L'Olivo - Paesaggio

Page 1

L’olivo botanica | storia e arte | alimentazione | paesaggio coltivazione | ricerca | utilizzazione | mondo e mercato


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Sicilia Dario Cartabellotta, Giuseppe Campisi, Alessandra Merra

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Sicilia Introduzione La Sicilia, per ragioni storiche, culturali, ma soprattutto geografiche, ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un enorme luogo di differenziazione genetica. Al centro del Mediterraneo, è stata spesso crocevia di civiltà che hanno lasciato un segno tangibile non solo nelle arti, ma anche nella tradizione agrocolturale. Le specie arboree introdotte sull’isola hanno trovato numerosi habitat, originati dalle differenze bio-climatiche, geologiche, pedologiche proprie della regione, e nei secoli vi si sono adattate dando origine alla grande biodiversità di specie e varietà oggi esistente, in grado di trasformare il territorio fino a farlo divenire un vero e proprio topos unico. Tuttavia, al di là di alcune realtà arboricole circoscritte in ambiti territoriali alquanto ristretti, sono l’olivo e la vite, che per secoli hanno accomunato tutti i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, le colture arboree più rappresentate nell’isola. D’altronde, come scrive un grande storico, Fernand Braudel, il Mediterraneo è il mare degli oliveti. Lungo le sue coste “si ritrova la medesima trinità, figlia del clima e della storia: il grano, l’olivo, la vite, ossia la stessa civiltà agraria, la medesima vittoria degli uomini sull’ambiente fisico”. L’olivo, definito da Leonardo Sciascia “non a misura di vita umana e che ha perciò a che fare con la fede e con la religione”, è da sempre memoria del paesaggio siciliano sia con la forma selvatica (Olea europaea var. sylvestris, oleastro) sia con quella domestica (Olea europaea var. sativa). Nel millenario tragitto

In sintesi

• 155.000 ettari coltivati e terza regione italiana per superficie destinata a olivicoltura

• 50.000 tonnellate di olio extravergine • 180 miliardi di euro di giro d’affari • Leader nella produzione di olive da mensa (5 miliardi di euro)

• 8 DOP per olio extravergine:

Valli Trapanesi Valli del Belice Valdemone Val di Mazara Monti Iblei (con 8 sottodenominazioni) Monte Etna Colline Ennesi Colli Nisseni

• 1 DOP oliva da mensa siciliana: Nocellara del Belice

• 198.989 aziende • 692 frantoi • 250 confezionatori • La mitologia greca attribuiva ad Atena

Foto R. Angelini

la nascita dell’albero dell’olivo. Atena fu considerata dai Greci della madrepatria e dai Greci di Sicilia una delle più importanti divinità dell’Olimpo, tanto che ogni città possedeva un tempio a lei dedicato nell’acropoli, come a Siracusa, Gela e in altre città siceliote. Altre testimonianze dell’olivo nell’isola sono da collegarsi alla figura mitica di Aristeo, dio dei campi, venerata dalle antiche popolazioni sicule per aver istruito le genti locali nella tecnica di coltivazione della pianta e nei primi metodi di estrazione dell’olio

• 8 cultivar principali: Nocellara del

Belice, Nocellara etnea, Biancolilla, Cerasuola, Tonda Iblea, Moresca, Ogliarola messinese, Santagatese Olivo nella Valle dei Templi; già nel IV secolo a.C. la città greca di Agrigento esportava olio in Nord Africa

152


olivo in Sicilia attorno al Mare Nostrum, l’olivo accompagnò le migrazioni dei primi coloni greci, i quali ne diffusero la coltivazione nell’Asia Minore, in Egitto, in Libia, in Grecia e nelle isole dell’Egeo e da qui sicuramente in Sicilia.

Clima mediterraneo

• Botanici e geografi hanno per

Testimonianze storiche e archeologiche La colonizzazione greca della Sicilia iniziò tra l’VIII e il VII secolo a.C., per concludersi nel VI secolo a.C. Essa interessò soprattutto la costa orientale, settentrionale e meridionale dell’isola, con la fondazione di colonie quali Naxos, Siracusa, Catania, Imera, Messina, Gela, Selinunte e Agrigento. Le nuove colonie basarono la loro economia soprattutto sulla granicoltura e secondariamente sull’olivicoltura. Sebbene Plinio e Cicerone attribuiscano l’introduzione dell’olivo alla colonizzazione greca, la ricerca archeologica documenta invece che l’olivo fu introdotto in Sicilia probabilmente in età preistorica. Tra i rinvenimenti paleobotanici nella Grotta dell’Uzzo, nella provincia di Trapani, furono rinvenuti semi di forme selvatiche di olivo pertinenti al Neolitico antico. Il più antico manufatto archeologico, che presuppone l’esistenza dell’albero d’olivo, risale alla media Età del Bronzo intorno al XIV secolo a.C. Nella necropoli di Cozzo del Pantano, nei dintorni di Siracusa, e presso Comiso furono rinvenuti vasi con motivo decorativo a foglie di olivo, impresso prima della cottura. Di notevole interesse documentario per l’età arcaica sono i ritrovamenti archeobotanici nel comprensorio di Camarina. Nella necropoli arcaica del Rifri-

lungo tempo delimitato la regione mediterranea sulla base della distribuzione dell’olivo, sino a distinguere un clima dell’olivo che dovrebbe essere sinonimo di clima mediterraneo. Predrag Matvejevic, narratore e profondo conoscitore dei Paesi bagnati dal Mare Nostrum, afferma: “Il Mediterraneo si estende fin dove cresce il fico, il mandorlo, il melograno, l’ulivo (...) Dove il fico non dà più frutti, il melograno diventa acido, dove l’ulivo non sopporta più il freddo finisce il Mediterraneo”

Oliveti vicino alle rovine di Selinunte, colonia greca fondata nel VII secolo a.C.

Foto R. Angelini

153


paesaggio scolaro (VI sec. a.C.), nei ricchissimi corredi delle tombe, sono stati rinvenuti resti di sarcofagi lignei di olivo. A Segesta le analisi archeobotaniche hanno evidenziato l’esistenza della coltivazione dell’olivo a partire dal VI secolo a.C. Gli storici di età posteriore della Sicilia greca, Timeo e Diodoro, attribuirono l’opulenza di Agrigento nel V secolo a.C all’esportazione di olio e vino a Cartagine. Un oleificio è stato scoperto durante gli scavi, intrapresi tra il 1972 e il 1973 dal De Waele, sulla rupe Atenea di Agrigento. Si tratta di un edificio rettangolare ad ante, preceduto da un cortile con una vasca e un frantoio, che è stato interpretato come un oleificio databile in età ellenistica, utilizzato probabilmente tra la seconda metà del IV secolo e il III secolo a.C. È a questo periodo che risalgono le prime informazioni di carattere storico sulla diffusione della coltura e alcuni caratteri propri del paesaggio arboreo protetto riconducibile al giardino mediterraneo. Lo storico greco Tucidide, descrivendo nel 413 a.C. la ritirata degli ateniesi, racconta (VII, 81, 4) dell’annientamento del reparto comandato da Demostene all’interno di “un terreno recintato tutto intorno da un muretto, con due strade che lo delimitano ai lati, denso di una piantagione d’ulivi”. Un’olivicoltura che nei suoi caratteri strutturali e paesaggistici restituisce un’immagine non molto diversa da quella che ancora oggi è possibile osservare nel territorio ibleo. La conquista di Siracusa nel 211 a.C. a opera del console Claudio Marcello determinò l’estensione del dominio romano su tutta la Sicilia. Il governo romano indusse i Sicelioti a incrementare la produzione del frumento, ma nel contempo continuarono a essere coltivati i legumi, gli olivi e la vite, anche se per lo più per il consumo domestico. Lo stesso Cicerone riferisce della decima sulla produzione dell’olio che la Sicilia doveva come tributo a Roma nel I secolo a.C. (Verr. III, 18; II, 3, 163; II, 2,5). Il paesaggio agrario della Sicilia romana conferma l’importanza attribuita dai Greci all’olivo che, sotto la spinta di rinnovamento per l’agricoltura imposta da Valerio Levino, proconsole di Sicilia, sembrò prendere nuovo slancio occupando nuovi territori. Secondo Diodoro Siculo, già nel II secolo a.C. il territorio di Triocala, prossimo all’odierna Caltabellotta, era coperto di bellissimi impianti di olivi e viti. Le evidenze archeologiche, che riguardano l’età repubblicana relative ai complessi rurali dal III al I secolo a.C., restituiscono l’immagine di una campagna siciliana più incline a una agricoltura di sussistenza basata su orti familiari più che su vere monocolture specializzate e con molta probabilità anche per l’olivo, in alcuni territori, era manifesta tale tendenza. Nel I secolo a.C. la produzione granaria della Sicilia divenne così redditizia che iniziò un processo di industrializzazione dell’agricoltura con l’avvio di colture più specializzate come quella

Foto P. Barone

Olivicoltura promiscua

Pianta della cultivar Nocellara del Belice Foto R. Angelini

Olivicoltura specializzata nella Valle del Belice

154


olivo in Sicilia dell’olivo e della vite. Dalla piccola proprietà contadina si passerà gradualmente alla diffusione del latifondo, che prevarrà definitivamente in età imperiale. In età augustea la produzione granaria dell’isola si ridusse e i proprietari terrieri incrementarono la coltivazione di oliveti, vigneti e frutteti, secondo quanto tramanda anche Strabone (VI 2, 6 C 273). Alla prima metà del II secolo d.C. risale l’impianto produttivo di Segesta, costruito riutilizzando il paramento dell’antica cinta muraria della città. Con il declino dell’Impero Romano e la dominazione araba in Sicilia, la coltura dell’olivo fu trascurata a vantaggio di altre specie, quali gli agrumi. Si ritiene, infatti, che ai tempi della conquista araba, l’olivicoltura fosse più sviluppata nei territori dell’attuale Tunisia di quanto lo fosse in Sicilia, dove invece era sentita l’esigenza di produrre in maggiore quantità frumento per sfamare la popolazione. Si deve arrivare alla fine del XII secolo per avere notizie di una certa ripresa della coltura nell’isola. In ogni caso la ricostituzione degli oliveti in Sicilia fu tardiva e lenta. Sotto lo stimolo precipuo della richiesta di derrate alimentari, tra cui l’olio, che era abbondante nella città portuale di Messina, furono impiantati oliveti lungo le fertili terre prospicienti le fiumare della Valdemone, a opera dei monaci benedettini e cistercensi. Ma è solo a partire dalla prima metà del Quattrocento e sino a tutto il Cinquecento che l’olivo inizia a imporsi, assieme alla vite, come coltura arborea principe del paesaggio siciliano. Nel 1470 nella pianura di Palermo si ha notizia di un oliveto, posseduto nel territorio di Ciaculli dalla famiglia Carastono, talmente grande da dar luogo a speculazioni sul mercato degli oli.

