). Così

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Ridimensionamento attraverso la riduzione dei dipendenti (NdT)

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malgrado il welfare state, il livello degli standard di vita degli operai resta legato al salario che riescono a spuntare dai loro datori di lavoro che sale continuamente nella fase di boom cui ne segue un ristagno ed un declino nella fase successiva. Di conseguenza siamo obbligati a ricordare che per la determinazione del salario continuano a giocare più che mai un ruolo cruciale la lotta di classe e l’esercito industriale di riserva.

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Una spiegazione dell’inflazione e della disoccupazione: una sfida alla teoria economica neoliberale° Anwar Shaikh

Introduzione

Per la maggior parte del dopoguerra, i problemi connessi con l'inflazione e la disoccupazione sono stati all'ordine del giorno sia nel campo economico che politico. La politica economica neoliberale sorge come una risposta della classe capitalista alla crisi economica mondiale degli ultimi venticinque anni, ed è per questo motivo che risultano abbastanza facili da spiegare gli attacchi che tale politica ha portato avanti nei confronti dei lavoratori e delle loro istituzioni, provocando l’aumento di fallimenti e bancarotte, la spaventosa tendenza alla concentrazione ed alle centralizzazioni, la ricerca ostinata di nuove aree di mercato e di nuove risorse destinate al potere selvaggio dei capitali che dominano la sfera mondiale (Shaikh 1987). Ma la teoria economica neoliberale è venuta alla ribalta poichè quella keynesiana si è rivelata incapace di dare una spiegazione adeguata alla "stagflazione" prodotta dalle crisi economiche e ciò appare particolarmente ironico dato che la stessa teoria economica keynesiana divenne predominante per l'incapacità da parte della teoria economica tradizionale, che sta alla base dell'economia neoliberale, di dare una spiegazione della gigantesca e persistente disoccupazione caratteristica della Grande Depressione. La moderna macroeconomia eterodossa è stata coinvolta in tale conflitto poiché a partire dagli anni 70 buona parte di essa è stata inglobata all'interno del keynesismo, tanto che nell’economia radicale e postkeynesiana presero il via alcune varianti della teoria keynesiana-kalechiana della domanda effettiva; un quadro di equilibrio generalmente statico in cui la fissazione dei prezzi attraverso il "mark-up"* li rende indipendenti dalla domanda, spostando così ogni aggiustamento sul versante della produzione e dell'occupazione - per lo meno fino ai limiti del "pieno impiego". Naturalmente all'interno di un quadro di questo tipo l’ostacolo al pieno impiego in condizioni di prezzi stabili è di natura politica, non economica e si basa sullo scontro tra gli interessi di tre componenti: il capitale, i lavoratori e lo stato. La tendenza kalechiana di tale tradizione differisce solo per il fatto che dà maggiore importanza al potere del monopolio ed ai problemi associati con il "pieno impiego" (Kalecki, 1968). La teoria neoclassica non presenta problemi di questo genere, in quanto assume che il sistema capitalistico raggiunge il pieno impiego automaticamente ed in modo efficace, sostanzialmente

*

Il termine mark up sta ad indicare un rialzo dovuto all’aggiunta di una somma la prezzo di rivendita oppure

l’ammontare totale di cui , nell’arco di un determinato periodo di tempo, negano aumentati i prezzi di vendita correnti all’inizio di tale periodo. (NdT)

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l’inflazione aumenta quando l’offerta di moneta stimola la domanda aggregata a fronte di un pieno impiego spinto da una offerta aggregata. Versioni più recenti associano concetti quali il tasso di disoccupazione naturale che sono solo delle finezze sulle argomentazioni di base, ma anche in questo caso, come nella teoria keynesiana-kalechiana, si presuppone che l’inflazione aumenti in prossimità del pieno impiego. In contrasto con tali interpretazioni molto comuni desidero quindi presentare una spiegazione classica dell’inflazione e del suo rapporto (o la sua mancanza) con la disoccupazione. In generale, un'impostazione classica parte dalla visione di un'economia permanentemente in crescita fondata sul tentativo incessante di ogni singolo capitale di (auto) espandersi costantemente. Dato che ogni capitale opera individualmente, senza alcun riferimento diretto alla sua collocazione nella divisione sociale del lavoro, l'interazione di queste unità individuali genera un processo turbolento intrinseco: l'ipotetica divisione del lavoro, creata dalle aspettative dei capitali individuali, si mette costantemente a confronto con la divisione del lavoro provocata dalle loro interazioni e le discrepanze agiscono sulle aspettative e sulle azioni, che a loro volta provocano nuove discrepanze ecc. L'economia neoclassica cerca di nascondere tutto ciò utilizzando le nozioni di concorrenza perfetta e di equilibrio generale. In realtà si verifica sempre una condizione di squilibrio ed è proprio grazie alla compensazione tra le fasi di superamento e di mancato raggiungimento dell'equilibrio che si realizzano le tendenze che sono proprie dell'economia. Secondo questo punto di vista il bilanciamento di tutta una serie di fattori (domanda - offerta, prodotto - capacità, settore dell'economia - crescita complessiva, ecc ) rappresenta l'insieme delle forze interne che impongono un ordine intrinseco ad un disordine esterno. L'ordine nel e mediante il disordine, un vecchio concetto presente in Marx che ha ricevuto finalmente una leggittimazione attraverso le dinamiche non lineari. Nel mio lavoro ho cercato di dimostrare che un approccio del genere può venire formalizzato in modo da ottenere un quadro di non-equilibrio dinamico integrato dell'analisi della crescita endogena, della moneta endogena e dei cicli endogeni (Shaikh 1989,1991,1992). Una struttura di questo tipo, grazie al lavoro di Goodwin (1967), può essere utilizzata anche per formalizzare una teoria endogena della disoccupazione permanente fondata sulla concorrenza. Questo è ciò che Marx definisce esercito industriale di riserva e che oggi possiamo definire come "tasso di disoccupazione intrinseco" per distinguerlo dalla nozione liberale piuttosto funesta di "tasso di disoccupazione naturale" secondo cui il sistema procederebbe in maniera perfetta quando è in grado di creare e mantenere un certo quantitativo di disoccupazione involontaria a disposizione del capitale così da poter affermare che sono le imperfezioni del sistema che fanno crescere la disoccupazione volontaria, ad esempio l’astensione dal lavoro (Friedman 1968). In questo lavoro vorrei porre in evidenza un altro grande problema: quello dell'inflazione ed il suo legame, se esiste, con la disoccupazione. In primo luogo tratterò questi aspetti secondo le teorie ortodosse, come sorgono storicamente di fronte alle sfide della realtà storica, poi proporrò un

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approccio alternativo alla questione dell'inflazione e cercherò di illustrarlo con i dati relativi agli Stati Uniti.

Disoccupazione ed inflazione nella teoria e nella storia

La moderna macroeconomia ha avuto origine dal disordine della Grande Depressione degli anni 30. Mentre la teoria prevalente continuava ad insistere sul concetto che il capitalismo era di per se efficiente, in grado di autoregolarsi e capace automaticamente di offrire occupazione a tutti coloro che la desideravano, la realtà economica ci raccontava una storia completamente diversa: i fenomeni storici e sociali che si verificavano erano fallimenti su larga scala delle imprese, disoccupazione di massa, generalizzazione della miseria, ed è in questo contesto che venne pubblicata la Teoria Generale di Keynes (Keynes 1936) che aveva come obiettivo quello di fornire una spiegazione della disoccupazione persistente e di prescrivere una cura per eliminarla. Il modello redditi-spese familiari derivato da un approccio teorico di questo tipo ha dominato per un terzo di secolo sia la macroeconomia che la politica nella maggior parte dei paesi capitalisti avanzati. Nelle sue applicazioni era sistematico, quantificabile, flessibile e facilmente adattabile alla politica fiscale. Il modello è guidato dalle componenti esogene della domanda aggregata ed in generale si assume che esistano delle risorse inutilizzate, in modo particolare il lavoro. Un aumento di una componente della domanda esogena stimola la produzione e l'occupazione, le maggiori entrate che ne derivano stimolano a loro volta il consumo e quindi la crescita di nuova domanda aggregata (ma per una quantità inferiore alla fase precedente) e così via finchè l'impulso originario non abbia prodotto un effetto moltiplicatore sulla produzione e sull'occupazione. All'interno di questo quadro la politica fiscale sembra essere un meccanismo molto importante per regolare il livello di occupazione, poichè il deficit governativo viene considerato capace di provocare un effetto moltiplicatore sulla crescita della produzione e dell' occupazione. I keynesiani tendono a credere che la disoccupazione sia un aspetto normale in una economia capitalista nonregolata, però, con un uso assennato del deficit fiscale, il governo potrebbe gonfiare il livello di occupazione e raggiungere una situazione molto vicina al pieno impiego. Questa divenne la premessa indispensabile per la politica sociale del dopoguerra (Artis, 1992, pag 139). In seguito vi furono delle ulteriori modifiche che hanno ridimensionato le analisi sulle possibilità di deficit di bilancio, ma non hanno messo in discussione le fondamenta del ragionamento. Fu rilevato che il deficit statale poteva provocare l’aumento del tasso di interesse comportando una diminuzione negli investimenti che andava così a contrastare alcuni degli effetti originariamente espansivi del deficit. Crebbe inoltre l’dea che la riduzione della disoccupazione grazie alla domanda aggregata avrebbe potuto portare anche ad un incremento dei salari monetari con il conseguente aumento dell’inflazione. La curva di Philips (Philips 1958) introdusse la nozione di un tradeoff (correlazione opposta) tra inflazione e salari monetari rapidamente inglobata nella teoria

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dominante sottoforma di un tradeoff tra inflazione e disoccupazione. Fleming (1962) e Mundell (1963) hanno esteso l'analisi al rapporto tra produzione, disoccupazione e bilancia commerciale ("bilancia estera"). Ne risultava una molteplicità dei potenziali "targets" (livelli desiderati di occupazione, di inflazione, del tasso di interesse, della bilancia commerciale estera. ecc) che hanno reso l'economia politica alquanto sofisticata, ma era evidente che tali complicazioni non erano altro che delle estensioni della teoria di fondo e non dei cambiamenti. All'interno di tutti questi sviluppi il concetto fondamentale era che l'inflazione sarebbe cresciuta solo quando l'economia si trovava in prossimità del pieno impiego. Ma questa concezione ha iniziato a crollare alla fine degli anni 60 in quanto l'inflazione non era divenuta solamente un problema pratico di una certa importanza, ma un serio problema teorico: mentre la curva di Philips prevedeva che l'inflazione sarebbe stata accompagnata da una diminuzione della disoccupazione, (che avrebbe stimolato un aumento dei salari monetari e quindi dei prezzi), una nuova ripresa dell'inflazione è stata accompagnata però da un aumento della disoccupazione, cosa che sembrava negare tutta la nozione di un tradeoff tra i due fattori. Un tentativo per aggirare le difficoltà era di supporre che le aspettative giocassero un ruolo significativo nella spirale salari-prezzi e ciò diede vita alla nozione di una curva di Philips dell’aumento delle aspettative (APC) (Phelps 1967, Friedman 1968), associata all’ idea di un "tasso naturale" di disoccupazione che avrebbe ostacolato l’inflazione. Da questo terreno hanno preso piede i diversi modelli interpretativi dell’inflazione, spesso tra loro conflittuali e l’infame NAIRU** (Godley e Cripps 1983, Rowthorn 1984). Ma questi modelli si dimostrarono un beneficio ambiguo per il paradigma keynesiano, infatti non solo hanno minato dalle fondamenta la politica sociale keynesiana, ma hanno posto le premesse per una nuova macroeconomia classica che poteva eventualmente soppiantare il keynesismo stesso (Artis 1993, 140-142); per esempio, la nozione di tasso naturale di disoccupazione ha le sue radici nel paradigma del pieno impiego automatico dell'economia neoclassica – l’unico aspetto che il keynesismo ha cercato di superare. Secondo l’economia neoclassica, si assume che quando tutti i mercati sono in equilibrio, tutti i lavoratori potrebbero conseguire il livello desiderato di occupazione ad un determinato livello salariale che emerge dal mercato del lavoro, ma per un' informazione non del tutto perfetta e per le difficoltà esistenti sul mercato del lavoro, si dovrebbe sempre verificare un certo livello frizionale, quindi un certo livello "naturale", di disoccupazione anche in condizioni di generale equilibrio (Matthews 1993, pag 247). Un tasso naturale di questo **

NAIRU sta per Non Acelerating Inflation Rate of Unemployment ossia il tasso di disoccupazione al di sotto

del quale il tasso di inflazione comincia ad accrescersi. Quindi e' il tasso di disoccupazione che corrisponde ad un tasso di variazione del saggio di inflazione pari a zero ossia ad un tasso di inflazione costante nel tempo. (NdT)

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genere è volontario in quanto proviene dalla decisione degli individui di non lavorare a fronte delle spese per la ricerca di lavoro, dei sussidi di disoccupazione, dello stato sociale e di altro. Così, contrariamente alla opinione keynesiana, la mera esistenza della disoccupazione, ed anche l’aumento della stessa, non dimostra che sia necessariamente involontaria. Non deve sorprendere quindi che gli economisti neoliberali si siano affrettati a proclamare che la disoccupazione esistente fosse di fatto totalmente volontaria (Bennet 1995). In secondo luogo, veniva affermato che il livello effettivo di inflazione dipendeva non solo dal livello di disoccupazione ma anche dalle aspettative di inflazione. Così l'aspettativa di un inflazione più elevata poteva dare luogo ad un livello di inflazione più elevato per ogni determinato livello di disoccupazione. Finchè si assume che le aspettative di inflazione varino lentamente (mostrano persistenza), per estirpare l' inflazione dall'economia ne segue la necessità di tollerare ( e forse anche indurre) un tasso di disoccupazione più elevato del tasso "naturale" per un periodo sufficientemente lungo da abbassare le aspettative di inflazione. Quando queste calano renderebbero possibile l' abbassamento del tasso di inflazione compatibile con qualsiasi livello di "disoccupazione non naturale" (disoccupazione in eccesso rispetto al suo livello naturale), permettendone così anche una certa diminuzione – fino a che l’economia non raggiunga uno stato di equilibrio di lungo periodo in cui l'inflazione effettiva e quella attesa sarebbero pari a zero ed il tasso di disoccupazione si porterebbe al tasso naturale (il tasso più basso sostenibile). L’economia keynesiana propendeva per l’opinione secondo cui "estirpare" inflazione poteva risultare costoso, nonostante che la nozione per cui qualsiasi tasso di disoccupazione rilevato fosse sostanzialmente volontario fosse decisamente lontana dalle concezioni originarie del keynesismo. In ogni caso è stata ancora una volta la realtà ad infierire il colpo decisivo all'economia keynesiana. Negli anni 70 e 80, via via tutte le nazioni del mondo capitalista si sono bloccate manifestando inflazione, disoccupazione, crescita modesta, aumento della povertà e della miseria sociale, nonostante il record raggiunto dal deficit di bilancio. Sono stati soprattutto questi fenomeni spiacevoli a generare la convinzione sempre più diffusa che la teoria keynesiana della politica fiscale, nonostante le numerose modificazioni, fosse assolutamente inadeguata per questa nuova epoca.

