Pdf gennaio 2014 (parziale)

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6,00 EURO - TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB

Il Congo «messo a fuoco»

GENNAIO 2014

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CONFRONTI 1/GENNAIO 2014 WWW.CONFRONTI.NET Anno XLI, numero 1 Confronti, mensile di fede, politica, vita quotidiana, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Ernesto Flavio Ghizzoni (presidente), Stefano Toppi (vicepresidente), Gian Mario Gillio, Piera Rella, Stefania Sarallo.

Le immagini Il Congo «messo a fuoco» · Matteo Merletto, copertina Rifugiarsi dalla guerra · Matteo Merletto, 3

Gli editoriali Disoccupazione: una questione di classe · Paolo Ferrero, 4 La crisi morde solo i poveri · Vinicio Albanesi, 5 Il Pd si è messo in gioco con i cittadini · Walter Tocci, 6 La primavera verde militare d’Egitto · Mostafa El Ayoubi, 7

Direttore Gian Mario Gillio Caporedattore Mostafa El Ayoubi In redazione Luca Baratto, Antonio Delrio, Franca Di Lecce, Filippo Gentiloni, Adriano Gizzi, Giuliano Ligabue, Michele Lipori, Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Cristina Mattiello, Daniela Mazzarella, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. Collaborano a Confronti Stefano Allievi, Massimo Aprile, Giovanni Avena, Vittorio Bellavite, Daniele Benini, Dora Bognandi, Maria Bonafede, Giorgio Bouchard, Stefano Cavallotto, Giancarla Codrignani, Gaëlle Courtens, Biagio De Giovanni, Ottavio Di Grazia, Jayendranatha Franco Di Maria, Piero Di Nepi, Monica Di Pietro, Piera Egidi, Mahmoud Salem Elsheikh, Giulio Ercolessi, Maria Angela Falà, Renato Fileno, Giovanni Franzoni, Pupa Garribba, Francesco Gentiloni, Maria Rosaria Giordano, Svamini Hamsananda Giri, Giorgio Gomel, Laura Grassi, Bruna Iacopino, Domenico Jervolino, Maria Cristina Laurenzi, Giacoma Limentani, Franca Long, Maria Immacolata Macioti, Anna Maffei, Fiammetta Mariani, Dafne Marzoli, Domenico Maselli, Lidia Menapace, Mario Miegge, Adnane Mokrani, Paolo Naso, Luca Maria Negro, Silvana Nitti, Paolo Odello, Enzo Pace, Gianluca Polverari, Pier Giorgio Rauzi (direttore responsabile), Josè Ramos Regidor, Paolo Ricca, Carlo Rubini, Andrea Sabbadini, Brunetto Salvarani, Iacopo Scaramuzzi, Daniele Solvi, Francesca Spedicato, Valdo Spini, Valentina Spositi, Patrizia Toss, Gianna Urizio, Roberto Vacca, Cristina Zanazzo, Luca Zevi. Abbonamenti, diffusione e pubblicità Nicoletta Cocretoli Amministrazione Gioia Guarna Programmi programmi@confronti.net Redazione tecnica e grafica Daniela Mazzarella

I servizi Chiesa cattolica Congo Laicità Battisti Ambiente Spiritualità Cultura Incontri/Fassone

Quo vadis? Il sogno di papa Francesco · Luigi Sandri, 9 La guerra utile all’Occidente · (intervista a) Charles Onana, 12 L’Europa di fronte al «fattore R» · Gaëlle Courtens, 15 Celebrati i 150 anni di presenza in Italia · Michele Lipori, 18 La via italiana al battismo · (intervista a) Raffaele Volpe, 19 Cambiamento climatico: la colpa è dell’uomo · Mario José Molina 21 Sincretismo religioso o nomadismo spirituale? · Gino Battaglia, 24 Come il grano dalle fenditure della roccia · Giuliano Ligabue, 27 Con la Resistenza e la Costituzione nel cuore · Piera Egidi Bouchard, 29

Le notizie Diritti umani

Corea del Nord Qatar Dialogo Dibattito

Sette milioni di madri bambine nel mondo, 31 Acat: il Benin introduca il reato di tortura, 31 Le multinazionali violano i diritti dei popoli indigeni, 31 I campi di prigionia politica, 32 Le gravi condizioni della manodopera immigrata, 32 Presentati a Roma i calendari per la pace 2014, 32 Un convegno su antisemitismo e antisionismo, 33