Esemplare di olivo nel Ragusano

Vigneti e oliveti sul lago Arancio (AG)

Foto R. Angelini

155


paesaggio Un’ascesa che trova nella tecnica dell’innesto degli oleastri il sistema più rapido per soddisfare la crescente richiesta di grassi per l’alimentazione umana e che ha notevolmente contribuito a modificare le caratteristiche strutturali del sistema agroforestale siciliano e la fisionomia del territorio, punteggiando il paesaggio con disordinati oliveti le cui tracce sono ancora oggi testimoniate dalla sopravvivenza di piante secolari. Nel Marchesato di Geraci, tra le province di Palermo e Messina, agli inizi del Cinquecento la produzione di olio aveva raggiunto livelli quantitativi notevoli per la nascita di immensi oliveti. Uno sviluppo dettato dall’esigenza del Marchese di migliorare le proprie terre e di attrarre popolazione nelle sue città, fatto importante ai fini del pagamento delle tasse e della disponibilità di manodopera, e che trovava una pronta attuazione nell’innesto degli oleastri spontanei ampiamente presenti nei luoghi. Per rendere ancora più rapida questa opera di trasformazione fondiaria, il Marchese concesse di fare proprie le piante di olivo innestate. Tale atto diede origine a una proprietà di tipo promiscuo, perché il terreno rimaneva del feudatario. Gli agricoltori, oltre a pagare un censo annuo sugli olivi, erano costretti, per il diritto dei nozzoli, a molire il prodotto esclusivamente nei trappeti del Marchese costruiti in quegli anni ad Alì, Castell’Umberto e nel piccolo comune feudale di Sampieri. Similmente nel comune di Monreale, dove l’olivicoltura era abbastanza diffusa, gli agricoltori lamentavano di essere costretti a molire le olive nell’unico frantoio presente nel territorio che apparteneva all’Arcivescovo, dove “è fama notoria, li arrobbari et vexaccioni si fanno in lo trappeto”. Anche il Cinquecento è ricco di testimonianze che confermano l’abbondanza di olivi. Della presenza dell’olivo nei terreni della

Foto B. Manfredi

Un esempio delle prime bottiglie in vetro siciliane per la conservazione dell’olio

L’olivicoltura nella moderna agricoltura si divide lo spazio con la viticoltura e il grano duro

Foto R. Angelini

156


olivo in Sicilia Curia Arcivescovile di Monreale è testimonianza la perizia giurata effettuata nel 1575 a opera dei tecnici della Curia, con la quale vennero censiti centinaia di oliveti che, nell’assieme, davano luogo a una superficie complessiva di 364,12 salme. Per tutti gli oliveti della Conca d’Oro soggetti a decima, a garanzia degli introiti della Curia, era assolutamente vietato il taglio delle piante; ai contravventori era assicurato giusto processo. L’olivicoltura in quegli anni era però ben rappresentata anche a Sciacca, a Sant’Angelo Muxaro, a Caltanissetta, nella Val di Noto. Ciò nonostante la coltura continuerà a segnare, soprattutto in forma promiscua, il paesaggio agrario siciliano. Un’olivicoltura in fase statica che si contendeva gli spazi con la viticoltura. Le tecniche colturali e di raccolta (da terra o attraverso la bacchiatura), quelle di conservazione (le olive venivano ammassate in un magazzino a fermentare per un periodo compreso tra 15 giorni e 2 mesi) e i difficili trasporti verso i principali sbocchi commerciali determinavano un forte decadimento della qualità complessiva degli oli, che venivano venduti, quasi esclusivamente, per la preparazione industriale del sapone. Nel Trapanese si registrò un sensibile incremento della produzione di olio legato prevalentemente a due fenomeni: uno di ordine demografico, determinato da una massiccia immigrazione di Ebrei, grandi utilizzatori di olio; il secondo, di tipo industriale. Agli inizi del Cinquecento, quelli che in origine erano solo frantoi per canna da zucchero furono trasformati in frantoi che alternavano la molitura della canna a quella dell’uva e delle olive. Nacquero così delle vere aziende agricole promiscue dove si coltivavano canna da zucchero, vigneti, oliveti, agrumeti e si allevava anche bestiame. Agli inizi del Novecento l’olivo era sempre prevalente in forma consociata. È solo a partire dalla metà del secolo, nel generale

Olivicoltura promiscua

• L’impostazione di azienda promiscua è

evidenziata in alcune fonti storiche che parlano di alberi di olivo coltivati con altri fruttiferi all’interno di viridarii, cioè di orto-frutteti. Eloquenti testimonianze vengono anche dall’agricoltura palermitana dove, nonostante la grande diffusione degli agrumi, l’olivo continua a essere coltivato in un paesaggio di rara bellezza: “è bello vedere oliveti ad alta impalcatura, ormai irrigui, spesso intersecati da filari di fichi d’india a secco, e tra essi avvicendarsi gli aranci e quindi i nespoli del Giappone e le piante ortensi con tale apparato di vegetazione da superare qualunque credenza”

Moderni impianti con irrigazione a goccia vicino alle coste del Mediterraneo

Foto R. Angelini

157


paesaggio processo di intensificazione produttiva dell’agricoltura, che inizia un processo di espansione e specializzazione produttiva.

Foto R. Angelini

Agrosistemi olivicoli e paesaggio L’olivo partecipa alla formazione di una molteplicità di paesaggi in relazione ai diversi assetti colturali che si sono definiti nel lungo processo di adattamento della specie ai differenti caratteri ambientali dei luoghi. Un’ampia variabilità che va dalle condizioni di seminaturalità degli oliveti terrazzati, all’accidentata orografia delle aree più svantaggiate, agli impianti più o meno specializzati delle aree collinari, alla monocoltura intensiva delle pianure. Oltre alla diversità paesaggistica dettata dall’ambiente di coltivazione, connotazioni estetiche fortemente mutevoli vengono impresse al territorio dai differenti modelli olivicoli adottati, frutto di quel continuo adattamento secolare delle tecniche colturali alle condizioni ambientali, siano esse legate alla struttura aziendale e alle condizioni edafiche e climatiche o alla struttura economica e sociale che ha attraversato la storia dell’uomo. All’inizio della storia colturale dell’olivo in Sicilia, almeno della sua parte storicamente e paesaggisticamente più significativa, c’è certamente la coltura promiscua, dove le piante di olivo venivano consociate a una miriade di altre coltivazioni, che assicuravano il sostentamento delle famiglie contadine, rafforzando le geometrie tipiche dei sistemi policolturali (olivi posti ai margini delle vigne o tra i filari, inseriti insieme a mandorli e carrubi, confinati entro gli orti o posti ai margini degli agrumeti) o interrompendo il monotono andamento dei seminativi. Con lo sviluppo dell’olivicoltura in vasti territori dell’isola, e particolarmente a partire dal XV-XVIII secolo, la presenza di appezzamenti

Olivi lungo la costa nell’Agrigentino

Olivicoltura specializzata nella Valle del Belice

Foto R. Angelini

158


olivo in Sicilia a più elevata specializzazione inizia a farsi più consistente, fino a caratterizzare, in fasi successive, l’assetto colturale di interi territori soprattutto collinari. Questa singolare tipologia olivicola, definita “tradizionale”, costituisce ancora oggi una ricchezza per il territorio per l’importante ruolo che essa adempie nella difesa idrogeologica e nella qualificazione del paesaggio. Tali sistemi olivicoli costituiscono frequentemente tessere all’interno di un mosaico formato da sistemi agrari di diversa tipologia molto frammentati e con alta diversità paesaggistica. Oliveti che, grazie alla capacità di autorigenerazione, tipica della specie, hanno resistito nel tempo dando luogo a esemplari di grandi e grandissime dimensioni definiti dal Pirandello saraceni per la quasi leggendaria antichità. Dove le condizioni orografiche sono più favorevoli a processi di razionalizzazione produttiva, l’olivicoltura diviene più specializzata mantenendo solo in parte i caratteri propri dei sistemi olivicoli tradizionali. Concorrono a differenziarla alcune modifiche del modello colturale che riguardano il contenimento del volume e dell’altezza della chioma, per favorire ed economizzare le pratiche di difesa, potatura e raccolta e una riduzione dei sesti d’impianto, che diventano regolari, per aumentare la produttività degli oliveti. È un’olivicoltura da olio per la quale è difficile indicare una sola tipologia di impianto. In conseguenza della diverse densità adottate variano le distanze e il sesto d’impianto, con evidenti riflessi sulla geometria degli oliveti. In non pochi casi, il modello di impianto e il suo impatto paesaggistico dipendono dal genotipo e, in particolare, dal portamento delle piante, dal loro vigore oltre che da caratteri morfologici, quali la forma, la dimensione e lo stesso colore delle foglie. Basti pensare, ad esempio, alle diversità di portamento e vigore delle cultivar che caratterizzano l’olivicoltura del Messinese, come l’Ogliarola messinese (portamento pendulo) e la Santagatese (portamento assurgente), rispetto a quelle delle cultivar Biancolilla (bassa vigoria) e Nocellara del Belice (portamento espanso), che contraddistinguono gran parte dell’olivicoltura della provincia di Agrigento. Anche le dimensioni degli alberi possono risultare estremamente variabili in rapporto alle diverse cultivar e alle cure colturali dedicate alle piante (potatura, concimazione ecc.). Si può andare dai 5-10 m in altezza delle piante più vigorose e assurgenti, lasciate libere di vegetare (Cerasuola, Ogliarola messinese, Santagatese) ai 50-100 cm degli olivi dell’isola di Pantelleria in cui le branche vengono fatte crescere, grazie a una sapiente e meticolosa gestione degli interventi di potatura della chioma, poggiate al suolo per proteggere i frutti e la vegetazione dalla forte ventosità. A questa estrema frammentazione dell’olivicoltura siciliana corrispondono 8 distinte aree che producono oli a Denominazione di Origine Protetta, ognuna di esse con una base varietale degli olivaggi che la rende unica e irripetibile anche a livello regionale. Il fattore

Differenti dimensioni degli alberi di olivo: 5-10 m per piante vigorose e assurgenti (in alto) e 50-100 cm per gli olivi di Pantelleria (in basso)

Olivi frammisti a mandorli

159


paesaggio “identità del prodotto tipico” si coniuga, infatti, perfettamente con il fattore “identità del paesaggio”, assumendo le sembianze del cultural marker. Paesaggio e oli Alla fine del XIX secolo si stimavano in Sicilia circa 17 milioni di piante coltivate su 200.000 ha in coltura promiscua e 70.000 in coltura specializzata. Allo stato attuale si stima che la coltura dell’olivo nell’isola incida su una superficie di circa 155.000 ettari e interessi 198.989 aziende. Già poche cifre sono sufficienti a connotare la rilevanza che tale settore riveste nell’economia agricola siciliana. Basti considerare che l’olivo copre il 10% della SAU e il 50% circa della superficie investita a colture arboree. La maggior parte degli oliveti è indirizzata alla produzione di olio, tanto che gli impianti specializzati per la produzione di olive da consumo diretto incidono solamente su una superficie di 4963 ettari (dati Istat 2007). A caratterizzare geograficamente il versante sud-orientale della Sicilia sono gli Iblei, massiccio montuoso emerso su un fondo marino sollevato ed eroso fino ad assumere la forma di un tavolato calcareo. Un contesto ambientale costituito da colline litoranee che raggiungono la massima altezza nel Monte Lauro (1000 m circa). È questo il vasto comprensorio che delimita l’area di produzione della DOP Monti Iblei, che si estende su circa 19.000 ettari ubicati nell’entroterra delle province di Siracusa e di Ragusa e, in minor misura, anche di quella di Catania. Qui, tra i vasti altopiani alternati a profonde valli, la coltura dell’olivo costituisce uno dei paesaggi agrari più diffusi con impianti sempre molto differenziati, in termini di intensità e gestione colturale, e con alberi, spesso secolari, sparsi nei terreni collinari, posti

Oli prodotti in Sicilia

Impianto di olive da mensa a Castelvetrano

Aree DOP degli oli siciliani Messina Trapani Valli Trapanesi Valle del Belice

Palermo Valdemone Val di Mazara Caltanissetta Agrigento

Colline Ennesi Enna Colli Nisseni

Monti Iblei Ragusa

Impianto specializzato di recente costituzione

160

Monte Etna Catania

Siracusa


olivo in Sicilia ai margini degli agrumeti oppure abbinati alle altre colture che costituiscono patrimonio storico dell’area iblea: carrubeti, mandorleti e vigneti. Piante, spesso di grande dimensione, di altezza variabile in rapporto alla cultivar e alla cadenza con cui viene attuata la potatura, dal portamento che va da espanso ad assurgente. Si tratta, probabilmente, di alcuni dei sistemi olivicoli più antichi della Sicilia e ne è testimone l’elevatissimo numero di piante secolari. È un’olivicoltura che insiste, in larga misura, su terreni poco acclivi se non pianeggianti, in asciutto, spesso all’interno di appezzamenti circondati da muretti a secco, capace di produrre un olio di ottima qualità. Dominano il paesaggio olivicolo le cultivar Moresca e Tonda Iblea, che producono un olio molto apprezzato nei concorsi oleari grazie al caratteristico sapore dolce, ricco e saporito, intenso e persistente, arricchito dall’inconfondibile sentore di pomodoro spesso associato a note di carciofo, mandorla e, in rari casi, di mela matura. Il basso contenuto in polifenoli (di poco superiore a 100 ppm) conferisce all’olio una tenue sensazione di amaro e piccante. Oltrepassata la piana di Catania, lungo le pendici che si estendono dal versante sud-occidentale a quello settentrionale dell’Etna, l’olivicoltura è molto polverizzata e costituisce parte di un mosaico paesaggistico molto variegato, quasi mai in coltura principale, mantenuto vitale da agricoltori non professionisti o part time che lo coltivano per ragioni legate alla disponibilità di tempo libero, alla residenza stagionale e all’autoconsumo. A causa dell’abbandono di alcuni vecchi impianti non è infrequente la presenza di piante di olivastro, originate da ricacci al di sotto del punto di innesto, che hanno preso il sopravvento sulla vegetazione del “gentile”. Nella Piana di Catania la Nocellara etnea, cultivar autoctona ampiamente diffusa, fa da cornice agli aranceti, asso-

