6 EURO TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA - SPED. IN ABB. POST. D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/04 N.46) ART.1 COMMA 1, DCB
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Confronti | marzo 2018
MENSILE DI RELIGIONI · POLITICA · SOCIETÀ
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ANNO XLV NUMERO 3 Confronti, mensile di religioni, politica, società, è proprietà della cooperativa di lettori Com Nuovi Tempi, rappresentata dal Consiglio di Amministrazione: Roberto Mellone (presidente), Ilaria Valenzi (vicepresidente), Mariangela Franch, Giorgio Gomel. DIRETTORE
Claudio Paravati CAPOREDATTORE
Mostafa El Ayoubi IN REDAZIONE
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Rocco Luigi Mangiavillano, Anna Maria Marlia, Daniela Mazzarella, Carmelo Russo, Luigi Sandri, Stefania Sarallo, Lia Tagliacozzo, Stefano Toppi. COLLABORANO A CONFRONTI
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(pagine 29 e 30).
PROGRAMMI
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Confronti | marzo 2018
le immagini
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il sommario
il sommario GLI EDITORIALI
Cinque anni di Francesco Luigi Sandri 6
Se anche l’Austria “sdogana” l’estrema destra Felice Mill Colorni 7
Coltivare la Memoria, assumersi le responsabilità Pawel Gajewski 8
I SERVIZI TURCHIA 10 Il sogno di Erdogan,
l’incubo del Medio Oriente Mostafa El Ayoubi
13 CARCERE
La libertà di culto delle persone detenute
(intervista a) Mauro Palma
LE NOTIZIE
LE RUBRICHE
I LIBRI
Società
Diario africano Sudafrica: Zuma cede all’Anc e si dimette
I giovani protagonisti della storia
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Immigrazione 34 35
Solidarietà 35
EBRAISMO 17 In ricordo di Giacometta Limentani Pupa Garribba
Ambiente
SANT’EGIDIO 19 Cinquant’anni
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Chiesa cattolica
di impegno per la pace
Gerusalemme
BIOETICA
Ecumenismo
(intervista a) Marco Impagliazzo
21 Testamento biologico:
una legge di civiltà Sergio Gentile
23 I “no”, i “nì” e i “sì”
del mondo cattolico italiano David Gabrielli
IMMIGRAZIONE 24 Minori stranieri non accompagnati:
la normativa
Paolo Iafrate SOCIETÀ 26 La migrazione è una bella storia Fabio Bellumore ORTODOSSI
28 Liturgia e società:
un viaggio nella Chiesa serba Asia Leofreddi
STORIA 31 Aldo Moro, l’utopia spezzata Roberto Bertoni
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Enzo Nucci 39
In genere Le parole rispettino l’identità di genere Stefania Sarallo 40
Filosofia e società Si conosce davvero solo con il cuore Samuele Pigoni 41
Spigolature d’Europa Mélenchon: il puro più puro che ti epura
Marco Petrulli 45
Segnalazioni 46
LE IMMAGINI
Stop Razzismo copertina
Un viaggio di Confronti
Michele Lipori 9
Adriano Gizzi 42
Opinione Il cuneo ucraino tra Roma e Mosca Luigi Sandri 43
ERRATA CORRIGE Nello scorso numero, a pagina 13, è saltata per errore la prima riga dell’ultimo capoverso. Scusandoci con l’autore e con i lettori, ripubblichiamo la frase completa: Ipotesi su ipotesi – che, ovviamente, si inseriscono nel puzzle mediorientale, con una Siria lungi dall’essere pacificata...
