Questa pubblicazione è stata realizzata nell’ambito del progetto Skills per l’Innovazione – Skill-Inn n. 1075/1/1/1758/2009 – POR FSE 2007/2013 – Ob. Competitività Regionale e Occupazione – Asse IV Capitale Umano – Cat. 72 Avviso Azioni di sistema per la realizzazione di strumenti operativi a supporto dei processi di riconoscimento, validazione e certificazione delle competenze – Anno 2009 – DGR n. 1758 del 16 giugno 2009 della Regione del Veneto con finanziamento da parte dell’Unione Europea – Fondo Sociale Europeo, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e della Regione del Veneto. Coordinamento editoriale: Giorgio Boccato. Il contenuto di questa pubblicazione non riflette necessariamente l’opinione e la posizione degli Enti Finanziatori ed è responsabilità esclusiva dei suoi Autori.
Stampa: Tipomonza, via Merano 18, Milano.
Il progetto è stato realizzato da un partenariato composto da: Soggetto Proponente: Confindustria Veneto SIAV SpA – Mestre Venezia.
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Partner Operativi: Fondazione CUOA – Centro Universitario di Organizzazione Aziendale – Altavilla Vicentina; Istituto di Ricerche Economiche e Sociali Veneto – IRES – Mestre Venezia; POLIS – Polo Innovazione Strategica – Portogruaro (VE); Treviso Tecnologia – Azienda Speciale per l’Innovazione Tecnologica delle CCIAA di Treviso. Partner di Rete: Consorzio CIM&FORM – Verona; DIMEG – Dipartimento di Innovazione Meccanica e Gestionale – Università degli Studi di Padova; ECIPA scarl – Mestre Venezia; FOREMA scarl – Padova; Formazione Unindustria Treviso scarl; OBR – Organismo Bilaterale Regionale del Veneto per la Formazione Professionale – Mestre Venezia; REVIVISCAR srl – Belluno; RISORSE IN CRESCITA – Società Consortile a rl – Vicenza; SIVE FORMAZIONE scarl – Porto Marghera Venezia.
INDICE
Premessa di Elena Donazzan
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Introduzione. “Skill per l’innovazione – Skill-Inn” di Stefano Miotto
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1. L’innovazione in tempo di crisi di Gabriella Bettiol, Giorgio Boccato e Chiara Salatin
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2. Il processo di innovazione di Giovanni Bernardi e Stefano Biazzo
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3. Guida alla metodologia per la rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali di apprendimento di Salvatore Garbellano
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4. Dai ruoli alla figura professionale e alle competenze: principi di riferimento e problemi-chiave di Pier Giovanni Bresciani
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5. Gli orientamenti aziendali emergenti di Giovanni Bernardi 6. Innovare in un contesto open: quali corrispondenze tra modello e pratica? di Sara Bonesso
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7. Innovare per competere: dal borsino delle professioni alla certificazione delle competenze di Ilaria Bettella e Sergio Rosato
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Allegato 1. Metodologia per la rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali di apprendimento di Salvatore Garbellano
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Allegato 2. Il “responsabile della Ricerca e Sviluppo” di Pier Giovanni Bresciani e Vincenzo Sarchielli
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I partner
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Gli autori
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PREMESSA di Elena Donazzan*
Era il 25 marzo 1957 quando a Roma in Campidoglio veniva firmato il Trattato che istituiva l’allora CEE – Comunità Economica Europea che sarebbe ufficialmente nata il primo gennaio dell’anno successivo. Con molta preveggenza i rappresentanti dei sei Paesi allora aderenti (Belgio, Francia, Germania Ovest, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) tra i quali alcuni “padri” dell’Europa come Paul-Enri Spaak e Konrad Adenauer previdero all’art. 39 la “libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità”, all’articolo 40 l’istituzione di “meccanismi idonei a mettere in contatto le offerte e le domande di lavoro” e all’articolo 43 il divieto alle “restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di altro Stato membro”. Non solo, ma con l’articolo 146 allo scopo di “migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori” e “contribuire così al miglioramento del tenore di vita” veniva istituito un “Fondo Sociale Europeo” che si poneva “l’obiettivo di promuovere… le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori, nonché di facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali e ai cambiamenti dei sistemi di produzione” mentre all’articolo 149 la Comunità si impegnava a contribuire “allo sviluppo di un’istruzione di qualità e della dimensione europea dell’istruzione”. Malgrado incertezze e ostacoli molta strada è stata percorsa da allora e lo sviluppo di una serie di programmi per l’Istruzione e la Formazione ha rappresentato un elemento fondamentale per la collaborazione a livello europeo. Facciamo un salto di un trentennio: siamo all’11 aprile 1997 e la “Convenzione di Lisbona” elaborata su iniziativa congiunta del Consiglio d’Europa e dell’Unesco-Regione Europa ha posto le basi per il reciproco ricono*
Assessore all’Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Giunta Regionale del Veneto.
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scimento dei titoli di studio (allora limitato all’istruzione superiore). Due anni dopo nella “Dichiarazione di Bologna”, 29 Ministri dell’Istruzione europei si sono posti gli obiettivi di creare un’area europea dell’Istruzione Superiore, armonizzare i sistemi universitari del continente e promuovere il sistema di istruzione superiore europea nel mondo. L’importante ruolo svolto dall’istruzione nelle politiche economiche e sociali volte a rafforzare la competitività dell’Europa e lo sviluppo dei suoi cittadini è stato riconosciuto dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000 e, un anno dopo, il successivo Consiglio di Stoccolma ha individuato tre obiettivi strategici per i sistemi di formazione: migliorarne la qualità e l’efficacia, renderli accessibili a tutti e aprirli al mondo esterno. Nel 2002 il Consiglio Europeo di Barcellona ha invitato a introdurre strumenti volti a garantire la trasparenza dei diplomi e delle qualifiche non solo per l’Istruzione Superiore, ma anche per la Formazione Professionale. Infatti costruire un’Europa basata sulla conoscenza e aprire a tutti i suoi cittadini il mercato del lavoro rappresentano una sfida fondamentale per l’Istruzione e la Formazione Professionale della Comunità. Nello stesso anno la “Dichiarazione di Copenaghen” ha impegnato i Ministri dell’Istruzione e Formazione Professionale a promuovere la fiducia reciproca, la trasparenza e il riconoscimento delle competenze e delle qualifiche professionali a tutti i livelli in particolare convalidando l’apprendimento non formale e informale. Cinque anni dopo, la Risoluzione del Consiglio del 15 novembre 2007 ha invitato gli Stati Membri e la Commissione a proseguire nella convalida dei risultati dell’apprendimento a tutti i livelli e alla trasparenza delle qualifiche e la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’aprile 2008 ha individuato un “Quadro Europeo delle Qualifiche” articolate su otto livelli indicandone i relativi saperi, attitudini e competenze acquisite. Nel 2009 la Commissione Europea-Istruzione e Cultura ha fatto uscire il “Quadro Europeo delle Qualifiche per l’Apprendimento Permanente – EQF” la cui realizzazione consentirà una maggiore mobilità di studenti e lavoratori, valorizzerà chi è in possesso di una vasta esperienza maturata nei vari campi, sosterrà i servizi di Istruzione e Formazione: ne trarranno vantaggio il mercato del lavoro, l’industria, il commercio, i cittadini. È ormai opinione comune che la conoscenza rappresenti un fattore basilare per il vantaggio competitivo e il valore economico di un’impresa: il capitale umano e quello intellettuale ne sono i fondamenti. Ciò vale in maniera particolare per le imprese di piccola e media dimensione che rappresentano a livello comunitario, nazionale e ancor più nel Veneto e nel Nord-Est la maggioranza assoluta: in esse la componente individuale (il
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cosiddetto personal knowledge) è fondamentale e costituisce un elemento centrale nella formazione della conoscenza. Però se da un lato essa rappresenta una risorsa dell’impresa (firm specific), dall’altro corre il rischio di andare perduta a causa del turnover (uscita, pensionamento ecc.) in quando non codificata e sistematizzata; non solo, ma anche nella gestione corrente questa mancanza rende difficile (se non impossibile) individuare le competenze necessarie distinguendole da quelle obsolete. Poiché molte di queste competenze sono “tacite”, ossia patrimonio del singolo e non disponendo l’impresa di capacità e strumenti per l’emersione e il trasferimento, fa ricorso all’unica arma in suo possesso che è l’affiancamento. Ne risulta un processo di transfer legato alla buona volontà, all’improvvisazione (e anche alla riluttanza a cedere quello che è considerato “patrimonio personale”). Se aggiungiamo la difficoltà della piccola impresa nel far ricorso alla Formazione off the job per i vincoli di tempi, di costi, di possibilità di distacco delle persone, la Formazione on the job resta l’unica possibile, con i vincoli sopra detti. Ben cosciente di questa situazione, la Regione del Veneto ha lanciato nell’ambito dei Progetti FSE con la D.G.R. 1758 (2009) una serie di “Azioni di sistema per la realizzazione di strumenti operativi a supporto dei processi di riconoscimento, validazione e certificazione delle competenze” volte a ottemperare agli indirizzi comunitari per la costituzione del “Quadro Europeo delle qualifiche per l’Apprendimento Permanente” (“European Qualification Framework – EQF”) attraverso il riconoscimento delle competenze acquisite con diverse modalità e in diversi contesti, la valorizzazione del sistema integrato secondo il quale a esse si può pervenire (scuola/formazione/lavoro) e stabilendo il principio di capitalizzazione delle competenze e delle esperienze comunque acquisite. I risultati dell’apprendimento sui quattro assi culturali fondamentali (linguaggio; matematico; scientifico-tecnologico e storico-sociale) vengono così ad acquisire una dimensione unitaria di saperi in una concezione di scuola “reale” e “globale”. In queste linee si è collocata l’iniziativa“Skill-Inn – Competenze e ruoli nell’Innovazione” promosso da Confindustria Veneto SIAV che, ponendo il processo di innovazione quale ambito strategico di intervento per affrontare la crisi, ha focalizzato su di esso le professionalità e le competenze che le persone mettono in atto nell’esercizio del proprio ruolo, confrontandole da un lato con i repertori oggi disponibili e dall’altro riferendole al framework EQF. Il fatto di aver operato direttamente nelle (e con) le aziende per mezzo di interviste e di workshop con la partecipazione dei diretti interessati ha consentito di definire alcune importanti figure professionali senza cadere
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nell’astrazione della teoria (comunque fondamentale e necessaria), ma legandole alle attività reali d’impresa. Ed è soprattutto per questo che riteniamo utile la presentazione di quest’opera che spiega e riassume la mole del lavoro svolto, dei risultati cui si è pervenuti, le proiezioni nel futuro degli acquis raggiunti.
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INTRODUZIONE. “SKILL PER L’INNOVAZIONE – SKILL-INN” di Stefano Miotto*
Il volume intende presentare i risultati e le riflessioni generati dall’intensa collaborazione tra soggetti istituzionali – Regione del Veneto, quale autorità di gestione e coordinamento e Veneto Lavoro – servizi alle imprese e ai lavoratori – Confindustria Veneto SIAV e Treviso Tecnologia – Business School e Centri di Ricerca – Fondazione CUOA e IRES Veneto. Una compagine più ampia di Enti di Formazione e Orientamento ha inoltre contribuito all’iniziativa: Organismo Bilaterale Regionale del Veneto per la Formazione Professionale, SIVE Formazione, Risorse in Crescita, Reviviscar, CIM&FORM, Formazione Unindustria Treviso, Ecipa. Il volume risulta composto di quattro parti principali: nella prima (Capitoli 1 e 2) si evidenziano le motivazioni e la necessità di considerare le competenze che contribuiscono al processo di innovazione, come leva per la crescita e la competitività del tessuto produttivo regionale; nella seconda (capitoli 3 e 4) si esplicitano gli assunti teorici e le metodologie applicate per l’analisi e il riconoscimento delle competenze non formali e informali; la terza parte (Capitoli 5 e 6) illustra orientamenti e cambiamenti rilevati a livello aziendale in riferimento all’innovazione e ai ruoli che vi contribuiscono; la quarta e ultima parte (Capitolo 7) offre una visione istituzionale sul necessario passaggio dal riconoscimento alla certificazione delle competenze e sulla sua utilità a livello individuale, aziendale e istituzionale.
1. Le competenze 1.1. Come definirle? In linea generale si indica con il termine “competenze” quella somma di capacità del singolo che ne caratterizzano la prestazione in ambito lavo*
Direttore Confindustria Veneto SIAV SpA.
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rativo, in termini molto semplificati “ciò che si sa e si sa fare”. Il problema di come evidenziare (e quindi riconoscere, sistematizzare e certificare) le competenze non è certo nuovo, ma sta assumendo in questi ultimi tempi un’importanza sempre maggiore a causa della crescente mobilità e flessibilizzazione del lavoro: il “posto fisso” per tutta la vita lavorativa sta scomparendo (o è già scomparso?), cambiano il posizionamento geografico, il settore e l’ambito professionale di attività con conseguente variazione dei modelli organizzativi, mentre i percorsi formativi e di sviluppo professionale vanno sempre più personalizzandosi. Cresce lo stimolo (e l’obbligo) ad assorbire costantemente nuove conoscenze ed esperienze, selezionando contemporaneamente elementi già acquisiti in base alla necessità: è il lifelong learning, l’“apprendimento continuo che dura tutta la vita” (lavorativa e non solo). Esso avviene non più soltanto negli spazi e luoghi deputati (le scuole di ogni tipo, ordine e grado), ma in quelli lavorativi, della vita personale e del tempo libero: è il lifewide learning. Spazi che definiamo rispettivamente come “formali”, “non formali” e “informali”: si impara studiando, lavorando e “assorbendo” (volontariamente, ma anche involontariamente) dall’ambiente esterno. Dal momento che una persona per svolgere un compito lavorativo deve attivare una serie di fattori che comprendono conoscenze, capacità, risorse caratteristiche (ossia complessivamente le proprie “competenze”), è possibile la ricostruzione di queste ultime mediante l’analisi delle attività che la persona stessa svolge, partendo da fattori evidenti siano essi comportamentali (come agisce) o materiali (prodotto realizzato, servizio svolto) e valutarne il livello (in termini di ampiezza, grado, importanza). In pratica noi possiamo dire che non “osserviamo” le competenze come tali, ma come esse si concretizzino in comportamenti efficaci nella prestazione lavorativa del singolo legata alle risorse che egli mette in atto.
1.2. Come certificarle? Molte sono state (e sono) le ipotesi avanzate per una certificazione delle competenze che, attestando le acquisizioni della persona nella sua esperienza formativa e professionale, possa costituire un “moderno diritto di cittadinanza”. Le vie possono essere diverse: • si possono attestare le risorse “in ingresso”: le persone che hanno lavorato hanno esercitato definite conoscenze, capacità, risorse personali, che si possono descrivere analiticamente ed eventualmente misurare e confrontare;
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si può attestare “il processo”: ogni persona si attiva e si adatta per creare una propria strategia operativa e uno “stile di lavoro” che si possono descrivere “narrativamente”; • è possibile attestare l’“output-risultato” ovvero i tipi di attività lavorative realizzate dalla persona e descriverle analiticamente. È ovvio che quest’ultima soluzione è la più consona alla mentalità delle imprese in quanto legata all’agire professionale, alle attività, ai compiti, ai processi operativi e così via. Del resto il confronto in termini di “attività” e di “prodotto” è importante anche per la persona (in termini di autovalutazione e di sviluppo), così come per il sistema formativo e quello dell’impiego (in termini di valutazione di efficacia e di “dialogo” con l’impresa) e quindi per tutti i principali protagonisti del mercato del lavoro. Inoltre, definendo la competenza come “comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità […] in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale”1 e descrivendo quest’ultima, è possibile da un lato realizzare un criterio di interoperabilità tra i sistemi sopra citati e dall’altro evitare di tentare di descrivere (ed eventualmente misurare) le caratteristiche personali del singolo (personalità, risorse psicosociali ecc.), operazione di praticabilità e di condivisione intersoggettiva senz’altro difficile e (oltretutto) scarsamente legittimabile. Per cui “certificare le attività” appare, nel rapporto con l’impresa, la soluzione operativamente preferibile, in base anche a esperienze codificate quali: • in Italia il “sistema delle qualifiche” della Regione Emilia-Romagna nel quale la descrizione delle “attività” è integrata sia con quella delle “conoscenze” e delle “capacità” correlate all’efficace esercizio delle “attività” stesse, sia con quelle “evidenze comportamentali” (prestazioni, performance, prodotti ecc.) in base alle quali la “competenza” (intesa come attività che l’esprime) è “riscontrabile” e “certificabile”; • in Francia la tecnica del VAE – Validation des acquis de l’expérience ossia la validazione di quanto si è acquisito con l’esperienza. Ne deriva che la descrizione dell’esercizio delle attività può rappresentare – nella logica e nei limiti sopra descritti – una valida “certificazione delle competenze” a condizione di evidenziare se tale esercizio: • è stato oggetto di un’esperienza di lavoro “non formale” o “informale”,
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Come definita dal Quadro Europeo delle Qualifiche per l’apprendimento permanente – ec.europa.eu/education/pub/pdf/general/eqf/broch_it.pdf.
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descrivendo le attività svolte dal singolo in termini di competenza (cioè “aggregati standard di attività”) e di conoscenze e capacità connesse per l’efficace esercizio delle attività stesse all’interno di un processo e di un contesto; • se invece rappresenta il risultato atteso da un percorso “formale” e strutturato di formazione (mettendo in evidenza le modalità adottate: moduli, metodi, durata ecc.). L’esercizio è da ritenersi accettabile descrivendo “prodotti” o “performance” che evidenzino il tipo di conoscenze e capacità utilizzate e il grado (o livello) richiesto per ciascuna attività/aggregato/risultato, nonché i “criteri” (secondo degli standard di riferimento)2.
2. L’iniziativa 2.1. La metodologia La costruzione del modello di intervento ha visto come primo passo la ricognizione a livello europeo, nazionale e regionale dei modelli, delle metodologie e degli strumenti per il riconoscimento e la validazione delle competenze non formali e informali all’interno di contesti organizzativi produttivi, con particolare attenzione alle professionalità inserite nel processo di ideazione, sviluppo e industrializzazione dell’innovazione, nonché l’individuazione degli elementi di adattabilità. In particolare sono stati considerati: a. le elaborazioni contenutistiche e metodologiche del “laboratorio” SKILLSNET del CEDEFOP e le due ricerche applicate quali Future Skill Needs in Europe, 2008 e Future Skills Supply in Europe, 2009; b. il progetto Leonardo TOI “COMMET” Trasferimento di nuove metodologie per individuare le competenze relative alle figure professionali di “tecnico meccatronico” e “addetto al taglio lamiere”, 2007; c. il progetto di innovazione sperimentale “METAL QF – Iniziativa per lo sviluppo di un quadro delle Qualifiche Settoriali nell’Industria Metalmeccanica ed Elettrica”, 2008; d. il progetto EACEA/EQF “SQUARES – Principi, metodi e procedure (PMP) per la comparazione dei livelli delle qualifiche settoriali.”, 2009; 2
P. G. Bresciani, “Riconoscere e certificare le competenze – Ragioni, Problemi, Aporie”, Professionalità, n. 87, 2005.
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e. legge 236/1993 – 1 A – Azioni di Sistema – Ob. 3 “Competenze per lo sviluppo”; f. l’Iniziativa EQUAL II fase, Azione 2, PS IT-S2-MDL-084 “Sostenere i distretti orafi: strategie partecipative per un settore in crisi”; g. il progetto FSE 2002 – Ob. 3 Mis. C1 “Osservatorio sui fabbisogni professionali”; h. il progetto FSE 2004 – Ob. 3 Mis. C1 – 001 “Formazione Continua: Organizzazione e strutture efficienti”; i. il Borsino delle Professioni della Regione del Veneto sviluppato da Veneto Lavoro. Il secondo passo ha visto l’analisi del processo di innovazione e delle aree di attività che lo compongono: il focus sull’innovazione consente di rilevare una serie di informazioni, significative dal lato qualitativo, sull’azienda e la sua struttura organizzativa, sul processo in atto, sui ruoli e i profili delle figure professionali che in esso intervengono, sulle attività e competenze richieste e possedute. Ha fatto seguito la definizione della metodologia di indagine che si è articolata nella fase di individuazione del campione di aziende, di professionalità, nella fase di elaborazione e condivisione della traccia di intervista e in quella di strutturazione della guida metodologica per i ricercatoriintervistatori. Dopo aver contattato preliminarmente le aziende e i soggetti da coinvolgere e aver testato la traccia di intervista, si è passati all’identificazione dei destinatari per l’azione definitiva: aziende e persone. Le prime sono state selezionate, in numero di venti, in funzione delle caratteristiche dei loro processi di innovazione e dell’eccellenza nel gestirli: si è trattato di aziende che operavano con logiche: • technology push ossia quelle in cui l’innovazione è indotta dall’avanzamento tecnologico: l’impresa fissa il suo ritmo di progresso nella tecnologia e investe in soluzioni innovative che creano i presupposti per la sua crescita; • market pull ossia quelle in cui è la domanda che richiede un nuovo tipo di prodotto o di servizio: si tratta di una situazione esogena all’impresa stessa (per cui è spesso definita anche come demand pull); • design driven ossia quelle in cui l’innovazione è guidata dal design e quindi “non viene dal mercato, ma crea nuovi mercati; non spinge nuove tecnologie, ma dà vita a nuovi significati… implica creare una nuova visione radicale che non risponde a cosa le persone vogliono oggi, ma a ciò che potrebbero desiderare domani. Come hanno fatto Nintendo con la Wii e Apple con l’iPod: hanno ridefinito il significato del
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giocare e dell’ascoltare musica e l’hanno proposto al mercato. I clienti non avevano chiesto questi nuovi significati, ma quando li hanno provati è stato amore a prima vista3. È da tenere presente che l’innovazione è stata considerata nel complesso della sua realizzazione, scomponendola nei tre segmenti che sono stati ritenuti essenziali, ossia: l’Ideazione, la Ricerca e Sviluppo, l’Industrializzazione.
2.2. Gli strumenti La metodologia del dispositivo per il riconoscimento dell’apprendimento non formale/informale proposta è stata articolata in quattro parti: • una di base che contiene i dati essenziali sull’Azienda e l’Intervistato (o Intervistati); • un’introduttiva finalizzata a individuare e cogliere le principali caratteristiche dell’Azienda e le informazioni più rilevanti sulla persona (o persone) intervistate; • una descrittiva volta a individuare le competenze connesse al processo di innovazione di prodotto così come configurato nel modello dell’open innovation funnel4, con distinzione dei differenti processi o macro-fasi, associandovi la definizione di un livello EQF per ogni attività; • una riassuntiva con i dati di riepilogo. Il dispositivo prevede inoltre la definizione per ciascuna attività – ovvero risultato dell’apprendimento – di un congruente livello EQF sulla base dello standard fissato a livello europeo. Per ciascun aggregato di attività chiave per il processo di innovazione (per esempio generazione e selezione di nuove idee e opportunità; sviluppo nuovi prodotti; progettazione processo/prodotto) è pertanto possibile identificare un livello e attraverso un accurato processo di “distillazione” proporre un diretto riferimento EQF per il profilo considerato.
2.3. Le professionalità Le tipologie di Professionisti coinvolte nell’analisi e delle quali sono stati identificati i ruoli nel processo di innovazione e la qualifica posseduta, 3
R. Verganti, Design-Driven Innovation – Cambiare le regole della competizione innovando radicalmente il significato dei prodotti e dei servizi, Etas, Milano, 2009. 4 H. Chesbrough, Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology, HBS Press, 2003.
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appartengono ad alcuni segmenti fondamentali: il Marketing; il Design; la Ricerca e Sviluppo; l’Ingegneria di prodotto, di processo e le soluzioni di industrializzazione. I profili scelti sulla base delle evidenze emerse (e condivise con il Comitato Tecnico Scientifico – CTS del Progetto) sono stati quelli del Responsabile Ricerca e Sviluppo, Responsabile dell’Ufficio Tecnico, Progettista. Le attività e il loro monitoraggio sono stati realizzati dai componenti il CTS e da 11 rilevatori di provenienza sia Universitaria, sia da Business School, sia da Centri di Ricerca.
2.4. L’utilità Per mezzo degli strumenti messi a punto è possibile per l’Impresa (in maniera autonoma o attraverso la richiesta di un supporto personalizzato): • rilevare le competenze delle persone che ricoprono ruoli chiave nei processi di innovazione e di sviluppo nuovi prodotti; • individuare gli eventuali gap di competenze per mezzo del confronto tra i risultati ottenuti dalle rilevazioni aziendali e i profili professionali individuati e descritti analiticamente in ambito di Progetto; • progettare e attivare percorsi formativi per la crescita e lo sviluppo delle competenze finalizzati a migliorare le performance nei processi di innovazione e di sviluppo prodotto in modo da sostenere la competitività e l’attrattività dell’Impresa. A livello individuale la persona può risultare facilitata sia nella sua mobilità orizzontale (nuova e più consona collocazione nell’organizzazione del lavoro), verticale (percorso di carriera) o nel passaggio ad altra organizzazione così come nel reinserimento lavorativo. Inoltre a livello pubblico/istituzionale ne deriva la possibilità di far emergere uno stock di competenze esperite, ma non ancora formalizzate dalle statistiche sinora disponibili. In tale logica sono stati trasferiti a Veneto Lavoro5 il profilo del “Responsabile di R&S” e la metodologia per la comparazione dei profili “Responsabile Ufficio Tecnico” e “Progettista” come risultanti dall’analisi “Skill-Inn” per il confronto con i profili istituzionali esistenti.
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Veneto Lavoro, istituito con la Legge Regionale n. 31/1998 quale Ente Strumentale, si pone come organo di supporto delle istituzioni e di altri organismi per fornire servizi qualificati in tema di programmazione, gestione e valutazione delle politiche del lavoro.
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2.5. La comunicazione e la diffusione In termini di sostenibilità e di utilizzo di risultati, prodotti e strumenti realizzati, è stato attivato un processo di comunicazione e diffusione che ha avuto come scopo la loro messa a disposizione di chiunque fosse interessato, con particolare indirizzo verso una logica di servizio rivolto alle Imprese. È stato così realizzato nell’ambito del sito www.siav.net, sezione Progetti di Innovazione – Innovation Skills, un settore specifico dedicato al progetto “Skill-Inn – skill per l’innovazione. Oltre a video interviste e a elaborazioni di carattere teorico che hanno visto come protagonisti i componenti il Comitato Tecnico-Scientifico, sono state inserite la descrizione della metodologia per la rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali e la relativa Guida per l’applicazione in modo che l’utilizzatore possa giungere al riconoscimento e alla validazione delle competenze delle persone operanti nei contesti produttivi. Ciò nella convinzione che l’innovazione rappresenti la chiave di volta per l’incremento della competitività e che il suo focus debba essere centrato sulla rilevazione di informazioni qualitativamente significative sulla catena: Azienda e Organizzazione → Processo → Profili e Ruoli → → Attività e Competenze Inoltre in ambito di un workshop dedicato, denominato “La parola al progetto – Skill-Inn – Skill per l’innovazione” oltre alla descrizione delle tipologie dei dispositivi/attestazioni rilasciate dal modello proposto, dei professionisti coinvolti e degli strumenti proposti, sono state forniti gli elementi per il passaggio dalla sperimentazione all’aggregazione delle informazioni raccolte e una serie di osservazioni sulla governance del modello e sulla sua conseguente utilità.
2.6. Alcune considerazioni In pratica si è visto (o meglio confermato) che le attività realmente svolte e le competenze effettivamente agite dalle persone nel contesto del loro lavoro corrispondono solo limitatamente a quelle descritte nei vari “repertori” o dalle loro qualifiche di studio. Esso sono infatti più ampie, di tipo diverso e in genere implicano l’esercizio di più “competenze”. Le “competenze” si rivelano perciò una “dote individuale”, non solo in quanto rappresentano anche “una risorsa della comunità socio-professionale” inte-
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sa come gruppo di lavoro, come l’impresa nel suo complesso, ma anche come il complesso della rete dei fornitori, partner e clienti, costituendo in tale modo una “risorsa organizzativa” che modula gli esiti del processo di lavoro e quindi anche di quello di innovazione. Un risultato professionale di successo, però, non è determinato esclusivamente dalle “competenze”, ma vi intervengono altre macro-variabili che comprendono: l’“assetto organizzativo” (inteso come configurazione del ruolo e obiettivi assegnati), le “condizioni di lavoro” e “gli orientamenti e le disposizioni personali verso il lavoro”. Non si tratta quindi solo di “sapere” e di “saper fare”, ma anche di “potere e voler fare” e ciò si realizza presidiando efficacemente i diversi tipi di variabili (dall’assetto organizzativo alle condizioni di lavoro, agli orientamenti e alle disposizioni personali): solo così si può produrre efficacemente innovazione. In base a queste considerazioni, derivate dall’esperienza diretta, si è evidenziata l’importanza di integrare l’analisi delle attività e delle competenze del singolo, realizzate con la tecnica del colloquio e dell’intervista individuali, con l’analisi di “casi aziendali” relativi ai processi di innovazione introdotti nell’impresa e nei quali il singolo è (o è stato) coinvolto. Ciò in quanto l’intervista “fotografa” le attività e le competenze individuali (pur se collocate nel complesso del processo di innovazione), laddove l’analisi del caso consente di ricostruire la dinamica nella quale le competenze si sono espresse in ambito sia tecnologico-organizzativo, sia socio-relazionale, sia professionale. L’associazione delle due componenti consente di realizzare come l’organizzazione e le condizioni di lavoro influenzino i comportamenti individuali in termini di motivazione, fiducia, senso di appartenenza e addirittura di poter sostenere come le competenze della persona siano per la maggior parte dipendenti dal tipo di processo nel quale sono esperite.
2.7. Gli standard di riferimento Nel corso del progetto per la rilevazione e il design sperimentale delle competenze sono stati presi in considerazione: • EQF – ec.europa.eu/dgs/education culture/publ/pdf/eqf/broch it.pdf; • Linee guida CEDEFOP per il riconoscimento degli apprendimenti non formali e informali – www.cedefop.europa.eu/EN/news/4041.aspx; • Ricerca CEDEFOP “Future Skills needs in Europe” – www.cedefop. europa.eu/etv/Upload/Informationresources/Bookshop/485/4078 en.pdf; • profili ISFOL; • nomenclatura e classificazione delle Unità Professionali ISTAT.
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1. L’INNOVAZIONE IN TEMPO DI CRISI di Gabriella Bettiol, Giorgio Boccato e Chiara Salatin
1. La situazione È un fatto indiscutibile che la crisi finanziaria globale in atto abbia colpito duramente le economie di tutti i Paesi più sviluppati: l’attuale fase di recessione è senz’altro la più grave fra quelle del secondo dopoguerra e paragonabile alle cadute produttive di fine XIX e del secondo decennio del XX secolo; per dirla con Paul Krugmann “this is not your father’s recession; it’is your grandfather’s recession”. Infatti lo scoppio della bolla immobiliare e il crollo del settore finanziario (soprattutto negli USA) hanno innescato una crisi creditizia a livello mondiale che ha provocato una forte incertezza negli operatori e una grave caduta della domanda. I colpi più duri si sono avuti in particolare nel biennio 2008-2009, ma anche oggi nell’altalenare tra segni di ripresa e timori di recessione che stanno tenendo con il fiato sospeso tutto l’occidente, sembra che la crisi sia ancora lontana dal poter essere considerata superata. Iniziata con il crollo di importanti istituti di credito USA a causa dei cosiddetti toxic assets, i titoli speculativi che in periodo di “finanza facile” sono stati collocati sui mercati mondiali e hanno causato il rischio di insolvenza di molte banche, essa ha finito per trasferirsi poi sui risparmiatori e sulle imprese. Se i primi hanno visto in pericolo i loro risparmi, le seconde hanno visto diminuzioni delle vendite, disdette degli ordini, difficoltà di riscossione dei crediti e di conseguenza problemi per i pagamenti con messa in difficoltà dei loro subfornitori, carenza di finanziamenti da parte di banche e istituti di credito, per cui tutta la catena dalla fornitura, alla produzione, al consumo è entrata in sofferenza.
2. Cosa fare? In una situazione del genere la prima tendenza (istintiva) sarebbe quella di attendere, domandarsi “perché spendere in un momento in cui i 23
soldi sono pochi?”, aspettare (e sperare) che la fase recessiva passi, cercando di non esserne travolti. Scelta sbagliata (meglio dire suicida) perché la competizione si intensifica sempre più sia nel proprio settore produttivo, sia in quelli limitrofi (che possono erodere la posizione competitiva posseduta), così come, e maggiormente, per la crescente presenza sui mercati dei Paesi emergenti. Inoltre la domanda dei consumatori non sta ferma, ma si evolve con una richiesta di qualità crescente e di prezzo competitivo, le tecnologie cambiano e si affinano, si richiedono competenze sempre più avanzate e sofisticate. Una risposta e una strada da percorrere (e che probabilmente non forniscono alternative) sono quelle dell’innovazione. Recessione e crisi economica e innovazione possono sembrare termini antitetici e inconciliabili, ma non lo sono perché da contradditori possono essere trasformati in complementari: l’impresa per reagire alla fase recessiva deve fare leva sui propri punti di forza, deve impostare una strategia che si opponga alle variazioni negative dei mercati, deve orientarsi su posizioni nuove forse neppure concepibili in tempi di “normalità” economica. Deve comprendere perché i clienti comprano da lei piuttosto che dai concorrenti per poter mantenere (e incrementare) il proprio vantaggio competitivo, deve capire come le dinamiche sul fronte della domanda si trasformano e si diversificano e le diverse cause che le inducono: i fattori socio-demografici e culturali, le mutazioni di stili di vita, l’impatto delle nuove tecnologie (informatiche in primo luogo). Deve realizzare il fatto che l’equazione: Maturità del business + Competitività in aumento = Redditività in calo rappresenta un pericolo al quale non è possibile sfuggire. Salvo reagire innovando. L’innovazione è fondamentale non solo nella produzione, ma anche nel settore dei servizi: è come l’efficienza: non ha (e non potrà) mai avere fine. Deve entrare in ciò che si fa ogni giorno, perché innovare significa capire prima degli altri e anticipare le evoluzioni, rappresenta una carta in più da giocare per giungere al successo. Ciò perché le crisi sono fatte di difficoltà, ma anche di opportunità1. Deve nascere da un preciso committment dell’imprenditore o della direzione aziendale in modo da valorizzare la creatività e la casualità; sviluppare la generazione di nuove idee stimolando la creatività dei dipendenti motivandoli e incentivandoli; rappresentare un 1
Forum Innovazione e Tecnologia, Innovazione in tempo di crisi: ritorno ai fondamentali, Microsoft – Il Sole-24Ore, Milano 7 aprile 2009. Intervento di Claudio Calaibi (Il Sole24Ore).
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processo formalizzato (come quelli produttivi e commerciali) da gestire con logiche di portafoglio (in termini di tempi, costi e rischi); accettare i possibili fallimenti come un’esperienza positiva da valorizzare2. Le imprese più avanzate stanno già realizzando il concetto che l’innovazione rappresenta oggi una (e forse la) leva strategica chiave (e ancora più lo sarà per il futuro). Non a caso nel numero del 20 luglio 2011 USA Today è uscito un articolo che si intitolava “Tough Economic Times Provide a Fertile Soil for Innovation”, in altri termini “quando la crisi ti mette in difficoltà sei forzato ad aguzzare l’ingegno” precisando che una “poor economy pushes people to be bigger risk takers”, frase che non ha bisogno di commenti. Quale caso esemplificativo veniva citato quello della chiusura da parte della tedesca Suss Micro Tec dei suoi stabilimenti in USA con il licenziamento di un’ottantina di dipendenti. Tre dei nuovi disoccupati hanno creato nel Vermont la Semi Probe, azienda dedita allo sviluppo di testing per semiconduttori, che ha raggiunto i dieci dipendenti e che nel giro di tre anni, se continueranno le attuali prospettive di sviluppo, conta di assorbire tutti gli altri colleghi senza lavoro. È in tempo di crisi, più che nel confort stage, che può nascere l’innovazione ed è lei che può meglio combattere la crisi.
3. Innovare: come? Innovazione è senz’altro un concetto ampio, oggetto di discussione (e anche di modifica) in campo scientifico e accademico. Rivolto all’impresa può essere riassunto in due dimensioni fondamentali: l’“oggetto” e la “natura”. Il primo comprende il prodotto, il servizio, il business; la seconda la natura perseguita: incrementale (per piccoli passi) o radicale (per modifiche fondamentali). Un’ampia ricerca, Innovare in tempo di crisi3, condotta sia su aziende di grandi e medio-grandi dimensioni con posizione rilevante nei loro settori, sia piccole ma leader di nicchia, innovative e in crescita, ha evidenziato come sinora l’innovazione sia stata considerata sostanzialmente equivalente alla R&D di prodotto, ma oggi (e ancora meno nel futuro) questa equivalenza non valga più. Assume sempre maggiore importanza l’innovazione radicale di business mentre quella incrementale di prodotto 2
Il Check-up dell’innovazione, ed. 2008-2009, SDA Bocconi, IBM. Interventi di Paolo Pasini e Filippo Fabrocini. 3 Pubblicata come supplemento speciale al numero di autunno 2010 di Sviluppo & Organizzazione.
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diminuisce: ciò perché i cicli di vita diventano sempre più brevi e il peso dei nuovi prodotti sempre più rilevante. Si devono quindi ridurre (e possibilmente eliminare) i fattori oggi limitanti l’innovazione che vanno dal suo condizionamento ai processi di pianificazione strategica, all’impostazione dell’impresa volta a massimizzare i risultati ottenuti dalla gestione delle attività correnti; dalla limitata strumentazione messa in genere a supporto dei processi di innovazione, al limitato coinvolgimento (anche in termini numerici) dei soggetti coinvolti in essi: tutti elementi che limitano la capacità di produzione di nuove idee. Inoltre il numero dei progetti e la loro complessità sono in crescita, così come la richiesta di competenze multidisciplinari e la necessità di uso di strumenti e metodologie avanzate come i sistemi di knowledge management e di virtual prototiping e le piattaforme di collaborazione mentre contemporaneamente i tempi a disposizione si riducono: bisogna aumentare l’efficienza/efficacia dei processi di innovazione per accrescerne le probabilità di successo grazie a un’ottima conoscenza dei mercati, a una stretta coerenza con le strategie, alla riduzione dei tempi per lo sviluppo, a un’accurata analisi e selezione alla partenza. In questo modo possono aumentare le probabilità di successo (oggi mediamente di un progetto su quattro) e diminuire i rischi di fallimento e di investimento improduttivo. Tutto ciò a un’importante condizione: che il crescere dell’impegno nelle attività di innovazione sia supportato da soluzioni organizzative e modelli di gestione adeguati e da una strumentazione manageriale e un controllo direzionale all’altezza del compito prefisso. Non a caso in alcune aziende più avanzate vengono fatte nascere la funzione “innovazione” e la nuova figura dell’innovation manager con la funzione di gestore, coordinatore e integratore. Un altro punto fondamentale che emerge è quello di come innovare: da soli o con altri? La competitività è conseguenza del livello di innovazione sviluppato e ciò non è facile da raggiungere per le imprese di piccole dimensioni che spesso non dispongono di risorse e competenze interne adeguate per realizzare una “massa critica” in grado di gestire tale tipo di processi per cui è fondamentale sviluppare quella che viene definita collaborative innovation ossia un processo aperto nel quale sono importanti gli apporti esterni come l’“ascolto” del cliente e il fare network acquisendo il sourcing di tecnologie e competenze esterne. La realizzazione può comprendere accordi e collaborazioni con partner dello stesso settore produttivo o di settori correlati, ma anche con centri di ricerca, con università, con enti locali indirizzati alla ricerca applicata e alla diffusione delle nuove conoscenze in campo tecnico e scientifico. Si può collaborare per integrare e/o implementare la propria offerta di prodotti/servizi, così
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come per suddividere i costi di investimento e per accelerare l’ottenimento dei risultati. In tal modo l’impresa anche se di piccole dimensioni può riuscire a imporsi nell’economia globalizzata con il vantaggio di conservare le caratteristiche che ne hanno determinato il successo, ossia l’adattabilità al contesto, la flessibilità, l’identità, la specializzazione, la qualità e così via. Superfluo dire che va contemporaneamente sviluppata una “cultura della formazione” in particolare nella piccola impresa promuovendo la formazione continua a tutti i livelli, sia nei dipendenti che nei titolari d’impresa, nei manager, nei dirigenti, nei soci, nei collaboratori familiari. A risultati e considerazioni coerenti con quelli sopra indicati è pervenuto un ampio studio condotto su 256 innovazioni4 realizzate nel comparto dei FMCG – Fast Moving Consumer Goods (o CPG – Consumer Packaged Goods)5 ove i fattori di successo dell’innovazione sul mercato si sono dimostrati legati a un chiaro vantaggio per il consumatore, rispondente ai suoi bisogni rilevanti; alla condizione che l’innovazione fosse “breakthrough, di rottura” ossia con un elevato grado di novità, elemento che dà il vantaggio di essere per un certo tempo leader di mercato con notevole beneficio di prezzo; al fatto di far arrivare il prodotto al cliente in modo mirato presso il punto di vendita: l’effetto “traino” della prova diretta risulta sempre più prevalere sulla pubblicità “classica”. Tre fattori organizzativi hanno dimostrato di determinare il successo di un’innovazione e sono stati: l’aver puntato su pochi, ma mirati progetti di ricerca, ricchi di potenziale; l’aver beneficiato della conoscenza di team interdisciplinari e di know-how esterni all’azienda con responsabilità condivisa; l’aver stabilito sin dall’inizio le strategie per la fase post-lancio in modo da contrastare tempestivamente la reazione della concorrenza.
4. Innovare: dove? L’innovazione non può trascurare nessun settore aziendale, anche se alcuni per la loro pervasività e per la situazione di particolare sviluppo e di significativa attualità, possono probabilmente dare risultati più evidenti e in tempi più rapidi. In primo luogo l’Information Technology che rappresenta un bene e 4
“Innovation Excellence” – GfK Panel Services e Roland Berger Strategy Consultants – 1º marzo 2009. 5 Che comprendono alimentari, prodotti per la casa e l’igiene personale, abbigliamento, mobili, elettronica di consumo.
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uno strumento a disposizione di tutti e che deve essere utilizzata dall’intera azienda per generare innovazione (e non dalla sola funzione IT), orientata nel senso di coinvolgere anche gli esterni (fornitori, clienti, reti, community ecc.), le relative competenze devono essere incluse in tutte le fasi di ideazione, sviluppo e lancio dei nuovi prodotti/servizi, i risultati del processo di innovazione IT devono essere trasferibili e percepibili dal mercato6. In una fase turbolenta come l’attuale si ritiene che chi investe nell’IT possa contare su maggiori chances, soprattutto nel medio termine: in particolare risultano strategici gli investimenti che favoriscono l’acquisizione di conoscenze, che facilitano l’accesso al cliente, che incrementano e migliorano efficienza e produttività7. In secondo luogo l’Eco-Innovazione che viene considerata una risposta vincente in tempo di crisi per le PMI se vista nel suo aspetto più ampio come “The introduction of any new or significantly improved product (good or service), process, organisational change or marketing solution that reduces the use of natural resources (including materials, energy, water and land) and decreases the release of harmful substances across the whole lifecycle”8. Il problema è stato analizzato in un ampio studio della Commissione Europea comprendente una ricerca statistica dell’Eurobarometro9 che definisce l’eco-innovazione come un processo in continua evoluzione dai sempre più importanti sviluppi. Attraverso interviste condotte in 27 Paesi dell’UE a 5.222 manager di piccole e medie imprese sono stati evidenziati comportamenti, attitudini, aspettative delle imprese verso lo sviluppo dell’eco-innovazione a fronte della scarsità e dell’aumento dei prezzi delle risorse. In particolare sono stati messi in luce non solo l’importanza ma anche gli ostacoli e le barriere da superare per un ampio sviluppo dell’ecoinnovazione che vanno dalle incertezze sulla domanda del mercato e sul ritorno economico (e dei suoi tempi lunghi), dalla mancanza di capitali alla difficoltà di accesso ai finanziamenti sia pubblici che privati. Malgrado ciò l’aumento del prezzo delle risorse energetiche e delle materie prime spingono verso la realizzazione di processi eco-innovativi e oltre quattro intervistati su dieci hanno detto che nelle loro aziende l’eco-innovazione ha consentito una riduzione dei materiali utilizzati per unità di prodotto ottenuto. La crisi può così effettivamente indurre a ripensare un nuovo modello di crescita basato sull’uso il più possibile efficiente di ogni tipo di risorsa. 6
Vedi Riferimento n. 2. Vedi Riferimento n. 1, Intervento di Enrico Valdani, Università Bocconi, Milano. 8 Eco-Innovation Observatory, Methodological Report 2010, p. 4. 9 The Gallup Organization, “Attitudes of European entrepreneurs towards eco-innovation”, Flash EB series, n. 315, Hungary, March 2011. 7
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In terzo luogo la CSR – Corporate Social Responsability vista come governo sostenibile dell’impresa. Gli incrementi di conoscenza e innovazione, fattori fondamentali della produttività e della competitività, devono essere perseguiti anche in tempo di crisi perché alla ripresa il consumatore sarà più esigente non solo in termini di qualità e di prezzo, ma anche di sostenibilità ambientale e sociale dell’attività d’impresa. Inoltre i periodi di produzione ridotta possono essere sfruttati dalle imprese più coraggiose e proiettate nel futuro per spingere sulla ricerca e sulla preparazione del personale per assicurarsi un vantaggio competitivo.
5. Gli indirizzi comunitari La Commissione Europea con la Comunicazione “Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”10 ha fissato, a fronte della fase di trasformazione in atto, tre priorità per l’economia dell’Europa del decennio 2010-2020, che si integrano vicendevolmente: • una crescita intelligente, grazie allo sviluppo della conoscenza e dell’innovazione, dell’istruzione, della formazione e della formazione continua, dell’incremento dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; • una crescita sostenibile, grazie alla competitività e all’efficienza nell’uso delle risorse, alla lotta al cambiamento climatico, al ricorso a forme di energia pulite, con caratteristiche sempre più “verdi”; • una crescita inclusiva, grazie alla realizzazione di alti tassi di occupazione modernizzando i mercati del lavoro in modo da garantire a tutti accesso e opportunità durante l’intera esistenza, fattori che incrementano la coesione sociale e territoriale. Quali obiettivi fondamentali vengono posti un’occupazione del 75% delle persone tra 20 e 64 anni, un investimento in R&S del 3% del PIL, una diminuzione di 20 milioni di persone dal rischio povertà. Solo con un grande sforzo rivolto al raggiungimento di questi obiettivi l’Europa potrà superare le sue carenze strutturali che la crisi economica del nuovo millennio ha messo in evidenza in termini di basso tasso medio di crescita a causa di un divario di produttività, di tassi di occupazione inferiori a molte altre parti del mondo (in particolare per quanto riguarda le donne e i lavoratori anziani), dell’accelerazione dell’invecchiamento della popolazione. 10
Bruxelles 3 marzo 2010 – COM (2010) 2020.
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6. L’Italia e l’innovazione 6.1. L’economia Tra il 2008 e il 2009 la crisi mondiale ha determinato in Italia una contrazione del PIL di quasi il 7% dovuta al calo delle esportazioni e degli investimenti: una, sia pur lenta ripresa si è avuta solo a partire dalla seconda parte del 2009, durante il 2010 e nei primi mesi del 2011, in particolare per un rilancio delle esportazioni, mentre il mercato interno è rimasto debole e la situazione del mercato del lavoro fragile, con un certo ricupero delle ore lavorative ma non degli occupati per cui a fine 2010 il tasso di disoccupazione era ancora a quasi il 9% come media nazionale (e al 5,8% nel Veneto). Ad aprile 2011 per mezzo del Programma Nazionale di Riforma (PNR) e del Programma di Stabilità (PS), integrati dal Documento di Economia e Finanza (DEF), sono stati fissati gli obiettivi principali in vista di Europa 2020 per vari settori, tra i quali quelli elencati nella tab. 1. Tabella 1 Obiettivi Europa 2020
Situazione attuale Italia
Obiettivo 2020
Investimenti in R&S in% del PIL
1,27%
1,53%
Tasso di occupazione in%
61,1%
67-69%
Istruzione superiore in%
19%
26-27%
Energia rinnovabile in% dell’utilizzata
6,8%
17%
Pur con queste (e le altre ipotesi) del PNR, la crescita potenziale del nostro Paese viene stimata bassa se non si riesce ad accelerare sensibilmente la crescita della produttività e allinearvi la crescita dei salari per migliorare la competitività11.
6.2. I livelli di innovazione Lo scoreboard del livello di innovazione che monitora lo sviluppo e la realizzazione degli obiettivi di innovazione e competitività in rapporto al Programma “Europe 2020” dell’UE ci vede nel 2010 (pur con un guadagno di tre posizioni rispetto all’anno precedente) tra i “moderati inno11
Bruxelles 7.6.2011 – SEC (2011) 720 definitivo.
30
vatori” ossia nella fascia che sta tra il meno 10% e il meno 50% rispetto all’Europa a 27. Siamo al 16º posto dopo gli “Innovation Leader” (Svezia, Danimarca, Finlandia e Germania le cui prestazioni sono superiori del 20% o più rispetto all’UE), dopo gli “Innovation Followers” (Regno Unito, Belgio, Austria, Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Francia, Cipro, Slovenia ed Estonia (che presentano risultati prossimi alla media UE) e al 2º dopo il Portogallo fra i “Moderate Innovators” (i cui risultati sono inferiori alla media UE) (fig. 1). Figura 1 – EU member states’ innovation performance 0.800 0.700 0.600 0.500 0.400 0.300 0.200 0.100 0.000 LV BG LT RO SK PL HU MT GR ES CZ IT PT EE SI CY EU FR LU IE NL AT BE UK DE FI DK SE M ODEST INNOVA TORS
M ODERA TE INNOVA TORS
INNOVA TION FOLLOWERS
INNOVA TION LEA DERS
Note. Average performance is measured using a composite indicator building on data for 24 indicators going from a lowest possible performance of 0 to a maximum possible performance of 1. Average performance in 2010 reflects performance in 2008/2009 due to a lag in data availability. The performance of Innovation leaders is 20% or more above that of the EU27; of Innovation followers it is less than 20% above but more than 10% below that of the EU27; of Moderate innovators it is less than 10% below but more than 50% below that of the EU27; and for Modest innovators it is below 50% that of the EU27.
Com’è noto lo scoreboard considera 24 indicatori relativi alla ricerca e all’innovazione, raggruppati in tre grandi categorie: gli “Elementi Abilitanti” che rendono l’innovazione possibile e che comprendono le risorse umane, i finanziamenti e gli aiuti, i sistemi di ricerca aperti, attrattivi e di eccellenza; l’“Attività delle Imprese” in ambito innovativo comprendente investimenti, collaborazioni, attività imprenditoriali, patrimonio intellettuale; i “Risultati” intesi come ciò che si traduce in effetti e in vantaggi per l’intera economia. In dettaglio (fig. 2) i nostri migliori risultati si evidenziano nei campi delle “Risorse Umane”, mentre i maggiori punti di debolezza si riscontrano negli “Investimenti da parte delle imprese” e negli “Outputs” intesi come livelli di collaborazione tra le aziende a livello transfrontaliero.