Frutti della cultivar Biancolilla

Giovane oliveto intensivo Impianto moderno di olivi allevati a vaso nel Trapanese

161


paesaggio ciando alla funzione di frangivento la funzione produttiva. Oltre che all’estrazione di olio, i frutti di tale cultivar, che costituisce la base varietale della DOP Monte Etna, vengono destinati al consumo diretto; per tale utilizzazione in Sicilia è la seconda cultivar, in ordine di importanza, dopo la Nocellara del Belice. La tardiva epoca di maturazione, unitamente alla presenza di un nocciolo piccolo, liscio e di facile distacco dalla polpa, le conferisce un posto di grande rilievo nella preparazione di olive verdi snocciolate e farcite. Dai frutti moliti si estrae un olio molto saporito (fruttato medio-intenso) con un gusto di cardo-carciofo, pomodoro ed erba. Dai confini orientali del comune di Naxos (ME) sino ad arrivare alle terre di Tusa (ME), verso occidente, l’olivo occupa, dalla pianura alle colline, tutto lo scenario agricolo dei numerosi comuni di questo versante della provincia di Messina. È questa l’area di cultivar come la Nocellara messinese, l’Ogliarola messinese, la Santagatese, la Minuta, che costituiscono la base varietale degli oli a DOP Valdemone. Un territorio che si estende per circa 35.000 ettari e che comprende tutto il Messinese con esclusione dei rilievi montuosi dei Peloritani e dei Nebrodi. Il paesaggio agrario dell’area si contraddistingue per le asperità della sua orografia, in cui si identificano nettamente una fascia costiera e una collinare. La prima è destinata all’agrumicoltura e a una piccola realtà di frutticoltura (pesco, per lo più); le aree collinari si caratterizzano, invece, per il paesaggio che risale ripidamente dalla costa e, sovente, viene attraversato da profonde e strette valli, dette “fiumare”. In quest’ultima parte si coltiva principalmente l’olivo, fatto crescere in aree terrazzate, che si spingono fino ai 500 metri d’altitudine. Ad altitudini superiori e fino agli 800 m s.l.m. l’olivo cede il posto alle terrazze impiantate con il nocciolo. Esistono in questa zona, soprattutto a ridosso dei Nebrodi, impianti plurisecolari, con piante di enorme mole, sesti e distanze irregolari, con densità rade di 80-140 piante per ettaro. Ci sono poi zone dove l’olivicoltura deriva dalla naturale diffusione dell’oleastro, con oliveti costituiti da piante innestate su oleastri spontanei. Gli stessi toponimi lo dichiarano, ad esempio Marcatogliastro lungo le pendici che seguono il corso del fiume Pollina. Qui le densità di impianto sono discontinue e spesso elevate e l’olivicoltura costituisce la copertura arborea prevalente, con una dimensione strutturale apparentemente “forestale”. A dominare lo scenario di questa vasta area geografica è la cultivar Ogliarola messinese, conosciuta con diversi nomi tra i quali Passulunara, Calamignara, Castriciana, Terminisa e Nostrale, i cui frutti immaturi vengono utilizzati localmente anche per la produzione artigianale di olive da mensa, in salamoia, al naturale, con l’aggiunta, secondo usi e consuetudini dei luoghi, di aceto e/o aromi di piante officinali. Gran parte della produzione viene però destinata all’estrazione dell’olio, molto apprezzato dai consumatori per l’armonia e la delicatezza dei sapori determinata

Olivi saraceni

162


olivo in Sicilia dal basso contenuto in polifenoli. Caratteristica particolarmente interessante è la composizione acidica che mostra un elevato contenuto in acido oleico prossimo all’80%. L’eleganza dell’habitus vegetativo della pianta, che associa vigore e portamento procombente, determinato dai rami penduli, e la compattezza della chioma, esaltano il valore ornamentale degli alberi di tale cultivar tanto da essere spesso utilizzata a ornamento delle vecchie ville nobiliari e dei casolari di campagna. Nell’olivicoltura a ridosso della fascia costiera tirrenica del Palermitano lungo tutto il golfo di Termini Imerese, da Casteldaccia a Cefalù, domina l’olivo, più o meno interrotto dai frutteti, che si spinge fino ai confini delle aree interne proprie del seminativo. È un’olivicoltura antica dove gli impianti si alternano alla vite, agli agrumi e ai frutteti determinando una conformazione a mosaico del paesaggio. Un’olivicoltura marginale, sostituita in alcuni casi da impianti intensivi, i cui caratteri salienti risiedono nel grande sviluppo delle piante, coltivate a vaso pieno con ampie distanze d’impianto. Più si sale in collina, più gli impianti tendono ad assumere un aspetto residuale, vicino ai processi di rinaturalizzazione. Anche qui la cultivar predominante è l’Ogliarola messinese, chiamata anche Passulunara, che dà luogo a una particolare produzione di olive da mensa conosciuta nei mercati locali come “alive acciurate”, ovvero olive addolcite direttamente all’albero grazie all’azione di un fungo (Sphaeropsis dalmatica) che de-

Frutti della cultivar Nocellara etnea

Foto R. Angelini

163


paesaggio grada l’oleuropeina, composto chimico che conferisce il tipico sapore amaro alle olive. Nel lembo occidentale dell’isola, tra il golfo di Castellammare e il corso inferiore del fiume Belice, grazie alle peculiari caratteristiche pedoclimatiche e alla presenza di vaste pianure interrotte da dolci colline e da ampie vallate, è l’olivo assieme alla vite a caratterizzare il paesaggio. In questo vasto territorio sono ben tre le DOP che tutelano le produzioni olivicole. La prima, DOP Valli Trapanesi, è estesa per circa 6000 ha e interessa il territorio posto a confine tra Castellammare del Golfo e punta San Teodoro (Marsala). Un’olivicoltura costituita da impianti regolari con alberi impalcati alti (1,8-2 m), allevati a vaso pieno e distanze di piantagione variabili in rapporto all’età dell’oliveto. Predomina la cultivar Cerasuola, nota per essere androsterile (le antere non producono polline). Molto sensibile alla rogna dell’olivo, produce un olio di grande stabilità, per l’elevato contenuto in polifenoli, armonico con sensazioni di erba fresca, mandorla verde o foglia. A confine con la provincia di Agrigento, nelle fertili valli del fiume Belice, cambia la cultivar ma soprattutto il paesaggio. È il territorio della Nocellara del Belice, cultivar i cui frutti hanno duplice utilizzo e sono tutelati da due distinti marchi a Denominazione di Origine Protetta: Nocellara del Belice, per le olive da tavola, e Valle del Belice, riservata all’olio extravergine di oliva. Unico chiaro esempio di monocoltura olivicola su larga scala che esista in Sicilia (circa 14.000 ettari), rappresenta il più classico modello di specializzazione colturale basato su di una sola cultivar. Da un punto di vista agronomico, l’olivicoltura belicina si distingue per la particolare forma della chioma (vaso acefalo) impressa attraverso la potatura, pratica che vie-

Foto P. Inglese

Olivo millenario nella Sicilia sudorientale

Olivi nella Valle del Belice

Foto R. Angelini

164


olivo in Sicilia ne effettuata con cadenza annuale per garantire la produzione di olive di grosse dimensioni (superiori ai 18 mm di diametro), da destinare al consumo diretto. Impianti in asciutto, raramente consociati al mandorlo, spesso su terre rosse, in molti casi secolari, convivono con impianti più giovani, in irriguo, nei quali le distanze si riducono e le stesse piante cambiano forma per divenire dei vasi liberi. Le caratteristiche qualitative delle olive di Nocellara del Belice trasformate in verde sono pregevoli soprattutto in relazione alla croccantezza della polpa, che incide sul peso complessivo della drupa per oltre l’85%, e al sapore. I frutti che non raggiungono il calibro commerciale richiesto dalle industrie di lavorazione vengono inviati all’oleificazione; da essi si ottiene un prodotto caratterizzato da un fruttato di oliva molto intenso e forti sensazioni di amaro e di piccante. Nelle terre di Menfi, Montevago, Santa Margherita Belice e nelle aree più interne di Sambuca di Sicilia, Giuliana e Chiusa Sclafani, sono ancora una volta olivo e vite a dominare il paesaggio, ma questa volta è la Biancolilla insieme alla Nocellara del Belice e alla Giarraffa a prevalere sulla Cerasuola. A ridosso della fascia costiera i pianori e le vallate dell’interno sono ricchi di impianti creati nella prima metà del secolo scorso, con ampie distanze e sesti a volte irregolari, altre in quadro. Le piante, allevate in gran parte a vaso, sono sempre con impalcatura molto alta e chioma espansa, che viene potata ogni due anni. Scendendo ancora più a sud, arriviamo nel territorio di Sciacca, Caltabellotta e Ribera. Qui l’olivicoltura convive con il vigneto, il seminativo, a volte l’aranceto o il frutteto di mandorli o drupacee. Non domina il paesaggio ma ne è parte integrante. Eccezione fatta per l’area di Sciacca, dove predomina la Cerasuola, è la Biancolilla a caratterizzare il paesaggio olivicolo della area a DOP Val di Mazara. L’ampia diffusione di questa cultivar è probabilmente legata alla rusticità dell’albero, che ben si adatta ai terreni aridi, superficiali, talora marginali, e alla sua modesta taglia. L’olio, di colore giallo paglierino con riflessi dorati, con fruttato leggero delicato al palato, molto fluido, con un retrogusto di mandorla a volte accompagnato da note di carciofo, di pomodoro o di erba fresca, è particolarmente indicato per essere abbinato a piatti delicati, di pesce o di formaggi freschi. Altro storico paesaggio è certamente quello della Valle dei Templi di Agrigento: “il bosco di mandorli e olivi” lo definiva Pirandello, a indicarne una quasi naturale bellezza che affascinava i viaggiatori del Grand Tour, che nelle loro pagine non smettono mai di osservare lo straordinario rapporto tra le forme e i colori dell’albero sacro a Minerva e quelle dei templi della greca Akragas. E così Swinburne era incantato dalla tomba di Terone, “circondata da antichi alberi di olivo che proiettano una selvaggia irregolare ombra sulle rovine”.

Foto P. Inglese

Foto P. Inglese

Olivastri nelle cave di Tusa, dove venivano estratti i pilastri per la costruzione dei templi di Selinunte e Segesta

165


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Calabria Enzo Perri, Paolo

Inglese, Gregorio Gullo

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Calabria Caratteristiche strutturali dell’olivicoltura calabrese La coltivazione dell’olivo in Calabria interessa oggi 186.000 ettari ripartiti tra 137.700 aziende, con un’ampiezza media di 1,3 ha, sinonimo di un elevato grado di frammentazione strutturale, comune all’olivicoltura nazionale. Il 48,5% della superficie appartiene ad aziende inferiori ai 5 ha della SAU complessiva, pari all’84% del totale e nel 74,2% di queste l’olivo è coltivato su meno di 2 ha. In Calabria il 70% delle aziende agricole è interessato da questa coltura e il 75,9% della superficie olivetata ricade in aziende che sono classificate a olivicoltura specializzata, con livelli più bassi in provincia di Cosenza (84%) e più elevati in quelle di Catanzaro, Vibo Valentia e Crotone (96%). L’olivicoltura in Calabria è estremamente diversificata da un punto di vista sia geografico sia strutturale e tecnologico. Riguardo alla collocazione altimetrica, solo l’8% degli impianti olivicoli ricade in zone di pianura, mentre la gran parte è localizzata in collina (75,8%) e parte in montagna (16,2%). La giacitura è caratterizzata dalla predominanza di appezzamenti con pendenze più o meno accentuate e da numerosi terrazzamenti. Gli oliveti pianeggianti, sulla base delle rilevazioni dell’AIMA, rappresentano appena il 17% mentre quelli a forte pendenza sono in media il 35% con punte del 42% nella provincia di Cosenza. Nel Reggino il 30% delle piante è situato su terreni terrazzati. Il numero delle piante, censite dallo Schedario Olivicolo Nazionale nel 1988, è superiore ai 14 milioni. Il patrimonio olivicolo regionale è costituito per lo più da piante secolari, con punte del 43% nel Crotonese sino al

In sintesi

• È uno dei giganti produttivi

dell’olivicoltura italiana, seconda regione italiana dopo la Puglia

• 186.000 ettari coltivati su 137.700

aziende (media 1,3 ha di ampiezza): il 70% delle aziende calabresi è interessato dall’olivicoltura

• 210.000 tonnellate di olio, pari al 32% della produzione nazionale

• Il microclima dello “stivale”, attraversato completamente da aspre montagne e circondato dal mare, è ideale per l’olivo che cresce ovunque, sul versante tirrenico e su quello ionico

• Dagli scavi del villaggio protostorico di

Enotri, la cui origine risale a 3500 anni fa, furono recuperati grandi dolii che dimostrano come l’olio di oliva fosse presente a partire dall’Età del Bronzo e prima dell’arrivo dei coloni greci, che sbarcarono in Calabria nel VII secolo a.C.