STOP RAZZISMO
Perché l’antirazzismo sia senso comune
L’
indomani dell’attentato razzista di Macerata, ora di cena, parole scambiate tra genitori e figli, tra amici, compagni, colleghi, istintivi giri di email e messaggi, brancolanti nella rabbia e nel dolore, scatenati da una saturazione di discorsi e immagini razziste che in Macerata trovano (solo) il loro culmine più atroce. In Italia infatti il razzismo – che si nutre di paura, ignoranza, fake news, rimozioni storiche, sessismo, fascismo – è ogni giorno più tangibile. Lo spazio pubblico è denso di una narrazione razzista nei mezzi di comunicazione, e di parole e comportamenti a volte sottilmente a volte apertamente razzisti a cui assistiamo in ogni luogo che frequentiamo. Ci troviamo a dover constatare che l’antirazzismo non è “senso comune”. Dunque che fare per affermare che il razzismo non possa essere espresso, accettato, sotteso in nessun modo, in nessun luogo, per nessuna ragione? Le azioni da intraprendere in questo momento sono certamente molteplici e necessitano tanto una semplicità diretta del messaggio antirazzista, quanto un’articolata analisi dei fenomeni. L’urgenza sentita collettivamente di porre un argine immediato a questa deriva del pensiero, delle parole e delle azioni ci hanno fatto puntare alla prima, mentre cerchiamo costantemente di mettere a fuoco la seconda. Riempire lo spazio pubblico con discorsi e pratiche quotidiane che condannano fermamente il razzismo in tutte le sue forme e manifestazioni, questo vogliamo fare. Vogliamo testimoniare sempre e chiaramente da che parte stiamo. Per questo abbiamo lanciato la campagna STOP RAZZISMO, basata sulla massima diffusione dello slogan abusato ma non più ovvio. Perché tanti colori e cuori quando i nostri corpi urlano rabbia? Per esporci in ogni momento e in ogni luogo con un segno che dice “io non ci sto”. Non ci sto al razzismo, non ci sto a nessun possibile ammiccamento, non c’è sponda per tutti coloro che pensano di poter “fare una battuta”, di poter deridere, escludere, discriminare, violentare un altro essere umano. Segnare un confine che affermi che non c’è spazio per nessuna narrazione né azione razzista, dichiarandoci visibilmente contrari alla vulgata, anche quando non riusciamo a prendere apertamente una posizione pubblica perché non ne abbiamo la forza, perché ci sentiamo in minoranza. È a tutti noi che è diretta questa campagna, per trovare sempre la forza di esporci, riconoscendoci in altre persone che segnalano apertamente il proprio posizionamento antirazzista, facendoci riconoscere da chi cerca una vicinanza in uno spazio ostile. Perché il razzismo non si nutre solo di ideologie sessiste e fasciste, ma dei silenzi, del lasciar andare, del non esserci. In pochi giorni ci siamo ritrovati in mano un logo e una campagna, spille e adesivi acquistati con autofinanziamento e sottoscrizioni. E così i nostri corpi segnano in un modo volutamente naif – affinché possa essere messo in atto da una pluralità di soggetti – un “no pasaran”, oltre non si va. Ognuno può far propri i materiali, riprodurli, diffonderli nei bar, cinema, teatri, negozi, scuole, al lavoro, sui social. Un pretesto visibile e riconoscibile per parlare di antirazzismo e fare antirazzismo. Non sappiamo come andrà, ma sicuramente già qualcosa è andata, verso un senso comune. email: stop.razzismo2018@gmail.com, Facebook: STOP Razzismo, twitter: @stop_razzismo
gli editoriali
Cinque anni di Francesco
Confronti | marzo 2018
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l giro di boa dei cinque anni da quando l’argentino Jorge Mario Bergoglio il 13 marzo 2013 fu eletto dal conclave vescovo di Roma e dunque papa della Chiesa cattolica, non è – ovvio – il tempo di giudizi compiuti ma, solo, l’occasione di qualche limitata riflessione. Su ogni papa grava l’intera storia della sua Chiesa e, dunque, della dottrina e delle normative che questa, lungo i secoli, ha elaborato e proposto. Ora, se un neo-eletto pontefice decide di seguire, sostanzialmente, la linea degli immediati predecessori, seppure apportandovi qualche ritocco e qualche variante, la sua fatica sarà meno pesante, perché il solco è segnato. Ma, ove egli voglia avviare cambiamenti radicali dei paradigmi ecclesiali e pastorali fino a quel momento consueti, tutto si fa più difficile. Infatti, se sono reali e non gattopardeschi, i nuovi paradigmi aprono degli scenari “rivoluzionari” che, mentre entusiasmano una parte dei fedeli, turbano un’altra parte. Quando mai un pontefice, nei secoli passati, ha negato formalmente che Dio è infinita misericordia? Tuttavia, molti papi hanno sempre sottolineato che l’Altissimo è anche somma giustizia; e, insistendo su questo aspetto, di fatto hanno dimenticato l’altro, e sono diventati “giustizieri” più o meno spietati. Invece Francesco scruta la realtà cercando di scrostare dall’albero dell’Evangelo pesanti strati di dottrine e pastorali accumulatesi nei secoli fino a renderlo quasi irriconoscibile, per riscoprire così Gesù che annuncia Dio=Misericordia. Potrebbe mai, Bergoglio, riportare in auge i paradigmi severi che – pur LUIGI SANDRI con importanti ecredazione Confronti. cezioni: vedi Gio-
vanni XXIII – caratterizzavano lo status quo ante? Pare proprio di no. In questa linea il suo pontificato è irreversibile. E, tuttavia, come raccordare il nuovo corso con il passato? Si dà forse rottamazione, nella Chiesa cattolica romana? E qui – pare a me; altri la pensano assai diversamente, avranno le loro buone ragioni – vi è un nodo irrisolto nel pontificato in atto. Francesco ripete di voler difendere “la dottrina”, e di cambiare solamente “la pastorale”. In astratto, l’impresa sembra del tutto plausibile. Però, vista da vicino, mostra una permanente aporia. Esemplifichiamo. Sulla scia dei due Sinodi (2014 e 2015) sulla famiglia, la sua esortazione apostolica Amoris laetitia, firmata proprio il 19 marzo di due anni fa, afferma di confermare la dottrina della Chiesa romana sull’indissolubilità del matrimonio ma, nel contempo, fa balenare la possibilità – dopo attento discernimento, e “caso per caso” – di ammettere all’Eucaristia persone divorziate e risposate civilmente. Il che contrasta frontalmente con una dottrina ribadita almeno negli ultimi cinque secoli, dal Concilio di Trento fino a papa Wojtyla. Bergoglio bypassa tale granitico “no”, e ipotizza, con il discernimento, talora possibile un “sì”. È però arduo dire che così si cambia solo la “pastorale”, e non anche la “dottrina”. Sul versante, diciamo così, sociale, orizzonti ampi ha aperto Francesco con l’enciclica Laudato si’; e benissimo egli fa a ribadire che ogni discepolo/a di Gesù tale non è se non si fa samaritano/a per aiutare quanti sono stati bastonati dai ladroni (oggi diremmo: dalle strutture inique della società). Naturalmente, nella complessità dei problemi economici e sociali, occorre, però, evitare la presunzione di avere, come Chiesa, l’unica chiave per risolverli.