31
Figura 2 – Annual average growth per indicator and average country growth. Italy -20% -15% A VERA GE COUNTRY GROWTH HUM A N RESOURCES 1.1.1New do cto rate graduates 1.1.2 P o pulatio n aged 30-34 co mpleted tertiary educatio n 1.1.3 Yo uth aged 20-24 upper seco ndary level educatio n OP EN, EXCELLENT, A TTRA CTIVE RESEA RCH SYSTEM S 1.2.1Internatio nal scientific co -publicatio ns 1.2.2 To p 10% mo st cited scientific publicatio ns wo rldwide 1.2.3 No n-EU do cto rate students FINA NCE A ND SUP P ORT 1.3.1P ublic R&D expenditures 1.3.2 Venture capital FIRM INVESTM ENTS 2.1.1B usiness R&D expenditures 2.1.2 No n-R&D inno vatio n expenditures -13.7% LINKA GES & ENTREP RENEURSHIP 2.2.1SM Es inno vating in-ho use 2.2.2 Inno vative SM Es co llabo rating with o thers 2.2.3 P ublic-private scientfic co -publicatio ns INTELLECTUA L A SSETS 2.3.1P CT patent applicatio ns 2.3.2 P CT patent applicatio ns in so cietal challenges 2.3.3 Co mmunity trademarks 2.3.4 Co mmunity designs INNOVA TORS 3.1.1SM Es intro ducing pro duct o r pro cess inno vatio ns 3.1.2 SM Es intro ducing marketing o r o rganisatio nal inno vatio ns ECONOM IC EFFECTS 3.2.1Emplo yment in Kno wledge-Intensive A ctivities 3.2.2 M edium and High-tech manufacturing expo rts 3.2.3 Kno wledge-Intensive Services expo rts 3.2.4 Sales o f new to market and new to firm inno vatio ns 3.2.5 Licence and patent revenues fro m abro ad
-10%
-5%
0%
5% 2.7%
10%
15%
20%
12.5%
2.8% 0.9% 7.4% 3.8%
14.2% 2.8% 2.5% 4.3% 5.0% 8.4% 0.6% 3.8% 3.9% 10.5%
-2.3% 1.5% 2.0% 0.0%
0.1% 3.1%
-5.1%
-0.2%
6.3. La manifattura La vocazione del nostro Paese (e del Nord-Est in particolare) è per sua natura soprattutto manifatturiera, tipologia industriale che la crisi ha profondamente modificato a livello mondiale, come ben evidenziano le variazioni delle quote relative alla produzione globale. Se questo trend già si preannunciava da un decennio, nel solo periodo 2007-2010 i Paesi emergenti dell’Asia sono saliti al 29,7% del valore della produzione industriale mondiale, crescendo di 8,9 punti percentuali. La Cina da sola raggiunge il 21,7% dopo un guadagno di 7,6 punti percentuali. La nostra industria si è trovata compressa tra una forte recessione e una troppo lenta ripresa per cui è scesa dal quinto al settimo posto nel mondo (passando dal 4,5 al 3,4%), pur restando seconda in Europa, dietro la Germania. Nel contempo il nostro manifatturiero è calato come redditività e il suo margine operativo ha mostrato un ricupero solo parziale nel 2010 rispetto all’annus horribilis 2009. Ma la manifattura, sia pur meno fondamentale rispetto al secolo scorso, rimane il principale motore della crescita economica (e ben lo sanno gli USA, il Regno Unito, la Francia e, prima ancora, la Germania) che hanno
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varato misure anche molto impegnative per il suo rilancio in quanto essa genera guadagni di produttività, crea posti di lavoro qualificati, realizza la maggior parte della ricerca. In Italia essa rappresenta quasi i quattro quinti del nostro export, contribuisce per circa un terzo al nostro PIL e impegna oltre otto milioni di unità di lavoro. Le nostre imprese più avanzate per fare fronte alla crisi si sono poste gli obiettivi fondamentali della crescita quantitativa (oltre che qualitativa quale fattore costante e inderogabile), in particolare per quelle di più piccole dimensioni, quale elemento fondamentale per la sopravvivenza e dell’aumento del valore (più che del contenimento dei costi). Nel primo caso hanno puntato all’espansione del fatturato, all’aumento del valore aggiunto e della produttività, al miglioramento della redditività e all’incremento di potere sui mercati grazie alla maggiore dimensione, nel secondo alla riorganizzazione interna, allo sviluppo delle risorse umane e, soprattutto, all’innovazione. La tab. 2 evidenzia chiaramente le leve impiegate e il loro peso ponderato. Tabella 2 – Le imprese fanno leva sull’innovazione (Strumenti adottati dalle imprese per conseguire gli obiettivi: frequenze relative Innovazione tecnologica/ricerca
34,8
Riorganizzazione/sviluppo di una funzione commerciale/rete di vendita
23,0
Formazione rivolta alle risorse umane interne/investimento “sulle persone”
17,6
Acquisizioni di strumenti di controllo di gestione e di riorganizzazione dei flussi informativi
13,7
Inserimento di manager esterni alla proprietà in posizione di vertice
13,2
Integrazioni di fasi mai svolte prima
12,3
Semplificazione organizzativa (riduzione della gerarchia e formazione di “squadre”)
10,8
Possono essere indicati più strumenti. Percentuali di risposta calcolate sul totale delle imprese. Fonte: elaborazioni CSC su informazioni Progetto Focus Group; Luca Paolazzi, Direttore Centro Studi Confindustria
Oltre a ciò non è mancata la spinta sui fattori che da sempre hanno rappresentato i tradizionali punti di forza delle nostre PMI: dalla qualità alla flessibilità, dall’ampiezza della gamma al capitale umano in modo da compensare gli svantaggi nella rete distributiva, nella dimensione e nel prezzo. La fig. 3 evidenza mediati i punti di forza relativi che ogni singola impresa ha dichiarato di avere sfruttato rispetto ai diretti concorrenti. Ma innovazione e quindi competitività sono strettamente legate all’acquisizione di nuove e valide competenze e in questo ambito le nostre imprese non brillano particolarmente: solo una su quattro sviluppa rapporti con Università e Centri di Ricerca specializzati in Italia e una su sei si rap33
porta con analoghi Organismi esteri, meno di una su cinque si collega e collabora con altre aziende; è ancora il retaggio del “fare da sé” e il timore di perdita di autonomia e di know-how tipici della piccola impresa, particolarmente quella a carattere familiare. La tab. 3 mostra in dettaglio come le nostre imprese si dotano di competenze esterne. Figura 3 – I punti di forza relativi delle imprese italiane (valori medi ponderati) Qualità del prodotto Flessibilità produttiva Contenuto tecnologico del prodotto Immagine/Reputazione/Marchio Gamma/Varietà prodotti Qualità del capitale umano
Concorrente I Impresa
P t lità neii ttempii di consegna Puntualità Organizzazione della rete distributiva Prezzo Accesso al credito Vantaggi di dimensione Costo del lavoro 0
0,5
1
1,5
2
Nota. Possono essere indicati al massimo tre punti di forza; ogni punto è pesato col suo grado di importanza relativa (1 = medio, 2 = alto, 3). I valori ottenuti sono rapportati al totale delle imprese. Fonte: elaborazioni CSC su informazioni Progetto Focus Group; Luca Paolazzi, Direttore Centro Studi Confindustria
Tabella 3 – Come le imprese si appropriano di competenze esterne (modalità di acquisizione di competenze non detenute dall’impresa) Acquisendo sul mercato le risorse umane necessarie Ricorrendo ad accordi di ricerca con università o altri centri di ricerca Sviluppando ulteriormente i rapporti con gli attuali subfornitori specializzati Attraverso l’attivazione di forme di collaborazione con nuove imprese Attraverso l’acquisizione di imprese che già dispongono di un know.how
Italia
Estero
27,1 24,6 16,8 19,2 12,3
24,7 15,9 15,7 25,4 18,2
Nota. Ciascuna impresa può indicare più azioni. Le percentuali sono calcolate rispetto al totale delle risposte. Il tasso di risposta delle imprese al quesito è 87%. Fonte: elaborazioni CSC su informazioni Progetto Focus Group; Luca Paolazzi, Direttore Centro Studi Confindustria
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Un punto importante: si è visto come queste strategie che sono in grado di condurre al successo chi le utilizza non sono condizionate dalle dimensioni dell’impresa che le adotta: possono essere impiegate da tutte indipendentemente dalle loro caratteristiche specifiche12.
6.4. E la risorsa umana? Il “Capitale Umano” rappresenta un concetto ormai correntemente utilizzato dagli economisti che fa riferimento a un bene individuale misurabile non solo per mezzo dei titoli di studio ma anche dalle competenze funzionali effettivamente possedute dal singolo. Se risorse produttive, tecnologiche, finanziarie ecc. sono oggi estremamente mobili, il capitale umano è caratteristico di un Paese (e lo connota). L’Italia in tale senso non gode di una salute particolarmente buona: la tab. 4 evidenzia come quasi metà della nostra popolazione possegga soltanto la licenza media, poco più di una persona su tre abbia conseguito una licenza secondaria superiore e solo una su sette abbia un’istruzione di livello terziario (laurea magistrale o triennale, anche se per questa vi può essere una qualche disomogeneità essendo stata introdotta da noi più tardi rispetto ad altri Paesi). Il divario rispetto all’UE a 19 e, in particolare, in rapporto con i tre Paesi più avanzati della Comunità e, per confronto, con gli USA, è nettissimo. Tabella 4 – Titoli di studio della popolazione 25-64 in alcuni Paesi OCSE e UE 19 Italia
UE19
Francia Germania
UK
USA
Secondaria inferiore
48%
29%
31%
16%
32%
12%
Secondaria superiore
38%
46%
Istruzione terziaria
14%
24%
42%
60%
37%
48%
27%
24%
32%
40%
Fonte: OCSE –Education at a Glance 2009 (Quaderno 9, fig. 1)
E questo divario non può essere attribuito soprattutto alla popolazione anziana (pur in un Paese che presenta un’età media tra le più elevate a livello mondiale) in quanto si fa sentire anche tra i giovani adulti. La fig. 4 fa un confronto analogo alla precedente relativamente ai cittadini tra i 25 e i 34 anni e il nostro sensibile deficit persiste. 12
L. Paolazzi, Dalla crisi al rilancio del manifatturiero: con le nuove strategie le imprese affrontano le sfide, www.humanwealth.eu/Portals/0/Confindustria%20-%20Scenari%20In dustriali%20-%20PresPaolazzi.pdf.
35
Figura 4 – Popolazione di 25-34 anni che ha al massimo il titolo secondario inferiore ITALIA UE19 UK FRANCIA GERMANIA USA 0
31% 19% 24% 17% 15% 12% 5
10
15
20
25
30
35
Fonte: OCSE –Education at a Glance 2009 (Quaderno 9, fig. 2)
Un’altra misura del livello del capitale umano è quella che si riferisce alle competenze funzionali possedute dai singoli, intese come capacità di comprendere e utilizzare i testi scritti (la literacy secondo l’OCSE) e di utilizzare nella quotidianità gli strumenti matematici (la numeracy). Nella tab. 5 è riportato il confronto tra il nostro Paese e i dieci Paesi più avanzati da cui risulta che un italiano su tre ha competenze estremamente deboli, altrettanti hanno competenze modeste (e insidiate dall’obsolescenza) e solo il residuo terzo è in grado di leggere, scrivere e argomentare con un adeguato livello di conoscenze e competenze. Tabella 5 – Competenze funzionali possedute dalla popolazione adulta (16-65 anni, 2000) Competenze
Italia
10 paesi avanzati
Debolissime
35%
10-15%
Fragili
30%
20-30%
Adeguate/elevate
35%
50-70%
Fonte: OCSE – Education at a Glance 2009 (Quaderno 9, fig. 6)
Questa situazione persiste purtroppo anche nei giovani come indica l’ultima indagine PISA13 sui quindicenni: nella literacy in campo scientifico siamo globalmente al disotto della media OCSE con valori particolarmente bassi per il Centro e il Sud, fenomeno che si presenta in genere in tutti i Paesi, ma non così accentuato come da noi (tab. 6). Se ci focalizziamo sulla forza lavoro (oltre i 15 anni) le proiezioni del CEDEFOP al 2020 sulla situazione dei livelli di qualificazione posseduti sono riportate in tab. 7 con quelle dell’UE a 25, della Francia e della Germania come confronto. In una knowledge society nella quale i lavori saranno sempre più complessi e richiederanno livelli di preparazione sempre cre13
OECD, “Programme for International Student Assessment – PISA 2009”, 2010.
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scenti, il deficit professionale della nostra forza lavoro rischia di compromettere lo sviluppo e la capacità di competizione del nostro Paese. Tabella 6 – Indagine PISA: punteggi medi in literacy scientifica dei quindicenni Italia
OCSE
Italia
469
492
Nord est
506
Nord ovest
494
Centro
482
Sud
425
Fonte: OCSE – Education at a Glance 2009.(Quaderno 9, tab. 8)
Tabella 7 – Livelli di qualificazione della forza lavoro con più di 15 anni e previsioni al 2020 nell’UE-25 Livelli di qualificazione
Italia
UE25
Francia
Germania
Bassi
37%
20%
21%
20%
Medi
45%
48%
44%
50%
Alti
18%
32%
35%
30%
Fonte: CEDEFOP (2009) (Quaderno 9, tab. 29)
A fronte di questi dati è evidente che solo una serie di importanti e mirati investimenti non solo nella Scuola e nell’Università (per vederne i risultati sul medio-lungo termine) ma anche nella Formazione degli Adulti (per tamponare il gap sul breve), in analogia a quanto viene fatto nei Paesi più avanzati potrà consentirci di non rischiare di uscire dal novero dei Paesi sviluppati. Il bisogno più urgente è quello di incrementare e valorizzare le conoscenze, le competenze e le esperienze sia esplicite che tacite della nostra forza lavoro a tutti i livelli, verificandole, riferendole, confrontandole e sistematizzandole in una logica e in un contesto europeo, che è quello dello European Qualification Framework (EQF). Ed è questo l’obiettivo che il Progetto “Skill-Inn” si è posto.
7. L’innovazione nell’Italia del Veneto e del Nord-Est La grande prevalenza delle piccole (e piccolissime) imprese che ha rappresentato la forza dell’economia italiana (e del Veneto e del Nord Est in particolare) nei due ultimi decenni del secolo scorso, si rivela oggi un punto 37
di debolezza relativamente a settori come la ricerca, l’internazionalizzazione, l’innovazione. Le competenze tradizionali su cui si era basato il loro sviluppo si sono spesso rivelate insufficienti a fronte della necessità di gestire reti di relazioni complesse e sviluppare servizi a elevato contenuto immateriale. Innovare diventa quindi un imperativo per la crescita e la competitività. È però da notare che, pur lontane come livello di spesa in R&S rispetto alle regioni europee più avanzate, le imprese del Nord-Est realizzano talora percorsi di innovazione poco formalizzati e non tradizionali, ma comunque efficaci (anche se più difficili da evidenziare e classificare). Un’ampia ricerca svolta su oltre un migliaio di imprese per la metà industriali in senso stretto e le altre di servizi, commercio e costruzioni14, prevalentemente di piccole e medie dimensioni (oltre il 60% da 10 a 19 dipendenti, il 27% da 20 a 49, il 7% da 50 a 99 e solo meno del 5% oltre i 100), ha evidenziato un buon numero di elementi positivi (e, ovviamente, altri negativi). Tra i primi il fatto che un’impresa su quattro ha mantenuto gli investimenti in corso (e alcune li hanno anche aumentati) e una su tre ha introdotto nell’ultimo triennio innovazioni sia di prodotto, sia di processo. Coraggiosamente, in oltre la metà dei casi l’innovazione viene autofinanziata e sette imprese su dieci hanno investito nell’ultimo biennio nella formazione del personale. Se in un’impresa su tre esiste un reparto di Progettazione e Design, solo in poco più di una su dieci vi è una funzione di R&S formalizzata. L’innovazione è in assoluta prevalenza di tipo incrementale (in oltre la metà dei casi), mentre bassa è quella radicale (poco più dell’11%), ciò anche se viene evidenziato che chi ha fatto innovazioni radicali introducendo prodotti nuovi testimonia di essere stato premiato dal mercato. Per quanto attiene alle collaborazioni esterne, pur affermando sette imprese su dieci di ritenerle positive, esse vengono realizzate soprattutto con i fornitori e con i consulenti esterni (quattro casi su dieci) oltre che con i clienti. Sono invece limitati i rapporti con Università e Centri di Ricerca (un caso su dieci) e lo stesso con i concorrenti (e praticamente sempre scelti a livello locale): si conferma la tendenza alla ridotta apertura verso l’esterno già evidenziata a livello nazionale (v. tab. 3) che si accentua maggiormente nel caso del Nord-Est: il fenomeno è tipico della piccola impresa in particolare quando la sua conduzione, gestione e il management siano di tipo famigliare. Certo esistono casi (anche brillanti) di aziende di piccola dimensione che operando soprattutto in settori di nicchia riescono a essere competitive
14 Quaderni della Fondazione Nord-Est, “L’innovazione a Nord-Est (in tempo di crisi)”, Collana Osservatori, n. 109, febbraio 2010.
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(il passare tout-court da “piccolo è bello” a “piccolo è brutto”15 non si deve ritenere valido al cento per cento), ma resta alto il numero di imprese che operano in settori a bassa intensità di conoscenze per le quali la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo a basso costo del lavoro rappresenta un pericolo gravissimo e difficilmente superabile. Sono questi tutti fattori che non favoriscono l’afflusso di capitali esteri, tanto che in Italia (e Veneto e Nord Est non fanno eccezione) lo stock di investimenti diretti esteri era nel 2009 pari al 18,6% del PIL, valore più basso tra i grandi Paesi dell’UE16 (contro un 21% della Germania, un 42% della Francia, un 47% della Spagna, un 52% del Regno Unito)17. Infatti gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) sono generalmente collegati al grado di innovazione tecnologica di cui un’impresa dispone: se è elevato la propensione all’internazionalizzazione è alta, se è intermedio l’ingresso nei mercati stranieri avviene attraverso le esportazioni, se è limitato vi è un orientamento pressoché esclusivo al mercato nazionale. Si calcola che se ci avvicinassimo alla media europea attiveremmo 30 miliardi in più di investimenti all’anno: ciò significherebbe nuovi posti di lavoro, piani industriali innovativi che aumenterebbero la produttività, migliori retribuzioni per i lavoratori. Fortunatamente, anche per una crescente tendenza alle fusioni, acquisizioni, Joint venture, aggregazioni, si stanno sviluppando nel Veneto e nel Nord Est delle imprese di medie dimensioni che operano a livello internazionale, che sono impegnate in interessanti percorsi di innovazione della loro “proposta di valore”, che dispongono di personale con valide competenze professionali e hanno così sedimentato competenze preziose e sono all’origine di filiere internazionali (si pensi alle calzature di fascia alta del Brenta e al calzaturiero sportivo del montebellunese). Così pure altri settori come il turismo, l’immobiliare, le infrastrutture, la fashion, possono attrarre investitori esteri, anche in presenza di condizioni non troppo favorevoli come le nostre per quel che riguarda la logistica, il sistema fiscale, la macchina burocratica, i tempi lunghi della giustizia civile18. Operativamente se si vuole che Veneto e Nord Est accrescano la loro competitività è necessario agire su due assi principali: l’innovazione e 15
R. Abravanel, L. D’Agnese, Regole – Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il Paese, Garzanti, Milano, 2010. 16 United Nations Conference on Trade And Development (UNCTAD), World Investment Report 2010. 17 Fare Futuro, “L’internazionalizzazione dell’economia nell’ottica degli investimenti esteri”, Discussion Paper, Roma, 2010. 18 G. Brunetti, Internal Paper, 2011.
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l’internazionalizzazione (quest’ultima a sua volta legata alle dimensioni d’impresa). A questi fattori dovrà essere associata la disponibilità di risorse umane in possesso di competenze elevate: solo così il territorio potrà rivelarsi “attrattivo” sia per gli investimenti in campo finanziario, sia per l’insediamento di manager e tecnici provenienti da altri Paesi, ma anche per evitare dalla nostra parte la “fuga di cervelli”.
8. In conclusione Per concludere si può dire che l’innovazione deve essere considerata come il principale elemento in grado di far crescere le imprese, non solo in tempi di congiuntura favorevole, ma anche, e ancora di più, in quelli di crisi: è significativo il fatto che l’ideogramma che in Cina indica la crisi significhi da una parte difficoltà, ma dall’altra anche opportunità, perché è nei tempi difficili che nascono le idee migliori19.
19
Round Table, “Come l’innovazione aiuta a vincere la crisi: esperienze a confronto”, 6 ottobre 2009, Intervento di Andrea Taroni Rettore della LIUC, Libera Università Carlo Cattaneo, Castellanza (VA).
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2. IL PROCESSO DI INNOVAZIONE di Giovanni Bernardi e Stefano Biazzo
1. Premessa Everyone talks about the importance of innovation, But talking is not walking the walk… One crucial reason appears to be that industry companies concentrated too much on relatively safe, incremental product improvements instead of focusing on potentially more profitable – but riskier – breakthrough innovations (Warton, 2010). Innovation comes in many forms like product innovation, process innovation, service innovation and business model innovation (Shiller, 2010). Moreover, notwithstanding to be more and more innovative is a must, the critical success factors of innovative organizations (Dervitsiontis, 2010).
Utilizzando i risultati del lavoro di ricerca condotto in ambito del Progetto Skill-Inn nel contesto territoriale Veneto delle PMI manifatturiere, il presente capitolo definisce natura e rilevanza dell’innovazione nei suoi aspetti organizzativi come fattore critico di successo per un vantaggio competitivo duraturo. Il primo argomento su cui è ampia la discussione è cosa si intenda per innovazione in termini di natura e di contenuti. Dopo aver analizzato tipologie e caratteristiche dell’innovazione con particolare attenzione al processo di sviluppo nuovo prodotto, si propone un modello di riferimento per analizzare e promuovere il processo di innovazione nelle piccole e medie imprese con cui descrivere e collegare i ruoli che vi operano consentendo così di risalire attraverso la sequenza di attività alle competenze. Il funnel of innovation fornisce una struttura grafica per visualizzare la generazione e la selezione di opzioni di sviluppo alternative, particolarmente utile nell’attuale contesto economico. La natura dell’imbuto dipende da come l’impresa identifica le idee, seleziona le più promettenti e focalizza le risorse per portarle al mercato. Si definisce cosi l’architettura dell’innovazione: come si generano e riesaminano le alternative, la 41
sequenza delle decisioni critiche, la natura e le modalità organizzative dei processi decisionali (Wheelwright e Clark, 1992).
2. Quale innovazione e per chi Parlare di innovazione è interessante e stimolante, anche perché il tema presenta molte sfaccettature nonché la possibilità di collegarsi a molte aree di ricerca. Già all’inizio dello scorso secolo erano stati definiti l’oggetto e le aree di applicazione dell’innovazione (Schumpeter, 1911). L’innovazione viene descritta come un’attività complessa che può trovare applicazione in numerosi ambiti. Il primo argomento su cui è ampia la discussione è cosa si intenda per innovazione in termini di natura e di contenuti. Se consideriamo le definizioni ufficiali, il Manuale di Frascati (2002) definisce l’innovazione come la trasformazione di un’idea in un prodotto nuovo o migliorato introdotto nel mercato o un processo nuovo o migliorato utilizzato nell’industria o nel commercio. Qualche anno più tardi, il Manuale di Oslo (2005) continua a distinguere fra innovazione di prodotto e di processo, sottolineando la rilevanza di entrambi. In realtà più che una distinzione si potrebbe parlare di aspetti concatenati. Le innovazioni di prodotto sono incorporate nei beni o servizi realizzati da un’impresa, quelle di processo nelle sequenze di attività, nelle modalità, tecnologie, attrezzature, metodi e competenze necessarie per realizzare tali innovazioni di prodotto. L’equivoco nasce perché spesso le innovazioni di processo sono cambiamenti nelle modalità con cui un’impresa svolge le sue attività per migliorarne l’efficienza o l’efficacia, sono quindi puramente di miglioramento economico cost saving, per cui risulta difficile definirle come innovazioni. Inoltre, un’innovazione di prodotto per un’impresa può costituire un’innovazione di processo per un’altra, come accade per tutti i produttori di macchine di lavorazione o impianti. L’innovazione di processo può essere considerata quale conseguenza dell’innovazione di prodotto e da essa trainata (Chiaromonte, 1986). Così, in realtà la distinzione può non essere univoca: un prodotto nuovo per l’impresa che lo produce (per esempio una macchina utensile automatizzata) rappresenta un’innovazione di processo per l’impresa che lo acquista e lo utilizza. Da qui nasce la diversa posizione degli economisti (che osservano più il sistema economico che l’impresa) rispetto agli aziendalisti per i quali i cambiamenti nell’area del processo produttivo sono rilevanti per l’analisi dell’innovazione e delle sue conseguenze. Il focus è spesso sull’innovazione di prodotto, che comprende anche gli altri tipi di innovazione rispetto a oggetti e natura, come nel caso delle tipo-
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logie proposte da Sawhney (2006): offerta, piattaforme, clienti, valore, processi, organizzazione, supply chain, localizzazione, network, brand. Più che alternative sono dei fattori correlati. Spesso si cita come tipo di innovazione l’innovazione di business, che è riconducibile al potenziale fornito dall’innovazione di prodotto di tradursi in una nuova offerta di valore/mercato e anche in alcuni casi all’incrocio di un’innovazione radicale di prodotto indotta da una altrettanto radicale innovazione di processo. Anche nella tradizionale distinzione fra innovazione di prodotto e innovazione di processo più che una distinzione vera e propria sembra esserci una correlazione: spesso una innovazione di processo, materiali ecc. è il driver dell’innovazione, come, al contrario, una idea di nuovo prodotto costringe l’azienda a ricercare nuove fonti tecnologiche di approvvigionamento o simili. Quando si parla di innovazione si evidenzia dunque la necessità di chiarire il livello, il destinatario e la profondità (o il grado) dell’innovazione, distinzioni spesso poco considerate che determinano una lettura soggettiva del termine innovazione e quindi sono di ostacolo alle generalizzazioni. Partendo dall’ipotesi che il concetto di “nuovo” è soggettivo, Booz e al. (1990) propongono di distinguere le tre diverse tipologie di innovazioni di seguito descritte. • new-for-the-world, prodotti che sono dei breakthrough e creano un mercato completamente nuovo per tutti sia come natura che come applicazioni, arrivando anche a modificare il comportamento esistente dei consumatori (per esempio a suo tempo il Walkman Sony) proponendo qualcosa che prima non esisteva in assoluto; • new for the company, ovvero innovazioni già presenti nel mercato che l’impresa fa proprie, imitandole e talvolta ulteriormente migliorandole, con ritardo rispetto ai concorrenti più evoluti. Nuove linee di prodotto, prodotti che sono nuovi per l’organizzazione ma non per il mercato e rappresentano il punto di ingresso di un’azienda in un mercato definito. Spesso si tratta di un aggiornamento tecnologico come per esempio l’acquisizione di una nuova tecnologia attraverso l’acquisto sul mercato di un macchinario evoluto, nuovo per l’azienda perché non è presente o conosciuto; • new for the market, ovvero novità, che in precedenza non sono mai state offerte in un certo mercato o a un certo segmento, quali per esempio le applicazioni informatiche tipo Mems (processori con accelerometri incorporati) già usati nell’informatica e nell’automotive e poi utilizzati per i videogiochi Wii Nintendo. Ovvero innovazioni che sono già presenti in mercati limitrofi (geograficamente o dal punto di vista dei segmenti target) rispetto a quelli in cui opera l’azienda. Spesso si
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tratta di trasferimenti tecnologici applicativi, di fertilizzazione incrociata fra settori, per esempio l’uso del titanio e dei relativi processi di lavorazione nel settore dell’occhialeria. Questa distinzione può essere importante quando si definiscono gli ambiti di politiche pubbliche o private, territoriali o meno, di sostegno all’innovazione: ma appunto quale innovazione? Certo è difficile considerare innovazione l’acquisto di una macchina tecnologicamente all’avanguardia solo perché sarebbe nuova per il mio processo produttivo, ma tant’è, anche questo viene compreso, anzi è centrale, nei finanziamenti all’innovazione, classificandolo come trasferimento tecnologico! Negli anni Novanta si differenziano anche le tipologie sulla base del tipo di innovatività e dei vantaggi strategici che essa è in grado di dare, come in sintesi (Tidd, Bessant e Pavitt, 2001) si riporta nella tab. 1. Tabella 1 Tipologia dell’Innovazione Assoluta novità
Vantaggi strategici Si è in grado di offrire cose che nessun altro è in grado di fare
Spostamento frontiera delle conoscenze
Si riscrivono le regole del gioco competitivo
Elevata complessità
Si innalzano delle barriere all’ingresso rendendo l’imitazione difficile
Progetto di base valido
Si allunga la vita utile dei prodotti e dei processi e si riducono i costi
Sistematica innovazione incrementale
Si innalza il livello delle prestazioni e si riduce quello dei costi
Sempre sulla strada del livello di innovatività, ogni impresa può competere perché possiede uno stock di competenze incorporate nelle persone, risorse o incastonate nei suoi prodotti, servizi e processi: per restare competitivi questo stock deve essere però continuamente incrementato attraverso un adeguato processo che può essere di innovazione incrementale o di innovazione radicale (breakthrough tecnologici). Questa distinzione attiene alla profondità del miglioramento introdotto. Si parla di innovazione radicale o incrementale a seconda che il miglioramento sia rilevante o marginale. Anche in questo caso non si tratta di un dualismo ma di un continuum. La classificazione di un’innovazione in radicale o incrementale non è assoluta ma dipende dalla distanza dell’innovazione da un prodotto o processo preesistente. Innovazioni radicali e incrementali si collocano quindi lungo un continuum che prevede diversi gradi di novità e differenziazione. Il carattere radicale di un’innovazione tecnologica è re44
lativo, perché cambia nel tempo e secondo la prospettiva di analisi di riferimento: ogni sistema o tecnologia è limitato superiormente per cui, arrivati a un certo punto, il miglioramento della prestazione richiede un passaggio discontinuo, un salto a una nuova tecnologia, a una nuova soluzione. È il salto a un nuovo sistema, a una soluzione strutturalmente e sistemicamente diversa rispetto a quella precedente. Per esempio un nuovo telefono cellulare che utilizza un sistema diverso di trasmissione (da GSM a UMTS) non implica necessariamente un immediato miglioramento delle prestazioni, anche se è ovviamente auspicabile; tuttavia spesso il salto comporta un peggioramento iniziale di alcune prestazioni. Ciò che conta è che il nuovo sistema presenti un più elevato potenziale di miglioramento (da realizzare poi con successive innovazioni incrementali). L’innovazione incrementale quindi è un miglioramento delle prestazioni attraverso il miglioramento della soluzione esistente (per esempio un nuovo telefono cellulare che, rispetto alla versione precedente, ha una migliore affidabilità di ricezione). L’innovazione incrementale raffina e migliora le competenze esistenti di un’impresa e significa in buona sostanza “fare sempre meglio ciò che già sappiamo fare”. Tuttavia, l’impresa non conosce a priori la soglia superiore della tecnologia e/o dell’applicazione e dunque tende, nelle proprie aspettative, a basarsi sui successi passati e, con ciò, a sopravvalutare gli incrementi di prestazioni che potrà ottenere dall’innovazione incrementale. E quindi si sviluppa in modo inerziale rispetto al contesto. Infine non va dimenticato il rischio che la PMI tenda a identificare la pressione competitiva con l’azione dei competitors diretti e dunque a ignorare gli scenari di competizione potenziale o più lontani o più “evoluti” tecnologicamente o a elevata incertezza, che rendono imprescindibile l’innovazione radicale. L’innovazione incrementale si è rivelata necessaria, ma non sufficiente perché prima o poi si verifica nei prodotti e nei processi un cambiamento radicale che spiazza completamente l’impresa che abbia seguito solo questa strada, è il kaizen o miglioramento continuo di buona memoria che dal processo produttivo in cui nasce nella prospettiva del TQM si estende al prodotto. L’innovazione radicale invece è quella che produce una variazione significativa nelle funzionalità, caratteristiche, architetture, prestazioni di prodotti e processi rispetto ai concorrenti, che si traduce nel miglioramento della posizione competitiva e che non comporta gradini forti, ma si sviluppa grazie a una evoluzione organica delle competenze dell’impresa. Come vedremo più avanti, la capacità competitiva sta anche nella capacità di distribuire e allocare le risorse fra queste due aree di intervento attraverso un adeguato e bilanciato portafoglio dei progetti di innovazione.
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Come si può intuire il rapporto fra innovazione radicale e incrementale su cui l’azienda strategicamente si orienta incide fortemente sulle competenze o skills individuali e di d’impresa. Da questo punto di vista si usa distinguere anche fra innovazione competence enhancing e innovazioni competence destroyng. Un’innovazione è competence enhancing quando si fonda sull’evoluzione della base di conoscenze preesistenti, per esempio ogni generazione di microprocessori Intel che riprende e sviluppa la tecnologia del modello precedente. Un’innovazione invece è considerata competence destroying quando non scaturisce dalle conoscenze già possedute o addirittura le rende inadeguate. Per esempio negli anni Settanta le calcolatrici elettroniche uccisero le calcolatrici meccaniche, come la mitica Divisumma verde e nera e le relative competenze di chi le sapeva sia produrre che utilizzare. Anche la caratteristica di un’innovazione di essere competence enhancing o competence destroying è relativa alla prospettiva dell’impresa e alla sua base di conoscenze. Per esempio tornando al caso di prima, le calcolatrici elettroniche furono competence enhancing per HewlettPackard e Texas Instrument mentre competence destroying (purtroppo!) per Olivetti. Spesso le innovazioni competence destroying sono portate dai “nuovi entranti nel settore” come li definirebbe Porter e come da una ricerca che conferma come in un certo periodo (Utterback, 1994) 23 su 29 casi di innovazioni competence destroying sono state realizzate da nuovi entranti. Mentre quelle competence enhancing si sono sviluppate con le innovazioni incrementali e i miglioramenti apportati dalle Aziende affermate nel settore incumbent.
3. L’innovazione come prerequisito per un vantaggio competitivo duraturo nella PMI L’ipotesi di fondo è che l’innovazione sia oggi probabilmente il driver più robusto dello sviluppo competitivo. L’innovazione, specie a base tecnologica, ha un importante riflesso sulla competizione: l’impresa che non innova è destinata in genere a perdere competitività, anche se il nesso non è sempre cosi diretto. C’è anche da chiedersi se è tornata di moda per una reale presa di coscienza del potenziale competitivo che ne può derivare o se la spinta è contingente per la situazione del contesto attuale di crisi generalizzato. È stata accertata anche da ricerche statistiche (Acs, 1999), se ce ne fosse bisogno, la correlazione fra innovazione e crescita d’impresa. In ogni caso la diffusa globalizzazione e l’aumento della competizione collegato hanno creato una forte minaccia per le PMI manifatturiere. Sia la
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pratica che la ricerca sottolineano come l’innovazione è diventata priorità chiave, non una semplice opzione per sostenere la competitività (Filippetti e Archibugi, 2011). Dopo la crisi e i tempi incerti attuali si dovrà rapidamente pensare a sviluppare nuove opportunità non ripetendo ma riconfigurando gli assetti attuali: focalizzarsi sui giusti progetti di innovazione e sviluppare queste innovazioni in modo più efficiente, efficace e creativo (Fu, 2010; Hue et al., 2010). Partendo da questo presupposto le minacce dovranno diventare opportunità per il futuro prossimo. Dato che purtroppo l’innovazione di prodotto non è un “magico apparire”, ma è l’esito di complesse attività continue, non è più possibile basarsi esclusivamente sull’intuizione brillante o sull’idea geniale, costruendo comode nicchie, difficili da replicare nel tempo: l’azienda dovrebbe quindi proporsi sul mercato come un serial innovator, capace di gestire il processo innovativo in modo efficace per mantenere l’innovazione viva nel tempo in modo da sostenere un vantaggio competitivo duraturo. Parlare di innovazione è di grande attualità, forse anche di grande necessità. Ma poi si presenta questo scarto fra il discorso sulla teoria e la pratica, specie per le PMI, anche perché spesso non viene assunto come priorità rispetto ad altri processi operativi come produzione, acquisti, marketing ecc., che sembrano a una lettura superficiale e più di breve termine, maggiormente collegati alle performance aziendali. Quindi privilegiati nei progetti di investimento e in generale di allocazione delle risorse, così come nell’attenzione e nel coinvolgimento della Direzione e della Proprietà. L’innovazione poi non sempre è riconosciuta come sorgente prima del vantaggio competitivo specie nelle PMI dai titolari e/o dal management che vedono il cambiamento come rischioso e preferiscono ricordare e rimirare le esperienze di successo passate sperando che continuino a mantenersi tali, con un po’ di miopia come ben diceva Levitt. Può essere, ma non necessariamente, basata su innovazioni scientifiche o tecnologiche. La natura complessa del rapporto tra innovazione e competizione è dovuta all’influenza di una serie di variabili di cui le principali possono essere identificate in: • natura del settore: l’innovazione non è esclusiva dei settori ad alta tecnologia ma può realizzarsi anche in quelli tradizionali; • natura del mercato: l’innovazione può creare una nuova domanda e quindi un nuovo mercato o segmentarne uno sino allora omogeneo; • caratteristiche del prodotto: l’innovazione può presentare caratteristiche diverse a seconda che l’architettura dei prodotti sia a struttura semplice o complessa, integrata o modulare, vuoi creando beni prima non offerti oppure modificando prodotti esistenti incrementan-
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done le performance in modo significativo o mettendo a disposizione funzioni supplementari; • struttura di domanda e offerta: l’innovazione può lasciare inalterata la struttura di un mercato, ma variare al suo interno gli equilibri oppure creare nuove condizioni di contesto: negli scarponi da sci il passaggio dal cuoio alla plastica ha trasformato l’offerta da artigianale in industriale, ha spostato gli equilibri competitivi e ha fatto diventare di massa un prodotto che era d’élite; • dimensione temporale: l’innovazione può generare effetti su tempi più e meno lunghi e con cicli di vita variabili. La lunghezza del ciclo di vita è legata all’effetto di sostituzione che la nuova tecnologia produce su quella esistente. L’importanza della tecnologia nel processo di innovazione non può essere sottostimata anche se questa non sempre viene immediatamente riconosciuta dai consumatori particolarmente quando è incorporata nel prodotto. Ai giocatori di Wii nintendo non interessa sapere che il successo di questa consolle è dovuto al fatto di avere inserito dei Mems (accelerometri). Se l’innovazione è incorporata nei prodotti o componenti appare appunto nel prodotto finale solo come un elemento di acquisto e non sviluppa non solo conoscenza ma nemmeno coscienza delle criticità e del potenziale evolutivo. Ma lo sviluppo futuro richiede di tenere sotto controllo anche queste tecnologie raccolte nel fascio tecnologico di prodotto che presenta diversi stadi di avanzamento di vita per le singole tecnologie. Inoltre alcune saranno direttamente presidiate, altre acquisite nel mercato. Nella logica open, comprare non vuol dire disinteressarsi lasciando lo sviluppo delle tecnologie incorporate ai fornitori come l’esperienza dell’outsourcing produttivo, ma insegna che staccare la fabbrica dalla progettazione abbassa il livello di capacità innovativa. Non si può separare la testa dalle braccia senza alla fine perdere la capacità di controllo e soprattutto di saper usare le braccia in modo innovativo. Alla competizione diretta si sono poi anche aggiunte: • la competizione potenziale di prodotti sostitutivi: il potere contrattuale di distributori e clienti è aumentato in quanto l’allargamento dell’offerta dovuto alla globalizzazione incrementa la “minaccia di sostituzione”; • la competizione ad alta incertezza strategica: i nuovi competitori potenziali provengono da contesti geografici e settoriali molto eterogenei (anche geograficamente) e la conoscenza delle loro capacità è poco nota, il sistema competitivo diviene così incerto. La crescente attenzione all’innovazione incrementale più che all’inve-
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stimento verso innovazioni più radicali può essere attribuito alla pressione competitiva sul breve termine e prevalentemente sui costi e servizi, anche a causa di: • continua introduzione di nuove tecnologie migliorative da parte dei fornitori; • riduzione dei cicli di vita dei prodotti a cui sarebbe finanziariamente pesante rispondere sempre con prodotti radicalmente nuovi; • riduzione dei tempi di sviluppo disponibili che richiedono funnel corti; • esigenze di miglioramento rispetto all’impatto ambientale che assorbono risorse; • aumento di terze parti coinvolte nel processo complessivo. Talvolta l’innovazione radicale è trascurata anche perché i tentativi hanno dato scarsi risultati (come la formazione!) per diverse ragioni: • viene applicato un modello di innovazione inadeguato in quanto basato su modelli di ricerca e sviluppo tecnologico interni, tipici della grande impresa, non sostenibili dalle PMI con ancora poco orientamento alle logiche di open innovation; • viene sottovalutata l’opportunità di innovazione tecnologica per i settori che non sono high-tec, come dire “riguarda altri” e non si pensa invece alla potenziale fertilizzazione incrociata delle traiettorie tecnologiche; • le ridotte dimensioni non consentono di allocare risorse per la ricerca, si trova al massimo un Ufficio Tecnico di Progettazione. Che, anche per limiti di competenza, svolge un ruolo di puro miglioramento continuo. È pur vero che nel nostro contesto di PMI anche l’innovazione incrementale ha il suo peso strategico rispetto a quella radicale più significativa negli impatti e sul premium price di innovazione, ma è meno frequente e richiede tempi e investimenti oltre che competenze molto maggiori. Ma questo, come vedremo più avanti, non deve voler dire farsi schiacciare sui piccoli miglioramenti quando non solo sulle modifiche spacciate per innovazione. Sono livelli complementari che vanno integrati e bilanciati anche in una prospettiva di ciclo di vita delle tecnologie legate al prodotto e con modalità di gestione portafoglio progetti che descriveremo nel capitolo quinto. D’altro canto in parte la sovraesposizione dell’innovazione radicale è anche legata al maggior interesse che questa ha per i ricercatori. Il pendolo oscilla fra attenzione e centralità del miglioramento continuo nelle logiche lean e innovazione radicale nelle situazioni più tecnologiche. Come già detto, la situazione generale del settore manifatturiero, ma in parte anche dei servizi alle imprese, presenta un ritorno dell’innovazione a base tecnologica come una priorità, però con un contemporaneo aumento della complessità del processo di sviluppo connesso. Ma l’innovazione oggi
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richiede qualcosa in più di brillanti ricercatori, ma anche leader, ottimi manager, imprenditorialità, una adeguata struttura organizzativa, un atteggiamento mentale che pervada l’intera azienda. Richiede ruoli diffusi con persone con competenze adeguate. Svilupperemo questo aspetto nel capitolo 5 partendo dai dati di ricerca su cui questo progetto si appoggia. In sintesi si può dire che tali competenze, adeguatamente articolate in verticale rispetto ai diversi livelli di responsabilità e in orizzontale rispetto alle fasi del processo di sviluppo prodotto rappresentate dal funnel, possono essere collegate alle dimensioni della capacità innovativa che suddividiamo, per ora sinteticamente, in capacità di assorbimento, capacità di relazioni, capacità di integrazione, come riprenderemo e svilupperemo nel capitolo 5.
4. Il contesto Negli ultimi anni si è inoltre affermato il nuovo paradigma denominato Open innovation, diffusosi anche operativamente. Fino a non molto tempo fa, l’attività di Ricerca e Sviluppo interna era vista come una risorsa strategica e persino una barriera all’entrata in molti settori, dove solo le grandi aziende con significative risorse e programmi di ricerca di lungo termine potevano competere. Oggi stiamo vivendo un cambio di paradigma dall’innovazione chiusa all’innovazione aperta. Nel paradigma dell’innovazione chiusa l’innovazione richiede controllo. Le aziende devono generare le proprie idee e poi svilupparle, costruirle, commercializzarle, finanziarle. Questa visione spinge alla totale autosufficienza, in quanto non ci si fida della qualità e disponibilità delle idee degli altri. Tuttavia l’approccio chiuso all’innovazione non è più sostenibile. Al suo posto sta emergendo, come detto, il paradigma dell’innovazione aperta. Esso prevede che le aziende possano e debbano utilizzare idee provenienti dall’esterno tanto quanto quelle provenienti dall’interno e ricerchino per vie interne o esterne l’avanzamento tecnologico (Chesbrought, 2004), che vadano a cercare le conoscenze là dove stanno. Le imprese possono dunque elaborare e accumulare conoscenza localizzata a partire da quella scientifica (pubblica), da quella propria dell’ambiente e da quella specifica di cui dispongono (incorporata quest’ultima nelle procedure e routine interne), secondo percorsi che risultano inevitabilmente legati alle condizioni locali, alle esperienze e alle esigenze particolari. A partire da queste fonti, il meccanismo con cui nuova conoscenza produttiva e tacita viene accumulata e resa sfruttabile sul mercato è l’apprendimento (Gottardi, 2004).
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Se si accetta l’idea che l’innovazione sia oggi il principale strumento con cui gli imprenditori perseguono vantaggi non effimeri e consolidano la propria posizione sul mercato, occorre anche ammettere che questi risultati non possono emergere da un’attività strettamente tecnico-scientifica condotta da terzi fuori dall’impresa. L’imprenditore che adotta una nuova tecnologia non è un utente passivo o restio, ma piuttosto un selezionatore intelligente che valuta la congruenza di nuove conoscenze tecnologiche rispetto alle proprie esigenze e al contesto economico in cui si trova ad agire. L’attività innovativa non è completamente delegabile, né conviene farlo, perché è da questa che l’impresa trae le core competence su cui fonda il proprio vantaggio competitivo. L’impresa agisce solo quando valuta soggettivamente che il costo di mantenimento dello status quo superi quello dell’innovazione. L’esistenza di un trade-off la porta a dare priorità ai cambiamenti meno costosi o più facili da conseguire. La nuova conoscenza necessaria può essere disponibile all’esterno in forma adatta e facilmente appropriabile, ma deve essere poi “assorbita” e questa capacità di assorbimento è funzione delle competenze interne, in un gioco di accrescimento se virtuoso, altrimenti se non controllato, di perdita di capacità. Nel caso di esigenza di innovazione e cambiamenti più radicali, le esternalità locali domestiche come nella vecchia logica dei distretti non sono disponibili o adeguate e bisogna accedere a fonti diverse, là dove stanno, nel grande mondo della conoscenza. Questo richiede una ricollocazione e una riaggregazione dei processi di acquisizione, che se è più costoso dello sfruttamento delle competenze locali però è garanzia di vantaggio competitivo meno appropriabile per imitazione. Questo è il salto dell’innovazione nel contesto aperto e globale verso le fonti di conoscenza la dove ci sono naturalmente (Gregory, 1995). Se la capacità di assorbimento non può che essere interna, le fasi di ricerca, selezione, acquisizione delle tecnologie o più in generale delle conoscenze avanzate possono essere esternalizzate rivolgendosi o a società specializzate o a ruoli intermedi di brokering1, disponibili presso Agenzie ed Enti presenti sul territorio e anche direttamente ai centri di ricerca dell’Università. Un altro aspetto di crescente attualità nello sviluppo della logica di open innovation è il conseguente costituirsi di reti di innovazione anche 1
Si veda in proposito il Progetto Leonardo TOI Transfer of innovation “REBASING – Research-Based Competence Brokering” promosso da Confindustria Veneto SIAV, volto all’incremento della collaborazione tra Università, Centri di Ricerca e Imprese per sviluppare i processi di innovazione e renderli iniziative routinarie attraverso la collaborazione della figura professionale del Research Based Competence Broker.
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collaborativa. Ci si chiede su dove porre la linea di confine tra attività interne del processo di innovazione e fasi che possono essere considerate commodities da acquisire all’esterno o da sviluppare attraverso più strette collaborazioni. La ricerca di innovazione e di offerta di servizio ai clienti a valle stimola i fornitori di sottosistemi a risalire gradualmente i vari stadi della catena del valore. L’outsourcing della R&S sarà comunque un fenomeno sicuramente in espansione e per le aziende il problema riguarda anche il “come attrezzarsi per la cattura delle idee dal mondo”. Un altro freno o agente di inerzia organizzativa è dato dal sottovalutare l’esigenza di innovazione perché rassicurati dal relativo successo o benessere attuale può portare soprattutto gli incumbent a trascurare l’esigenza di rinnovare continuamente e cumulativamente le proprie competenze per l’innovazione. Così succede che spesso sono “i nuovi entranti che hanno maggior successo di crescita, perché sono quelli che sviluppano qualche tipo di innovazione verso i nuovi prodotti, le nuove tecnologie e le risorse umane”. È un problema contemporaneamente di visione aziendale e di cultura organizzativa, oltre che di orientamenti individuali, soprattutto del top management. Gatignon (1997) lo dimostra evidenziando come fra i fattori influenzanti le performance innovative e cioè Risorse, Caratteristiche dell’innovazione (sostanzialmente cosa si vuole ottenere per il/dal prodotto), Caratteristiche del mercato (essenzialmente in termini di turbolenza e incertezza) ancor più importanti siano l’orientamento strategico dell’azienda verso clienti e competitors e soprattutto la tecnologia. Prerequisito di base che si rischia di trascurare con il tempo: “il ruolo dell’orientamento strategico dell’organizzazione sullo sviluppo nuovo prodotto è centrale per le prestazioni di impresa”. Se gli studi si sono concentrati (Mytelka, 1999) sul ruolo dell’innovazione in senso lato come fattore primario in grado di sostenere la produttività, la competitività dei prodotti e, in ultima istanza, la crescita economica, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta entrano pesantemente in gioco in questa relazione anche la capacità di assorbimento e di cogliere le nuove opportunità offerte dalle nuove tecnologie dominanti relative all’informazione e alla comunicazione, che, essendo pervasive e general purpose technologies (Bresnahan e Trajtenberg, 1995), multiformi e flessibili rispetto a molteplici campi di applicazione, offrono ampie prospettive potenziali ai processi di innovazione di prodotto. Questo contemporaneamente porta a riflettere sull’importanza del cambiamento organizzativo rispetto alle nuove competenze. Se infatti le nuove tecnologie offrono potenzialità e nuovi orizzonti trasversali ai diversi settori, l’impresa che le voglia adottare non potrà prescindere dalla
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necessità di procedere a rilevanti e complessivi cambiamenti nelle proprie competenze. Il caso della microelettronica e dell’informatica è sintomatico di come la tecnologia segua nuove traiettorie di diffusione sia verso le imprese di minori dimensioni che di fertilizzazione di settori anche lontani: l’impulso fondamentale al cambiamento viene dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche (siano esse interne o esterne all’impresa) e la capacità di esplorare i potenziali tecnologici diventa primaria. Nella logica open innovation questo può essere favorito da un lato dalle Agenzie di Trasferimento Tecnologico e Brokering Tecnologico, all’altro anche dall’accesso diretto o mediato ai data base brevettuali e letteratura tecnica oggi disponibili. Perché dunque impegnarsi in una attività rischiosa e impegnativa di innovazione? • “Perché senza innovazione non c’è futuro”. • ”Innova o muori”. • ”Perché l’innovazione è un precetto non un concetto”. • ”Se non innovi tu domani innoverà un altro prima di te”. (Chi volesse altre motivazioni e slogan veda in Stamm, Trifilova, 2009). Un forte acceleratore alla ricerca dell’innovazione sono stati i cambiamenti strutturali recenti intersecati con il tradizionale modello di specializzazione focalizzato su settori a bassi tassi di tecnologia e di crescita. Anche questi peraltro per motivi diversi hanno dimostrato i loro limiti in un contesto di globalizzazione, in particolare il modello di “innovazione senza ricerca” di cui l’Italia e il nord est in particolare sono stati leader facendone un fattore di (apparente) successo, ha subito un progressivo logoramento che lo ha reso insufficiente a sostenere la competitività internazionale delle imprese. Nel tempo, a partire dagli anni Sessanta-Settanta del XX secolo, si è assistito a uno sviluppo eccezionale di nuovi processi e prodotti dovuto ai forti investimenti in ricerca delle grandi imprese: l’innovazione tecnologica viene interpretata come demand pull ossia spinta da un mercato in crescita costante cui si doveva dare risposta. Negli anni Settanta però la redditività della R&S cala in quanto le risorse tecnologiche rivelano di non essere illimitate e in più si affacciano tecnologie non predeterminate da una domanda del mercato preesistente, ma che aprono larghi spazi di mercato: è il caso della microelettronica e dell’informatica. A sua volta la tecnologia segue nuove traiettorie di diffusione sia verso le imprese di minori dimensioni che di fertilizzazione di settori anche lontani: si sviluppa la teoria technology push ossia l’impulso fondamentale al cambiamento viene dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche (siano esse in-
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terne o esterne all’impresa). Contemporaneamente cominciano le innovazioni gestionali legate da un lato allo sviluppo ICT e dall’altro al diffondersi prima delle logiche TQM e poi del paradigma lean. La fabbrica e poi via via l’azienda diventano “flessibile” e “snella” anche attraverso l’incrocio con l’altro macro fenomeno della delocalizzazione e l’esternalizzazione di molte attività. Oggi vi è un accordo generale sul fatto che le due spinte suddette si incrociano, che l’innovazione technology based sia fonte di vantaggio competitivo, che la ricerca e sviluppo di prodotti e processi, sempre più complessa e costosa, richieda una precisa strategia di guida e che l’innovazione sia destinata al fallimento se non associata al contesto organizzativo. In particolare questo indirizzo richiede maggiori sforzi di conoscenza della domanda e del cliente e l’enfasi è ancora sul mercato e sul cosiddetto front end dell’innovazione. Secondo diverse considerazioni però sul lungo termine ciò può essere insufficiente, in altre parole è finita la sostenibilità competitiva dell’“innovazione senza ricerca”. Per il tramite della creatività imprenditoriale e della flessibilità delle sue piccole e medie imprese, variamente agglomerate in distretti territoriali, l’Italia ha conquistato nel mondo del secolo scorso una leadership nel campo del design e dell’incrementalismo innovativo, sia di processo, sia di prodotto, mostrando una particolare capacità nel proporre innovazioni marketoriented, soluzioni di nicchia customizzate e basate sulla ricombinazione sistemistica di innovazioni altrove generate, prodotti destinati alle fasce del consumo finale più alte per qualità e più elastiche al reddito. Si è trattato, come argomentano con efficacia Bonaccorsi e Granelli (2006), dell’affermarsi di quel modello di innovazione senza ricerca sopra citato, che oggi però è giunto a esaurimento per un insieme di fattori interagenti. In primo luogo, si è assistito all’accelerazione dei processi di diffusione mondiale delle conoscenze e delle innovazioni, sia incorporate in beni capitali, sia codificate in assets immateriali, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e all’aumentata mobilità di tutti i fattori della produzione. In secondo luogo, la frammentazione internazionale della produzione (Gereffi et al., 2005), che si traduce in un vasto processo di rilocalizzazione delle attività manifatturiere, ha fatto sì che anche il locus dei processi incrementali di learning by-doing, by-using e by-interacting stia assumendo una configurazione geografica assai più diffusa e dispersa che nel passato. In terzo luogo, si assiste a un crescente affrancamento dei marchi e del design dagli originari luoghi di origine della produzione (“made by Armani” piuttosto che “made in Italy”), con la conseguente erosione
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delle rendite di posizione associate alla reputazione di Paese e l’ulteriore spinta alla delocalizzazione delle attività produttive. Le recenti evoluzioni dei percorsi di delocalizzazione e di allungamento delle filiere produttive legate anche alle risposte alla crisi, hanno così inciso pesantemente sulla continuità e sulla validità del modello distrettuale che rappresentava anche l’humus dell’innovazione o secondo alcuni (GREMI – Group de recherche européen sur les milieux innovateurs en Europe) il milieux innovateur per le PMI, favorendo con la contiguità territoriale la cosiddetta capacità innovativa diffusa (CID) e considerata da alcuni quasi come una forma sostitutiva, a livello di sistema, della tradizionale funzione di R&S delle grandi imprese e in realtà favorita dalla contiguità con le imprese leader del distretto, o focali, o guida. Ma in ogni caso la capacità innovativa diffusa (CID) può essere adeguata in situazioni di innovazioni incrementali e low tech e non è più sufficiente a sostenere l’acquisizione di differenziali competitivi significativi in contesti di cambiamento forte e soprattutto così differenziati nel potere di investimento relativo. In alcuni distretti poi si era già verificato con la delocalizzazione dell’attività sempre più verso fornitori a basso costo, che si è scaricata anche la spinta all’innovazione cost saving che, attraverso la maggiore automazione, ha secondo alcuni reso meno necessaria la ricerca di investimento tecnologico almeno sul breve e così ha di fatto bloccato l’innovazione tranne in rari casi proprio per questo particolarmente significativi ma purtroppo poco imitati. Per il distretto si rendono necessari nuovi processi di gestione dell’innovazione basati su rinnovate modalità di creazione e diffusione delle conoscenze. Anche a seguito della modifica strutturale per questi processi dovuta all’affermazione delle imprese leader. Che alla ricerca di un miglioramento delle proprie performance hanno modificato le dinamiche cognitive dei DI. Sia delle modalità di creazione che di diffusione delle conoscenze nell’area (Albino, 1998).