• Il patrimonio varietale di olive autoctone

annovera 33 cultivar di cui le più diffuse sono Carolea, Tondina, Roggianella, Cassanese, Moresca, Grossa di Gerace, Ottobratica, Dolce di Rossano e Sinopolese. Troviamo inoltre pregiate varietà alloctone come Frantoio, Leccino, Coratina e Nocellara del Belice

• 3 le DOP:

- Lametia, in provincia di Catanzaro - Bruzio, con 4 menzioni geografiche: Sibaritide, Fascia Prepollinica, Valle di Crati, Colline Joniche Presilane, tutte in provincia di Cosenza - Alto Crotonese, la più recente Sono in corso di approvazione Golfo di Squillace, Locride e Presila Catanzarese

Piante di olivo plurisecolari a Cittanova (località Fiolli)

166


olivo in Calabria 69% nel Reggino, caratterizzate da una forte alternanza di produzione e da scalarità di maturazione. Molti impianti presentano sesti irregolari o sono consociati con agrumeti negli interfilari e colture orticole al di sotto di questi. Piana di Gioia Tauro Domenico Grimaldi, Accademico dei Georgofili, cui va il merito di aver rinnovato profondamente l’olivicoltura della Piana di Gioia Tauro alla fine del XVIII secolo, fa un’ipotesi assai verosimile sull’origine della coltivazione dell’olivo in Calabria: “Non andrebbe per avventura lungi dal vero chi credesse che le colonie greche, le quali in gran numero si stabilirono nella Calabria, avessero ivi per la prima volta piantato l’Ulivo e introdotta quell’eccellente maniera di coltivarlo, che nella Grecia si adoperava, ch’eglino riguardano come sacro, e che con somma diligenza coltivavano”. L’olivicoltura calabrese nasce, presumibilmente, sulla costa ionica, dove fiorirono, a partire dall’VIII secolo a.C., le grandi colonie di Sibari (708 a.C.), Crotone (708 a.C.) e Locri (673 a.C.). Che l’olivo fosse coltivato nella colonia di Locri Epizefiri è ampiamente provato da ritrovamenti archeologici, incisioni, studi sulla dieta ellenica, citazioni sull’uso dell’olio d’oliva da parte degli atleti per tonificare i muscoli e per abbellire esteticamente la figura; inoltre, il più importante tempio locrese fu dedicato a Minerva, alla quale, come è noto, l’albero era consacrato. L’espansione dei coloni locresi portò alla nascita di alcune sub colonie lungo le coste del mar Tirreno: Metauria, l’odierna Gioia Tauro, Medma, oggi

Cosenza Crotone Catanzaro Vibo Valentia

Reggio Calabria

Bruzio Alto Crotonese Lametia

Aree di produzione di olio DOP

Olivo secolare nella Piana di Sibari

Foto E. Marmiroli

167


paesaggio Rosarno e Mella, nei pressi dell’attuale Oppido Mamertina, alle propaggini dell’Aspromonte. Con la fondazione dei nuovi siti si rese necessario creare vie di comunicazione che agevolassero gli scambi commerciali tra le popolazioni e soprattutto con la grande Locri, la quale fu collegata all’Occidente per mezzo di due strade che attraversavano l’Aspromonte su due direttrici principali, una attraverso lo Zomaro, giù fino a Medma, e una seconda attraverso Zervò, giù verso Mella, seguendo il corso del Petrace fino a Metauria. Per secoli lungo queste direttrici si effettuarono i traffici economici e all’epoca dell’insediamento sul versante tirrenico dei coloni provenienti da Locri è facile supporre che attraverso queste vie l’olivo sia giunto lungo le coste del mar Tirreno. Qui fu, per lungo tempo, una coltura secondaria, essendo il fabbisogno alimentare ampiamente soddisfatto dalla cacciagione e dalla pesca e, nell’ambito delle colture agrarie, dai cereali. Durante la successiva dominazione romana la coltura fu intensificata tanto che il prodotto veniva anche esportato fuori regione come testimoniato dai numerosi ritrovamenti archeologici nel territorio e dalle anfore di creta utilizzate come contenitori per l’olio, rinvenute nel tratto di mare antistante Taureana. All’inizio del nuovo millennio si ha notizia di fiorenti oliveti anche nel comprensorio di Mammola. Dall’analisi degli atti notarili di cessione delle proprietà alla Cattedrale di Oppido, negli anni 1000-1050, si ha notizia di gelseti, con nuovi impianti, vigneti e coltivazione dei cereali. C’è da dire inoltre che, fino ad allora, l’entroterra era scarsamente popolato e solo successivamente, per sfuggire alla scorrerie saracene concentrate sulle città costiere, le popolazioni si spinsero nei luoghi interni, più nascosti e protetti e presero origine i numerosi paesi pedemontani.

Foto E. Marmiroli

Olivi secolari nella Piana di Gioia Tauro

168


olivo in Calabria Solo a partire dal Cinquecento è possibile, con supporti storici molto attendibili, studiare l’evoluzione della coltivazione dell’olivo nella Piana. Intorno al 1550 il frate Leandro Alberti scrive del suo viaggio in Calabria e dalla descrizione dei luoghi può essere fatta una prima ricostruzione che riguarda la Piana di Gioia Tauro, che egli percorse da nord verso sud. Così descrive Rosarno: “Ha questo castello buon e grosso paese ove sono giardini pieni d’aranci, limoni, e altri alberi fruttiferi colle pareti di rose che da ogni lato se ne veggono”. Prosegue, quindi, per raggiungere l’attuale Gioia Tauro, “passato Rosarno comincia una molto larga e lunga pianura, detta la pianura di S. Giovanni quasi tutta inculta, e piena di cespugli, e di boschi. Più avanti procedendo dal lito discosto, vedesi Gioia, il cui territorio è molto bello e pieno di vigne, d’aranci e d’altre fruttiferi alberi. Et non meno è producevole di grano e d’altro biade”. L’Alberti percorre la Piana di Gioia sul basso litorale e non incontra olivi; la gran parte del territorio, in quest’epoca, è incolta oppure coltivata a frumento e pochi altri fruttiferi. Immediatamente successiva a quella dell’Alberti è l’opera del Barrio (1550), che offre una descrizione molto dettagliata del territorio dalla quale è possibile mappare le diverse colture e in particolare quella dell’olivo. Anch’egli attraversa la Piana da nord a sud e così la descrive: “Ci sono i villaggi Meliclochia e Dinami (…) Si produce un vino e un olio ottimo (…) Più lontano c’è

DOP di Calabria

• In Calabria sono presenti le DOP

Bruzio, Lametia e Alto Crotonese

• La DOP Bruzio investe la fascia

della Sibaritide e della pre-Sila della provincia di Cosenza, con il contributo della produzione olivicola di 48 comuni. Questa DOP è caratterizzata da alcune indicazioni aggiuntive, “Fascia Prepollinica” (cultivar Tondina, min. 50%; cultivar Carolea, max. 30%; cultivar Grossa di Cassano, max. 20%), “Valle di Crati” (cultivar Carolea, min. 50%; cultivar Tondina, max. 30%; cultivar Rossanese o Dolce di Rossano, max. 20%), “Colline Joniche Presilane” (cultivar Rossanese o Dolce di Rossano, min. 70%), “Sibaritide” (cultivar Grossa di Cassano, min. 70%; cultivar Tondina, max. 30)

• La DOP Lametia si basa su olive della cultivar Carolea (90%) coltivate nei comuni dell’area di Lamezia

Foto E. Marmiroli

• La DOP Alto Crotonese investe

i comuni della provincia di Crotone con il 70% delle olive della cultivar Carolea

• La produzione DOP calabrese

è ancora oggi estremamente limitata, non investendo più del 2% delle olive prodotte nelle aree DOP

Pollone sviluppatosi dal tronco di un olivo secolare

169


paesaggio il piccolo Castello di Caridà. Qui si prodoce un vino generoso e un olio lodatissimo (Hic generosum vinum nascitur, fit, & oleum, laudatissimum)”. Per ritrovare l’olivo bisogna salire nuovamente in collina, alle falde dell’Aspromonte, fino a Oppido, sede episcopale. Qui, infatti, “si producono oli, vini, e stoffe di cotone ottime”. Dalle notizie riportate dal Barrio emergono elementi a supporto della via locrese d’introduzione dell’olivicoltura nella Piana di Gioia Tauro. Si distinguono, infatti, due centri di diffusione olivicola, posti agli antipodi della Piana. Il primo che si localizza a sud-est, nel territorio degli odierni comuni di Varapodio, Oppido, Santa Cristina, Cosoleto, Delianuova, Sinopoli, San Procopio, Melicuccà, Seminara, Palmi, l’altro, a nord-est, nel territorio dei comuni di Feroleto della Chiesa, Maropati, Galatro e Melicucco. I due centri, pur geograficamente separati da selve, pianure coltivate a grano, ortaggi, vigne e da numerosi altri fruttiferi, hanno in comune molti aspetti, in particolare la morfologia dei luoghi, che si presenta speculare, l’altimetria, il tipo di suolo e ancora le popolazioni di lingua greca. Soprattutto si trovano lungo le due antiche vie verosimilmente percorse dai coloni greci dall’uno all’altro versante della Calabria meridionale. Ciò fa supporre che gli antichi Greci avessero impiantato, in questi determinati luoghi che presentavano, e ancora oggi presentano, le migliori condizioni pedoclimatiche, i primi olivi necessari ai modesti fabbisogni locali. Barrio ci riferisce della presenza, proprio a Sinopoli e in tanti altri comuni adiacenti, di “olive, grosse come le mandorle e carnose, preparate in botti, sono ottime a mangiarsi”. Dunque, appare verosimile affermare che solo dopo il Seicento le antiche varietà introdotte in età greca siano state del tutto soppiantate da varietà a frutto piccolo quali sono le odierne Sinopolese e Ottobratica. Le diverse varietà di olive saranno successivamente citate dal Pasquale (1863), che nella sua relazione scrive: “Oltre ciò, provato in molti punti dello stesso circondario ad allevare gli olivi domestici dello Ionio, non vi danno che scarsissimo prodotto in frutto; onde si levano via quei pochi che si trovano ab antico”. Successiva al Barrio è l’opera di Girolamo Marafioti da Polistena (1601), che attraversa la Piana da sud a nord e inizia dalla descrizione di Seminara e Parma, l’odierna Palmi, confermando, sostanzialmente, la descrizione di Barrio che vede una Piana assolutamente libera da olivi, confinati in due areali ben distinti e geograficamente separati, caratterizzati dal fatto di essere posti nelle zone salubri della collina pedemontana. A novant’anni di distanza dalla stampa dell’opera del Marafioti è l’Abate Giovanni Fiore (1691) a descrivere i luoghi della Calabria. Gran parte delle descrizioni del territorio sono simili a quelle forniteci dal Barrio non essendovi novità di rilievo rispetto alle varie colture, in particolare per l’olivo, ancora localizzato quasi