Luigi Sandri
Una società ben ordinata, e fondata sulla ragione e sulla giustizia, può attuare da sola ottimi ordinamenti sociali. E la Chiesa (ogni Chiesa)? Le rimane un compito decisivo, e non delegabile: annunciare al mondo la grazia di Dio.
IL 13 MARZO 2013 L’ARCIVESCOVO DI BUENOS AIRES, JORGE MARIO BERGOGLIO – CLASSE 1936 – VENIVA ELETTO PAPA FRANCESCO. I NUOVI PARADIGMI PASTORALI DA LUI PROPOSTI, LE AFFERMAZIONI ARDITE, LE SCELTE DIRIMENTI, I NODI IRRISOLTI. LUCI E OMBRE DI “AMORIS LAETITIA”. In prospettiva ecumenica, rimarranno nella storia le parole con cui il pontefice, a Lund, in Svezia, il 31 ottobre 2016, in occasione dell’avvio delle celebrazioni, insieme ai luterani, dei cinquecento anni dall’inizio della protesta di Martin Lutero, ringraziò Dio per i “doni” apportati dalla Riforma alla Chiesa. Un capovolgimento, rispetto ad una pastorale polemica durata secoli, e che solo il Vaticano II aveva iniziato a cambiare. Sul fronte donna, quest’Assemblea (1962-65) aveva appena balbettato. E lo stesso Francesco non riesce a fare passi decisivi verso l’ammissione dei ministeri femminili. Una “impossibilità” ben comprensibile, storicamente, e di fatto insuperabile per un papa. Solo un Concilio, realisticamente, potrebbe farlo.
gli editoriali
C’
è poco da stare allegri. Se il 2016 era stato l’anno dell’ondata populista, con la Brexit prima e con l’elezione di Trump poi, il 2017 sembrava aver portato un po’ di resipiscenza, come dimostravano i risultati delle elezioni olandesi e soprattutto l’elezione di Emmanuel Macron in Francia, vincente dopo una campagna elettorale tutta giocata sulla contrapposizione frontale non solo con il Front national di Marine Le Pen, ma anche con ogni posizione sovranista o euroscettica. Benché il successo di Macron fosse stato propiziato da una serie quasi incredibile di fortunate coincidenze, sembrava che i potenziali elettori sfasciacarrozze si fossero fatti più cauti, dopo essersi resi conto che rischiavano di vincere. Dopo la Brexit, anche nell’orribile campagna elettorale italiana, perfino le forze più antieuropee sembrano avere almeno in parte attenuato la loro retorica, che ancora due anni fa sembrava avere contagiato l’intera classe politica, con una rincorsa alla denigrazione dell’Ue che non sembrava avere più argini neppure fra le forze politiche che avrebbero dovuto esserne maggiormente immuni. Anche se non possono certo essere cancellate in pochi mesi le conseguenze disastrose dei decenni in cui è stata moneta corrente l’abitudine di quasi tutti i governi europei di scaricare sull’Unione la responsabilità di ogni loro scelta ritenuta impopolare. La relativa maggiore cautela sull’Europa non ha tuttavia arginato, neppure in questa campagna elettorale italiana, l’insorgenza populista sul terreno della xenofobia e dell’ormai aperto e rivendicato razzismo. In questa materia sembrano anzi crollati anche gli ultimi
tabù. Dopo vent’anni di diseducazione civica intensiva e di massa, gran parte della politica italiana sembra ormai ritenere, temiamo non del tutto a torto, che mostrarsi esplicitamente razzisti giovi elettoralmente.