Le rubriche In genere Note dal margine Osservatorio sulle fedi Spigolature d’Europa Diari dal Sud del mondo Cinema Libro Libro Libro

Un problema innanzitutto maschile · Anna Maria Marlia, 34 La Gerusalemme tradita · Giovanni Franzoni, 35 Un osservatorio su religioni e diritto · Antonio Delrio, 36 Il nazismo becero e quello «politicamente corretto» · Adriano Gizzi, 37 Una gita alla scoperta della propria terra · Giada Corona, 38 Placare il rancore seguendo il respiro dei boschi · Andrea D’Eramo, 39 «La morte è parte della vita, la dignità supera la morte» · G.M. Gillio, 40 1510: il viaggio di Lutero a Roma · Antonio Delrio, 41 Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva · D. G., 42

all’interno INDICE 2013

Publicazione registrata presso il Tribunale di Roma il 12/03/73, n. 15012 e il 7/01/75, n.15476. ROC n. 6551.

RISERVATO AGLI ABBONATI: chi fosse interessato a ricevere, oltre alla copia cartacea della rivista, Hanno collaborato a questo numero: V. Albanesi, G. Battaglia, G. Corona, A. D’Eramo, P. Ferrero, M.J. Molina, C. Onana, E. Tesoriere, W. Tocci, R. Volpe.

anche una mail con Confronti in formato pdf può scriverci a redazioneconfronti@yahoo.it

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LE IMMAGINI

RIFUGIARSI DALLA GUERRA

Il conflitto a bassa intensità nella Repubblica democratica del Congo provoca la morte di centinaia di persone al giorno nel silenzio assordante dei mezzi di comunicazione. Tutto ciò giova alle grandi multinazionali che sfruttano le risorse di questo paese. Le foto si riferiscono al servizio di pagina 12 e sono state scattate a Kinshasa e dintorni da Matteo Merletto.

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GLI EDITORIALI

Disoccupazione: una questione di classe Paolo Ferrero

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a disoccupazione è il principale problema dell’Italia. Milioni di disoccupati, di precari e sottoccupati, di persone che hanno smesso di cercare lavoro. Poco meno di dieci milioni di persone non riescono ad avere un lavoro, non dico soddisfacente, ma semplicemente che gli permetta di vivere decentemente. Il governo dice che per uscire da questa situazione occorre abbassare le tasse sul lavoro, in modo da rendere più competitive le imprese e quindi aumentare l’occupazione. La cosa che non dice il governo è che la bilancia dei pagamenti è in attivo e cioè che l’Italia esporta più merci di quante ne importi. Questo significa che l’industria italiana riesce a stare decentemente sul mercato mondiale e che il problema non viene principalmente da lì. Da dove viene il problema? Viene da un crollo verticale dei consumi interni, del mercato interno. In pochi anni i consumi si sono ridotti drasticamente e siamo tornati al livello dei consumi di venti o trenta anni fa. Come mai si sono ridotti i consumi interni? Perché è crollato il potere d’acquisto degli strati popolari: negli ultimi trent’anni abbiamo assistito ad una redistribuzione della ricchezza italiana dai poveri ai ricchi di dimensioni enormi, con 10 punti di Pil (pari a circa 150 miliardi di euro all’anno) sono passati dai redditi da lavoro e da pensione ai profitti e alle rendite. È il più gigantesco trasferimento di risorse che si sia visto in Occidente, maggiore di quello che è riuscito a fare la signora Thatcher ai danni dei lavoratori inglesi. In Italia tutto questo è accaduto con il sostanziale consenso del Pds/Ds/Pd e di larga parte del sindacato confederale. In questa situazione il tema della giustizia sociale, cioè della redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso, è tutt’uno con il rilancio dei consumi interni e questa è la condizione necessaria al fine di aumentare l’occupazione. Anche perché una eventuale ripresa economica trainata dalle esportazioni, se non supera l’1%, non può dare alcun risultato positivo in termini occupazionali. L’au-

«Il tema della giustizia sociale, cioè della redistribuzione del reddito dall’alto verso il basso, è tutt’uno con il rilancio dei consumi interni e questa è la condizione necessaria al fine di aumentare l’occupazione. È semplicemente impossibile avere una qualche soluzione del problema dell’occupazione in assenza di un deciso intervento dello Stato in economia». Ferrero è segretario di Rifondazione comunista.