Lo sviluppo delle relazioni esterne porta all’allungamento delle filiere di fornitura anche relative alle conoscenze e all’acquisizione di tecnologie innovative, ben al di fuori del distretto nella prospettiva della globalizzazione o internazionalizzazione che dir si voglia anche per le PMI. Ma stare nelle filiere lunghe per l’innovazione è molto più complesso che mantenere le relazioni di distretto. L’insieme di tutto ciò, per le piccole imprese manifatturiere in particolare, ha modificato i fattori di (apparente) successo generando un progressivo logoramento che ne ha messo in difficoltà la capacità di sostenere la 55
competitività internazionale e che richiama quindi l’esigenza di un forte riorientamento verso il recupero o lo sviluppo ulteriore di capacità innovativa. La gestione del cambiamento e dell’innovazione tecnologica diventa dunque una criticità primaria anche e soprattutto per le PMI. Questo vale anche per le imprese subfornitrici che si trovano frequentemente in una posizione più debole, asservita ai committenti, senza accesso autonomo al mercato finale, con limitate capacità di differenziazione, vincolate alla costante compressione dei costi per sopravvivere con profitti minimi. Viceversa la capacità autonoma di progettazione è frequentemente associata a una posizione competitiva più robusta, a maggiori possibilità di differenziazione e a una migliore profittabilità. Inoltre, la maggiore articolazione e complessità organizzativa delle PMI progettiste fa spesso ritenere che la loro permeabilità alle pratiche manageriali avanzate sia maggiore e per ciò migliori le loro performance (Cagliano, 2011).
5. Lo spostamento sulle competenze L’azienda che decide di innovare è l’azienda che cresce (e non soltanto in termini di fatturato, ma anche e soprattutto in termini qualitativi), che è attiva in un processo di cambiamento finalizzato a migliorare il suo prodotto, il suo servizio, la sua missione. In quest’ottica va letta l’innovazione: uno strumento per gestire il cambiamento attraverso un processo di miglioramento e di crescita continui delle persone e delle loro competenze di ruolo. Nell’impresa che innova si determina un impatto sugli equilibri competitivi che si riconduce alla qualità dei processi gestionali dell’impresa stessa. La decisione di innovare rappresenta infatti forse la più importante scelta competitiva che il management di un’impresa possa fare. Se nelle industrie emergenti science-based l’investire in innovazione è costitutivo e implicito per la competitività, i cambiamenti nelle tecnologie e la competizione internazionale ne fanno crescere sempre più l’importanza anche per quelle manifatturiere. Per esse infatti la competizione si esplicava un tempo essenzialmente sui mercati interni con concorrenti nazionali mentre oggi la concorrenza è mondiale e si basa non solo su vantaggi di costo e di produttività. La sfida del nuovo ambiente competitivo si manifesta con riduzione dei tempi di sviluppo nuovo prodotto, con cicli sempre più brevi di vita dei prodotti, con la richiesta crescente di livelli di performance e di qualità del prodotto e dei servizi collegati. Quanto detto dovrebbe ri-orientare i criteri di allocazione delle (scarse)
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risorse ai diversi progetti di innovazione. Ma anche quando tale innovazione viene dichiarata come critica e centrale nel modello di sviluppo e di business, le priorità dell’imprenditore spesso sono troppo concentrate e privilegiano fattori di sicurezza e quindi si capisce come si preferisca l’innovazione incrementale piuttosto che focalizzarsi su quella radicale, più profittevole ma più rischiosa in termini di probabilità di successo. È vero che oggi essere innovativi è diventato più difficile o almeno, come detto sopra, ambivalente rispetto al rapporto valore dell’innovazione "premium price” (Keogh, 1999). Ma questo non dovrebbe rendere troppo conservative le imprese. Che i dirigenti siano più conservatori dei proprietari rispetto al rischio innovazione per alcuni è legato ai sistemi di valutazione spesso collegati ai risultati delle attività di base e alle prestazioni relative e anche ai criteri di assunzione (e.g. Hill e Snell, 1988) cosi come la tendenza a valutare sul breve termine, mentre i risultati degli sforzi per l’innovazione sono inevitabilmente di lungo termine prima di materializzarsi (CaranikasWalker et al., 2008). C’è quindi un conflitto fra gli orientamenti e i desideri dei manager e dei titolari in termini di rischio accettabile per l’innovazione, per cui gli imprenditori vorrebbero spesso manager più capaci di sostenere il rischio mentre questi si preoccupano di enfatizzare i risultati a breve e non viceversa ossia verso gli alti investimenti richiesi dall’innovazione. Nel contesto della PMI spesso il rapporto si rovescia perche è il titolare che non vuole uscire dal suo comfort stage visto che innovazione = rischio e invece i dirigenti che magari provengono da aziende di maggiori dimensioni hanno una maggiore propensione al cambiamento anche per dimostrare la propria capacità di gestirlo rispetto allo status quo di cui i titolari sono soddisfatti e vorrebbero mantenere senza troppi rischi. Naturalmente il rischio degli investimenti in innovazione è dato dalla possibilità che questa fallisca commercialmente per questo insisteremo sul fatto che si sviluppi maggiormente sia la capacità di definire meglio la nuova proposta di prodotto che la capacità di selezione portafoglio progetti. L’altro aspetto di inerzia organizzativa collegato è che cambiare esperienza non solo è disconfortevole ma cambia anche le competenze critiche (e chi le possiede-controlla). In molti settori le nuove tecnologie agiscono da nuovi paradigmi, ossia rappresentano una rottura rispetto alle precedenti. Questi nuovi paradigmi, pur nascendo in ambiti specifici, vengono applicati rapidamente in altri settori, seguono cioè percorsi di trasferimento tecnologico orizzontali. Si parla di tecnologie “pervasive” o “abilitanti”, in quanto sottendono a sviluppi in numerosi settori applicativi. Un esempio tra i più significativi è sicuramente l’avvento delle tecnologie di rete, un cambiamento paradigmatico rispetto alle tecnologie in uso fino alla metà degli anni Novanta.
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Ma “se le imprese vogliono sopravvivere e prosperare nel XXI secolo devono valutare attentamente la loro capacità innovativa e sviluppare piani strategici per migliorare i loro innovation skills” (Higgins, 1995). Anche condividendo l’ipotesi di fondo che l’innovazione sia oggi probabilmente il driver più robusto dello sviluppo competitivo ai diversi livelli, i vertici dell’azienda si lamentano spesso di non riuscire a mettere in pratica l’innovazione nelle loro organizzazioni e di non riuscire efficacemente a tradurre idee in prodotti di successo. Non è sufficiente creare una strategia o costruire processi di innovazione; bisogna costruire e fondare l’innovazione sull’organizzazione complessiva. L’innovazione che ha successo richiede di scegliere, costruire e preparare la giusta organizzazione e le persone valide per realizzare e bilanciare l’organizzazione. Nel Progetto Skill-Inn si è cercato di vedere proprio come cambia il ruolo del manager tecnico nel nuovo processo di innovazione aperta. Il rischio dei modelli basati solo sull’esperienza, ossia se il manager risponde ai nuovi segnali con la sua esperienza cumulata in passato, può essere rischioso di fronte a cambiamenti discontinui per cui i modelli basati sull’esperienza possono diventare il maggior ostacolo per realizzare il bisogno di cambiamento. Il rischio in questa prospettiva che si rifà all’esperienza, quindi necessariamente al passato e ancor più a contesti diversi e “superati”, è quello di avere un’organizzazione che rifiuta di accettare informazioni prima ancora di cercarle ove non siano in linea con il proprio modello di successo stabilizzato rispetto al quale magari si hanno opportunistici riscontri positivi da fornitori, clienti e altri. Coniugando la logica open e la prospettiva di processo dell’innovazione, si evidenzia la centralità del sistema di relazioni e di rapporti per la crescita della PMI e l’esigenza di sviluppare soluzioni e interventi sulle competenze di ruolo per affrontare le esigenze successive allo sviluppo di relazioni. Tale sviluppo relazionale è inteso soprattutto rispetto al posizionamento nelle reti in generale e per molti nella filiera specifica (intesa come innovation supply network). Anche se si deve porre attenzione al posizionamento nella “filiera dell’innovazione”: se sono in una filiera forte “a rete governata” rischio di essere anche fortemente vincolato. Quindi questo inserimento forte in rete comporta maggiore complessità e quindi maggior differenziazione da integrare, quando si è visto che molte aziende scontano ancora problemi di integrazione interfunzionale interna. Il collegarsi della logica open al contesto a rete come substrato del processo di innovazione, interessa del nostro punto di vista in quanto sembra far emergere (ovvero richiedere) nuove forme di organizzazione caratterizzate dalla riduzione della gerarchia come meccanismo di coordi-
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namento, con effetti diretti su ruoli e competenze. Ma per integrarsi verso l’esterno bisogna prima sviluppare un efficace livello di integrazione interna. Questo passaggio, collegato a quello di vedersi in una prospettiva di open innovation, non è facile da un punto di vista organizzativo, culturale innanzitutto. Infatti, pur percependone i vantaggi sul piano delle performance, si avverte anche la parziale perdita dei confini di impresa, con l’esigenza di adeguarsi e vivere professionalmente in un nuovo contesto con riferimenti diversi. Si pensi al modificarsi del concetto di autorità e del rapporto proprietà/controllo. Si può dire che oggi: • l’innovazione è decentrata e riguarda virtualmente tutte le parti del sistema; • viene superata la distinzione tra chi produce nuova conoscenza e chi sfrutta quella esistente; • l’intelligenza è distribuita e diffusa nel sistema; • il compito di esplorare e innovare (nuovi prodotti, mercati, tecnologie) non è più appannaggio di funzioni specializzate, ma è diffuso in tutta l’organizzazione; • le nuove tecnologie, tramite connessioni virtuali, favoriscono modalità di coordinamento decentrate, leggere e differenziate; • i confini organizzativi, tradizionalmente intesi, si riducono favorendo, per esempio, la partecipazione creativa di clienti e fornitori allo sviluppo dei prodotti/servizi; • diventano centrali le competenze di gestione quali la capacità di negoziare tra mondi professionali e organizzativi differenti, di gestire conflitti e far “convergere gli opposti”. Il successo delle aziende innovative sembra fortemente collegato ad alcuni valori che pervadono la loro cultura organizzativa: la convinzione, per esempio, che la generazione di nuove idee riguardi tutti coloro che a diverso titolo lavorano in azienda; l’opportunità di non “riservare” un’area all’ideazione ma di invitare ogni lavoratore, dalla propria postazione, a dare il proprio prezioso contributo all’innovazione; la necessità di “assicurarsi” un flusso continuo di nuove idee per guadagnare e consolidare posizioni di leadership nel mercato. L’ulteriore opportunità nello sfruttare la logica dell’open innovation, si realizza nell’aprirsi verso il contesto esterno e i suoi “contenuti” di conoscenza: ci si rapporta a Università e Centri di Ricerca, ma anche a Fornitori e Clienti: è possibile in tal modo effettuare sperimentazioni sui propri progetti ma anche co-sviluppare componenti avanzati e inoltre acquisire, quando necessario, risorse umane a elevata competenza. Parlando di Centri
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di Ricerca vedremo nel cap. 5 come i Dottorati di Ricerca stiano dando risultati positivi quando vengano inseriti in medie imprese. Importante sembra essere l’identificazione ancor prima dell’acquisizione e condivisione delle conoscenze, non solo tecnologiche e ancor più importante l’adattamento e l’uso di queste conoscenze rendendole operative attraverso reti informali e strumenti formali come database o altri tools. Ciò in modo che l’innovazione (e parallelamente la “creazione di conoscenza”) venga a rappresentare nell’impresa un processo integrato nelle attività aziendali routinarie, distribuito in tutte le fasi, programmabile e governabile in una visione di medio periodo condivisa. Questo è stato sperimentato anche attraverso l’uso di metodologie di comunicazione e integrazione sia verticale che orizzontale, come il Technology Road Mapping.
6. Considerazioni post experience Succede anche che l’innovazione non sempre sia riconosciuta come sorgente prima del vantaggio competitivo, specie nelle PMI, da parte dei titolari e/o dal management, che vedono il cambiamento come rischioso e preferiscono ricordare e rimirare le esperienze di successo passate sperando che continuino a mantenersi tali, con un po’ di miopia come ben diceva Levitt. Può essere basata su innovazioni scientifiche o tecnologiche che sembrano difficilmente acquisibili o compatibili con le competenze organizzative. L’importanza della tecnologia non può essere sottostimata anche se questa non sempre viene immediatamente riconosciuta. Il problema che si pone eventualmente oggi è come una PMI di questo tipo possa fare innovazione radicale senza fare ricerca, come abbiamo visto in precedenza, nel senso stretto del termine. Per questo la capacità innovativa consiste anche nella capacità di integrare in modo equilibrato mainstream e newstream (Lawson, 2001) ovvero la capacità di integrare, anche attraverso una migliore e strutturata analisi del portafoglio progetti, le attività correnti per creare profitto nel breve termine con l’innovazione nel medio-lungo. Ciò per mezzo dell’apporto di idee, proposte, soluzioni cui tutti concorrono (acquisti, vendite, progettazione, produzione ecc.). La sequenza dalla ricerca di base attraverso la tecnologia ai nuovi prodotti e processi, resta importante, ma cresce il convincimento che l’innovazione dipenda principalmente dall’interazione fra utilizzatori, produttori e ricercatori. Il concetto di absorptive capacity è un elemento importante per chiarire il ruolo della conoscenza basata sull’esperienza. Sostiene come la cono-
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scenza acquisita (precedente) permetta di riconoscere nuova conoscenza, assimilarla e utilizzarla a proprio vantaggio. Inoltre integra la dimensione interna con quella esterna dell’innovazione collegando l’evoluzione della tecnologia essenzialmente esterna, specie nelle PMI, con le dimensioni interne dell’apprendimento. Così gli investimenti in innovazione “…da una parte generano conoscenza utile a innovare e dall’altra incrementano lo stock di conoscenze necessarie a svelare ulteriori bisogni conoscitivi e a individuare le fonti di conoscenza esterne che possono soddisfarli” (Morrison, 2006). L’absorptive capacity si sviluppa quindi all’interno dell’impresa ed esprime la relazione che l’apprendimento individuale fornisce all’attività di innovazione considerando anche la capacità delle singole imprese di relazionarsi con l’ambiente esterno. Il rischio dei modelli chiusi basati solo sull’esperienza è quello di rispondere ai nuovi segnali con schemi superati o anche di non coglierli nemmeno, di fronte a cambiamenti discontinui. Inoltre essi possono consolidare la già molto diffusa “Steve Jobs sindrome”: “Sappiamo noi cosa vorranno i clienti”. Il rischio in questa prospettiva che si rifà a esperienze necessariamente passate e ancor più in contesti diversi e “superati” è che si finisca per rifiutare di accettare informazioni e prima ancora di cercarle ove non siano in linea con un modello di successo stabilizzato.
7. Il processo di sviluppo nuovo prodotto: un modello dinamico di riferimento Pur riconoscendo la presenza di numerosi fattori critici di successo di diversa natura, abbiamo deciso di focalizzare l’attenzione prevalentemente sul processo di sviluppo nuovo prodotto a livello organizzativo ricorrendo a un modello di rappresentazione che ci consenta di collocare i diversi ruoli e competenze rispetto alle attività. La capacità innovativa affonda le sue radici nella robustezza di ciò che si riesce a “costruire” nei due spazi fondamentali che devono essere attraversati nel difficile percorso dell’innovazione di prodotto: 1. lo spazio dell’identificazione delle opportunità, che richiede grande apertura verso l’esterno, capacità di assorbimento di nuove conoscenze, creatività sistematica; 2. lo spazio dello sviluppo di tali opportunità in prodotti industrialmente producibili, dove è critica la focalizzazione sul cliente, la capacità di sperimentazione rapida e anticipata di soluzioni alternative,
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l’integrazione prodotto-processo e la velocità di progettazione ingegneristica. I due spazi della capacità innovativa sono illustrati metaforicamente nella fig. 1 che visualizza il percorso dell’innovazione con la forma dell’imbuto (innovation funnel). La bocca dell’imbuto è rappresentativa della fase divergente-creativa-esplorativa dell’identificazione delle opportunità; fase che si concretizza in un insieme di concept preliminari di prodotto. La parte finale dell’imbuto, che si restringe progressivamente per evidenziare la riduzione dell’incertezza e la convergenza verso la soluzione tecnica che sarà poi commercializzata, illustra la fase della trasformazione delle idee di prodotto in prodotti disponibili per la commercializzazione (sviluppo del prodotto). Figura 1 – Il funnel dell’innovazione
Un concept preliminare di prodotto è la forma embrionale di un nuovo prodotto e consiste in una visione ad alto livello della soluzione che si pensa di offrire per rispondere alle opportunità di mercato; è il seme che in futuro potrebbe crescere e trasformarsi in una innovazione di successo, è la descrizione verbale e/o visiva di un nuovo prodotto che sintetizza, a grandi linee, i benefici per gli utilizzatori e i clienti, la forma e le tecnologie ipotizzate. Rappresenta una sorta di “dichiarazione di intenti” (mission statement, Ulrich ed Eppinger, 2008) che dà il via al processo di sviluppo del nuovo prodotto. 62
La fase dell’identificazione delle opportunità può essere visivamente rappresentata in forma circolare: le attività costitutive della parte frontale dell’imbuto non costituiscono infatti un classico processo lineare, sequenziale. L’intelligence sui mercati e sulle tecnologie e gli sforzi creativi di generazione dei concept preliminari sono attività fra loro asincrone e distribuite nel tempo; attività che dovrebbero essere svolte regolarmente, in momenti diversi, dall’impresa per costruire quello stock di conoscenze e idee che poi possono essere “lanciate” nella parte finale dell’imbuto. L’immagine circolare vuole infatti rappresentare il fatto che tali attività costituiscono il motore, la ruota dell’innovazione: senza un adeguato flusso di opportunità (i concetti preliminari di prodotto) dalle quali selezionare progetti di innovazione ad alto valore, l’abilità e l’efficienza nella fase successiva di sviluppo sono risorse sprecate. La parte finale dell’imbuto – sviluppo del prodotto – prende avvio da un concept preliminare di prodotto che è stato selezionato e ritenuto promettente; vi sono due fasi fondamentali di sviluppo: • la fase di sviluppo del concept (o di definizione del prodotto); • la fase di progettazione di dettaglio del prodotto e del sistema logisticoproduttivo (progettazione prodotto/processo). L’output dello sviluppo del concept tipicamente comprende: la descrizione dei segmenti di mercato-target e dei canali per raggiungere tali segmenti; il prezzo del prodotto; le funzionalità; le caratteristiche e l’architettura preliminare; le tecnologie sui cui si baserà il prodotto; la determinazione delle risorse necessarie per completare lo sviluppo. Non vi sono necessariamente le specifiche tecniche di dettaglio, in quanto vengono generalmente sviluppate nella fase di progettazione ingegneristica (si veda Bacon et al., 1994). Il documento di definizione del prodotto rappresenta il punto di riferimento per la progettazione di dettaglio e la sua creazione richiede la valutazione dei bisogni dei clienti, dei prodotti della concorrenza, dei rischi e delle opportunità tecnologiche e dell’ambiente normativo in cui il prodotto andrà collocato. La progettazione di dettaglio trasforma la definizione del prodotto in un oggetto producibile e commercializzabile. In letteratura vi sono alcuni autori che usano il termine concept per riferirsi al risultato della fase di sviluppo del concept. Per esempio Clark e Fujimoto (1991) affermano che il concept di prodotto “specifica in quale modo le funzioni, la struttura e i messaggi associati al prodotto attireranno e soddisferanno i potenziali clienti”; il concept deve, quindi, definire con chiarezza le seguenti 4 dimensioni del prodotto: ciò che il prodotto fa; ciò che il prodotto è; a chi serve il prodotto; ciò che il prodotto significa. In Ulrich ed Eppinger (2008) il concept è la “descrizione della forma, delle
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funzioni e delle caratteristiche di un prodotto ed è solitamente accompagnato da un insieme di specifiche, da un’analisi di prodotti competitivi e da una giustificazione economica del progetto”. Altri autori, invece, usano la parola concept per riferirsi a un’idea di prodotto non ancora ben definita; in tal senso abbiamo utilizzato la dizione “concept preliminare”. L’identificazione delle opportunità e lo sviluppo del concept (ovvero tutte quelle attività che avvengono prima della progettazione ingegneristica di dettaglio) vengono identificate in letteratura come il front end dell’innovazione o, spesso, il fuzzy front end (Smith e Reinertsen, 1991), dove l’aggettivo fuzzy (sfuocato) è utilizzato per evidenziare la natura incerta, non sequenziale e spesso imprevedibile delle attività iniziali di ricerca ed esplorazione delle nuove idee di prodotto; caratteristiche da contrapporre alla maggiore strutturazione e formalizzazione delle successive attività di progettazione di dettaglio; altre denominazioni di tale fase riconosciute a livello internazionale sono: front end of innovation (Koen, 2005); early stages of the product development (Nobelius, 2000), early innovation phases (Lichtenthaler e altri, 2004), pre-development (Hüsig e Kohn, 2003), preproject activities (idem). Il front end rappresenta, generalmente, la fase che offre grandi opportunità di miglioramento dell’intero processo di innovazione. Molte ricerche, infatti, sostengono che il successo nell’innovazione di prodotto sia profondamente legato alle fasi iniziali del ciclo di vita del prodotto stesso (Clark e Wheelwright, 1993). L’importanza delle attività che precedono la progettazione di dettaglio di prodotto/processo è stata validata empiricamente in ben note ricerche fondate su survey estese (Cooper e Kleinschmidt, 1994; 1995). Parallelamente all’importanza riconosciuta alle fasi iniziali del processo innovativo, il front end è paradossalmente l’area dove spesso si riscontrano le maggiori debolezze aziendali nell’ambito dell’intero processo innovativo (Khurana e Rosenthal, 1997; 1998). Molto si è, infatti, investito nella velocizzazione dei processi di sviluppo prodotto al fine di comprimere il time to market, con l’effetto di concentrare l’attenzione sulle fasi finali del processo in quanto più facilmente e naturalmente strutturabili; ma migliorare le fasi a valle ignorando la qualità di quelle a monte, potrebbe rivelarsi uno sforzo dai risultati deludenti. Nella rappresentazione dell’imbuto dell’innovazione che abbiamo descritto nelle pagine precedenti abbiamo implicitamente ipotizzato che l’impresa affronti il mercato in base a un “catalogo” di prodotti o componenti, ovvero che gli ordini dei clienti siano relativi a oggetti predefiniti (o, al massimo, con scelte di personalizzazione che hanno un impatto marginale
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sulle attività di progettazione). Nel contesto delle aziende dove la progettazione ingegneristica del prodotto è realizzata su specifiche del cliente (aziende ETO – Engineer To Order), l’attività innovativa assume delle connotazioni particolari che è bene evidenziare. Le aziende che operano in base a un catalogo instaurano un rapporto con il mercato di tipo “propositivo” in quanto propongono al potenziale cliente di acquistare un prodotto/servizio già definito (o da personalizzare con una certa combinazione di opzioni). Le aziende, invece, della categoria ETO – disponendo di una certa capacità tecnica – propongono al mercato semplicemente la propria candidatura per l’assegnazione di una commessa, il che – pur essendo naturalmente una “proposta” – non rappresenta certamente l’offerta di un prodotto già definito in tutte le sue caratteristiche. In fig. 2 abbiamo declinato il modello dell’imbuto nel caso di aziende ETO: il cliente è “dentro” l’imbuto in quanto lo sviluppo del concept (che in questo contesto è l’elaborazione dell’offerta al cliente) nasce da una richiesta specifica di un cliente specifico. I concept preliminari nella parte frontale dell’imbuto possono anch’essi essere sviluppati a fronte di un primo contatto informativo con un cliente, ma possono anche essere anticipati dall’impresa in forma di “capacità tecnica di risoluzione di un problema” da presentare a potenziali clienti; è di conseguenza ovvio che l’intelligence e il presidio dei mercati e delle tecnologie sono attività assolutamente centrali e critiche anche in questo particolare contesto. Figura 2 – L’imbuto dell’innovazione nel caso ETO
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Nel caso ETO essere innovativi significa dunque essere in grado di rinnovare in modo costante le proprie capacità tecniche, quelle capacità che consentono all’impresa di definire e sviluppare efficacemente il prodotto richiesto dal cliente e che consentono di differenziare le proprie modalità di “gestione della commessa” da quelle dei concorrenti. La parte frontale dell’innovazione consiste quindi nel costante sforzo di sviluppare le conoscenze e le tecnologie necessarie per gestire le commesse (padroneggiando per esempio nuove tecnologie da incorporare nel prodotto richiesto dal cliente, introducendo nuovi servizi nella fase di definizione della commessa ecc.): lo sviluppo di tali capacità è naturalmente fondato sulla profonda conoscenza del mercato (clienti, concorrenti e ambiente) e sulle tecnologie. La sezione iniziale dell’imbuto ha la funzione di generare nuove conoscenze e competenze che vengono poi utilizzate nelle attività finali di gestione delle singole commesse. La fase di gestione delle commesse nel caso ETO è concettualmente simile alla fase di “sviluppo del prodotto” nella situazione di prodotti a catalogo; naturalmente il punto di avvio è diverso: non più il concept preliminare di prodotto autonomamente sviluppato, ma una richiesta di offerta di uno specifico cliente. Nelle pagine che seguono descriveremo analiticamente il modello dell’innovation funnel; il contesto di riferimento è quindi quello delle aziende che affrontano il mercato in base a un “catalogo” di prodotti o componenti. Le riflessioni che andremo a sviluppare possono però essere facilmente adattate al caso delle aziende ETO utilizzando la figura 2 come schema di riferimento. Torniamo al funnel generale.
7.1. Fase 1: L’identificazione delle opportunità La macro-fase di identificazione delle opportunità è costituita da tre attività principali; anche se la sequenza logica vedrebbe le attività di intelligence (sui mercati e sulle tecnologie) precedere la generazione dei concept preliminari di prodotto: abbiamo voluto illustrare la relazione di circolarità tra di esse. Come si è prima evidenziato, la fase frontale dell’innovazione, per gli alti livelli di incertezza che debbono essere affrontati, non si sviluppa in modo necessariamente lineare; anzi nella realtà le attività seguono spesso una logica iterativa. Questo aspetto si riflette nel modello grafico che mette in luce la relazione non sequenziale fra le tre attività costitutive il front end.
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L’innovazione di prodotto è la ricerca di “nuovi incastri” tra i bisogni che vengono espressi dal mercato-target e le soluzioni che “risolvono” tali bisogni (Ulwick, 2002): l’intelligence sui mercati e sulle tecnologie sono quindi le due colonne portanti della capacità innovativa.
7.2. Intelligence e presidio dei mercati L’intelligence e il presidio dei mercati fa riferimento a tutte quelle attività di analisi sulla domanda, sull’offerta e sull’ambiente in cui domanda e offerta sono immersi. Tali attività devono mirare a costruire un adeguato stock di conoscenza su quattro fronti. • Segmentazione del mercato: esiste un’esplicita, chiara e condivisa segmentazione del mercato? La scelta non facile delle variabili di segmentazione è stata ben ponderata in funzione della loro capacità di cogliere le differenze nel mercato? • Motivazioni dei clienti: i segmenti di mercato sono caratterizzati da una lista esplicita, chiara e condivisa delle motivazioni di acquisto dei clienti? Quali cambiamenti stanno avvenendo su questi fattori e quali sono le possibili evoluzioni future delle motivazioni di acquisto? • Concorrenza: vengono realizzati report oggettivi e sistematici di analisi e comparazione dei prodotti della concorrenza? Sono disponibili informazioni aggiornate sulle performance economico-finanziarie dei concorrenti?
7.3. Intelligence e presidio delle tecnologie L’intelligence e il presidio delle tecnologie comprende da un lato attività di Technology Intelligence e dall’altro lato attività di acquisizione delle tecnologie. L’intelligence sulle tecnologie è lo sviluppo della presa di coscienza delle tecnologie che sono o che possono essere in futuro importanti per l’azienda. Le attività di acquisizione riguardano la selezione delle tecnologie critiche per il business e l’appropriazione delle tecnologie selezionate, la selezione è evidentemente un processo critico in quanto indirizza gli investimenti finanziari e di capitale umano e potrebbe limitare le opzioni future. Le tradizionali attività di ricerca e di ricerca applicata svolte nei laboratori interni all’azienda rappresentano solo una delle modalità di appropriazione. Le tecnologie possono essere acquisite esternamente attraverso accordi di
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licensing o di joint venture, attraverso l’acquisizione di componenti o sottosistemi che contengono la tecnologia di interesse o, ancora, attraverso accordi di collaborazione per lo sviluppo congiunto di particolari competenze tecnologiche. Questa visione delle attività di acquisizione delle tecnologie manifesta in modo chiaro il paradigma dell’Open Innovation: l’innovazione di successo non può più basarsi sul controllo (il modello dell’innovazione chiusa, regno della sindrome del not invented here), ma sulla porosità del confine fra azienda e ambiente esterno: essere capaci di identificare e utilizzare le conoscenze sviluppate altrove è un essenziale ingrediente della capacità innovativa dell’impresa.
7.4. Generazione e selezione dei concept preliminari di prodotto La generazione dei concept preliminari di prodotto è il momento della sintesi creativa delle conoscenze sulle opportunità di mercato e sulle tecnologie disponibili; è il processo che, sulla base delle conoscenze accumulate nelle attività di ricerca precedentemente descritte, trasforma le informazioni sul mercato e le opportunità tecnologiche in concept preliminare. Come si è chiarito in precedenza, un concept preliminare di prodotto è la forma embrionale di un nuovo prodotto e consiste in una visione ad alto livello della soluzione che si pensa di offrire per rispondere a delle opportunità di mercato, è il seme che in futuro potrebbe crescere e trasformarsi in una innovazione di successo. La generazione dei concept è un processo complesso di ideazione e selezione. La fase di ideazione può concretizzarsi in forme molto diverse: da processi creativi totalmente lasciati alla casualità della creatività individuale a processi sistematicamente “progettati” e gestiti con opportuni meccanismi organizzativi centrati sull’organizzazione di eventi che possano influenzare direttamente o indirettamente la produzione delle idee: in letteratura si utilizza spesso l’espressione idea management per far riferimento ai processi strutturati di generazione e archiviazione delle idee (si vedano Belliveau et al., 2002; Montoya et al., 2006; Koen et al., 2001). Le sorgenti delle idee possono essere le persone interne o esterne all’azienda, per esempio clienti, fornitori, consulenti o, addirittura, il “pubblico” – persone qualsiasi che si mettono in contatto con l’azienda attraverso il web (si pensi al recente sviluppo dei software di crowdsourcing con i quali è possibile lanciare sulla rete alla “folla” delle sfide di creatività o di problem solving su determinate problematiche tecnico-scientifi-
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che che l’impresa con le sue risorse interne non ritiene di essere in grado di risolvere al meglio). La fase di selezione concerne la progettazione degli strumenti e dei meccanismi per la valutazione e la selezione dei concept sui quali investire per proseguire il viaggio nell’imbuto dell’innovazione.
8. Fase 2: Lo sviluppo del prodotto Lo sviluppo dei prodotti è il processo che trasforma il concept preliminare di prodotto in un prodotto vendibile con un processo produttivo industrializzato. Come si è visto in precedenza, due sono i momenti fondamentali: • la fase di sviluppo del concept (definizione del prodotto), finalizzata a dettagliare e concretizzare le informazioni embrionali contenute in un concept preliminare di prodotto, trasformandole in una “definizione integrata del prodotto” che contiene da un lato la specificazione del prodotto che si desidera sviluppare (i requisiti di prodotto in termini di caratteristiche generali e target di mercato, funzionalità, perfomance critiche attese, forma e architettura preliminare, value proposition ecc.) e dall’altro lato le ipotesi di ricavi, costi e investimenti (il potenziale economico del prodotto in termini di ricchezza prodotta durante il suo ciclo di vita); • la fase della progettazione di dettaglio del prodotto e del sistema logistico produttivo. Le due fasi sono legate da un legame ricorsivo per mettere in luce che la definizione del prodotto può evolvere anche durante la progettazione di dettaglio (questo fenomeno è stato definito “flessibilità del processo di sviluppo”: Biazzo, 2009): malgrado i cambiamenti nei requisiti e nelle funzionalità attese possano avere effetti negativi nei costi e nei tempi di sviluppo, in molte situazioni risulta non percorribile “congelare” la definizione del prodotto per tutta la durata della fase di progettazione. Un tema estremamente critico è la capacità di gestire in modo sistematico e ragionato i cambiamenti nella definizione del prodotto al fine di ricercare quel delicato e fondamentale equilibro fra una eccessiva rigidità nel “congelamento” dei requisiti di prodotto che potrebbe comportare modifiche al prodotto stesso successive al lancio sul mercato e una flessibilità non pianificata che degenera facilmente nel classico problema dello scope creep del progetto (i cambiamenti non controllati sull’ampiezza del progetto attraverso l’aggiunta di nuove feature o l’escalation delle performance richieste al prodotto).
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8.1. Sviluppo del concept La fase di sviluppo del concept è costituita da due attività fondamentali: • comprensione dei bisogni dei clienti (appartenenti ai mercatiobiettivo) e identificazione delle opportunità in termini di bisogni da aggredire; • definizione del prodotto ed elaborazione del business case: identificazione chiara della value proposition del prodotto e del suo posizionamento rispetto alla concorrenza; esplorazione delle possibili soluzioni tecniche al fine di stimare costi di produzione, investimenti e tempi di sviluppo. Questi due momenti logici nello sviluppo del concept riflettono la netta separazione che dovrebbe essere mantenuta fra lo “spazio dei bisogni” e lo “spazio delle soluzioni”. Lo spazio dei bisogni descrive le esigenze dei clienti rispetto alle attività (di natura funzionale e anche emozionale, come per esempio segnalare l’appartenenza a un gruppo attraverso il possesso di un certo oggetto) che vengono svolte attraverso un prodotto; rappresentano il “perché”, la ragion d’essere delle caratteristiche funzionali, prestazionali e simboliche dei prodotti. Identificare i bisogni significa comprendere i motivi per cui certe feature del prodotto hanno valore per i clienti. La ricerca sui bisogni (la cosiddetta ricerca VOC – Voice of the Customer) è, spesso, la parte più debole del processo di innovazione, soprattutto nelle imprese di minore dimensione; l’assunzione di conoscere perfettamente i bisogni dei propri clienti è un atteggiamento mentale sempre in agguato, che fa corto-circuitare il processo di sviluppo dei nuovi prodotti. Non è raro incontrare manager o imprenditori che non credono nell’utilità di una ricerca sistematica dei bisogni dei clienti, affermazioni spesso accompagnate dall’immancabile mantra “conosciamo già i bisogni dei clienti”. Naturalmente è ovvio che molti bisogni sono, in linea generale, conosciuti dall’impresa, è una competenza esperienziale che viene implicitamente sviluppata nel tempo. Ciò che non è ovvio e scontato è la conoscenza accurata e di dettaglio degli specifici bisogni che un determinato prodotto deve cogliere per essere di successo. Conoscenza che si manifesta nella raccolta di un insieme consistente di bisogni, espressi in modo preciso e non ambiguo (quindi, non affermazioni generiche del tipo “facile da usare”, che a nulla servono come input per lo sviluppo di un prodotto), organizzati e pesati in funzione della loro importanza relativa nella prospettiva del cliente. È il dettaglio nell’identificazione dei bisogni che fa la differenza nell’innovazione di prodotto.
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8.2. Progettazione di dettaglio La progettazione di dettaglio fa riferimento a tutte le attività ingegneristiche di sviluppo tecnico del prodotto e del processo produttivo. Pur avendo una forte specificità in relazione alla tipologia di prodotto, il processo di progettazione di dettaglio è schematizzabile in 4 attività fondamentali (Ulrich ed Eppinger, 2008): • progettazione a livello di sistema: comprende la definizione dell’architettura di dettaglio del prodotto, ovvero la suddivisione del prodotto in sottosistemi e componenti. L’informazione in uscita da questa fase è solitamente il layout del prodotto, una specifica funzionale per ciascuno dei sottosistemi del prodotto e un diagramma di flusso preliminare per il processo produttivo; • progettazione sottosistemi: comprende la definizione completa della geometria, dei materiali e delle tolleranze delle singole parti del prodotto e l’identificazione di tutte le parti standardizzate che saranno acquistate dai fornitori. Definisce il processo di produzione e le lavorazioni per ciascun componente da fabbricare all’interno del sistema produttivo aziendale. Il risultato di questa fase è una documentazione tecnica con disegni e file che descrivono i componenti del prodotto e le sue lavorazioni, le specifiche delle parti da acquistare e il processo di produzione del prodotto; • sperimentazione e miglioramento: la costruzione e la valutazione di vari prototipi del prodotto, sia fisici che analitici (come le simulazioni al computer e i modelli geometrici tridimensionali); • avviamento della produzione: nell’attività di avviamento della produzione (pre-serie, ramp-up produttivo) il prodotto viene costruito utilizzando il sistema produttivo previsto. Lo scopo dell’attività di avviamento è di addestrare il personale, comprendere lo stato di affidabilità del processo produttivo e del prodotto e risolvere i problemi emergenti prima di rilasciare ufficialmente il prodotto nel mercato. L’aumento della varietà dei prodotti e l’accettazione delle richieste di personalizzazione è un trend evidente (e spesso ineludibile) in moltissimi settori, che la letteratura ha definito come mass customization. Lo sforzo di allineare l’offerta con un insieme di bisogni dei clienti sempre più eterogeneo e variegato può generare importanti effetti indesiderati sul fronte delle performance operative dell’impresa: innalzamento dei livelli delle scorte; aumento dei tempi di consegna e dei costi diretti e indiretti; elevati costi di acquisti derivati da diseconomie di scala; sovraccarico sui reparti coinvolti nello sviluppo dei nuovi prodotti.
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Offrire una ampia varietà di prodotti mantenendo efficienza e rapidità di consegna costituisce una complessa sfida progettuale che ruota attorno alle scelte sull’architettura di prodotto: ogni prodotto è realizzato assemblando alcuni elementi costruttivi (building blocks); l’architettura di prodotto è lo “schema” secondo il quale le diverse funzioni sono realizzate dai building blocks del prodotto stesso. Nell’ambito della progettazione di dettaglio sta quindi assumendo sempre più rilevanza e criticità la fase di progettazione di sistema, nella quale si dedica attenzione alle scelte architetturali e alla gestione del trade-off fra personalizzazione dei prodotti ed efficienza.
9. Progettare e gestire il funnel Abbiamo iniziato il capitolo affermando che la capacità innovativa non si fonda sugli improvvisi colpi di genio, ma sulle caratteristiche e sulle modalità di funzionamento dell’innovation funnel; caratteristiche e modalità di funzionamento che vanno esplicitamente e razionalmente progettate e implementate. Figura 3 – Progettare e gestire l’innovation funnel
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Tre sono le aree di intervento: Analisi e sistematica progettazione dell’architettura del funnel: quali attività dovrebbero essere svolte per identificare le opportunità di inno72
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vazione? Chi deve essere coinvolto? Quali strumenti e metodi dobbiamo utilizzare? Come e con quali modalità organizzative devono essere definiti i requisiti di prodotto? Quali sono i momenti decisionali fondamentali nella fase di sviluppo del prodotto? Come devono essere gestite le eventuali modifiche nei requisiti del prodotto? Implementazione di adeguate modalità organizzative e operative di gestione dei singoli progetti di sviluppo prodotto: come viene definito il gruppo di progetto? Quali metodologie e strumenti dovremmo utilizzare per governare tempi, costi e qualità? Adozione di strumenti e tecniche di gestione del portafoglio dei progetti al fine di allocare efficacemente le risorse finanziarie e umane.
10. Progettare l’architettura dell’innovation funnel La progettazione dell’architettura dell’innovation funnel può essere metaforicamente immaginata come la costruzione della strada da percorrere (il “processo di innovazione”) per identificare e poi trasformare le opportunità in prodotti. Lo sforzo di dare una “forma” all’imbuto è una importante leva di competizione, perché è in questa attività di “progettazione organizzativa” che si costruisce il fondamento della capacità innovativa inserendo pratiche innovative prima trascurate, modificando i flussi informativi ridondanti, ridefinendo le sequenze di attività. Un processo ben definito (e questo, come ribadiremo nelle pagine seguenti, non vuol dire burocratico) dovrebbe concretizzare le conoscenze aziendali sulle migliori pratiche da adottare nel gestire un progetto di innovazione; l’assenza di un processo (o, peggio, la presenza di un processo formalizzato su carta, ma di fatto ignorato) è un segnale di potenzialità innovative inespresse. Nel progettare l’architettura vi sono tre sfide da affrontare: la prima riguarda l’apertura della bocca dell’imbuto, per essere efficaci è necessario espandere la base di conoscenza e l’accesso alle informazioni per aumentare il numero delle idee di prodotto e delle opportunità. La seconda sfida è relativa al restringimento dell’imbuto: la grande varietà di opportunità e concept va adeguatamente selezionata e trasformata in chiari requisiti di prodotto per allocare le risorse finanziarie e umane nei progetti ritenuti maggiormente attrattivi. La terza sfida è nell’accorciare la parte finale dell’imbuto, ovvero assicurare che i progetti selezionati raggiungano gli obiettivi con velocità ed efficienza. Un modello di riferimento per la progettazione del back-end dell’innovation funnel è il sistema “Stage-Gate” sviluppato da Cooper et al.
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(2002a, 2005), estremamente diffuso e noto a livello internazionale. Il sistema Stage-Gate è un processo strutturato in fasi e cancelli: ogni fase (Stage) è composta da una serie di “buone pratiche” che devono essere attivate per progredire fino al punto decisionale rappresentato dal Gate (cancello); i cancelli rappresentano i momenti decisionali interdisciplinari nei quali si verifica il raggiungimento degli obiettivi della fase precedente e si decide l’avanzamento del progetto alla fase successiva. Non è raro imbattersi nell’idea che la strutturazione stessa del processo di innovazione (e in particolare la realizzazione di un sistema StageGate) produca necessariamente burocratizzazione, ovvero spreco, lentezza e inefficienza. Tale concezione della strutturazione è, a nostro avviso, assai pericolosa e fuorviante. Strutturare un processo non significa necessariamente irrigidire le attività con documentazioni e controlli ma garantire che nello svolgimento delle attività vengano adottate metodologie, tecniche e strumenti correlati con alti livelli di performance innovative. È quindi evidente che l’esito della strutturazione dipenderà dal livello di competenza dei “progettisti” del processo sul tema delle good practice nella gestione dell’innovazione. È molto probabile che l’equazione strutturazione-burocratizzazione sia influenzata dalle norme ISO 9001 che spesso inducono l’impresa a una logica di “conformità cerimoniale”, ovvero alla separazione fra il reale funzionamento dei processi aziendali e le prescrizioni procedurali del sistema qualità formale; le verifiche ispettive, infatti, sono spesso legate alla cultura della conformità a modelli e procedure invece che essere basate sull’efficacia delle azioni e dei risultati (si veda Biazzo, 2005). L’equazione strutturazione-burocratizzazione è inoltre influenzata dall’implicita assunzione che la definizione di un processo debba essere necessariamente realizzata con diagrammi orientati alla specificazione di dettaglio del flusso di lavoro (come i tradizionali e diffusi flowchart dei manuali qualità). Anche questa visione è pericolosa e fuorviante: i diagrammi di flusso sono adeguati nel rappresentare processi a bassi livelli di incertezza e a contenuto prevalentemente transazionale; sono del tutto inadatti a rappresentare i processi di innovazione, caratterizzati da incertezza, variabilità e iterazione. Un tema che negli ultimi anni ha destato una notevole attenzione è quello della flessibilità dei processi di sviluppo del prodotto. Si definiscono flessibili quei processi di sviluppo che sono in grado di gestire, senza eccessivi impatti negativi nei tempi e nei costi del progetto, modifiche alla definizione del prodotto durante la progettazione di dettaglio del prodotto e del processo produttivo.
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L’interesse verso la flessibilità nasce dall’osservazione delle pratiche adottate da aziende con alte performance innovative operanti in condizioni di elevata incertezza e dinamicità riguardo ai bisogni del mercato e alle scelte tecnologiche di prodotto e di processo. L’incertezza relativa al mercato deriva dalle difficoltà di comprensione delle esigenze dei clienti e dalle difficoltà di traduzione di tali esigenze in caratteristiche funzionali e simboliche del prodotto; l’incertezza tecnica è, invece, legata al grado di novità delle soluzioni progettuali che dovranno essere esplorate. L’incertezza iniziale si riduce progressivamente nel corso del processo di sviluppo prodotto grazie all’acquisizione di informazioni e alla risoluzione dei problemi progettuali; allo stesso tempo, però, i costi e i tempi delle modifiche impreviste dovute a cambiamenti esterni (per esempio la richiesta di modifica nelle feature del prodotto causata dal lancio di un prodotto della concorrenza) o interni (la scoperta di una soluzione tecnica migliore) crescono nelle fasi avanzate del processo (Verganti, 2001; Thomke e Reinertsen, 1998). Una modalità per affrontare il problema delle costose iterazioni dovute a modifiche impreviste è l’anticipazione di informazioni incerte, ovvero il tentativo di analizzare quanto prima vincoli e opportunità future e di “congelare” le decisioni fondamentali riguardanti il prodotto e il processo produttivo (Souder e Moenaert, 1992); la strategia di anticipazione si concretizza in una definizione precisa e precoce del prodotto (Kalyanaram e Krishnan, 1997). Una seconda modalità per affrontare l’incertezza nello sviluppo di nuovi prodotti è la reazione (Verganti, 1999), ovvero la capacità di introdurre rapidamente (e senza eccessivi aumenti di costo) modifiche nelle fasi avanzate del progetto, ritardando il “congelamento” della definizione del prodotto e avvicinandolo quanto possibile al momento dell’introduzione sul mercato. Alcuni ricercatori (Iansiti, 1995; MacCormack e Verganti, 2003) propongono una dicotomia fortemente suggestiva: la contrapposizione fra il modello dei processi flessibili – caratterizzato dal ritardo del congelamento della definizione del prodotto e dalla capacità di adattamento rapido – e il modello “tradizionale” che è contraddistinto da una modalità di definizione del prodotto precisa e precoce e che viene associato ai processi Stage-Gate. I processi Stage-Gate vengono considerati adeguati ed efficaci in contesti sufficientemente stabili, in quanto coerenti con la ricerca dell’anticipazione e del congelamento del maggior numero possibile di decisioni; i processi flessibili sono invece consonanti con situazioni ambientali caratterizzate da elevata turbolenza, ovvero in contesti dove il cambiamento (tecnico e di mercato) è frequente e di dimensioni significative.
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In un recente articolo abbiamo dimostrato come anche quest’ultima equivalenza fra sistemi Stage-Gate e mancanza di flessibilità sia, in realtà, l’effetto di una visione distorta del concetto di strutturazione (si veda Biazzo, 2009). Un processo strutturato in “fasi e cancelli” non è necessariamente rigido: non sarà flessibile quella particolare configurazione di Stage-Gate che prevede una fase iniziale di sviluppo del concetto di prodotto limitatamente sperimentale che si conclude con una definizione precisa e intenzionalmente bloccata del prodotto. Il livello di flessibilità dipenderà dalle scelte sulle modalità di gestione dell’evoluzione della definizione del prodotto e sul livello di dettaglio richiesto nel documento dei requisiti di prodotto.
11. Gestire i progetti di sviluppo prodotto La gestione dei progetti di sviluppo fa riferimento alle attività di pianificazione e coordinamento delle risorse e delle attività necessarie per trasformare i concept preliminari in prodotti industrializzati (project management – PM). Due sono le dimensioni del PM: una dimensione organizzativa che riguarda la definizione del gruppo di progetto e una dimensione operativa che riguarda le metodologie e le tecniche di pianificazione e controllo di progetti. La definizione del gruppo di progetto riguarda, da un lato, la sua composizione in termini di eterogeneità delle risorse apportate dalle singole funzioni aziendali e dall’altro l’individuazione dei ruoli organizzativi chiave, in particolare il profilo del capo progetto. Un’importante caratteristica del gruppo di progetto è la sua composizione interfunzionale, ovvero la varietà di abilità e conoscenze specialistiche rappresentate al suo interno. Il ricorso a gruppi interfunzionali è la soluzione che in modo più evidente è associata al raggiungimento di risultati innovativi significativi e adottata con frequenza crescente nelle organizzazioni. La pratica manageriale e anche le ricerche sul campo convergono nel rilevare l’importanza cruciale della figura del “capo progetto”: indipendentemente dalle specifiche configurazioni di responsabilità e autorità che tale ruolo può assumere, su questa figura si scaricano gran parte delle notevoli tensioni generate dalla ricerca degli inevitabili trade-off fra esigenze spesso contrastanti di cui gli specialisti funzionali sono portatori. In letteratura si distinguono fondamentalmente due tipologie di project manager: “leggero” e “pesante”. Un project manager è definito “leggero” quando non ha responsabilità diretta sulle risorse operative assegnate al progetto e ri-
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mane di fatto in posizione subordinata rispetto ai responsabili di funzione: è un ruolo di coordinamento che si esplicita nel controllo dell’avanzamento del progetto e nella gestione dei flussi informativi. Nel caso del project manager “pesante” le responsabilità vanno oltre il semplice coordinamento: egli è in prima persona responsabile dello sviluppo del concept di prodotto ed è il garante della visione e delle caratteristiche fondamentali del prodotto nel corso del progetto, ha le competenze tecniche per dominare la progettazione architetturale del prodotto (è un “system designer”, si veda Ward, 2007) e contemporaneamente ha le caratteristiche dell’imprenditore (visione del business legato al prodotto e sensibilità economico-finanziaria), ha una forte influenza sulle risorse coinvolte nel progetto e occupa una posizione di primaria importanza nell’organizzazione, confrontabile con quella dei responsabili di funzione. La letteratura tradizionale evidenzia che la scelta sul tipo di project manager (leggero o pesante) dovrebbe dipendere dalla complessità e dai livelli di incertezza che devono essere fronteggiati nel corso del progetto: alti livelli di complessità e incertezza devono essere gestiti da project manager pesanti. Noi crediamo, invece, che un ruolo forte del project manager sia essenziale qualunque siano le caratteristiche del progetto; un team deve avere una guida, deve essere gestito e non “amministrato” da un coordinatore. È quasi inevitabile che il project manager debole si trasformi in un burocrate annoiato, in un “contabile” degli stati di avanzamento del progetto. Per quanto riguarda la dimensione operativa del project management, è possibile scorgere due paradigmi di riferimento nell’impostazione delle attività di pianificazione e controllo: il paradigma razionale e il paradigma relazionale. Il paradigma razionale è caratterizzato da una sequenza di metodologie di programmazione che costituiscono il corpus classico di conoscenze sul project management: 1. la scomposizione strutturata del progetto al fine di definire tutte le azioni da svolgere per il raggiungimento dell’obiettivo (WBS – Work Breakdown Structure): scopo fondamentale della scomposizione è l’individuazione dei pacchetti elementari di lavoro (work package), che rappresentano quelle attività gestibili in maniera indipendente e assegnabili a un unico responsabile; 2. l’elaborazione del reticolo delle attività, definendo i vincoli logici di precedenza fra i vari work package e stimandone la durata; 3. il calcolo delle date di inizio e fine delle varie attività utilizzando tipicamente il metodo del “percorso critico” (CPM – Critical Path Method) o, più raramente, il metodo PERT – Program Evaluation and Re-
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view Technique che adotta un modello probabilistico per la stima della durata delle attività basato su tre valori: durata ottimistica, pessimistica e media. Con tali metodi si arriva a determinare il margine di flessibilità (float, slack) delle singole attività, ovvero di quanto è possibile slittare l’esecuzione dell’attività senza che ne risenta la data di fine progetto. Il percorso critico è costituito dalle attività con margine di flessibilità pari a zero; 4. il controllo dello stato di avanzamento del progetto, attraverso la verifica degli scostamenti rispetto a quanto pianificato con l’ausilio, per esempio, di un diagramma a barre di attività su scala temporale (diagramma di Gantt). Come è noto l’applicazione di tali metodologie si è spesso dimostrata assai deludente: le tecniche razionali di pianificazione non danno i frutti sperati, le schedulazioni CPM si rivelano irrealistiche e poco utili per gestire l’avanzamento del progetto, trasformandosi in documenti sganciati dalla realtà o occasionalmente aggiornati ai meri fini di reportistica o di comunicazione verso l’esterno. Questa insoddisfazione verso gli approcci tradizionali e razionali al project management, che ancor oggi dominano la letteratura sulla gestione dei progetti, ha stimolato recentemente una riflessione critica sulle basi teoriche e sulle metodologie di gestione dei progetti (si veda Koskela e Howell, 2002). Il punto centrale delle iniziative di “riforma del project management” è l’abbandono dell’immagine del progetto come reticolo di attività (di cui stimare durate e determinare legami oggettivi di interdipendenza), per lasciare spazio all’idea che il progetto è, prima di tutto, un reticolo di persone. Due sono le conseguenze fondamentali di questa prospettiva, che possiamo definire relazionale: • la pianificazione non può essere separata dall’azione e quindi: non è possibile (e non ha senso) pianificare l’intero reticolo delle attività all’inizio; la pianificazione è un evento continuo e i dettagli si formano progressivamente nel tempo (i piani devono quindi essere di tipo rolling wave), l’atto del “pianificare” è una attività di coordinamento che deve essere svolta da chi svolge il lavoro operativo; • il progetto è una rete di discussioni, impegni e azioni e quindi: la pianificazione deve essere un evento collaborativo e sociale, è una “conversazione” in cui i responsabili delle attività si assumono impegni reciprochi sullo svolgimento dei compiti; le relazioni temporali fra attività sono il frutto di una “contrattazione” fra i responsabili delle attività stesse (e non un attributo intrinseco di interdipendenza fra attività astratte); la durata di un’attività è anch’essa (naturalmente entro un
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certo range di valori) frutto di una “contrattazione” che dipende dalle esigenze del “cliente” a valle.