IN UN’EUROPA CHE ORMAI ACCETTA COME “NORMALI” FORZE POLITICHE ULTRANAZIONALISTE E XENOFOBE, PREOCCUPA IN PARTICOLARE IL CASO DELL’AUSTRIA, DOVE I POPOLARI DI KURZ HANNO IMBARCATO NEL GOVERNO I SUCCESSORI DI HAIDER. Antieuropeismo a parte (ma un antieuropeo è stato appena eletto presidente della Cechia al posto che già fu di Václav Havel), l’ondata populista sembra avere ripreso vigore negli ultimi mesi. Se il risultato delle elezioni tedesche non va drammatizzato, dato che la Germania continua ad essere il paese europeo dove il consenso al populismo xenofobo è il più basso, è stata l’Austria in queste settimane a sollevare le maggiori inquietudini. E non a torto. Come e più dell’Italia (o della Francia che fino a Chirac – e perfino negli anni di Mitterrand – aveva a lungo cancellato Vichy), l’Austria è stata del tutto refrattaria, fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, ad affrontare la “questione della colpa”. Neppure il ’68 austriaco è stato, come in Germania, l’occasione per la generazione non compromessa di ar-
Felice Mill Colorni
rivare a una definitiva e salutare resa dei conti con quella coinvolta nel nazismo. L’Austria, abilissima nel far immaginare a gran parte del mondo che Beethoven fosse austriaco e Hitler tedesco, si è sempre presentata come “la prima vittima” del nazionalsocialismo, insinuando anche, talvolta esplicitamente, che ciò fosse da mettere in relazione con il retaggio religioso cattolico anziché luterano. Poco noto che l’antisemitismo fosse largamente diffuso nei paesi dell’Europa centrale austroungarica più ancora che nella Prussia militarista, e che una parte sproporzionata dei gerarchi e dei carnefici nazisti provenisse dalla cattolicissima Austria (o dalla Baviera). Nessun ravvedimento, anzi, un diffuso e solidale risentimento, quando anni fa gli europei scopersero i trascorsi nazisti del presidente Waldheim; nessun rigetto generalizzato per le ambigue esternazioni del leader populista Haider, che suonavano apertamente razziste per gli standard europei di qualche anno fa (e che oggi forse passerebbero inosservate). Ma che il giovane leader popolare Sebastian Kurz abbia rotto un tabù che ancora resisteva in Europa e abbia imbarcato nel proprio governo i successori di Haider, a loro volta ulteriormente imbarbariti, è davvero un triste segno dei tempi. È vero che i popolari europei sono di bocca buona, e annoverano nelle loro fila Berlusconi e l’ungherese Orbán. Ma l’Övp di Kurz è un vecchio e fin qui blasonato partito democristiano e conservatore. Che anche i conservatori mainstream comincino a non vergognarsi di allearsi con gli estremisti di destra è un ennesimo campanello d’allarme per le sorti della civiltà politica europea.
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Se anche l’Austria “sdogana” l’estrema destra
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gli editoriali
Coltivare la Memoria, assumersi le responsabilità
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ad Vashem, queste due parole ebraiche significano letteralmente monumento e nome. Il concetto è tratto dal libro di Isaia 56,5: «Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un monumento e un nome, che avranno più valore di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più». Yad Vashem quindi è una sorta di cifra simbolica dell’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, istituito dal Parlamento israeliano con la legge del 19 agosto 1953. Yad Vashem è un’istituzione complessa che comprende diversi archivi storici, istituti di ricerca, spazi museali ed espositivi, giardini (tra cui il Giardino dei Giusti) e istallazioni artistiche di grande valore simbolico. Verosimilmente la legge israeliana sulla memoria è una delle migliori al mondo. In questo solco si colloca la legge 211 approvata dal Parlamento italiano il 20 luglio 2000 con cui si istituisce la Giornata della Memoria, fissandone la data il 27 gennaio, giorno in cui furono abbattuti i cancelli di Auschwitz. Il percorso tracciato dalle parole monumento e nome porta anche a Berlino, in Bernauer Strasse, dove nel 2008 in base a una legge emanata dal Senato di Berlino e confermata dal Governo federale, fu istituito il Memoriale del Muro di Berlino e delle sue vittime, un’ampia area della capitale tedesca del tutto simile al Memoriale di Yad Vashem. Quando la memoria si manifesta nei monumenti è piuttosto semplice tuPAWEL GAJEWSKI telarla. Il 7 maggio pastore, professore 1999 il Parlamento incaricato di polacco promulgò Teologia delle la legge 412 sulla religioni alla tutela di tutti gli Facoltà valdese di teologia di Roma. ex-campi nazisti
presenti sul territorio polacco, dichiarandoli «monumenti nazionali del martirio e della memoria». Dieci anni dopo le sanzioni penali contenute in questa legge hanno rivelato la loro efficacia. La mattina del 18 dicembre 2009 alle autorità competenti venne denunciato il furto della scritta Arbeit macht frei posta sopra il cancello di ingresso di Auschwitz. I responsabili del delitto, tre neonazisti polacchi legati a due militanti di estrema destra svedese, furono arrestati, processati e condannati a pene detentive piuttosto severe.