Foto E. Marmiroli

Foto E. Marmiroli

Avvitamento sinistrorso di olivi secolari

170


olivo in Calabria del tutto in collina. Un dato importante riguarda la produzione olivicola a Seminara nel 1624, “pari a misure napolitane 130.000 di rotola quindici l’uno”, che equivalgono a circa 1200 tonnellate. Se fino al XVI secolo gran parte del prodotto era consumato come “companaggio di tanti et tanti poveri che sono in Napoli et per lo regno”, questa situazione comincia a cambiare nel corso del XVIII secolo. È in questo periodo che avvengono fatti destinati a cambiare il paesaggio agrario della Piana. La lenta ma inesorabile scomparsa del gelso e dell’industria serica, l’aumento del consumo d’olio sia nell’illuminazione pubblica sia nell’industria tessile e nell’alimentazione dei ceti urbani in tutta l’Italia, la riduzione della vessatoria politica fiscale, e quindi del dazio sull’olio, imposto dagli spagnoli prima e dai Borboni poi, le innovazioni tecnologiche nella fase estrattiva ed eventi naturali come il grande cataclisma del 1783, tutto questo contribuisce a un’espansione così straordinaria che all’inizio del XIX secolo vedrà la Piana di Gioia Tauro talmente trasformata da essere irriconoscibile. Di questo secolo abbiamo le testimonianze del Giornale di Viaggio di Galanti (1792), d’Arnolfini (1768) e soprattutto di Grimaldi (1777). È in questo secolo che l’olivo scende effettivamente nella Piana e che gli investimenti si fanno regolari e costanti, con pratiche agronomiche che, nella fase di propagazione e impianto, sono finalmente ispirate a criteri di razionalità. Non meno disastroso era fino a quel periodo il metodo di estrazione dell’olio. Anche in questo settore il Grimaldi, forte delle proprie esperienze in Provenza e Liguria, descrive in maniera analitica il processo estrattivo adottato in Calabria, che aspramente critica, e indica le necessarie innovazioni che devono es-

Olivi nel monastero di Varapodio

• Il Monastero era in possesso di “olivi

piedi n. 160 che ne partecipa oglio cafisi 15, che sono rotola 26 il cafiso et il rotolo è 30 once”. Essendo il cafiso uguale a 21 kg se ne deduce che la produzione di 160 piante ammontava a 315 kg per una produzione di 2 kg/pianta d’olio. Ipotizzando una resa del 15% in olio, una pianta produceva intorno a 30 kg di olive

Volumi (q) di olio extravergine certificato e imbottigliato come DOP in Calabria Bruzio

Foto E. Marmiroli

2003/04

103

2004/05

132

2005/06

165

2006/07

1182

2007/08 (provvisorio)

5500

Alto Crotonese 2003/04

57

2004/05

27

2005/06

137

2006/07

40

2007/08 (provvisorio)

42

Lametia

Olivi secolari in Calabria

171

2003/04

26

2004/05

35

2005/06

71

2006/07

35

2007/08

35


paesaggio sere introdotte al fine di ottenere una migliore resa e soprattutto una migliore qualità dell’olio. La coltura dell’olivo aveva cominciato, dopo la metà del Settecento, a espandersi per merito, soprattutto, delle innovazioni introdotte con i frantoi alla genovese; l’olivo poi continua a diffondersi, anche se lentamente, oltre i confini dei territori collinari, dove era stato relegato per secoli. Il dato viene confermato da Giuseppe Maria Galanti nel suo viaggio effettuato in Calabria nel 1792, che attraverso la descrizione dei luoghi ci presenta la Piana di Gioia Tauro ancora molto simile a quella descritta dal Barrio e dal Marafioti, ma ci segnala già a Drosi la presenza di alberi di olivo, così, infatti, scrive: “Vicino Drosi si veggono pochi ulivi, ma nel resto della Piana che attraversammo è tutto macchioso e inculto. Generalmente le coltivazioni d’ulivi estese sono sulle pendici delle colline e vicino ai luoghi coltivati. La maggior parte della Piana è deserta”. Galanti (1792), a proposito di Seminara, ci conferma che le innovazioni del frantoio alla genovese proposto dal Grimaldi erano state seguite, ma non i suggerimenti agronomici, perché così egli scrive: “gli olivi non si putano, ma si diradano solamente. Qualcheduno ha cominciato a putarli. L’olio è buono. (…) I trappeti alla genovese vi sono comuni. L’olio si conserva dentro vasi di creta”. Evidentemente l’olivo comincia a essere coltivato a ridosso dei centri abitati anche della pianura, mentre ancora resistono le zone paludose e i boschi di Gioia Tauro, su verso il Petrace, e di Rosarno.

Oliveto secolare nella Piana di Lamezia

Foto E. Marmiroli

172


olivo in Calabria Un’altra testimonianza dell’inizio dell’espansione della coltura ci è fornita dall’Arnolfini (1768) che, percorrendo i feudi della Principessa di Gerace, descrive il fenomeno nel suo pieno svolgimento: “Le piantagioni che ora si fanno nel territorio di Terranova sono regolari e belle. Si pongono gli olivi in distanza di 60 o 70 palmi, onde per ogni tomolata di terreno si contengono nove o dieci piante”. Arnolfini indicava ancora nelle basse pianure di Gioia la presenza considerevole, lungo il corso del fiume Budello, di boschi e macchie, così sui rilievi collinari di Terranova. Il Bevilacqua (1988) riferisce che nel 1687-89 furono esportate in media annuale 3232 salme di olive dalla Calabria. Un secolo più tardi la media corrispondente degli anni 1785-94 era stata di 27.424 salme, la produzione era aumentata di ben nove volte. Nei paesi oleari della Piana, ci riferisce Grimaldi, la coltura dell’olivo “si era sempre più venuta estendendo a danno dei boschi e delle macchie che la popolazione vedeva scarseggiare sempre più diffusamente la legna per il fuoco domestico”. In quegli anni il consumo dell’olio d’oliva cresce enormemente, così come la popolazione e il lusso crescono in Europa. L’aumento della domanda e gli investimenti olivicoli furono per alcuni anni frenati dalle guerre napoleoniche, ma subito dopo il mercato europeo diede maggiore slancio all’olivicoltura, favorita dalla riduzione dei dazi sulla produzione dell’olio. Nella Piana di Gioia Tauro, la specializzazione dell’olivicoltura si era ormai affermata. Il processo riprese con ancora maggiore vigore e andò a occupare i boschi, i terreni sabbiosi e quelli umiferi, dove, come a Rosarno e nella bassa Piana, l’olivo rimpiazza, ci fa sapere il Moschitti: “Gli antichi boschi e le belle terre da semina. Ci ha ora sterminati oliveti dove non erano che foreste vergini”, e ancora Bevilacqua: “Le terre di pianura, anche laddo-

Stato dell’agricoltura e dell’economia nella sua relazione sull’economia campestre per la Calabria Ultra nel 1770

•“Non meno interessante dovrebbe

essere la coltura degli olivi, che unitamente ai gelsi producono le due branche principali del commercio attivo e più lucroso della Provincia; ma anche questi alberi soggiacciono nella istessa indolenza, e ignoranza di coltura; poiché oltre non essere generalmente gli olivi né concimati, né zappati, né lavorati, il che alla fecondità del terreno, che corrisponde spontaneamente, devesi unicamente attribuire, nemmeno vi è l’indispensabile pratica di potarli, onde divenendo oltremisura rigogliosi, ingombri di rami ingordi, e di vecchiume producono meno frutto, e che rende meno in olio, d’inferiore qualità di quello che riuscirebbe, se gli olivi fossero nella dovuta forma regolarmente potati, e loro si facesse qualche sorta di coltivazione, benché semplice e tenuissima”

Giovane oliveto nella Piana di Lamezia

173


paesaggio ve si erano insediate fiorenti masserie cerealicolo-pastorali, vennero progressivamente e sistematicamente invase dagli alberi: ulivi in primo luogo. Per rispondere alla crescente domanda del mercato internazionale le terre di piano venivano consacrate alle piantagioni specializzate”. Nell’Ottocento Norman Douglas riferiva della produzione di 200.000 quintali d’olio d’oliva nella Piana. Nel 1812, dalla statistica murattiana si può notare che, se pur cominciavano a essere utilizzati numerosi accorgimenti agronomici nelle colture, si soleva ancora raccogliere le olive molto tempo dopo la caduta spontanea e ancora si facevano fermentare in cumuli, tanto che l’olio estratto emanava un cattivo odore di rancido che lo rendeva praticamente immangiabile. Tra il 1822 e il 1825 fu fatto erigere a Cannavà, per volere della principessa Serra di Gerace, un gran frantoio polifunzionale, destinato a trappeto, deposito, abitazione per gli operai e casino padronale. La ricercatezza dei particolari utili alla migliore funzionalità degli spazi, alla comodità dei locali di lavoro, alla riduzione delle superfici degli edifici da adibire ad abitazione signorile, l’essenzialità dei locali lavorativi rappresentano una grande innovazione che differenzia in meglio Cannavà sia dai Siti Reali sia dalle Ville Vesuviane. Ci avviamo così all’epoca del Risorgimento italiano e dell’impresa dei Mille con una crescente espansione del territorio della Piana di Gioia Tauro investito dall’olivo e con la continua costruzione di frantoi. Fino a quest’epoca non è ancora possibile stabilire con precisione il totale degli ettari coltivati a questa coltura, supponiamo che sia presente, più o meno intensamente nella quasi totalità dei comuni che da qui a poco saranno annessi al Regno dei Savoia. Proprio a ridosso

Calabria in numeri (Istat 2005)

• Superficie olivetata:

186.392 ha

(17% SAU olivo italiana)

• Produzione di olio:

192.625 t

(33% della produzione italiana)

• Produzione di olio per ettaro:

10,3 q

(Sicilia 3,5 e Puglia 6,5)

• Valore in produzione di olio:

873.774.000 € (38% del valore italiano; 35% dell’agricoltura calabrese)

• Valore per kg di olio:

4,50 €

Gli investimenti (piante/ha)

• Catanzaro: 166 • Cosenza: 195 • Crotone: 222 133 • Reggio Calabria: 176 • Vibo Valentia: Panoramica delle colline olivetate del Lametino (Curinga)

174


olivo in Calabria dell’unificazione del Regno, De Pasquale (1863) indica in 18.500 gli ettari coltivati a olivo nella Piana. Solo alla fine del XIX secolo l’espansione sembra frenarsi e su questo abbiamo la testimonianza di Bracci, Direttore del Real Oleificio Sperimentale di Palmi, che nel 1893 riporta 150.000 quintali di olio prodotto nella Piana su 24.375 ettari coltivati, e in generale sottolinea le condizioni di precarietà colturale delle piantagioni: “Questa imponente vallata è ricoperta (…) da estesissimi oliveti (…) ci sentiamo invadere da un senso di malinconia nel vedere l’abbandono in cui è lasciato l’albero prezioso di Minerva. Se poi si fa capolino nei locali destinati alla manipolazione delle olive, lo spettacolo è in generale davvero desolante”. Figlia, quindi, di “una delle più straordinarie e intense trasformazioni del paesaggio agrario che nel corso d’alcuni decenni a cavallo del XVII e XIX secolo interessò il mezzogiorno d’Italia”, l’olivicoltura della Piana di Gioia Tauro è certamente uno degli esempi più straordinari e complessi di monocoltura arborea di grande estensione che abbiamo in Italia. Gli oliveti della Piana, per il particolare vigore delle cultivar, Ottobratica e Sinopolese, pongono il dilemma del rinnovamento o del mantenimento, perché, seppur spettacolari dal punto di vista paesaggistico, non si prestano alla produzione di un olio di qualità con costi contenuti. Scrive Fardella nel 1995 che tra il “piglio quasi punitivo nei confronti della ragione economica” e la “speculazione più oltraggiosa”, rimane un vuoto di idee che la ricerca non riesce a colmare. Il dato economico indica con chiarezza la dipendenza dal contributo comunitario e un’economia assistenziale legata al collocamento di interi nuclei familiari durante il lunghissimo periodo della raccolta, con i conseguenti oneri pubblici legati all’indennità di disoccupazione. Praticamente inesistente sul mercato dell’olio extravergine, la produzione della Piana è in larghissima misura destinata al mercato di olio lampante e, tra l’altro, spesso di qualità tale da lasciare forti perplessità sul raggiungimento anche dei valori minimi richiesti dalla Ue. In termini di investimenti,

Produzione vivaistica

• 600.000 (90% autoradicate) piante commercializzate in Calabria nelle campagne vivaistiche 2005/06/07

• Destinazione prevalente:

- 75% circa (infittimento o rimpiazzo) - 15% (riconversioni) - 10% (nuovi impianti) Foto E. Marmiroli

Singole province in cifre Provincia

Numero aziende

Ettari

Olive (.000 q)

Olio (.000 q)

Olive (q/ha)

Olio (q/ha)

Resa in olio (%)

Cosenza

46.924

52.190

2460

371

47,1

7,1

15,1

Catanzaro

25.551

42.795

1733

323

40,5

7,5

18,6

Crotone

11.108

18.300

1214

271

66,3

14,8

22,3

Reggio Calabria

38.442

57.705

5362

1063

92,9

18,4

19,8

Vibo Valentia

14.218

15.402

695

150

45,1

9,7

21,6

Fonte: elaborazione da dati Istat (2000-2006)

175


paesaggio si .passa dai 27.422 ha censiti nel 1925 ai 31.611 ha del 1970 e, più recentemente, ai 29.325 ha che riporta Nesci e ai 23.600 ha indicati da Fardella. Certamente qualcosa deve essere conservato di questo straordinario paesaggio rurale e ciò andrebbe fatto seguendo le linee storiche che si leggono sul territorio. L’olivicoltura in collina, per esempio, può e deve essere in qualche modo preservata e così pure i diversi manufatti che del sistema olivicolo hanno, per secoli, costituito parte integrante. Ma non si può e non si deve pensare di consegnare all’immobilismo tutti i 24.000 ettari di oliveti, perché il costo economico e sociale diverrebbe insostenibile.