Il contrasto tra la teoria convenzionale ed i modelli empirici dell'inflazione e della disoccupazione.

Abbiamo visto che la teoria neoclassica e quella keynesiana differiscono per la spiegazione data all’inflazione e alla disoccupazione, ma è importante nondimeno sottolineare che esse condividono un aspetto ossia che esiste un tradeoff empirico tra l’inflazione e la disoccupazione. Ma tale affermazione viene confermata dall’evidenza empirica? A tale riguardo occorre fare tre puntualizzazioni: Primo, come dimostra la Fig 1 dalla prima metà alla seconda metà del dopoguerra la crescita storica dei livelli di disoccupazione media nei paesi dell'OCSE è associata

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direttamente ad una corrispondente diminuzione dei tassi medi di crescita della produzione. Ho cercato di dimostrare in un altro lavoro che tutto ciò può essere spiegato per il fatto che una caduta del saggio del profitto mina alla base la crescita producendo così l’innalzamento del tasso di disoccupazione. (Shaikh 1987). fig 1

Crescita OCSE e disoccupazione Tasso di disoccupazione

7 6

Crescita PIL

5 4

tasso di Crescita PIL

Disoccupaazione

3 2 1 0

1964-74

1975-91

Fonte: OECD Main Economic Indicators

Secondo. Come mostra la fig. 2

in generale non esiste storicamente un tradeoff tra la

disoccupazione e l'inflazione. Come si può osservare gli andamenti per l'insieme dei paesi dell'OCSE indicano che mentre un tradeoff di questo genere sembra esistere per il periodo più recente, che va dal 1975 al 1991, mentre nel primo periodo, che va dal 1964 al 1974, gli andamenti appaiono decisamente opposti (non sono disponibili dati coerenti sulla disoccupazione prima del 1964). In verità gli andamenti del primo periodo sembrano riproporsi nei recentissimi periodi, come negli Stati Uniti ed in altri paesi dove la disoccupazione è diminuita senza che vi sia stata una percettibile ripresa dell'inflazione, a dispetto di coloro che proponevano l'ipotesi del tasso naturale. Per esempio a partire dal 1995 il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è sceso al 5,4% proprio nel momento in cui figure eminenti come Martin Feldstein e Robert Gordon avevano fissato il tasso naturale di disoccupazione, il punto in cui prende il via la pressione inflazionista, al 6% od anche al 6,5% . Ma a partire dal 1997, nonostante l’ulteriore diminuzione del tasso di disoccupazione, non si è ancora manifestata

alcuna ripresa evidente dell'inflazione

(un'accelerazione o qualsiasi altra cosa). Per lo meno Gordon ha reagito continuando a ridurre la

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stima del punto di innesco del saggio naturale mano a mano che il saggio effettivo scendeva al di sotto del suo valore.(Bennet 1995).

fig 2 Ta ss o 12 di infl10 azi on 8 e

Inflazione rispetto alla disoccupazione OCSE: 1965-1991 <=========== 1975-1991 ============>

<=== 1965-1974 ====>

6

4

2 2

2.5

3

3.5

4

4.5

5

5.5

6

6.5

7

7.5

8

8.5

9

tasso di disoccupazione Fonte OECD Main Economic Indicators

Tuttavia dall'esame empirico sorge un indizio interessante ossia una relazione tra inflazione e crescita economica come risulta dalla fig. 3. Nel primo periodo dal 1964 al 1973, anche se si dovesse introdurre l’improvviso rialzo del prezzo del petrolio deciso nel 1973 dai paesi dell’OPEC nella parte alta a sinistra del grafico, esiste una relazione assai limitata tra inflazione e crescita, al massimo potremmo rilevare che a una crescita più bassa corrisponde una inflazione minore, ma nel periodo successivo dal 1973 al 1991 una crescita più bassa è associata ad un' inflazione più alta. Come nel caso precedente tale comportamento contrasta con l’ipotesi delle teorie convenzionali mentre vedremo che ciò non accade per la teoria classica dell’inflazione.

fig 3 Rapporto tra inflazione e crescita OCSE 1965-199 I n fla z io n e r is p e tt o a lla c r e s c ita 1 9 7 5 - 1 9 9 1 11 10 9 8 7 6 5 4 3 -1

0

1

2

3

ta s s o d i c r e s c ita F o n te : O E C D M a in E c o n o m ic

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4

5


Un approccio diverso con l'inflazione: in accordo con l'evidenza empirica

I fenomeni presentati precedentemente sono compatibili con un approccio all'inflazione e alla disoccupazione di tipo diverso che ha le sue radici nella tradizione classica. Un approccio di questo genere è costituito da tre elementi: Il primo riguarda l'equilibrio di breve periodo, infatti sia l'approccio keynesiano che quello neoclassico tendono ad analizzare la produzione effettiva ed il livello dei prezzi come se fossero in equilibrio associati alla eguaglianza di breve periodo tra la domanda e l'offerta. Secondo questo punto di vista, il ciclo economico è una fluttuazione del prodotto nel breve periodo intorno al punto di equilibrio (Kalecki 1968). Ma ho rilevato chiaramente che il processo di livellamento della domanda e dell'offerta aggregate è ciò che da luogo ad un ciclo economico osservabile di 3-5 anni (crescita); quello che attualmente viene definito come « il » ciclo economico non è altro che la fluttuazione del prodotto effettivo (disequilibrio) nella continua ricerca di una domanda e di una offerta entrambe oscillanti in una fase di crescita endogena ossia che le fasi di innalzamento e di abbassamento del ciclo sono associate rispettivamente alle fasi positive e negative degli eccessi della domanda (Shaikh 1989,1991,1992) Il secondo elemento ha a che fare con la moneta e il credito. La spesa in deficit di ogni unità produttiva ossia la spesa in eccesso rispetto al suo reddito corrente, può essere finanziata solo con la riduzione delle sue attività (ricavando capitale dalla vendita delle azioni) e con l' indebitamento presso terzi (Early e Parson ed altri 1976). Per l'economia nel suo complesso ciò si riduce alla richiesta di nuovi prestiti alle banche private e all’allargamento della base monetaria da parte della banca centrale. Finchè per soddisfare la domanda di denaro in termini di liquidità non si da luogo a nuovo credito e ad una più ampia base monetaria si possono facilmente verificare fenomeni di eccesso della domanda aggregata generata da un eccesso endogeno di offerta di moneta (Moore 1989, pag 483). Il disavanzo in deficit aggregato dello stato e del settore privato (comprese le famiglie) combinati con l’aumento del potere d’acquisto dei capitali provenienti dall’estero possono esercitare una pressione sui mercati, in particolare sul mercato dei beni. In un progetto di lavoro, stiamo sviluppando delle misurazioni dell'eccesso di domanda e della finanza che le sta dietro ed intendiamo dimostrare il loro rapporto con la crescita e l'inflazione nell'economia degli USA. Il terzo elemento riguarda le implicazioni dovute al persistere dell'eccesso di domanda, infatti questo

corrisponde all'eccesso di una domanda che generalmente cresce più dell'offerta e

stimola quindi la crescita dell'offerta. I limiti di un processo di questo genere derivano quindi dai limiti all'offerta. Secondo la tradizione neoclassica e keynesiana, il limite generale dell'offerta di beni è determinato dalla disponibilità di lavoro, ma entrambe le scuole economiche si aspettano che un eccesso di domanda dovrebbe in primo luogo stimolare l’inflazione solo dopo avere praticamente raggiunto la condizione di pieno impiego, differiscono soltanto per il significato che

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viene dato al pieno impiego e se questo è o meno una condizione normale nel capitalismo, ma entrambi portano avanti la nozione di un tradeoff tra disoccupazione ed inflazione. Il guaio, come abbiamo visto, è che sono necessari notevoli contorsionismi per spiegare i periodi persistenti di crescita tanto dell'inflazione che della disoccupazione. Sia la teoria classica sia la storia del capitalismo non ci forniscono alcuna ragione per supporre che il prodotto venga limitato dall’offerta di lavoro. Invece, secondo la tradizione classica esiste un limite intrinseco alla crescita ben definito. In effetti anche quando vi è disponibilità di lavoro a salario reale corrente il tasso di accumulazione del capitale sostenibile all’interno dell’economia è dato dal saggio del profitto alla normale capacità. Marx fu il primo a dimostrare che per sostenere l’accumulazione occorre una crescita bilanciata e risulta chiaro dai suoi schemi di riproduzione allargata che il massimo tasso di crescita sostenibile si verifica quando tutto il plusvalore viene reinvestito – per esempio quando il tasso di crescita equivale al tasso del profitto (Marx, 1981). Si può arrivare allo stesso risultato attraverso un sistema Harrodiano** garantito (ad esempio al normale utilizzo della capacità) con una funzione classica del risparmio (Kaldoriana). A partire da ciò l’eguaglianza tra investimenti e risparmio I = R = sc P implicca che il tasso di accumulazione garantito gKW =

I/K = sc · r (P/K) , dove sc è la propensione al risparmio dei capitalisti, P

rappresenta i profitti aggregati (alla normale capacità), K è lo stock di capitale ed r = P/K è il saggio del profitto alla capacità normale. Da ciò ne segue che il tasso massimo di crescita garantita si verifica quando tutti i profitti vengono risparmiati (sc = 1). Finalmente i famosi articoli di von Neumann e di Leontief dimostrano l’esistenza di questo stesso limite nei modelli multisettoriali (von Neumann 1945-46, Leontief 1953)1 Il massimo tasso di crescita sostenibile verrà definito come il "Throughput limit" dell'economia. Supponiamo che in alcuni periodi vi sia stato un eccesso prolungato della domanda, e nello stesso tempo un eccesso di lavoro non utilizzato, l'effetto principale sarà quello di stmolare (accelerare) il tasso di crescita della produzione e del capitale e di ridurre il tasso di disoccupazione – finchè il tasso di crescita non verrà impedito dal limite di throughput. Ma se per qualsiasi ragione la differenza tra il tasso di crescita effettivo ed il limite di throughput dovesse restringersi, ci sarà

**

Il modello Harrod –Domar spiega la crescita economica come derivante dal rapporto tra tasso di crescita

garantito e tasso di crescita naturale. (NdT) 1

Il rapporto aggregato di tipo Harrodiano permette di chiarire che lo stesso limite dovrebbe esistere anche

se nel tempo il saggio del profitto dovesse cambiare sia per i mutamenti tecnici sia per la lotta di classe. Tuttavia Pasinetti afferma che in un modello disaggregato multisettoriale con mutamenti tecnici in corso e con cambiamenti delle proporzioni della domanda, il massimo tasso di crescita bilanciata fondato sulla tecnologia proveniente da Leontief e von Neumann (opera citata) non è alquanto rilevante (Pasinetti 1981 (118-23). Ma mentre ciò potrebbe essere vero, nel senso che i differenti tassi di mutamenti tecnici in atto e la crescita della domanda potrebbero modificare la definizione di massimo tasso di crescita sostenibile (il throughput rate), allo stesso tempo risulta chiaro che non possono inficiare questo stesso limite

84


sempre meno possibilità per la crescita del prodotto e di conseguenza una pressione sempre maggiore sui prezzi. Il rapporto tra il tasso di accumulazione corrente e il limite di throughput limit (il saggio del profitto alla capacità normale r), che chiameremo "throughput coefficient", è quindi un indice della pressione inflazionista. Notare che il coefficiente di throughput equivale al rapporto tra l'investimento ed i profitti a capacità normale in quanto lo stock di capitale appare al denominatore sia nel tasso di accumulazione (l/K) sia nel saggio del profitto (P/K). Il processo descritto non si verifica necessariamente solo con un aumento del tasso di crescita. Se il saggio del profitto alla capacità normale fosse in diminuzione, come è avvenuto negli Stati Uniti per la maggior parte del periodo del dopoguerra, allora ci si dovrebbe aspettare una diminuzione dei tassi di crescita del capitale (che dipende dalle aspettative di profittabilità degli investimenti). Ma se il saggio di accumulazione è diminuito più lentamente del saggio del profitto, il coefficiente di throughput (che equivale al rapporto del primo con quest’ultimo) dovrebbe aumentare. In tal modo è possibile capire come una diminuzione di profittabilità può provocare sia un aumento della disoccupazione, grazie ad una crescita più lenta, sia un aumento della pressione inflazionista a fronte dell’aumento del coefficiente di throughput. Questo è proprio il motivo per cui le economie più avanzate hanno sperimentato negli anni 70 e 80 sia la stagnazione che l’inflazione – fenomeni che i neoclassici ed i keynesiani hanno grosse difficoltà a spiegare. Per verificare il rapporto tra coefficiente di throughput ed inflazione, occorrono dati sui profitti aggregati, sugli stock di capitale e sull’utilizzo della capacità. Ho potuto utilizzare solo i dati degli USA poiché sono disponibili moltissime serie delle variabili da utilizzare2. Si può notare che i dati per gli USA costituiscono la parte preponderante rispetto a tutti i paesi dell’OCSE. La fig 4 mostra il saggio del profitto alla capacità normale per le imprese americane ed il corrispondente saggio di accumulazione (tasso di crescita del capitale) diminuisce bruscamente dalla metà degli anni 60 agli inizi degli anni 80. Tale caduta spiega l’aumento del tasso di disoccupazione di questo periodo. Nella fig 5 vengono messi a confronto l'andamento del tasso di inflazione degli USA e quello del suo coefficiente di throughput, e si nota che gli stessi andamenti spiegano anche l’inflazione di questo periodo. Ciò che ci si aspetta dal punto di vista empirico è che il tasso di inflazione tenderà ad aumentare allorché il tasso di accumulazione si avvicina al suo limite di throughput – ad esempio quando il throughput aumenta. Possiamo sottoporre questa proposizione ad un test 2

I dati della figura 4 e 5 provengono da Citibase. Investimenti reali = investimenti residenziali + non

residenziali in dollari 1987. Profitti reali = profitti totali delle imprese nazionali con IVA e Capital Consumption Adjustment (Aggiustamenti per il consumo di capitale) deflazionati del fattore implicito del costo di investimento. Profitti alla normale capacità = profitti reali diviso l’utilizzo della capacitù. La misura dell’utilizzo della capacità deriva dai dati forniti dal Federal Riserve Board sugli utilizzi addizionali e sulla loro estensione, come viene chiarito nell’appendice B (Shaikh 1987), ed è stato aggiornato facendolo retrocedere rispetto alle serie dell’utilizzo della capacità nel settore manufatturiero pubblicate dal Federal Riserve Board

85


emprico ancora abbozzato confrontando direttamente le due grandezze. La fig 5 illustra il tasso di inflazione negli Stati Uniti (in termini di deflattore del PIL) ed il coefficietnte di throughput definito in questo caso come investimenti delle imprese sottoforma di impianti e strutture rispetto ai profitti totali alla capacità normale delle imprese, questi ultimi vengono definiti come il prodotto (potenziale) alla normale capacità facendo il rapporto tra i profitti effettivi ed il livello di utilizzo della capacità, basando quest’ultima sulle misure effettuate da Shaikh (1987)

Fig 4 Tasso del profitto e dell’accumulazione negli USA

(settore delle imprese, tassi reali) 0.18 Tasso del profitto reale delle imprese alla capacità normale normsale

0.16 0.14 0.12 0.1

tasso di crescita reale rdel capitale e di impresa

0.08 0.06 0.04

1947 1952 1957 1962 1967 1972 1977 1982 1987 1992

86


Fig 5

tasso di inflazione rispetto al coefficiente di Throughput negli USA 0.1

0.8

0.08

0.7

tasso di Inflazione (lscala sinistra)

0.06 0.6 0.04 0.5 0.02

coefficiente di Throughput (scala a destra)

0.4

0 -0.02

1947

1952

1957

1962

1967

1972

1977

1982

1987

1992

0.3

Appare evidente come il tasso di inflazione degli Stati Uniti segua perfettamente i movimenti del coefficiente di throughput. Dalle figure 4 e 5 possiamo osservare che dal 1947 al 1962 il saggio del profitto si mantiene elevato e che sia il saggio di accumulazione sia il saggio del profitto rimangono stabili. Tuttavia il coefficiente di throughput di tale periodo permane basso e stabile come il tasso di inflazione (e quindi il tasso di disoccupazione). Qundi segue il berve periodo della Guerra del Vietnam che ha provocato un boom dei profitti dal 1963 al 1965, nel quale si verifica un aumento del saggio del profitto ma il saggio di accumulazione aumenta maggiormente e sostanzialmente aumenta anche il coefficiente di throughput – seguito dal tasso di inflazione. Tuttavia dal 1966 al 1982 si verifica un declino del saggio del profitto alla capacità normale seguito dal saggio di accumulazione, ma quest’ultimo diminuisce più lentamente, cosicché il coefficiente di throughput continua ad aumentare ed il tasso di inflazione fa la stessa cosa. E’ solo nell’ultimo periodo che va dal 1983 al 1995 che il saggio del profitto delle imprese supera il tasso di accumulazione, facendo di conseguenza ridurre bruscamente il coefficiente di throughput e nello stesso periodo si può notare che il tasso di inflazione cade anch’esso bruscamente. Nel complesso il coefficiente di throughput funziona molto bene come indicatore della pressione inflazionista nell’economia americana.