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mento della produttività delle imprese esportatrici è infatti mediamente dell’1% all’anno. Per questo è semplicemente impossibile avere una qualche soluzione del problema dell’occupazione in assenza di un deciso intervento dello Stato in economia. Per questo Rifondazione comunista ha avanzato la proposta di dar vita ad un piano del lavoro e della riconversione ambientale dell’economia. Questo piano si basa su due pilastri. In primo luogo il reperimento delle risorse necessarie per finanziare il piano: patrimoniale sulle grandi ricchezze, tetto di stipendi e pensioni al di sopra dei 5000 euro al mese, fermo delle grandi opere inutili e dannose (come Tav e acquisto degli F35), lotta alla grande evasione fiscale, equiparazione della tassazione dei redditi da capitale con la tassazione dei redditi da lavoro ecc. Da queste diverse fonti si possono recuperare poco meno di 100 miliardi di euro all’anno. Con questi soldi è possibile dar vita a posti di lavoro attraverso più azioni. In primo luogo abolendo la riforma Fornero sulle pensioni e ristabilendo l’età per andare in pensione a 60 anni. In secondo luogo dando vita ad un piano di riassetto idrogeologico del territorio, ad un piano per mettere a norma acquedotti e fognature, ad un piano per mettere a norma e rendere autonomi energeticamente tutti gli edifici pubblici a partire dalle scuole, ad un piano per la piena valorizzazione del patrimonio archeologico e museale, la piena copertura delle piante organiche nella sanità, nell’istruzione e nella pubblica amministrazione in generale. Com’è evidente, un intervento di tal fatta metterebbe in moto lavoro pubblico e lavoro privato, in settori ad alta utilità sociale e darebbe vita ad un milione e mezzo di posti di lavoro nell’arco di tre anni. Ovviamente il tutto determinerebbe un significativo aumento dei consumi interni e anche un significativo aumento delle entrate dello Stato, cioè un volano per uscire dalla crisi che a sua volta darebbe luogo ad altri posti di lavoro. Perché il governo non lo fa, visto che questa proposta non richiede la modifica dei parametri e dei vincoli europei? Perché il governo italiano, il suo presidente del Consiglio e il suo azionista di riferimento – il Pd – sono integralmente liberisti e difendono gli interessi delle classi sociali che vedrebbero ridursi i loro privilegi dall’applicazione di un simile piano finalizzato al benessere sociale.


GLI EDITORIALI

La crisi morde solo i poveri Vinicio Albanesi

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a crisi economica e sociale che morde in Italia non lascia scampo alle politiche sociali. I tagli orizzontali che partono dal governo centrale riverberano fino alle periferie, passando per le Regioni. Ogni responsabile, a vari livelli, ribalta in alto la decisione, creando una catena che vuole giustificare, ma che non giustifica nulla. Dal governo alle Regioni, dalle Regioni ai Comuni e la soluzione sembra trovata. Peccato che, nel mezzo dei tagli, chi paga è comunque persona fragile: per le proprie condizioni di salute e per quelle di sopravvivenza. I dati statistici sono crudeli: le persone si curano di meno. È diminuito il gettito dei ticket sanitari; cinque milioni di persone hanno rinunciato al dentista, un milione di bambini sono poveri. Nell’impossibilità di far fronte alle spese, si rimanda anche il necessario, sperando che il domani sia migliore. Non solo: le categorie forti o comunque tutelate non cedono di un millimetro. Difendono i propri interessi e nessuna solidarietà viene offerta a chi sta peggio. Si crea l’assurdo che chi ha non molla nulla; chi chiede, rimane fuori della distribuzione. Per qualcuno la crisi non morde affatto; al massimo cresce l’incertezza e la paura che le tutele possano terminare. Né si riesce a trovare il bandolo della matassa. L’attenzione è tutta orientata alla mancanza delle risorse. Cosa vera, ma anche falsa. Le risorse sono da una parte mal distribuite e dall’altra sono sottratte. Due dati: 130 miliardi costituiscono l’evasione fiscale. Sono risorse di persone che certamente non vivono nell’indigenza, ma che non sono affatto disposte a solidarizzare, anzi preferiscono commettere reato, piuttosto che accontentarsi di possedere meno. L’altro dato – ugualmente ufficiale – dice che la forbice tra ricchi e poveri va allargandosi da almeno dieci anni. Esperienza vissuta da chi, nel dopoguerra, ha assistito all’arricchimento di qualcuno, nonostante la povertà dell’Italia di allora. In questo quadro desolante si innesta la crisi – o forse ne è conseguenza – della politica. Non c’è idea di futuro. Nemmeno sono state tracciate le linee delle priorità. La gestione