Assortimento varietale

• Catanzaro:

Carolea (60%), Frantoio (20%), Leccino (5%), Roggianella (5%), Coratina, Cassanese, Tonda di Filadelfia, Nocellara messinese (10%)

• Cosenza:

Cassanese (35%), Dolce di Rossano (10%), Roggianella o Tondina (15%), Carolea (25%), Coratina, Nocellara del Belice, Frantoio, Leccino, Pendolino (15%)

Areale tra il Golfo di Sant’Eufemia e il Golfo di Squillace A seguito della forte fase di espansione a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, le piante di olivo iniziarono a diffondersi nei territori di quasi tutti i comuni dell’area attualmente occupata dalle province di Catanzaro, di Vibo Valentia e di Crotone, raggiungendo un’estensione di 312.368 moggi, pari a 21.861 ha, delineando quello che nei secoli successivi sarebbe diventato il paesaggio rurale di queste aree. Nell’attuale provincia di Catanzaro, a oggi, sono state censite 6.800.000 piante di olivo, distribuite su 42.795 ha, corrispondenti a 25.551 aziende, in una fascia di territorio, definita dal Botta strangolamento d’Italia, compresa tra i due versanti della regione: quello ionico e quello tirrenico. Nel versante ionico le piante di olivo sono distribuite a partire dal litorale che delinea il Golfo di Squillace, spingendosi verso le ridenti valli del Corace, dell’Alli e del Simeri, per inerpicarsi verso le pendici delle Serre calabresi e della Sila Piccola; ma la maggiore concentrazione dell’Olea europaea si riscontra in agro di Belcastro,

• Crotone:

Carolea (40%), Pennulara (5%), Dolce di Rossano (5%), Coratina (5%), Frantoio (10%), Leccino (5%), Nocellara messinese (5%), Biancolilla (3%), Nocellara del Belice (5%), Tonda di Strongoli (5%), Picholine, Itrana, Giarraffa (12%)

• Vibo Valentia:

Tonda di Filogaso (25%), Ottobratica Perciasacchi (25%), Ciciarello (10%), Roggianella (15%), Verdella (5%), Tonda di Filadelfia (5%), Ottobratica Sinopolese (5%), Nocellara messinese, Nocellara del Belice, Frantoio, Leccino, Pendolino, Carolea (10%)

• Reggio Calabria:

Ottobratica Perciasacchi (40%), Ottobratica Sinopolese (10%), Ciciarello (5%), Roggianella (15%), Cassanese (10%), Grossa di Gerace (5%), Coratina, Frantoio, Leccino, Biancolilla, Nocellara messinese, Nocellara del Belice (15%)

Olive della cultivar Carolea

176


olivo in Calabria di Squillace, di Borgia, di Sellia, di Zagarise e di Badolato, dove si ritrovano esemplari secolari di particolare bellezza paesaggistica. Nel versante tirrenico, invece, l’olivicoltura è incastonata in un paesaggio che è disegnato dalla lussureggiante piana di Lamezia, che lasciandosi attraversare dal fiume Amato (Lamato) (Valle dell’Amato) e affacciandosi sul litorale, si incurva per abbracciare il Golfo di Sant’Eufemia e risale verso le pendici del Monte Contessa, del Reventino e verso la “stretta gola di Marcellinara”, impreziosendosi di una suggestiva copertura vegetale nella quale domina, sino a 600 m s.l.m., la colorazione verde-argenteo degli innumerevoli esemplari di piante di olivo, a volte plurisecolari, ricchi di storia e di tradizioni, che definiscono questa area come una delle realtà olivicole più importanti della provincia e della regione, nella quale sono stati individuati i territori che concorrono alla produzione di uno dei tre DOP della Calabria, il DOP Lametia. Gli oliveti, che costituiscono lo sfondo della vita quotidiana della pianura e della collina di questa vasta area, sono prevalentemente rappresentati dalla cultivar Carolea, che, distribuita su circa 12.000 ettari, da sempre ha avuto e ha un ruolo fondamentale nella vita economica e culturale di queste comunità, delineando un paesaggio olivicolo che è definito da un’eccessiva polverizzazione aziendale (1,67 ha) e dalla contemporanea presenza di un’olivicoltura tradizionale (prevalente), di un’olivicoltura intensiva e di un’olivicoltura marginale. L’olivicoltura tradizionale attualmente presente, sia in pianura sia in collina, è quella che ha caratterizzato il paesaggio olivicolo nel

Qualità dell’olio in Calabria

• Extravergine:

Cosenza 40-50% Catanzaro 25-35% 10-15% Reggio Calabria

• Vergine: Cosenza 25-35% Catanzaro 25-35% 30-35% Reggio Calabria

• Lampante:

Cosenza 10-15% Catanzaro 25-30% 40-50% Reggio Calabria

Elaborazione da dati del Consorzio Regionale Associazioni Olivicole

Oliveto della cultivar Carolea nella Piana di Lamezia

177


paesaggio corso della seconda metà del secolo scorso, sia in monocoltura sia in consociazione con agrumeti. A definire le caratteristiche paesaggistiche concorrono, oltre che la particolare colorazione del fogliame, il portamento assurgente, la vigoria e l’architettura della pianta, a vaso o globo, nonché la disposizione spaziale, più o meno regolare, con distanze d’impianto di 8×8 m, 10×10 m, sino ad arrivare al 12×12 m e, quindi, con una densità variabile da 0,69 a 160 piante/ha. La particolare conformazione della pianta della cultivar Carolea e degli impianti esistenti, con una prevalente disposizione delle piante in sesti regolari, o quasi, ha permesso all’olivicoltura tradizionale di convivere con le innovazioni tecnologiche, ben adattandosi alla raccolta meccanica e alla meccanizzazione in genere. Si è registrato, inoltre, in quest’area, un certo dinamismo nel recepire le innovazioni impiantistiche, che hanno posto le basi per la realizzazione di un’olivicoltura intensiva che si è andata ad affiancare a quella tradizionale. Quello che è senza dubbio preoccupante, e che in breve tempo potrebbe determinare una profonda variazione del paesaggio olivicolo, è l’olivicoltura delle aree marginali, che contribuisce in maniera considerevole al paesaggio di questa area e che è localizzata in quelle aree collinari impervie e nelle quali, spesso, si individuano gli esemplari più antichi, disposti sul terreno a macchia di leopardo. Si tratta di un’olivicoltura sostenuta dalla conduzione familiare o, spesso, con manodopera part time e che, inevitabilmente, sta evolvendo verso un’olivicoltura in stato di abbandono, le cui cause sono analoghe a quelle che caratterizzano altre realtà olivicole italiane: spopolamento delle aree agricole, scarsa remunerazione, attrazione verso attività lavorative e/o sociali più gratificanti. Ad alterare l’aspetto paesaggistico, in questi ultimi anni, ha contribuito l’attuazione di progetti di urbanizzazione, che prevedono aree di espansione dei centri urbani in spazi attualmente destinati all’attività rurale e, quindi, si osserva una continua evoluzione dell’edilizia urbana che, più o meno velocemente, sta fagocitando importanti tessere del paesaggio olivicolo.

Foto E. Marmiroli

Foto E. Marmiroli

Foto E. Marmiroli

Provincia di Cosenza Da oltre vent’anni, sulla collina in località Broglio di Trebisacce, si effettuano scavi archeologici che hanno riportato alla luce le vestigia del villaggio protostorico di Enotri, la cui origine è datata a 3500 anni fa. La prima occupazione del sito risale, infatti, alla media Età del Bronzo, durante i periodi cosiddetti Protoappenninico e Appenninico (1700-1350 a.C.). Nel corso degli scavi, in un ambiente adibito a magazzino, furono recuperati cinque dolii cordonati torniti di produzione locale, cioè cinque grandi recipienti per la conservazione di derrate alimentari, del tutto simili ai giganteschi pithoi trovati nei magazzini dei palazzi minoici e micenei.

Esemplari di olivi secolari nella provincia di Cosenza

178


olivo in Calabria Al momento del ritrovamento, i dolii si presentavano rovesciati, in seguito all’abbandono dell’ambiente, e poggiavano non sul pavimento ma su uno strato nerastro e grasso, molto probabilmente formatosi durante il periodo d’uso del magazzino e attribuito a residui dell’olio d’oliva. Anche le superfici interne dei dolii erano ricoperte di uno strato di residui d’olio d’oliva che era stato contenuto nei recipienti. Nel corso dei primi scavi, furono ritrovati anche endocarpi di olivo negli strati di terreno corrispondenti ai dolii, che, sfortunatamente, oggi non sono reperibili. I dolii sono attualmente conservati presso il Museo Archeologico di Sibari (CS) e testimoniano che l’olio d’oliva era prodotto ed era probabilmente oggetto di scambi commerciali in Calabria già a partire dall’Età del Bronzo, quindi, almeno cinque secoli prima della fondazione di Sibari e dello stanziamento duraturo dei colonizzatori greci. Ciò significa che l’olivo, selvatico o non, era, se non coltivato, sicuramente noto e apprezzato per i suoi prodotti, olio e olive, e che non vi è motivo di ritenere che sia stato introdotto dalla Grecia, ma, più probabilmente, dai ritrovamenti di Broglio; si può ritenere che 3500 anni fa esso facesse da tempo parte dell’antica flora della penisola. Nel I secolo d.C. Columella, nel De re rustica, cita la Calabria nel momento in cui annovera, tra le dieci varietà d’olivo allora note, la Calabrica, che egli considera simile all’oleastro, senza peraltro indicarne un’esatta localizzazione sul territorio regionale. Rari esemplari di millenari oleaster sono ancora presenti nella provincia di Cosenza. Uno di questi, assai suggestivo ma innestato in tempi remoti con una cultivar di olivo locale, si può ancora ammirare presso l’azienda Arcaverde in agro di Cerchiara. In seguito, si deve sicuramente ai monaci basiliani, che esercitarono la loro maggiore influenza soprattutto tra l’VIII e il XII secolo, e al monachesimo latino, benedettino, cistercense, certosino, florense, e, infine francescano, soprattutto tra il XII e il XV secolo, la razionale

Olivo plurisecolare nella Piana di Lamezia (località Campolongo-San Pietro a Maida)