87


Riassunto e conclusioni

Sia la teoria keynesiana che quella classica si aspettano che l’inflazione aumenti solo in prossimità del pieno impiego e differiscono tra loro nel considerare il pieno impiego come condizione normale del capitalismo. Condividono la nozione per la quale una espansione della domanda viene limitata dalla disponibilità di lavoro, cosicché aumenta la pressione sui prezzi in prossimità del pieno impiego. Ciò fa presumere che il concetto di un tardeoff tra inlazione e disoccupazione sia un elemento centrale in entrambe le teorie e le politiche adottate nel periodo postbellico. Ma secondo l’economia classica non può esistere una supposizione di questo tipo, infatti il concetto fondamentale per tale tradizione si basa sull’esistenza di una certa quantità di lavoratori disoccupati (involontari) che si genera e si mantiene in maniera endogena. Ciò implica che un aumento dell’offerta di lavoro non determina un limite alla crescita del prodotto e l’evidenza storica si incarica di confermare che l’inflazione non è necessariamente, o comunemente, associata con il pieno impiego (effettivo). Infatti come si può spiegare il fatto che negli anni 70-80 l’aumento dell’inflazione era associato con l’aumento della disoccupazione e che una diminuzione dell’inflazione (in molti paesi dell’OCSE) era associata ad una disoccupazione sostanzialmente immutata o addirittura in diminuzione in tempi più recenti (come negli USA)? Ho verificato che il limite più importante della crescita del sistema dipende dal saggio del profitto alla capacità normale in quanto va a determinare il tasso di accumulazione massimo (saggio di crescita del capitale). Il rapporto tra il tasso di crescita effettivo dell’accumulazione ed il saggio del profitto normale, che ho definito coefficiente di throughput, può quindi essere considerato come un estensimetro della pressione inflazionista. Le diverse dinamiche delle due variabili in gioco costituiscono la chiave per spiegare l’inflazione ed i suoi legami con la disoccupazione, fenomeno questo confermato dai dati dell’economia americana relativi al periodo postbellico che mostrano inoltre una forte connessione tra il coefficiente di throughput ed il tasso di inflazione (Fig 5). Infine vale la pena di menzionare che nonostante l’occupazione costituisca un limite fondamentale alla produzione in condizioni statiche, come nella maggior parte delle valutazioni della teoria keynesiana e kalechiana, il concetto di limite intrinseco alla crescita è perfettamente compatibile con le versioni dinamiche di queste stesse teorie. Ma a questo punto ovviamente ci viene in mente Harrod e quindi non è utile mettere in evidenza le contraddizioni tra la le idee che sono state esposte in questo lavoro e quelle della tradizione keynesiana e kalechiana. Invece il coefficiente di throughput che è una maniera utile per rappresentare il tasso di crescita potenziale, ci libera dai contorsionismi adottati per cercare di dimostrare il tradeoff automatico tra inflazione e disoccupazione.

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Il mercato azionario e il settore corporate dell'economia Usa66 Un approccio basato sui profitti Anwar Shaikh

Ho esaminato inizialmente il lavoro di Geoff Harcourt attraverso un suo saggio sulla Cambridge Capital Controversy apparso su una rivista. (Harcourt 1969). Sono entrato alla facoltà di Economia della Columbia University nell’inverno del 1967 ed ho partecipato alla occupazione dell’ateneo durante gli scioperi studenteschi del 1968 e in genere disprezzavo la teoria neoclassica quando mi veniva insegnata. Il saggio di Geoff ebbe un impatto immediato e forte sul mio modo di pensare e mi introdusse ai lavori di Joan Robinson, Sraffa, Pasinetti, Garegnani. Bhaduri e di molti altri. Mi mostrò inoltre che l’economia classica e marxiana possono essere alternative rigorose alla teoria neoclassica. La sua critica del concetto relativo alla funzione della produzione aggregata mi spinse immediatamente a scrivere un paper per un seminario, che divenne la mia prima pubblicazione in seguito titolata The Humbug production function, grazie al quale sono stato sospinto nuovamente verso il piccolo libro di Sraffa e, attraverso questo, agli economisti classici e a Marx, queste idee continuano ad essere presenti nei lavori che ho prodotto sino ad oggi. L’articolo di Geoff divenne tutto sommato una parte molto importante del bagaglio delle mie conoscenze e la sola vista della copia sgualcita e piena di orecchie riusciva a spaventare i miei professori ossessivi (la maggior parte dei quali tuttavia resistette in seguito alla tentazione di leggerlo). Una delle questioni più rilevanti che mi è stata messa in evidenza dal lavoro di Goff è la nozione classica di una oscillazione perpetua e reciproca dei saggi del profitto di mercato. Ad esempio la nozione di una tendenza turbolenta dei saggi del profitto ad eguagliarsi tra le diverse sfere rispetto agli investimenti in capitale. Nel contributo che ho scritto per questa raccolta dedicata a Geoff Harcourt intendo mostrare che i tassi di rendimento (incrementali) nel mercato azionario degli Stati Uniti è equiparato, in maniera sorprendentemente diretta, alle corrispondenti entrate nel settore delle imprese e questo spiega le piroette della Borsa americana.

66

Questo testo fa parte della raccolta Markets Unemployment and Economy Policy Essays in Honour of

Geoff Harcourt Volume II a cura di Philip Arestis, Gabriel Palma e Malcolm Sawyer. Routledge London-New York 1997. Traduzione a cura di Antonio Pagliarone.. 

La Cambridge Capital Controversy si riferisce al dibattito tra economisti, come Joan Robinson, Piero Sraffa

dell’Università di Cambridge e Paul Samuelson , Robert Solow del Massachussets Institute of Technology, insorto negli anni 60 sulla natura ed il ruolo dei beni capitale (mezzi di produzione) e la critica della visione neoclassica dominante relativa alla produzione e distribuzione aggregata. (NdT).

91


Introduzione

Questo paper mostra che il livello e la volatilità del tasso di rendimento nel mercato azionario può essere spiegato direttamente dai fondamentali, misurati come incremento del saggio del profitto nel settore delle corporation, e dimostra che i due saggi sono condizionati dai movimenti del capitale attraverso i settori. In una economia concorrenziale, la mobilità del capitale tende ad eguagliare i saggi di rendimento (adeguati al rischio)67 al di là degli investimenti e dei settori. Varie branche della teoria economica, come la teoria dell’impresa68, la legge del prezzo unico69, la teoria della finanza ma anche il principio dell’attualizzazione70 dipendono direttamente da questo meccanismo (Dibvyg e Ross 1992; 43, Mueller 1986; 8; Dermeier et all 1984:74). Il fatto che il capitale possa spostarsi attraverso varie applicazioni implica che la valutazione di ogni dato investimento deve essere sempre relativizzata alle alternative che sono state escluse. Tale costo di opportunità sta alla base del concetto relativo al tasso di rendimento di riferimento (richiesto) al quale deve essere confrontato, in ogni momento, l’attuale rendimento a seguito di un determinato investimento e con il quale deve essere eguagliato col passare del tempo (Ibbotson Associates 1994: 129-130). Secondo certe ulteriori assunzioni (come la richiesta di un tasso di rendimento costante o che cambia molto poco) si può ottenere il valore attuale (PV) standard scontato o i modelli relativi ai prezzi degli asset i cui dividendi sono scontati (il flusso di cassa scontato o DCF). Ma questi modelli standard non possono essere rappresentati empiricamente in maniera efficace, comunque il nostro approccio è piuttosto diverso. Iniziamo con la premessa piuttosto diffusa che i saggi di rendimento concorrenziali adeguati al rischio tendono ad eguagliarsi tra i settori, ma invece di fare ulteriori assunzioni necessarie per realizzare i modelli del DCF per i prezzi delle azioni, noi confrontiamo direttamente il tasso di rendimento annuale del mercato azionario al saggio di rendimento sugli investimenti fatti nel settore dell’economia reale. In tal modo sviluppiamo una misura appropriata del saggio di rendimento sugli investimenti fatti nell’economia reale e dimostriamo che il suo andamento riflette fedelmente quello del tasso di rendimento del mercato

67

Metodo eseguito nelle rilevazioni dei rendimenti attraverso il quale ad ogni operazione viene assegnato un

numero che va da 1 a 9 per ponderare il rischio. In seguito il livello di rischio viene posto in relazione alla massa del capitale impiegato per trovare l’utile adeguato al rischio. (NdT). 68

La teoria dell’impresa consiste nel descrivere, spiegare e predire la natura dell’impresa o di una

corporation compresa la sua esistenza, il suo comportamento ed i rapporti con il mercato. (NdT). 69

Basata sul concetto che in un mercato efficiente beni identici devono avere un prezzo unico (NdT).

70

Secondo il quale occorre riportare all’oggi il valore di un capitale futuro come se fosse disponibile. (NdT).

92


azionario. Ciò implica che il cosiddetto premio di rischio71 è molto simile in entrambe i settori, cosa che ci porta a dimostrare che il mercato azionario è guidato direttamente dai fondamentali, ad esempio dai profitti di una corporate che emette azioni, e a valutare criticamente i modelli standard del DCF.

La Teoria della Finanza Moderna

Molta della teoria sulla finanza moderna si basa sull’ipotesi che la mobilità del capitale compensi il tasso di rendimento adeguato al rischio (Dybvig e Ross 1992:48; Cohen et all. 1987:131-48) incluso il return-risk trade off di Markovitz, ossia l’eguaglianza approssimativa tra i rendimenti adeguati al rischio nella determinazione dei prezzi degli asset (CAPM) e i modelli teorici relativi alla determinazione dei prezzi attraverso l’arbitraggio e l’eguaglianza stocastica tra i rendimenti previsti e reali relativi alla teoria dell’efficienza del mercato72. Il principio dell’attualizzazione del valore è basato anch’esso sulla stessa assunzione, quando viene applicato al mercato azionario porta direttamente al modello del dividend discount73 per il quale il prezzo di una azione deve essere pari (in equilibrio) al valore corrente scontato di una serie di dividendi presunti. Indichiamo con rSr = il saggio di rendimento di una azione posseduta nel periodo t (ad esempio dall’inizio del periodo t all’inizio del periodo t + 1), pSt = il prezzo della azione dt = il dividendo pagato per l’azione ed rt = il tasso di rendimento di una certa rilevanza che viene richiesto. Allora l’eguaglianza dei saggi di rendimento implica che:

pS(t+1) + d( t+1) rSt = rt , dove per definizione rSt = -------------------pSt

71

(1)

Il premio di rischio è la remunerazione extra necessaria per attivare un investimento che ha esito incerto

ossia è ad alto rischio.(NdT). 72

L’ipotesi del mercato efficiente afferma che i prezzi di un asset potrebbero riflettere pienamente tutte le

informazioni disponibili. L’intuizione che emerge da tale ipotesi è che se il prezzo non riflette tutte le informazioni disponibili, allora vi è una opportunità di profitto disponibile che, anche se piccolo, “presumibilmente dovrebbe attrarre, su larga scala, molti investitori” (Dybvig e Ross 1992: 48). Assumendo che l’arbitraggio abbia come obiettivo quello di eliminare le discrepanze, i prezzi reali e quelli previsti sulla base di informazioni disponibili e le restanti “deviazioni tra rendimenti reali e previsti dovrebbero essere causali, in media pari a zero, e non correlati ad informazioni sul mercato” (Tease 1993:43). 73

Metodo per la stima del valore intrinseco di un'azione sulla base dell'attualizzazione dei dividendi.

Secondo tale modello, il valore di un'azione è dato dal valore attuale dei dividendi che da essa ci si attende. In un orizzonte di valutazione infinito, il valore del titolo è una rendita perpetua dei dividendi stessi, ove il tasso di attualizzazione è il costo del capitale proprio.(NdT).