12. Gestione del portafoglio progetti La strategia di innovazione definisce le arene competitive dell’impresa in termini di combinazioni prodotti/mercati e le modalità di competizione attraverso il portafoglio dei prodotti messi in campo da essa. La specificazione delle arene strategiche è fondamentale in quanto orienta gli sforzi di innovazione e sviluppo dei prodotti e riduce la possibilità che la ricerca di nuove idee o opportunità di prodotto sia poco focalizzata, con la potenziale dissipazione di energia in iniziative poco correlate e sinergiche (si veda Cooper ed Edgett, 2010). Le scelte strategiche prendono vita nel momento in cui l’impresa inizia a investire: è il portafoglio dei progetti che concretizza la strategia di innovazione stabilendo dove allocare le risorse finanziarie e umane. La gestione del portafoglio progetti (portfolio management) è quel processo decisionale dinamico attraverso il quale una lista di progetti di innovazione di prodotto è costantemente riesaminata e aggiornata. Mediante tale processo i nuovi progetti sono valutati, selezionati e infine ordinati per priorità, i progetti già attivi possono essere abbandonati o viceversa accelerati e le risorse disponibili possono essere allocate o riallocate tra progetti attivi (Cooper e altri, 1999). La gestione del portafoglio progetti è vitale per il successo competitivo e reddituale dell’impresa per tre ragioni fondamentali: • gestire il portafoglio significa di fatto concretizzare e rendere operativa la strategia aziendale (quali prodotti, mercati e tecnologie verranno aggrediti?); • gestire il portafoglio significa definire l’allocazione di risorse preziose e scarse di progettazione, marketing e produzione; • gestire il portafoglio significa ricercare il bilanciamento negli investimenti tenendo conto dei trade-off tra rischiosità e profittabilità, tra sostegno della posizione competitiva acquisita e sforzi di ulteriore crescita, tra progetti di innovazione a lungo e a breve termine. Non gestire, o gestire in modo inefficace e approssimativo, il portafoglio progetti ha generalmente delle importanti e pericolose conseguenze (Cooper e altri, 2000): • troppi progetti e sovraccarico delle risorse: l’elenco dei progetti attivi tende a gonfiarsi con eccessiva facilità; le risorse finanziarie e di personale risultano eccessivamente disperse e la qualità dell’esecuzione ne
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risente. La mancanza di risorse è solo un lato del problema; l’altro lato è l’incapacità di allocare le risorse in modo efficace; • mancanza di discriminazione fra i progetti, che amplifica il problema dell’allocazione efficace delle risorse; • mancanza di bilanciamento tra un orientamento al breve e al lungo periodo: i progetti di breve periodo (riduzioni di costo, estensioni di linee di prodotto, modifiche incrementali nelle performance) sono certamente importanti, il problema è l’eccessivo assorbimento di risorse da parte di questi progetti a scapito di altri più rischiosi che mirano a costruire la capacità competitiva del futuro. Senza una visione strategica e una gestione esplicita del portafoglio progetti, le scelte tattiche inevitabilmente prevalgono e favoriscono i progetti con un impatto economico-finanziario più immediato e meno incerto. Tre sono gli obiettivi fondamentali della gestione del portafoglio: • massimizzare il valore del portafoglio allocando le risorse in modo da massimizzare il valore con riferimento a certi indicatori; • ottenere un portafoglio bilanciato in relazione a differenti parametri, tra cui per esempio: presenza di progetti a lungo termine rispetto a progetti a breve termine, presenza di progetti ad alto rischio e alto potenziale rispetto a progetti a basso rischio ma minor potenziale, presenza di progetti che richiedono differenti livelli di sforzo innovativo; • ottenere un portafoglio che rispecchi e valorizzi la strategia aziendale (allineamento strategico) in termini di allocazione delle risorse nelle aree di interesse strategico – prodotti, mercati e tecnologie – e di aderenza dei singoli progetti alla missione aziendale. Per massimizzare il valore del portafoglio progetti si sono sperimentati nel corso degli anni molti metodi differenti per costruire delle liste di priorità, da quelli di impronta prettamente finanziaria (che considerano indici quali il Return on Investment del progetto o il Valore Attuale Netto) ai cosiddetti scoring model. Negli scoring model i progetti ricevono dei punteggi in relazione a un certo numero di criteri (come per esempio l’allineamento con la strategia aziendale, la fattibilità tecnica, l’attrattività del prodotto), la somma (semplice o pesata) di tutti i punteggi collezionati da un progetto determina il punteggio totale del progetto stesso (Project Score). I metodi più frequentemente utilizzati per gestire il bilanciamento del portafoglio progetti si fondano sulla rappresentazione visiva del portafoglio in uno spazio (generalmente bidimensionale per ragioni di semplicità) che accoglie le dimensioni di performance che devono essere bilanciate, tali rappresentazioni vengono spesso denominate bubble diagram in quanto i progetti sono rappresentati da cerchi (la cui aree sono proporzionali al-
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l’entità del progetto, valutato per esempio in termini di costi di sviluppo o all’importanza strategica) collocati nel diagramma cartesiano che accoglie le due dimensioni da bilanciare. Due classiche dimensioni sono il rischio e le aspettative di ritorno dell’investimento, un tale diagramma consente di individuare quattro categorie di progetti: le perle (elevati ritorni previsti ed elevata probabilità di successo tecnico): sono ovviamente i progetti potenzialmente più forti e ricercati; le ostriche (elevati ritorni potenziali ma bassa probabilità di successo tecnico): sono progetti che scommettono su tecnologie ancora in fase di sviluppo e corrispondono a potenziali prodotti vincenti sul mercato ma sono anche soggetti a forti rischi di insuccesso tecnico; le noci di burro (elevata probabilità di successo tecnico ma bassi ritorni previsti): sono di solito progetti piuttosto semplici da attuare ma con moderate potenzialità finanziarie; gli elefanti bianchi (scarse probabilità di successo tecnico e scarsi ritorni previsti). L’obiettivo dell’allineamento strategico può essere perseguito secondo una modalità top-down o, all’opposto, con una logica bottom-up. Nella modalità top-down le risorse disponibili vengono allocate tra una serie di categorie predeterminate di progetti che costituiscono i “contenitori” nei quali si allocano le risorse aziendali disponibili (strategic bucket). A ogni bucket viene destinata una quota del budget e le priorità vengono discusse all’interno di ogni categoria: se, per esempio sono stati definiti tre contenitori (progetti di nuovi prodotti, riduzioni di costo, varianti di prodotti esistenti) un progetto di un nuovo prodotto non si confronta con un progetto di riduzione costo ma solo con i progetti della stessa natura e con il limite di budget assegnato alla categoria “nuovi prodotti”. La logica bottom-up consiste, invece, nell’incorporare i criteri dell’allineamento strategico nei tool di selezione dei progetti: il problema è quindi quello di includere un numero significativo di criteri strategici nei metodi di scoring discussi in precedenza.
13. Prospettive future Le capacità e le modalità di innovazione evolvono, secondo tre stadi (Xu, 2004); nel primo l’innovazione si presenta come evento, nel secondo viene stabilizzato il processo di innovazione, nel terzo si lavora e ci si basa sulla capacità innovativa come fattore organizzativo integrato. I tre stadi si sviluppano da un lato per rispondere a complessità di innovazione crescenti, dall’altro lato generano crescente capacità di creare valore. Per questo l’innovazione oggi richiede qualcosa in più di brillanti ricercatori, ma anche
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leaders, ottimi manager, imprenditorialità, una adeguata struttura organizzativa, un atteggiamento mentale che pervada l’intera azienda. “Il fatto che si possano mettere attorno a un tavolo dodici persone inesperte e condurre una sessione di brainstorming che produca nuove eccitanti idee mostra come le idee in sé abbiano oggi relativamente poca importanza. Le risorse scarse sono le persone che hanno know-how, energia, audacia e corretto uso del potere per implementare le idee. Gli avvocati della creatività devono una volta per tutte capire quali sono i fatti che pressano la vita dei manager: ogni volta che viene sottoposta loro una nuova idea questa gli crea ulteriori problemi (e di solito ne hanno già) (Levitt, 2006). Un’impresa acquista un vantaggio competitivo quando il suo prodotto raggiunge livelli apprezzati dagli utilizzatori e superiori a quelli dei concorrenti. Ma l’origine primaria del vantaggio non sta nel prodotto in sé, ma in quella gamma di capacità necessarie per ottenerlo e che comprendono le risorse materiali, le relazioni e soprattutto il capitale umano. L’innovazione richiede quindi ruoli diffusi con persone con approfondite e aggiornate conoscenze tecniche, capacità di relazione e integrazione interna ed esterna, ampiezza di visione e di prospettiva temporale e contemporaneamente capacità di realizzazione e focalizzazione sui risultati da ottenere attraverso persone/organizzazione/processi. Se questo è vero, in prospettiva la capacità relazionale diventa un “capitale” fondamentale per lo sviluppo d’impresa. Ma questo inserimento forte in rete comporta maggiore complessità e quindi maggior differenziazione da integrare, quando si è visto che molte aziende scontano ancora problemi di integrazione interfunzionale interna. Le reali fonti del vantaggio competitivo vanno quindi ricercate nella capacità del management di trasformare le abilità tecnico-produttive in competenze di base e in capacità di comunicazione, integrazione, apprendimento e cambiamento. Questo spostamento è dovuto anche alla crescente de-materializzazione delle attività che nei Paesi più avanzati è in atto da circa due decenni, favorita dello sviluppo delle information technologies, con perdita progressiva di importanza delle risorse fisiche a vantaggio di quelle immateriali. Diventa quindi importante non solo l’acquisizione e la condivisione delle conoscenze non solo tecnologiche ma anche l’uso di queste conoscenze, la capacità di renderle operative attraverso reti informali e strumenti formali come database o altri tools. In altre parole è necessario sviluppare proposte su come realizzare le idee piuttosto che semplici brief. La disponibilità di competenze si allarga di molto entrando nella logica open (Chesbrough, 2008) stando però attenti che se le reti digitali favori-
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scono sempre più l’utilizzo di competenze e capacità esterne all’impresa, ciò che essa mantiene (e accumula) vengono a essere le competenze di base (o distintive), la cui natura e tipo di controllo si possono sintetizzare nella tabella di seguito riportata. Tabella 2 Natura delle risorse
Risorse interne
Risorse esterne
Risorse tangibili
Impianti, attrezzature, capitali
Input intermedi e prodotti/componenti acquistati
Risorse intangibili
Capacità di apprendimento, competenze, skill
Competenze e capacità di terzi utilizzabili dall’impresa
L’importanza della risorsa umana e del suo livello di preparazione si rivelano elemento essenziale per l’avvio di ogni tipologia di processo di innovazione, rappresentando quegli asset intangibili che possiedono la conoscenza e le competenze tecniche e organizzative, ma anche i diritti di proprietà intellettuale, le licenze, i marchi, i software, i network formali e informali di contatti con fornitori e clienti. Ed è alla risorsa umana, grazie alla sua valorizzazione, che il progetto si indirizza per implementare la struttura organizzativa aziendale, mirando a creare persone preparate con motivazione elevata e capacità di iniziativa e discrezionali per proporre, analizzare, gestire i processi di innovazione. Ciò in modo che l’innovazione (e parallelamente la “creazione di conoscenza”) venga a rappresentare nell’impresa un processo: • integrato nelle attività aziendali routinarie; • distribuito in tutte le fasi dell’attività produttiva; • condiviso il più ampiamente possibile e comunque alle persone coinvolte nel processo; • programmabile e governabile in una visione di medio periodo. La risorsa umana si rivela quindi indispensabile per poter accedere alle fonti di conoscenza e raggiungere quell’incremento di conoscenza che permette l’innovazione. Tale innovazione diventa anche più difficile nella PMI che senza ricerca parte spesso da situazioni di nicchia basate sull’esperienza, su una (ormai sfruttata) idea di partenza e ha quindi difficoltà a proiettare e allargare la logica esperienza in situazioni in cui la velocità del cambiamento non consente il suo formarsi. Da qui o la prospettiva open o quella della fertilizzazione incrociata. Ma c’è un vincolo da superare: “Le persone imparano veramente qualcosa di nuovo quando sospendono i loro disbeliefs di fronte a idee provocatrici che possono ridisegnare il loro pensare” (Mintzberg, 2004). 83
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3. GUIDA ALLA METODOLOGIA PER LA RILEVAZIONE DELLE COMPETENZE IN AMBITI NON FORMALI E INFORMALI DI APPRENDIMENTO di Salvatore Garbellano
Premessa: finalità e struttura della guida La Guida intende offrire un supporto metodologico e operativo alle persone che hanno responsabilità nel processo di rilevazione delle competenze formali e informali utilizzando la metodologia proposta ed eleborata dall’European Qualification Framework (EQF), in particolare: valutatori, facilitatori, consulenti e specialisti di organizzazione e gestione del personale, responsabili di progetti di rilevazione delle competenze. La metodologia è stata sviluppata per il progetto Skill-Inn focalizzando, quindi, l’attenzione sui processi di innovazione nelle imprese, ma i risultati ottenuti in termini di individuazione delle competenze in ambiti non formali e informali suggeriscono che il know-how acquisito dal team di persone dedicate al progetto possa esser trasferito a tutti coloro i quali sono interessati a svolgere queste attività in altri contesti, settori e processi. Al fine di facilitare questo trasferimento di know-how la Guida si caratterizza per un elevato livello di operatività: pertanto, si sono privilegiati tutti gli aspetti che possono condurre a effettuare rilevazioni i cui esiti siano utili alle persone, alle imprese e alle organizzazioni. Di conseguenza, in maniera deliberata, non sono state esaminate le pur ricche e complesse tematiche di carattere teorico, che sono alla base o influenzano i processi di rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali di apprendimento. Pertanto nella Guida vengono descritti: • gli aspetti generali che caratterizzano la metodologia; • le informazioni necessarie per applicare in modo corretto la metodologia step by step; • le criticità più ricorrenti; • i suggerimenti e gli esempi utili per portare a buon fine le rilevazioni.
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La sperimentazione della metodologia è avvenuta lungo l’intera realizzazione del Progetto Skill-Inn. Come è stato affermato in sede di presentazione del Progetto e ribadito nel corso delle attività la rilevazione in oggetto deve osservare i seguenti aspetti: • focalizzazione sulle competenze connesse principalmente ai processi di innovazione di prodotto; • utilizzo del modello innovation funnel per descrivere il processo di innovazione; • impiego del modello EQF; • recepimento della sintassi di riferimento per la denominazione e descrizione delle competenze e dei loro elementi così come indicato dalla Regione del Veneto. In particolare, l’utilizzo del modello EQF è stato formalmente richiesto dalla Regione stessa. Su specifica richiesta del committente, si è sperimentata anche la valutazione delle competenze secondo i livelli previsti dall’EQF, seppure non sia stata ancora definita la specifica metodologica su questo aspetto. La metodologia sperimentata e di seguito presentata risponde agli aspetti sopra indicati. A questo scopo è stata elaborata una Scheda (riportata nell’Allegato 1) che si compone di 4 parti: • parte 0: dati di base sull’azienda, l’intervistato o gli intervistati; • parte 1: introduzione finalizzata a individuare e cogliere le caratteristiche principali dell’azienda e le informazioni maggiormente rilevanti sulla persona o le persone intervistate; • parte 2: finalizzata a individuare le competenze connesse al processo di innovazione di prodotto così come configurato nel modello innovation funnel, distinguendo i diversi subprocessi o macro fasi. • parte 3: dati di riepilogo. La Guida si compone di cinque paragrafi: 1. Aspetti generali e Parte O della Scheda; 2. La Parte 1 della Scheda; 3. La Parte 2 e la Parte 3 della Scheda; 4. Cenni sull’attribuzione del livello EQF; 5. Conclusioni.
1. Gli aspetti generali e la Parte 0 della Scheda In questa unità della Guida si presentano le indicazioni che riguardano la prima fase dell’incontro di rilevazione delle competenze formali
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e di quelle informali: è la fase introduttiva in cui l’intervistato presenta il progetto e raccoglie le informazioni di base sull’intervistato e sull’azienda. Figura 1 – La fase introduttiva dell’intervista Presentazione dell’iniziativa: Finalità Contenuti Metodi Fonte: la figura è tratta dalla nota del professor Vincenzo Sarchielli
Prima di utilizzare la Scheda, è necessario che l’intervistatore presenti e condivida con l’intervistato gli obiettivi del Progetto, i risultati attesi, i ritorni/vantaggi per l’azienda e l’intervistato stesso. È bene che l’intervistatore impieghi il tempo che riterrà opportuno al fine di chiarire dubbi e rispondere alle domande poste dall’intervistato. Questa fase preliminare è di grande rilevanza in quanto occorre creare un clima di collaborazione e di fiducia reciproca necessario per portare a buon fine l’intervista. In particolare, occorre che l’intervistatore chiarisca nel modo più efficace possibile sia le finalità e le modalità dell’intervista sia il modo in cui i risultati dell’intervista saranno utilizzati. Questa fase rappresenta una parte critica dell’intero processo di rilevazione: costituisce, infatti, il momento in cui si stipula tra intervistato e intervistatore un vero e proprio “accordo psicologico” necessario per far cadere o quanto meno diminuire le possibili resistenze che sono spesso presenti in questo tipo di valutazioni. Pertanto, è opportuno che l’intervistatore percepisca tutti quei fattori, a volte non detti in modo esplicito, che possano ostacolare la realizzazione di un clima di fiducia reciproca senza il quale l’intero processo ne risulterà influenzato o quanto meno rallentato. Occorre quindi evitare che l’intervistatore faccia ricorso a ogni espressione, anche involontaria, che possa suscitare nell’intervistato dubbi o possa creare o rinforzare forme di resistenza. Al contrario, è opportuno che egli evidenzi tutto ciò che crei o alimenti la fiducia dell’intervistato. Per esempio, può risultare utile evidenziare che: • un numero rilevante di imprese abbia deciso di far parte del progetto;
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•
sono già state realizzate un certo numero di interviste con figure professionali simili a quelli dell’intervistato; • l’indagine si focalizza su figure chiave nelle aziende ecc. La scheda non deve essere necessariamente consegnata all’intervistato, ma è importante che venga presentata in modo tale da condividerne sia le logiche che sono alla base, sia la sua articolazione. In particolare durante questa spiegazione occorre che l’intervistatore mostri la scheda ancora in bianco così da dare supporto a questa presentazione. Durante l’intervista non è opportuno porre eccessiva enfasi alla metodologia dell’EQF adoperata dalla ricerca. È, infatti, piuttosto difficile presentare tale metodologia in pochi minuti. Il rischio è che si dedichi molto tempo agli aspetti tecnici a discapito della ricerca e dell’acquisizione di informazioni rilevanti. È comunque opportuno ricordare all’intervistato che l’EQF: 1. costituisce una metodologia di analisi e valutazione delle competenze che si caratterizza per essere stata elaborata, promossa e “sponsorizzata” dall’Unione Europea (e pertanto, non costituisce una metodologia di proprietà di un’azienda o di una società di consulenza); 2. è utilizzata in contesti caratterizzati da alta innovazione e knowledge intensive di cui l’intervistato è parte integrante; 3. l’utilizzo della metodologie è stato voluto dalla Regione del Veneto per sperimentare sul campo uno strumento che presto sarà oggetto di comunicazione e si ritiene che sarà applicato in modo diffuso in un prossimo futuro; 4. le informazioni raccolte attraverso la metodologia in oggetto saranno finalizzate a predisporre azioni e programmi di promozione dell’innovazione nelle aziende (per esempio, programmi di formazione, interventi di sostegno ecc.); 5. tutte le informazioni sulla metodologia EQF sono disponibili in rete presso una pluralità di siti gestiti da autorità e organismi europei e, pertanto, l’intervistato qualora interessato ad approfondire questi aspetti potrà sempre effettuare ricerche sui siti presenti in Internet. Pertanto non è opportuno dedicare tempo a tentare di spiegare cosa è un’Abilità, una Conoscenza o Competenza secondo il modello EQF: il rischio sarebbe quello di indirizzare l’incontro su tematiche eccessivamente “tecniche”, da “addetti ai lavori” per chi opera nel campo della gestione delle persone nelle organizzazioni. Un ulteriore aspetto da tener presente è il seguente: diverse aziende soprattutto quelle strutturate in termini di gestione del personale già utilizzano altre metodologie e altri linguaggi in tema di analisi e valutazio-
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ne delle competenze. In questi casi, tentare di spiegare le differenze o i punti in comune tra le due metodologie diventa cosa ardua e soprattutto time consuming. Le stesse considerazioni sin qui effettuate sulla metodologia valgono per il modello dell’innovation funnel. Anche per il modello del funnel è sufficiente dedicare il tempo necessario per effettuare una sintetica presentazione delle principali caratteristiche. Per esempio, è opportuno evidenziare le principali macro-fasi e i relativi processi indicando le attività più significative, mostrando, se del caso, la figura del modello. Infine, occorre fare attenzione al setting, al luogo in cui si svolgono le interviste. Anche per queste infatti valgono i medesimi principi e le medesime “regole” che sono da applicare nelle interviste di rilevazione e valutazione delle competenze. Pertanto, è opportuno richiedere all’Ufficio del Personale una sala riunioni in cui si svolgerà il colloquio; evitare per quanto possibile le interruzioni; ridurre al minimo l’uso del telefonino ecc.
1.1. La raccolta delle informazioni, le indicazioni generali È opportuno che l’intervistatore raccolga e solleciti l’intervistato a presentare i processi di innovazione in cui ha svolto un ruolo significativo e, per esempio, a narrare casi concreti di innovazione di cui è stato responsabile o ai quali ha partecipato. Questi esempi concreti di innovazione devono essere: 1. significativi per rappresentare sia esempi di innovazione ideati e implementati dall’azienda sia dalla professionalità dell’intervistato; 2. complessi per evidenziare i processi agiti, i soggetti interni/esterni coinvolti, le tecnologie e il know-how attivato, le risorse utilizzate; 3. recenti in modo tale da tener in considerazione gli aspetti competivi, organizzativi e gestionali attuali; 4. di successo per mettere in evidenza sia i risultati ottenuti, sia le criticità superate. L’intervistatore deve contribuire all’individuazione degli esempi e dei casi concreti narrati e deve fare grande attenzione che siano effettivamente rilevanti al fine del raggiugimento degli obiettivi della ricerca. Durante l’intervista, l’utilizzo della scheda non deve essere effettuato in modo rigido e strettamente sequenziale. Allo stesso modo, occorre evitare di porre domande a risposta chiusa (per esempio, sì/no).
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La scheda costituisce il supporto alla narrazione effettuata dall’intervistato che deve sempre essere guidata, condotta e gestita dall’intervistatore al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. Le macro fasi e i relativi processi sono quelli indicati nel modello di innovazione “funnel”. Non è necessario compilare tutta la scheda qualora risulti dall’intervista che una macro fase o un processo non sia implementato nell’azienda intervistata oppure, più semplicemente, non venga posto in essere dall’intervistato o dagli intervistati. Qualora ci si trovi nella situazione ora descritta, l’intervista evidenzierà soltanto i processi aziendali implementati e, quindi, le competenze saranno rilevate soltanto per tali processi. Ai fini dell’indagine costituiscono, infatti, informazioni rilevanti sia le attività realizzate dall’intervistato, sia quelle che non sono realizzate. In una fase successiva le informazioni acquisite potranno essere consolidate sia a livello di singola impresa sia a un livello più ampio (per esempio: settore, territorio). Gli esempi delle attività inserite e già presenti nella Scheda sono stati individuati attraverso l’analisi del modello di innovazione “funnel” e hanno la finalità di far acquisire una visione più articolata e concreta del processo di innovazione sia per l’intervistato che per l’intervistatore. Così come indicato per le macro fasi e i processi, anche per le attività, non è necessario compilare tutta la scheda qualora risulti dall’intervista che l’attività non sia implementata nell’azienda intervistata oppure, più semplicemente, non venga posta in essere dall’intervistato o dagli intervistati. Per rilevare situazioni specifiche, per ogni macro-attività prevista dal modello, si è ritenuto opportuno lasciare nella scheda alcuni spazi in bianco qualora l’intervistato effettui una pluralità di specifiche azioni.
1.2. La formulazione delle domande Molte domande poste durante l’intervista possono richiedere un maggiore approfondimento, non essendo domande dirette (per esempio quelle riferite a dimensioni quantitative/economiche ecc.) o chiuse. In questi casi, occorre che l’intervistatore faccia in modo che l’intervistato abbia il tempo per elaborare una risposta adeguata e, se necessario, aiutandolo a focalizzare la propria attenzione. Per esempio, formulando: • risposte neutre: che incoraggino l’intervistato a esprimersi ulterior-
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mente e non contengano alcun commento. Pertanto tendono ad acquisire ulteriori informazioni, oltre a quelle già possedute (per esempio, “Già, mi dica ancora, a questo proposito…”, “interessante” ecc.); • risposte eco: che consistono in riformulazioni al fine di esprimere interesse e dare segnali di attenzione, incoraggiandolo ad arricchire ciò che sta dicendo; • risposte interpretative: che consistono in riformulazioni con l’aggiunta di un’interpretazione di cui si voglia avere certezza. È importante non dare segnali valutativi su quanto l’intervistato sta affermando o comunicando.
1.3. La Parte 0 della Scheda La Parte 0 della scheda ha come oggetto informazioni di base sull’azienda, la (o le) persone intervistate, il nome dell’intervistatore. Pertanto costituisce la parte “anagrafica” del documento che consente di raccogliere le informazioni di base sull’azienda, l’intervistato e l’intervistatore, necessarie sia per la successiva elaborazione delle informazioni, sia per acquisire le informazioni su come contattare le persone e le aziende in cui si svolge la rilevazione.
2. La Parte 1 della Scheda Una volta effettuata la parte introduttiva, si avvia la parte centrale del lavoro. Figura 2 – La fase centrale dell’intervista L’intervista e l’Indagine La descrizione e l’analisi delle attività svolte per processi (Cfr. imbuto dell’innovazione) (Le competenze)
Fonte: dalla nota del professor Vincenzo Sarchielli
La Parte 1 della Scheda intende raggiungere 4 finalità. 1. Raccogliere le informazioni di base sulle esperienze professionali che
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hanno avuto maggiore impatto nello sviluppo del know-how della persona intervistata, sul titolo di studio conseguito e i principali corsi di formazione frequentati. 2. Individuare il contesto organizzativo entro cui i processi di innovazione rilevanti ai fini dell’indagine sono effettuati. Questo aspetto ha grande rilevanza, pertanto, è opportuno rilevare: – numero di dipendenti dell’azienda; – caratteristiche dell’azienda (per esempio, se è di tipo familiare, se fa parte di un gruppo nazionale o internazionale); – business in cui l’azienda è presente; – principali clienti; – esposizione internazionale dell’azienda; – complessità della produzione e/o della tecnologia utilizzata. 3. Individuare le fasi del processo di innovazione/sviluppo prodotto in cui è inserita l’attività/professione della persona intervistata. Se si ritiene opportuno, si può effettuare o richiedere all’intervistato di produrre una rappresentazione grafica del disegno organizzativo e dello schema sintetico del processo. 4. Ricostruire le principali fasi della biografia professionale: per esempio, indicando non soltanto il titolo di studio ottenuto e i principali corsi di formazione ai quali ha partecipato, ma anche rilevando in quali aziende ha lavorato, se queste aziende hanno una struttura manageriale, quali responsabilità ha assunto, cosa ha imparato ecc.
3. Le Parti 2 e 3 della Scheda La Parte 2 della Scheda si articola in due parti presenti in un medesimo foglio di lavoro: • la Parte A posta a sinistra nella Scheda riguarda i processi manageriali connessi all’innovazione, secondo il modello innovation funnel: Attività Realizzate
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Ruoli coinvolti
Risultati (a ogni attività deve essere riconducibile un risultato)
Punti di attenzione/ criticità
la Parte B, posta a destra nella Scheda, è dedicata alla rilevazione dell’apprendimento secondo il modello dell’EQF:
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Conoscenze
Abilità
(EQF: insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di studio e lavoro)
(EQF: cognitive, comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo o pratiche, comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti)
Lessico Una locuzione: per esempio, metodi, tecniche, processi, procedure ecc. + Un sostantivo che ne specifichi il riferimento (per esempio “di vendita”, “controllo qualità”)
Lessico Verbo che esprime un’operazione concreta (per esempio utilizzare, applicare ecc.) + Un sostantivo che esprime l’oggetto dell’operazione e/o sue specificazioni (per esempio tecniche di analisi)
Competenza (EQF: in termini di responsabilità e autonomia)
Note (Indicare aspetti rilevanti, livello secondo l’EQF ecc.)
Lessico Verbo di azione all’infinito + Oggetto: che precisa che corrisponde al risultato +~ Specificazione con la quale si precisano le condizioni in cui la competenza viene agita (per esempio verbi al gerundio)
3.1. Come compilare la Parte A della Scheda Per compilare correttamente la Parte A, l’intervistatore deve avere ben chiaro il ruolo che l’intervistato ha in azienda e più in particolare in quale o in quali macro fasi del processo di innovazione egli opera. Pertanto è di fondamentale importanza che l’intervistatore individui con esattezza: • dapprima in quale macro fase si colloca l’azione professionale e manageriale dell’intervistato; • e soltanto dopo determini il processo in cui si articola la macro fase. L’individuazione di queste due aspetti costituisce la condizione necessaria e preliminare per effettuare la successiva analisi che concerne la rilevazione delle competenze formali e informali utilizzando la metodologia EQF. Pertanto è opportuno che l’intervistatore richieda la collaborazione dell’intervistato affinché vi sia certezza sulla correttezza di queste scelte. Come individuare le attività. Come sopra ricordato, è opportuno che l’intervistatore raccolga e solleciti l’intervistato a narrare esempi e casi
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concreti di innovazione di cui è stato responsabile o ha partecipato. Per facilitare la rilevazione è opportuno inserire nella scheda esempi di attività. Un efficace punto di partenza è costituito dal chiedere all’intervistato di identificare e descrivere le sue macro responsabilità nel processo di innovazione. È importante che l’intervistato individui le responsabilità reali a carico della persona: pertanto, non è sufficiente avere la job description dell’intervistato. Soprattutto ai fini della compilazione della Parte B della Scheda, è opportuno che l’intervistato faccia emergere durante il colloquio la tipologia di attività svolte, la loro frequenza, le principali modalità con cui sono implementate (per esempio, le metodologie, la tecnologia, gli strumenti e le attrezzature utilizzate). In genere, l’intervistato tende a non dare rilievo agli aspetti organizzativi di tipo “soft” (quali per esempio, la motivazione dei collaboratori, la gestione dei collaboratori diretti o l’attenzione verso il clima organizzativo) o alle capacità e qualità personali: è bene che l’intervistatore ponga attenzione a questi temi in quanto possono fornire elementi utili alla determinazione delle conoscenze e abilità in possesso della persona intervistata. Come individuare i ruoli coinvolti. Occorre ricostruire il sistema di relazioni poste in essere e utilizzate dall’intervistato nello svolgimento delle attività di innovazione. Per esempio, un primo punto di partenza è costituito dal porre alcune domande (per esempio: “A chi risponde? Su che cosa? Chi sono i clienti interni?”), ma poi è opportuno individuare tutti gli altri principali ruoli coinvolti nell’azione professionale e manageriale, in particolare, quelli connessi all’innovazione. Per esempio, a questo fine, può risultare utile individuare le informazioni e/o i prodotti in input, gli ambiti di responsabilità, l’effettivo livello di autonomia e discrezionalità nei processi decisionali, evidenziare le relazioni gestite sia con successo sia quelle con eventuali difficoltà e i motivi. Qualora sia disponibile un’organigramma o vi sono delle procedure codificate è bene ottenerne una copia per evidenziare il sistema di relazioni. Soprattutto in tema di innovazione, occorre far emergere non soltanto i ruoli interni, cioè quelli che rientrano nell’ambito del perimetro dell’organizzazione, ma anche quelli presenti all’esterno dell’organizzazione (per esempio, fornitori, Università, centri di ricerca ecc.) che spesso hanno un peso rilevante nel promuovere e implementare l’innovazione.
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Com’è noto, la rilevanza di soggetti esterni è elevata quando si esaminano i processi di innovazione aperta. Come individuare i risultati. A ogni attività rilevata deve corrispondere un output, un risultato. Per esempio, può essere un documento (come un business plan, un piano di marketing), un’analisi (come l’individuazione del posizionamento dei prodotti dei competitor vs prodotti aziendali), un semilavorato. I risultati diventano spesso input per le successive fasi del processo. Molto spesso i risultati sono tangibili così come negli esempi sopra ricordati, ma possono essere, a volte, anche intangibili. Per esempio, l’acquisizione di un consenso o la diffusione di una vision. Normalmente, i risultati intangibili riguardano persone che hanno responsabilità manageriali o comunque ricoprono posizioni apicali nelle organizzazioni. Come individuare i punti di attenzione/criticità. È opportuno: individuare le tipologie di problemi (per esempio, semplici o complessi) affrontati e risolti durante lo svolgimento delle attività implementate dall’intervistato; • analizzare le situazioni in cui sono sorti problemi imprevisti e come sono affrontati. Per esempio, è opportuno evidenziare la tipologia di imprevisti; con quale frequenza accadono; come interviene la persona intervistata (fa riferimento a soluzioni già pronte o, invece, ricerca soluzioni innovative); le condizioni di lavoro e gli aspetti facilitanti/ostacolanti; le strategie utilizzate per affrontare le problematiche professionali. È molto importante che, in questa fase, l’intervistatore guidi e conduca l’intervista con grande cura. Le informazioni raccolte costituiscono la base, rappresentano gli elementi essenziali per poter effettuare con successo l’analisi successiva, quella che concerne la rilevazione delle competenze formali e informali utilizzando la metodologia EQF. Pertanto, occorre che l’intervistatore ponga grande attenzione a individuare con la massima precisione possibile le attività svolte dall’intervistato, quali ostacoli ha dovuto superare, come li ha superati, le persone interne ed esterne all’organizzazione con cui ha creato o gestito relazioni. Può, infatti, accadere che l’intervistato tenda a “saltare” passaggi che si rivelano rilevanti, oppure che sia incline a evidenziare soltanto gli aspetti che hanno maggiore connessione con l’attività da lui svolta oppure nasconda le criticità superate. In tutti questi casi, è opportuno che l’intervistatore effettui le opportune domande per individuare i punti “grigi”… •
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Allo stesso modo è importante che l’intervistatore faccia luce sulle metodologie professionali (per esempio: 5 Esse, metodologie della qualità) o manageriali (per esempio: Sei Sigma) che utilizza l’intervistato nello svolgimento delle sue attività, in particolare, quelle maggiormente connesse all’innovazione.
3.2. Come compilare la Parte B della Scheda La Parte B della Scheda deve essere compilata dopo che sia stata effettuata la rilevazione delle attività. Per compilare con precisione la Parte B della Scheda è necessario che l’intervistatore conosca: • la metodologia dell’EQF (livelli, logiche di base, linguaggio ecc.); • la sintassi di riferimento per la denominazione e descrizione delle competenze e dei loro elementi cosi come indicato dalla Regione del Veneto. In ogni caso, per il successo della rilevazione occorre che l’intervistatore faccia grande attenzione all’utilizzo delle parole che intende adoperare. La proprietà di linguaggio è decisiva, infatti, per almeno due aspetti: • garantire una corretta misurazione delle competenze; • identificare le differenze e le specificità di valutazione rispetto ad altre persone che operano sia nel medesimo contesto organizzativo sia in altre organizzazioni. Come già accennato in precedenza, è opportuno ribadire che la qualità della rilevazione dipende in modo significativo dalle informazioni raccolte nella prima fase dell’intervista: tanto più analitiche sono le informazioni raccolte tanto più semplice, rapida e accurata sarà la rilevazione degli apprendimenti. Come descrivere le competenze. Un buon punto di partenza per compilare la Parte B è costituito dalla definizione di competenza. Secondo il modello EQF, le Competenze rappresentano la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia. Nella sintassi di riferimento per la denominazione e descrizione delle competenze e dei loro elementi così come indicato dalla Regione del
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Veneto, per la descrizione delle competenza si utilizza il seguente lessico: 1. Verbo di azione all’infinito che corrisponde a un’operazione da realizzare + 2. Oggetto, che precisa che cosa si ottiene con quella operazione e che corrisponde al risultato dell’attività + 3. Specificazione con la quale si precisano le condizioni in cui la competenza viene agita, se necessario utilizzando per esempio, il verbo al gerundio il che consente di esprimere complementi di maniera e di modo e di descrivere alcune circostanze dell’azione. Ferme restando le indicazioni sopra ricordate è opportuno rilevare che soprattutto per le persone che ricoprono posizioni apicali nelle organizzazioni, in primo luogo, occorre individuare e definire le responsabilità gestite dall’intervistato descrivendo le finalità fondamentali che la persona presidia. Al fine di rilevare con esattezza il livello di competenze informali e non formali secondo la metodologia dell’EQF attribuito a una persona occorre anche esplicitare il modo in cui la persona contribuisce ad adempiere alle responsabilità che gli sono affidate. Per esempio, occorre distinguere situazioni diverse, per esempio, se: 1. la persona fornisce le linee guida, l’impostazione, la vision per svolgere l’attività/produrre l’output, oppure; 2. la persona garantisce la realizzazione delle finalità attraverso il coordinamento di persone e risorse che gestisce gerarchicamente o in gruppi di lavoro seguendo, osservando le linee guida e l’impostazione provenienti da un livello superiore dell’organizzazione (per esempio, imprenditore, capo azienda, responsabile di un’unità organizzativa di primo livello), oppure; 3. la persona svolge direttamente le attività sulla base delle indicazioni provenienti da un coordinatore gerarchico oppure presenti in una procedura aziendale o stabilite dalle prassi aziendali. In ogni caso questa descrizione deve avere due caratteristiche: • distinguere in modo chiaro le responsabilità di chi ha responsabilità gestionali rispetto a quelle dei collaboratori diretti e degli operativi; • fornire una chiara e immediata indicazione sulle finalità principali che le persone devono realizzare (non più di una frase). Per le figure manageriali, è opportuno utilizzare verbi gestionali, quali, per esempio, coordinare, gestire, occuparsi di, dirigere, implementare, assicurare ecc.
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Esempio: Responsabile di stabilimento: Garantire il raggiungimento degli obiettivi produttivi e i risultati di qualità, costo e servizio assegnato allo stabilimento dal capo azienda nel piano strategico. Qualora si intenda effettuare una rilevazione più puntuale delle competenze, il presidio delle responsabilità si può declinare in modo analitico rispettando un ordine di priorità o logico. Riprendendo l’esempio del Responsabile di Stabilimento: • • •
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assicurare l’avviamento di nuovi prodotti; assicurare l’ottimizzazione del processo logistico in coerenza con i programmi e i vincoli di stock; assicurare il rispetto degli standard di qualità e concorrere al loro miglioramento attraverso costanti informazioni/valutazioni relativamente a materiali, andamento scarti…; gestire e migliorare il sistema tecnologico di stabilimento; gestire e migliorare il processo di trasformazione; assicurare la gestione amministrativa dello stabilimento, con particolare riferimento al controllo sull’andamento gestionale e dei progetti di investimento, avvalendosi del supporto funzionale dell’area controllo; coordinare gli outsourcing assicurando il rispetto dei livelli di servizio concordati; garantire un’adeguata gestione del personale, l’ottimale organizzazione dello Stabilimento, il mantenimento dei rapporti con le OO. SS.
Nella descrizione della macro responsabilità è necessario esplicitare eventuali vincoli metodologici, normativi, tecnici che possono limitare l’autonomia del ruolo (per esempio in conformità alle relative normative europee). Per le persone che svolgono attività più operative è opportuno indicare i limiti dell’autonomia e della discrezionalità per esempio con le espressioni “seguendo le indicazioni dei superiori”, “osservando le procedure e le prassi aziendali”, “condividendo l’analisi con i livelli superiori” ecc. Come descrivere le conoscenze Secondo la definizione EQF le conoscenze rappresentano il risultato dell’assimilazione di informazioni attraverso l’apprendimento. Le conoscenze
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sono un insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di lavoro o di studio. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche. Nella sintassi indicata dalla Regione del Veneto, per la descrizione della conoscenza si utilizza il seguente lessico: 1. una locuzione: per esempio, la denominazione delle conoscenze è esprimibile attraverso una locuzione che indichi concetti, metodi, tecniche, processi, procedure ecc.; 2. un sostantivo che ne specifichi il riferimento (per esempio “di vendita”, “controllo qualità”). Nella sintassi sono presenti alcune indicazioni/punti di attenzione: 1. è necessario indicare soltanto le conoscenze “essenziali”/”connotative” che hanno cioè rilevanza discriminante per l’esercizio della competenza; 2. occorre evitare il ricorso ad alcune conoscenze molto analitiche e altre eccessivamente generiche: 3. le conoscenze devono essere elementi “atomici” indicativi di un unico oggetto. Dall’esame del modello EQF e dal documento della Regione del Veneto si rileva che le conoscenze sono costituite dai saperi e dalle tecniche che sono connesse all’esercizio delle attività richieste dai processi di lavoro nei diversi ambiti professionali. Per effettuare una rilevazione accurata delle competenze, è opportuno che l’intervistatore faccia emergere le metodologie e le tecniche eventualmente adoperate dall’intervistato. Pertanto, occorre che l’intervistatore qualora non conosca tali metodologie e tecniche, le chieda espressamente all’intervistato. Specificare le tecnologie, le metodologie e le tecniche adoperate dall’intervistato può, infatti, costituire un elemento differenziante per individuare e quindi dare il giusto valore alla professionalità dell’intervistato stesso. Si pensi, per esempio, a un Responsabile della Qualità. Com’è noto esiste un’ampia pluralità di metodologie che le organizzazioni implementano per migliorare la qualità dei processi/prodotti/servizi: alcune sono ampiamente diffuse e relativamente semplici (per esempio, in termini di metodologie, problem solving), altre invece richiedono approfondite conoscenze di tipo statistico che devono essere integrate da capacità manageriali sofisticate (per esempio, 6 Sigma). Pertanto fare un semplice riferimento alle metodologie di controllo della qualità non è sufficiente: occorre, in particolare per le professionalità
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più elevate, indicare in modo specifico le metodologie effettivamente in possesso della persona intervistata e realmente adoperate. Questa focalizzazione è altresì necessaria per un ulteriore aspetto: come si vedrà in un paragrafo successivo, queste specificazioni renderanno più semplice l’individuazione del livello di competenza in possesso della persona. Come descrivere le abilità Secondo il modello EQF le Abilità indicano le capacità di applicare conoscenze e di utilizzare know-how per portare a termine compiti e risolvere problemi. Nel contesto del Quadro Europeo delle Qualifiche le abilità sono descritte come cognitive (comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) o pratiche (comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti). Nella sintassi di riferimento per la denominazione e descrizione delle competenze e dei loro elementi così come indicato dalla Regione del Veneto, per la descrizione delle abilità si utilizza il seguente lessico: 1. verbo all’infinito che esprime un’operazione concreta (per esempio manovrare, utilizzare, condurre ecc.) o astratta (calcolare, memorizzare, associare); 2. un sostantivo che esprime l’oggetto dell’operazione e/o le sue specificazioni. Nella sintassi sono presenti alcune indicazioni/punti di attenzione che sono simili a quelle già elencate per la descrizione delle conoscenze. Pertanto: 1. è necessario indicare soltanto le abilità “essenziali”/”connotative” che hanno cioè rilevanza discriminante per l’esercizio della competenza; 2. occorre evitare il ricorso ad alcune abilità molto analitiche e ad altre eccessivamente generiche; 3. le abilità devono essere elementi “atomici” indicativi di un unico oggetto. Pertanto, l’intervistatore nella descrizione delle abilità deve utilizzare soltanto verbi di azione. In particolare, è opportuno utilizzare: 1. Verbi operativi: quando si vuole indicare un’operazione concreta (per esempio, manovrare, effettuare ecc.); 2. Verbi cognitivi: quando si vuole indicare un’operazione astratta (per esempio, analizzare, diagnosticare, comparare ecc.). L’oggetto deve essere quello a cui si riferisce l’azione espressa dal verbo prescelto.
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Ai fini di una corretta rilevazione delle competenze, per completezza, è opportuno: 1. essere precisi nella definizione dell’oggetto (per esempio, indicare il tipo di software che si utilizza, quando questa informazione appare rilevante); 2. indicare le finalità e le condizioni in cui si esercita l’abilità. Per esempio l’espressione “Utilizzare il software XY per creare archivi, consultarli, analizzare dati” contiene informazioni più specifiche rispetto a “Utilizzare strumenti informatici…” soprattutto quando si rilevino competenze di soggetti che hanno professionalità elevate, specialistiche o rare. Nella Parte B della Scheda, è stata inserita una colonna denominata “Note” al fine di raccogliere i punti di forza, gli aspetti di attenzione e le eventuali criticità nella rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali secondo il modello EQF, nonché la classificazione in uno degli 8 livelli previsti dall’EQF stesso (su questi temi si tornerà nel Capitolo V della Guida).
3.3. Parte 3 della Scheda: dati di riepilogo: La Parte 3 della Scheda ha la finalità di individuare quale sia il fattore o i fattori che abbiano maggiormente guidato l’apprendimento. In quest’ultima parte dell’incontro, l’intervistato deve effettuare una sintesi di quanto emerso dall’intervista. Questa valutazione deve essere svolta sulla base del complesso delle informazioni raccolte lungo l’intera conversazione. Pertanto, la Parte 3 della Scheda può essere compilata anche al termine dell’intervista, purché l’intervistatore, nei momenti individuati come appropriati, ponga le opportune domande su questi temi. In particolare, assume rilevanza individuare sia per le qualità e le doti personali apprese, sia per quanto concerne gli aspetti organizzativi, il driver dell’apprendimento, cioè il fattore che ha contribuito maggiormente a promuovere e sviluppare l’apprendimento (per esempio l’imprenditore, la partecipazione a un gruppo di lavoro, la presenza di persona-chiave o “maestro” ecc.). Di seguito, sono indicati alcuni tra i possibili “aspetti personali”: per esempio, orientamento ai risultati, all’efficienza, la creatività, la facilità nella creazione di una rete di relazioni e la sensibilità verso i bisogni dei clienti ecc. I driver di apprendimento possono eessere costituiti anche da aspetti organizzativi: per esempio, cambiamenti organizzativi, introduzione di
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nuovi sistemi nei principali processi aziendali (produzione, progettazione), introduzione di nuove procedure ecc. La Parte 3 della Scheda può essere utilizzata anche come chiusura dell’intervista, in particolare come modalità di sintesi e riepilogo delle informazioni acquisite.
4. Cenni sull’attribuzione del livello EQF Come è noto, l’EQF prevede 8 livelli classificatori. Secondo la metodologia EQF “ciascuno degli 8 livelli è definito da una serie di descrittori che indicano gli esiti di apprendimento rilevanti per le qualifiche di quel livello di qualsiasi sistema di qualificazione”. Al momento in cui si scrive, l’unico riferimento per effettuare l’attribuzione è costituito dal documento citato in quanto non sembra che siano stati ancora individuati descrittori ulteriori più specifici. Questi descrittori dovranno, infatti, essere individuati a livello nazionale e/o a livello dei singoli settori, così come previsto dalla metodologia. Pertanto nel periodo in cui è stata effettuata l’indagine, l’unico punto di riferimento ufficiale era costituito dai descrittori individuati a livello dell’Unione Europea. Di conseguenza, occorre leggere con grande attenzione ciascun descrittore e tentare di attribuire quanto è risultato dall’analisi al coerente livello dell’EQF. Come più volte ribadito da diversi documenti curati dalla Commissione Europea: “una piena comprensione di un determinato livello richiede… una “lettura orizzontale nonché verticale”, in cui anche i livelli inferiori o superiori vengano presi in considerazione”. Per questi motivi, è di fondamentale rilevanza la qualità dell’attività di rilevazione: tanto più accurata e analitica è la fase di raccolta “sul campo” delle informazioni rilevanti, tanto maggiore sarà la probabilità di effettuare attribuzioni coerenti. Molte problematiche connesse all’individuazione della corretta attribuzione del livello EQF possono esser risolte ex ante applicando con rigore il complesso della metodologia proposta e, in particolare, descrivendo con precisione le attività svolte, i ruoli coinvolti, i risultati conseguiti. Da quanto emerge dall’applicazione della metodologia effettuata tramite le interviste realizzate in azienda, il conseguimento di un titolo di studio non sembra comportare automaticamente l’acquisizione di un determinato livello EQF. Seppure esistano autorevoli opinioni difformi, in genere, chi acquisisce un titolo di studio ha sì le conoscenze, ma non necessariamente le abilità né
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il livello di autonomia e di responsabilità richiesto per ottenere il riconoscimento da parte delle aziendale del livello EQF. Inoltre, occorre considerare che l’acquisizione automatica del livello al termine di un periodo di studi introdurrebbe elementi di rigidità nel mercato del lavoro e, tra l’altro, sarebbe contrario alle logiche di fondo su cui si basa la metodologia dell’EQF che infatti tende a enfatizzare l’apprendimento informale e non formale e quindi quanto è stato appreso in luoghi diversi dalle aule. La sperimentazione della metodologia ha consentito di rilevare che una stessa persona intervistata può avere livelli diversi di Conoscenze, Abilità e Competenze. In questi casi il livello delle conoscenze può essere più elevato di quello delle competenze: per esempio questo accade per i knowledge worker o i tecnici che hanno elevati livelli di specializzazione a cui non necessariamente corrispondono livelli altrettanto elevati di responsabilità gestionale. In questi casi sembra opportuno, al fine di effettuare una corretta valutazione finale conclusiva, non tanto di creare medie tra i diversi punteggi, ma di utilizzare il criterio della prevalenza delle conoscenze e abilità effettivamente agite nelle “situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale”. Un buon punto di partenza per risolvere con efficacia ed efficienza il tema dei livelli di attribuzione sembra costituito dall’individuare le conoscenze, capacità e competenze presenti nei “Ruoli Caratteristici di Settore/Business”, cioè nei ruoli chiave che sono rappresentativi e tipici delle principali famiglie professionali presenti nei contesti organizzativi dei Settori/Società individuati come rilevanti e strategici a livello territoriale (per esempio: Responsabile Marketing e Commerciale di un’impresa di media dimensione nel settore della moda, Responsabile della Produzione di un’impresa media nella meccanica, Responsabile del Design Industriale ecc.). L’individuare i ruoli caratteristici e mappare i loro profili in termini di Conoscenze, Abilità, Competenze faciliterebbe in modo significativo l’attività di classificazione in quanto fornirebbe ai valutatori un supporto fondamentale e costituirebbe un riferimento di grande rilevanza. I livelli attribuiti a ciascun Ruolo Caratteristico avrebbero, infatti, un valore indicativo e non obbligatorio. Gli output del Progetto Skill-Inn rappresentano un contributo rilevante verso questa direzione, possono, infatti, costituire una base di dati e informazioni su cui si può creare un primo nucleo per individuare e costruire i Ruoli Caratteristici.
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Allo stesso modo, si potrebbero individuare per ciascuna dimensione (Conoscenze, Abilità, Competenze) un set di parametri che abbia le seguenti caratteristiche: • il numero ristretto di variabili; • la semplicità di utilizzo; • la tendenziale oggettività dei parametri. Per esempio, per quanto concerne le Abilità, è opportuno individuare parametri che siano in grado di rilevare l’ampiezza del problem solving. Tra questi: • la frequenza e la novità dei problemi; • il livello di interdipendenza di problemi e soluzioni e loro impatto; • la completezza delle informazioni e dei rischi decisionali, complessità, diversificazione e dispersione geografica dei problemi. Analogamente, per quanto riguarda la Competenza, è opportuno individuare parametri che siano in grado di rilevare la complessità della Responsabilità e dell’Autonomia. Tra questi: • la diversificazione funzionale (varietà di funzioni, sub filoni professionali, progetti); • la diversificazione di business, tecnologie, processi, prodotti, mercati; • la diversificazione geografica (locale, nazionale, plurinazionale, globale); • la complessità organizzativa, produttiva e tecnologica gestita. Dall’esperienza acquisita attraverso il Progetto Skill-Inn sembra rilevante condividere alcuni trend che possono essere di grande utilità pratica nei successivi processi di attribuzione. Come tutti i trend è comunque opportuna un’ulteriore verifica e un successivo tuning: 1. le persone che hanno responsabilità di tipo dirigenziale nelle aziende di media dimensione hanno un’attribuzione del livello EQF tra il 6 e 7, quest’ultima è in genere delimitata a chi opera nel’ambito di una leading company in termini di know-how e innovazione; 2. le persone che hanno responsabilità di tipo “middle manager” (quadri) nelle aziende di media dimensione hanno un’attribuzione del livello EQF tra il 5 e 6, quest’ultima è in genere delimitata a chi opera in una leading company in termini di know-how e innovazione; 3. le persone che hanno responsabilità di tipo “operativo” (impiegatioperai specializzati) nelle aziende di media dimensione hanno un’attribuzione del livello EQF tra il 4 e 5, quest’ultima è in genere delimitata a chi opera in una leading company in termini di know-how e innovazione.