IN POLONIA UNA LEGGE APPROVATA DAL PARLAMENTO A FINE GENNAIO PUNISCE CHIUNQUE AFFERMI O ANCHE SOLO IPOTIZZI UNA QUALUNQUE FORMA DI PARTECIPAZIONE DEL POPOLO POLACCO ALLA GESTIONE DEI CAMPI NAZISTI. In Germania invece una legge simile ha dimostrato i suoi limiti. A Dachau il cancello del campo di concentramento venne danneggiato nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 2014 e la cancellata con la scritta rubata. Il 2 dicembre 2016 la polizia dell’Alta Baviera annunciò il ritrovamento della cancellata nella città norvegese di Bergen. I ladri però non sono stati identificati. La memoria non è solo monumento ma anche nome, essa appartiene cioè alla sfera delle idee, delle convinzioni e delle
Pawel Gajewski
ricerche. Qui la situazione si complica. La legge approvata dal Parlamento polacco il 26 gennaio scorso introduce pene detentive (oltre a quelle amministrative) nei casi in cui venga esplicitamente affermata o ipotizzata una qualunque forma di partecipazione del popolo polacco alla gestione dei campi nazisti. Le sanzioni scattano anche nei confronti di chi menziona i lager nazisti che si trovano in Polonia senza un’esplicita precisazione che negli anni 1939-1945 si trattava dei territori occupati dalla Germania. Questa legge rischia di diventare un limite alla ricerca della piena verità sulla Shoah, come ha giustamente ricordato il governo israeliano nelle sue note di protesta. Ciò che invece preoccupa di più molti osservatori è il sospetto che il governo polacco voglia distrarre l’attenzione dei più da un problema grave e preoccupante: numerose e sempre più esplicite manifestazioni dell’antisemitismo e del razzismo. Basta ricordare il “corteo nero” di Varsavia dell’11 novembre scorso e i suoi slogan xenofobi (vedi Confronti 12/2017). La memoria deve essere coltivata nella piena disponibilità ad assumersi la responsabilità anche per i suoi lati oscuri. Un palese antisemitismo della destra nazionalista polacca negli anni Venti e Trenta del Novecento è un dato di fatto innegabile. Se tale sentimento antiebraico diffuso all’epoca in Polonia debba essere collegato alla tragedia dei lager nazisti resta ancora da stabilire. Il compito, tuttavia, spetta alla comunità scientifica internazionale e il suo risultato non può essere pregiudicato da una legge. Un monumento e un nome di cui parla il profeta appartengono all’eternità e non alla contingenza.
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UN VIAGGIO DI CONFRONTI Le foto in apertura delle sezioni sono state fatte durante il seminario itinerante di Confronti “Russia, santa e misteriosa� (18-26 luglio 2016) e sono state scattate da Michele Lipori.
Cattedrale di San Basilio a Mosca.
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Il sogno di Erdogan, l’incubo del Medio Oriente Mostafa El Ayoubi
Le mire espansionistiche del presidente turco provocano i malumori anche dei suoi stessi alleati della Nato, oltre che – come era ampiamente prevedibile – l’ostilità delle potenze concorrenti nell’area, innanzitutto l’Arabia Saudita, ma ora – con le tensioni legate alla questione dei curdi di Afrin – anche la Siria.
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a Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan rappresenta oggi una vera “gatta da pelare” per il mondo arabo islamico e per gli Usa, la Nato e l’Europa. Le ambizioni di Erdogan di trasformare il suo Paese in una potenza dominante in Medio Oriente a scapito dei suoi alleati occidentali ha contribuito in maniera determinante all’inasprimento dello scontro geopolitico e militare su scala internazionale che sta destabilizzando gravemente molti Paesi del mondo arabo: Siria, Iraq, Yemen, Libia, Egitto. Erdogan è al potere da 15 anni. Dal 2003 al 2014 fu primo ministro e successivamente diventò presidente con il sostegno del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di cui egli è il leader indiscusso. La riforma costituzionale del 2017, per il passaggio da un regime politico parlamentare a uno presidenziale, fu concepita ad hoc per consentirgli di permanere al potere. Nella prima decade del secolo in corso, il suo governo fece della crescita economica un obiettivo cardine e riuscì a migliorare la situazione socioeconomica del Paese, contribuendo in modo sensibile ad una discreta prosperità economica: la crescita del Pil si aggirava intorno al 10%; nel 2013 fu estinto il debito con il Fondo monetario internazionale; i salari dei lavoratori in diversi settori erano triplicati. Egli riuscì inoltre a defenestrare i militari dalla scena politica che “occupavano” da decenni. Tutto ciò ha consentito alla Turchia di costruirsi una credibilità politica sullo scacchiere mondiale, facendo passi in avanti verso la modernità e la democrazia. Il Paese in quel decennio sembrava destinato a diventare un ponte di dialogo tra il mondo musulmano e quello occidentale. La sua posizione geografica, la prossimità all’Europa, il peso demografico, il boom economico, la modernizzazione del siMOSTAFA stema sociale e politico – noEL AYOUBI nostante i tanti limiti della caporedattore Confronti. sua democrazia – avevano