93


L’equazione 1 può essere riscritta in termini di prezzo corrente sulla giacenza dell’azione

d( t+1) pS(t+1) pSt = ----------- + --------1+ rt 1+ rt

(2)

Possiamo scrivere una equazione simile per pS( t+1) e sostituirla nella parte destra dell’equazione (2) e possiamo fare lo stesso per il termine successivo che interessa pS(t+2) e così via. Ciò porta a:

pSt =

d( t+1) d( t+2) pS(t+2) ---------- + ------------------ + --------------------- = (1+ rt) (1+ rt) (1+ r t+1)) (1+ rt) (1+ r t+1))

d( t+1) d( t+2) d( t+3) pS(t+3) ----------- + ------------------------- + ------------------------------- + ----------------------------- (3) (1+ rt) (1+ rt) (1+ r t+1)) (1+ rt) (1+ r t+1)) (1+ r t+2)) (1+ rt) (1+ r t+1)) (1+ r t+2))

Se assumiamo che il termine successivo si avvicini a zero possiamo continuare a sviluppare l’espressione precedente trovandoci di fronte ad un risultato, osservato da molti, per il quale il prezzo corrente di una azione viene espresso come il valore attuale scontato di futuri (attesi) dividendi dove i tassi di sconto sono i futuri tassi di rendimento correnti (o attesi) variabili nel tempo che sono richiesti. Ma, come sottolinea Campbell, questa riaffermazione del processo di arbitraggio “ si può trattare solo se i rendimenti aspettati (necessari) sono costanti che è una delle ragioni per cui la letteratura accademica si è concentrata per molto tempo su questo caso particolarmente spiacevole” (Campbell 1991:158;). Imponendo il limite piuttosto forte per cui rt = r per tutti i t, allora otteniamo un modello dividendi-sconto del prezzo delle azioni più familiare (la successiva equazione 4). Se poi si assume che i dividendi crescano nel tempo ad un determinato tasso costante g , con 0  g  r (g = 0 sarebbe il caso di un dividendo costante) possiamo utilizzare il modello di Gordon nella successiva equazione 5.(Le Roy 1992:172-74).

d( t+k)

pSt = 

---------

k=1

(4)

(1+ r)k

(Modello dividendi-sconto con tasso di sconto costante)

pSt =

d( t+1) --------- , per r  g (5) (r  g)

(Modello di Gordon, sconto costante e tassi di crescita dei dividendi ) 94


Il tasso di rendimento richiesto per il mercato azionario nel suo complesso

Le equazioni 3 e 5 sono solo dei modi alternativi per esprimere l’assunzione secondo la quale i tassi di rendimento del mercato azionario nel tempo devono essere in linea con alcuni ( e non ancora ben specificati) tassi di rendimento richiesti, per cui abbiamo bisogno di una teoria relativa al tasso richiesto. La maggior parte delle questioni sul tasso di rendimento richiesto partono dal presupposto di un mercato in cui vi sia una concorrenza perfetta e capitali ideali. In questo caso il tasso richiesto viene concepito come “il” tasso di interesse finchè, in una condizione di equilibrio di lungo periodo, si assume che ogni asset ed ogni corporation realizzino un tasso di rendimento esattamente uguale al tasso di interesse. Quando in tali condizioni viene introdotto il rischio (in contrasto con l’incertezza vera e propria), il concetto di tasso di rendimento richiesto si allarga per comprendere una intera economia con tassi di interesse senza rischi e un premio di rischio74 per un asset e per una corporate specifica. Ciò necessita quindi di un metodo indipendente per stabilire un rischio ben determinato ed un ipotetico premio di rischio ad esso associato così da poter determinare il tasso richiesto75. I modelli empirici relativi al mercato azionario aggregato assumono che i tassi di crescita dei dividendi siano costanti e lo siano pure (o variabili di poco) i tassi di rendimento richiesti, nonostante le stime di questi tassi in particolare varino notevolmente76. Ma mentre i modelli che ne derivano sono trattabili teoricamente, la loro performance empirica è piuttosto povera (Shiller 1989;88). Come dimostrato graficamente da Shiller i prezzi attuali delle azioni sono estremamente diversi da quelli che derivano dai modelli relativi ai dividendi standard scontati (Ibid. 78-82). Il problema emerge proprio dal presupposto che i modelli siano trattabili, per esempio ipotizzando che i tassi di sconto e di crescita dei dividendi siano costanti nel tempo. La Figura 1 (la fonte dei

74

Il Premio di rischio indica una remunerazione extra necessaria per attivare un investimento ad esito

incerto o ad alto rischio.(NdT) 75

Le varie misure di rischio comprendono quelle più usate come la varianza e la deviazione standard e

meno usate come la cosiddetta deviazione assoluta, la serie interquartile (la misura della dispersione statistica che equivale alla differenza tra i quartili maggiori e quelli minori NdT) e l’entropia. Ma l’introduzione di tali misure univarianti nel costrutto degli standard economici si è rivelata problematica. Caratterizzazioni meno restrittive del rischio, d’altro canto, offrono solo un parziale ordinamento delle variabili casuali (Machina e Rothshild 1992: 202-03). 76

Ad esempio in un lavoro sul mercato azionario aggregato Shiller (1989 Figura 4, pp 78-79) ed Ibbonson

Associates (1994;136-46) stimano il tasso di sconto dalla semplice media tra i tassi di rendimento reali sul mercato azionario. Barsky e DeLong (1993;fn 9, p.300) assumono un tasso di sconto reale del 6%, mentre Campbell utilizza come tasso di sconto il rendimento medio di lungo periodo sul mercato azionario (Campbell 1991;178).

95


dati ed i metodi vengono riportati in Appendice sui dati) mostra il tasso di rendimento annuale nel mercato azionario aggregato.( rSt ) e la sua media di lungo periodo (rSt )avg che può essere preso come una stima del corrispondente tasso di rendimento richiesto77.

Figura 1 Tassi di Rendimento del Mercato Azionario

(La linea intera indica i tassi di rendimento del mercato azionario quella tratteggiata la media di lungo periodo).

La Figura 2 illustra un modello simile relativo al tasso di crescita dei dividendi. In nessun caso risulta particolarmente utile assumere presunti valori costanti di queste variabili.

Figura 2 Tassi di crescita dei dividendi: attuale rispetto ai tassi medi di lungo periodo

77

Shiller (1989 Figura 4.1 pp 78-79) ed Ibbonson Associates (1994;136-46) calcolano in questo modo il

tasso di sconto effettivo.

96


Il persistere di problemi empirici relativi ai modelli del mercato azionario standard ha costretto molti autori a cercare formulazioni alternative. Barsky e De Long (1993: 302) continuano ad assumere un tasso di sconto costante ma ammettono che il tasso di crescita dei dividendi tende a variare lentamente nel corso del tempo. Dall’altro lato Fama e French (1988), Shiller (1989:81-82), Fama (1991) e Campbell(1994) sperimentano sulle aspettative di tassi di sconto che variano nel tempo. Ma nel complesso questi sforzi non hanno prodotto risultati importanti (per ulteriori dettagli vedi la discussione relativa alla Figura 5). Shiller (1989:87-91, 118-32) avanza una critica efficace su questo tipo di lavori. Non ci deve sorprendere che le attenzioni si siano recentemente spostate dai fondamentali verso la psicologia dell’investitore, il comportamento speculativo e le bolle (Shiller 1989; capitoli 1 e 2; Cutler et all. 1990 e De Long et all, 1990).

Un Approccio basato sul Profitto

La nozione secondo la quale i movimenti del capitale tendono ad eguagliare tra i settori i tassi di rendimento aggiustati dal rischio è fondamentale (Cohen et all 1987:375). Ma da un punto di vista neoclassico e marxiano la concorrenza provoca sia la tendenza ad eguagliare i tassi di rendimento sia i fattori che differenziano i tassi stessi (come nuovi prodotti, nuove tecnologie ecc). Ne risulta una dinamica e l’evoluzione di un processo in cui i tassi di rendimento non sono mai uguali in un determinato periodo di tempo ma fluttuano tra loro continuamente (Botvinick 1993 capitolo 5, Mueller 1986; 8; Mueller 1990: 1-3). Chiameremo questo processo “arbitraggio turbolento” per distinguerlo dal punto di vista convenzionale che prevede uno stato di equilibrio nel quale i tassi di rendimento sono perfettamente uguali. La possibilità che i flussi di capitale tra il mercato azionario ed il settore reale eguaglino i loro tassi di rendimento porta ad una questione interessante: come è possibile che un singolo investitore (ad esempio non capitalista) giochi un ruolo così importante sul mercato azionario? La risposta è che per i flussi di capitale finanziario è necessario semplicemente aggiungere o sottrarre nel mercato azionario investimenti sufficienti in modo da regolare, in un intervallo di tempo piuttosto considerevole, il suo tasso di rendimento. Ciò è perfettamente compatibile con le manie e le mode purchè alla fine dominino i fondamentali (Shiller: 1989; 374-6). In ogni processo del genere, è generalmente riconosciuto che è il tasso di rendimento sui nuovi investimenti ad essere rilevante per la mobilità del capitale (Cohen et all 1987; 375) Quando vengono analizzati gli investimenti nelle corporation l’approccio tradizionale poneva al primo posto il tasso di rendimento su tutta la durata del capitale investito Lo stesso tipo di approccio viene sostenuto dalle analisi sul mercato azionario, dal quale si possono utilizzare i modelli dei dividendi scontati relativi ai prezzi degli asset. Il tasso di rendimento su nuovi investimenti operati sia nelle corporate sia nel mercato azionario viene tradizionalmente definito in due modi: in maniera esplicita come il Tasso di Rendimento Interno Costante nel Tempo (IRR) che sconta i flussi di

97


denaro contante sui costi dell’investimento che li ha generati; o in maniera implicita come l’eccesso sul valore attuale dei costi di investimento ad un certo tasso di sconto a priori costante nel tempo78. Un approccio alternativo consiste nel cercare di stimare direttamente il tasso di rendimento su tutta la durata del capitale investito relativo ad un nuovo investimento. In questo caso il metodo più comune consisteva nell’approssimare il rendimento su un nuovo investimento attraverso il saggio medio del profitto sul totale del capitale investito. Quest’ultimo è direttamente osservabile e può, in certe condizioni piuttosto restrittive, essere accostato al rendimento di lungo periodo per un nuovo investimento. Tuttavia la validità di questo approccio è in generale oggetto di dispute piuttosto accese (Mueller 1990; 9-14). Intendo assumere un approccio piuttosto diverso su questo problema. Per iniziare desidero sostenere che l’incertezza e la misconoscenza del tempo storico reale rende “di vitale importanza” il breve periodo come distinto dal lungo periodo (Vickers 1993, 25). I profitti correnti riflettono molti fattori transitori inclusi gli effetti sul breve periodo delle dinamiche relative al disequilibrio. Nondimeno, profitti esageratamente elevati o bassi alterano i flussi di capitale, che uno dopo l’altro provocano “nuove incertezze e nuovi picchi di profitto e di perdita” che influenzeranno a loro volta i flussi di capitale e così via. Ne risulta una serie di fluttuazioni continue nelle quali i tassi di rendimento sugli investimenti nel periodo immediato (in contrasto con quelli su tutta la durata del capitale investito) costituiscono un segnale importantissimo (Geroski e Mueller 1990, 187; Mueller, 1986; 8). Ciò appare ovvio nel caso del mercato azionario che è di per se di breve termine poiché tutte le azioni di una determinata compagnia (per qualsiasi “annata”) sono in egual misura sul mercato. Nel mercato azionario il tasso di rendimento corrente veniva definito in precedenza con l’equazione 1 e se le variabili più importanti vengono espresse in termini reali allora costituisce il tasso reale. Tuttavia ciò che resta da fare è di accostarci al tasso di rendimento sul brevissimo periodo nel settore delle corporation. Iniziamo a rilevare che il profitto totale corrente Pt può essere espresso sempre come somma dei profitti correnti sugli investimenti a breve (rt It-1) ed i profitti correnti rispetto a tutte le annate

78

Dumenill e Levy (1990) tentano in maniera interessante una stima diretta dei flussi di profitto su tutta la

durata del capitale investito, associati a determinati investimenti, utilizzando la assunzione particolare relativa all’andamento nel tempo del rapporto capitale-lavoro e capitale-output associati ad un determinato investimento e all’andamento previsto dei salari reali per tutta la durata di quell’investimento. Tuttavia essi utilizzano queste grandezze per stimare il tasso di sconto reale ad es. Tasso di Rendimento Interno Costante che sarà uguale al valore attuale scontato dei flussi di profitto su tutta la durata del capitale investito rispetto al valore di un determinato investimento in un anno particolare. Essi calcolano tale tasso di sconto per ogni investimento effettuato annualmente ed hanno trovato che le misure ottenute sono chiaramente omogenee e seguono la media del saggio del profitto di lungo periodo sul capitale totale. Dumenill e Levy (1990; 406-10).

98


precedenti (P’t). Sottraendo i profitti passati Pt-1 da entrambe i membri di questa eguaglianza possiamo ricavare:

 Pt = Pt  Pt-1 = rt It-1 + (P’t  Pt-1)

(6)

Il nostro obiettivo è quello di stimare il tasso di rendimento corrente sugli investimenti a breve rt. Nell’equazione 6 sono osservabili tutti gli altri termini eccetto (P’t  Pt-1), finchè P’t è ignoto. Ma quanto più la rilevazione viene effettuata su una visione di breve periodo tanto più il profitto corrente perdurante nelle annate (P’t) sarà vicino al profitto dell’ultimo periodo rispetto agli stessi beni capitale (Pt-1). Se possiamo assumere che in un una visione rilevante di breve periodo ( per dire su un anno), la differenza (P’t  Pt-1) non è un valore elevato rispetto agli altri termini, così possiamo approssimare il tasso di rendimento corrente su un nuovo investimento (Elton e Gruber 1991; 454) come:

 Pt rt = ------It-1

Se i profitti reali P’t e gli investimenti It-1 sono delle grandezze nette allora rt rappresenta il tasso di rendimento incrementale (netto) sul capitale (finchè l’investimento netto = K

t-1,

dove K

t

rappresenta lo stock di capitale all’inizio del periodo t). Quando i profitti e gli investimenti sono in termini lordi possiamo considerare rt sia come tasso di rendimento incrementale lordo sia come approssimazione del tasso netto. Utilizzare le variabili al lordo ci concede un notevole vantaggio poiché i tassi netti richiedono misure di deprezzamento e di smobilitazione dell’investimento le cui stime presentano molti e ben noti problemi (Feldstein e Rothschild 1974; Usher 1980). Confrontando la profittabilità del mercato azionario e delle corporation è importante ravvisare che le misurazioni esistenti dei profitti della corporate sono al netto del pagamento degli interessi. Perciò relativamente al mercato azionario la misura più appropriata è il tasso di rendimento netto (dagli interessi) r’St = rSt  it dove it = tasso di interesse primario richiesto dalle banche (per ulteriori dettagli vedi i dati in Appendice)79. La Figura 3 mette a confronto il tasso di rendimento netto del mercato azionario r’St con la contabilità dei tassi di rendimento (lordo del deprezzamento ma al netto degli interessi) Rt = Pt / K t utilizzato spesso come prossimo al tasso di rendimento di lungo periodo (Mueller 1990: 9). La successiva Figura 4 mette a confronto l’ r’St con il tasso di rendimento incrementale lordo delle

79

Nella parte di interesse netto sulle entrate delle imprese vengono esclusi i pagamenti degli interessi al

settore finanziario che potrebbero essere stimati ed aggiungerli ai profitti totali ma i dati più rilevanti forniti dall’ US Internal Rvenue Statistics of Income sono disponibili per un intervallo di tre anni.

99


corporate rt. Risulta immediatamente evidente che il tasso medio Rt riesce a spiegare pochissimo il tasso di rendimento del mercato azionario mentre il tasso incrementale rt ,d’altro canto, lo fa invece molto bene. Il rapporto tra il tasso del mercato azionario ed il tasso medio delle corporate Rt è solo 0,048 mentre il rapporto con il tasso incrementale rt è quasi nove volte più alto ossia 0.414. Finchè il tasso di rendimento nel mercato azionario è sostanzialmente una misura normalizzata dei cambiamenti nelle entrate (al netto degli interessi), il parallelismo tra questo e l’indice del mercato azionario rende fortemente valida la preoccupazione degli investitori di borsa per i tassi di interesse e per i cambiamenti delle loro entrate80. Esso conferma anche il senso generale espresso dagli studiosi che affrontano empiricamente il mercato azionario secondo il quale “gli investitori non si aspetterebbero un tasso di rendimento sempre maggiore oppure minore più di quello garantito dalle corporation nell’economia reale (Diermeier et all. 1984).