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Box 1 – ISFOL Un passaggio di certo utile è costituito dal recente studio dell’ISFOL dal titolo “Sistema di attribuzione del livello EQF alle unità professionali) in cui si propone l’adozione e poi si effettua l’individuazione di un Numero Guida. Il numero guida è il valore del livello EQF così come determinato dalle informazioni rilevate attraverso un’indagine campionaria. In particolare, il numero guida esprime, per singola Unità Professionale della classificazione NUP06, il valore medio del livello EQF delle voci/figure professionali che essa contiene, determinato a partire da un set di variabili derivanti dall’indagine campionaria sui contenuti del lavoro riferite alle dimensioni di “Conoscenza”, “Abilità” e “Competenza” su cui è fondato il Quadro Europeo delle Qualificazioni. Il termine “guida” sta a ricordare che il valore di EQF è indicativo, richiedendo sempre un esercizio di valutazione di applicabilità da parte dell’utilizzatore. Il numero guida è rivolto a facilitare il processo di analisi dei contenuti esito di apprendimento (i learning outcomes) di una qualsiasi voce professionale, preventivamente collocata nella struttura classificatoria.
Tabella 1 – Andamento del valore medio del numero guida EQF per Grande Gruppo Grandi gruppi
Numero guida EQF Conoscenza
2
Abilità Competenza
Assegnato
Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione
6,7
5,1
5,1
6,7
Professioni tecniche
5,2
4,2
4,6
5,4
4
Impiegati
4,5
3,6
3,9
4,7
5
Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi
3,8
3,1
3,7
4,1
Artigiani, operai specializzati e agricoltori
3,4
2,8
3,4
3,6
Conduttori di impianti e operai semiqualificati addetti a macchinari fissi e mobili
3,3
2,7
3,2
3,5
Professioni non qualificate
2,3
2,0
3,0
3,0
3
6 7
8
Fonte: elaborazione ISFOL (2010)
Ciascuno degli 8 livelli è definito da una serie di descrittori che indicano gli esiti di apprendimento rilevanti per le qualifiche di quel livello in qualsiasi sistema di qualifiche.
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Tabella 2 – Descrittori che definiscono i livelli del Quadro Europeo delle Qualifiche Risultati di apprendimento
Conoscenze
Abilità
Competenze
Le conoscenze sono descritte come teoriche e/o pratiche
Le abilità sono descritte come cognitive (uso del pensiero logico, intuitivo e creativo) e pratiche (che implicano la destrezza manuale e l’uso di metodi, materiali, attrezzature e strumenti
La competenza è descritta in termini di responsabilità e autonomia
Livello 1
Conoscenze generali di base
Abilità di base necessarie per svolgere mansioni/compiti semplici
lavorare o studiare sotto supervisione diretta in un contesto strutturato
Livello 2
Conoscenze pratiche di base in un ambito di lavoro o di studio
Abilità cognitive e pratiche di Lavorare o studiare sotto base necessarie per utilizzare supervisione diretta con una certa autonomia le informazioni rilevanti al fine di svolgere compiti e risolvere problemi di routine utilizzando regole e strumenti semplici
Livello 3
Conoscenze di fatti, principi, processi e concetti generali, in un ambito di lavoro o di studio
Una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie per svolgere compiti e risolvere problemi selezionando e applicando metodi, strumenti, materiali e informazioni di base
Assumersi la responsabilità dello svolgimento di compiti sul lavoro e nello studio (nota 1)
Conoscenza pratica e teorica in ampi contesti in un ambito di lavoro o di studio
Una gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie per creare soluzioni a problemi specifici in un ambito di lavoro o di studio
Autogestirsi all’interno di linee guida in contesti di lavoro o di studio solitamente prevedibili, ma soggetti al cambiamento
Un’ampia gamma di abilità cognitive e pratiche necessarie per sviluppare soluzioni creative a problemi astratti
Gestire e supervisionare in contesti di attività di lavoro o di studio soggetti a cambiamenti imprevedibili
Livello 4
Livello 5*
Conoscenza teorica e pratica esauriente e specializzata in un ambito di lavoro o di studio e consapevolezza dei limiti di quelle conoscenze
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Adattare il proprio comportamento alle circostanze per risolvere problemi
Supervisionare il lavoro di routine di altre persone, assumendosi una certa responsabilità per la valutazione e il miglioramento delle attività di lavoro o di studio
Valutare e migliorare le prestazioni di se stessi e degli altri
Risultati di apprendimento
Conoscenze
Abilità
Competenze
Livello 6**
Conoscenze avanzate (nota 2) in un ambito di lavoro o di studio, che richiedono una comprensione critica di teorie e principi
Abilità avanzate, che dimostrano padronanza e innovazione, necessarie per risolvere problemi complessi e imprevedibili in un ambito specializzato di lavoro o di studio
Gestire attività o progetti tecnici o professionali complessi, assumendosi la responsabilità della presa di decisioni in contesti di lavoro o di studio imprevedibili
Abilità di problem solving specializzate, necessarie per la ricerca e/o l’innovazione al fine di sviluppare nuove conoscenze e procedure e per integrare conoscenze provenienti da ambiti diversi
Gestire e trasformare contesti di lavoro e di studio complessi e imprevedibili, che richiedono approcci strategici nuovi
Le abilità e le tecniche più avanzate e specializzate, comprese la sintesi e la valutazione, necessarie per risolvere problemi critici nella ricerca e/o nell’innovazione e per ampliare e ridefinire le conoscenze e le pratiche professionali esistenti
Dimostrare un grado elevato di autorità, innovazione, autonomia, integrità scientifica o professionale e un impegno sostenuto verso lo sviluppo di nuove idee o processi all’avanguardia in contesti di lavoro o di studio (nota 3), tra cui la ricerca
Livello 7 ***
Conoscenze altamente specializzate, alcune delle quali costituiscono l’avanguardia delle conoscenze in un ambito di lavoro o di studio, quale base del pensiero originale e/o della ricerca
Assumersi la responsabilità di gestire lo sviluppo professionale di singoli individui e di gruppi
Assumersi la responsabilità di contribuire alle conoscenze e alle pratiche professionali e/o di valutare le prestazioni strategiche di gruppi
Consapevolezza critica dei problemi legati alle conoscenze in un ambito e all’interfaccia tra ambiti diversi Livello 8 ****
Conoscenze al livello più avanzato di un ambito di lavoro o di studio e all’interfaccia tra settori diversi
Fonte: SG – CUOA – 16 ottobre 2009
5. Conclusioni Come indicato in premessa, il presente documento ha la finalità di presentare una metodologia idonea a rilevare le competenze in ambiti non formali e informali di apprendimento, in particolare, quelle riguardanti i processi di innovazione nelle imprese così come è stata applicata nel progetto Skill-Inn. 111
Nella Guida sono stati descritti gli aspetti generali che caratterizzano la metodologia (definizione dei concetti e dei termini) seguiti da esempi illustrativi per fornire da un lato la visione degli aspetti metodologici rilevanti e dall’altro lato le informazioni necessarie per applicare in modo corretto la metodologia, evidenziando le attenzioni e portando alcuni esempi pratici. Al termine del lavoro, sembra opportuno sottolineare un aspetto: questo documento rappresenta un work in progress, che intende evidenziare quanto appreso nel corso di un progetto che non soltanto ha avuto a oggetto le competenze che riguardano l’innovazione, ma anche che ha utilizzato come metodologia una serie di “tool” che sono di per sé innovativi. Il Progetto Skill-Inn ha, quindi, una duplice valenza innovativa: nell’oggetto e nelle metodologie. Pertanto è necessario che l’attività di apprendimento continui nelle sedi e nei momenti ritenuti più opportuni al fine di mettere a punto, verificare ed eventualmente proporre nuove soluzioni a nuovi problemi. Infine, un sentito ringraziamento va a Confindustria Veneto SIAV, ai colleghi che hanno effettuato le interviste, ai componenti del Comitato Tecnico Scientifico e non ultimo alle persone che hanno prestato il loro tempo per effettuare una sperimentazione utile per l’intera collettività professionale.
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4. DAI RUOLI ALLA FIGURA PROFESSIONALE E ALLE COMPETENZE: PRINCIPI DI RIFERIMENTO E PROBLEMI-CHIAVE di Pier Giovanni Bresciani
1. Le finalità del progetto FSE “Skills per l’innovazione – Skill-Inn” Con riferimento all’ambito di intervento del quale ci stiamo occupando in questo capitolo, è utile puntualizzare che il progetto Skill-Inn era finalizzato a perseguire i seguenti obiettivi: • focalizzare l’interesse su un ambito strategico per l’economia regionale (e più in generale del Paese) per affrontare “strutturalmente” con successo le sfide dei mercati del mondo globalizzato, ma anche “contingentemente” lo scenario della crisi: quello dell’innovazione produttiva nelle aziende industriali; • verificare (e ove necessario integrare) la rappresentazione dei ruoli, della professionalità e delle competenze che contribuiscono all’implementazione dei processi di innovazione nelle imprese, rispetto a quanto emerge nelle descrizioni istituzionalmente e contrattualmente codificate nei sistemi di rappresentazione formale (per esempio qualifiche, figure professionali, standard di competenze regionali ecc.): rappresentazioni che risultano troppo spesso riduttive e comunque almeno in parte diverse, per quantità e qualità, rispetto alla complessità, alla tipologia e al livello di professionalità e competenza effettivamente agìti nei contesti aziendali; • operare tale verifica a partire dalla ricostruzione delle attività effettivamente svolte in azienda dalle persone nell’esercizio del proprio ruolo e dalla ricostruzione della configurazione effettiva dei diversi ruoli che nelle pratiche aziendali operano nell’ambito dei processi di innovazione, nonché dalla ricostruzione delle competenze con esse correlate; • mettere successivamente a confronto tale ricostruzione con la rappresentazione delle professionalità e delle competenze contenute nei “repertori” attualmente disponibili (Regione Veneto; ISFOL – ISTAT; ISFOL – Orientaonline ecc.), evidenziandone le eventuali differenze;
113
•
nell’ambito di tale analisi, assumere a riferimento il framework EQF (e quindi la distinzione tra conoscenze, abilità e competenze) verificandone la praticabilità e l’utilità anche al fine di elaborare proposte e indicazioni al riguardo per la Regione del Veneto; • nell’ambito di tale ricostruzione, dedicare particolare attenzione alla formalizzazione delle “conoscenze tacite” (intese come quell’insieme di conoscenze che non sono il risultato di processi di apprendimento formale, ma che si sviluppano sulla base dell’esperienza professionale realizzata in un contesto specifico); • ridefinire e integrare, se e ove necessario, il linguaggio (dizionario, grammatica, sintassi) con il quale sono attualmente definite nei documenti istituzionali le professionalità (figure, ruoli), le attività (funzioni, compiti) e soprattutto le competenze (conoscenze, capacità/abilità, risorse ecc.) connesse ai processi di innovazione, anche al fine di elaborare in esito al progetto proposte e indicazioni per la Regione del Veneto (ma anche più in generale per il sistema formativo, per il sistema dei servizi di orientamento e dei servizi per l’impiego e per il sistema delle imprese e delle relazioni industriali) in riferimento all’evoluzione dell’attuale sistema di descrizione. Queste ultime considerazioni rendono ragione del potenziale impatto (e quindi dell’interesse) socio-istituzionale di questo progetto e del tipo di attività che esso ha consentito di realizzare; ma oltre che per gli stakeholders sopra richiamati, dal perseguimento di tali obiettivi si attendevano esiti positivi anche per gli individui (per esempio in termini di autoconsapevolezza dell’effettiva professionalità e competenza maturata; valorizzazione e “riconoscimento sociale” delle stesse; incremento della loro potenziale “spendibilità”; auto-analisi dei propri fabbisogni di competenze e delle proprie potenzialità di sviluppo) e anche per le imprese (per esempio in termini di consapevolezza del reale patrimonio di competenze presenti in azienda, anche “tacite”; di conoscenza delle proprie risorse umane, con migliore possibilità di utilizzo e sviluppo delle loro competenze; di identificazione di metodologie per il trasferimento di competenze all’interno dell’azienda; di conoscenza della dinamica reale dei processi di innovazione e di conseguente miglioramento della performance nei processi stessi). Nel perseguire gli obiettivi del progetto, si è convenuto che, pur nella complessità dell’oggetto di analisi e anzi proprio per questo, il ricorso a principi di “semplicità” e di “usabilità” delle metodologie e degli strumenti adottati costituisse un elemento al quale porre particolare attenzione, anche in considerazione del necessario “consenso sociale” da costruire sulle proposte emergenti (che richiede intelligibilità, percezione di efficacia ecc.).
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2. Basic assumptions Il dibattito sulle competenze e sull’applicazione di modelli di intervento a esse ispirati (nell’istruzione scolastica, nella formazione professionale e nell’università; nell’orientamento e nei servizi per l’impiego; nelle imprese e nel mondo del lavoro, anche per l’attività di selezione, valutazione delle prestazioni e del potenziale, sviluppo professionale) è stato in questi anni particolarmente ricco di contributi e caratterizzato da una pluralità di approcci, linguaggi che hanno generato diversi modelli, metodologie e strumenti di intervento. Come abbiamo altrove osservato1, paradossalmente, nonostante la “babele” dei linguaggi e dei modelli, il costrutto di competenza ha costituito in questi anni un efficace “dispositivo di integrazione” (a livello regionale/locale, nazionale, ed europeo) sia dentro le singole organizzazioni (per esempio una impresa, una società di consulenza, un Ente locale) o i singoli sistemi (per esempio il sistema dei servizi per l’impiego, il sistema di formazione professionale, il sistema di istruzione), sia “trasversalmente” alle diverse organizzazioni e ai diversi sistemi. Infatti, dal momento che quando si descrivono figure professionali, qualifiche, profili professionali, ruoli, posizioni lavorative ecc. (job description), indipendentemente dai modelli assunti a riferimento si descrivono sempre quantomeno attività che le caratterizzano e dal momento che a ogni attività è possibile (mediante uno specifico lavoro di analisi: job analysis) individuare e descrivere le competenze a essa correlate, allora le competenze costituiscono il linguaggio (la “metrica comune”) mediante il quale possono essere “letti” e analizzati: • le figure professionali ecc. e le relative attività (quali competenze occorrono per presidiarle efficacemente); • le persone e le relative esperienze e cioè le “attività svolte” (quali competenze le persone hanno dimostrato e/o dimostrano di aver maturato, visto che hanno presidiate e/o presidiano efficacemente tali attività); • i titoli e i curricoli formativi (quali competenze si producono in esito ai percorsi di formazione). Il costrutto di competenza si è dimostrato quindi in questi anni da un lato ancora non del tutto univocamente definito (con una impressionante proliferazione di accezioni e di modelli, non di rado generata più da esigen1
Cfr. tra gli altri P. G. Bresciani, “La competenza. Appunti di viaggio”, in A. M. Ajello, La competenza, Il Mulino, Bologna, 2002; Id., “Riconoscere e certificare le competenze. Ragioni, problemi, aporìe”, Professionalità, n. 87, 2005; Id., “Valutare le competenze. Presupposti e implicazioni”, Annali MIUR, 2011.
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ze di distinzione nell’arena competitiva del dibattito accademico o della consulenza che non di effettiva distinzione qualitativa degli approcci), ma dall’altro “socialmente necessario”: con la sua “imperfezione” questo costrutto rappresenta infatti tuttora un dispositivo cruciale del dialogo socioistituzionale e, in prospettiva, anche contrattuale2. E se da un lato di tale “imperfezione” del costrutto è importante essere consapevoli (per poterlo “maneggiare con cura”3), dall’altro, come sempre quando dalla riflessione si passa all’azione occorre identificare volta per volta il provvisorio “punto di equilibrio” che si ritiene di potere accettare per non finire paralizzati da tale consapevolezza: se il problema è agire “qui e ora” e non ci si può permettere di attendere che l’elaborazione sulle competenze si riveli finalmente “senza contraddizioni”, allora significa che dobbiamo accettare (come sempre avviene nella vita, verrebbe da dire) di “correre dei rischi”, adottando temporaneamente il modello che appare più “consistente”, più “valido”, più internamente coerente, più “usabile”, più efficace. E come sempre avviene nella vita, la qualità della nostra “consapevolezza” dei limiti della strumentazione (concettuale e metodologica) che adottiamo e dei rischi implicati dal suo utilizzo costituisce una risorsa essenziale per la nostra azione: si tratta in questo caso di agìre la competenza propria del “professionista riflessivo”4: un professionista capace di riflettere sulle proprie azioni (riflessività), e sui processi cognitivi a esse sottesi (metacognizione), traendone positivi effetti di “retroazione” per il miglioramento delle proprie strategie di comportamento. In questo caso, è stata adottata consapevolmente e consensualmente (nell’ambito della “comunità di soggetti” che ha lavorato al progetto SkillInn) una prospettiva che noi stessi potremmo connotare in qualche modo 2
Se la disciplina del nuovo Testo Unico per l’apprendistato andrà in vigore (alla data di elaborazione del presente capitolo non lo è ancora), il necessario dialogo tra linguaggio della contrattazione e linguaggio della formazione non potrà che trovare nelle competenze il “comune denominatore”. 3 Una rassegna delle “criticità” insite nell’adozione del “linguaggio delle competenze” è presentata in P. G. Bresciani, “Consonanze. Etica, estetica e competenza”, in G. Cepollaro, Le competenze non sono cose, Guerini, Milano, 2008. 4 L’espressione è entrata nel linguaggio corrente a partire dal fondamentale contributo di D. Schon, che ne ha trattato diffusamente nei volumi Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale (Dedalo, 1993) e Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni (FrancoAngeli, Milano, 2006). Sulla riflessività e il suo utilizzo sia nelle pratiche formative che in quelle di consulenza individuale e organizzativa cfr. anche C. Montedoro, D. Pepe (a cura di), La riflessività nella formazione. Modelli e metodi, ISFOL, 2007 e G. Di Francesco (a cura di), Il capitale esperienza. Ricostruirlo, valorizzarlo, ISFOL, 2007.
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come “riduzionista”5: come si potrà osservare, infatti, si è deciso che valesse la pena di semplificare perdendo certamente qualcosa in “profondità di analisi”, perché questa perdita sarebbe risultata, nelle nostre intenzioni, altrettanto certamente ampiamente compensata dal “ritorno” in termini di possibilità di dialogo con le imprese e con i lavoratori coinvolti, di comprensibilità e di “utilità percepita” dell’attività proposta. Cerchiamo di seguito di richiamare gli elementi essenziali del paradigma logico che informa l’approccio adottato, sintetizzandolo in una breve sequenza di enunciati. Il punto di partenza della riflessione è che per analizzare “che cosa le persone fanno e come lo fanno” quando lavorano occorre partire dall’analisi del processo di lavoro nel quale esse sono chiamate a operare (in questo caso si tratta del processo di innovazione, che occorre quindi ricostruire preliminarmente nella sua struttura e articolazione e nei suoi prodotti intermedi e finali, individuando quali soggetti intervengono nel processo, per svolgere quali ruoli e attività). Le motivazioni dell’analisi “per processi” sono essenzialmente riconducibili al fatto che i ruoli si strutturano e si configurano in relazione ai processi; che le attività che svolgono coloro che agiscono tali ruoli assumono un significato in funzione dei processi cui afferiscono; le competenze si correlano alle attività (oltre che alle modalità delle persone e delle comunità professionali di interpretarle e agirle), quindi ai ruoli e quindi ai processi. Un secondo “punto fermo” è che per svolgere qualsiasi attività lavorativa (funzioni, compiti, operazioni ecc.) le persone devono mobilitare elementi di tipo diverso (che a seconda dei linguaggi e dei “dizionari” utilizzati possono essere denominati: conoscenze, capacità, abilità, risorse personali ecc.), che nel loro insieme vengono definiti in genere “competenze”. Possiamo osservare per inciso che in termini logici “competenze” è la denominazione di una classe di elementi (gli elementi che appartengono a tale classe sono appunto conoscenze, capacità, abilità ecc.) e che, conseguentemente, tipologie come quelle proposte dalla Commissione Europea con l’EQF (European Qualification Framework: dove si distingue tra conoscenze, abilità e competenze) possono paradossalmente generare confusione, proprio perché comprendono al proprio interno componenti di “ordine logico” diverso (“elementi” e “classi di elementi”). Nonostante questo, e proprio in coerenza con quanto in precedenza osservato a proposito dell’inevitabile “imperfezione” delle metodologie 5
Intendendo con tale termine una prospettiva talmente semplificata da non rendere sufficientemente ragione della complessità del fenomeno preso in esame, che in tale modo cambia natura e diventa “altro”.
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e degli strumenti che si utilizzano “sul campo” e dell’importanza di individuare da parte di una comunità (sulla base di un principio di convenzionalità e di condivisione) un linguaggio e una “metrica comune”, si è scelto di assumere comunque a riferimento il framework EQF e la relativa articolazione (conoscenze, abilità, competenze) proposta dall’UE: perché ciò ne fa un linguaggio allo stesso tempo sia “istituzionalmente cogente”, sia “terzo” rispetto alle tante accezioni proposte nel nostro Paese in questi anni. Analizzando le attività (funzioni, compiti, operazioni ecc.) che una persona svolge, è possibile ricostruire le “competenze” (nonché le conoscenze, capacità ecc.) necessarie per svolgerle e quindi maturate dalla persona stessa (ove si dimostri che questa le ha svolte, o le svolge, efficacemente). Tuttavia occorre esser consapevoli che le “competenze non sono cose”, ma costrutti e cioè “entità” la cui effettiva esistenza/consistenza può soltanto essere inferita a partire da “evidenze” (comportamenti, prodotti, servizi) che allo stesso tempo, a seconda delle loro caratteristiche quantiqualitative, ne connotano il livello (il grado, l’ampiezza, lo spessore). Le attività concretamente svolte e le competenze effettivamente agìte dalle persone nell’esercizio del loro ruolo nel contesto di lavoro corrispondono però solo limitatamente a quelle descritte nei diversi tipi di “repertori” (qualifiche, figure professionali, standard professionali, manuali di organizzazione ecc.) istituzionalmente e/o contrattualmente e/o organizzativamente definiti; poiché di norma infatti (sulla base di variabili settoriali, dimensionali, tecnologico-organizzative, culturali ecc.) da un lato le persone svolgono più attività e di tipo diverso, rispetto a quanto formalizzato nei descrittivi formali, e dall’altro lato le attività svolte (sia quelle formalizzate, che quelle non formalizzate) implicano l’esercizio di più competenze (e di tipo diverso), rispetto a quanto contenuto negli stessi descrittivi. Occorre poi osservare che in una concezione più ampia le competenze non dovrebbero essere considerate soltanto una “dote individuale”, ma anche una risorsa della comunità socio-professionale (il gruppo di lavoro; l’impresa e anche la rete dei fornitori e dei partner) e in senso più lato una risorsa organizzativa che interviene a modulare gli esiti dei processi di lavoro e quindi anche il processo di innovazione. Tale osservazione non implica che non si possa parlare di competenze “individuali” (e cioè riferite e attribuibili a persone specifiche): ma implica che sia da parte delle imprese, sia da parte degli organismi di istruzione e formazione, sia da parte delle istituzioni e dei servizi di orientamento e per l’impiego, occorre considerare anche altri elementi (oltre alle persone singole e alle loro “doti”) se si in-
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tende intervenire per favorire lo sviluppo di competenze e l’efficacia del loro esercizio (e quindi delle prestazioni). Le competenze infatti, da sole, non “causano” un risultato di successo, “determinandone” univocamente l’esito: il rapporto tra competenze e risultato efficace (l’innovazione, in questo caso) è piuttosto allo stesso tempo “multicausato” e “probabilistico”, in quanto altri tipi di macro-variabili (oltre alle competenze, appunto) intervengono a modulare il risultato finale: dalle variabili “esogene” all’assetto organizzativo da un lato (per esempio il mercato, la proprietà, il modello organizzativo; ma anche il modo in cui il ruolo è configurato, gli obiettivi che sono a essi assegnati ecc.) e le “condizioni di lavoro” (hard e soft) dall’altro lato, nonché gli orientamenti e le “disposizioni” personali verso il lavoro (a loro volta “sensibili” alle due macro-variabili precedentemente richiamate). In altre parole, si tratta non solo del fatto che le persone “sappiano” e “sappiano fare”, ma anche che “possano fare” e “vogliano fare”. Per questo motivo, sarebbe importante potere integrare l’analisi delle attività e competenze individuali (che può avvenire mediante una serie diversificata di strumenti6 che per diversi motivi, come vedremo meglio oltre, nelle pratiche correnti si “riducono” nel migliore dei casi a poche interviste semistrutturate sui ruoli in esame) con l’analisi di “casi aziendali” relativi all’introduzione e/o pratica dell’innovazione in cui le stesse persone siano state coinvolte. Se l’intervista sul ruolo infatti consente di ricostruire una sorta di “fotografia” delle attività e delle competenze individuali (se pure “collocate” nell’ambito del processo di innovazione più complessivo implementato in azienda e delle diverse attività che lo strutturano), l’analisi del caso aziendale consente di ricostruire la “dinamica” della situazione nella quale quel ruolo è stato agìto e quelle competenze si sono manifestate (ed eventualmente generate): dinamica che è sempre allo stesso tempo tecnologicoorganizzativa, socio-relazionale e professionale. Sia l’intervista sul ruolo, che l’analisi del caso aziendale possono consentire di raccogliere ciascuna per la propria parte preziose informazioni su come e quanto l’organizzazione, le condizioni di lavoro (hard e soft) e la dinamica influenzino effettivamente l’orientamento e la “disposizione” individuale nei confronti del lavoro (rappresentazione, motivazione, fiducia, prospettiva, senso ecc.) e le scelte che le persone effettuano a tale riguardo, traducendole in comportamenti sul piano professionale e socio-organizzativo. 6
Per una interessante e sintetica rassegna cfr., per esempio (nonostante il titolo non particolarmente “moderno”) l’agile volume di M. Pearn, R. Kandola, L’analisi delle mansioni, dei compiti dei ruoli, FrancoAngeli, Milano, 1997.
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3. L’analisi delle attività e delle competenze: metodologie diverse per diverse finalità Come osservato in altra parte del volume, la prospettiva teoricometodologica assunta a riferimento dal progetto Skill-Inn focalizza i “processi di lavoro” (in questo caso, in particolare, il processo di innovazione) quale oggetto “fondativo” di analisi per pervenire alla definizione di ruoli, figure professionali e competenze: i ruoli infatti (a partire dall’analisi dei quali si costruisce poi quella “astrazione” che sono le figure professionali) si strutturano e si configurano in relazione ai processi. Le attività che svolgono coloro che agiscono tali ruoli assumono un significato in funzione dei processi; le competenze si correlano alle attività (oltre che alle modalità delle persone e delle comunità professionali di interpretarle e agirle), quindi ai ruoli e ai processi. Se l’analisi del lavoro “per processi” costituisce ormai un riferimento consolidato nella pubblicistica tecnico-specialistica e anche nelle pratiche organizzative e di consulenza7, ciò che ancora si stenta a comprendere è che oltre che dalla qualità dei processi hard e visibili, il funzionamento concreto (e più o meno efficace) delle aziende (e più in generale delle organizzazioni) è almeno altrettanto condizionato dalla qualità dei processi soft e “invisibili agli occhi” (si pensi per esempio al processo di motivazione delle persone, riconosciuto ormai unanimemente – anche se più nelle dichiarazioni di intenti che nelle pratiche organizzative – quale risorsa essenziale per la sopravvivenza, lo sviluppo, l’innovazione, o si pensi al processo di apprendimento e sviluppo della conoscenza nell’ambito dell’azienda). Trattandosi di processi “invisibili”, il rischio è che essi sfuggano sia al monitoraggio e all’analisi, sia alla progettazione di strategie di intervento per presidiarli efficacemente: “se non lo vedo, non esiste e se non esiste, naturalmente, non me ne occupo”8. Le considerazioni svolte fino a ora ci consentono di introdurre il tema di un altro processo particolarmente importante, il “processo di analisi del lavoro” (l’analisi finalizzata a ricostruire e descrivere processi, ruoli e com7
Ciò non significa che non sussistano problemi teorici e applicativi legati all’adozione di tale prospettiva: si pensi per esempio alle differenti scelte che possono essere assunte in relazione alla stessa configurazione dei processi da analizzare. Ma ciò non ha impedito il consolidarsi dell’analisi per processi quale metodologia praticata da un numero sempre più ampio di soggetti e di organizzazioni (un poco come è accaduto per gli approcci “per competenze”: in relazione ai quali la diversificazione particolarmente ampia di modelli e linguaggi non ha impedito il progressivo sviluppo di pratiche istituzionali, formative e aziendali a essi ispirate). 8 Con ciò dimenticando la straordinaria lezione di De Saint-Exupery, che nel suo Il piccolo principe ci ricorda che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.
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petenze: nel nostro caso per derivarne la descrizione di figure professionali) e delle condizioni da presidiare affinché lungo la sequenza del processo stesso non avvenga che “si perda valore” (il processo stesso può essere infatti inteso come una “catena del valore”) e cioè che nelle diverse fasi in cui esso si struttura abbiano luogo errori o comportamenti che producano “dispersione”, conducendo a un esito negativo o comunque qualitativamente non all’altezza delle esigenze e dei risultati attesi. È importante osservare in premessa che l’analisi del lavoro delle persone (ruoli, posizioni, figure professionali ecc.) e l’analisi delle competenze correlate all’efficace realizzazione delle attività (funzioni, compiti, operazioni ecc.) che tale lavoro implica, possono essere svolte con diverse finalità, per esempio finalità di progettazione organizzativa; oppure di analisi dei fabbisogni e progettazione formativa; oppure di costruzione del sistema di valutazione delle posizioni, o di quello di valutazione delle prestazioni, o anche del sistema di selezione o di valutazione del potenziale, oppure ancora di orientamento e consulenza di carriera, oppure di ricostruzione e validazione delle esperienze e competenze non formali e informali… È facilmente intuibile da questo elenco, non necessariamente esaustivo, che finalità così diverse implichino metodologie, strumenti e setting di analisi anche alquanto diversi9, anche se alcuni elementi relativi a ciò che costituisce “oggetto” dell’analisi possono essere comuni ai diversi ambiti (in particolare, per esempio, la descrizione delle attività e delle competenze svolte nell’esercizio di tale lavoro). È altrettanto evidente che tali diverse finalità, per potere essere perseguite con successo, devono potere contare sul rispetto di determinate “condizioni”: numerosità del campione, setting, tempi, competenze di chi compie l’analisi ecc. Se si adotta questa prospettiva “di processo” nel considerare l’analisi del lavoro, allora è evidente che da un lato occorre contestualizzare tale analisi (in questo caso quindi occorre precisare che parliamo di analisi del lavoro con la finalità di definizione di “figure professionali” di riferimento che intervengono nel processo di innovazione nelle aziende industriali) e dall’altro lato che occorre “ricostruire” la sequenza delle “aree di attività” (con altro linguaggio: delle “fasi”) che la strutturano come tale. 9
Secondo il noto principio delle “5 W”: Who? Why? What? When? Where? che significa interrogarsi su “chi” promuove l’attività di analisi (quale committente); su “perché” la promuove (con quali finalità/obiettivi); su “che cosa” è opportuno/necessario analizzare per raggiungere tali finalità/obiettivi (quali oggetti e dimensioni di analisi); su “quando” realizzare l’analisi (quali tempi di osservazione/indagine); e “dove” effettuarla (quali fonti e contesti di riferimento).
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In altre parole, così come per potere analizzare il processo di innovazione ci si è chiesti “quali attività sono necessarie per produrre prodotti innovativi e quali sono i requisiti di qualità per il loro efficace esercizio”, allo stesso modo per potere analizzare il processo di analisi del lavoro in funzione della definizione di una figura professionale occorre chiedersi “quali attività sono necessarie per definire una figura professionale e quali sono i requisiti di qualità per il loro efficace esercizio”. Ricostruita tale mappa, come si potrà osservare, risulterà più agevole individuare quali sono le dimensioni e i fattori da presidiare per evitare che nella “catena del valore” si accumulino dispersioni di qualità, con esiti negativi.
4. Il processo di analisi del lavoro finalizzato a descrivere una figura professionale: un percorso in 10 passi Il processo di analisi del lavoro finalizzato a descrivere una figura professionale può essere rappresentato come un percorso articolato in dieci passi: a ciascuno di essi corrispondono allo stesso tempo alcuni “problemichiave” che occorre affrontare per assumere una decisione e alcuni “requisiti di qualità” che è essenziale presidiare se si intende assicurare un buon esito delle attività. Lungo il percorso, inoltre (come vedremo in un paragrafo successivo) si incontrano alcuni “noccioli duri”: intendendo con tale locuzione alcuni dilemmi che da sempre attraversano il dibattito su questi temi (comportamenti di ruolo, competenze, analisi del lavoro ecc.) e che nella pratica professionale, non essendo ancora pervenuti a una soluzione “definitiva”, tendono a ripresentarsi e rendono necessarie soluzioni temporanee, “contingenti” e “convenzionali”.
4.1. Primo passo. Definizione delle “basic assumptions” Che se ne sia consapevoli o meno (ma nella prospettiva del “professionista riflessivo” che abbiamo proposto, è molto meglio esserlo), se si pianifica un’attività di indagine per descrivere una figura professionale significa che si “hanno in testa” ipotesi di lavoro specifiche in relazione a tale oggetto (le basic assumptions alle quali ci siamo riferiti in precedenza): sia in termini di linguaggio da adottare e quindi di sistema di classificazione degli “oggetti” da prendere in esame (processi aziendali, ruoli,
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figure professionali, competenze; innovazione, innovation funnel e fasi/aree di attività, filiere produttive ecc.), sia in termini di modelli di intervento, metodologie e strumenti appropriati al fine. La “consistenza” e la “validità” delle ipotesi/linguaggi e dei modelli di riferimento costituiscono quindi un fattore di qualità da presidiare in questo primo passo del percorso (la “solidità” scientifica, la coerenza interna ecc.). Le basic assumptions assunte a riferimento per il progetto Skill-Inn sono state richiamate nel precedente paragrafo.
4.2. Secondo passo. Definizione del campo di indagine Nel mondo reale (del quale il mondo della ricerca universitaria costituisce soltanto una parte) quando si tratta di definire quali e quanti tipi di fonti coinvolgere nell’attività di ricerca necessaria per ricostruire una determinata figura professionale “si fa quello che si può”, naturalmente al meglio di come si può: ciò significa che dal momento che i vincoli sono sempre maggiori (di tempo, di risorse finanziarie, di condizioni organizzative, di professionalità dei ricercatori, di disponibilità degli interlocutori) si tende purtroppo a fare “sempre meno”. In questo modo, il campo di indagine si restringe troppo spesso alla documentazione già disponibile e a un numero particolarmente ristretto di interlocutori (uno o due titolari di ruolo, per lo più analizzati, come si richiamerà meglio più oltre, con il solo strumento dell’intervista, quando non del questionario). Viceversa, riuscire a mantenere una tipologia di soggetti abbastanza ampia (non solo i titolari del ruolo oggetto di indagine, ma per esempio anche colleghi e responsabili e al limite anche clienti) e un numero di soggetti non troppo ridotto (una decina di soggetti per ruolo, meglio se “stratificati” per situazioni organizzativamente differenti per dimensione, tipo di prodotti e mercati, livello tecnologico ecc.) consentirebbe il presidio di un requisito di qualità che appare essenziale ai fini del risultato. Nel caso del progetto Skill-Inn, il numero dei soggetti intervistati (70) e delle aziende coinvolte (20) indica un impegno di particolare consistenza.
4.3. Terzo passo. Definizione della metodologia e degli strumenti Come già osservato, nella letteratura scientifica e nella pubblicistica tecnico-specialistica non mancano le guide metodologiche e le rassegne di strumenti per effettuare l’analisi dei processi di lavoro, dei ruoli che in
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esso insistono e delle attività a essi assegnate e delle competenze necessarie per presidiarle efficacemente: dalle “istruzioni al sosia”, al thinking aloud, dai focus group ai panel di esperti, dalle interviste semistrutturate ai questionari, dal diario al resoconto, dall’analisi del critical incident alla behavioural event interview, dalla job learning analysis alla tradizionale matrice job-skill, dall’intervista in profondità alla check-list di controllo, all’osservazione diretta ecc. Anche in questo caso, come per la definizione del campo di indagine, dal momento che i vincoli sono sempre maggiori (di tempo, di risorse finanziarie, di condizioni organizzative, di professionalità dei ricercatori, di disponibilità degli interlocutori) la tendenza riscontrabile va nella direzione di “ridurre” alla sola intervista semistrutturata (che a volte “incorpora” qualche informazione relativa a episodi critici nell’esercizio del ruolo che l’intervistato ricordi) lo strumento effettivamente utilizzato. E anche in questo caso, riuscire a mantenere un poco più ampia la gamma degli strumenti utilizzati (essendo del tutto evidente che strumenti diversi consentono di focalizzare aspetti diversi del fenomeno che si sta analizzando e che quindi una pluralità di strumenti, consente una “visione” decisamente migliore) costituisce un requisito di qualità essenziale da presidiare per non disperdere valore nel percorso. Nel caso del progetto Skill-Inn, lo strumento utilizzato per l’indagine è stato da un lato “tradizionale” (l’intervista), e dall’altro “innovativa” (ancoraggio al processo di innovazione; adozione del linguaggio EQF; guida metodologica di supporto).
4.4. Quarto passo. Informazione e formazione dei ricercatori Troppo spesso si tende a ritenere che la progettazione “di desk” esaurisca l’impegno necessario per assicurare la qualità del risultato: in realtà, anche in questo quarto passo del percorso (e quanto più la strumentazione adottata sia tale da richiedere partecipazione attiva e competenza in relazione alla somministrazione e all’analisi/interpretazione da parte di coloro che effettuano l’indagine e utilizzano gli strumenti) la quantità e la qualità dell’informazione e della formazione specifica che i ricercatori ricevono costituiscono requisiti essenziali per ottenere risultati positivi e attendibili. Come accade alle persone coinvolte nei processi aziendali, così anche le persone coinvolte nel processo di analisi del lavoro (i ricercatori) hanno una necessità “vitale” di avere da un lato informazioni che consentano loro di “attribuire senso” alle attività di indagine alle quali sono chiamati a partecipare (inquadrandone e condividendone motiva-
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zioni, finalità-obiettivi, contesto, stakeholders e interlocutori, scelte metodologiche, esigenze e risultati attesi) e dall’altro di acquisire o consolidare le competenze (che si compongono di conoscenze tecniche, ma anche di capacità metodologiche e relazionali ecc.) necessarie per contribuire in modo efficace alla ricerca nell’esercizio del proprio ruolo. Nel caso del progetto Skill-Inn la scelta dei ricercatori si è in generale basata su prerequisiti accertati di competenza ed esperienza, sia di settore/processo, sia metodologica.
4.5. Quinto passo. Test-pilota e realizzazione dell’indagine mediante l’analisi dei ruoli Anche la prima parte di questo quinto passo del percorso confligge con la molteplicità dei vincoli (tempo ecc.) e con le prassi consolidate in molti ambiti: la “sindrome dell’urgenza” porta infatti sempre più spesso a rinunciare a dedicare tempo e risorse a una fase iniziale di “pre-test” della metodologia e della strumentazione adottata, che costituisce invece un requisito di qualità importante perché consente di valutare l’opportunità o la necessità di modifiche, ritarature, riallineamenti, integrazioni ecc. La realizzazione dell’indagine comprende poi la fase di contatto degli interlocutori da coinvolgere (aziende, soggetti da intervistare) e quindi, anche in questo caso, la fase di necessaria informazione e condivisione con gli stessi in relazione al significato dell’attività, alle sue finalità, caratteristiche, agli esiti attesi. Successivamente, la realizzazione dell’indagine implica la somministrazione degli strumenti adottati per l’analisi dei ruoli: nel caso dell’intervista, per esempio, è cruciale (ai fini della qualità delle informazioni che si possono raccogliere) il modo in cui si instaura la relazione in avvio con gli interlocutori (informando, chiarendo e “mappando”, responsabilizzando, “promettendo” riservatezza e “restituzione” di dati), nonché il modo in cui si gestisce in itinere (ascoltando attivamente, riformulando quando necessario, facilitando, supportando, fornendo feedback) e anche in uscita (ricostruendo, riconoscendo, ringraziando, programmando la restituzione dei dati). Nel caso del progetto Skill-Inn, molto opportunamente la fase di pre-test è stata realizzata e ha tra l’altro dato luogo ad alcune modifiche e integrazioni della scheda di intervista e della stessa guida metodologica; inoltre, le sessioni di accompagnamento e supervisione in progresso (cfr. di seguito) hanno consentito ai ricercatori di scambiare esperienze e valutazioni sulle modalità di relazione adottate, utilizzandole quale opportunità di analisi critica e di miglioramento delle proprie strategie.
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4.6. Sesto passo. Monitoraggio e supervisione in progress La fase di realizzazione dell’indagine non dovrebbe costituire una sorta di black box opaca dentro la quale non è possibile “leggere” che cosa avviene: come in tutti i processi lavorativi è particolarmente importante ai fini dell’efficacia della performance professionale che i ruoli in essa coinvolti possano disporre di un dispositivo (uno spazio, un tempo, delle risorse) per riflettere “in corso d’opera” sul proprio comportamento professionale, sui suoi esiti, sui problemi incontrati, sulle soluzioni adottate, sulle suggestioni emergenti dall’esperienza al fine di migliorare la capacità di affrontare il proprio ruolo (chiarezza cognitiva del compito, autovalutazione rispetto a esso, competenze mobilitate, aspettative e motivazioni, contenimento dell’ansia, ulteriore alimentazione informativa ecc.) e per questa via di migliorare la qualità delle interviste realizzate e dei risultati ottenuti tramite esse. Questa riflessione (anch’essa coerente con la prospettiva del “professionista riflessivo” che viene richiamata più oltre nel paragrafo sulle basic assumptions) può assumere la forma della supervisione di un metodologo esperto (che potrebbe/dovrebbe a seconda dei casi anche avvalersi del contributo di un tecnico esperto dei contenuti lavorativi specifici oggetto di analisi da parte dei ricercatori), oppure quella di una revisione peer-to-peer (eventualmente facilitata e animata dall’esperto) nella quale sia possibile mettere a confronto le esperienze e le valutazioni dei diversi ricercatori in merito alle loro prestazioni. Nel caso del progetto Skill-Inn è stato dedicato intenzionalmente e in modo ricorrente uno spazio all’attività di monitoraggio e supervisione in progress, e sono state praticate entrambe le modalità indicate (contributo dell’esperto metodologico/tecnico e confronto peer-to-peer).
4.7. Settimo passo. Elaborazione dei dati raccolti e stesura del descrittivo della figura professionale Come è stato affermato, “l’informazione è nell’ascolto”10: ciò significa che non c’è valore nei “dati” che il ricercatore raccoglie (per esempio tramite le sue interviste) se poi egli non è in grado di “vederli” e di valorizzarli da un lato nel momento stesso in cui li raccoglie dalle proprie
10 L’osservazione è di G. De Michelis in A che gioco giochiamo? Linguaggio, organizzazione, informatica, Guerini, Milano, 1995.
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fonti, e dall’altro nel momento in cui, terminata la raccolta, si tratta di elaborarli e di interpretarli. Ciò richiede naturalmente sia una competenza tecnico-specifica (relativa all’ambito oggetto di analisi), sia una competenza metodologica; ma richiede anche motivazione, sensibilità e capacità di “attribuzione di senso” ai dati raccolti, anche in relazione ai framework teorico-concettuali o tecnico-scientifici disponibili. Oltre a ciò, anche per questo settimo passo ancora una volta risulta cruciale come requisito di qualità la disponibilità di risorse temporali, di tecnici esperti quando necessario, di supervisione da parte di un esperto metodologo oppure di un confronto peer-to-peer. Naturalmente, oltre che alle competenze del ricercatore (e alle risorse disponibili/mobilitabili), l’informazione che potrà essere tratta dai dati raccolti sarà anche funzione delle caratteristiche del format del descrittivo della figura professionale che egli deciderà di adottare: il format infatti funziona come un filtro e “seleziona” a priori i dati “rilevanti” e cioè da un lato quelli che vengono raccolti e dall’altro quelli che vengono “traslati” dalle interviste sul ruolo al descrittivo della figura professionale. Ciò significa che format diversi selezionano dati diversi e quindi producono informazioni diverse, e che la qualità del format è quindi un ulteriore importante fattore di qualità del processo, per ciò che riguarda questo specifico “passo”: come d’altra parte mostra chiaramente la comparazione di qualsiasi figura professionale presente in diversi sistemi di rappresentazione della professionalità. Nel caso del progetto Skill-Inn, le competenze degli esperti che hanno operato nella fase di elaborazione dei dati e di stesura del descrittivo sono state intenzionalmente composte in modo da risultare differenti e complementari. Quanto al format, è stata intenzionalmente operata un scelta che da un lato è “estensiva” rispetto al format utilizzato attualmente nel sistema di rappresentazione delle figure professionali della Regione del Veneto (in particolare, il Borsino delle professioni di Veneto Lavoro), e dall’altro contemporaneamente è “riduttiva” rispetto al sistema di rappresentazione ISFOL-ISTAT, che si ritiene contenere un numero e una tipologia di dimensioni eccessivamente ampia e in alcuni casi paradossalmente troppo generiche e aspecifiche.
4.8. Ottavo passo. Restituzione dei risultati ai soggetti coinvolti e agli stakeholders La “catena del valore” di un percorso di analisi del lavoro finalizzato alla definizione di una figura professionale è composta da un ulteriore
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“anello” che occorre presidiare con attenzione: quello della “restituzione” dei risultati dell’analisi da un lato agli interlocutori che hanno rappresentato le fonti di informazione (dirigenti e lavoratori intervistati o ai quali sia stato sottoposto uno degli altri possibili strumenti di indagine) e dall’altro ai diversi stakeholders dell’intervento (per esempio responsabili degli Organismi partner del progetto del quale l’intervento di analisi fa parte; dirigenti e/o funzionari degli Enti pubblici che abbiano finanziato il progetto e quindi l’intervento; imprenditori e/o manager delle imprese coinvolte; rappresentanti delle parti sociali). Nel primo caso (dirigenti e lavoratori intervistati nell’ambito dell’intervento) la restituzione costituisce sia un “comportamento etico” (che rende ragione a soggetti ai quali è stato richiesto un impegno dei risultati raggiunti anche grazie a esso: saturando quindi sia una dimensione di doverosa informazione e quindi di ricostruzione di senso di tale impegno, che una dimensione – a nostro avviso altrettanto doverosa – di “riconoscimento” del contributo offerto). Tale restituzione potrà anche costituire la preziosa occasione per una verifica a livello individuale o meglio ancora a livello collettivo (anche se l’esperienza mostra che ciò risulta in realtà particolarmente problematico per comprensibili motivi di difficoltà a conciliare la disponibilità contemporanea di diversi soggetti) del descrittivo della figura professionale alla quale si è pervenuti a seguito dell’elaborazione dei dati (cfr. il precedente “settimo passo”). Nel secondo caso (gli stakeholders del progetto di cui l’intervento di analisi fa parte) la restituzione costituisce invece un momento importante non solo per comunicare e valorizzare i risultati e per questa via riaffermare il significato del progetto, le sue motivazioni e finalità, ma anche per effettuare una “validazione esterna” del descrittivo ricavato in esito, accogliendo eventuali osservazioni e proposte di modifica o integrazione allo stesso. Nella prospettiva qui suggerita, quindi, l’analisi del lavoro finalizzata a definire una figura professionale non costituisce soltanto una procedura di tipo tecnico che coinvolge ricercatori e fonti-soggetti intervistati (procedura che quindi risulta “ben fatta” quando sono rispettati requisiti e criteri di ordine metodologico come quelli cui ci siamo riferiti e va presidiata metodologicamente), ma costituisce allo stesso tempo anche un processo di tipo socio-istituzionale, che coinvolge una platea di stakeholders rappresentanti di soggetti diversi (processo che quindi va anch’esso attentamente presidiato, assicurando informazione e inclusione, sollecitando partecipazione attiva, responsabilizzazione, ownership e “presa in carico” dei risultati se si vuole che questi non si limitino a una magari elegante pubblicazione finale ininfluente ai fini della modifica delle pratiche formative, di orientamento e incontro doman-
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da/offerta, di gestione e sviluppo delle risorse umane che il mondo delle imprese e le istituzioni pubbliche ciascuno per la propria parte programmano e realizzano). Nel caso del progetto Skill-Inn è stata finora particolarmente saturata la “restituzione” agli stakeholders (i partner del progetto; le istituzioni regionali) sia mediante incontri specifici che mediante il sito di progetto che mediante il seminario finale; si tratta di trovare le forme più appropriate ed efficaci per la “restituzione” anche ai soggetti aziendali coinvolti.
4.9. Nono passo. Comunicazione e diffusione Le attività richiamate al punto precedente (incontri e seminari di restituzione ai dirigenti e lavoratori intervistati e agli stakeholders sui risultati del lavoro di analisi), pur avendo certamente una finalità (tra le altre, come si è osservato) di comunicazione, costituiscono ancora, in qualche modo, soltanto una forma di “comunicazione interna” al perimetro dei soggetti più direttamente coinvolti nell’intervento e nel progetto di cui esso fa parte. Ma è parimenti importante che la comunicazione (sui risultati, sulla metodologia che li ha resi possibili e sugli strumenti utilizzati, su ciò che l’esperienza ha consentito eventualmente di apprendere sia sul piano dei concetti, delle teorie e dei modelli; sia sul piano delle tecniche di analisi; sia sul piano del “processo” socioistituzionale, anche al fine di individuare possibili elementi di sviluppo e miglioramento) possa raggiungere una platea più ampia di soggetti “esterni” al progetto ma non per questo a esso estranei: per esempio gli Organismi di ricerca e formazione e i soggetti socio-istituzionali locali non coinvolti nell’intervento, ma anche i soggetti formativi e professionali, socio-istituzionali e imprenditoriali di altri contesti regionali o di livello nazionale ed europeo. A tale fine è possibile realizzare eventi “dedicati” (seminari-convegni; workshops); pubblicazioni monografiche (meglio se con editori nazionali, che possano garantire sia ampia diffusione sia “reperibilità” dei volumi); siti web dedicati oppure inseriti in siti o portali già attivi; interventi su social networks; conferenze stampa e servizi su radio e tv. Una modalità di diffusione poco praticata ma particolarmente interessante potrebbe essere rappresentata inoltre dalla “messa a catalogo” di un modulo formativo che abbia la finalità di formare all’uso della metodologia praticata e al presidio del processo socio-istituzionale attivato, a partire dall’analisi dell’esperienza realizzata e utilizzata come “caso”. Nel caso del progetto Skill-Inn, particolare at-
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tenzione è stata dedicata al sito di progetto (che comprende non solo materiali scritti, ma anche video con interviste ad alcuni degli esperti coinvolti oltre che al direttore del soggetto leader del progetto), nonché al seminario finale di presentazione dei risultati; a ciò si aggiunge il volume di cui questo capitolo fa parte, quale ulteriore mezzo di comunicazione e diffusione.
4.10. Decimo passo. Riflessione e apprendimento dall’esperienza Per un “professionista riflessivo” (come quello al quale ci siamo ispirati in questo capitolo: cfr. più oltre) questo decimo passo costituisce l’ultimo anello della “catena del valore”, che consente di riagganciarsi al primo (la ri-definizione delle basic assumptions, che l’esperienza concreta sul campo avrà consentito di testare, verificare, “falsificare”). Oltre che riflettere in progress durante le diverse fasi, infatti, alla fine occorre “tirare le somme” e ripercorrere l’esperienza per trarne le lessons learned (alle quali è dedicato un paragrafo specifico più oltre) e cioè per formalizzare quello che essa ha consentito di acquisire. Ciò potrà riguardare gli assunti di base, le stesse finalità e i risultati attesi, oppure le singole fasi (i passi) e le relative metodologie, procedure, strumenti, oppure ancora i soggetti e gli stakeholders e le relazioni con gli stessi, o ancora le modalità di rielaborazione e di comunicazione, oppure le stesse modalità di riflessione sull’azione, o ancora le modalità di esercizio del proprio ruolo nell’ambito del processo di analisi. Qualunque sia l’ambito (o gli ambiti) oggetto di riflessione e di apprendimento, ciò che è importante è che questo “esercizio” possa essere formalizzato anche con modalità strutturate e quindi non lasciato alla semplice introspezione volontaria dei singoli soggetti coinvolti: occorrono quindi un tempo e uno spazio “dedicato” a questo tipo di riflessione conclusiva; spazio che va definito, animato, coordinato, in una parola presidiato, in modo non solo burocratico-formale (per potere dire l’“abbiamo fatto”) ma sostanziale. Nel caso del progetto Skill-Inn, si può affermare che vi è stata una positiva “tensione” in questa direzione per tutto il progetto, della quale forniscono concreta testimonianza sia gli ultimi incontri del Comitato di progetto, sia il seminario finale di presentazione dei risultati, sia infine questo stesso volume. Le considerazioni svolte in questo paragrafo in relazione ai “dieci passi” del percorso di analisi del lavoro per la definizione di una figura professionale e ai relativi “requisiti di qualità” possono essere utilmente sintetizzate nella tab. 1.
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Tabella 1 I dieci passi
Le dimensioni da presidiare
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Definizione delle basic assumptions
Consistenza delle ipotesi/linguaggi e dei modelli di riferimento (solidità scientifica, coerenza interna ecc.).
2
Definizione del campo di indagine
Ampiezza della tipologia e del numero delle fonti e dei soggetti intervistati.