Olivi a Rossano Calabro

179


paesaggio coltivazione dell’olivo e la sua prima diffusione dopo i tempi incerti che seguirono la fine dell’Impero Romano. Secondo antiche tradizioni, i plurisecolari oliveti presenti nel comune di Rossano, costituiti ancora oggi da migliaia di piante della cultivar Dolce di Rossano, sarebbero stati realizzati proprio dai monaci basiliani della Chiesa d’Oriente. Non a caso, nel 1223 il monastero greco del Patirion di Rossano era tenuto a pagare annualmente con alcune “lagene” di olio, secondo la misura di Rossano, quello di San Giovanni in Fiore appartenente all’ordine florense, per lo sfruttamento di pascoli sulla Sila. Nell’XI secolo, l’olivo è segnalato nel Cosentino e sulle coste tirreniche (Scalea) dal Brebion reggino; mentre in epoca sveva se ne hanno testimonianze, fra l’altro, per Bisignano e Luzzi nella valle del Crati. Tuttavia, a differenza della provincia di Bari, dove gli oliveti caratterizzavano profondamente già a quell’epoca il paesaggio rurale, e fatta eccezione per il territorio di Rossano, fino al XVI secolo non si hanno evidenze della presenza di terreni a specializzazione olivicola nel Cosentino: l’olivo, sia pur presente, era spesso consociato ad altre colture come il gelso e la vite. La diffusione dell’olivicoltura in Calabria, come in tutto il Sud, durante il Medioevo, a differenza di quanto accadde per la viticoltura, fu lenta e incerta. Nel XVI secolo la coltura dell’olivo in Calabria seguiva, per importanza, quella dei cereali, del gelso e della vite, pur costituendo un’importante voce delle esportazioni. Lo testimoniano, per esempio, le entrate dei feudi cosentini dei Principi di Bisignano tra il 1578 e il 1580. Il XVI secolo, tuttavia, è caratterizzato da un mirabile risveglio dell’economia agricola calabrese, che segna l’inizio della maggiore diffusione della coltura dell’olivo nella provincia e nella regione a causa dell’esenzione da tasse di cui godrà la coltivazione fino ai primi decenni del Seicento, e al costo assai contenuto delle olive da mensa che ne hanno assicurato un diffuso consumo, soprattutto tra i ceti meno abbienti. Oggi, dopo alcuni secoli di lenta ma progressiva espansione della coltura e, soprattutto, dopo alcuni decenni di aiuti alla produzione da parte dell’Ue, l’olivicoltura risulta diffusa su buona parte del territorio della provincia, escluse le superfici occupate dalla catena appenninica e dall’altopiano della Sila ad altitudini in media superiori ai 600 m. In particolare, le maggiori concentrazioni si registrano nella Piana di Sibari, sulle colline ioniche presilane, nella fascia prepollinica e nella media valle del fiume Crati. Questi stessi areali rappresentano le menzioni geografiche dell’olio DOP Bruzio, il più importante della regione in quanto a superfici e volumi certificati. Ciascuno di questi areali è interessato da una o più cultivar prevalenti che ne caratterizzano il paesaggio. L’area olivetata della provincia interessa complessivamente una superficie di circa 52.000 ha, ospita circa 10.000.000 di piante con una media di circa 180 piante per ha. La SAU olivicola è di

Areali di Vibo Valentia e Crotone

• Sempre sul versante tirrenico, nel

Vibonese la coltura si estende sul litorale e sulle valli interne, dall’Angitola al Marepotamo, sulla fascia pedomontana delle Serre e verso l’Altopiano del Poro

• Nel Crotonese l’olivicoltura si estende

per 18.000 ha ai piedi della Sila Piccola e della Sila Grande, che origina la DOP Alto Crotonese, raggiungendo il litorale ionico (Capo Colonna, Crotone, San Mauro Marchesato, Rocca di Neto, Strongoli, Torre Melissa, Cirò, Crucoli)

Foto E. Marmiroli

Oliveto secolare in Alto Ionio

180


olivo in Calabria circa 48.000 ha. Essa rappresenta il 29% della SAU provinciale totale. Le aziende olivicole sono circa 47.000 e rappresentano il 34% delle aziende agricole della provincia. Grazie a questi dati la provincia di Cosenza, nel panorama regionale è al primo posto in quanto a numero di aziende e SAU olivicole. Anche la provincia di Cosenza è caratterizzata dal problema della polverizzazione aziendale associata al fenomeno della forte frammentazione delle superfici aziendali in appezzamenti non contigui, talvolta anche lontani tra loro. Il patrimonio olivicolo espresso in numero di piante evidenzia che su un totale di 33 milioni di piante presenti nella regione, ben 10 milioni (30% circa) si trovano nel Cosentino. I volumi produttivi medi di olio ottenuto in provincia di Cosenza, per le campagne 2001-2004, sono pari a 371.000 quintali, nettamente inferiori a quelli della provincia di Reggio Calabria ma, in compenso, la percentuale di olio extravergine è ritenuta più elevata. Anche il cospicuo incremento dei volumi di olio extravergine certificato DOP, registrato nelle ultime campagne, testimonia una vivacità e una costante attenzione degli imprenditori verso la qualità e la certificazione. Infine, il recente commercio di olivi secolari, espiantati soprattutto dal Parco dell’olivo secolare di Rossano, e l’incuria dell’uomo e delle amministrazioni locali che recentemente ed eloquentemente hanno interessato esemplari di rara bellezza e di dimensioni monumentali come l’utatarannu di Rossano Scalo esigono una riflessione e l’adozione di norme di tutela del germoplasma olivicolo regionale e nazionale, considerata l’importanza socio-economica, culturale, paesaggistica, ecologica, ambientalistica e di difesa del suolo degli oliveti. Pertanto, sarebbe auspicabile l’adozione di norme analoghe a quelle adottate in altre regioni italiane.

Utatarannu

• A Rossano Scalo, in provincia

di Cosenza, è visibile un olivo monumentale detto utatarannu (il grande padre) che sembra sia stato piantato dai coloni greci in fuga dall’esercito di Ciro il grande

Oliveto nei pressi di Mirto Crosia (CS)

181


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Puglia Antonio Guario, Alfonso Germinario

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Puglia Geografia Oltre la metà del territorio pugliese è da considerarsi pianeggiante, con quote che in genere non superano i 100 metri. La parte collinare raggiunge poco più di 680 metri di altitudine. La montagna è limitata alle diramazioni appenniniche dei monti della Daunia, che si affacciano sul tavoliere.

In sintesi

• L’olivicoltura è arrivata grazie ai

navigatori fenici; furono però i Greci prima e i Romani poi a dare l’impulso decisivo. Determinanti furono nell’alto Medioevo gli ordini religiosi presenti sul territorio. Nel Rinascimento l’olio veniva esportato dalle Repubbliche marinare (Venezia, Genova), dalla Terra Santa all’Impero Ottomano. Le piante plurimillenarie che incontriamo ancora oggi in Puglia ne sono una diretta testimonianza e rappresentano la più viva connotazione paesaggistica di questi territori

Clima L’uniformità del clima temperato-caldo, o più propriamente caldo-arido, favorisce la diffusione della coltivazione dell’olivo, a esclusione di alcune aree del Sub Appennino Dauno o del Gargano, dove le escursioni termiche sono elevate. Altro fattore che favorisce l’esistenza dell’olivo in Puglia è la piovosità, che può variare dai 450 ai 700 mm, con le massime precipitazioni concentrate nel periodo autunno-invernale e le minime in estate. In Puglia, si stima siano coltivati circa 60 milioni di olivi, potremmo dire uno a testa per ogni italiano. La coltivazione dell’olivo, fino ad alcuni decenni fa, era in consociazione con altre specie legnose; in primo luogo vite e mandorlo. In seguito, con l’ampliamento delle aree irrigue, si è specializzata, lasciando luogo, specialmente in alcune zone costiere come Molfetta, Polignano ecc. a consolidata vocazione orticola, a coltura promiscua oliviortaggi.

• La Puglia è terra olivicola per eccellenza

confermando il suo primato in Italia e nel mondo rispettivamente con circa il 40% e il 15% della produzione in olio

• 370.000 ha di superficie coltivata • 240.000 aziende • 1200 frantoi attivi • 250.000 tonnellate di olio prodotto • 5 denominazioni di origine protetta (DOP):

Foto R. Angelini

-D auno: con sottozone Alto e Basso Tavoliere, Gargano e Sub Appennino - T erra di Bari con 3 sottozone (Bitonto, Castel del Monte, Murgia dei Trulli e delle Grotte) - Collina di Brindisi - Terra d’Otranto - Terre Tarentine

• 3 aree di produzione: Foggia, Bari

e Salento, che comprende le province di Lecce, Brindisi e Taranto

• 3 cultivar principali: Coratina, Ogliarola

barese e Cellina di Nardò. Diffuse anche le varietà alloctone Frantoio e Leccino e quelle locali Peranzana, Garganica e Gentile

Distesa di olivi ultrasecolari nella terra tra le propaggini delle Murge e l’Adriatico

182


olivo in Puglia

Foto R. Angelini

Via Appia-Traiana

Puglia olivicola La Puglia è lo storico lembo di terra italiana che si protende verso l’Oriente, già porto di scambi con i traffici del Mediterraneo. Gli antichi Romani riconobbero questa importanza geografica e la dotarono di importanti vie di comunicazione. La via Appia-Traiana è la strada che congiungeva Roma a Brindisi; indelebilmente, l’imperatore Traiano la volle rappresentare con una pianta di olivo quando, per commemorarne la costruzione,

Egnazia venne occupata dai Romani nel III secolo a.C. ed entrò a far parte prima della Repubblica poi dell’Impero

Panoramica aerea di oliveti a Bitonto

Foto R. Angelini

183


paesaggio fece coniare una moneta che sul diritto riproduceva la sua effigie e sul rovescio una ruota a rappresentare la strada, con una fanciulla adagiata reggente un ramo di olivo a indicare l’Apulia. Dopo la caduta dell’Impero Romano, con le invasioni dei Barbari e le scorrerie dei Saraceni si ebbe il declino delle principali attività agricole, compresa l’olivicoltura. La coltivazione si ridusse alle aree circostanti i casali fortificati o i monasteri, scarseggiò nelle zone interne, limitandosi alle aree del Gargano, della costa barese e del Salento, con prevalente coltivazione della varietà detta Nostrana che, con piccole varianti, si riconduce alla cultivar Ogliarola. La scarsa coltivazione di piante arboree, e quindi dell’olivo, rispetto ai seminativi e ai pascoli, era dovuta a un’insana credenza, diffusa durante il regno Aragonese prima e Borbonico dopo, secondo la quale in Puglia, a causa del clima, non sarebbe stato possibile coltivare alberi. Questa credenza fu sconfessata con la soppressione delle leggi feudali e l’assegnazione delle terre quando, con l’unificazione dell’Italia, molte aree furono messe a coltura con i nuovi impianti di olivo, che tuttora possiamo ammirare. La crescente produzione di olive e quindi di olio indusse un nuovo sviluppo economico, incrementando l’industria olearia e il commercio dell’olio. Ciò favorì l’insediamento di grandi famiglie di imprenditori che portarono anche idee innovative. L’esempio più eclatante è quello dell’imprenditore francese Pietro Ravanas, che rese famoso in tutto il mondo l’olio di Bitonto e introdusse per la prima volta in Puglia il frantoio a doppia macina e il torchio idraulico.

Foto R. Angelini

Oliveto secolare con piazzole

Foto A. Marazia

Frantoio oleario ipogeo, Palazzo Granafei (XV sec.) a Gallipoli (LE). Torchio alla calabrese entro cui si spremeva la pasta di prima macinatura detta “mamma”. Ai piedi del torchio si nota il pozzo detto “dell’angelo” in cui discendeva l’olio misto ad acqua di sentina nel corso della spremitura

Antico frantoio ipogeo scavato nella roccia, Ostuni (BR). Masseria Il Frantoio

184


olivo in Puglia Cultivar di olive di Puglia Le varietà di olive che si collocano nel fenotipo della Ogliarola sono le più antiche conosciute e la loro storia si riconduce a quella dell’olivicoltura stessa, diversamente da quanto accade per la varietà Coratina, passata alla notorietà solo di recente, la cui origine è nell’area del Nord Barese. Questa varietà deve il nome alla città di Corato, suo luogo di provenienza, ma è localmente conosciuta come “olivo a racioppe”, prendendo spunto dalla caratteristica botanica di produrre olive a grappoli definite, in dialetto, racioppe. La Puglia, anticamente nota come Puglie, è divisa in tre macroaree: la Capitanata, la Terra di Bari e il Salento. Si analizzano gli aspetti dell’evoluzione storica delle singole macroaree.