Si dice sempre «siamo tutti sulla stessa barca», ma in realtà – come spiega a Confronti don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco – la forbice tra ricchi e poveri va allargandosi da almeno dieci anni e c’è una parte di italiani che non ha modificato in modo rilevante il proprio stile di vita, mentre altri milioni che si vedono costretti a rinunciare non solo al superfluo, ma anche alle cure mediche. Ci sono poi, nell’Italia del 2014, un milione di bambini poveri.

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decisionale si è accartocciata all’interno di un mondo che dovrebbe tutelare il bene comune, ma che è invece tutto orientato alla spartizione della gestione. Nonostante gli inviti a parlare di «cose concrete», la risposta è riversa su chi questo potere lo eserciterà. Sembrano perduti anche gli orientamenti più elementari. L’attenzione è tutta sui numeri, dimenticando persone, disagi, sofferenze. Un circolo vizioso che invoca equità e giustizia, ma che nessuno ha la forza di proporre, nell’illusione che, cambiando le regole del gioco, si possa stabilire equilibrio. Nessuno ha il coraggio di lanciare un messaggio morale: dire chiaramente che cosa è ingiusto e che cosa occorre recuperare; chi deve cedere e chi recuperare. Le categorie a maggiore rischio sono quelle più fragili. Non occorre molta fantasia per individuare disabili, anziani, marginali, disoccupati, famiglie numerose, immigrati irregolari sfruttati, operai, giovani, artigiani. A costoro non è offerta nemmeno speranza. Ciascuno è costretto ad arrangiarsi. Se ha una cintura di solidarietà che gli deriva dalla famiglia, riesce a sopravvivere anche se con difficoltà; a chi rimane solo, non rimane che ricorrere alle opere caritative che, in questi ultimi tempi, hanno risposto più abbondantemente a richieste e disperazione. La situazione è ancora più grave per chi vive un effettivo stato di prostrazione e di immobilità: malati gravi, anziani soli, persone senza reddito. Chi ha comunque qualche risorsa (istruzione, giovane età, mobilità) tenta altrove, ma chi non sa dove andare non può che fare cena con un po’ di latte e accontentarsi di un solo pasto caldo. Il tutto nell’indifferenza collettiva che, da una parte, è distratta dalle superficialità (vedi i programmi televisivi) e dall’altra concentrata nella propria condizione che è vissuta come precaria, dimenticando la scala delle provvisorietà. Sono scomparsi i momenti collettivi, ma anche i «sogni». Si è sclerotizzata una situazione per cui le contrapposizioni sono diventate intoccabili, prevalendo, naturalmente, quelle dei più forti. Qualcuno – per la verità sommessamente – si appella ai deboli perché si facciano sentire, smentendo la realtà: se qualcuno è debole, come è possibile che si faccia sentire? L’appello, forte e chiaro, è per chi è già tutelato. Se non per generosità, almeno per interesse. Senza la tutela del vivere collettivo, la maggior parte


GLI EDITORIALI

delle persone, per le risorse limitate che ha, rischia grosso. Ma solo solidarietà e un sistema di sicurezze garantito possono attutire eventuali difficoltà future. La vita delle popolazioni dell’Occidente è diventata complessa e onerosa. Va, di conseguenza, aggiornato anche il sistema di tutela, per i momenti di crisi. Siamo già in ritardo perché i miglioramenti pure raggiunti sono datati anni ’70. Vanno aggiornati i comparti dell’istruzione, della salute, dell’assistenza, della previdenza. Non si può assistere passivamente alle cose che non funzionano più, ignorando la situazione o affidandosi a qualcuno o qualcosa che non esiste. Significa soltanto permettere altre sofferenze e disagi. L’urgenza è forte: in caso di passività assisteremmo a un ritorno indietro della tutela delle persone nei loro bisogni essenziali. Una condizione che aggraverebbe disuguaglianze e abbandoni, con fasce di popolazioni sempre più benestanti e parte di popolazione abbandonata e marginale. La coscienza morale e civile non lo permette, qualunque siano i principi sociali, culturali e religiosi ai quali ciascuna coscienza civile fa riferimento.