Figura 3 Tassi di rendimento: mercato azionario vs tasso medio delle corporation

Il concetto di arbitraggio turbolento proposto in questo studio non richiede una correlazione stretta tra le due variabili. Potrebbe verificarsi, per esempio, che le due variabili fluttuino tra loro senza essere statisticamente correlate81

80

Peavy afferma che “le variazioni nei prezzi delle azioni possono essere largamente spiegate dai flussi di

cassa (profitti lordi) delle corporation e dai cambiamenti del tasso di sconto che determinano il prezzo di tali flussi di cassa … (questo è il motivo per cui) gli investitori monitorano accuratamente i movimenti dei profitti delle corporation e dei tassi di interesse” (1992: 10)

100


Il concetto di arbitraggio turbolento proposto in questo lavoro non richiede al momento attuale una stretta correlazione tra le due variabili. Si potrebbe verificare, per esempio, che le due variabili fluttuino tra loro senza essere statisticamente correlate16. Ma esse dovrebbero essere “accostabili” in qualche modo come nella media o forse in termini di media percentuale delle deviazioni quadratiche o assolute. Ma nel nostro caso la corrispondenza stretta che si può osservare tra i due tassi di rendimento, rappresentata nella Figura 4, riflette anche molto bene la similarità della loro media, delle deviazioni standard e dei coefficienti di variazione (deviazione standard/media) come mostrato nella Tabella 1.

Figura 4 Tassi di rendimento: mercato azionario vs tasso incrementale delle corporation

16

Un caso semplice è quello relativo ai due (cosiddetti) tassi di rendimento r2t = r1t + ε , dove ε = una piccola

variabile casuale attorno allo zero ed r1t= costante. Quindi r1t ed r2t sono legati l’uno all’altro, fluttuano tra loro, hanno lo stesso significato ma non sono assolutamente correlati.

101


Tabella 1 Media Tasso netto dei rendimenti

0,063

Deviazione Standard

Coeff. di variazione

0.1361

2,2570

S&P 500 ( rSt  it) Rendimento su nuovi Investimenti delle Corporation

0,0678

0.1463

2,1578

Uno dei dubbi più importanti presente negli studi sul mercato azionario riguarda la “volatilità inspiegabile” dei prezzi delle azioni rispetto alle previsioni dei modelli standard (Shiller, 1989, 79; Tease 1993, 42) che, come abbiamo visto, si basano sulla assunzione empiricamente insostenibile secondo la quale i tassi di sconto e i tassi di crescita dei dividendi siano costanti. Ciò che è stato scoperto in precedenza getta anche una nuova luce sul problema. Finchè i dividendi per azione sono relativamente omogenei, i prezzi delle azioni hanno prevalentemente la funzione di variare in modo tale di mantenere i rendimenti sul mercato azionario in linea con i fondamentali sottostanti. Infatti se questi sono volatili, come sono in realtà, allora i prezzi azionari saranno anch’essi volatili, di conseguenza la questione principale sta nella volatilità relativa agli incrementi del saggio del profitto e si può mostrare che sono prevalentemente le fluttuazioni della domanda aggregata, espressa dal saggio del grado di utilizzo della capacità, ad influenzare la volatilità osservata degli incrementi del saggio del profitto82. La questione può essere affrontata direttamente confrontando i prezzi delle azioni a quelli garantiti dalla nostra assunzione secondo la quale l’arbitraggio turbolento rende il tasso di rendimento netto del mercato azionario r’St = rSt  it (dove it = tasso di interesse) approssimativamente uguale al rendimento corrente sui nuovi investimenti delle corporation rt. Seguendo le indicazioni di Shiller possiamo calcolare quale particolare prezzo delle azioni garantito in ogni periodo renderebbe il tasso di rendimento del mercato azionario esattamente uguale al tasso delle corporation. In questo caso l’equazione 1 ci permette un stima esatta e possiamo utilizzarla:

p wSt = pS (t-1) 1 + (r+t  ySt) = il prezzo garantito dell’azione

82

Benché non possiamo approfondire la questione, è possibile mostrare che i cambiamenti negli

investimenti delle corporation possono essere legati ai cambiamenti dei profitti reali e che le improvvise fluttuazioni di questi ultimi riflettono i mutamenti nell’utilizzo della capacità.

102


Dove r+t = rt + it = rendimento incrementale delle corporation inclusi gli interessi del costo di opportunità83 e ySt = dt / pS (t-1) = rendimento della azione. La Figura 5 mette a confronto le stime reali del prezzo garantito dell’azione pwSt con il prezzo attuale realmente osservato pS t . Seguendo nuovamente Shiller entrambi vengono detrendizzati84 dividendoli per le entrate di una azione sulla media dell’andamento trentennale. Cosa che rende questi due valori confrontabili nel suo famoso diagramma (Shiller 1989. 78-82).

Figura 5 prezzi delle azioni attuali e garantiti, detrendizzati rispetto alle entrate medie su trent’anni

Si possono scoprire molte cose da questi dati. Prima di tutto risulta chiaro che i prezzi attuali fluttuano attorno al prezzo garantito, precisamente come ci si può aspettare secondo la nozione di arbitraggio turbolento. In secondo luogo in forte contrasto con i risultati standard, il prezzo attuale di una azione è meno, e non più, volatile rispetto alla misura del prezzo garantito che abbiamo rilevato. Ciò riflette di conseguenza le differenze dei modelli utilizzati. Infine, il coefficiente di correlazione semplice tra le due serie è pari a 0,935 (R2 = 0,875) paragonabile in maniera molto efficace con i risultati tipici ottenuti dal modello standard dei dividendi scontati. Shiller (1989, 9182) fornisce un coefficiente di correlazione semplice pari a 0,296 (R2 = 0,088) a tasso di sconto costante e di 0.048 (R2 = 0,0023) a tassi di sconto variabili. Le migliori stime di Barsky e De Long (1992;302), basate sulle variazioni del tasso di crescita dei dividendi, spiegano solo il 9% delle 83

È il rendimento alternativo di un investimento affine a quello in esame per caratteristiche di rischiosità. Il

costo opportunità è calcolato per mettere in evidenza la maggiore o minore convenienza a effettuare un investimento, mettendolo a confronto con altri similari. (NdT) 84

Uno degli scopi fondamentali dell’analisi classica delle serie temporali è quello di scomporre la serie nelle

sue componenti, isolandole per poterle studiare meglio (NdT).

103


variazioni annuali del prezzo delle azioni. Dall’equazione di Campbell (1990:46) basata sulla previsione dei rendimenti annuali delle azioni con tassi di interesse variabili nel tempo ed i rendimenti del mercato azionario si ricava R2 = 0,025 tra i due tipi di prezzi.

Riassunto e Conclusioni

Da questo studio emerge che i movimenti empirici dei prezzi delle azioni possono essere spiegati direttamente dai fondamentali. Questa correlazione deriva dal fatto che i tassi di rendimento sul mercato azionario, che è intrinsecamente a breve termine o contingente, è legato al tasso di rendimento in tempi ravvicinati di un nuovo investimento nelle corporation (che noi associamo al saggio del profitto incrementale delle corporation) attraverso i movimenti intersettoriali di capitale tra i due settori Il tracciato dei due tassi sono estremamente connessi tra loro (Figura 4), non sono mai uguali ma fluttuano sempre l’uno sull’altro mostrando di avere la stessa media e la stessa deviazione standard (Tabella 1) Le stesse considerazioni, molto più forti, posso essere fatte sul rapporto tra i prezzi attuali delle azioni e quelli garantiti dal fenomeno dell’ “arbitraggio turbolento” (Figura 5). La correlazione tra i due è 0,935 che è molto più alta, per dire, di quella trovata da Shiller pari a 0, 296 secondo il modello convenzionale del tasso di sconto sui dividendi. L’approccio teorico assunto in questo studio implica che il saggio incrementale del profitto nel settore dell’economia reale equivale al costo di sostituzione (ad es. il tasso di rendimento “richiesto”) del capitale finanziario investito nel mercato azionario. Finchè questo tasso di rendimento reale è esso stesso altamente volatile, sollecitato dalle fluttuazioni di breve termine della domanda aggregata, la volatilità dei rendimenti (Figura 4) e dei prezzi delle azioni (Figura 5) è quindi spiegata dai movimenti originatisi nell’economia reale che a loro volta stanno alla radice delle fluttuazioni della domanda aggregata. Risulta quindi facile osservare che i modelli teorici convenzionali, che tipicamente assumono costanti sia i tassi di rendimento richiesti (tassi di sconto) sia il tasso di crescita dei dividendi, non sono assolutamente in grado di spiegare i movimenti dei prezzi azionari. D’altro canto finchè il tasso incrementale del profitto è dato dai mutamenti delle entrate normalizzate dagli investimenti, ciò che è stato trovato in questo lavoro si accorda molto bene con l’esperienza “di tutti i giorni” che considera i movimenti dei prezzi azionari governati dai tassi di interesse e dai cambiamenti nelle entrate. In ultimo, è interessante notare che l’approccio assunto in questo paper è compatibile con la funzione di investimenti fissi identica nella forma generale a quella proposta da Kalecki.

Nel

rilevare che il tasso incrementale del profitto è sostanzialmente uguale tra i vari settori, ho notato chiaramente che questi tassi incrementali influenzano fortemente i relativi flussi di investimento tra questi stessi settori . Se normalizziamo le decisioni di investimento D, relativi, per dire, al livello corrente dei profitti P, una formula plausibile della funzione degli investimenti è:

104


Dt --------

Pt

 Pe t-1 = f ( ----------) It

(9)

Ora, se i tassi di rendimento futuri su un nuovo investimento vengono proiettati sulla base dei tassi correnti85 ( e su nuove informazioni correnti, che qui non prendiamo in considerazione). Allora possiamo riscrivere l’equazione 9 come:

Dt = Pt  f

Pt (-------) = F ( P t ,  P t ,  K t) I t-1 + + 

(9’)

Dove I t-1 =  K t = la sostituzione dello stock di capitale ad inizio d’anno. Kalecki stesso arriva esattamente alla stessa formula generale in funzione della decisione di investimento. “Quando viene ponderata la profittabilità di un nuovo investimento progettato” egli scrive” le aspettative di profitto vengono considerate in relazione al valore del nuovo equipaggiamento” (Kalecki 1968; 96). Si potrebbe pensare che ciò ci porti direttamente ad una formulazione come quella dell’equazione 9. Infatti Kalecki elenca separatamente la variazione del profitto corrente P

t

come un fattore positivo per le decisioni di investimento poiché dato un

volume di investimenti i mutamenti del profitto “ rende attrattivi certi progetti che in precedenza venivano considerati non profittevoli e quindi permette una estensione dei limiti relativi ai piani di investimento” ed in seguito elenca separatamente i cambiamenti dello stock di capitale K come fattore negativo “ poiché un aumento in volume degli equipaggiamenti se i profitti P t rimangono costanti implica una riduzione del saggio del profitto” (Kalecki 1968; 97-98; Sawyer 1985; 50,51). E’ mia impressione che anche questo sia un modo piuttosto tortuoso per arrivare al punto di partenza e precisamente che le decisioni di investimento dipende dal rapporto tra l’incremento di profitto generato da un nuovo investimento e il valore di tale investimento. Infine Kalecki per spiegare l’effetto dei fondi accumulati aggiunge anche un terzo fattore che definisce come somma del deprezzamento, gli utili non distribuiti e “i risparmi personali” del gruppo di controllo investiti nella propria compagnia attraverso la sottoscrizione di nuove azioni emesse” (ibid). Questi risparmi lordi” totali “ al di fuori del profitto” (Sawyer 1985; 49) sono ovviamente in funzione dei profitti lordi aggregati, P

t

benché Kalecki scelga di associarli ai risparmi lordi dell’economia considerata nel

senso più ampio S t . Con questo possiamo osservare immediatamente che la formula generale

85

Se le decisioni prese sugli investimenti correnti determinano il flusso degli investimenti ad un particolare

livello successivo (Kalecki 1968; 96) in questo caso non esistono contraddizioni tra l’affermazione che le decisioni sugli investimenti correnti D t dipendono dal tasso di rendimento corrente e l’affermazione secondo la quale l’investimento corrente I

t

(basato su decisioni passate sull’investimento) ci aiuta a determinare i

profitti correnti realizzati P t.

105


relativa alla funzione dell’investimento personale86 di Kalecki è identica a quella che deriva della premessa di una eguaglianza dei saggi del profitto tra le industrie ed i settori.

D t = f (S t ,  P t ,  K t) = F (P t ,  P t ,  K t) +

+

+

(10)

+

Poichè S t = h (P t) = una funzione dei profitti lordi totali. L’eguaglianza delle due formule generali relative alle funzioni della decisione di investimento è semplicemente un riflesso del fatto che entrambe enfatizzano l’importanza della profittabilità nella decisione di investimento (ibid, 52). La probabile differenza di interpretazione delle singole componenti non dovrebbe oscurare questo fatto importante.

Appendice sui dati

I dati sul mercato azionario si riferiscono all’indice S&P 500 (come ultimo dato Satandard & Poors 1993). I dividendi nominali per azione d’ derivano dalla moltiplicazione del rendimento corrente (d’Ip’s) per l’indice nominale dei prezzi azionari p’s . Entrambi vengono deflatti del deflattore implicito dei prezzi sul totale degli investimenti privati lordi in capitale fisso (1987 =100) come mostra l’Economic Report of the President (ERP 1995 tav B-3) ed utilizzati per calcolare il tasso di rendimento reale del mercato azionario r’St ( Equazione 1 e Figura 1) ed il tasso di crescita dei dividendi (Figura 2). Infine il tasso di interesse reale it è stato calcolato dalla differenza tra il tasso di interesse primario nominale richiesto dalle banche (ERP 1995 tav B-72) ed il tasso di crescita del deflattore relativo agli investimenti, descritto in precedenza, utilizzato per calcolare il tasso di rendimento netto del mercato azionario r’St = rSt  it ( Figura 3 e 4). La media delle entrate reali utilizzata per detrendizzare la serie dei prezzi (Figura 5) è stata ottenuta dai dati relativi ai rendimenti di lungo periodo per azione e dai prezzi di produzione (1982 = 100) gentilmente forniti da Robert Shiller. I dati relativi alle corporation si riferiscono all’economia americana Lo stock di capitale iniziale per anno Kt si riferisce al capitale fisso delle imprese private (residenziali e non residenziali) anno per anno, a costi costanti, in milioni di dollari USA 1987, sostituito ad inizio anno (BEA 1993 Tavola A6, A9 e gli aggiornamenti successivi) L’investimento reale I

t

in dollari 1987 è la somma degli

investimenti fissi delle imprese private residenziali e non residenziali (BEA 1993 Tavola B4, B6 e gli aggiornamenti successivi). I profitti reali delle corporation P t sono stati calcolati deflazionando i profitti nominali totali (delle corporate), lordi del consumo di capitale assegnato, del deflattore di

86

Sawyer (1985; 51) chiarisce che la particolare formula lineare in cui Kalecki inserisce la sua funzione

relativa alle decisioni di investimento è semplicemente una “ approssimazione lineare” della formula funzionale generale.