incrementato le probabilità di entrare in Europa, di modificare gli equilibri geopolitici nel Medio Oriente a favore della pace, facendo da mediatore tra palestinesi e israeliani. Fu il periodo in cui il governo turco aveva adottato la politica di “zero problemi” con i vicini (Iran, Siria, Iraq, Europa). E le popolazioni musulmane riponevano nella Turchia la speranza di dare un’immagine positiva dell’islam. LA MUTAZIONE DELLA POLITICA DI ERDOGAN
Forte del successo politico interno, della popolarità raggiunta presso il mondo musulmano e del sostegno dei suoi partner Usa/Nato, Erdogan cominciò a coltivare l’ambizione di diventare una sorta di sultano neo-ottomano alla riconquista di antiche frontiere geopolitiche. L’occasione per mettere in pratica questo sogno si presentò all’inizio del 2011, quando crollarono le prime dittature arabo-musulmane. L’indebolimento dell’Egitto e l’arrivo al potere dei Fratelli musulmani (Fm), “cugini” dell’Akp, in concomitanza con il progetto delle potenze occidentali di rimodellare il “Grande Medio Oriente” su base etnica e religiosa (i Fm furono riaccreditati come forza politica dagli Usa), hanno alimentato le ambizioni “imperiali” dell’allora premier turco. In seguito alla cosiddetta “primavera araba”, il governo turco decise di approfittare della crisi sociale e politica in cui versano diversi Paesi arabi per cercare di estendere la sua egemonia sul mondo arabo come ai tempi del califfato ottomano. La Turchia iniziò a fare concorrenza geopolitica all’Arabia Saudita – entrata anch’essa “a gamba tesa” nella confusa scena mediorientale – con la quale vi sono incolmabili differenze ideologiche/ religiose. Anche se i due Paesi sono sunniti, i sauditi seguono la dottrina wahabita mentre la classe politica al potere è legata alle dottrine dei Fm. Il principale terreno di scontro tra questi due Paesi oggi è il disastrato Egitto (il più grande Paese arabo).
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l’Europa, ottenendo risultati ad esso favorevoli. Nel marzo 2015 il suo “visir”, il premier Davutoglu, riuscì a strappare un accordo che impegna l’Unione europea a versare nelle casse di Ankara tre miliardi di euro all’anno in cambio del blocco del flusso dei profughi che raggiungono l’Europa attraverso le frontiere turche. Giocando la carta dei profughi, i turchi sono riusciti a costringere Bruxelles ad affrontare con impegno la questione dell’ingresso della Turchia nell’Ue, nonostante il fatto che la Turchia non sia in regola con molti principi della democrazia: la violazione dei diritti umani dei curdi e dei profughi siriani, la repressione contro i media (a febbraio sei giornalisti sono stati condannati all’ergastolo). LO SCONTRO TRA WASHINGTON E ANKARA SULLA SIRIA
In questo quadro complesso, gli americani si sono accorti che Erdogan si stava allargando troppo e che non stava rispettando il patto di subordinazione di Ankara a Washington. Il “sultano” stava diventando troppo disobbediente e stava mettendo in gioco gli interessi degli Usa nella regione. Ed è in questo contesto che nell’estate 2016 avvenne il colpo di Stato contro il presidente turco. Il coup d’État non ebbe successo, grazie ad un preavviso dei servizi segreti russi, come scrissero diversi giornali turchi. A poche ore dal fallito putsch, Erdogan ordinò un’incarcerazione massiccia nei settori militare, giudiziario e dell’amministrazione pubblica, oltre a quello dei media: più di 26 mila arresti secondo il quotidiano The Independent del 9 agosto 2016. Ha proceduto al licenziamento di massa di decine di migliaia di dipendenti statali, compresi tremila giudici. Più di cento giornali e tv sono stati chiusi. Il golpe è stato un’occasione ghiotta, che ha consentito ad Erdogan di sbarazzarsi di molti dei suoi oppositori politici legati al suo nemico giurato, il potente Fethollah Gulen che vive esiliato negli Usa. Ankara accusò Wa-
Il presidente turco Erdogan e quello degli Usa Trump.