Il Pd si è messo in gioco con i cittadini Walter Tocci «Occorre ricreare grandi partiti popolari moderni, certo fuori dagli schemi irripetibili del Novecento, ma capaci di suscitare nella società la forza del cambiamento. Il Pd è in bilico, la crisi dell’establishment lo attira nella dimensione verticale ma la partecipazione delle primarie lo orienta nello sguardo orizzontale. Tutto dipende dal ruolo che si vorrà dare ai tre milioni di cittadini dei gazebo». Già vicesindaco di Roma negli anni ’90, Tocci è senatore del Partito democratico e direttore del Centro per la riforma dello Stato.

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e primarie si confermano come una potente leva di cambiamento. Ha vinto il grande Pd dei tre milioni di cittadini e ha perso il piccolo Pd del ceto politico Ds e Margherita, ormai logorato da tante sconfitte. La guida è passata nelle mani della nuova generazione. All’improvviso un partito ripiegato in se stesso è stato capace di parlare al futuro proprio mentre gli altri guardavano indietro. I comici non fanno più ridere: da una parte il Cavaliere ripropone tristemente il proprio fallimento, dall’altra Grillo pronuncia parole mortifere per nascondere la propria inutilità. In un momento tanto difficile per la democrazia italiana, proprio a causa della legge elettorale che ha fatto venire meno il rapporto tra eletti ed elettori, il Pd si è messo in gioco con i cittadini e ha cercato una via d’uscita dalla sua crisi. Renzi ha parlato di un partito con la schiena dritta che intende liberarsi dalla maledetta subalternità prodotta dalle larghe intese dei 101. Bene, ora dovrà passare dalle parole ai fatti, dovrà superare le ambiguità del passato, dovrà chiarire il suo progetto. Si capirà se il Pd è davvero in grado di cambiare la politica italiana da come verranno sciolti due nodi: la decisione e la crisi. 1) Da quasi un trentennio si è affidata la decisione a persone sole al comando, a riforme istituzionali che favoriscono i governi e mortificano le assemblee rappresentative, a poteri tecnocratici apparentemente neutrali che invece impongono interessi di parte sempre con la scusa dell’emergenza. Nonostante, o forse proprio a causa di questa verticalizzazione, il paese è diventato ingovernabile. Invece, la decisione va ricercata nella direzione opposta ovvero nel coinvolgimento delle forze più vitali della società. L’ultimo rapporto Censis ha dimostrato che la decadenza italiana è causata soprattutto dall’ignavia dell’establishment, mentre ci sono energie che pur non trovando rappresentanza né politica né mediatica operano quotidianamente nella vita reale, dai territori della nuova economia ai giovani che hanno la testa nel mondo, alle buone pratiche di integrazione


GLI EDITORIALI

dei migranti. D’altro canto, le cose migliori della storia nazionale non sono mai state realizzate dall’alto, ma sempre dall’ingegno sociale che si esprime nella vita associata, dai distretti industriali alle scuole del tempo pieno. La politica ha perduto il contatto con questa dimensione orizzontale perché si è statalizzata nella gestione della burocrazia e della spesa pubblica. Per invertire la tendenza occorre ricreare grandi partiti popolari moderni, certo fuori dagli schemi irripetibili del Novecento, ma capaci di suscitare nella società la forza del cambiamento. Il Pd è in bilico, la crisi dell’establishment lo attira nella dimensione verticale ma la partecipazione delle primarie lo orienta nello sguardo orizzontale. Tutto dipende dal ruolo che si vorrà dare ai tre milioni di cittadini dei gazebo. Se sono chiamati solo la domenica per acclamare il solito leader che promette la vittoria e poi perde le elezioni si ripeteranno le delusioni degli anni passati. Se invece – come suggerisce Fabrizio Barca – saranno chiamati i giorni feriali per partecipare alle decisioni, per condividere progetti piccoli e grandi, per verificare i risultati degli eletti, nascerà una forza popolare del cambiamento. 2 ) La chiamiamo crisi ma si tratta di una trasformazione del capitalismo che mette in discussione la geopolitica, i modi di produzione e gli stili di vita. Molti pensano che si possa ricominciare come prima: i poteri economici ripropongono le stesse ricette che ci hanno messo nei guai; anche la vecchia sinistra si illude che finito l’inganno liberista di possa tornare agli anni Settanta. Per la sinistra nuova, invece, è l’occasione di mettere qualcosa di suo nel passaggio d’epoca. Avremmo dovuto capirlo quando nel referendum dell’acqua del 2011 la saggezza popolare ci ha indicato la soluzione: se c’è una crisi mondiale curiamo ciò che abbiamo di comune, servirà a sortirne insieme. Avremmo dovuto rispondere con un credibile programma di governo orientato nella green economy, nell’impresa sociale, nei saperi di avanguardia, nella cura delle persone. Non si tratta solo di spesa pubblica, ma di occasioni per creare nuove imprese e lavoro qualificato. La potenza produttiva del lavoro contemporaneo è inusitata. Il valore aggiunto che scaturisce dalle mani e dalle menti dei nostri giovani non ha precedenti nella storia umana. Sono nativi digitali, parlano le lingue, pretendono la trasparenza del potere e superano le angu-