106


investimento. Quest’ultimo è stato calcolato sommando i profitti finanziari e non finanziari, righe 3 e 4 Tavola 6.16 A-C, National Income and Product Accounts (BEA 1992-93 e aggiornamenti successivi) ed il consumo del capitale fisso delle corporate (ibid, Tavola 8.11, riga 2). Il saggio del profitto medio (Figura 3) è stato calcolato dal rapporto P t/ K t e il tasso incrementale del profitto (Figura 4) con rt =  P t/ I t-1.

Rigraziamenti

Vorrei ringraziare Neil Buchanan e Levent Kockesen per i loro commenti veramente utili. Robert Shiller per aver fornito i dati di lungo periodo sulla borsa ed il Jerome Levy Economic Institute per il sostegno generoso.

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Note al testo di Antonio Pagliarone

Colgo l'occasione per formulare in poche parole l'essenza della mia critica a quello scritto di Shaikh. Per dimostrare che la finanza non è nulla di speciale ed è sempre determinata dai fundamentals, Shaikh fra le altre cose misura il rapporto fra il movimento del saggio incrementale del profitto del settore corporate e il movimento del rendimento di Wall Street (S&P 500) (vedi Figura 4 a p.397 dell'originale, che è la più importante dello scritto) trovando un livello piuttosto elevato di correlazione, correlazione che comunque si perde dagli anni 80 in poi (guardate bene il grafico della Fig.4). Ma questa non è una sorpresa perchè nel settore corporate è compresa anche la finanza, e quindi è come se lui misurasse la correlazione fra un qualcosa e una parte medesima di questo qualcosa. Fra l'altro il coefficiente di correlazione fra quello che lui chiama il warranted real equity price e lo actual real equity price (Fig.5 a p.398) è incredibilmente elevato (R=0.935) e vicino al massimo teorico pari a uno, e questo dovrebbe normalmente mettere in sospetto e allarme. Per corroborare la sua tesi quello che doveva fare era (è) misurare il rapporto fra il rendimento di Wall Street e il saggio del profitto incrementale della parte nonfinanziaria del settore corporate. I risultati sarebbero stati (e sono) diversi. Oltretutto quello che lui (e molti altri) chiamano il rendimento di Wall Street è una grandezza spuria composta da due quantità non sommabili: aumento del valore nominale delle azioni e dividendi incassati, cosa che rende tale nozione non del tutto sensata.

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La prima grande depressione del XXI secolo Anwar Shaikh

La crisi economica generale scatenatasi nel 2008 a livello mondiale è una Grande Depressione propiziata da una crisi finanziaria verificatasi negli Stati Uniti, pur non essendone stata la causa. La crisi è una fase assolutamente normale in un processo di lungo periodo ricorrente proprio dell'accumulazione capitalistica, nel quale lunghi cicli di boom lasciano spazio a lunghe regressioni. Quando si verifica tale transizione, la salute dell'economia da buona diventa cattiva. Nella seconda fase una crisi può essere originata da uno shock, proprio come è accaduto nel 2007 con il crollo del mercato dei mutui subprime e come shock precedenti che fecero da catalizzatori alle crisi generali negli anni '20 e '70 dell'Ottocento, negli anni '30 e '70 del Novecento (1). Nel suo libro sicuramente più famoso, “The Great Crash 1929”, J. K. Galbraith affermò che mentre la grande depressione degli anni '30 venne preceduta dal dilagare di una speculazione finanziaria, fu la condizione fondamentalmente instabile e fragile dell'economia nel 1929 che permise al crollo del mercato azionario di dare il via ad un collasso economico (2). Così come accadde allora, accade oggi (3). Coloro che scelgono di considerare ciascun episodio come un evento isolato, come l'apparizione casuale di un “cigno nero” in uno stormo finora immacolato(4), hanno dimenticato le dinamiche della storia che essi stessi cercano di spiegare e nel procedere si dimenticano inoltre, e volutamente, che è la logica del profitto che ci condanna a ripetere questa storia. L'accumulazione capitalistica è un processo dinamico turbolento caratterizzato al suo interno da ritmi imponenti regolati da fattori congiunturali e da particolari eventi storici. L'analisi storica reale dell'accumulazione deve perciò distinguere tra percorsi intrinseci e le loro particolari rappresentazioni storiche. I cicli economici sono i fattori più visibili delle dinamiche capitalistiche. Un ciclo breve (3-5 anni delle scorte) nasce dalle oscillazioni perpetue della domanda e dell’ offerta aggregata, e un ciclo medio (7-10 anni di capitale fisso) dalle fluttuazioni più lente della capacità e dell’offerta aggregate. (5). Tuttavia sottostante questi cicli economici vi è un ritmo molto più lento che consiste nell'alternanza di lunghe fasi di accumulazione che può accelerare e decelerare per cui i cicli economici sono articolati sulla base di queste onde fondamentali. (6) La storia del capitalismo viene sempre recitata su un palcoscenico in movimento.

Dopo la Grande Depressione degli anni '30 del '900 venne la Grande Stagflazione degli anni '70. In quel caso la crisi sottostante era mascherata da un'inflazione galoppante, ma ciò non impedì grosse perdite di posti di lavoro, un grosso calo nel valore reale dell'indice del mercato azionario e fallimenti su larga scala di aziende e di banche. A quel tempo vi era un'ansia considerevole secondo la quale il sistema economico e quello finanziario sarebbero crollati insieme. Per i nostri scopi attuali, è utile notare che in paesi come gli USA ed il Regno Unito la crisi portò ad alta

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disoccupazione, attacchi ai sindacati ed al sostegno statale per la popolazione lavoratrice e per la povertà, e ad una inflazione che rapidamente erose sia i salari sia il valore reale dell'indice del mercato azionario. Altre nazioni, come il Giappone, fecero ricorso ad una bassa disoccupazione e ad una graduale deflazione degli asset che prolungò la durata della crisi ma impedì che nel paese avvenisse un grave crollo che al contrario si verificò negli USA e in Gran Bretagna. A prescindere da queste differenze, in tutti i maggiori paesi capitalisti cominciò negli anni '80 un nuovo boom, stimolato da un poderoso calo dei tassi di interesse che innalzò notevolmente l’indice netto del rendimento sul capitale, cioè fece aumentare la differenza al netto tra il saggio di profitto e il tasso di interesse. Gli interessi in calo facilitarono inoltre la diffusione di capitale a livello globale, promossero un enorme incremento del debito dei consumatori e alimentò bolle finanziarie ed immobiliari a livello internazionale.

Le stesse imprese finanziarie chiesero prepotentemente la deregulation delle attività finanziarie in molte nazioni e ad eccezione di poche, come il Canada, questa pressione ebbe un enorme successo . Allo stesso tempo, in paesi come gli USA o la Gran Bretagna ci fu un aumento senza precedenti dello sfruttamento del lavoro, manifestatosi nel relativo rallentamento dei salari reali rispetto alla produttività. Come sempre, il beneficio diretto fu un enorme incremento del saggio di profitto. Un rallentamento dei salari avrebbe normalmente determinato come effetto collaterale una stagnazione del consumo, tuttavia, con tassi di interesse che cadevano e il credito reso perfino più facile, la spesa per il consumo e altri tipi di spesa continuarono a salire, sostenuti da una marea montante di debito. Tutti i limiti sembravano sospesi, tutte le leggi sui movimenti abolite. E infine venne la caduta. La crisi dei mutui negli USA era soltanto il catalizzatore immediato, ma Il problema sottostante era che la caduta dei tassi di interesse e la crescita del debito, che avevano alimentato il boom, raggiunsero i loro limiti.

La crisi attuale è ancora in corso e in tutti i maggiori paesi avanzati sono stati creati aumenti massicci di denaro che venne incanalato verso il settore delle imprese per puntellarle, ma questo denaro rimase per lo più bloccato nelle imprese stesse. Le Banche non hanno alcun desiderio di incrementare prestiti in un clima rischioso nel quale potrebbero non essere in grado di riscuotere il proprio denaro con un profitto sufficiente. Settori industriali come quello automobilistico hanno un problema simile, perchè sono sommersi da notevoli scorte di beni invenduti di cui è necessario sbarazzarsi prima ancora di pensare ad espandersi. Pertanto la maggioranza della popolazione non ha ricevuto alcun beneficio diretto dalle enormi somme di denaro elargite e i tassi di disoccupazione sono rimasti elevati. Rispetto a ciò, è sconvolgente che sia stato fatto così poco per espandere l'occupazione attraverso posti di lavoro creati dal settore pubblico, come è stato fatto dall'amministrazione Roosevelt durante gli anni '30 del '900.

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Questo ci porta ad una questione fondamentale: come è potuto accadere che il sistema capitalistico- le cui istituzioni, regole e strutture politiche sono cambiate così profondamente nel corso della sua evoluzione- sia ancora capace di manifestare certi fenomeni economici ricorrenti? La risposta sta nel fatto che questi particolari fenomeni sono radicati nella ricerca del profitto, che rimane il regolatore centrale del comportamento del capitale in tutta la sua storia. L'involucro del capitalismo muta costantemente perchè il suo core rimanga lo stesso. Una spiegazione esaustiva delle dinamiche teoriche va oltre la dimensione di questo saggio, tuttavia possiamo cogliere il senso della sua logica esaminando il rapporto tra accumulazione e profittabilità. In ciò che segue mi focalizzerò sugli USA perchè essi sono ancora il centro del mondo capitalista avanzato, ed è lì che la crisi si è originata. Ma bisogna dire che il problema è globale, e ricade in gran parte su coloro che già soffrono: le donne, i bambini e i senza lavoro del pianeta.

Accumulazione e profittabilità

“La macchina che guida l'impresa è...il profitto”(8) (J.M. Keynes) “Le vendite senza profitto sono prive di significato”(9) (Business Week)

Ogni impresa sa bene, pena la sua estinzione, che la sua raison d‘etre è il profitto. Gli economisti classici affermavano che era la differenza tra saggio di profitto (r) e tasso di interesse(i) ad essere centrale per l'accumulazione in quanto il profitto è l’utile degli investimenti attivi, mentre il tasso di interesse è l’utile degli investimenti passivi. Un dato ammontare di capitale potrebbe essere investito nella produzione o nella vendita di beni, nel prestare denaro o nella speculazione, in ogni caso il saggio di profitto costituisce l’utile, carico di tutti i rischi, le incertezze e gli errori ai quali tali tentativi sono soggetti.

Gli imprenditori finiscono per imparare che “Ci sono (cose) conosciute che sono conosciute. Ci sono cose sconosciute che vengono conosciute. Ma ci sono anche cose sconosciute che rimangono sconosciute” (10). D'altro canto, lo stesso ammontare di capitale potrebbe essere allo stesso modo investito in depositi di risparmio o in titoli sicuri, ricevendone così un interesse, in una tranquilla e relativa sicurezza. Il tasso di interesse è il benchmark, l'alternativa sicura all’utile sugli investimenti attivi. Marx afferma che è la differenza tra i due tassi- che egli chiama il saggio del profitto-di-impresa (r-z), che guida gli investimenti attivi. Keynes afferma pressappoco la stessa cosa: egli definisce il saggio di profitto l'efficienza marginale del capitale (MEC) e si focalizza sulla differenza tra esso e il tasso di interesse come il fondamento per la produttività dell'investimento. Anche l'economia neoclassica e post-keyenesiana si concentra su questa stessa differenza, benchè in maniera diretta: i costi di produzione sono definiti in modo che includano un “costo opportunità” che comprenda l'interesse equivalente sullo stock di capitale, così che “il profitto

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economico” è l'ammontare del profitto-di-impresa e il corrispondente saggio di profitto è semplicemente il saggio del profitto-di-impresa (r-i). (11)

Si consideri l’esempio seguente. Supponiamo che il profitto annuale di un'impresa sia 100.000$ e che il tasso di interesse corrente sia al 4% e il capitale dell'impresa all'inizio dell'anno sia 1.000.000$. Dunque, il capitale dell'impresa avrebbe potuto fruttare 40.000$ se fosse stato investito in un titolo sicuro. Da un punto di vista classico, possiamo pensare che il profitto dell'impresa sia formato da due componenti: 40.000$ come interesse equivalente e 60.000$ come profitto-di-impresa totale. L'economia neoclassica nasconde tutto ciò trattando l'ipotetico interesse equivalente come un “costo” alla pari dei salari, delle materie prime e del deprezzamento. Come conseguenza, la sua definizione di profitto economico è già profitto-di-impresa (60.000$). L'economia Post-Keynesiana adotta tipicamente molti concetti neoclassici, questo è uno di quelli. Il saggio di profitto è il rapporto tra profitto annuale e stock di capitale ad inizio anno, cioè: r = 100.000$/1.000.000$ =0,10. Il corrispondente saggio del profitto-di-impresa (re) è l'ammontare del profitto-di-impresa diviso per lo stock di capitale, il cui rendimento è re = $60.000/1.000.000$ = 6% . È facile osservare come il saggio del profitto-di-impresa eguagli la differenza tra il saggio di profitto e il tasso di interesse: re = r-i = 10%-4%= 6%.

A livello empirico diventano importanti due ulteriori considerazioni. Primo, il profitto come viene indicato nella contabilità nazionale non è né il profitto totale (P) né il profitto-di-impresa (PE) ma qualcosa che sta nel mezzo. La contabilità nazionale definisce il profitto economico come il profitto attuale al netto degli interessi netti pagati. Perciò se l'impresa presa in considerazione ha preso in prestito metà del suo capitale totale ($500.000), dovrebbe pagare 20.000$ per interessi attualizzati (4% del suo debito totale di 500.000$). Perciò, la misura del profitto (P' = $80.000) nella contabilità nazionale è il profitto attuale (P= 100.000) meno gli interessi pagati sul debito ($20.000). Pertanto, per misurare il profitto dobbiamo aggiungere gli interessi monetari attualizzati al dato del profitto rappresentato nella contabilità nazionale. Possiamo allora calcolare il livello e il saggio del profittodi-impresa nella maniera precedentemente discussa. (12)

Secondo, è importante notare che tutti i saggi di profitto saranno saggi reali, cioè aggiustati per l'inflazione, se usiamo i flussi di profitto in dollari-correnti al numeratore e lo stock di capitale a costi correnti (capitale misurato in termini dei suoi equivalenti a prezzi correnti) al denominatore. In questo modo sia il numeratore che il denominatore riflettono lo stesso set di prezzi, il che è l'essenza di una misura reale. (13) Ciò è ovvio nel caso del saggio di profitto (r) quando sia P sia K (capitale, ndt) riflettono i prezzi correnti, ma si applica anche al saggio del profitto-di-impresa (re) il cui numeratore è l'eccesso di profitto sull'interesse equivalente sullo stock di capitale di inizio anno

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(aggiustato) a costi correnti (P-iK). Misurato in questa maniera, il saggio del profitto-di-impresa re = r-i è un saggio reale. (14). Ulteriori dettagli, derivazioni e considerazioni sulla specificità delle misure di profitto e del capitale nella contabilità nazionale sono presentate in Appendice: fonti dei dati e metodi. Con questi strumenti nelle nostre mani, ci volgiamo all'analisi degli eventi che hanno portato alla crisi attuale. In primo luogo i movimenti del saggio di profitto.