3
Definizione della metodologia e degli Ampiezza della gamma di strumenti utilizstrumenti zati (intervista, questionario, panel ecc.).
4
Informazione e formazione dei ricer- Quantità e qualità dell’informazione fornita, catori dell’esperienza pregressa e della formazione ad hoc dei ricercatori.
5
Test-pilota e realizzazione dell’indagi- Feedback su metodologia e strumentazione. ne mediante l’analisi dei ruoli Relazione con gli interlocutori da coinvolgere: informazione e condivisione di significati, finalità, esiti attesi. Processo di somministrazione degli strumenti e relative implicazioni relazionali.
6
Monitoraggio e supervisione in pro- Sessioni di supervisione di un esperto metogress dologo e/o di revisione peer-to-peer per il confronto di esperienze e valutazioni in merito all’andamento dell’indagine.
7
Elaborazione dei dati raccolti e stesura Competenza sia tecnico-specifica che metodel descrittivo della figura professio- dologica. Tempi adeguati per l’elaborazione. nale Supporto da parte di metodologi e/o di tecnici del processo in esame e/o confronto peer-to-peer. Forma del format di descrittivo della figura professionale.
8
Restituzione dei risultati ai soggetti Attenzione alla dimensione sociocoinvolti e agli stakeholders istituzionale del processo (mediante forme appropriate). Informazione e inclusione di soggetti coinvolti e stakeholders; loro partecipazione attiva; responsabilizzazione; ownership; presa in carico dei risultati.
9
Comunicazione e diffusione
10
Riflessione e apprendimento dall’espe- Tempi e spazi “dedicati” (sia mediante sesrienza sioni di lavoro ad hoc, sia nell’ambito degli eventi di comunicazione e diffusione). Animazione e coordinamento dei momenti di riflessione.
Pluralità, efficacia e appropriatezza dei media: per esempio seminari, convegni, workshops, pubblicazioni monografiche, siti web, social networks, conferenze stampa, radio e tv.
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5. I processi di lavoro: dalle “cose giuste” al “giusto modo” per farle È facilmente osservabile (e risulta ancora una volta confermato anche dall’esperienza sviluppata nel progetto Skill-Inn) che ciascuna delle aree di attività in cui si articola il processo di analisi del lavoro presuppone proprie procedure, metodologie, strumenti, relazioni ecc. e che il loro puntuale presidio rappresenta un antidoto a quella potenziale “dispersione” di qualità lungo la “catena del valore” che costituisce il rischio da evitare. D’altra parte, richiamare, come abbiamo fatto, questo percorso “in dieci passi” è utile per due diverse finalità. Da un lato, ciò consente infatti di disporre di una check-list puntuale delle fasi e degli ambiti di attività che è necessario prima di tutto realizzare e in secondo luogo presidiare efficacemente se si intende ottenere in esito un risultato “di qualità” (e cioè, in questo caso, un descrittivo della figura professionale che sia “consistente”, valido, analitico, che possa effettivamente costituire il riferimento di una gamma ampia ed eterogenea di ruoli). Dall’altro lato, ciò consente anche di osservare che (come sappiamo dall’esperienza della certificazione dei processi in base alle norme ISO) in particolare nell’ambito dei servizi “fare le cose giuste” (the right things) secondo la procedura prevista è condizione necessaria ma non sufficiente per ottenere un risultato di qualità: occorre infatti anche che quelle cose siano fatte “nel modo giusto” (the things right), e cioè che siano agìte con modalità e comportamenti (e quindi, prima, con “disposizioni” e atteggiamenti) che esprimano, oltre che competenza per così dire “procedurale” (quella per la quale le persone “fanno ciò che in base alla procedura è previsto che facciano”), anche committment, interesse e disponibilità ai contenuti, cura e attenzione alle relazioni11. Ripercorrendo i “dieci passi” assumendoli come una sorta di vademecum, quindi, si tratta non solo di verificare se “stiamo effettivamente percorrendo” ciascuno di essi, ma anche di interrogarsi sul modo con il quale stiamo affrontando tale percorso: in altre parole, la “riflessività” deve riguardare non solo per così dire la “meccanica” (sia tecnico-metodologica che socio-istituzionale) del processo di analisi del lavoro nell’ambito del quale si sviluppa il nostro ruolo, ma anche l’etica con la quale stiamo “abitando” tale ruolo, il nostro “stile di lavoro”, il nostro coinvolgimento non formale; perché da questo, e non solo dalla meccanica, dipende la qualità del risultato che riusciremo effettivamente a perseguire. 11
Per richiamare anche in questo caso una suggestione fornita da De Saint Exupery ne Il piccolo principe, “è il tempo che hai dedicato alla tua rosa che l’ha resa così bella”.
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D’altra parte, è probabile che, in particolare in tempi come quelli che stiamo vivendo, si possa considerare come “idealistica” una sequenza processuale come quella articolata nei dieci passi indicati: non sperimentiamo infatti forse tutti ogni giorno che manca il tempo, che mancano le risorse finanziarie, che non è chiaro se vi sia, al di là dei pronunciamenti formali, un autentico interesse dei soggetti socio-istituzionali al merito degli oggetti che stiamo qui trattando, che manca la “temperie culturale” che possa attribuirvi il giusto valore? In altre parole, ritornando a una delle aporie tipiche del discorso sulla qualità: se non vi è nessuno che sia disposto to pay for quality (intendendo: la qualità che siamo in grado di offrire con i nostri “dieci passi” percorsi “nel modo giusto”) questo non mette forse “per definizione” in crisi il nostro assunto che ciò che stiamo producendo e offrendo sia, appunto, quality? Naturalmente, dal nostro punto di vista la domanda è retorica e la risposta è che invece una cultura e uno “spirito del tempo” troppo poco attenti alla qualità per come l’abbiamo qui intesa e proposta abbia già fatto fin troppi danni, e che il nostro Paese non possa continuare più a lungo a permetterseli.
6. I prodotti e i risultati del progetto Skill-Inn Il progetto Skill-Inn ha consentito di perseguire un insieme particolarmente ampio e rilevante di prodotti e di risultati; tra questi in particolare: • un modello di descrizione del processo di innovazione delle aziende industriali, e delle aree di attività che lo strutturano12 (cfr. al riguardo la tab. 2); • una guida metodologica per l’analisi di ruoli, attività e competenze nel processo di innovazione nelle aziende industriali, quale supporto alla traccia di intervista per i testimoni aziendali13; • 70 protocolli di interviste realizzate con imprenditori, dirigenti, tecnici (60 occupati e 10 disoccupati) coinvolti nel processo di innovazione: il che offre in prospettiva la possibilità di una loro analisi aggregata per casi aziendali (20 aziende); • una mappa dei ruoli che intervengono nel processo di innovazione nelle aziende (funzioni svolte, tipi di attività, competenze ecc.), quali per esempio quelli indicati nella tabella seguente e che sono riferibili alle 12
Il contributo fondamentale su questo punto è stato offerto da G. Bernardi nell’ambito del Comitato Scientifico del progetto. 13 Il contributo fondamentale su questo punto è stato offerto da R. Garbellano nell’ambito del Comitato Scientifico del progetto.
133
•
tre “figure professionali” di interesse del progetto (Responsabile R&S; Capo Ufficio Tecnico; Progettista) (cfr. tab. 3); una mappa comparativa dei tipi di attività del processo di innovazione in cui operano gli intervistati i cui ruoli fanno riferimento a ciascuna delle tre figure professionali prescelte (Responsabile R&S; Capo Ufficio Tecnico; Progettista); la mappa, come si può osservare dalla tabella seguente, mostra in modo particolarmente evidente, in tutti tre i casi, la “contingenza” e la specificità delle configurazioni di ruolo (cfr. tabb. 4-6);
Tabella 2 – Processo di innovazione Area di attività
Attività specifiche
Ricerca sui mercati
• Analisi della domanda • Analisi dell’offerta
Ricerca sulle tecnologie
• Identificazione • Selezione • Acquisizione • Protezione
Creazione delle idee di prodotto
• Generazione
Sviluppo nuovi prodotti
• Comprensione dei bisogni dei clienti
Progettazione prodotto/processo
• Progettazione sistema
• Selezione • Definizione dell’architettura • Progettazione sotto-sistema • Sperimentazione e miglioramento • Avviamento alla produzione
Tabella 3 Direttore ricerca e sviluppo
Progettista elettrico
Responsabile ricerca e sviluppo
Design engineer
Product manager
Direttore design
Responsabile produzione
Responsabile progettazione hardware
Marketing e prodotto
Presidente
Responsabile sviluppo prodotto
Responsabile ufficio tecnico
Progettista software
Direttore commerciale
Progettista meccanico
Advanced engineering manager
Progettista
Science technology manager Coordinatore area tecnica
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Tabella 4 – Figura professionale di riferimento: Responsabile R&S Attività
Interv 1
Interv 2
Interv 3
Interv 4
Interv 5
Analisi della domanda
Analisi dell’offerta
Identificazione delle tecnologie
Selezione
Acquisizione
Protezione
Generazione di idee
Comprensione dei bisogni dei clienti
Definizione dell’architettura
Interv 6
Interv 7
Interv 8
Selezione di idee
Progettazione a livello di sistema
Progettazione sotto-sistema
Sperimentazione e miglioramento
Avviamento alla produzione
Tabella 5 – Figura professionale di riferimento: Capo Ufficio Tecnico Attività
Inter v1
Inter v2
Inter v3
Inter v4
Inter v5
Inter v6
Inter v7
Analisi della domanda
Inter v9
Analisi dell’offerta Identificazione delle tecnologie
Selezione
Acquisizione Protezione Generazione di idee
Inter v8
Selezione di idee Comprensione dei bisogni dei clienti
Definizione dell’architettura
Progettazione a livello di sistema
Progettazione sotto-sistema Sperimentazione e miglioramento
Avviamento alla produzione
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Tabella 6 – Figura professionale di riferimento: Progettista Attività
Interv 1
Interv 2
Interv 3
Interv 4
Interv 5
Interv 6
Analisi della domanda Analisi dell’offerta
Selezione
Acquisizione
Protezione
Identificazione delle tecnologie
Generazione di idee Selezione di idee
Comprensione dei bisogni dei clienti Definizione dell’architettura
Progettazione a livello di sistema
Progettazione sotto-sistema
Sperimentazione e miglioramento
Avviamento alla produzione
•
•
•
la descrizione, su tale base, della figura professionale del “Responsabile della Ricerca e Sviluppo” con un format specifico, per la quale è stato adottato intenzionalmente (per le motivazioni già richiamate e per quelle che verranno ulteriormente indicate di seguito) il Framework EQF per la descrizione delle competenze e la relativa referenziazione di tale figura ai livelli EQF; l’elaborazione preliminare dei materiali relativi alle interviste dei soggetti che svolgono ruoli che fanno riferimento alle figure professionali del “capo ufficio tecnico” e del “tecnico-progettista” (aggregazione dei diversi tipi di dati raccolti tramite le schede; tabelle di comparazione per area di attività) utilizzabili quali preziosa fonte di informazioni qualora si intenda procedere alla descrizione delle due ulteriori figure professionali di interesse del progetto oltre a quella del Responsabile della Ricerca e Sviluppo (Capo Ufficio Tecnico; Progettista); una mappa arricchita e integrata delle “conoscenze, abilità e competenze” correlate al processo di innovazione industriale e ai diversi ruoli coinvolti, da cui emerge l’importanza non solo delle competenze “tecnico-professionali”, ma anche di un’altra tipologia di competenze, tra le quali per esempio: – competenze relazionali e di teamwork (interne ed esterne all’impresa); 136
– – – –
•
competenze di utilizzo delle reti relazionali e informative; competenze di apprendimento e assorbimento/internalizzazione; competenze di comunicazione e di integrazione organizzativa; competenze di gestione strutturata dei processi (project management ecc.); questo stesso volume finale, che insieme all’evento seminariale conclusivo (condiviso con altri cinque progetti su temi connessi) e insieme al sito web dedicato al progetto e ai diversi materiali prodotti costituisce un esempio concreto di che cosa possa significare quel “nono passo” del percorso di analisi del lavoro che si è in precedenza richiamato (comunicazione e diffusione).
7. Antinomie, dilemmi, “noccioli duri” Nel percorso realizzato analizzando i ruoli professionali coinvolti nel processo di innovazione nelle aziende industriali del Veneto, lo staff di progetto si è trovato ad attraversare quel territorio accidentato che è costituito dalle questioni che da sempre “fanno problema” quando si affrontano questi temi e che vale la pena di richiamare solo per punti (rinviando per un approfondimento ad altri contributi, citati in nota), per farne memoria e per confermare quanto anticipato nei primi paragrafi del capitolo, e cioè come in effetti si tratti sempre, nelle pratiche concrete di intervento sul campo, di riuscire a trovare temporanei e convenzionali “punti di equilibrio” che consentano di agìre, senza farsi paralizzare dall’“iperconsapevolezza” dei problemi, e “navigando” tra le tante antinomie e “contenendo” i non pochi dilemmi che sembrano ormai da tempo connaturati a questo ambito di riflessione e di intervento. Una prima antinomia “fondativa” attiene alle basic assumptions ed è quella che distingue tra “competenze” (al plurale) e “competenza” (al singolare)14: questa rinvia naturalmente a linguaggi e sistemi di classificazione delle competenze diversi a seconda della prospettiva adottata. Per inciso, come già osservato il framework EQF, mettendo sullo stesso piano conoscenze, abilità e competenze ma nello stesso tempo specificando il diverso “statuto” delle competenze rispetto alle altre due dimensioni contribuisce ulteriormente a rendere complesso e contraddittorio questo “oggetto”. 14
Cfr. per un dettaglio P. G. Bresciani, La competenza. Appunti di viaggio, cit., e Riconoscere e certificare le competenze. Ragioni, problemi, aporìe, cit.
137
Una seconda antinomia, anch’essa attinente alle basic assumptions, è quella che distingue la competenza dalla performance: come abbiamo altrove osservato15, c’è qualcosa di paradossale nella “deriva tautologica” per la quale le competenze vengono descritte ormai correntemente in realtà come performance (e cioè come capacità di svolgere una determinata attività, con una soluzione linguistica che appare come un escamotage) anziché come i diversi tipi di risorse che entrano in gioco e vengono mobilitati in quel particolare tipo di combinazione che è un’azione “competente”. Nello stesso tempo, occorre riconoscere che, forse proprio per questo suo “eccesso di semplificazione”, tale modalità di espressione sembra contribuire meglio dell’altra a definire in modo intersoggettivamente più “condiviso” le caratteristiche di una prestazione professionale efficace e quindi si diffonde nel tempo e nello spazio, e sappiamo che la prassi contribuisce progressivamente a strutturare la norma. Una terza antinomia è quella che distingue tra competenze in quanto risorse degli individui e competenze in quanto risorse della comunità professionale nella quale l’individuo è inserito. Nel dibattito tecnico-scientifico convivono posizioni differenti a questo riguardo e anche su questo aspetto abbiamo svolto altrove alcune considerazioni16 che se da un lato riconoscono l’importanza del contesto socio-organizzativo e relazionale come fattore sia di acquisizione che di effettivo esercizio delle competenze, dall’altro confermano l’“ascrivibilità” delle competenze in ultima analisi a un soggetto specifico, storico, unico. Una quarta antinomia è quella che distingue tra concretezza e “contingenza” dei ruoli professionali empiricamente rilevati (le funzioni e le attività che le persone svolgono negli specifici processi e contesti organizzativi in cui sono collocate a partire dai compiti assegnati e dal conseguente sistema di aspettative, con i vincoli e le risorse che li caratterizzano) e astrattezza e “universalità” della figura professionale cui tali ruoli fanno riferimento. Ciò emerge con chiarezza in particolare quando, nel tentativo di utilizzare per descrivere una figura professionale formulazioni linguistiche abbastanza “ampie” da risultare adeguate a rappresentare la realtà di tanti ruoli diversi (per attività, per richieste del contesto, per tecnologie, per modello di organizzazione, per stile di management, per risorse a disposizione, per tipo di cliente/utente ecc.) si “tocca con mano” il rischio di per15
Cfr. anche su questo P. G. Bresciani, La competenza. Appunti di viaggio, cit., e Riconoscere e certificare le competenze. Ragioni, problemi, aporìe, cit. 16 In P. G. Bresciani, Consonanze. Etica, estetica e competenza, cit.
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venire a formulazioni talmente generali da risultare generiche e prive alla fine di un contenuto informativo apprezzabile. Una quinta antinomia è quella che attiene alla prospettiva “fenomenologico-descrittiva” piuttosto che a quella “progettuale-normativa” quando ci si accinge a descrivere una figura professionale: si tratta infatti di decidere se questa debba costituire semplicemente una sorta di “minimo comune denominatore” dei ruoli analizzati o per converso la “sommatoria” degli stessi (in entrambi casi assumendo a riferimento esclusivamente quanto rilevato tramite l’indagine); oppure se essa debba costituire, in parte anche a prescindere da ciò che è stato fenomenologicamente rilevato nell’indagine, un progetto professionale intenzionale, un “modello a tendere”, un profilo ideale di riferimento (in particolare quando tale descrizione sia opera di un soggetto socio-istituzionale). Un’ulteriore antinomia infine è quella che distingue tra “punto di vista del processo” e “punto di vista del soggetto”. Questa antinomia è ben rappresentata dalla distinzione “operativa” tra aree di attività del processo e aree di attività della figura professionale: se da un lato la scomposizione dei processi di lavoro nelle fasi (aree di attività) che li strutturano costituisce un principio operativo importante e accettato anche per analizzare i ruoli in essi coinvolti, dall’altro si tratta di valutare se lo stesso “criterio ordinativo” debba essere assunto a riferimento per descrivere la figura professionale che rispetto a tali ruoli rappresenta un’astrazione e una generalizzazione. Come si può osservare nelle tabelle comparative riportate in altra parte del capitolo che illustrano la distribuzione delle attività dei soggetti intervistati riconducibili alle tre figure professionali prescelte (Responsabile R&S; Capo Ufficio Tecnico; Progettista) nelle diverse fasi (aree di attività) del processo di innovazione industriale, il fatto che alcuni soggetti non risultino “attivi” in relazione a determinate aree di attività non significa necessariamente che essi non operino a tale livello. Il loro ruolo e il loro livello di responsabilità al riguardo potrebbero infatti configurarsi come di delega “presidiata”. Inoltre, se anziché assumere quale punto di partenza top-down il processo e le sue aree di attività noi assumessimo invece bottom-up l’individuo e le sue attività concrete nell’esercizio del ruolo per poi procedere ad “aggregare” tali attività secondo criteri di omogeneità, le nuove “aree di attività” ottenute in questo modo potrebbero realisticamente essere diverse da quelle ottenute componendo top-down il processo. In altre parole, si tratta di decidere se si intende seguire la logica delle fasi del processo per rileggere in
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relazione a esse le attività del soggetto; oppure se si intende seguire la logica operatoria del soggetto per pervenire da ciò a una autonoma classificazione dell’aree di attività.
8. Lessons learned: suggestioni e indicazioni emergenti dall’analisi Molte e di diversa natura sono le suggestioni e le indicazioni che il progetto ha consentito di sviluppare, in questa sede cerchiamo di richiamarne sinteticamente alcune a nostro avviso particolarmente cruciali. In primo luogo, il lavoro svolto rende evidente che vi è l’esigenza ormai imprescindibile di favorire la convergenza e la condivisione dei linguaggi e dei modelli di riferimento, rinunciando alla moltiplicazione dei sistemi di classificazione e dei linguaggi (grammatiche, sintassi) sulle competenze, “facendo un passo indietro” e condividendo il linguaggio istituzionale proposto dall’UE per descrivere il lavoro (indipendentemente dalle proprie visioni e opzioni “idiosincratiche” al riguardo); decidendo quindi di adottare il framework EQF, che pur con la sua imperfezione (alla quale abbiamo in precedenza accennato) può comunque costituire un utile “punto di equilibrio” nella “babele” che si è venuta delineando in questi anni nell’ambito del quale ci stiamo occupando. La “terzietà” della Commissione Europea (che ha proposto il framework EQF) e la sua natura istituzionale possono rappresentare risorse importanti per favorire la convergenza. In secondo luogo, contemporaneamente e un poco paradossalmente (in fondo, è un’altra delle “antinomie” alle quali ci siamo riferiti in precedenza), il lavoro svolto rende evidente anche che occorre “fare un passo avanti” e integrare la lettura istituzionale (e contrattuale) del lavoro e della professionalità mediante un’attività permanente di osservazione/indagine nei contesti di lavoro reali, finalizzata a fare emergere e valorizzare le competenze effettivamente agìte dalle persone “oltre i descrittivi”: ampliandone la gamma e approfondendone lo spessore, ponendo attenzione alle risorse personali implicate nel comportamento lavorativo; verificando il ruolo del contesto di lavoro (cultura e stile di management; assetto organizzativo; risorse tecniche e sociali; sistemi di ricompensa; supporto e sostegno ecc.) e della comunità socio-professionale (gruppo di lavoro, unità organizzativa ecc.) quali catalizzatori e secondo alcuni addirittura come “generatori” delle competenze; ricostruendo la dinamica complessa del rapporto tra ac-
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quisizione di competenze, loro esercizio e risultati effettivi in termini di prestazioni individuali e di performance aziendale. In terzo luogo, il lavoro svolto conferma che nel fare questo occorre ancorarsi all’analisi dei processi di lavoro e delle aree di attività che li strutturano, riferendo a essi ruoli, attività e competenze e non invece partire da queste ultime, che senza il riferimento a un processo di lavoro “perdono senso”. Come abbiamo argomentato in precedenza, i ruoli (a partire dall’analisi dei quali si costruisce poi quella “astrazione” che sono le figure professionali) si strutturano e si configurano in relazione ai processi; le attività concrete che svolgono coloro che agiscono tali ruoli assumono un significato in funzione dei processi; le competenze si correlano alle attività (oltre che alle modalità delle persone e delle comunità professionali di interpretarle e agirle), quindi ai ruoli e dunque ai processi. In quarto luogo, il progetto Skill-Inn mostra con chiarezza che occorre presidiare la “catena del valore” in tutte le fasi del percorso di analisi del lavoro (in tutte le fasi, quindi, di questo “processo di lavoro” così importante), per assicurare la qualità del risultato finale. La ricostruzione e l’interpretazione di tale percorso come “processo”, l’individuazione delle dieci fasi che lo strutturano (i “dieci passi” descritti in precedenza), l’individuazione e l’analisi dei fattori di qualità del processo e quindi delle dimensioni (per ciascuna delle fasi) il cui presidio costituisce un requisito essenziale per il buon esito del processo e per avere “valore aggiunto” in output: tutto ciò rappresenta un’altra indicazione di particolare importanza tratta dall’esperienza del progetto Skill-Inn. In quinto luogo, infine, l’esperienza realizzata indica con chiarezza che occorre dare continuità all’attività di analisi del lavoro, che va intesa quale compito istituzionale permanente (in termini di programmazione, non necessariamente in termini di gestione) e più in particolare quale attività di osservazione/indagine che deve essere “messa a regime”, capitalizzandone di volta in volta i risultati per i diversi soggetti coinvolti.
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Quanto appreso implica cose diverse per i diversi stakeholders: per le istituzioni di programmazione significa che occorre da un lato elaborare procedure e protocolli per l’integrazione e l’aggiornamento permanente dei “Repertori regionali di figure professionali” e dall’altro, a tal fine, strutturare una sorta di “osservatorio permanente” della professionalità che ne monitori con continuità
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•
•
l’evoluzione nei diversi settori e contesti di lavoro (anche razionalizzando e “mettendo a sistema” la molteplicità di iniziative di questo genere fino a ora attivate); per le strutture formative significa che occorre elaborare contenuti e progettare metodologie per innovare i curricoli dell’istruzione e della formazione, integrandovi il riferimento alle nuove competenze emergenti dall’osservazione/indagine (competenze ulteriori rispetto alla figura standard; competenze “tacite” ecc.), e innovare la didattica (metodologie, contesti di esercizio, esperti ecc.) in coerenza con quanto emerge in termini di competenze; per le imprese significa che occorre riflettere sulle proprie modalità di presidio del processo di innovazione industriale e sulle strategie per migliorarlo ulteriormente e che occorre (a partire dall’analisi dei risultati delle indagini e valorizzandone e capitalizzandone il contributo non solo statico/descrittivo, ma anche dinamico/evolutivo) definire dispositivi, risorse, condizioni e percorsi per una “ecologia dell’innovazione”, migliorando la performance aziendale in questo processo così “critico”, migliorando la gestione e lo sviluppo delle persone, migliorando l’integrazione interna ed esterna.
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5. GLI ORIENTAMENTI AZIENDALI EMERGENTI di Giovanni Bernardi
1. Premessa L’interesse a riflettere sui ruoli coinvolti nel processo di ricerca e sviluppo nuovo prodotto e sulla relative competenze nasce, oltre che dalle specifiche finalità del progetto, volte “all’attivazione di una serie di azioni finalizzate all’evidenziazione e razionalizzazione dei processi di innovazione e delle professionalità collegate”, dal più generale interesse ad analizzare le trasformazioni industriali del sistema delle PMI venete rispetto al tema, critico per la crescita d’impresa, dell’innovazione. Questo non solo a fini conoscitivi di ricerca ma soprattutto per identificare i fattori determinanti che cambiano o dovrebbero cambiare e definire delle possibili linee dell’intervento intrapreso. Il tema dell’innovazione legata alle trasformazioni industriali è stato analizzato da alcuni anni nei progetti di Confindustria Veneto SIAV e dei partner e ha trovato nel progetto Skill-Inn ulteriore focalizzazione sui ruoli e sulle relative competenze che nel processo di innovazione si incardinano e lo realizzano di fatto. Le precedenti analisi hanno già messo in luce1 come la crescita d’impresa sia legata allo sviluppo della capacità innovativa. Capire quindi quali siano i fattori che determinano la capacità innovativa significa capire le principali leve di intervento per la competitività e la crescita. In questo progetto l’interesse di ricerca è stato più specificamente orientato a rilevare attraverso interviste strutturate (come verrà descritto più avanti) le caratteristiche dei ruoli e delle relative competenze coinvolte nel processo di sviluppo nuovo prodotto, sia attraverso la lettura nella loro dimensione oriz1
G. Bernardi, G. Bettiol: “Conoscenza e innovazione della piccola e media impresa”, Quaderni di Management, n. 48, novembre-dicembre 2010; G. Brunetti, G. Bernardi, P. Garengo, “Crescere in rete”, Quaderni di Management, n. 35, settembre-ottobre 2008; G. Brunetti, G. Bettiol, “La crescita aziendale: un progetto per accompagnarla”, Quaderni di Management, n. 23, settembre-ottobre 2006.
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zontale (dei tre ruoli prescelti: Responsabile Ricerca e Sviluppo – R&S, Capo Ufficio Tecnico, Progettista) che verticale per azienda, in modo da evidenziare i fattori di contesto in cui i ruoli sono inseriti e quindi le caratteristiche firm specific. Le rilevazioni effettuate offrono diversi spunti di riflessione e anche delle ipotesi di possibile intervento per lo sviluppo, attraverso la capacità innovativa, della capacità competitiva e del processo di crescita delle PMI venete che sembra a molti essere oggi elemento centrale e critico. Emergono significative evoluzioni, tendenze, orientamenti e progetti che lasciano intuire che non solo la percezione della criticità dell’innovazione è maggiormente sentita in azienda ma anche che gli investimenti relativi in risorse e scelte organizzative sono cresciuti. Il problema può essere quello di diffondere queste buone pratiche a partire da queste significative esperienze. In generale si evidenzia una buona crescita nel livello delle competenze di base con una progressiva diffusione dei livelli di studio di partenza: lauree specie in ingegneria e comparsa di alcuni dottorati anche in aziende medio piccole ma caratterizzate da attenzione alle soluzioni tecnologiche. Torneremo sul fatto come il fattore discriminante dell’orientamento innovativo più che la dimensione possa essere la complessità del fascio tecnologico che attiene al prodotto. Sempre a livello di problemi generali si conferma il superamento della logica e della struttura per distretti con l’allungamento delle filiere: Azienda C (progettista): “Uso strumenti specifici e avanzati di calcolo e se ho problemi ricorro a dei colleghi indiani del gruppo a cui apparteniamo. È sempre uno scambio positivo”. E anche della cosiddetta “innovazione senza ricerca”: Azienda F (30 mil. di fatturato) “Lavoriamo molto a proteggere con brevetti i risultati di ricerca soprattutto di automazioni nel prodotto. Per i calcoli e gli studi più avanzati di fluodinamica ci appoggiamo all’Università con un gruppo che ci segue da tempo. Il prossimo campo di ricerca sarà l’applicazione di comandi touch screen”. La logica dell’open innovation si diffonde di fatto e così i sistemi di relazione a reti più o meno stabili che consentono l’accesso alla ricerca senza necessità di svilupparla all’interno, cosa che comunque avviene nelle aziende di maggiori dimensioni o inserite in filiere molto dinamiche. Azienda B: “Dobbiamo sviluppare parecchio la ricerca anche avanzata
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anche perché operiamo nel settore ultracompetitivo della componentistica automotive… Facendo il dottorato ho cominciato a costruirmi e poi proseguire una rete cognitiva con cui ancora interagisco”. Un fenomeno già diffuso e comunque in via di espansione è l’orientamento green su cui molti stanno lavorando e che qualcuno già usa come driver dell’innovazione tecnologica e come fattore competitivo forte. Azienda G (Grandi macchine di lavorazione lamiera): Il cambiamento che abbiamo introdotto di passare dall’oleodinamico all’elettrico ha un grosso impatto sia ecologico che di risparmio energetico. È l’elemento che ci rende competitivi. Questa attenzione all’ambiente forse è dovuta anche come cultura consolidata della precedente proprietà del nord Europa, dove sono più avanti e più sensibili di noi. Come abbiamo cercato di illustrare anche attraverso le citazioni, dall’insieme dei casi emerge la conferma dell’esaurirsi del modello distrettuale verso le relazioni lunghe di filiera e dell’innovazione senza ricerca. Se il primo fenomeno è più generale e influenza meno la struttura del processo di innovazione e quindi i ruoli che stiamo studiando, il secondo incide direttamente sulle funzioni e sui contenuti di ruolo delle persone coinvolte nel processo SNP (Sviluppo Nuovo Prodotto) modificando le attività che vi si svolgono anche in funzione delle scelte di outsourcing di fasi. Nel corso degli anni Novanta, diverse indagini di rilevanza anche internazionale hanno evidenziato due origini dell’innovazione nelle piccole e medie imprese decisamente prevalenti: a. l’attività interna di progettazione e sviluppo tecnico del prodotto, grazie al quale si generano miglioramenti incrementali (ma non per questo solo secondari) delle caratteristiche del prodotto stesso; b. l’acquisizione di tecnologia incorporata nei beni capitali, unita a una capacità di adattamento rispetto alle esigenze di differenziazione dell’offerta. Nel documento del “Forum sulla competitività” della Regione Veneto sul tema “Ricerca e sviluppo. Innovazione e trasferimento tecnologico”2 i ricercatori hanno evidenziato, tra l’altro, “la necessità di superare il paradigma attualmente prevalente e definito come “innovazione senza ricerca”, poiché “sia a livello produttivo che organizzativo, è necessario propendere
2
Curato dall’Assessorato alle politiche dell’economia dello sviluppo della ricerca e dell’innovazione e delle politiche istituzionali.
145
per un modello di ricerca strutturata che consolidi e amplifichi i risultati fino a ora ottenuti”. Il riferimento è ovviamente alla specifica realtà delle imprese del Veneto; tuttavia, le considerazioni fatte sembrano avere valenza generale. Occorre, dunque, individuare i meccanismi grazie ai quali anche per le imprese piccole e medio-piccole diventi “conveniente” investire in conoscenza. Il cosiddetto modello di “innovazione senza ricerca”3 di cui l’Italia e il Nord Est in particolare sono stati leader facendone un fattore di (apparente) successo ha subito un progressivo logoramento, che lo ha reso insufficiente a sostenere la competitività internazionale delle imprese. Da diverse parti si ritiene che i canali di innovazione che hanno funzionato in passato tendano a perdere rapidamente la loro efficacia potenziale. Questo rischio è osservabile nel caso dell’innovazione “importata” da terzi, ovvero prodotta attraverso imitazione o grazie all’acquisizione di macchinari/impianti tecnologicamente avanzati. Questo tipo di innovazione non permette infatti di sviluppare un consistente vantaggio di differenziazione né di bilanciare il vantaggio di costi dei concorrenti low cost. Occorre creare le condizioni affinché le imprese siano in grado di “auto-produrre” conoscenze originali e utili per creare un vantaggio competitivo difendibile4. Azienda C: “il mio ruolo è mantenere alte e adeguate le competenze…acquisire informazioni tramite la creazione e l’efficace gestione di relazioni esterne e interne all’azienda con il confronto diretto con centri di ricerca universitari e utilizzatori del prodotto”. Contrariamente a quanto osservato in gran parte della letteratura economica, gli investimenti in ricerca e sviluppo non sono necessariamente correlati alla dimensione aziendale. Abbiamo nel nostro caso riscontrato una notevole propensione a investire in ricerca anche presso imprese relativamente piccole. Si assume che gli scenari competitivi sempre più complessi, stiano alzando l’attenzione verso la ricerca anche tra le piccole imprese che coniugano piccola dimensione, anche in termini di numero di addetti, con intenso sforzo nella generazione di nuove conoscenze. Un aspetto particolare in questo senso è dato dalle piccole nuove imprese con imprenditori “tecnici” o addirittura “ricercatori”. Decade quindi, come non più sufficiente, il mito della creatività imprenditoriale, della flessibilità del design e dell’incrementalismo innovati3
“Andare oltre il modello di ‘innovazione senza ricerca’?”, La situazione nelle PMI del Lazio e le possibili linee di tendenza, Report Interno, 2009. 4 Grilli L., Mariotti S., “Politiche per l’innovazione e cambiamento strutturale in Italia”, L’Industria, n. 2, 2006.
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vo, sia di processo, sia di prodotto, in una logica di innovazioni marketoriented, di soluzioni nicchia customizzate e basate sulla ricombinazione sistemistica di innovazioni altrove generate, quali sono i tratti appunto dell’“innovazione senza ricerca”.
2. I modelli assunti come riferimento per l’analisi delle rilevazioni Per sintetizzare più specificamente gli aspetti emersi da un numero significativo e diversificato di aziende e ruoli abbiamo bisogno di un modello di riferimento, di una chiave di lettura. Abbiamo allora assunto: • il processo, in cui si collocano i ruoli analizzati, modellizzato nel cosiddetto funnel dell’innovazione. Anche il questionario di rilevazione segue questo percorso; • la capacità innovativa, come risultato delle competenze espresse, scomposta nelle dimensioni di: – capacità relazionale; – capacità di assorbimento; – capacità di gestione del processo di sviluppo prodotto/capacità di integrazione; • il paradigma di riferimento non può che essere quello dell’open innovation e il sistema di network in cui le aziende sono inserite che ne consegue. Figura 1 Capacità relazionali networking
Capacità di assorbimento learning
Capacità di gestione del processo integrazione
2.1. Il processo come luogo dei ruoli e delle competenze La capacità innovativa di un’impresa non è legata a improvvisi colpi di genio, ma affonda le sue radici nella robustezza delle due macrofasi fondamentali in cui può essere scomposto il processo di gestione: 1. grande apertura e sistematicità nella fase di generazione e selezione delle opportunità;
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2. capacità di sperimentazione, apprendimento e velocità di realizzazione nella fase di sviluppo di tali opportunità in prodotti commercializzabili con profitto. Le due componenti principali della capacità di innovazione sono illustrate metaforicamente nella fig. 1 del cap. 2. Quindi da un lato il problema è trovare buone idee sviluppando l’intelligence sul front-end, dall’altra saper tradurre le buone idee in prodotti con un project management efficace. E infine saper bilanciare questi due livelli. Per una efficace gestione del processo di innovazione è richiesto all’organizzazione di integrare la cultura tecnica iniziale con una cultura di tipo organizzativo, orientata a sviluppare sia una nuova sensibilità verso i clienti, come una serie di collaborazioni con soggetti esterni. Azienda M – Direttore Ufficio Tecnico: “Faccio da Project manager, definisco e controllo la struttura del processo… utilizzo le tecniche di PDM… seguo progettazione e industrializzazione vengo da una grande multinazionale… il mio obiettivo è la creazione e il mantenimento della struttura organizzativa secondo il piano di sviluppo, identificare specifici ruoli e responsabilità assegnati al progetto. Rendere visibile la struttura organizzativa impegnata nel progetto. Rendere disponibili le informazioni sulla struttura organizzativa del progetto formalizzando il piano di sviluppo. Documentare e rendere disponibili le azioni organizzative svolte”. Il Direttore Tecnico dell’azienda C che ha fatto esperienza in due grandi aziende e un master sull’innovazione è “molto orientato a introdurre strumenti e metodiche sulla gestione del processo” usando anche un adeguato linguaggio in codice. Sviluppa nel contempo una serie di interventi formativi coerenti: “Anche se non siamo grandissimi è opportuno strutturare bene il processo per essere efficienti e avere un flusso ordinato dei progetti”. La gestione del funnel si può distinguere in: • analisi e sistematica progettazione dell’architettura del funnel stesso; • implementazione di adeguate modalità organizzative e operative di gestione dei singoli progetti di sviluppo prodotto e prima ancora di selezione del portafoglio progetti; • bilanciamento del portafoglio progetti che deve garantire, in linea con le strategie di business, un’adeguata allocazione di risorse fra mainstream e newstream, in altre parole fra ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e sviluppo e miglioramento delle piattaforme di prodotto esistenti.
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Ovvero la capacità di integrare, anche attraverso una migliore e strutturata analisi del portafoglio progetti, le attività correnti per creare profitto nel breve termine con l’innovazione nel medio-lungo, ciò per mezzo dell’apporto di idee, proposte, soluzioni cui tutti concorrono (acquisti, vendite, progettazione, produzione ecc.). Quanto emerge dalle rilevazioni conferma una prevalente architettura dell’innovation funnel più orientata allo sviluppo che al front end: “Non arriviamo mai fino al cliente”, “Per capire il mercato ci basiamo sull’analisi dei prodotti della concorrenza e su analisi di settori affini. Ricerche attraverso internet per tenersi aggiornati… e le tradizionali fiere”. In particolare la fase di ricerca sui mercati o market intelligence sembra ancorata a strumenti lenti e poco anticipatori (come detto fiere, analisi prodotti della concorrenza, informazioni dalla rete) e inoltre poco sistematica. Quasi tutti hanno una “procedura sviluppo prodotto” ma più orientata alla certificazione ISO che di efficace guida al processo. La gestione dei progetti di sviluppo fa riferimento alle attività di pianificazione e coordinamento delle risorse e delle attività necessarie per trasformare i concept preliminari in prodotti industrializzati (project management – PM). Due sono nella nostra prospettiva le dimensioni del PM: una dimensione organizzativa che riguarda la definizione del gruppo di progetto e una dimensione operativa che riguarda le metodologie e le tecniche di pianificazione e controllo. Nelle rilevazioni di attività di pianificazione di progetti o di ruoli espliciti di project management si sono evidenziati 3-4 casi. Più diffuso il riferimento a una generica pianificazione legata al “piano prodotto”. Molto diffuso il richiamo ad attività in team, ai team di progetto o comunque a gruppi di lavoro, forse anche in situazioni che non lo richiederebbero in senso stretto. Sembra quasi diventato un must, anche troppo, con rischio di sovrapposizioni di ruoli, peraltro in una certa misura inevitabili in un processo incerto come l’innovazione. Tornando al bilanciamento fra innovazione più radicale o più incrementale (ovvero fra mainstream e newstream) va innanzitutto rilevato l’aspetto positivo dell’integrazione e dell’interdipendenza fra i due livelli, ma che però non vada a scapito di uno schiacciamento sul breve: aggiornamenti, modifiche, miglioramenti, cost saving. In nessuno dei casi visti vi è una separazione programmatica fra i due livelli se non al momento della definizione attuale del piano prodotto nelle aziende di maggiori dimensioni o comunque più strutturate organizzativamente. Poco considerata l’ipotesi che i due livelli possano richiedere competenze diverse; talvolta l’ampiezza della discrezionalità del ruolo potrebbe
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anche essere più dichiarata che reale, ma su questo non possiamo avere riscontri. Invece sono i livelli complementari che vanno integrati e bilanciati anche in una prospettiva di ciclo di vita delle tecnologie legate al prodotto e con modalità più sviluppate e strumentate di gestione portafoglio, progetti che non si riscontrano in modo formalizzato. Questo sembra un punto di diffusa debolezza. Peraltro nel nostro contesto di PMI anche l’innovazione incrementale ha il suo peso strategico rispetto a quella radicale, più significativa negli impatti e sul premium price di innovazione, ma meno frequente e che richiede tempi e investimenti oltre che competenze molto maggiori. Ma questo non deve voler dire farsi schiacciare sui piccoli miglioramenti quando non solo sulle modifiche spacciate per innovazione. Il fatto che molti non rispondano alle domande sul front end lascia pensare che gli orientamenti al miglioramento siano diffusi. Come in molte altre situazioni, soprattutto nell’ispirazione e nel supporto dei processi d’innovazione, centrale è la rilevanza del ruolo dei vertici aziendali, per la creazione di un contesto adeguato verso una attività incerta negli esiti e costosa nell’investimento. E quindi con: • capacità d’identificare aree d’indagine promettenti, • identificazione di priorità e capacità di focalizzarsi su pochi e determinati obiettivi. Un aspetto centrale per il rafforzamento della competitività della piccola impresa è quindi5 la capacità di “trovare specifiche forme evolutive di sviluppo senza mai tradire la propria propensione naturale. In essa debbono perciò essere presenti continue e costanti stimolazioni innovative che spesso non riescono a generarsi nell’ambito familiare”. Nella nostra realtà questa ipotesi è parzialmente smentita nei casi in cui gli imprenditori ricoprono anche responsabilità tecniche e magari i loro figli hanno lauree in ingegneria, come in almeno un paio di casi. Se difettano di risorse, questa carenza non le limita più di tanto. I loro valori possono attagliarsi ai piccoli mercati e le loro strutture dei costi possono reggere dei margini unitari più bassi. I processi, decisamente più informali, che impiegano nelle ricerche di mercato e nell’allocazione delle risorse, consentono ai manager di procedere intuitivamente, anziché con il supporto necessario di dati e analisi inoppugnabili. Tutti questi vantaggi possono dare origine a opportunità ma anche a gravi difficoltà. Sul lungo termine sarà da porre attenzione al fatto che il ricorso alla lo-
5 G. Dioguardi, Sistemi di imprese. Le nuove configurazioni dell’impresa e dei mercati, Etas, Milan. 1994.
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gica open innovation e a competenze esterne possa ridurre le competenze interne e quindi la relativa capacità di assorbimento. Se si acquisiscono all’esterno i prodotti della ricerca, per esempio nuovi materiali o processi, bisognerà comunque mantenere dei presidi di competenza che consentano di interagire a un alto livello di conoscenza. Un certo appiattimento sulla ricerca di miglioramento è comprensibile; la possibilità infatti di ottenere risultati significativi sui prodotti e processi produttivi già esistenti è legata soprattutto all’integrazione interna che i ricercatori riescono a stabilire tra il loro lavoro e quello degli uomini di produzione, di quelli operanti nell’area del marketing e di colleghi che si occupano dell’assistenza tecnica o dello sviluppo applicativo. Già questo è un processo di integrazione non facile da ottenere tra elementi che operano con un sistema di obiettivi e motivazioni del tutto differenti e anche per la sempre lamentata mancanza di comunicazione. In un caso si è creata una posizione di integrazione per il figlio del titolare che deve inserirsi: “è una figura trasversale che interviene per favorire lo scambio di informazioni fra commerciali e produzione e anche verso i professionisti esterni. Assolve un ruolo importante per l’azienda ed è positivo anche per lui che ha modo di inserirsi nel processo completo. Buona posizione anche per la sua crescita”.
2.2. Capacita innovativa come capacità di assorbimento L’aumento progressivo della complessità sia dei prodotti che dei mercati e il collegato allungamento delle filiere sia a monte che a valle porta al diffondersi di relazioni con realtà esterne fortemente coinvolte nel processo di innovazione nelle diverse fasi e ai diversi livelli. Ma queste relazioni restano sterili e o puramente commerciali/contrattuali e non diventano enablers dell’innovazione se non portano a forme di apprendimento e di internalizzazione di conoscenze. In questo senso si parla di capacità di assorbimento come elemento base della capacità innovativa: non basta stabilire relazioni bisogna anche renderle fertili. Cominciamo ad analizzare meglio la “capacita di assorbimento” o absorptive capacity6. 6
W. Cohen, D. Levinthal, “Absorptive Capacity: A New Perspective on Learning and Innovation”, Administrative Science Quarterly, 35 (1), 1990; S. A. Zahra, G. George, “Absorptive Capacity: A Review, Reconceptualization, and Extension”, Academy of Management Review, n. 2, 2002.
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Il Direttore R&S dell’azienda B definisce così il suo ruolo “acquisire informazioni tramite la creazione e l’efficace gestione di relazioni esterne e interne all’azienda con il confronto diretto con centri di ricerca universitarie e utilizzatori del prodotto”. Mentre quello dell’azienda C, che punta a differenziare un prodotto relativamente maturo con i contenuti di valore tecnologico: “Avendo pianificato l’introduzione di una tecnologia sostitutiva e naturalmente fortemente innovativa, abbiamo acquisito due ingegneri dall’azienda leader su quella tecnologia che è anche territorialmente vicina… il mio ruolo è mantenere alte e adeguate le competenze”. Questi due casi rappresentano operativamente quella che è stata nei sacri testi definita come “capacità di assorbimento”. Il concetto di absorptive capacity è un elemento importante per chiarire il ruolo della conoscenza basata sull’esperienza. Sostiene come la conoscenza acquisita (precedente) permetta di riconoscere nuova conoscenza, assimilarla e utilizzarla a proprio vantaggio. Inoltre integra la dimensione interna con quella esterna dell’innovazione, collegando l’evoluzione della tecnologia essenzialmente esterna, specie nelle PMI, con le dimensioni interne dell’apprendimento. Così gli investimenti in innovazione da una parte generano conoscenza utile a innovare e dall’altra incrementano lo stock di conoscenze necessarie a “svelare” ulteriori bisogni conoscitivi e a individuare le fonti di conoscenza esterne che possono soddisfarli. È abilità dell’azienda riconoscere il valore delle innovazioni esterne di mercato e soprattutto di tecnologia, di acquisirle, assimilarle e applicarle alle proprie attività prodotti e/o processi al fine di migliorare la capacità competitiva. Si distingue fra la capacità di assimilare le conoscenze esterne dall’abilità di creare nuove conoscenze. La capacità di assorbimento potenziale abilita la recettività dell’azienda alle nuove conoscenze, mentre la capacità di assorbimento realizzata riflette la capacità di una azienda di avere un effetto leva dalle conoscenze assorbite e trasferite in prodotti innovativi. La capacita di assorbimento si può considerare come aspetto centrale della capacità di apprendimento. Per valutarne l’influenza sulla capacità innovativa si possono distinguere 4 dimensioni: acquisition, assimilation, transformation e exploitation, avvicinandosi cosi al modello di Gregory di gestione della tecnologia. Quindi è la conoscenza pregressa accumulata nei processi di innovazione che riveste un ruolo importante nell’orientare la ricerca verso l’esterno e nel facilitare il riconoscimento e l’assimilazione della nuova conoscenza. Un certo grado di sovrapposizione tra conoscenza interna ed
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esterna consente di ridurre la distanza cognitiva tra l’azienda e le fonti esterne e quindi abbassare le barriere all’accesso e all’interpretazione della conoscenza esterna7. Affinché l’assorbimento della nuova conoscenza possa dirsi realizzato non è sufficiente riconoscere e valutare le idee potenzialmente utili ma è necessario che queste vengano condivise all’interno dell’organizzazione tra i destinatari interessati alla sua successiva trasformazione. Infatti solo una parte delle idee in entrata vengono poi trattenute per implementare in progetti di innovazione. L’absorptive capacity si sviluppa quindi all’interno dell’impresa ed esprime la relazione che l’apprendimento individuale fornisce all’attività di innovazione considerando anche la capacità delle singole imprese di relazionarsi con l’ambiente esterno. Ci si collega allora alla capacità relazionale.
2.3. Capacità innovativa come capacità relazionale Il mio ruolo comprende anche il fatto di ricercare profili con un’esperienza e un know-how specifico, attraverso l’efficace gestione della rete di relazione con l’università che ho instaurato già dal dottorato. Più difficile allargarsi verso reti esterne che in ogni caso il tempo tende poi a stabilizzare in termini di collaborazioni “collaboriamo da 15 anni con un designer e ormai ci conosciamo molto bene”. Un altro Responsabile Tecnico si dimostra orientato alle relazioni: Il mio compito è creare e sviluppare una serie di contatti per creare le occasioni su cui poi i miei andranno ad approfondire. Abbiamo una sistematica relazione con l’Università di Padova (dove si è laureato) e abbiamo già assunto due ingegneri che prima erano venuti a fare la tesi… questa dei tesisti è una strada che vogliamo continuare perché ha dato buoni risultati. Per capacità relazionale intendiamo la capacità di cogliere le sinergie che si sviluppano tra attori che condividono un sistema di rete, basata su rapporti sociali, contrattuali o proprietari, che sono accomunati da un sistema di scambio di risorse materiali o immateriali. Il capitale relazione
7 S. Bonesso, “Conoscenza esterna cercasi. Il ruolo della capacità di assorbimento nei processi di innovazione”, Ticonzero, n. 97, 2009.
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che ne consegue non è solo individuale ma aziendale e si sviluppa in un contesto territoriale e organizzativo che favorisce le prestazioni in particolare attinenti la capacità innovativa anche grazie a processi di apprendimento collettivo. Questa visione delle attività si richiama al già citato paradigma dell’open innovation: l’innovazione di successo non può più basarsi sul controllo del processo interno (il modello dell’innovazione chiusa, regno della sindrome del not invented here), ma anche sulla capacità di attivare e gestire la porosità dei confini fra azienda e ambiente esterno; diventando capaci di identificare e utilizzare risorse esterne e integrandole nel proprio processo di innovazione. Si può comunque dire che ormai il paradigma della caratteristica open dell’innovazione tanto a livello di flussi operativi quanto di processi innovativi sia recepito e condiviso sia a livello concettuale che, forse meno, di prassi operative. Il prossimo passo logico da fare sarà appunto il collegare il posizionamento in rete logistica con il posizionamento nella rete di innovazione. Il collegarsi della logica open e del contesto a rete come substrato del processo di innovazione, interessa dal nostro punto di vista in quanto sembra far sviluppare nuove forme di organizzazione caratterizzate dalla minimizzazione della gerarchia come meccanismo di coordinamento, con effetti diretti su ruoli e competenze. Come emerge anche dalle interviste, oggi: • l’innovazione è decentrata e riguarda virtualmente tutte le parti del sistema; • viene superata la distinzione tra chi produce nuova conoscenza e chi sfrutta quella esistente; • l’intelligenza è distribuita e diffusa nel sistema; • il compito di esplorare e innovare (nuovi prodotti, mercati, tecnologie) non è più appannaggio di funzioni specializzate, ma è diffuso in tutta l’organizzazione; • le nuove tecnologie, tramite connessioni virtuali, favoriscono modalità di coordinamento decentrate, leggere e differenziate; • i confini organizzativi, tradizionalmente intesi, spariscono e si annulla la distinzione tra il “dentro” e il “fuori” dell’organizzazione, favorendo, per esempio, la partecipazione creativa di clienti e fornitori allo sviluppo dei prodotti/servizi; • diventano centrali le competenze di gestione quali la capacità di negoziare tra mondi professionali e organizzativi differenti, di gestire conflitti e far “convergere gli opposti”.
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Da questo punto di vista l’innovazione aperta, spostando l’attenzione dalla singola performance all’ecosistema favorevole all’innovazione, può aiutare l’impostazione e lo sviluppo di politiche di innovazione che incrocino il tema della ricerca e della mobilità dei ricercatori, l’innovazione e le sue applicazioni, la crescita di competitività dei sistemi produttivi e territoriali. Ormai anche Wikipedia parla di Open innovation: “L’idea centrale di questo concetto è che, in un mondo come quello attuale dove la conoscenza viene largamente diffusa e distribuita, le aziende non possono pensare di basarsi sui propri centri ricerca interni, ma dovrebbero invece comprare o concedere in licenza le innovazioni (per esempio con dei brevetti) attraverso scambi con le altre aziende. Inoltre, le invenzioni sviluppate internamente ma non utilizzate nel proprio business dovrebbero essere date all’esterno (attraverso contratti di licenza, joint ventures, spinoffs). Al contrario il modello Closed Innovation si riferisce a un processo che limita l’utilizzo della conoscenza interna entro le mura dell’azienda e non favorisce l’utilizzo della conoscenza esterna”. Così scrive Chesbrough (2006): “Là fuori c’è “materia prima” di così alta qualità che anche le aziende più brillanti non possono permettersi di rimanere a guardare ignorandola”.