stie provinciali. Perché allora sono costretti a vivere male? Chi se la prende la ricchezza che producono e chi la spreca tenendoli disoccupati? Bisogna pensare alla rovescia del mondo attuale per progettare le vere riforme che migliorano la vita dei cittadini. Alla nuova generazione che guida il Pd rivolgo l’augurio di liberarsi delle vecchie ideologie e di proporre nuove ambizioni per la sinistra italiana.

La primavera verde militare d’Egitto Mostafa El Ayoubi Dopo l’estromissione del presidente Morsi, che voleva imporre una Costituzione islamista e fomentava lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti, a giugno scorso gli egiziani sono tornati in milioni a piazza Tahrir e la giunta militare ha preso in mano il potere, mettendo fuori gioco i Fratelli musulmani. Ma i problemi politici e sociali restano: mentre l’élite militare controlla buona parte dell’economia, il paese versa ancora in condizioni di grave povertà.

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a rivoluzione del 25 gennaio 2011 in Egitto, alla quale, a partire da piazza Tahrir, avevano partecipato milioni di cittadini delle più svariate tendenze politiche, culturali e religiose, aveva portato l’11 febbraio dello stesso anno alla caduta del regime di Mubarak durato 30 anni. Due anni e mezzo dopo una seconda «rivoluzione», quella del 30 giugno 2013, ha portato alla destituzione di Morsi, eletto democraticamente presidente un anno prima. Diversamente dalla prima, questa seconda «rivolta» popolare è stata messa in atto da una parte della popolazione che aveva piazza Tahrir come quartier generale. Nel mentre la parte della popolazione fedele a Morsi aveva scelto la piazza Rabia al Adawiya come luogo simbolo di protesta contro la rimozione e l’incarcerazione del loro presidente da parte della giunta militare. Gli anti-Morsi avevano sostenuto la repressione violenta perpetrata dall’esercito ai danni dei pro-Morsi e avallato la reintroduzione (temporanea!) dello stato di emergenza. Questo episodio ha di fatto sancito una grave spaccatura sociale all’interno di un paese alle prime armi con il gioco della democrazia. E ha ridimensionato il sogno iniziale di un futuro Egitto finalmente democratico, prospero e sovrano. Si è quindi ritornati al punto di partenza di tre anni fa. Ma chi sono realmente i responsabili di questa involuzione? In molti attribuiscono la colpa al movimento dei Fratelli musulmani (Fm). Ciò è vero ma solo in parte. I Fm, forti di un sostegno popolare, sono giunti al potere nel 2012 in un contesto politico, sociale ed economico molto fragile. Dopo la rivoluzione, i Fm avevano subito avallato una