Caratteristiche postbelliche dell’accumulazione negli USA

Il saggio generale di profitto

La figura 1 mostra il saggio di profitto per le imprese non finanziarie statunitensi, che è il rapporto fra i loro profitti prima degli interessi e delle tasse e i costi ad inizio anno degli impianti ed equipaggiamenti. Viene mostrato anche il trend del saggio di profitto. Come spiegato in precedenza, abbiamo bisogno di una misura del profitto prima del pagamento degli interessi perchè poi faremo una comparazione di questo ammontare con l'interesse equivalente sullo stesso stock di capitale per derivare il profitto-di-impresa.

Poichè i profitti resi noti dalle imprese non finanziarie sono al netto del pagamento degli interessi, aggiungiamo questo secondo ammontare ai loro profitti pubblicati. Questa misura allargata del profitto dell'industria non finanziaria ingloba una parte dei profitti delle corporation finanziarie, poiché queste ultime derivano i loro utili dal pagamento degli interessi. Osserviamo che il saggio

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del profitto è soggetto a molte fluttuazioni e può essere fortemente influenzato nel breve periodo da particolari eventi storici. Per esempio, il grande aumento del saggio di profitto negli anni '60 riflette la contemporanea escalation della guerra del Vietnam. Le guerre di solito sono positive per la profittabilità, almeno nelle prime fasi.

Il trend aggiustato del saggio di profitto, anch’esso mostrato nella figura 1, viene rappresentato in modo da distinguere tra i fattori strutturali del saggio di profitto e le fluttuazioni di breve periodo che sorgono da eventi congiunturali come la guerra del Vietnam. Vediamo che il trend del saggio di profitto è inclinato verso il basso per 35 anni, ma in seguito si è stabilizzato. La domanda è: che cosa ha determinato l’inversione di questa tendenza?

Produttività e salari reali

La figura 2 ci offre l'indizio principale. Mostra la relazione tra produttività oraria e compenso orario reale (salari reali) nel settore delle imprese U.S.A dal 1947 al 2008. I salari reali tendono a crescere più lentamente rispetto alla produttività, cioè il tasso di sfruttamento tende ad aumentare. Ma a cominciare dall'era Reagan, negli anni '80, la crescita dei salari reali rallentò in maniera considerevole e ciò risulta evidente se confrontiamo i salari reali attuali, a partire dal 1980, con l’andamento che essi avrebbero seguito se avessero mantenuto il rapporto con la produttività del periodo postbellico.

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Questa divaricazione dal trend fu realizzata grazie ad un attacco concertato al lavoro in questo periodo. Vedremo che il suo impatto sul saggio di profitto è stato drammatico, perchè la retribuzione dei dipendenti è un fattore importante rispetto al profitto.

L'impatto sulla profittabilità della compressione della crescita dei salari reali

La figura 3 mostra il forte impatto che l’eliminazione della crescita del salario reale ha avuto sui profitti. Essa mostra il saggio di profitto attuale così come l’andamento controfattuale che avrebbe seguito se i salari reali delle imprese non finanziarie avessero mantenuto il rapporto con la produttività del periodo postbellico. La repressione diretta contro il lavoro che cominciò nell'era di Reagan ebbe uno scopo ben preciso: alimentò il boom dell'ultima parte del XX° secolo.

La caduta straordinaria dei tassi di interesse

Abbiamo appena visto come la caduta del saggio di profitto venne sospesa tramite un rallentamento senza precedenti nella crescita dei salari reali, ma questa è soltanto una parte della spiegazione per il grande boom iniziato negli anni '80. All'inizio del mio saggio ho sottolineato come l'accumulazione capitalista sia guidata dalla differenza tra il saggio di profitto e il tasso di interesse, cioè dal saggio del profitto-di-impresa. Ed è qui che troviamo l'altra chiave di lettura del grande boom: la straordinaria caduta dei tassi di interesse iniziata più o meno nello stesso periodo.

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La figura 4 mostra il tasso di interesse a 3 mesi dei Buoni del Tesoro negli USA e l'indice dei prezzi per i beni capitali (pk), rappresentato con una linea tratteggiata. Nella prima fase, dal 1947 al 1981, tale tasso di interesse è salito di 24 volte, dallo 0.59% nel 1947 al 14.03% nel 1981. Nella seconda fase, dal 1981 in poi, è caduto pesantemente nelle stesse dimensioni, passando dal 14.03% ad un mero 0.16% nel 2009. Al fine di distinguere le influenze sul mercato degli interventi di politica monetaria

sarebbe

necessario

discutere

la

teoria

dei

tassi

di

interesse

determinati

competitivamente, il che non è possibile nello spazio di questo saggio. (15)

In ogni caso, qualsiasi fossero i pesi relativi dei fattori di mercato e delle decisioni politiche, la lunga crescita e la susseguente caduta di lungo periodo del tasso di interesse era evidente anche nei maggiori paesi capitalisti. La figura 5 mostra tale fenomeno attraverso il confronto tra il tasso di interesse USA e il tasso medio di interesse dei paesi partner commerciali degli USA. Tra le altre cose, ciò dimostra che le dinamiche osservate negli USA erano caratteristiche di tutte le aree capitaliste.

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Il saggio del profitto-di-impresa e il grande boom dopo il 1980

Possiamo ora mettere insieme tutti questi elementi. La differenza tra il saggio generale di profitto (misurato al lordo dell'interesse) e il tasso di interesse è il saggio del profitto-di-impresa. Questo costituisce la guida fondamentale dell'accumulazione, la radice materiale degli “animal spirits” del capitale industriale. La figura 3 mostrava che il saggio generale di profitto riemerse dal crollo di lungo periodo grazie all’ attacco concertato al lavoro che dopo il 1982 provocò una crescita sempre più modesta dei salari reali rispetto al passato. Le figure 4-5 hanno mostrato come il tasso di interesse cadde profondamente dopo il 1982.

La figura 6 mostra che l'effetto di questi due

movimenti, che non ha precedenti nella storia, ha prodotto l’aumento considerevole del saggio del profitto-di-impresa. Questo è il segreto del grande boom che cominciò negli anni 1980. Il grande boom fu estremamente contraddittorio. La caduta fenomenale dei tassi di interesse scatenò un'orgia di prestiti, e gli oneri del debito nel settore si ingigantirono.

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Alle famiglie, i cui redditi reali erano stati compressi dal rallentamento della crescita dei salari reali, furono offerti prestiti perfino piÚ convenienti per mantenere l’aumento dei consumi. Di conseguenza, come mostrato nella figura 7, il rapporto fra debiti delle famiglie e redditi crebbe enormemente negli anni '80.

Inoltre, una volta che il tasso di interesse era sceso fino a zero (attualmente è allo 0.0017, ossia 0.17%) in tali condizioni non si poteva andare piÚ da nessuna parte. Certo, il gap tra questo tasso di base e il tasso al quale le aziende o i consumatori prendono a prestito (il tasso primario, il tasso

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sui mutui) potrebbe essere ulteriormente compresso dallo stato, ma questo gap è la fonte del profitto del settore finanziario, che prende a prestito al primo tasso e presta a quell'altro. Perciò, le possibilità di restringere il gap sono limitate. Ma allora cosa può accadere se aumenta il rapporto fra debito e reddito? Dopo tutto, se indebitarsi è più economico, uno si può permettere di indebitarsi di più senza incorrere in un maggiore servizio-sul debito (il rapporto tra ammortamento e pagamento degli interessi sul reddito). In effetti, come mostrato nella figura 8, mentre il rapporto del debito sul reddito è cresciuto stabilmente negli anni '80, il corrispondente rapporto di servizio-sul debito rimase all'interno di un intervallo piuttosto ristretto: le famiglie si stavano indebitando maggiormente ma i loro pagamenti mensili non aumentavano così tanto.

Ma negli anni '90, mentre il debito continuava ad aumentare, anche il servizio-sul debito cominciò a crescere. Per il 2007 l'ondata del debito ha toccato il suo picco storico, e poi è sceso rapidamente nel 2008 poiché il debito diminuì perfino più rapidamente dei redditi negli spasmi della crisi ancora in corso.

Ciò solleva un punto importante. Dal lato dei lavoratori, il declino del tasso di interesse incoraggiò un indebitamento sempre maggiore delle famiglie; il che per un periodo li aiutò a mantenere il loro standard di vita nonostante il rallentamento dei salari reali. Da un punto di vista macroeconomico, la conseguente ondata di consumo delle famiglie aggiunse benzina al boom. La spinta primaria per il boom venne dalla fenomenale caduta dei tassi di interesse e dell'egualmente incredibile caduta nei salari reali rispetto alla produttività (crescita nel tasso di sfruttamento) , che insieme

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incrementarono enormemente il saggio del profitto-di-impresa. Le due variabili giocarono differenti ruoli su differenti fronti. Ma i dadi erano truccati.

Lezioni dalla grande depressione degli anni 30°

Quando la crisi attuale è peggiorata, i governi di tutto il mondo si sono dati da fare per salvare banche e aziende che fallivano, spesso immettendo, durante questa fase, enormi somme di nuovo denaro. Tutti i paesi avanzati hanno i cosiddetti “stabilizzatori automatici”, come gli ammortizzatori per la disoccupazione e le spese di welfare, che si manifestano durante una recessione. Ma questi sono pensati per una depressione, non per una recessione. I governi sono stati tutt'altro che entusiasti riguardo al creare nuove forme di spesa per aiutare direttamente i lavoratori, perfino sulla questione del deficit spending esiste sicuramente una profonda divisione tra due diversi schieramenti politici. Tali divisioni sono emerse chiaramente agli incontri del G-20 recentemente conclusosi a Toronto nel Giugno 2010. Da un lato vi era l'ortodossia, che spingeva per l' “austerity”, una parola in codice che significa una riduzione delle spese sanitarie, dell’istruzione, del welfare e di altre spese a sostegno del lavoro. J. C. Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, in questi incontri ha affermato: “l'idea che le misure di austerity possano provocare una stagnazione è sbagliata”. “I governi non dovrebbero dipendere dal prestito come se fosse una soluzione rapida per stimolare la domanda…. il deficit spending non può diventare una condizione permanente delle politiche” ha detto il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble. Parte della motivazione per questa posizione nasce da una fede nella nozione propria dell'economia ortodossa: che i mercati siamo quasi perfetti e rapidi nel riprendersi. Dopo tutto, il saggio del profitto-di-impresa del settore non finanziario nella figura 6 mostra un deciso rialzo nel 2010, e per alcune banche di investimento il denaro è stato come il petrolio nel Golfo del Messico: aspettavano solo di fare la cresta. Nel primo trimestre del 2010 Goldman Sachs ha guadagnato 3,3 miliardi di dollari, il doppio dell'anno precedente, rendendolo il secondo più profittevole trimestre da quando i dati sono diventati pubblici nel 1999. Alla luce dell’ ottimistica teoria ortodossa, questo suggerisce che stanno per giungere di nuovo giorni felici. Inoltre i banchieri centrali europei conservano ricordi brucianti della iperinflazione tedesca finanziata dal debito degli anni '20 e le conseguenze sociali e politiche che ne seguirono. Infine, c'è la questione pratica dei benefici potenziali per il capitale europeo garantiti dai programmi di austerità. La forza lavoro europea è sopravvissuta all'era neoliberista in modo migliore rispetto a quella statunitense e britannica e, come dimostrarono Reagan e la Thatcher, una crisi offre una magnifica scusa per un attacco al lavoro. Da questo punto di vista la possibilità che l'austerity possa rendere le cose peggiori per la maggior parte della popolazione è un rischio accettabile se indebolisce una forza lavoro che in precedenza era resistente.

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Il versante americano ai meeting del G-20 ha espresso una serie di preoccupazioni. Solo negli USA, la ricchezza delle famiglie è già crollata di migliaia di miliardi di dollari e le nuove vendite di case sono sotto i livelli del 1981. Inoltre, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha recentemente messo in guardia riguardo al fatto che è in vista “una prolungata e pesante” crisi globale del lavoro- una cosa che deve essere presa molto seriamente da un potere imperiale già impantanato in svariate guerre ed in “azioni di polizia” globale. Infine, anche qui c'è una questione storica critica. Il presidente Barack Obama ha sollecitato i leader europei a ripensare la loro posizione, dicendo che essi dovrebbero “imparare dai gravissimi errori del passato quando le politiche di stimolo furono abbandonate troppo presto portando a rinnovate difficoltà e recessione”. (16) I “gravissimi errori” ai quali Obama si riferiva avevano a che fare con gli eventi negli anni '30. La Grande Depressione, innescata dal crollo del mercato azionario, portò dal 1929 al 1932 ad un grave calo nella produzione e ad una crescita decisa della disoccupazione, ma durante i successivi 4 anni la produzione crebbe di quasi il 50%. Certamente, nel 1936 la produzione stava crescendo ad un fenomenale 13%, ma il guaio era che negli stessi 4 anni il bilancio federale andò in deficit di quasi il 5%. Perciò nel 1937 l'amministrazione Roosvelt incrementò le tasse e tagliò nettamente la spesa statale. (17) Il PIL reale cadde immediatamente e la disoccupazione crebbe ancora una volta. Riconoscendo il suo errore, il governo tornò velocemente sui suoi passi e nel 1938 aumentò in maniera considerevole la spesa pubblica e il deficit così nel 1939 la produzione crebbe dell'8%. È stato solo allora che gli USA cominciarono a prepararsi ad una guerra che era nell’aria e nella quale vennero completamente impegnati soltanto nel 1942 . La figura 9 descrive il tasso di crescita durante questi anni critici.

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Vi sono molte lezioni che possono essere prese da questi episodi. Primo, tagliare la spesa pubblica durante una crisi sarebbe un “errore madornale”, e questa è l'argomentazione di Obama. Secondo, è assolutamente chiaro che l'economia cominciò a riprendersi nel 1933 e, a parte il passo falso dell'amministrazione nel tagliare la spesa pubblica nel 1937, continuò così fino alla preparazione USA per la II guerra mondiale nel 1939 e al loro pieno ingresso nel 1942. (Pearl Harbor fu il 7 Dicembre 1941). È pertanto sbagliato attribuire la ripresa, cominciata nove anni prima delle guerra, alla guerra stessa. La guerra stimolò ulteriormente la produzione e l'occupazione. Terzo, è nondimeno corretto dire che la spesa pubblica (in tempo di pace) giocò un ruolo cruciale nell'accelerare la ripresa. Quarto, la spesa pubblica che venne impegnata non andò direttamente a favorire l'acquisto di beni e servizi ma fu anche diretta verso l'occupazione nella realizzazione di servizi pubblici. Per esempio, la sola Work Projects Administration (WPA) (18) diede lavoro a milioni di persone nelle costruzioni pubbliche, nelle arti, nell'insegnamento e nel supporto ai poveri.