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L’ideologia politica/religiosa dei Fm è considerata dai sauditi come un grave pericolo per il regno wahabita. I sauditi ebbero un ruolo centrale nel colpo di Stato che aveva cacciato i Fm egiziani dal potere nel 2013. Sempre in questa ottica, gli Al Saoud scatenarono una guerra diplomatica contro il Qatar filo-Fm, dove si erano rifugiati molti dirigenti della fratellanza dopo il golpe. Questo atto ha ridimensionato il ruolo diplomatico e militare a sostegno delle milizie islamiste anti-Damasco di Doha, ma ha rafforzato i suoi rapporti con Ankara, la quale ha mandato un contingente militare a sostegno del regime qatarino. La Turchia entrò in competizione anche con l’Iran per quanto riguarda la Siria e l’Iraq e anche con la Francia e l’Inghilterra, che non intendevano rinunciare alla loro influenza neocoloniale sul Medio Oriente. Successivamente anche i rapporti con gli Usa si sono complicati a causa delle divergenze strategiche sulla questione siriana. La Turchia passò quindi da “zero problemi” a “zero amici”. Essa è in parte responsabile della guerra che ha devastato la Siria. Ha concesso il transito dei jihadisti sunniti verso il territorio siriano e oggi questi occupano alcune zone del Paese. Ha invaso in diverse occasioni il territorio iracheno con la pretesa di combattere i curdi di Öcalan e ha iniziato a comprare petrolio dal Kurdistan iracheno bypassando il governo centrale di Baghdad. I militari turchi fecero abbattere un cacciabombardiere russo nel novembre 2015, aprendo una grave crisi diplomatica con il Cremlino, le cui truppe militari erano impegnate contro Daesh/al Qaeda, su richiesta di Damasco. Anche con l’Unione europea le relazioni sono molto tese oggi, con la Germania in particolare. Erdogan ha provocato la crisi dei profughi nei Paesi Ue nel 2015, che ha rischiato di far saltare il trattato di Schengen e spaccare l’Europa. Il “sultano neoottomano” sfruttò la crisi dei profughi per ricattare
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GEOPOLITICA
shington di essere dietro il tentativo di destituzione del suo presidente. E da quell’estate i rapporti tra le due capitali si sono deteriorati, al punto tale che i turchi hanno stretto successivamente un’alleanza – difficile da stabilire se sia strategica o solo tattica e temporanea – con i russi e gli iraniani, principali nemici degli Usa/Nato. Questa alleanza ha segnato una svolta nella crisi siriana. La liberazione di Aleppo, la seconda città più importante della Siria, nel dicembre 2016, è stata il frutto di accordi diplomatici tra Mosca e Ankara, i quali sono stati determinanti anche per la sconfitta di Daesh, perché la Turchia aveva deciso di astenersi dal sostenere le milizie jihadiste che giungevano in Siria attraverso le frontiere turche sotto gli occhi dei militari turchi. La Russia, l’Iran e la Turchia insieme erano riusciti a mettere in piedi una road map per avviare un dialogo tra Damasco e i ribelli armati (ad esclusione di Daesh e di al Nousra). Le parti in conflitto furono convocate ad Astana nel dicembre 2016 sotto l’egida di Putin, Rohani ed Erdogan. Altri incontri tra le parti in conflitto continuano a susseguirsi nella stessa città kazaka. Dopo aver contribuito in maniera significativa alla sconfitta di Daesh, la Russia continua oggi a giocare un ruolo importante in Siria per trovare una soluzione politica ad un conflitto che dura da sette anni e che ha messo in ginocchio questo Paese (ovviamente senza trascurare i propri interessi geopolitici). Ed è in questa ottica che si inserisce il summit sul negoziato siriano avvenuto a fine gennaio a Soči.
Di fronte a queste iniziative diplomatiche, Washington si è sentita declassata da Mosca riguardo al dossier siriano e ha mal digerito il “tradimento” di Ankara. Ed ecco che esce fuori la carta curda: fallito il progetto di cacciare, con una guerra per procura, al Assad e sostituire il suo regime con uno confessionale (dei Fratelli musulmani) addomesticato, gli Usa hanno cambiato strategia. Hanno trovato nei curdi siriani una possibilità per piantare le loro basi militari in Siria, proprio al confine con la Turchia. Questa strategia ha ulteriormente deteriorato il rapporto tra Ankara e Washington, perché il governo turco odia i curdi. E avere alle porte di casa uno stato curdo o una regione autonoma curda è semplicemente inaccettabile. Per impedire che ciò accada, Erdogan ha mandato le sue truppe nella provincia siriana di Efrin per combattere i curdi siriani dell’Ypg (Unità di protezione popolare). L’offensiva è iniziata il 20 gennaio scorso. E, nonostante il parere contrario dei suoi nuovi alleati, Erdogan è andato avanti con il rischio di inasprire la crisi in Siria e di entrare in conflitto armato con le truppe americane che sostengono i curdi nella zona di Manbej, che i turchi avevano dichiarato di attaccare per cacciare via i curdi. Anche se quest’ultimo scenario è poco probabile (l’entrata ad Efrin il 20 febbraio delle forze paramilitari pro Damasco ha messo in grande difficoltà Ankara), l’impulsivo Erdogan rischia di trainare il suo Paese in uno scontro con gli Usa e la Nato che può avere conseguenze gravi sia per il mondo arabo che per l’Europa.