GLI EDITORIALI

Costituzione rimaneggiata dai militari e sottoposta a referendum nel marzo 2011 per poter arrivare subito alle elezioni: avevano trionfato alle legislative e vinto – anche se di misura, con il 51% – alle presidenziali con il loro candidato Morsi. Quest’ultimo, legittimato dalle urne e sostenuto da alcune potenze occidentali, pensava ingenuamente di disporre di un potere assoluto: si era attribuito diversi poteri costituzionali e aveva imposto agli egiziani una nuova Costituzione redatta da una commissione in maggioranza islamista e con impronta marcatamente religiosa. La politica di Morsi aveva inoltre fomentato lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti. Aveva interrotto le relazioni diplomatiche con il regime alawita (sciita) in Siria dopo che i teologi egiziani vicini ai Fm avevano emesso una fatwa per il jihad contro al-Assad. In seguito a questa presa di posizione, un imam sciita egiziano ed esponenti della sua comunità sono stati trucidati da fanatici jihadisti il 24 giugno scorso in un villaggio vicino al Cairo. Nei discutibili provvedimenti presi da Morsi – nel suo anno di governo – una parte della popolazione ha avvertito lo spettro di un dittatore religioso e quindi si è mobilitata. La storia ci dirà se questa mobilitazione è stata spontanea o etero-diretta. Sta di fatto che il 30 giugno scorso gli anti-Morsi (in milioni) avevano partecipato ad un’azione di ribellione a piazza Tahrir e il 3 luglio la giunta militare aveva arrestato Morsi e diversi membri dei Fm e ripreso in mano il potere. I protagonisti di quella ribellione avevano accolto festosamente quello che di fatto è stato un colpo di stato militare camuffato dietro una mobilitazione di civili. I Fm hanno avuto senza dubbio le loro gravi colpe nel gestire la fase di transizione post-rivoluzionaria. Tuttavia i militari rimangono i principali responsabili dell’impasse in cui versa l’Egitto. L’élite delle forze armate è stata da sempre una parte strutturale della perenne crisi egiziana: ha dominato il paese dal 1952 fino al 2011 e di democrazia non si era mai (pre)occupata. L’Egitto, nonostante le sue risorse naturali e umane, patisce – oltre ad una crisi politica cronica – gravi problemi di povertà e sottosviluppo. Il 20% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Ciononostante, l’esercito egiziano è una delle più ricche forze armate del mondo. L’élite militare control-

la il 30-40% dell’economia del paese. Parlando solo nel settore civile, essa dispone di aziende che producono pasta, olio, acqua minerale, elettrodomestici; gestisce una catena di stazioni di servizio (Al-Watania) per la vendita dei carburanti. È inoltre proprietaria di terreni, aziende agricole, immobili e altro. Le attività economiche produttive della giunta militare sono esonerate dalle tasse e i suoi bilanci economici sono considerati top secret: la violazione è soggetta a sanzioni penali. L’onnipotenza dell’esercito militare egiziano deriva anche dal grosso sostegno da parte degli Usa che considerano l’Egitto uno snodo strategico per la loro politica in Medio Oriente. Dal 1979, data della ratifica del trattato di Camp David tra Israele ed Egitto, l’esercito egiziano riceve annualmente 1,3 miliardi di dollari dagli Usa, paese dove periodicamente i quadri militari egiziani si recano per seguire corsi di addestramento e di formazione. Il generale Abdl Fattah al-Sisi, formato anche lui nelle scuole militari statunitensi, è oggi di fatto l’uomo forte del paese: è capo del Consiglio supremo delle forze armate (Csfa), viceministro dell’Interno e ministro della Difesa. È stato lui ad indicare una road map per uscire dalla crisi. Sotto il controllo del Csfa è stata creata una commissione costituente composta da 50 membri. Nessun esponente dei Fm ha partecipato a tale commissione perché nel frattempo il movimento e il suo braccio politico, il Partito di libertà e giustizia, sono stati messi al bando e i suoi principali leader messi in galera. Ai primi di dicembre la commissione ha approvato una nuova Costituzione, che sarà sottoposta a referendum a metà gennaio. Questa nuova Carta costituzionale consente ai militari di mantenere il loro controllo sul paese: i tribunali militari per i processi contri i civili continueranno ad operare come ai tempi di Mubarak; la carica di ministro della Difesa – nei prossimi 8 anni – sarà indicata dal Csfa. Una delle costanti universali della democrazia è la non ingerenza dell’esercito nella vita politica. In Egitto invece una parte del popolo egiziano oggi osanna i militari, il che significa che molti di coloro che hanno partecipato alla rivoluzione del 25 gennaio non avevano ben chiaro il significato della democrazia. Si tratta di un problema di maturità culturale che riguarda non solo gli egiziani ma tutte le società arabe.

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