Alcune implicazioni di politica per il periodo attuale

La spesa pubblica può fortemente stimolare l'economia, cosa evidente durante i tempi di guerra che sono molto spesso accompagnati da una massiccia spesa pubblica finanziata in deficit. Durante la

Seconda Guerra Mondiale, per esempio nel periodo 1943-1945, gli Stati Uniti

raggiunsero deficit di bilancio che erano in media del venticinque per cento. Per contrasto, oggi il deficit di bilancio, nel secondo trimestre del 2010, è meno dell'11%. In ogni caso, è importante notare che la guerra è una forma particolare di mobilità sociale utile per incrementare la produzione e l'occupazione. In tali momenti, una parte dell'occupazione risultante è derivata dalla domanda di armi e di altri beni e servizi di supporto e dalla domanda per altri fattori che la guerra a sua volta genera. Ma altra cosa è l’occupazione diretta nelle forze armate, nell’amministrazione statale, nella sicurezza, nel mantenimento e riparazione delle strutture pubbliche e private, etc. Perciò perfino durante una guerra dobbiamo distinguere fra due differenti forme di stimoli economici: domanda diretta statale che stimola l'occupazione purchè le imprese non trattengano per sé la maggior parte del denaro o lo usino per ripagare il debito; e l'occupazione diretta statale che stimola la domanda a patto che le persone così impiegate non risparmino il reddito o lo usino per ripagare il debito.

Gli stessi due modelli potrebbero egualmente essere applicati alle spese in tempo di pace in una mobilizzazione sociale per contrastare la crisi. Nel primo, le spese statali sono dirette verso le imprese e le banche, con la speranza che le imprese che ne beneficiano incrementino l'occupazione. Questo è il modello keynesiano tradizionale: stimolare gli affari e far sì che i benefici

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ricadano sull'occupazione. Nel secondo il governo fornisce direttamente occupazione per coloro che non possono trovarla nel settore privato, e poiché questi lavoratori nuovamente impiegati spendono il proprio reddito, i benefici ricadono sulle imprese e le banche. Il requisito che il denaro ricevuto sia ri-speso è cruciale. In ogni grande nazione del mondo sono state recentemente dirottate enormi somme di “salvataggio” verso banche e imprese non finanziarie, tuttavia tali fondi sono finiti molto spesso per essere bloccati lì: le banche ne hanno bisogno per puntellare i loro portafogli traballanti e le industrie per ripagare i debiti. Piuttosto correttamente, nessuno considera sensato riversare questo buon denaro in una situazione in cui vi è ben poca speranza per un utile adeguato. Perciò ben poche risorse di questi massicci salvataggi sono state reinvestite. Ma se fosse impiegato il secondo modello, la questione sarebbe probabilmente differente. Il reddito ricevuto da coloro che in precedenza erano disoccupati deve essere speso dato che devono pur vivere. Il secondo modello perciò ha due grandi vantaggi: creerebbe direttamente occupazione per coloro che più di tutti ne hanno bisogno; e genererebbe una ripresa considerevole per le imprese che li assumono. Che cosa impedisce allora ai governi di creare programmi per l'occupazione diretta? La risposta è sicuramente che l'incentivo all'impresa è la modalità preferita dal capitale. Certo, siccome l'occupazione diretta del lavoro subordina la motivazione del profitto per scopi sociali, è logicamente vista come una minaccia all'ordine capitalistico- e quindi come “socialista”. Inoltre, interferirebbe con il piano neoliberista di fare un uso sempre maggiore di lavoro globale a basso costo, la cui esistenza non solo permette una produzione più economica all'estero ma tiene anche i salari reali sotto controllo in patria. Perciò il problema del nostro tempo è quello di realizzare una mobilitazione sociale per combattere le conseguenze di una Grande Depressione senza essere condotti a fare delle guerre. Questa è una questione globale, perchè la disoccupazione, la povertà e il degrado ambientale sono totalmente globali. Ma le mobilitazioni, per loro natura, cominciano localmente. L'obiettivo è fare in modo che si diffondano, contro la resistenza degli interessi dei potenti e degli stati vigliacchi.

(Il testo originale sul sito di Anwar Shaikh http://homepage.newschool.edu/~AShaikh/ è stato pubblicato sulla rivista Socialist Register nel 2011, http://socialistregister.com. La traduzione è stata revisionata da Antonio Pagliarone.) Note

1) La crisi del 1825 è stata vista come la prima vera crisi industriale. La crisi del 1847 fu così dura che seminò rivoluzioni in tutta Europa. Maurice Flamant and Jeanne Singer-Kerel, Modern Economic Crises, London: Barrie & Jenkins, 1970, pp. 16-23. La definizione “La lunga depressione del 1873-1893” è da

Forrest Capie and Geoffrey Wood, 'Great

Depression of 1873- 1896', in D. Glasner and T_.; F. Cooley, eds., Business Cycles and Depressions: An Encyclopedia) New York: Garland Publishing, 1997.

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La Grande Depressione del 1929-1939 è ben nota. La collocazione temporale della Grande Stagflazione del 1967-1982 è da Shaikh,'The Falling Rate of Profit and the Economic Crisis in the U.S.', in R. Cherry et al., eds., The Imperiled Economy, New York: Union for Radical Political Economy, 1987. Sia la definizione che la collocazione temporale della crisi economica che è scoppiata nel 2008 rimangono da risolvere. 2) John Kenneth Galbraith, The Great Crash 1929, Boston: Houghton Miflin. 1955, chs. I-II, e pp. 182, 192. (Il grande crollo Traduzione di Amerigo Guadagnin e Debora Rancati, Milano: BUR Saggi, 2008) Galbraith era ambiguo circa la possibilità che potesse presentarsi nuovamente una Grande Depressione. Come storico, era fin troppo consapevole che “cicli finanziari di euforia e panico si accordano difficilmente con il tempo che ci volle alle persone per dimenticare l'ultimo disastro (John Kenneth Galbraith, Money: Whence It Came, Where It Went, Boston: Houghton Mifflin Company, 1975, p. 21). Egli notò che questi cicli erano essi stessi il “prodotto di una libera scelta di centinaia di migliaia di individui”, che nonostante la speranza per una memoria immunizzante dell'ultimo evento “le possibilità per un ritorno dell'orgia speculativa erano piuttosto buone”, che “durante il prossimo boom verranno nuovamente enfatizzate alcune riscoperte virtuosità del sistema della libera impresa”, che fra “i primi ad accettare queste razionalizzazioni saranno coloro che chiederanno dei controlli...[che allora] diranno fermamente che i controlli non sono necessari” e che nel tempo “gli organi regolatori...diventano, con alcune eccezioni, o un braccio dell'industria che loro stessi stanno regolando od obsoleti” ( Galbraith, The Great Crash 1929, pp. 4-5, 171, 195-96). Tuttavia, come politico egli continuò a sperare che nessuno di questi eventi si avverasse. 3) Floyd Norris, 'Securitization Went Awry Once Before', New York Times, 29 January 2010. 4 ) David Smith, 'When Catastrophe Strikes Blame a Black Swan', The Sunday Times, 6 May 2007. 5 ) Shaikh, 'The Falling Rate of Profit'; J.J. van Duijn, The Long Wave in Economic Life, London: Allen and Unwin, 1983, chs. 1-2. 6 )E. Mandel, Late Capitalism, London: New Left Books, 1975, pp. 126-27. 7 )Shaikh, 'The Falling Rate ofProfit', p. 123. 8 )John Maynard Keynes, A Treatise on Money, New York: Harcourt, Brace and Company, 1976, p. 148. (Trattato della moneta: Edizioni Feltrinelli, 1979) 9 )Lewis Braham, 'The Business Week 50', Business Week, 23 March 2001. 10) Donald Rumsfeld, 'DoD News Briefing - Secretary Rumsfeld and Gen. Myers', United States Department of Defense, 12 February 2002, disponibile su http://www.defense.gov. 11) Eckhard Hein, 'Money, Credit and the Interest Rate in Marx's Economics: On the Similarities of Marx's Monetary Analysis to Post-Keynesian Analysis', International Papers in Political Economy, 11(2), 2004, pp. 20-23; Karl Marx, Capital) Volume III, New York: International Publishers, 1967, ch. XXIII; Shaikh, 'The Falling Rate of Profit', p. 126n1. 12) Ho precedentemente affermato che lo stock al lordo dei costi correnti è la misura appropriata del capitale. Shaikh, 'Explaining the Global Economic Crisis: A Critique of Brenner', Historical Materialism, 5, 1999, pp. 106-7. Tuttavia questa misura non viene più stimata dalla maggior parte delle contabilità nazionali, perchè recentemente sono passate all'assunzione che i beni capitali si deprezzano geometricamente per

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una durata infinita. Questa assunzione è “universalmente usata per la sua semplicità nelle esposizioni della teoria [neoclassica] del capitale”, nonostante il fatto che alcuni si riferiscano ad essa come “empiricamente implausibile”. Charles R. Hulten, 'The Measurement of Capital', in E. R. Berndt and E. Triplett, eds., Fifty Years of Economic Measurement: The Jubilee of the Conference of Research on Income and Wealth, Chicago: University of Chicago Press, 1990, p. 125. Anche La “coda infinita”, che si assume, causa molti problemi. Michael J. Harper, 'The Measurement of Productive Capital Stock, Capital Wealth, and Capital Services', BLS Working Paper No. 128, US Bureau of Labor Statistics, 1982, pp. 10, 30. L'assunzione di un periodo di vita infinito rende impossibile calcolare lo stock lordo perchè essa si basa sull'uso di uno specifica prospettiva di vita di beni capitali individuali. In un lavoro che verrà pubblicato prossimamente mostrerò come le grandi misurazioni dello stock possono essere rilevate combinando l'informazione precedentemente disponibile sul periodo di vita di particolari beni capitali con regole derivate in maniera nuova per il comportamento degli stock di capitale aggregati. Queste nuove misure dello stock di capitale cambiano l’andamento del saggio di profitto osservato nel periodo 1947-1982, tuttavia hanno soltanto un impatto limitato sull’andamento dal 1982 in avanti che sono all'attenzione di questo paper. 13) Il saggio di profitto è per definizione il rapporto di grandezze in denaro. Perciò possiamo scriverlo come r = P/K dove sia il profitto P che il capitale K sono misurati ai prezzi correnti. In alternativa, possiamo deflazionare il denominatore tramite l'indice dei prezzi del capitale Pk per volgere il capitale a costi-correnti K in Kr = K / Pk , lo stock di capitale reale (aggiustato per l'inflazione). Per preservare l'omogeneità dimensionale nel rapporto dobbiamo allora deflazionare anche il numeratore con Pk per volgere il profitto nominale P in Pr = P / Pk, la massa del profitto reale misurata in termini del suo potere di acquisto sul capitale. Il rapporto fra due misure reali è ancora una volta r. 14) Nella misurazione del saggio del profitto-di-impresa non stiamo facendo assunzioni circa la determinazione del tasso nominale di interesse. L'ipotesi neoclassica standard di Fisher è che il tasso reale di interesse (ir) è definito come la differenza tra il tasso di interesse nominale ed un certo tasso di inflazione atteso dall'investitore rappresentativo (Pe). Sulla base dell'ulteriore assunzione che il tasso di interesse reale sia determinato esogenamente, ciò implica che il tasso di interesse nominale segue il tasso (atteso) di inflazione, ma sulla base dell'ipotesi di aspettative razionali, il tasso atteso di inflazione seguirà il tasso corrente di inflazione. Perciò l'argomentazione si riduce all'ipotesi che il tasso nominale di interesse segua il tasso di inflazione- una proposizione che è stata così ampliamente smentita e che sopravvive solo nei libri di testo. Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi, The High Price of Money: An Interpretation of World Interest Rates, Oxford: Clarendon Press, 1996, p. 34. La scoperta opposta, conosciuta sin dai tempi di Tooke e Marx, riscoperta da Gibson e rimarcata poi da Keynes, è che il tasso di interesse perlopiù dipende dal livello dei prezzi piuttosto che dal suo tasso di cambiamento. Questa osservazione ha mostrato di essere così sconcertante per l'ortodossia che viene ora indicata con il termine “Paradosso di Gibson”.

J. Huston

McCulloch, Money & Inflation: A Monetarist Approach, New York: Academic Press, 1982, pp. 47-49. 15) Per valutare fino a che punto i movimenti sostenuti del tasso di interesse siano stati guidati dalle politiche, sarebbe necessario sviluppare una teoria adeguata dei fattori competitivi di questa variabile. Una tale teoria è possibile, ma va oltre l'estensione del presente saggio. È sufficiente dire che il tasso di interesse sarebbe collegato al livello dei prezzi e ai costi bancari. Dal lato dei prezzi, spiegherebbe la struttura che domina la fase 1947-1981, nella quale il tasso di interesse nominale sale insieme al livello dei

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prezzi (come nel “paradosso di Gibson”). Essa permetterebbe anche interventi politici, come il c.d. “Volcker Shock” che aumentò il tasso di interesse dal 10.4% al 14.03% nel 1981. Merita di essere ricordato che P. Volcker divenne presidente della FED americana soltanto nell'Agosto 1979, quando i tassi di interesse stavano crescendo insieme al livello dei prezzi per 3 decenni. Dal lato dei costi, una tale teoria spiegherebbe come il tasso di interesse possa cadere in relazione al livello dei prezzi quando iniziano a diminuire i costi bancari, e potrebbe perfino cadere in termini assoluti nonostante un livello crescente dei prezzi - come è avvenuto dal 1981 in avanti. Soltanto allora potremmo giudicare le influenze relative delle forze di mercato e della politica sul movimento postbellico dei tassi di interesse. 16) E' stato aggiunto il corsivo alla citazione di Obama. Tutte le citazioni sono dal report : 'G20 Summit: An Economic Clash of Civilizations', The Christian Science Monitor, 25 June 2010. 17)“Roosvelt e i falchi dell'inflazione di quel tempo erano determinati a far scoppiare quella che essi vedevano come una bolla del mercato azionario e stroncare l'inflazione sul nascere. L'equilibrio di bilancio è stato un passo importante in tal senso, ma lo era anche la politica della Federal Reserve, che nel 1937 operò una durissima stretta attraverso requisiti di riserva più elevati per le banche, Roosvelt continuò con la stretta fiscale nonostante l'ovvia flessione dell'attività economica. Il bilancio...raggiunse virtualmente il pareggio nell'anno fiscale 1938.. il risultato fu una pesante ricaduta economica, con il PIL che crollava e la disoccupazione che cresceva.”Bruce Bartlett, 'Is Obama Repeating the Mistake of 1937?', Capital Gains and Games Blog, 25 January 2010, disponibile su http:/ /www.capitalgainsandgames.com. 18) La Works Progress Administration era l’agenzia più importante del New Deal che occupava milioni di operai non specializzati indirizzati verso la realizzazione di opere pubbliche, come edifici pubblici, strade e nel settore culturale. Nel 1938 l’agenzia raggiunse il picco di tre milioni di lavoratori occupati. Tra il 1935 ed il 1941 garantì l’occupazione ad otto milioni di disoccupati. L’agenzia venne chiusa il 30 giugno 1943.(A.P.)

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