Confronti | marzo 2018
IL PATRIARCATO ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI
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Il patriarca ecumenico di Costantinopoli, la “nuova Roma”, ha un primato d’onore all’interno delle quattordici Chiese ortodosse autocefale che, insieme, formano l’Ortodossia. Il suo status, stabilito dagli antichi Concili ecumenici – in particolare quello di Calcedonia del 451 – è tuttora riconosciuto, in teoria, dalle Chiese sorelle ma, in pratica, spesso è contrastato, soprattutto dal patriarcato di Mosca, al quale appartengono circa il 60% dei duecento milioni di ortodossi sparsi nel mondo. Anche negli anni recentissimi, il patriarca russo, Kirill, e quello costantinopolitano, Bartolomeo I, sono stati spesso in contrasto proprio sul modo di intendere il ruolo del patriarcato ecumenico. La decisione della Chiesa russa di non partecipare al Concilio di Cre-
ta, svoltosi nel giugno 2016 nell’isola greca, si inquadra in tale contenzioso storico-ecclesiale (vedi Confronti 6 e 7-8/2016). Mentre, fino alla prima Guerra mondiale, nel territorio direttamente controllato dal patriarcato di Costantinopoli, i greco-ortodossi erano alcuni milioni, poi, a causa degli eventi bellici e politici che scossero il morente impero ottomano, essi andarono diminuendo drasticamente; e, oggi, in Turchia, essi si sono ridotti ad un piccolo gruppo – meno di cinquemila. E i rapporti tra il patriarcato (la cui sede è al Fanar, antico quartiere di Istanbul) e lo Stato turco sono gravati da irrisolti problemi. Intanto, Ankara non riconosce il patriarcato di Costantinopoli come “ecumenico”, cioè avente autorità
al di fuori dei confini della Turchia, ma solo come ente di diritto turco; e il patriarca deve avere la cittadinanza turca. E, ancora, perdura irrisolta dal 1971 la questione di Halki, isoletta del Mar di Marmara che in turco si chiama Heibelyada. Qui, infatti, sorgeva l’università ortodossa, costruita e metà Ottocento, in pieno periodo ottomano. Nel 1971 il governo turco – forse per punite il patriarcato sospettato di sostenere la causa dei greci di Cipro – ne ordinò la chiusura; da allora, malgrado le proteste del Fanar, e le pressioni della Casa Bianca e dell’Unione europea, non ha permesso la riapertura dell’istituto. D. G.
i servizi
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CARCERE
La libertà di culto delle persone detenute intervista a Mauro Palma
Nella riforma dell’ordinamento penitenziario si punta sulla responsabilizzazione del soggetto detenuto e sulla ridefinizione delle misure alternative, seguendo il principio fondamentale della funzione rieducativa della pena. L’importanza della tutela della libertà religiosa all’interno del sistema carcerario. [a cura di Stefania Sarallo]
o scorso dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario. Abbiamo intervistato il professor Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (un organismo indipendente in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà), per raccogliere una sua opinione sul testo approvato e sul tema più specifico del diritto alla libertà religiosa del detenuto. Qual è la sua opinione sul tema delle religioni in carcere? Credo che si tratti di una questione attualmente centrale nel contesto dell’individuazione di strategie che attenuino le tensioni all’interno degli istituti penitenziari. Al contrario, mi sembra invece che i meccanismi con i quali vengono affrontate questioni come la radicalizzazione all’interno del mondo detentivo – un mondo chiuso e totalizzante – spesso inaspriscano la situazione. Il tema delle religioni ha una doppia valenza: da una parte può essere un’apertura a una riflessione non contingente e che rafforza il concetto stesso di responsabilità, dall’altro può costituire un’incentivazione all’appartenenza, soprattutto un potente elemento di sostegno di identità deboli a rischio e in tal caso le religioni rischiano di essere un veicolo del fondamentalismo. In fondo la religione può essere il luogo in cui ti trovi non per classe, non per censo ma per un “Altro” diverso da te cui fai riferimento. E proprio questo aspetto è strutturalmente ambivalente. Negli istituti carcerari italiani vedo pochissimi interventi positivi in materia, anche se non è ovunque uguale e negli ultimi anni si è registrata un’evoluzione positiva. Le religioni possono essere a volte elemento di maggiore consolidamento, in negativo, delle identità deboli e altre volte un elemento di rottura di questo elemento.
Ultimamente una questione mi ha colpito fortemente: nelle sezioni del 41bis (il regime detentivo definito comunemente “carcere duro”, ndr), quando i detenuti entrano in contatto con persone esterne devono successivamente essere perquisiti. Nel domandare quali fossero le occasioni di perquisizione successive agli incontri con i ministri di culto, mi è stato risposto che per il cappellano non sono previste perché, a differenza degli altri ministri di culto, egli appartiene all’Amministrazione penitenziaria. Il cappellano è visto come parte dell’istituzione e la differenza con i ministri di culto delle altre religioni risulta evidente. Lo scorso 22 dicembre è stato approvato dal Consiglio dei ministri il decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario elaborato dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Quali sono, a suo giudizio, i punti di forza e i limiti di tale atto? Il mio parere su questo decreto è positivo: il decreto introduce complessivamente delle cose importanti, basate su due elementi secondo me essenziali. Il primo è la responsabilizzazione della persona, che è il contrario della “passivizzazione”. Troppo spesso, infatti, consideriamo i detenuti come degli adulti retrocessi a bambini, con giudici e direttori di carcere che parlano dei loro “ragazzi”. La responsabilizzazione invece da un lato garantisce maggiore consapevolezza di ciò che si è commesso, perché la percezione del disvalore è un punto importante, dall’altro lato dà maggiore sicurezza, perché è possibile capire come MAURO PALMA una persona sia in grado di garante dei diritti dei detenuti, tornare positivamente al con- fondatore testo sociale esterno solo se le dell’associazione viene data la responsabilità del Antigone.
Confronti | marzo 2018
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