3. Alcune considerazioni Cosa dunque è cambiato al giorno d’oggi? Principalmente i cambiamenti del mercato sono avvenuti su due fronti, da una parte i costi di sviluppo di una nuova tecnologia sono incrementati, dall’altra il ciclo di vita di un prodotto si è accorciato in quasi tutti i mercati, in testa tra tutti quelli tecnologici. L’emergere di questi due cambiamenti ha ormai ridotto, in molti casi, il ritorno economico che l’azienda si aspetta dopo un investimento in Ricerca e Sviluppo. I modelli di business aperti riescono invece a superare gli ostacoli dell’abbreviazione del ciclo di vita del prodotto e dell’aumento dei costi di ricerca e sviluppo. Rimane comunque di primaria importanza avere internamente un valido reparto R&S senza il quale non sarebbe possibile gestire le fonti esterne né rielaborare a proprio vantaggio le loro idee che spesso sono ancora a un livello grezzo o devono essere modificate. Inoltre questa gestione di risorse interne ed esterne parallelizza spesso molte attività, garantendo anche una contrazione dei tempi di sviluppo. Inoltre, oltre ai ricavi ottenuti dal proprio
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mercato, si aggiungono quelli ottenuti da creazione di spin-off, cessione in licenza di tecnologie e dalla possibile vendita dell’intera tecnologia quando sarà diventata obsoleta nel suo mercato originale. La sequenza dalla ricerca di base attraverso la tecnologia ai nuovi prodotti e processi resta importante, ma cresce il convincimento che l’innovazione dipenda principalmente dall’interazione fra utilizzatori, produttori e ricercatori. Volendo essere analitici si può distinguere fra inbound open innovation e outbound open innovation. Nel primo caso generalmente, come si può rilevare nelle interviste, le aziende (specie le PMI) monitorano l’ambiente della tecnologia e delle conoscenze come alternative alla Ricerca e Sviluppo “in casa” che non si possono permettere, nel caso outbound invece si cercano organizzazioni che siano in grado di commercializzare meglio i nostri prodotti per esempio sui mercati internazionali. Questo sembra il ruolo che in alcuni casi di quelli visti svolgono le società capogruppo multinazionali, che integrano i prodotti delle aziende acquisite nel loro catalogo. La capacità di inserirsi e gestire le reti è non solo fattore di sviluppo strategico ma anche elemento forte nel determinare la capacità innovativa specie nel senso dell’uso avanzato della tecnologia e della capacità di gestire prodotti e mercati. Si veda per esempio il ruolo dei rapporti con i fornitori come driver di innovazione, anche se una forte integrazione con i fornitori è ancora non del tutto diffusa nei nostri casi specie dove le sproporzioni dimensionali reciproche sono forti. Si può comunque dire che ormai il paradigma della caratteristica open dell’innovazione a livello sia di flussi operativi che di processi innovativi sia recepito e condiviso. Il prossimo passo logico da fare quindi sarà appunto il collegare il posizionamento in rete logistica con il posizionamento nella rete di innovazione. L’ulteriore opportunità sta nello sfruttare la logica dell’open innovation, nell’essere aperti verso il contesto esterno e i suoi “contenuti” di conoscenza: ci si rapporta a Università e Centri di Ricerca, ma anche a Fornitori e Clienti: è possibile in tal modo effettuare sperimentazioni sui propri progetti ma anche co-sviluppare componenti avanzati e inoltre acquisire, quando necessario, risorse umane a elevata competenza. Importante sembra essere l’identificazione ancor prima dell’acquisizione e condivisione delle conoscenze, non solo tecnologiche, e ancor più importante l’adattamento e l’uso di queste conoscenze e il renderle operative attraverso reti informali e strumenti formali come database o altri tools, lavorando coi gruppi attraverso modelli di action learning. Ciò in modo che l’innovazione (e parallelamente la “creazione di conoscenza”) venga a rappresentare nell’impresa un
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processo integrato nelle attività aziendali routinarie, distribuito in tutte le fasi, programmabile e governabile in una visione di medio periodo condivisa. Questo è stato sperimentato anche attraverso l’uso di metodologie di comunicazione e integrazione sia verticale che orizzontale, come il Technology Road Mapping. Lo sviluppo relazionale è inteso soprattutto rispetto al posizionamento nelle reti in generale e per molti nella filiera (intesa come supply network specifica). Anche se logicamente emergono dei rischi connessi al posizionamento in filiera: se sono in una filiera forte “a rete governata” rischio di essere fortemente vincolato. Ma questo inserimento forte in rete comporta maggiore complessità e quindi maggior differenziazione da integrare, quando si è visto che molte aziende scontano ancora problemi di integrazione interfunzionale interna. Ciò indica una via di intervento: per integrarsi verso l’esterno bisogna prima sviluppare un efficace livello di integrazione interna. Questo passaggio, collegato a quello di vedersi in una prospettiva di open innovation, non è facile da un punto di vista organizzativo e culturale innanzitutto. Infatti anche se alcuni ne percepiscono i vantaggi sul piano delle performance d’impresa, si avverte anche la parziale perdita dei confini di impresa, con l’esigenza di adeguarsi e vivere professionalmente in un nuovo contesto con riferimenti diversi. Si pensi al modificarsi del concetto di autorità e al rapporto proprietà/controllo. Nel percorso di creare e gestire reti sul territorio con Agenzie e Centri di Ricerca, specificamente Università, possono intervenire ed essere importanti ruoli di intermediazione ovvero di knowledge o technology brokering8. Il broker, mira a relazionare i bisogni delle PMI nel campo tecnologico e dell’innovazione con le opportunità offerte dal mondo della ricerca, nonché a facilitare collaborazioni stabili tra istituti di ricerca e università con le imprese. I broker operano infatti come agenti di trasmissione di conoscenze, know-how, tecnologia e capitale. Questi ruoli possono essere utili e sono stati sperimentati là dove le sfide per il governo dell’innovazione (tecnologica e organizzativa) sono molteplici e comprendono in seguenti fattori: 1. aumento imponente nel numero e nella tipologia dei prodotti e servizi tecnologici, la cui scelta ha un impatto diretto su costi e qualità; 2. l’accorciarsi dei tempi dell’innovazione, che produce un vantaggio competitivo il cui effetto risulta però meno durevole nel medio periodo; 3. la forte esposizione al rischio generata dalla difficoltà a gestire processi 8
www.LeonardoRebasing.eu.
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di innovazione da parte di individui e organizzazioni carenti di metodologia e strumenti adeguati. La figura del competence broker risponde a queste sfide e i fattori di successo sono evidenziati da diverse esperienze sia italiane che europee. Queste esperienze indicano che: 1. i risultati dei trasferimenti tecnologici verso PMI hanno creato le basi per un successivo sviluppo prodotto; 2. è aumentata la conoscenza tecnologica nelle PMI; 3. la metodologia è coerente ed efficace allo scopo e adattabile a successivi progetti di R&S; 4. ha accresciuto i progetti di collaborazione tra imprese e Centri di Ricerca e Università. In parte questo avvicinamento con i Centri di Ricerca anche in funzione della provenienza universitaria è già avvenuto. Azienda O, R&S Manager: Abbiamo un forte rapporto con l’Università. Abbiamo sviluppato una esperienza di uso dei tesisti, già 2 o3 e continueremo (anche l’intervistato è un ex tesista poi assunto). Altra azienda: il mio ruolo…acquisire informazioni tramite la creazione e l’efficace gestione di relazioni esterne e interne all’azienda con il confronto diretto con centri di ricerca universitari. Nella prospettiva che abbiamo assunto di correlare la capacità organizzativa alle tre capacità di relazione, di assorbimento, di integrazione, la dimensione d’impresa non è il fattore principale: così una delle più piccole aziende analizzate sviluppa relazioni e absorptive capacity, legate forse anche al fatto del titolare tecnico che alza tutto il livello della centralità tecnologica: Pur effettuando lavorazioni conto terzi abbiamo sviluppato una idea che poi il nostro fornitore di macchinari ha applicato, di una macchina laser 3d estremamente innovativa in sé e che consente lavorazioni che i concorrenti non sono in grado di fare. Le capacità che determinano la capacità innovativa sono legate più agli orientamenti personali del top management che alle dimensioni. Naturalmente questo non vale per la disponibilità di risorse, che resta forse l’unico
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elemento legato alle dimensioni ma che può anche essere scavalcato nella logica open con logiche di rete e nella prospettiva non così lontana dell’innovazione collaborativa più verticale di filiera naturalmente che non orizzontale fra concorrenti. Il differenziale con le dimensioni è smorzato anche dalla mobilità dei tecnici: un elemento ricorrente in più casi, che trasferisce competenze alte, è la mobilità da grande verso piccola impresa di persone con esperienza, che nella grande magari non hanno trovato spazi di autonomia o di sviluppo di carriera. Un Progettista Junior sembra molto mobile: 4 aziende in 4 anni! Orientato (giustamente al suo livello) al miglioramento attraverso le competenze assorbite anche nelle precedenti aziende, a partire dall’analisi della concorrenza. Anche i giovani sono già skilled scientificamente: si cominciano a vedere i dottorati, almeno 4. Transitano inizialmente per esperienze specifiche specializzanti per poi aprirsi su esperienze più ampiamente applicative. Si nota un aumento dei livelli di competenza tecnica dovuto proprio alle scelte di politica del personale; molto meno diffusa sembra la strutturazione dei processi che però spesso viene indotta dalla crescente appartenenza a multinazionali capogruppo.
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6. INNOVARE IN UN CONTESTO OPEN: QUALI CORRISPONDENZE TRA MODELLO E PRATICA? di Sara Bonesso
1. Open Innovation e Piccole e Medie Imprese: cosa cambia nella gestione del processo di innovazione L’apertura dei confini organizzativi ai fini innovativi costituisce ormai una condizione necessaria come dimostrano recenti ricerche, le quali evidenziano come non solo le medio-grandi aziende ma anche le Piccole e Medie Imprese (PMI) stiano ridefinendo i propri processi di innovazione per migliorare la loro capacità di accesso alle fonti esterne di conoscenza (van de Vrande et al., 2009; Chiaroni et al., 2010; Mortara e Minshall, 2011). Una recente indagine condotta nel contesto italiano mette in evidenza come il contributo di conoscenza generato dalla collaborazione con partner esterni venga valutato positivamente dal 71% delle PMI del campione (Fondazione Nord Est, 2010). Il ricorso a idee e a conoscenze esterne, oltre a offrire nuove opportunità di apprendimento, consente di ridurre il time-tomarket e di condividere i rischi e i costi dell’innovazione. Che l’ambiente esterno costituisca una risorsa importante per il processo di innovazione non rappresenta di certo una novità. Il ricorso a idee e a conoscenze disponibili al di fuori delle unità di Ricerca e Sviluppo (R&S) è da tempo documentato nella letteratura e nella pratica manageriale (Rothwell, 1992; Huston e Sakkab, 2006). Tuttavia, negli ultimi anni si è intensificato il dibattito sulle opportunità e sulle sfide che le imprese stanno incontrando nel passaggio, oramai obbligato, da una logica di tipo closed a una di tipo open (Chesbrough, 2003; Enkel et al., 2009). Quali cambiamenti introduce dunque l’adozione di una logica open nella gestione del processo di innovazione? Si possono delineare due principali aspetti che contraddistinguono l’approccio open innovation e che impongono alle aziende di ripensare alla gestione dell’innovazione in termini di nuove competenze individuali e pratiche organizzative. Il primo aspetto può essere ricercato nello stesso concetto di “innova161
zione aperta”, definita come “the use of purposive inflows and outflows of knowledge to accelerate internal innovation, and expand the markets for external use of innovation, respectively” (Chesbrough et al., 2006: 1). Secondo una logica open il processo di innovazione risulta permeabile: i flussi di conoscenza attraversano le diverse fasi del funnel dell’innovazione in più momenti, a differenza di quanto avviene in una logica closed, la quale prevede scambi con l’ambiente esterno esclusivamente nelle prime fasi del processo, ossia di generazione delle idee e nelle ultime fasi di commercializzazione dell’innovazione. In particolare, vi sono due classi di attività, definite rispettivamente inbound e outbound, che portano l’impresa a interagire con l’esterno. Le attività inbound, che implicano flussi di conoscenza inflows ossia dall’esterno verso l’interno, sono associate a una esplorazione delle fonti di idee e conoscenze e alla loro successiva integrazione nel processo di innovazione. Ne sono un esempio modalità quali l’utilizzo dei diritti di proprietà intellettuale (IP) attraverso accordi di licenza, l’acquisizione di servizi e tecnologia mediante contratti di R&S e le forme di collaborazione inter-organizzative. Le attività outbound, invece, prevedono flussi di conoscenza che partono dall’impresa e sono diretti verso l’esterno (outflows). Nel momento in cui le idee innovative sviluppate nei laboratori di R&S non trovano adeguata valorizzazione mediante la commercializzazione da parte della stessa impresa, quest’ultima ha l’opportunità di individuare strade alternative verso il mercato, come per esempio avviare processi di spin-off oppure trarre valore dai propri brevetti dandoli in licenza (Alexy et al., 2009). Nel momento in cui le opportunità di interscambio con l’esterno si intensificano lungo tutto il processo di innovazione, le modalità di valutazione tradizionalmente adottate (si pensi per esempio ai check points previsti nel modello Stage Gate) richiedono di essere integrate in modo coerente con la logica open (Grönlund et al., 2010). Si pensi all’analisi periodica delle idee poste sullo “scaffale” e in attesa di trovare una via verso il mercato, oppure del portafoglio progetti, considerando il tipo di conoscenza che ciascun progetto intende sviluppare (per esempio sulla base del grado di novità – conoscenza radicale oppure incrementale – piuttosto che di eterogeneità – conoscenza in domini scientifici e tecnologici consolidati di settore o in domini lontani dal settore di appartenenza) e in che misura tali conoscenze vanno acquisite attingendo a fonti esterne oppure esclusivamente interne (Bonesso et al., 2011). Un secondo elemento che contraddistingue la logica open è dato dall’aumento della varietà delle fonti di conoscenza esterna a cui far ricorso per acquisire (inbound) o trasferire (outbound) idee innovative.
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Per varietà si intende una diversa composizione delle fonti rispetto alla logica closed, nella quale le fonti sono generalmente vicine fisicamente e culturalmente, simili per competenze tecnologiche e conosciute grazie a rapporti di lunga durata. Da fonti principalmente appartenenti alla supply chain di settore (fornitori, clienti, concorrenti) si aggiungono progressivamente provider qualificati nelle attività di ricerca avanzata quali le università, o di servizi ad alta intensità di conoscenza, definiti Knowledge Intensive Business Service (KIBS) o Centri per l’Innovazione e il Trasferimento Tecnologico (CITT) (Muller e Zenker, 2001; Comacchio et al., 2011). Oltre a una diversa composizione nella tipologia delle fonti, si riscontra una maggiore varietà in termini di canali di accesso, in particolare quelli web-based (consultazione di siti internet e di banche dati on-line, utilizzo di community virtuali) che presentano tra i loro vantaggi una maggiore rapidità di reperimento delle informazioni e una loro più immediata comparazione. La varietà va intesa anche in termini di maggiore distanza cognitiva tra fonte e ambito di applicazione (Nooteboom et al., 2007). La ricerca di nuove idee e il loro trasferimento al mercato implicano un allontanamento dai domini scientifici e tecnologici del settore specifico di appartenenza. Nella logica open, infatti, la generazione di nuova conoscenza avviene ibridando ambiti settoriali in precedenza distinti, per esempio attingendo a soluzioni già sperimentate in altri comparti industriali oppure a domini scientifici trasversali a più settori. Si pensi alle molteplici applicazioni delle tecnologie dei materiali e di quelle dell’automazione industriale da parte di settori industriali caratterizzati da un diverso grado di intensità tecnologica. Per esempio, i nuovi materiali che garantiscono alte prestazioni trovano applicazione sia in settori considerati low-tech quali il tessile-abbigliamento (tessili tecnici con funzioni protettive) sia in settori ad alta intensità di tecnologia come l’industria aerospaziale (RIDITT, 2008). L’aumento della varietà delle fonti (diversa composizione e accesso a domini disciplinari lontani) genera una maggiore complessità in termini di valutazione e selezione della fonte, di elaborazione e accesso alle informazioni. Tale complessità per essere gestita richiede lo sviluppo di nuove capacità aziendali. In altri termini, un prerequisito per un’efficace implementazione dell’open innovation è dato dallo sviluppo dell’absorptive capacity, ossia della capacità di riconoscere e valutare il valore potenziale della conoscenza esterna per poi assimilarla e integrarla nel portafoglio prodotti (Cohen e Levinthal, 1990; Zhara e George, 2002). Tale capacità può essere alimentata agendo, da un lato, sulle leve organizzative, investendo in modo intenzionale e continuativo in ruoli e attività dedicati alla ricerca di idee, all’accesso alle fonti e al loro utilizzo (Comacchio e Bonesso, 2011), dall’altro lato sostenendo lo
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sviluppo di competenze relazionali e cognitive che si traducono in comportamenti finalizzati ad attivare, mantenere e utilizzare i contatti con l’esterno nonché consentire forme di pensiero divergente (du Chatenier et al., 2010; Gerli e Bonesso, 2011). Nella logica open, l’orientamento verso l’esterno risulta essere quindi bilanciato dalla necessità di investire internamente per consentire un’efficace integrazione con la base di conoscenze dell’azienda. Recenti ricerche, oltre a mettere in evidenza che il passaggio dalla closed all’open innovation necessita di un orizzonte temporale affinché i cambiamenti implementati generino i vantaggi attesi (Huston e Sakkab, 2006; Lichtenthaler e Lichtenthaler, 2009), mettono in luce le barriere di carattere culturale e organizzativo incontrate dalle PMI (Enkel et al., 2009). Vi è in primo luogo la difficoltà di individuare la fonte esterna più appropriata, che rimanda alla definizione dei criteri di valutazione della conoscenza da sviluppare o trasferire lungo tutto il processo di innovazione. Un secondo limite riguarda la carenza di tempo e di risorse da investire per lo sviluppo di processi organizzativi e competenze dedicati. A fronte degli ancora limitati studi volti a indagare come le PMI implementino la logica di open innovation, la domanda che ci si pone è la seguente: quali corrispondenze possono essere individuate tra gli aspetti che caratterizzano l’approccio open e le effettive azioni intraprese dalle PMI per adottarlo con successo? In questo capitolo verranno presentati i risultati di una ricerca esplorativa finalizzata a comprendere se e come le attività di inbound e outbound vengono implementate nelle PMI e quali competenze e processi organizzativi assumono rilevanza per la loro efficace gestione. Il paragrafo che segue introdurrà l’indagine empirica condotta in tre realtà aziendali che stanno sperimentando il passaggio da una logica closed a una di tipo open. Nel terzo paragrafo verranno presentati e discussi i risultati emersi, mentre nell’ultima parte del capitolo si esporranno alcune riflessioni conclusive sulle corrispondenze o discrepanze rilevate tra gli aspetti caratterizzanti l’open innovation e la sua implementazione nel contesto indagato.
2. L’indagine sul campo La ricerca è stata condotta nell’ambito del progetto Skill-Inn – Skills per l’innovazione, ente capofila Confindustria Veneto SIAV e, in particolare, in questo capitolo verranno discussi i risultati dell’indagine sul campo realizzata dal Polo Innovazione Strategica srl (POLINS), partner operativo del progetto. Nel disegno della ricerca è stato scelto un approccio qualitati-
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vo basato sul multiple case study (Eisenhardt, 1989; Yin, 1994), condotto in tre realtà aziendali operanti in Veneto di medie dimensioni (da qui in poi si farà riferimento alle imprese denominandole Alfa, Beta e Gamma). Box 1 – Il Polo Innovazione Strategica (POLINS) POLINS è un’iniziativa dell’Università Ca’ Foscari Venezia e del Comune di Portogruaro. Nasce nel 2008 come infrastruttura di ricerca e formazione avanzata a supporto della capacità di innovazione strategica delle piccole e medie imprese. L’innovazione strategica riguarda i modelli di business e quindi il concept di prodotto, i sistemi gestionali-organizzativi e logistico-distributivi, l’esplorazione dei nuovi bisogni dei clienti e dei nuovi mercati. Se l’innovazione tecnologica, di prodotto e di processo, si manifesta soprattutto nelle prime fasi di sviluppo di un settore, quella strategica si rende necessaria soprattutto nei settori cosiddetti maturi. È quindi particolarmente importante per il contesto economico del Veneto. POLINS si propone pertanto di favorire l’innovazione strategica, ossia l’innovazione nei modelli di business, supportando le imprese, soprattutto le PMI, sviluppando coerentemente con i suoi obiettivi e le sue finalità tre principali macroaree di attività. 1. POLINS forum: offerta di approfondimenti altamente qualificati e innovativi per manager e imprenditori per favorire la connessione tra esponenti del mondo aziendale e accademico secondo il paradigma dell’open innovation, finalizzato però allo sviluppo di innovazioni strategiche. L’obiettivo primario non è quindi quello del “trasferimento” ma piuttosto della “traduzione” delle diverse conoscenze in gioco – pratiche e scientifiche, locali e globali – per favorire lo sviluppo di progetti comuni d’innovazione strategica. 2. POLINS academy: offerta di una preparazione “pratica” per i migliori studenti universitari affinché possano realmente supportare le imprese nella formulazione e nell’implementazione di innovazioni strategiche. L’obiettivo primario è quello di coniugare effettivamente le esperienze e le competenze del mondo accademico con quelle del mondo imprenditoriale, erogando una formazione di elevato livello qualitativo, rigore scientifico e rilevante carattere applicativo le cui ricadute possano impattare significativamente nell’integrazione tra mondo universitario e imprese e tra università e territorio. 3. POLINS lab: offerta di assistenza/supporto alle imprese nella formulazione di innovazioni strategiche (POLINS action), tramite un contributo significativo nella formulazione di modelli generali applicabili e replicabili (POLINS research). L’obiettivo primario è quello di “supportare le imprese nella formulazione di strategie basate sulla conoscenza (knowledge based strategy)” intervenendo all’interno dei processi di gestione della conoscenza competitiva così da coordinare l’azienda in un utilizzo più mirato, continuo ed efficace delle leve che determinano il suo vantaggio competitivo aziendale.
La selezione dei casi è stata motivata da ragioni teoriche (Eisenhardt e Graebner, 2007) che rendevano i contesti aziendali particolarmente adatti agli obiettivi del progetto di ricerca. I criteri adottati nella selezione e che hanno reso comparabili i casi sono i seguenti: a. sono imprese connotate da un forte orientamento verso l’innovazione di 165
tipo esplorativo, confermato dall’attività brevettuale e dai riconoscimenti conferiti per l’innovazione; b. le tre aziende nel corso degli ultimi anni hanno implementato dei programmi di cambiamento dei processi organizzativi al fine di migliorare la loro capacità di sviluppo di nuovi prodotti; c. le imprese hanno conseguito negli ultimi anni performance economicofinanziarie positive e in crescita, penetrando i mercati internazionali e realizzando oltre la metà del fatturato all’estero. Per quanto riguarda il settore industriale di appartenenza, le aziende Alfa e Beta operano entrambe nella “Fabbricazione di elettrodomestici”, mentre l’azienda Gamma nella “Fabbricazione di altri apparecchi elettrici ed elettronici per telecomunicazioni”. L’innovazione di prodotto in tali settori è di tipo tecnologico e di design. La ricerca di soluzioni tecnologiche finalizzate a migliorare la funzionalità del prodotto si combina, infatti, con la ricerca di soluzioni estetiche che incorporino i trend socio-culturali emergenti. La principale fonte di raccolta dati è stata un’intervista semi-strutturata somministrata personalmente presso le aziende. Lo stesso protocollo di intervista è stato utilizzato al fine di rendere coerente la raccolta dei dati presso le tre realtà e consentire successivamente un’analisi di tipo comparato (Yin, 1984). Le interviste sono state somministrate ai ruoli aziendali posti a presidio delle diverse fasi del processo di innovazione e in precedenza segnalati dalla Direzione Generale. In ciascuna azienda sono stati coinvolti nella ricerca il Responsabile Ricerca e Sviluppo/Ufficio Tecnico, Progettisti Senior e Junior, il Responsabile Marketing e Product Manager. Le interviste, registrate e interamente trascritte, sono state sottoposte a un processo di analisi finalizzato a comparare: a. come nelle diverse fasi del processo di innovazione, l’azienda scambia conoscenza con l’esterno attivando flussi inbound e outbound; b. come gestisce la varietà delle fonti esterne, sia in termini di diversità di attori e canali, che di distanza cognitiva. Con riferimento a questi due aspetti, si evidenzieranno le competenze e i processi organizzativi che assumono particolare rilevanza per operare in un contesto open.
3. Competenze e processi organizzativi per l’open innovation 3.1. Apertura del processo di innovazione: attività inbound e outbound Un primo risultato della ricerca riguarda il grado di permeabilità del processo di innovazione. Nelle tre realtà oggetto di studio, l’analisi si è ar-
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ticolata lungo due principali macro-fasi: la generazione e la selezione delle opportunità e lo sviluppo di nuovi prodotti. Per quanto riguarda la prima macro-fase sono state indagate le sotto-fasi di ricerca sui mercati, di ricerca sulle tecnologie e di creazione delle idee di prodotto, con riferimento alla seconda, invece, le sotto-fasi di definizione del prodotto e la progettazione e dettaglio dello stesso. Nei tre casi emerge come le attività di tipo inbound presentino una maggiore frequenza nella prima macro-fase di generazione e selezione delle idee innovative. Tuttavia, il ricorso alla conoscenza esterna ha luogo anche nella macro-fase di sviluppo del nuovo prodotto, per risolvere specifiche problematiche legate alla ricerca di nuovi materiali o tecnologie rilevate nella definizione di dettaglio del prodotto, nella progettazione o nella sperimentazione. L’attività invece di outbound non presenta diffusione nel contesto analizzato. Si evidenzia, pertanto, ancora una scarsa propensione all’utilizzo del mercato delle tecnologie per trasferire all’esterno un’idea innovativa posta sullo “scaffale” e in attesa di commercializzazione. La protezione della conoscenza sembra ostacolare la ricerca di vie alternative per valorizzare le invenzioni che l’azienda, per ragioni legate ai lunghi tempi di sviluppo o alle elevate risorse richieste, non riesce a portare direttamente sul mercato. Sulla base di queste considerazioni, l’analisi che segue si focalizzerà sulle attività inbound implementate dalle imprese. Per quanto concerne l’investimento in tempo e risorse dedicato all’attività inbound, la ricerca e l’acquisizione di conoscenza esterna vengono realizzate da più unità organizzative seppur con differenti gradi di continuità. Per esempio nell’azienda Alfa, secondo il Responsabile R&S: “Il 90% del nostro lavoro è nello sviluppo, poi dedichiamo del tempo a incontrare i nuovi fornitori di tecnologie, a visitare le fiere e a consultare riviste”, mentre nelle altre unità quali il design industriale e il marketing il monitoraggio dell’ambiente esterno, al di là del progetto specifico, è un’attività che viene svolta sistematicamente. Un altro risultato riguarda le diverse modalità inbound adottate. A fronte del mancato utilizzo del mercato della proprietà intellettuale, vi è un elevato ricorso a forme di spill-over, quali visita a fiere, consultazione di riviste settoriali e scientifiche, passaparola in particolare attivando la rete di fornitori e ricerche in internet: Siamo usciti con un prodotto performante dal punto di visita della silenziosità. Questo prodotto è nato da un’idea molto semplice: conoscere quali prodotti sono isolanti dal punto di vista acustico. Abbiamo realizzato i primi prototipi grazie alle ricerche effettuate su Internet e ai con-
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tatti con i fornitori di quel tipo di prodotto, ricerca effettuata sia dall’ufficio acquisti che dall’ufficio tecnico che dispone di un ampio numero di contatti (Azienda Beta). Le opportunità di apprendimento dall’esterno vengono attivate anche attraverso collaborazioni con fornitori di tecnologia avanzata e centri di ricerca e università, non solo nello sviluppo dell’idea del prodotto ma anche nelle fasi successive di sperimentazione: Questo studio è stato commissionato a un’unità di ricerca esterna. Acquisita la tecnologia, i metodi di prova e la strumentazione necessaria, adesso viene realizzato internamente (Azienda Gamma). Si evidenzia, quindi, un ricorso a modalità di accesso alla conoscenza esterna maggiormente strutturate che implicano su base contrattuale la definizione degli obiettivi, dei compiti, dei tempi, dei risultati attesi dalla collaborazione e della ripartizione del valore e dei diritti derivanti. Ne consegue l’importanza delle competenze legate alla scelta del partner in termini di conoscenze e capacità complementari, alla definizione degli strumenti di coordinamento, nonché al monitoraggio e alla valutazione dei risultati conseguiti. Infine, se si considera il grado di formalizzazione di tali attività lungo le diverse fasi del processo di innovazione, dai casi emerge come la scelta dei canali di monitoraggio o l’attivazione del contatto con la fonte esterna dipenda in misura rilevante dall’iniziativa e dalle competenze del singolo individuo. Rispetto alle attività legate alle fasi più a valle del processo di innovazione, quali la progettazione e la sperimentazione, le attività inbound risultano pertanto contraddistinte da un minor grado di istituzionalizzazione. Se, da un lato, l’esplorazione delle opportunità esterne va necessariamente guidata dalla motivazione e dalle competenze del singolo, che attingendo alle proprie conoscenze e capacità riesce a valutare le fonti più attendibili e a scremare le informazioni in entrata, dall’altro, il riconoscimento a livello organizzativo di tali attività consentirebbe di indirizzare e di supportare i comportamenti individuali nel tempo. La stessa condivisione delle informazioni presenta un elevato carattere di soggettività in termini di criteri di selezione, rielaborazione e codifica delle informazioni. Tuttavia, nelle aziende intervistate emerge che a fronte del riconoscimento di nuove opportunità tecnologiche e di mercato vi è la necessità di mantenere memoria organizzativa e non solo individuale, delle stesse. Dall’analisi dei casi si riscontrano pratiche di raccolta ed elabora-
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zione di informazioni nonché la loro condivisione tra unità organizzative mediante supporto elettronico piuttosto che aggiornamenti periodici formali e informali: Produciamo report al termine delle fiere, raccogliamo foto e descriviamo ciò che può essere utilizzato. Le cose che si vedono in giro sono molte e il documentarle è importante, conservare memoria è fondamentale (Azienda Beta). La condivisione intra-organizzativa della conoscenza esterna sembra inoltre essere favorita dal crescente ricorso, da parte delle aziende, a meccanismi di coordinamento inter-funzionale, in particolare al lavoro in team: C’erano persone con cui lavoravo e lavoro tuttora che arrivavano da esperienze di lavoro più orientate a implementare il prodotto. C’era meno lavoro di gruppo su cui io, invece, ho insistito maggiormente per realizzare scambi di competenze (Azienda Gamma). Pertanto lo sviluppo di competenze relazionali non facilita solo l’accesso alle fonti esterne ma viene ritenuto indispensabile anche per una più efficace diffusione della conoscenza all’interno dei confini organizzativi. In sintesi, rispetto ai trend emergenti che richiamano un bilanciamento tra attività di esplorazione (inbound) e di sfruttamento della conoscenza (outbound), nelle PMI indagate il passaggio dalla closed all’open innovation sembra al momento manifestarsi solo attraverso attività di tipo inbound, che hanno richiesto alle imprese uno sforzo rivolto allo sviluppo di competenze specifiche legate alla scelta e alla valutazione della fonte esterna, nonché alla selezione delle modalità di utilizzo della stessa. Inoltre, la dimensione individuale risulta essere prevalente rispetto a quella organizzativa, seppur si riscontrano tentativi di legittimazione delle attività di esplorazione verso l’esterno mediante pratiche condivise.
3.2. Le fonti esterne per l’innovazione Con riferimento alla varietà di fonti esterne monitorate dalle imprese, un primo risultato riguarda la loro composizione. Si riscontra un ricorso a fonti di mercato (fornitori, concorrenti e clienti), istituzionali (università e centri di ricerca pubblici) e altre fonti (analisi brevettuale, riviste di settore, fiere).
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In coerenza con una logica open, la ricerca della fonte non si basa su criteri legati alla vicinanza geografica o culturale ma sulla base delle competenze e delle conoscenze che tale fonte è in grado di offrire. Tuttavia, emerge una differenza tra fonti di mercato e fonti istituzionali. Se da un lato i ruoli intervistati dimostrano di possedere conoscenze e competenze necessarie per la ricerca e la selezione delle fonti di mercato (settoriali o extra-settoriali, locali oppure internazionali), le fonti istituzionali risultano meno conosciute e utilizzate. Per tali fonti molto spesso i principali canali di accesso risultano essere i contatti informali che consentono di instaurare collaborazioni con realtà operanti prevalentemente nel contesto locale. Inoltre, non emergono dall’analisi modalità di accesso a Centri per l’Innovazione e il Trasferimento Tecnologico, quali per esempio parchi scientifici e tecnologici, uffici di trasferimento tecnologico, laboratori di ricerca privati. La difficoltà di accesso a tali fonti può essere imputata alle maggiori asimmetrie informative. L’offerta di tali istituzioni molto spesso non è adeguatamente valorizzata e comunicata alle imprese, che dimostrano una difficoltà non solo a reperire le informazioni ma anche ad attribuirne il valore a causa dell’elevata distanza cognitiva. Un secondo risultato riguarda la varietà dell’ambito/dominio scientifico e tecnologico delle fonti esterne. La logica open spinge le imprese a esplorare oltre i confini del proprio settore stimolando forme di pensiero divergente o analogico (Gassmann e Zeschky, 2008; Enkel e Gassmann, 2010). Nei tre casi analizzati emerge la consapevolezza della necessità di spingersi oltre i confini settoriali: Io sono dell’idea che dobbiamo essere bravi a trasferire le conoscenza da settori diversi e portarle nel nostro. Ormai c’è poco da inventare, ma i vari campi non sono comunicanti per cui dobbiamo cercare di capire in quale aspetto un settore è più avanzato (Azienda Beta). La ricerca di soluzioni in domini diversi da quello specifico in cui opera l’azienda sembra influenzare positivamente le performance innovative delle aziende analizzate, come peraltro confermato da recenti ricerche (Dahl e Moreau, 2002; Kalogerakis et al., 2010). Tuttavia, essa richiede uno sforzo maggiore dato dalla distanza cognitiva tra fonte e ambito di applicazione (target). Individuare soluzioni già applicate in altri contesti che possono essere trasferite nel proprio settore e applicate nello sviluppo di un nuovo prodotto richiede, infatti, un investimento in un’ampia base di conoscenze individuale e organizzativa, lo sviluppo di competenze cognitive,
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tempo e personale dedicato alla selezione dei domini di potenziale interesse e al loro monitoraggio continuo: Una cosa interessante, che però implica tempo e presenta difficoltà, è quella di fare una ricerca trasversale: valutare se le tecnologie, applicate in campi diversi possono rivelarsi utili nei nostri prodotti (Azienda Alfa). Il monitoraggio di domini non familiari avviene nelle realtà analizzate mediante la visita a fiere di altri settori e la costruzione di relazioni con fornitori di tecnologia applicata in altri contesti: Io vado alla ricerca di fornitori alternativi… Recentemente sono andato a visitare un fornitore che non appartiene al nostro settore ma a quello dell’automotive… Attraverso i fornitori puoi capire chi si occupa di certe cose (Azienda Gamma). Alimentare la base di conoscenze organizzative e individuali attraverso processi di ibridazione in altri domini tecnologici risulta un prerequisito al riconoscimento di similarità superficiali e strutturali tra una soluzione applicata in un altro settore e il problema specifico legato allo sviluppo di un nuovo prodotto. Tuttavia, la capacità di individuare analogie/similarità dipende anche dal livello di conoscenza del proprio target. Nei casi di pensiero analogico rilevati dall’indagine sul campo risulta, infatti, come i soggetti che hanno dimostrato di saper attivare processi di astrazione detengono una conoscenza profonda del proprio prodotto e del settore di appartenenza, a conferma dell’importanza di saper integrare la conoscenza esterna con quella interna.
4. Conclusioni L’analisi dei casi ha messo in luce sia corrispondenze che discrepanze tra gli aspetti che caratterizzano l’approccio open e la sua effettiva implementazione nelle PMI indagate. Le corrispondenze attengono all’apertura del processo innovativo mediante attività inbound che implicano la ricerca, l’accesso e l’uso di fonti di conoscenza esterna. La maggiore complessità generata dall’aumento della varietà delle fonti, in termini sia di eterogeneità di attori che di domini scientifici e tecnologici a cui attingere, ha richiesto alle imprese di ridefinire l’insieme di competenze individuali e di pratiche organizzative a sup-
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porto dei processi di innovazione in cui investire. A fronte di una maggiore consapevolezza della necessità di trovare un giusto bilanciamento tra le risorse (umane, tecniche, finanziarie, temporali) da dedicare alle attività inbound e quelle assorbite dalle attività di generazione di conoscenza interna, le imprese stanno rafforzando le proprie capacità legate al monitoraggio delle fonti (anche lontane geograficamente e di altri settori) e alla condivisione interna delle idee e informazioni catturate dall’esterno. Il passaggio sia culturale che organizzativo verso la logica open non risulta tuttavia completamente compiuto. Vi è innanzitutto la mancata attivazione di attività di tipo outbound ossia di modalità di valorizzazione alternative delle invenzioni e delle idee generate internamente. Da qui la mancanza di competenze del personale interno e di pratiche organizzative per la valutazione periodica delle invenzioni che non hanno ancora trovato una via verso la commercializzazione attraverso un progetto di sviluppo prodotto. Inoltre, nell’ambito delle stesse attività di tipo inbound emerge la necessità di legittimare in misura maggiore i comportamenti individuali e le pratiche collettive, sostenute principalmente dall’iniziativa del singolo. Infine, ancora poco sfruttate sono le opportunità derivanti dall’utilizzo di fonti di conoscenza avanzata presso università o provider di tecnologia e di servizi a supporto delle diverse fasi del processo di innovazione. Vi è al riguardo una barriera all’accesso legata alla limitata conoscenza di questa specifica tipologia di fonti. Infatti, rispetto a quelle di mercato, per cui l’azienda dimostra una certa familiarità sia nei canali di attivazione che nei criteri di valutazione, l’offerta delle fonti istituzionali spesso non è comunicata adeguatamente e percepita di valore per l’attività innovativa dell’impresa. Per beneficiare appieno delle opportunità derivanti dall’attivazione di tali fonti, le imprese necessitano di competenze che consentano loro di esplicitare e articolare la loro domanda di servizi per l’innovazione (come lo scouting tecnologico, la prototipazione o la protezione della proprietà intellettuale, solo per citarne alcuni), al fine di orientare la successiva ricerca e valutazione dei provider di tali servizi nel mercato esterno della conoscenza.
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7. INNOVARE PER COMPETERE: DAL BORSINO DELLE PROFESSIONI ALLA CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE di Ilaria Bettella e Sergio Rosato
1. Gli stakeholder della certificazione Da tempo si parla di innovazione come leva per la competitività e la crescita dell’impresa. Così com’è annoso il dibattito, nazionale e comunitario, sulla certificazione (o anche solo sul riconoscimento) delle competenze. Ancor di più è poco usuale trovare imprese (e istituzioni) che, partendo dall’innovazione dei processi e dei prodotti, arrivino all’individuazione delle competenze come fattore strategico del loro sviluppo o come elemento che concretamente concorra ad accrescerne la competitività. D’altro canto sono evidenti i ritardi con cui si procede alla costruzione di un impianto regolatorio e procedurale che dia sostanza e prima attuazione alle previsioni normative di carattere generale. Risale all’ormai lontano 31 maggio 2001 il Decreto del Ministro del Lavoro n. 174 “Certificazione nel sistema della formazione professionale”, che aveva posto le basi da un punto di vista concettuale sulle finalità e sugli obiettivi della certificazione, sulla definizione di standard minimi di competenza, sull’identificazione dei soggetti responsabili della certificazione, demandando in ogni caso alle Regioni e alle Province autonome una parte consistente della tematica riguardante le competenze professionali. Va riconosciuto, tuttavia, che, seppur a tratti in modo confuso e parcellizzato, molti passi in avanti sono stati compiuti, come peraltro dimostra la più recente esperienza del Veneto, in cui negli ultimi anni si è sviluppata una intensa e interessante progettualità, che ha coinvolto numerosi attori, realizzando notevoli progressi sul piano della ricerca metodologica e delle prime applicazioni sperimentali. Il vero salto di qualità, tuttavia, consiste nel diffondere tra tutti gli stakeholders la consapevolezza che un mercato del lavoro che esalta la competenza richiede un approccio profondamente innovativo, molto diverso dai modelli radicati nella nostra cultura. La progressiva complessità che contraddistingue il contesto all’interno del quale si spendono e si interseca-
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no le azioni degli attori del mondo produttivo, dalle istituzioni ai singoli cittadini, impone la necessità di ripensare e rinnovare le strategie di ciascuno per accrescere la propria competitività in questo nuovo panorama. È a partire da questa considerazione, vale a dire dell’opportunità per tutti i soggetti coinvolti di riconoscere e utilizzare i processi di rinnovamento continuo delle conoscenze e delle competenze del mercato del lavoro, che è possibile far emergere il valore che per ciascuno di loro può assumere un sistema strutturato, attendibile e riconosciuto di certificazione delle competenze. A livello aziendale, la certificazione può giocare un ruolo fondamentale per ridurre i costi di reclutamento e selezione del personale mediante l’acquisizione di personale con competenze verificate da outsourcer riconosciuti e attendibili. Di più, la certificazione si prefigura quale strumento istituzionale per tradurre il capitale umano in valore, facilitando il bilancio della conoscenza aziendale e valutando la competenza distintiva in grado di favorire la competitività e di individuare le aree, i settori o i segmenti a maggior potenziale. Addentrandosi nel sistema-impresa, la certificazione delle competenze gioca quindi il suo ruolo strategico su quattro fronti: • i processi di selezione e reclutamento del personale, attraverso la definizione di un numero limitato di caratteristiche individuali necessarie per una performance efficace, che permetta di scegliere tra i candidati quelli più idonei al ruolo da ricoprire e ai processi di innovazione che l’azienda intende perseguire; • la pianificazione dei percorsi di carriera e dei piani di successione, grazie a una puntuale definizione delle competenze necessarie per una determinata mansione e le competenze possedute dai dipendenti, consentendo la valutazione del successivo sviluppo professionale; • l’analisi dei bisogni formativi e la progettazione e somministrazione della formazione, mediante una focalizzazione sullo sviluppo di capacità che risultano determinanti per il successo in uno specifico contesto di business e di cultura aziendale; • la progettazione dei sistemi di valutazione della performance e delle politiche retributive, grazie alla definizione delle competenze personali e manageriali che costituiscono il cuore del modello di business. A livello individuale, la certificazione delle competenze ha una valenza direttamente proporzionale alla sua capacità di generare nel soggetto la consapevolezza della propria spendibilità nel mercato del lavoro, non solo territoriale, ma anche internazionale. Inoltre, è uno strumento efficace per sostenere le proprie candidature, infine, in linea con quanto descritto a livello aziendale, è utile strumento per indirizzare la crescita professionale secondo una logica di lifelong learning.
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A livello istituzionale, infine, la certificazione delle competenze può avere un ruolo importante nella generazione di un mercato del lavoro attrattivo, anzitutto perché in tal modo si valorizza il capitale umano del proprio territorio che costituisce la principale risorsa da spendere per stimolare lo sviluppo d’impresa, ha il pregio inoltre di accogliere e di trasformare in valore le competenze di soggetti provenienti da altre realtà e da altri territori favorendo quindi la mobilità sociale e territoriale degli individui. Il quadro ora delineato va tradotto in un concreto utilizzo di questo strumento ai fini dell’incontro tra le esigenze di innovazione e competitività del sistema produttivo territoriale e le risorse umane presenti nel mercato del lavoro di riferimento delle imprese. Il compito delle istituzioni deve necessariamente vertere alla creazione di un sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro integrato con processi di riconoscimento, validazione e certificazione delle competenze. Tale integrazione è possibile solo attraverso la strutturazione di un sistema che, mediante una governance istituzionale, metta in concerto i sistemi di istruzione e formazione e il sistema produttivo. A questo fine è necessario adottare strumenti che utilizzano linguaggi e classificazioni condivise a livello internazionale dagli attori e dagli operatori del mondo dell’istruzione, formazione e lavoro (come l’European Qualification Framework – EQF) e che siano in grado di segmentare i vari stakeholder indirizzandoli verso percorsi di accesso alle informazioni diversificati, semplici ed efficaci.
2. Un primo strumento regionale di supporto al riconoscimento delle competenze: il Borsino delle Professioni Il Borsino delle Professioni nasce come sistema di orientamento online, rivolto a studenti, famiglie, istituti scolastici, centri di formazione professionale e aziende. Obiettivo primario del Borsino è illustrare i percorsi scolastici offerti dalla Regione Veneto attraverso l’esplorazione delle possibilità di studio in funzione delle competenze e conoscenze acquisibili mediante l’acquisizione di un dato titolo di studio. Il progetto, che a prima vista potrebbe far pensare a una delle tante proposte in materia di orientamento professionale, vanta però una intuizione di fondo innovativa, che qualifica il Borsino e che si presta a un suo sviluppo in direzione del supporto istituzionale alle imprese e ai cittadini per il riconoscimento e la certificazione delle competenze. L’idea di fondo è insita nel concetto stesso di “borsino”, inteso come
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strumento di “quotazione” nel mercato del lavoro del valore dei singoli titoli di studio e di formazione e delle figure professionali correlate. Duplice l’obiettivo: da un lato stimare il valore che tali percorsi, e le figure professionali in uscita, hanno nel mercato del lavoro regionale; dall’altro, implementare un servizio accessibile via web per guidare i giovani nella scelta dei percorsi formali di istruzione e formazione, fornendo come quadro di riferimento le competenze acquisibili e spendibili nel mercato del lavoro. L’utilità di tale azione, pertanto, non si esaurisce nell’orientamento alla scelta scolastica, ma assume rilevanza anche in altri ambiti. Nelle scuole, infatti, è uno strumento per verificare quanto i percorsi formativi concorrono a formare competenze e capacità specifiche maggiormente richieste dal sistema produttivo, individuare i contenuti didattici che incidono sulla loro formazione e definire possibili ambiti di sviluppo con riferimento a nuove discipline o percorsi curricolari. Nelle aziende, consente di circoscrivere gli ambiti di applicazione durante i periodi di stage, in funzione di quanto definito con la scuola per lo sviluppo di competenze specifiche, nonché di avvalersi di personale formato rispetto a figure professionali riconosciute. L’analisi permette, in definitiva, di rilevare quanto l’offerta formativa di istruzione e formazione di un territorio risponda realmente alle esigenze del mercato del lavoro di riferimento. Il progetto, avviato in forma sperimentale nel 2007, è fondato su un impianto metodologico che prevede l’adozione di un repertorio di qualifiche professionali condiviso dal Sistema Lavoro e dal Sistema Istruzione e Formazione Professionale. Ogni figura professionale è stata descritta in termini di capacità, conoscenze e risultati attesi negli specifici compiti lavorativi. L’output del progetto si concretizza attualmente in uno strumento web di facile accesso e consultazione: attraverso meccanismi di ricerca multipli (per filtri o per parole chiave), ogni utente può accedere a un quadro dell’offerta formativa regionale, individuare gli istituti che erogano i percorsi scelti, le figure professionali in uscita e il dettaglio di quanto ogni singolo percorso incide nella formazione di conoscenze e capacità specifiche.
3. Il Borsino per un mercato del lavoro basato sulle competenze per l’innovazione Gli obiettivi specifici che il Progetto Borsino si era posto possono essere così riassunti: 1. adottare un quadro classificatorio delle “professioni”, costruito secondo le più moderne metodologie di analisi delle competenze, in grado di di-
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ventare “convenzionalmente” il linguaggio comune del mondo del lavoro, dell’istruzione e della formazione; 2. analizzare i percorsi formali di istruzione e formazione in funzione delle competenze acquisibili, correlando così i titoli formali rilasciati alle figure professionali richieste dal mercato del lavoro, al fine di valutarne il grado di corrispondenza; 3. valutare l’effettiva spendibilità nel mercato del lavoro delle competenze acquisite nei percorsi formali di istruzione e formazione. Alla base del progetto vi era l’esigenza di dotarsi di uno strumento in grado di superare la babele dei linguaggi, di orientare i giovani e le famiglie in termini di spendibilità reale delle competenze acquisite e di attrarre la domanda di lavoro, con particolare riferimento a quella interessata a investire sullo sviluppo delle proprie competenze. Per quanto riguarda il primo aspetto, nella progettazione iniziale del Borsino delle Professioni è stata valutata l’adozione di un sistema descrittorio delle professioni che rispondesse a esigenze informative e orientative di un’utenza diversificata e che approfondisse in maniera dettagliata l’insieme delle competenze necessarie in determinati ruoli professionali. Ogni professione descritta nel Borsino è stata inoltre rapportata ai principali sistemi classificatori nazionali e internazionali (Nomenclatura delle Unità professionali Istat, Isfol e ISCO). Attualmente è in via di completamento il collegamento anche con i livelli EQF. In secondo luogo, va sottolineato che valutare il grado di corrispondenza tra le conoscenze acquisite mediante un percorso di istruzione formale e quelle richieste dal mercato del lavoro territoriale assume una valenza già a livello di orientamento alla scelta scolastica ma è sempre più un’informazione spendibile per l’aggiornamento e il reinserimento professionale. Ma gli strumenti elaborati sono utili esclusivamente se forniscono informazioni davvero attendibili in ordine alle prospettive del mercato del lavoro territoriale e se riescono a uscire dalla superata logica del “Quali sono le qualifiche più richieste dalle aziende” in favore di “Quali competenze devo acquisire per avere maggiori opportunità nel mercato del lavoro?”. Per conseguire questi obiettivi è necessario invertire la prospettiva attraverso la quale si analizzano e si intersecano i sistemi istruzione, formazione e lavoro. Il progetto presentato in questa pubblicazione propone infatti un’analisi condotta a partire dal mercato del lavoro territoriale, e quindi dai processi produttivi delle imprese per giungere alle competenze. Il percorso fatto fino a oggi dal Borsino è limitato a processi, a competenze e figure professionali tipiche del sistema produttivo regionale e non ha esplorato il vasto universo delle conoscenze e dei profili che, a vario ti-
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tolo, concorrono concretamente a sviluppare la competitività e il riposizionamento nel mercato delle imprese. L’acquisizione dei profili studiati da Confindustria Veneto SIAV si prefigura quindi come un importante momento di sviluppo del sistema Borsino dal punto di vista dell’aggiornamento alle necessità dell’impresa e del mercato del lavoro. L’ampliamento delle 140 figure professionali attualmente presenti nel Borsino porterà conseguentemente a un incremento dei titoli di studio correlati (oggi 234) e agli istituti scolastici e centri di formazione professionale coinvolti nell’indagine (622). Tale evoluzione renderà il Borsino uno strumento sempre più adeguato ad accompagnare non solo percorsi di orientamento ma anche di inserimento e reinserimento professionale attraverso stage, apprendistato professionalizzante ed esperienze di tirocinio per giovani ma anche per disoccupati.
4. Dall’orientamento all’inserimento professionale dei giovani Un primo canale di utilizzo del Borsino è legato alla pianificazione delle esperienze di stage e tirocinio con lo scopo di garantire un’esperienza lavorativa e un successivo inserimento coerente con il percorso di studi del soggetto. Grazie a questo strumento, infatti, è possibile definire un progetto contenente chiare indicazioni sul profilo professionale che l’azienda stipulante intende reperire e formare e sulle conoscenze/competenze fornite dal titolo di studio selezionato. Il Borsino delle Professioni consente di individuare la figura professionale più coerente con il percorso di studi e di supportare la pianificazione delle attività formative grazie all’analisi dell’incidenza del titolo di studio sulla formazione delle specifiche conoscenze e capacità. Allo stesso modo il Borsino è uno strumento applicabile ai percorsi di apprendistato professionalizzante. Seguendo un’ottica di integrazione delle diverse esperienze di alternanza tra lavoro e istruzione, la Giunta Regionale del Veneto, nell’ambito dell’approvazione di linee guida per favorire l’occupazione giovanile, ha inserito un progetto denominato “Patto Prima Occupazione”. Si tratta di un primo concreto esempio di utilizzo del Borsino delle Professioni quale strumento per risolvere reiterate criticità legate all’inserimento lavorativo dei giovani, in particolare l’eccessivo protrarsi dei periodi di transizione scuola-lavoro e la frequente incoerenza dell’inserimento professionale rispetto ai percorsi di studio. Questi fattori, oltre a vanificare in larga misura l’investimento che le istituzioni e le famiglie fanno sul futuro professionale dei giovani, causano un depauperamento delle conoscenze trasmesse dal
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sistema formativo al mercato del lavoro, con un evidente aggravio di costi diretti e indiretti per le imprese nel reperimento delle professionalità necessarie per la propria attività. Il progetto si traduce in un accordo mediante il quale un istituto scolastico o un centro di formazione professionale, un datore di lavoro e un allievo, con la supervisione del Centro per l’Impiego, definiscono un progetto di inserimento lavorativo in una figura professionale il cui profilo sia coerente con lo specifico percorso di istruzione e formazione seguito dall’allievo stesso. La verifica di coerenza è effettuata utilizzando la metodologia di correlazione, messa a punto con il progetto Borsino delle professioni. Attraverso questo strumento, le aziende possono investire su percorsi formativi assistiti che mirano a colmare il gap di competenze non acquisite durante i percorsi scolastici e che sono critiche nello svolgimento della professione ricercata, coerentemente anche con gli obiettivi del soggetto. Il percorso previsto dal Patto comprende uno stage di orientamento di due settimane da effettuarsi durante l’ultimo anno scolastico, uno stage di formazione di tre-sei mesi da effettuarsi al conseguimento del titolo e, infine, un contratto di apprendistato professionalizzante. Il progetto formativo deve contenere chiare indicazioni sul profilo professionale che l’azienda intende reperire e formare e su conoscenze e competenze fornite dal titolo di studio conseguito dall’allievo selezionato. Il Patto comprende, inoltre, una “dote” finanziaria per lo svolgimento dei percorsi formativi e per il tutoraggio, nonché un premio per le aziende che trasformeranno il contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato come incentivo alla stabilizzazione. Come si intuisce l’obiettivo è, da un lato, quello di incentivare le imprese, attraverso un uso più mirato delle risorse finanziarie, a investire sui giovani, fornendo al contempo assistenza e tutoraggio nell’impegnativo compito di sviluppare la loro formazione professionale; dall’altro, quello di stimolare il sistema di istruzione/formazione ad affrontare la sfida di una verifica puntuale delle competenze formate e, di conseguenza, sull’effettivo valore nel mercato del lavoro dei “titoli” rilasciati.
5. Il supporto alla riqualificazione e al reinserimento dei disoccupati Vale la pena a questo punto gettare il cuore oltre l’ostacolo e sottolineare brevemente l’importanza del riconoscimento e della certificazione delle competenze al fine di favorire la presa di coscienza della spendibilità del lavoratore nel mercato del lavoro considerando che, nel contesto attuale, la
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mobilità professionale non ha più quel carattere di linearità secondo il quale una volta acquisita una determinata professionalità un soggetto aveva la possibilità di reimpiegarsi in un’altra azienda ma nel medesimo settore e con simile ruolo. Attualmente l’imperativo dominante è sapersi spendere in contesti eterogenei, sapersi rimettere in gioco, reinventarsi e, quindi, trovare spazi di attività con qualifiche diverse e settori variabili. Affinché ciò sia possibile i soggetti che si rivolgono ai servizi per il lavoro necessitano di un accompagnamento per acquisire consapevolezza delle competenze acquisite in ambito informale e non formale e per avere un quadro sulle opportunità di reimpiego di questo patrimonio in contesti diversi. Per rispondere a questa esigenza, i servizi per il lavoro pubblici e privati devono dotarsi di strumenti adeguati a fornire questo tipo di supporto a quanti necessitino o aspirino alla mobilità professionale. In un’ottica evolutiva che preveda l’ampliamento e il costante aggiornamento, tra le altre possibili, delle aree professionali coinvolte nell’indagine presentata in questa pubblicazione, il progetto Borsino delle Professioni risponde efficacemente a tale scopo, anche alla luce della compatibilità del sistema applicativo con il sistema IDO, lo strumento di cui sono dotati i centri per l’impiego e i servizi per il lavoro privati accreditati dalla Regione del Veneto per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
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ALLEGATO 1. METODOLOGIA PER LA RILEVAZIONE DELLE COMPETENZE IN AMBITI NON FORMALI E INFORMALI DI APPRENDIMENTO di Salvatore Garbellano
Premessa Il documento ha la finalità di presentare una metodologia idonea a rilevare le competenze in ambiti non formali e informali di apprendimento, in particolare, quelle riguardanti i processi di innovazione nelle imprese. Gli aspetti caratterizzanti la rilevazione sono: • la focalizzazione sulle competenze connesse ai processi di innovazione di prodotto; • l’utilizzo del modello “innovation funnel” per descrivere il processo di innovazione di prodotto; • l’applicazione del modello EQF; • il recepimento, per quanto possibile, della sintassi di riferimento per la denominazione e descrizione delle competenze e dei loro elementi così come indicato dalla Regione del Veneto. In particolare l’utilizzo del modello EQF risponde a una formale richiesta della Regione del Veneto. La metodologia proposta tenta di rispondere ai tre aspetti sopra indicati e si compone di 4 parti, di seguito elencate. • Parte 0. Dati di base sull’azienda, l’intervistato o intervistati. • Parte 1. Introduzione: finalizzata a individuare e cogliere le caratteristiche principali dell’azienda e le informazioni maggiormente rilevanti sulla persona (o persone) intervistate. • Parte 2. Finalizzata a individuare le competenze connesse al processo di innovazione di prodotto così come configurato nel modello “innovation funnel”, distinguendo le diverse o macro fasi e gli eventuali processi presenti in ciascuna di esse. • Parte 3. Dati di riepilogo Avvertenze per l’intervistatore Prima di utilizzare la scheda, è necessario presentare all’intervistato gli obiettivi del programma, i risultati attesi, i ritorni/vantaggi per l’azienda e l’intervistato stesso. 183
La scheda non deve essere consegnata all’intervistato. Durante l’intervista, l’utilizzo della scheda non deve essere effettuato in modo rigido e strettamente sequenziale (evitare domande a risposta chiusa: sì/no). L’elenco delle attività serve all’intervistato per acquisire una visione generale e complessiva del processo di innovazione. Non è necessario compilare tutta la scheda qualora una macro fase o un processo o parte di esso non sia implementato nell’azienda intervistata. In questo caso, l’intervista evidenzierà soltanto i processi aziendali implementati e, quindi, le competenze saranno rilevate soltanto per tali processi. Per ogni macro – attività prevista dal modello, si è ritenuto opportuno lasciare nella scheda alcuni spazi in bianco qualora le aziende effettuino una pluralità di specifiche azioni. Si è posto nel medesimo foglio di lavoro sia la Parte A (riguardante i processi manageriali connessi all’innovazione, secondo il modello “innovation funnel”) sia la Parte B (dedicata alla rilevazione delle competenze). La Parte B deve essere compilata dopo che sia stata effettuata la rilevazione delle attività. La rilevazione delle conoscenze e abilità va svolta con il coinvolgimento dell’intervistato da ottenere tramite opportune domande. L’intervistatore deve descrivere la competenza al termine dell’intervista, senza il diretto coinvolgimento dell’intervistato. Questa descrizione deve avvenire secondo la sintassi indicata dalla Regione Veneto. Nella Parte B, è stata inserita una colonna denominata “Note” al fine di raccogliere i punti di forza, gli aspetti di attenzione e le eventuali criticità nella rilevazione delle competenze in ambiti non formali e informali secondo il modello EQF, nonché la classificazione in uno degli 8 livelli previsti dall’EQF stesso. Parte 0. I dati dell’azienda e delle persone intervistate Azienda Settore Via CAP, Città, Provincia Persona/e intervistata/e Tel. E-mail Nome dell’intervistatore Nome dell’intervistata/o/i Profilo professionale Qualifiche professionali Età anagrafica Anni di esperienza lavorativa
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Parte 1. Introduzione 1. Caratteristiche del settore in cui opera l’azienda 2. Caratteristiche dell’azienda: strategia, dimensione, struttura organizzativa, livello di internazionalizzazione ecc. 3. Indicare in quale fase del processo di innovazione/sviluppo prodotto e il livello di responsabilità in cui è inserita l’attività/professione della o delle persone intervistate (se opportuno, fare una rappresentazione grafica del disegno organizzativo o dello schema sintetico del processo) 4. Esperienze lavorative maggiormente rilevanti per lo sviluppo professionale della o delle persone intervistate 5. Titolo di studio conseguito e principali corsi di formazione frequentati dall’intervistato o intervistati
Parte 2. L’imbuto dell’innovazione Macro fase: generazione e selezione delle opportunità. Primo processo: ricerca sui mercati. Parte A* Attività realizzate1
Risultati2
Ruoli coinvolti
Punti di attenzione/ criticità
Analisi della domanda (trend bisogni macro, dimensioni, canali distributivi ecc.) 1. Attività ................. 2. Attività .................
*
Le indicazioni di nota presentate nella testata della tabella verranno ripetute nelle successive, ma per il testo relativo occorrerà fare riferimento alla prima ricorrenza. 1 Per esempio, scanning, intelligence su clienti, concorrenti, contesto ambientale, ricerche di mercato ecc. 2 A ogni attività deve essere riconducibile un risultato.
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Attività realizzate1
Ruoli coinvolti
Risultati2
Punti di attenzione/ criticità
Abilità4
Competenza5
Note6
3. Attività ................. 4. Attività ................. Analisi dell’offerta
Parte B** Conoscenze3 Analisi della domanda (trend bisogni macro, dimensioni, canali distributivi ecc.) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività ................. 4. Attività ................. Analisi dell’offerta
**
Le indicazioni di nota presentate nella testata della tabella verranno ripetute nelle successive, ma per il testo relativo occorrerà fare riferimento alla prima ricorrenza. 3 EQF: insieme di fatti, principi, teorie e pratiche relative a un settore di studio e lavoro. Lessico. Una locuzione: per esempio, metodi, tecniche, processi, procedure ecc. + un sostantivo che ne specifichi il riferimento (per esempio, “di vendita”, “controllo qualità”). 4 EQF: cognitive, comprendenti l’uso del pensiero logico, intuitivo e creativo o pratiche, comprendenti l’abilità manuale e l’uso di metodi, materiali, strumenti. Lessico. Verbo che esprime un’operazione concreta (per esempio, utilizzare, applicare ecc.) + un sostantivo che esprime l’oggetto dell’operazione e/o sue specificazioni (per esempio tecniche di analisi). 5 EQF: in termini di responsabilità e autonomia. Lessico. Verbo di azione all’infinito + Oggetto: che precisa che corrisponde al risultato + Specificazione con la quale si precisano le condizioni in cui la competenza viene agita (per esempio, verbo al gerundio). 6 Indicare aspetti rilevanti, livello secondo l’EQF ecc.
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Macro fase: generazione e selezione delle opportunità. Secondo processo: ricerca sulle tecnologie Parte A Attività realizzate1
Risultati2
Ruoli coinvolti
Identificazione delle tecnologie che sono o possono essere in futuro importanti per l’azienda 1. Attività ................. 2. Attività ................. Selezione: scelta delle tecnologie a cui dedicare attenzione e risorse 1. Attività ................. 2. Attività ................. Acquisizione: modalità di appropriazione delle tecnologie ritenute critiche 1. Attività ................. 2. Attività ................. Protezione: riguarda le attività di protezione delle conoscenze che sono incorporate nei prodotti e nei sistemi produttivi 1. Attività ................. 2. Attività .................
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Punti di attenzione/ criticità
Parte B Conoscenze3
Abilità4
Competenza5
Identificazione delle tecnologie che sono o possono essere in futuro importanti per l’azienda 1. Attività ................. 2. Attività ................. Selezione: scelta delle tecnologie a cui dedicare attenzione e risorse 1. Attività ................. 2. Attività ................. Acquisizione: modalità di appropriazione delle tecnologie ritenute critiche 1. Attività ................. 2. Attività ................. Protezione: riguarda le attività di protezione delle conoscenze che sono incorporate nei prodotti e nei sistemi produttivi 1. Attività ................. 2. Attività .................
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Note6
Macro fase: generazione e selezione delle idee e opportunità. Terzo processo: creazione delle idee di prodotto. Parte A Attività realizzate1
Ruoli coinvolti
Risultati2
Punti di attenzione/ criticità
Abilità4
Competenza5
Note6
Generazione di idee 1. Attività ................. 2. Attività ................. Generazione di idee 1. Attività ................. 2. Attività .................
Parte B Conoscenze3 Generazione di idee 1. Attività ................. 2. Attività ................. Generazione di idee 1. Attività ................. 2. Attività .................
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Macro fase: sviluppo di nuovi prodotti. Primo processo: comprensione dei bisogni dei clienti. Secondo processo: definizione architettura preliminare e requisiti. Parte A Attività realizzate1
Risultati2
Ruoli coinvolti
Comprensione dei bisogni dei clienti (appartenenti ai mercati obiettivo) e identificazione delle opportunità in termini di bisogni da soddisfare 1. Attività ................. 2. Attività ................. Definizione del-l’architettura preliminare e dei requisiti del prodotto (definizione di funzioni, caratteristiche sperimentabili dal cliente, forma e architettura preliminari, segmenti di clienti, area geografica target, posizionamento del prodotto ecc.) 1. Attività ................. 2. Attività .................
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Punti di attenzione/ criticità
Parte B Conoscenze3
Abilità4
Competenza5
Comprensione dei bisogni dei clienti (appartenenti ai mercati obiettivo) e identificazione delle opportunità in termini di bisogni da soddisfare 1. Attività ................. 2. Attività ................. Definizione del-l’architettura preliminare e dei requisiti del prodotto (definizione di funzioni, caratteristiche sperimentabili dal cliente, forma e architettura preliminari, segmenti di clienti, area geografica target, posizionamento del prodotto ecc.) 1. Attività ................. 2. Attività .................
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Note6
Macro fase: progettazione prodotto/processo. Parte A Attività realizzate1 Progettazione a livello di sistema (comprende la definizione dell’architettura di dettaglio del prodotto e la suddivisione del prodotto in sottosistemi e componenti)
Risultati2
Ruoli coinvolti
In genere, il risultato è il layout di prodotto, una specifica funzionale per ciascuno dei sottosistemi di prodotto e un diagramma di flusso preliminare per il processo produttivo
1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività ................. Progettazione sottosistema (comprende la definizione completa della geometria, dei materiali e delle tolleranze delle singole parti del prodotto e l’identificazione di tutte le parti standardizzate che saranno acquistate dai fornitori. Definisce il processo di produzione e le lavorazioni per ciascun componente da fabbricare all’interno del sistema produttivo aziendale)
In genere, il risultato è una documentazione tecnica con disegni e file che descrivono i componenti del prodotto e le sue lavorazioni, le specifiche delle parti da acquistare e il processo di produzione del prodotto
1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività .................
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Punti di attenzione/ criticità
Attività realizzate1
Risultati2
Ruoli coinvolti
Sperimentazione e miglioramento (costruzione e valutazione di vari prototipi del prodotto sia fisici che analitici) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività ................. Avviamento della produzione (comprende le attività di avviamento della produzione, quali preserie, rump up sino alla costruzione del sistema produttivo previsto. Nella fase di avviamento sono comprese le attività di addestrare il personale, comprendere lo stato di affidabilità del processo produttivo e del prodotto prima di rilasciare ufficialmente il prodotto nel mercato) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività .................
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Punti di attenzione/ criticità
Parte B Conoscenze3
Abilità4
Competenza5
Progettazione a livello di sistema (comprende la definizione dell’architettura di dettaglio del prodotto e la suddivisione del prodotto in sottosistemi e componenti) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività ................. Progettazione sottosistema (comprende la definizione completa della geometria, dei materiali e delle tolleranze delle singole parti del prodotto e l’identificazione di tutte le parti standardizzate che saranno acquistate dai fornitori. Definisce il processo di produzione e le lavorazioni per ciascun componente da fabbricare all’interno del sistema produttivo aziendale) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività .................
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Note6
Conoscenze3
Abilità4
Competenza5
Sperimentazione e miglioramento (costruzione e valutazione di vari prototipi del prodotto sia fisici che analitici) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività ................. Avviamento della produzione (comprende le attività di avviamento della produzione, quali preserie, rump up sino alla costruzione del sistema produttivo previsto. Nella fase di avviamento sono comprese le attività di addestrare il personale, comprendere lo stato di affidabilità del processo produttivo e del prodotto prima di rilasciare ufficialmente il prodotto nel mercato) 1. Attività ................. 2. Attività ................. 3. Attività .................
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Note6
Parte 3. Dati di riepilogo Per ciascuna conoscenza e abilità individuate nel corso dell’intervista, occorre individuare il principale “driver” dell’apprendimento secondo due categorie. Aspetti personali
Aspetti organizzativi
Driver dell’apprendimento7
Descrizione dell’innovazione Risultati per l’azienda in termini di fatturato, quote di mercato, occupazione ecc. Note e commenti finali
Luogo e data dell’intervista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Si richiede di utilizzare le informazioni ai fini di . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ...............................................................
7
Per esempio l’imprenditore, presenza di un gruppo di lavoro, persona – chiave o “maestro” ecc.
196
ALLEGATO 2. IL “RESPONSABILE DELLA RICERCA E SVILUPPO” di Pier Giovanni Bresciani e Vincenzo Sarchielli
Denominazione Responsabile Ricerca e Sviluppo Descrizione sintetica Il Responsabile R&S si occupa prevalentemente della definizione, implementazione e gestione dei processi organizzativi e interorganizzativi connessi all’innovazione e allo sviluppo dei prodotti. In particolare coordina e supervisiona le attività di analisi e di progettazione dell’architettura del processo di innovazione. Definisce, interagendo e coordinandosi con le altre funzioni aziendali, le idee di nuovi prodotti, le modalità di selezione del portafoglio progetti e le modalità organizzative e operative di gestione dei singoli progetti di sviluppo. Il Responsabile R&S, in sintonia con le linee strategiche definite dalla direzione aziendale, concorre a identificare specifiche opportunità di finanziamento e definisce le modalità di allocazione delle risorse sia per i progetti di sviluppo di nuovi prodotti per il medio/lungo periodo, sia per i progetti di miglioramento delle piattaforme di prodotto specifiche dell’azienda. Il Responsabile R&S cura i rapporti per lo sviluppo di sinergie con le Università e gli Enti di ricerca, con interlocutori individuali e collettivi (clienti, fornitori, altre imprese, comunità professionali, centri di ricerca) che condividono un sistema di relazioni di scambio e/o contrattuali, funzionali allo sviluppo di apprendimento collettivo. Garantisce conoscenze aggiornate delle tecnologie che interessano o potranno interessare a breve i prodotti e i processi aziendali. La formazione di base del Responsabile R&S è, di norma, di tipo tecnicoscientifico; in prospettiva è universitaria e, preferibilmente, con laurea in discipline quali ingegneria, fisica, matematica ecc.; risulta utile la frequenza a percorsi di specializzazione post-laurea o di dottorato e una esperienza sul campo in ruoli intermedi attraverso i quali sviluppare specifiche competenze organizzative ed economico-gestionali. Il Responsabile R&S possiede una buona conoscenza di almeno una lingua 197
straniera e in particolare dell’inglese; ha maturato – anche in contesti formali e non formali – specifiche conoscenze delle regole di funzionamento dell’impresa e del sistema della ricerca; ha maturato conoscenze e capacità delle metodologie di gestione e di pianificazione strategica. Il Responsabile R&S possiede inoltre conoscenze generali e capacità inerenti la gestione delle risorse finanziarie e materiali e le metodologie di gestione e coordinamento delle risorse umane e dei team di progetto; conosce le metodologie e gli strumenti di benchmarking e i principi relativi al ciclo di vita del prodotto e al marketing (marketing mix: prodotto, prezzo ecc.) e alla technology intelligence. È aggiornato sugli strumenti software e sui sistemi ICT, che utilizza anche direttamente quando opera in una piccola impresa o mediante collaboratori quando opera in un’impresa medio-grande. In particolare utilizza programmi per i calcoli strutturali, per il disegno/progettazione 2D e3D, nonché tools di pianificazione dei progetti e più in generale i software gestionali in uso in azienda. Utilizza software per le presentazioni multimediali. Collocazione organizzativa ............................................................... Mercato del lavoro ............................................................... 1. Unità di competenza: ricerca sui mercati Descrizione della performance/risultato •
Analizzare in collaborazione con il marketing la domanda, i trend e i bisogni macro del mercato di riferimento; predisporre specifiche analisi della concorrenza; definire l’offerta attuale e potenziale di prodotti.
Attività prevalenti • • •
Identificare i bisogni del mercato attuali e in prospettiva. Definire le esigenze dei clienti attuali e potenziali. Analizzare ed effettuare scanning sui concorrenti e sui loro prodotti.
Conoscenze • • • •
Tecniche di analisi del mercato di riferimento, in riferimento alle dinamiche competitive e ai nuovi trend di sviluppo. Tecniche di analisi del prodotto. Caratteristiche tecniche e commerciali del prodotto aziendale. Metodi di segmentazione del mercato/clienti. 198
Abilità •
•
•
• • • •
Applica tecniche specifiche per analizzare il mercato di riferimento dell’azienda, la situazione congiunturale e le prospettive nazionali e internazionali. Utilizza modelli di riferimento per interpretare le tendenze del mercato che propongono prodotti/articoli simili realizzati con materiali o tecnologie differenti. Gestisce insieme al marketing le relazioni con i clienti interni ed esterni, comprendendone il livello di soddisfazione rispetto alle specifiche applicazioni offerte dal mercato, e immagina soluzioni di prodotto in linea alle loro esigenze. Seleziona le informazioni provenienti dall’utente finale implementando le proprie conoscenze del campo di applicazione delle tecnologie prodotte. Supporta la rete di vendita formando i venditori in merito a caratteristiche, punti di forza, debolezza, modalità di gestione del prodotto. Coordina l’intero processo di analisi e di testing dei prodotti della concorrenza, anche con metodi di reverse engineering. Promuove e stimola la collaborazione tra le diverse funzioni aziendali contribuendo a creare le condizioni socio-organizzative che facilitano l’apprendimento e lo sviluppo individuale e organizzativo.
Competenze • •
•
•
Interpretare i dati prodotti collegando le analisi dell’andamento dei mercati allo sviluppo dei prodotti dell’azienda. Gestire direttamente o in team i processi e le attività specifiche dell’unità di competenza, assumendo pienamente le responsabilità metodologiche, operative e decisionali in essi presenti. Gestire le riunioni con i collaboratori coinvolti nei processi di analisi adottando modalità di relazione e strategie comunicative adeguate alla situazione. Coordinare le attività informative e formative rivolte ai collaboratori sostenendo tutto il processo di analisi dei bisogni del mercato, dei clienti attuali e potenziali.
EQF •
Conoscenze
•
Abilità
•
Competenze
2. Unità di competenza: ricerca sulle tecnologie Descrizione della performance/risultato •
Identificare e selezionare le tecnologie disponibili e/o di potenziale sviluppo definendone le modalità di acquisizione e di protezione commerciale.
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Attività prevalenti • • • • • •
Identificare e analizzare le tecnologie disponibili in house, nel settore di attività e nei settori affini in cui l’azienda non opera. Valutare nel dettaglio le tecnologie identificate, sia a livello prestazionale che di sviluppo interno, definendone il potenziale impatto economico. Identificare la conoscenza interna per lo sviluppo in-house della tecnologia o della parte strategica per l’azienda. Ricercare i potenziali fornitori della parte del prodotto non strategica. Ricercare, definire e gestire progetti in partnership con Università e Centri di ricerca. Valutare e avviare i procedimenti inerenti al conseguimento di brevetti per le soluzioni e le tecnologie ritenute più importanti.
Conoscenze • • • • •
• • •
Conoscenze informatiche di base (navigazione, gestione database). Conoscenze tecnologiche aggiornate rispetto ai temi specifici dell’azienda (meccanica, materiali, elettronica ecc.). Tecniche e modelli di ricerca di tecnologie disponibili sul mercato. Metodi di technology intelligence. Ricerca su data base bibliografici o tecnici o attraverso collegamenti personali delle tendenze di sviluppo delle principali tecnologie che integrano prodotto/processo. Layout tecnico dei prodotti dell’impresa. Tecniche per l’analisi funzionale. Normative, tecniche di controllo e verifica della qualità di materiali, tecnologie e processi innovativi, per il controllo di qualità già in fase di ricerca.
Abilità •
• • • •
•
Utilizza metodi di analisi e acquisizione delle informazioni sulle tecnologie disponibili sul mercato, presidiando in modo continuativo l’attività di ricerca, al fine di individuare la soluzione tecnologica rispondente alle esigenze aziendali. Valuta le caratteristiche tecniche e qualitative del prodotto, in funzione del mercato di riferimento. Genera proposte di applicazione della tecnologia. Assegna al team di progetto la valutazione dei problemi e dei costi associati all’acquisizione e allo sviluppo della tecnologia. Governa il processo decisionale con il team di lavoro per l’eventuale definizione e implementazione della soluzione tecnologica, riconoscendone gli aspetti strategicamente rilevanti da sviluppare in-house. Applica tecniche di monitoraggio dell’attività di testing sul prototipo realizzato, contribuendo al processo di individuazione delle conoscenze e
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•
delle parti del prodotto da “proteggere”, evidenziando i problemi e le criticità tecnico-realizzative al fine di verificarne la brevettabilità. Prepara la documentazione tecnica per la richiesta di brevetto.
Competenze • •
• • •
Identificare e gestire, stimolandone l’utilizzo, le reti informative e relazionali formali e informali presenti nel contesto di riferimento. Gestire la comunicazione interna ed esterna relativamente all’andamento dei progetti e delle attività di ricerca delle tecnologie disponibili o di potenziale sviluppo. Coordinare le attività e le persone coinvolte nei processi e identificare in autonomia, assumendone la responsabilità, i potenziali fornitori di tecnologia. Costruire una rete di relazioni e contatti con Università e Centri di ricerca. Monitorare i processi operativi e valutare i risultati ottenuti al fine di individuare e socializzare le strategie di miglioramento delle attività svolte.
EQF •
Conoscenze
•
Abilità
•
Competenze
3. Unità di competenza: creazione delle idee di prodotto Descrizione della performance/risultato •
Configurare un portafoglio di progetti aggiornato e bilanciato, coordinando le attività d’analisi dei prodotti disponibili nell’azienda di riferimento, e proporre al management la gamma di prodotti che appare necessaria per sviluppare e migliorare la competitività nel settore di mercato in sintonia con la visione e con gli obiettivi strategici aziendali.
Attività prevalenti •
•
Generare idee progettuali volte ad accogliere i diversi input formulati dalle diverse funzioni e dai diversi interlocutori del sistema azienda con particolare attenzione dall’area marketing. Valutare e selezionare idee e progetti in funzione di specifici criteri tecnici ed economico-finanziari per la definizione del portafoglio progetti.
Conoscenze • • • • • •
Conoscenze tecniche aggiornate sulle tecnologie di settore. Caratteristiche commerciali e funzionalità dei singoli prodotti. Modalità valutazione investimenti e risk management Caratteristiche funzionali e architetturali dei prodotti di impresa. Campi di applicazione delle tecnologie. Metodologie di analisi della “voce del cliente”.
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Abilità •
• •
•
•
• •
Coordina l’analisi dei prodotti disponibili in azienda allo scopo di individuare e proporre al management la composizione del portafoglio di prodotti necessaria per essere competitivi nel settore di mercato obiettivo, rispondendo alla visione strategica definita a livello aziendale. Comunica al management le possibilità di integrare il portafoglio prodotti per ampliare la competitività nel settore di mercato obiettivo. Pianifica le attività informative con i vertici aziendali per la definizione della strategia di prodotto e dei criteri da adottare per la soluzione o lo sviluppo di specifiche linee di azione. Utilizza specifiche modalità di valutazione degli effetti e dell’impatto del progetto sulla struttura organizzativa e definisce specifici ruoli e responsabilità. Identifica le modalità e i tempi di documentazione del processo di creazione di idee prodotto stabilendo le strategie comunicative e/o informative da adottare con i partner coinvolti. Gestisce l’individuazione di concetti, temi e caratteristiche estetiche delle varie soluzioni. Valuta la convenienza economico finanziaria assieme ai colleghi di direzione.
Competenze •
• •
• •
•
Identificare il team di sviluppo, specificando i confini organizzativi (ruoli/soggetti/funzioni) all’interno dei quali realizzare l’attività e le specifiche responsabilità. Sostenere e stimolare comportamenti e approcci idonei a favorire l’integrazione tra singoli e gruppi. Sostenere e coordinare i sistemi di analisi e di interpretazione delle esigenze e delle richieste dei clienti, anticipando con modalità proattive, soluzioni tecniche innovative che possano migliorare il prodotto e il servizio offerto. Selezionare in collaborazione con l’area marketing e design e le altre aree aziendali la soluzione da implementare. Facilitare il confronto tra interlocutori interni ed esterni sostenendo e riconoscendo i processi di apprendimento individuale e organizzativo a esso correlati. Stimolare nei collaboratori l’autovalutazione, accogliendo le loro modalità di sviluppo e di autoregolazione del proprio apprendimento.
EQF •
Conoscenze
•
Abilità
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•
Competenze
4. Unità di competenza: definizione e sviluppo di nuovi prodotti Descrizione della performance/risultato •
Configurare un’offerta di prodotti che corrisponda alle caratteristiche e domande dei clienti, agli obiettivi di sviluppo e di profitto aziendale, specificando: concept di prodotto, struttura architettura funzionale (nel caso di prodotti modulari), componenti e materiali, definendone i costi.
Attività prevalenti •
•
• •
Definire e verificare le problematiche, i feedback provenienti dal mercato e dallo staff aziendale, e raccogliere le esigenze espresse dalla clientela e i feedback relativi ai prodotti offerti e potenziali. Formalizzare e presentare alla direzione aziendale la/e scheda/e concetto-prodotto in cui specificare funzionalità, caratteristiche, architetture preliminari, tecnologie di prodotto, risorse necessarie al prodotto e risultati attesi. Elaborare e redigere l’analisi di fattibilità del progetto. Incoraggiare e sostenere il lavoro dei gruppi di progetto.
Conoscenze • • • • • • • • • • • •
Elettronica, termodinamica ecc. in funzione dei prodotti/processi dell’azienda. Principi di ingegneria meccanica. Informatica di base (gestione database). Software gestionali e software specifici di progettazione CAD. Vincoli legislativi del mercato di riferimento per la certificazione (emissioni nocive, potenza, rumorosità). Tecniche di determinazione dei costi. Tecniche di prototipazione. Caratteristiche dei materiali, dei componenti del prodotto, dei macchinari e delle attrezzature in funzione dell’industrializzazione di prodotto. Processo produttivo aziendale e tecnologie produttive a disposizione. Fattori che influenzano il budget a disposizione (logistica, produzione, volumi prodotto ecc.). Normativa relativa alla conformità dei prodotti richiesta dal settore. Metodologia di analisi quali per esempio QFD, House of quality ecc.
Abilità • • •
Utilizza modalità e tools per favorire la comunicazione e l’integrazione interfunzionale. Coglie e interpreta i suggerimenti delle unità di produzione che evidenziano i miglioramenti dimensionali e tecnologici del prodotto. Valuta le possibilità di modifica di prodotti esistenti sia in termini funzio-
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•
•
• • •
nali sia in termini produttivi per generare maggiore soddisfazione sul mercato, miglioramenti di prestazioni o riduzione costi. Dirige e coordina le diverse fasi di sviluppo degli studi di fattibilità e di generazione del piano prodotto e identifica le reti di attori esterni, collaboratori e partner da coinvolgere nelle diverse fasi dell’intervento. Applica conoscenze per realizzare la scheda di concetto prodotto, secondo le indicazioni, le procedure e la modulistica vigenti in azienda, dividendo eventualmente il progetto in scopi e sottoscopi da gestire e/o comunicare ai progettisti. Sviluppa e utilizza un piano di controllo dei costi e degli investimenti. Individua con idonei strumenti le interdipendenze funzionali tra progettazione, produzione e prototipizzazione sia interne che esterne. Definisce le modalità di collaborazione con il Servizio di Assistenza postvendita per la risoluzione di problemi funzionali degli articoli prodotti.
Competenze • •
• •
•
•
Diagnosticare punti di forza e debolezza del proprio prodotto analizzando le esigenze del cliente. Collaborare nel processo di individuazione delle funzionalità critiche del prodotto aziendale, definendo gli obiettivi prestazionali da raggiungere coerentemente alle disposizioni definite dal management in termini di investimento. Selezionare le informazioni gestendo trasversalmente i rapporti interpersonali a vari livelli di responsabilità. Valutare le informazioni, gli eventi storici legati a progetti simili e verificare le politiche commerciali dell’impresa definendo il tempo di approvvigionamento delle risorse. Decidere se e quando porre in essere un’innovazione radicale o un miglioramento dei prodotti esistenti analizzando la documentazione raccolta sull’impianto, assumendo la responsabilità dell’elaborazione del piano prodotto e dello studio di fattibilità. Verificare che l’investimento stimato sia appropriatamente associato alle risorse dell’impresa analizzando l’andamento del progetto.
EQF •
Conoscenze
•
Abilità
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Competenze
5. Unità di competenza: progettazione prodotto/processo Descrizione della performance/risultato •
Configurare e coordinare il processo di sviluppo e di progettazione del prodotto garantendo al team coinvolto (progettisti, tecnici ecc.) il sostegno tecnico e le risorse organizzative idonee alla realizzazione delle
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fasi di progettazione di sistema, progettazione componenti, design estetico e funzionale, elaborazione dati tecnici, prototipizzazione virtuale e fisica. Attività prevalenti • •
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• • • •
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Analizzare e valutare i vincoli del prodotto, del processo produttivo e delle componenti più critiche di tipo strutturale e di approvvigionamento. Sintetizzare e formalizzare le informazioni e le idee valutandone la realizzabilità in riferimento alle risorse disponibili e all’importanza e utilità per l’azienda. Definire i tempi di realizzazione delle diverse attività di progettazione per la messa in produzione del prodotto e redigere il business plan su risorse, costi e tempi di realizzazione e di entrata sul mercato. Supervisionare o realizzare la progettazione di massima delle componenti e del prodotto ed eventuale revisione. Definire l’architettura del prodotto e delle specifiche per l’ufficio tecnico, e supervisionarne la produzione. Strutturare assieme al capo ufficio tecnico la composizione del gruppo esecutivo di progettazione. Effettuare benchmarking su componenti dei fornitori, definire le componenti d’acquisto per il prototipo, esternalizzando la parte routinaria della progettazione. Controllare la revisione dei manuali di manutenzione e produzione, del database delle anagrafiche dei materiali, delle distinte base e degli altri dati tecnici. Verificare la progettazione di prototipi: per le prime fasi di testing del funzionamento, difficoltà, criticità, certificazione dei materiali, rilascio prototipi. Definire con la Produzione le necessità di strutturazione dei reparti, di immissione di figure nuove, di eventuali training, e valutarne l’impatto nella produzione (variazione/integrazione del processo produttivo, definizione della tempistica di realizzazione, collaudi). Collaborare all’avvio della produzione o di preserie e all’emissione delle relative distinte di lavorazione: realizzazione dei test di verifica e validazione del prodotto ed eventuale scelta di un cliente pilota per l’esecuzione di metatest e immissione del prodotto sul mercato.
Conoscenze • • • • •
Conoscenza dei calcoli strutturali. Conoscenza dei componenti dei fornitori. Conoscenza dei processi e delle tecniche di lavorazione meccanica (macchine utensili, stampo, taglio, piega, saldatura). Conoscenza dei sistemi energetici. Conoscenza dei sistemi CAD 2D 3D. 205
• • • • • •
Conoscenza del campo di applicazione delle tecnologie prodotte dalla propria azienda. Conoscenze di project management e dei relativi tools o software applicativi. Conoscenze in tema di normativa di certificazione. Metodologia di controllo del prodotto. Metodologia di rilevamento, analisi e presentazione dei dati per la verifica, il report e la condivisione delle informazioni. Modalità di archiviazione dei progetti secondo le procedure di qualità in essere al fine di costruire una banca dati di quanto realizzato.
Abilità • • • • • • • • • • • •
• • • •
Determina macro-caratteristiche funzionali del prodotto in relazione ai possibili ambiti applicativi. Individua i parametri di prestazione tecnica del prodotto e le relative prove di funzionamento. Identifica il prodotto meccanico nelle sue componenti geometriche, strutturali e di funzionamento. Definisce particolari costruttivi semplici e complessi del prodotto in relazione a struttura, forma e funzioni identificate. Stabilisce standard di conformità tecnico-qualitativa nel rispetto delle norme internazionali obbligatorie. Valuta le necessità di approvvigionamento della materia prima, delle forniture/subforniture e dei componenti il prodotto finito. Valuta i costi di realizzazione al fine di individuare le soluzioni maggiormente vantaggiose. Valuta i tempi e le modalità di realizzazione in base ai vincoli di natura economica e organizzativa e di competenze disponibili. Seleziona azioni, strumenti organizzativi e di controllo, modalità operative e gestionali, atte a garantire un ottimale svolgimento del progetto. Aggiorna il budget di progetto. Analizza e valida le specifiche tecnico-progettuali. Organizza e gestisce con il gruppo di progetto gli incontri necessari all’implementazione e monitoraggio del progetto stesso, per quanto riguarda tempi d’avanzamento, costi e qualità delle soluzioni. Assegna le attività in base alle competenze specifiche dei collaboratori. Verifica la fattibilità delle soluzioni adottate durante la revisione del progetto. Pianifica i test di verifica. Mantiene memoria aziendale delle soluzioni impiegate.
Competenze •
Identificare e adottare modalità di gestione delle relazioni interne ed esterne all’organizzazione funzionali all’attività di sviluppo prodotto im206
• • • •
•
•
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prontate alla flessibilità in relazione a contesti e alle tipologie di interlocutori interessati. Riconoscere e controllare le dinamiche socio-organizzative con riferimento alle variabili di contesto e alle persone del team. Definire programmi e adottare modalità e strumenti di pianificazione delle attività tenendo conto delle responsabilità assegnate e dei vincoli dati. Promuovere il confronto e il problem solving del team di lavoro per definire le specifiche di prodotto e condividere nuove idee. Assumere la responsabilità dello sviluppo delle specifiche di progetto, verificando la conformità ai limiti organizzativi dell’impresa e ai vincoli di legge del mercato e dei bisogni del cliente e della verifica del rispetto della procedura di sviluppo prodotto e del rispetto del timing. Effettuare la supervisione di tutte le fasi di progettazione e sviluppo prodotto curando in particolare la scelta del progettista o la costituzione del team curando che proceda in autonomia per le attività affidategli. Collaborare alla realizzazione delle fasi di sviluppo progetto definendo e curando le interdipendenze tra le varie funzioni aziendali, recependo input dagli addetti alla prototipizzazione. Proporre con modalità proattive soluzioni di miglioramento funzionale.
EQF •
Conoscenze
•
Abilità
•
Competenze
Il livello EQF della figura professionale del “responsabile della Ricerca e Sviluppo” Come noto, l’EQF costituisce intenzionalmente un riferimento per tutti i certificati di qualifica, i diplomi e i documenti Europass che devono essere rilasciati: ciò rende tra l’altro ragione del processo di “referenziazione” in atto nei diversi Paesi UE (e anche in Italia), mediante il quale ciascun Paese è chiamato a esplicitare a quale degli 8 livelli EQF corrisponda ciascuno dei titoli rilasciati nell’ambito del proprio ordinamento. Gli 8 livelli EQF definiscono (secondo un continuum che va dalla minima alla massima complessità) i learning outcomes acquisibili durante tutto l’arco della vita, mediante processi di apprendimento non solo formali, ma anche non formali e informali. Ciò significa che non è improprio, in tale prospettiva “referenziare” ai livelli EQF anche le diverse figure professionali, tanto più nella misura in cui tali figure siano descritte appunto in termini di learning oucomes (indipendentemente dal contesto della loro acquisizione). Nell’ambito del progetto Skill-Inn, la figura professionale del “Responsabile della Ricerca e Sviluppo” è stata definita (anche in termini di learning outcomes) a seguito dell’analisi di come essa è stata concretamente riscontrata (mediante interviste a testimoni significativi) in alcune aziende industriali collo-
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cate nel territorio veneto diverse per prodotto, mercato, dimensione, complessità organizzativa, livello tecnologico. Conseguentemente, la figura definita costituisce la sintesi tra livelli di professionalità che possono avere un margine di differenziazione, proprio in ragione delle variabili in precedenza indicate. In particolare, e schematicamente, a seconda della dimensione d’impresa, della complessità tecnologica e del livello di incertezza dei mercati di riferimento la posizione professionale concreta del “Responsabile della Ricerca e Sviluppo” può essere considerata “fenomenologicamente” come corrispondente al livello 6 EQF oppure al livello 7 EQF, sia in termini di conoscenze e abilità, sia in termini di competenze richieste per un efficace esercizio del ruolo.
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I PARTNER
Confindustria Veneto SIAV (Promotore) Dagli anni Ottanta Confindustria Veneto SIAV SpA, Società di Servizi del sistema Confindustriale offre supporto consulenziale alle Imprese. È certificata DNV secondo UNI EN ISO 9001:2000 ed è iscritta all’albo organismi di formazione accreditati per la Formazione Continua dalla Regione Veneto (DGR 180 24.02.2003). È articolata in cinque Aree che supportano i Consorzi Provinciali di Confindustria e le Imprese secondo i vari orientamenti: • “Strutture Associative”: iniziative in ambito di Ob. 3 FSE, Progetti Mis. D1 e C1, Progetti sulla L. 236/1a, Corsi per l’Apprendistato; • “Imprese”: Consulenza in materia di Qualità, Ambiente, Certificazioni di Prodotto e Innovazione, Formazione secondo L. 236/93, L. 53/00, Fondimpresa e Fondirigenti; • “Knowledge & Innovation Unit”: attività come promotore o partner in progetti su Programmi Comunitari (Force, Leonardo, Adapt, Equal, Socrates, Art. 6 FSE, Start, Interreg, Grundtvig, R3L), Nazionali (L. 125/91, L. 236/1a) e Regionali (FSE C1 e D1), partecipazione a Bandi Ministeriali e Regionali, supporto ai distretti in processi di razionalizzazione e diversificazione; • “Eventi”: organizzazione del premio letterario “Campiello” e del meeting Giovani Imprenditori del Veneto; • “Amministrazione”: gestione contabile, amministrativa e finanziaria della struttura. In particolare l’Area “Knowledge & Innovation Unit” che ha operato nel Progetto si dedica: allo sviluppo della Formazione Continua quale supporto all’Innovazione con metodologie quali Action Learning, Coaching, Blended Learning, le pratiche di Benchmarking, la Lean Production e i Lean Services, la Supply Chain, l’Open Innovation. Altri campi di attività: i Processi Migratori e i Flussi di Competenze, la Valorizzazione e Trasmissione degli Apprendimenti non formali, lo sviluppo della Lifelong Learning – LLL, il supporto alla Crescita Dimensionale e Qualitativa delle PMI, l’incremento della Coesione tra Imprese del Nord e del Sud, la diffusione dell’Interculturalità, lo sviluppo dell’Innovazione e l’incremento della Creatività. Sul tema dell’Age Management sono state realiz-
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zate azioni di studio e di analisi e intervento, iniziative di cooperazione intergenerazionale, sviluppo di metodologie e tools specifici. È stata curata la diffusione di buone pratiche in eventi promossi da ISFOL, European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, CEDEFOP, Organismi Regionali. In ambito di studio delle competenze l’Area ha realizzato in partenariato con il bbw di Berlino tre progetti Leonardo: “Metal QF” per lo sviluppo di un quadro delle qualifiche settoriali nell’industria meccanica ed elettrica, “Commet” sull’applicazione di nuove metodologie per individuare le competenze delle figure di “tecnico meccatronico” e di “addetto taglio lamiere” e “Squares” rivolto all’identificazione di principi, metodi e procedure per il confronto dei livelli delle qualifiche settoriali.
Fondazione CUOA (Partner Operativo) La Fondazione CUOA è strutturata su tre unità organizzative che si integrano fornendo il loro apporto specifico alle attività del Progetto. • Area CUOA Innovation: si occupa di attività a finanziamento; le sue sperimentazioni accrescono il patrimonio di esperienze e di modelli gestionali e formativi dell’organizzazione. Le attività comprendono: ricerca dei nessi tra fabbisogni formativi e mercato del lavoro rilevando i processi sui quali maggiore è l’impatto della globalizzazione dell’economia e dello sviluppo delle ICT; analisi delle competenze e definizione dei fabbisogni formativi; formazione d’aula; assistenza individuale in azienda; autoapprendimento attraverso percorsi in rete e comunità virtuali; valutazione dell’apprendimento. Le attività sono realizzate con precise metodologie di indagine (desk e field analysis, case history) e il coinvolgimento di esperti e imprenditori. Ha maturato molteplici esperienze sull’Iniziativa Comunitaria Equal Fase I e Fase II con progetti di ricerca/intervento, sia settoriali che geografici sui vari Assi. • Area Competency Development: ha la mission di progettare e sperimentare approcci innovativi allo studio, sviluppo e monitoraggio delle competenze individuali, definendo metodologie e strumenti per la loro analisi dall’identificazione dei fabbisogni alla realizzazione della formazione e alla valutazione dell’apprendimento. Ha alla base il pluriennale lavoro della Fondazione CUOA di ricerche sui profili professionali delle aree produttive, amministrative e tecniche. Contribuisce ai processi formativi progettando le modalità per individuare le competenze che conducono a prestazioni lavorative efficaci, orientando la formazione allo sviluppo individuale, svolgendo ricerche e studi sulle peculiarità dei singoli interventi, determinando i fabbisogni formativi con un approccio per competenze e fornendo un supporto alle metodologie didattiche con metodi che vanno dall’autodiagnosi all’eterovalutazione, utilizzando piattaforme per la formazione a distanza, costituendo panel di imprese e interpellando interlocutori esperti.
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•
Area e-learning: studia, progetta e realizza percorsi formativi in rete con una costante attività di ricerca e sviluppo di nuove metodologie didattiche supportate dall’IT. Progetta, gestisce e valuta la realizzazione di comunità virtuali che supportano i processi di apprendimento, di formazione e di consolidamento delle competenze. All’Area collaborano: un e-learning manager che raccoglie le esigenze degli attori coinvolti e definisce le coordinate dei progetti, predispone le risorse necessarie e monitora il processo di progettazione e gestione delle attività; un progettista che si occupa dell’ideazione dei processi di costruzione delle comunità virtuali; un community manager che cura la gestione della comunità; un amministratore degli ambienti virtuali che si occupa di predisporre e gestire gli strumenti.
IRES Veneto (Partner Operativo) L’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del Veneto (Ires Veneto) è un’Associazione senza fini di lucro costituita nel 1981, su iniziativa di un gruppo di ricercatori, coinvolgendo dei docenti universitari e dei rappresentanti di strutture sindacali. In base alla sua norma statutaria lo scopo sociale di Ires Veneto è quello di promuovere l’analisi, l’elaborazione di informazioni e la diffusione di conoscenze in ambito economico e sociale, con particolare attenzione alla dimensione regionale. La struttura di Ires Veneto è composta da una rete di ricercatori in scienze economiche, sociologiche e scienze del territorio, interessati a partecipare attivamente al dibattito regionale sulle trasformazioni socio-economiche. Ires Veneto è stato pubblicamente riconosciuto dalla Regione Veneto (L.R. 5 settembre 1984, n. 51, Allegato A) in qualità di istituzione di rilevante importanza per lo sviluppo e la diffusione delle attività culturali. In particolare, Ires Veneto svolge attività di ricerca nelle seguenti aree tematiche: • economia e geografia regionale del lavoro; • economia industriale, dell’artigianato e dei sistemi di piccola e media impresa; • politiche per lo sviluppo locale; • relazioni industriali e problemi della contrattazione; • pari opportunità e problematiche di genere; • finanza locale e federalismo; • analisi organizzative dell’impresa, dei servizi e della pubblica amministrazione. I risultati di questi approfondimenti costituiscono il materiale di numerosi “Paper Ires Veneto” o di specifici “Rapporti di ricerca” che sono reperibili sul trimestrale “Economia e società regionale” (editore: FrancoAngeli) che ospita studi e contributi scientifici diversificati per orientamento e posizione. Pubblicata ininterrottamente dal 1983, la rivista è riconosciuta come uno dei più con-
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solidati strumenti di diffusione della cultura e dell’informazione economica e sociale del Veneto. Dal 1999, Ires Veneto, ha dato avvio a “Nobel – Nuovo Osservatorio sui bilanci degli Enti Locali” e ai relativi “Quaderni dell’Osservatorio”. Ires Veneto è riconosciuto da Istituti e Università italiane ed europee come uno dei luoghi di documentazione e assistenza alla ricerca per l’analisi dell’economia regionale, dei sistemi produttivi locali, della contrattazione decentrata, dell’organizzazione, professionalità e conciliazione in azienda, della mobilità nei mercati del lavoro. In linea con l’assunto di sostenere la crescita e lo sviluppo della ricerca economico-sociale, Ires Veneto mette a disposizione, anche del pubblico, i volumi della biblioteca dell’Istituto e un’ampia scelta dei più accreditati periodici di finanza, politica, sociologia, amministrazione pubblica, lavoro, imprese, nuove tecnologie ecc. Sul sito www.iresveneto.it vengono messi costantemente a disposizione gli esiti delle ricerche e le tracce dei lavori in corso.
POLINS (Partner Operativo) Il Polo Innovazione Strategica (POLINS), allocato a Portogruaro (VE) è sorto per l’azione congiunta di più promotori che comprendono l’Università Ca’ Foscari di Venezia, la Conferenza dei Sindaci del Veneto Orientale, la Provincia di Venezia, la Regione del Veneto e le locali Unioni/Associazioni dell’Industria, Artigianato, Commercio e Agricoltura. La sua mission è quella di favorire l’innovazione nei modelli di business supportando le imprese (in particolare le PMI) nell’attuare processi di innovazione congiunta per lo sviluppo sia nei mercati (lancio di nuovi prodotti, nuove strategie di brand, ingresso in nuove aree geopolitiche), sia in ambito aziendale (riprogettazione dell’assetto tecnico-organizzativo, sviluppo dell’oursourcing e della delocalizzazione, realizzazione di alleanze strategiche per l’integrazione orizzontale o verticale). La logica che ha guidato la nascita di POLINS è stata quella della complementarità con gli altri Poli Tecnologici esistenti: in particolare essa si basa sulla convinzione che, se l’innovazione tecnologica è la prima a guidare lo sviluppo di un settore, quella strategica deve seguirla, in particolare quanto più il settore diventa “maturo” (non solo come prodotti, ma ancor più come strategie). In realtà non sempre le imprese (e soprattutto le PMI) avvertono in tempo la necessità di innovare la loro strategia adeguando i loro “tradizionali” modelli di business ed è a questo punto che l’azione di POLINS può aiutarle a innovare sia a livello “assoluto” (valido cioè per tutto il mercato), sia “relativo” (a livello di singola impresa) grazie al supporto dei suoi esperti operanti in specifici Distretti e Settori Universitari, in grado di identificare i bisogni dell’impresa e di valutare e proporre i suoi possibili percorsi di trasformazione.
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Per il raggiungimento dei suoi obiettivi il POLINS si è articolato strutturalmente in tre macro-aree di attività: • il “Co-laboratorio della Conoscenza Competitiva” che sostiene le imprese nella formulazione delle innovazioni strategiche; • la “Scuola di Perfezionamento in Innovazione Aziendale” ove le aziende godono del supporto all’innovazione da parte di esperti universitari; • il “Centro di Competenze in Strategie Aziendali” dal quale l’impresa riceve un adeguato sostegno per implementare le innovazioni strategiche in precedenza formulate.
Treviso Tecnologia (Partner Operativo) Treviso Tecnologia è l’Azienda Speciale per l’Innovazione Tecnologica creata nel 1989 dalla Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Treviso allo scopo di promuovere una cultura di impresa orientata all’innovazione affiancando costantemente le piccole e medie imprese attraverso: • lo sviluppo di servizi e progetti a elevato contenuto innovativo e tecnologico; • la realizzazione di percorsi formativi mirati alla creazione di professionalità e competenze specialistiche in un contesto di lifelong learning – LLL; • la diffusione e l’assistenza tecnica per la realizzazione di progetti mirati alla certificazione dei prodotti e dei sistemi aziendali. Treviso Tecnologia si propone quindi come facilitatore nell’informazione, formazione e sviluppo di servizi per una costante diffusione dell’innovazione tecnologica presso le imprese attraverso la leva fondamentale del networking tra il mondo della ricerca, dell’università, delle Camere di Commercio e delle istituzioni pubbliche. Gli interventi, nell’ambito della Formazione superiore si rivolgono a giovani diplomati o laureati, con i seguenti obiettivi: • migliorare le competenze professionali e le capacità trasversali di chi desidera entrare nel mondo del lavoro, con una preparazione specialistica e di sicuro interesse per le imprese del territorio; • ampliare/integrare/completare le competenze acquisite all’interno della scuola con quelle richieste dal mercato del lavoro, attraverso interventi professionalizzanti; • offrire occasioni di scambio/confronto con le realtà aziendali, anche attraverso percorsi di stage; • favorire il passaggio dal mondo scolastico o universitario a quello del lavoro, attraverso interventi di orientamento, formazione specialistica, workshop di approfondimento. I servizi formativi sono accreditati presso la Regione del Veneto per i settori: Formazione Continua e Formazione Superiore. Treviso Tecnologia è stato capofila del progetto Leonardo – TOI (Transfer of Innovation) “Innovation Skills for Smes”, il cui obiettivo è stato quello di sostenere
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lo sviluppo dei processi innovativi all’interno delle PMI, attraverso il rafforzamento delle abilità professionali del livello manageriale intermedio, andando a fornire strumenti atti a identificare, acquisire o rafforzare le tecniche di gestione del processo innovativo. All’interno del progetto è stata prevista l’elaborazione di uno strumento di autovalutazione dei fabbisogni formativi elaborato sulla base delle competenze ritenute strategiche nei processi di innovazione.
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GLI AUTORI Giovanni BERNARDI è Professore Associato di “Economia e Organizzazione Aziendale” - Ricercatore nell’Area Organizzazione presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova. Ilaria BETTELLA è Ricercatrice presso Veneto Lavoro e Professore a Contratto di Organizzazione Aziendale presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova. Gabriella BETTIOL è Responsabile della Knowledge & Innovation Unit di Confindustria Veneto SIAV. Stefano BIAZZO è Ricercatore nell’Area Organizzativa presso il Dipartimento di Innovazione Meccanica e Gestionale (DIMEG) presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova. Giorgio BOCCATO è collaboratore di Confindustria Veneto SIAV. E’ stato responsabile di Formazione in Aziende di una grande Holding. Sara BONESSO è Ricercatrice e Docente presso il Dipartimento di Management dell’Università Cà Foscari di Venezia e presso il Centro Interdipartimentale su Cultura ed Economia della Globalizzazione di Treviso. Pier Giovanni BRESCIANI è Professore a contratto presso le Università di Bologna, Genova e Trento. E’ presidente SIPLO - Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione. Salvatore GARBELLANO è esperto di Formazione e Consulente di Gestione e Sviluppo del personale. E’ stato dirigente ISVOR FIAT ed è Consulente della Fondazione ISTUD per la cultura d’impresa e di gestione. E’ Professore a contratto di “Gestione delle Risorse Umane” presso la Facoltà di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Torino. Sergio ROSATO è Direttore Generale di Veneto Lavoro, l’Agenzia della Regione Veneto che studia e monitora il mercato del lavoro regionale. Chiara SALATIN ricopre il ruolo di assistente al Project Manager nella Knowledge & Innovation Unit di Confindustria Veneto SIAV. Vincenzo SARCHIELLI è Senior partner Studio Méta & associati.
Le attività di progetto hanno fatto riferimento a un Comitato Scientifico composto da: Giovanni Bernardi, Pier Giovanni Bresciani e Salvatore Garbellano 215