Capitanata

Capitanata Diversificato ed eterogeneo si presenta il territorio della Capitanata. A nord lo si riconosce per i lussureggianti oliveti coltivati con l’inconfondibile vaso sanseverese, un sistema di allevamento a forma di cono rovesciato con 2-3 branche quasi orizzontali. Le varietà di olivo che prevalgono in quest’area sono la Peranzana, o Provenzale, e in quantità minore la Rotondella. La cultivar Peranzana è molto ricercata per la sua duplice attitudine a produrre olive per il consumo diretto e per olio extravergine di oliva di pregiata qualità, dalle inconfondibili caratteristiche sensoriali, grazie al profumo di fruttato e al sapore dolce. Questa varietà pare sia stata introdotta nel Medioevo dai coloni francesi quando, provenienti dalla regione della Provenza, con re Carlo D’Angiò, si

Terra di Bari Salento Macroaree interessate dalla coltivazione dell’olivo

Impianto di olivo specializzato nel Sanseverese (FG)

Foto G. Romagnuolo

185


paesaggio stabilirono nel Sub Appennino Dauno, dove ancora oggi rappresentano una minoranza linguistica franco-provenzale. Altra ipotesi vuole che sia stata introdotta nel territorio dauno dalla famiglia feudataria dei principi De Sangro, discendenti dei duchi di Borgogna.

Foto G. Romagnuolo

Cultivar autoctone più rappresentative* Cultivar

Area di coltivazione Provincia di Bari

Coratina Leucocarpa o Bianca

Bitonto, Monopoli, Palo del Colle

Cellina Cima di Mola o Monopoli o Molese

Oliveti sul lago di Varano (FG)

Nella zona orientale della provincia

Nolca

Foto G. Romagnuolo

Mele Ogliarola barese o Paesana o Cima di Bitonto

Nel litorale adriatico

Oliva a ciuccio

Andria

Oliva dolce Pasola Pizzuta Sant’Agostino o Oliva di Andria o Oliva grossa andresana Termite di Bitetto Provincia di Brindisi

Oliveti in Capitanata Foto G. Romagnuolo

Cellina di Nardò Cerasola o Oliva a cerasa

Cisternino

Chiarita o Leucocarpa Corniola Fasola o Passula o Frasola Limona o Limoncella di Fasano Nociara Ogliarola salentina o Oliva marina Coratina Oliva noce o Oliva mele o Annolca o Nolca o Nurca

Coltura collinare garganica

Toscanina o Oliva grappa

186

Fasano


olivo in Puglia Cultivar autoctone più rappresentative* Cultivar

Foto R. Angelini

Area di coltivazione Provincia di Foggia

Coratina o Racioppa di Corato

Cerignola-Ortanova

Leucocarpa o Cannellina

San Severo

Marinese Nasuta Gargano Ogliarola o Nostrale

Gargano

Oliva a ciuccio

San Ferdinando

Bella di Cerignola Peranzana o Provenzale

Olivi consociati a vite

Cerignola San Severo

Foto R. Angelini

Rotondella o Tondina Provincia di Lecce Cellina di Nardò o Asciulo o Cafarella o Casciuto o Muredda o Oliva di Nardò o Saracena o Scurranese Corniola

Alliste, Racale, Gallipoli

Cerasuola Nociara Ogliarola di Lecce o salentina Provincia di Taranto

Olivi consociati a fichi e vite

Cellina Cerasuola o Cerasella o Oliva a ciliegia

Foto R. Angelini

Mottola

Coratina Inchiastra

Massafra, Castellaneta, Crispiano, Faggiano, Grottaglie

Leucocarpa

Crispiano, Massafra, Pulsano

Manna

Mottola, Massafra

Nociara Oliva dolce

Massafra, Castellaneta

Pizzuta Tondina

Olivi e vite

Crispiano, Massafra

* Le cultivar senza zone di diffusione si devono ritenere presenti su tutto il territorio provinciale

187


paesaggio L’area collinare del promontorio garganico è ricoperta da secolari impianti di oliveto a sesto irregolare, formatisi dall’innesto di olivastri selvatici, riconoscibili dal portamento irregolare, caratterizzati dalla prevalente presenza della varietà Ogliarola garganica. Più a sud della Capitanata, nell’area conosciuta come Basso Tavoliere, innumerevoli sono gli impianti di oliveti specializzati, con forma di allevamento e sesto di impianto regolari, a indicare impianti più recenti. In quest’area a coltura specializzata, prevale la cultivar Coratina, tra quelle da olio; spicca invece la presenza di una pregiata varietà da tavola, nota con il nome di Bella di Cerignola o con il sinonimo di Oliva di Spagna, per via dell’ipotesi che a introdurla, intorno al Quattrocento, sia stato il sovrano Alfonso D’Aragona. La drupa di questa varietà si presta a essere lavorata verde con il metodo Sivigliano e “matura” con il metodo Californiano. Nel 1998, la Bella di Cerignola ha ottenuto il riconoscimento a Denominazione di Origine Protetta.

Foto R. Angelini

Castel del Monte, ritrovo di caccia di Federico II, domina dall’alto di un colle disabitato la Terra di Bari

Terra di Bari Nel Nord Barese l’olivicoltura era quasi assente tranne in piccole aree coperte dalla varietà Ogliarola, che successivamente fu reinnestata a Coratina. Si possono ammirare olivi plurisecolari di Ogliarola reinnestati a Coratina, ancora superstiti, ubicati in agro di Andria, nelle contrade Lama di Mucci e Villa Carafa, in agro di Canosa, nelle contrade Santa Aloja e San Leucio, in agro di Barletta, nelle contrade Rasciatano e Santa Maria. Alcune relazioni testimoniano la presenza storica dell’olivo in queste aree; dal

Dolmen della Chianca, nella campagna a sud-est di Bisceglie. È il monumento megalitico meglio conservato della Puglia. Prende il nome dalle “chianche” (lastre in pietra) che lo compongono. Tali materiali costruttivi sono confitti in terra (tre) o sovrapposti (uno) a mo’ di copertura, lasciando comunque un’apertura per la luce con chiaro significato cultuale

Foto R. Angelini

188


olivo in Puglia Foto R. Angelini

Foto M. Curci

Oliveti, mandorli e orticoltura nella Terra di Bari

verbale relativo alla misurazione a compasso della “mezzana di Rasciatano”, datato 1714, si parla del pascolo olivetato in agro di Barletta. Un’altra testimonianza è l’opera di Tommaso Pecori Descrizione di Barletta e suo territorio, datata 1783, che riporta: “Del territorio destinato alla coltura, la maggior parte è addetto a uso di semina (...) Un’altra porzione destinata a coltura è addetta a vigneti, mandorleti, oliveti (...) Gli amandorleti (...) moggia circa 300. Le vigne occupano moggia 4697. Gli oliveti moggia 84” (1

Pianta madre della varietà Ogliarola in agro di Bitonto

Oliveti e masserie in agro di Andria (BA)

Foto R. Angelini

189


paesaggio versura = 4 moggia napoletane). Pertanto a fine Settecento erano coltivati nel solo agro di Barletta appena 26 ettari di oliveto. A Minervino Murge agli inizi del Settecento si contavano 4699 piante di olivo (più o meno corrispondenti a una superficie di circa 50 ettari), di cui 2414 (52%) erano di proprietà del barone feudatario, le restanti erano divise tra 3 ecclesiastici e 2 borghesi viventi di rendita. A Canosa tra il Cinquecento e il Settecento, la coltivazione degli olivi era appena sufficiente a produrre olio per soddisfare il fabbisogno locale, infatti nell’apprezzo del Tabulario del 1694 i canosini erano costretti a importare olio dai paesi vicini.

Foto R. Angelini

Oliva della varietà Coratina. Quanto alla diffusione della varietà Coratina, il merito è di un imprenditore di origini toscane, Raffaele Perfetti, che alla fine del XIX secolo era il proprietario di uno dei maggiori frantoi di Barletta. La famiglia Perfetti era molto addentro al settore oleario; fu feudataria di Cartoceto, noto comune a vocazione olivicola, ubicato nelle Marche in provincia di Pesaro. La conoscenza del settore, unitamente agli interessi economici, portò il Perfetti a sperimentare la varietà di oliva Coratina. Gli interessanti risultati ottenuti necessitavano di un conforto scientifico, fu così interpellato il prof. Girolamo Caruso. Egli era docente di agronomia all’Università di Pisa, si trovava ad Andria in quanto componente della commissione di scienziati costituita dai proff. Cantoni, Zanelli e Giordano che erano in loco

L’autostrada A14 taglia la distesa verde di oliveti nella Terra di Bari

Olivi, muri a secco e trulli sono la composizione tipica della Murgia

Foto R. Angelini

190


olivo in Puglia per esprimere il parere di fattibilità sulla fondazione della colonia agraria di Andria, divenuto in seguito l’Istituto Tecnico Agrario Provinciale. Invitato a Barletta a visitare il fondo dei Perfetti-Cettura, nel settembre del 1872, il prof. Caruso osservò per la prima volta questa varietà e rimase impressionato nel vedere i rami ricurvi sotto il peso delle olive, che si mostravano in tutta la loro bellezza nel contrasto tra il colore verde chiaro delle drupe e il verde scuro delle foglie. Gli fu assicurato che si trattava di una nuova varietà che proveniva da Corato. Il prof. Caruso si ripromise di ritornare l’anno successivo per ulteriori osservazioni. Convinto della validità produttiva della nuova varietà, ne pubblicò per la prima volta nel 1882 la descrizione botanica, con l’illustrazione litografica realizzata dal prof. G.A. Pasquale (Monografia dell’Olivo della Enciclopedia Agraria edita da UTET, diretta dal prof. Gaetano Cantoni). Nella descrizione espresse una sua considerazione: “L’olivo a raciuoppe non è noto abbastanza e merita di essere diffuso per la grande fecondità che possiede”. Queste parole non rimasero inascoltate; il risultato fu la grande diffusione della varietà, che sarà impiantata continuamente, rendendo le province di Bari e di Foggia un enorme mare di olivi. Prima del Caruso sono riportate solo alcune citazione della varietà Coratina. Giovanni Presta ne parla, alla fine del Settecento, nella pubblicazione Memoria intorno ai sessantadue saggi diversi di olio, presentati alla maestà di

Foto R. Angelini

Olivi su terreno “pettinato”

Pianta madre dell’oliva Coratina

• La pianta misura alla ciocca basale

10 m circa di circonferenza. Il tronco centrale negli anni ha perso la sua compattezza e si è diramato in 4 enormi branche. La possibilità di datare l’età della pianta è consentita solo dal confronto con altre piante di cui i documenti storici comprovino l’età. Confrontando l’olivo di Corato con gli olivi dell’orto di Getsemani o con gli olivi della Valle dei Templi di Agrigento, non c’è niente che possa far pensare a un’età inferiore della pianta madre dell’oliva Coratina rispetto alle altre. Molto prudenzialmente si potrebbe affermare che la pianta non abbia meno di mille anni

Pianta madre della varietà Coratina

191


paesaggio Ferdinando IV, re delle Due Sicilie, del 1786, e nella successiva e più corposa opera Degli ulivi e della maniera di cavar l’olio, del 1794. Più risalto è stato dato alla varietà, formulandone una più accurata descrizione, nell’opera Le varietà di olive coltivate in Italia. Primo contributo alla conoscenza delle varietà di olivo per frutto da olio e da tavola coltivate in Italia. La pubblicazione fu stampata nel 1937 a cura della Federazione Nazionale dei Consorzi per l’olivicoltura. Gli autori che descrivono le varietà coltivate nel versante adriatico dell’Italia sono il prof. Pantanelli e il dott. Brandonisio. Nella descrizione evidenziano la feconda produzione di olive distinta per l’aggregazione a grappoli, la difficoltà nell’estrazione dell’olio e la notevole presenza del fruttato che lo rende particolarmente ricercato dai consumatori per il suo doppio uso: quando è giovane e intensamente profumato per tagliare e profumare altri oli e come olio a uso integrale per la mensa quando è maturo. Queste motivazioni spinsero ulteriormente la diffusione della coltivazione dell’oliva Coratina e l’apertura di nuovi opifici. Il particolare olio, ottenuto da questa cultivar, conserva ancora la prerogativa di essere noto come “olio di Andria” per la grande quantità che parte da questa città per essere commercializzata.

Foto M. Curci

Consociazione olivo-orticole tipica della Terra di Bari Vista aerea dell’olivicoltura di Andria

Foto R. Angelini

192


olivo in Puglia Salento I Saraceni, cui la storia attribuisce orribili rovine, sembra che non avessero avuto in disprezzo la coltivazione dei campi e che, anzi, abbiano curato l’olivicoltura. Secondo quanto affermato da Bonaventura da Lama (1724), in due tempi successivi della loro permanenza nel Salento, tra il 769 e il 963, fecero sorgere interi “boschi di olive (...) parte innestarono agli oleastri e parte piantarono (...) dove scorgevano l’aria benigna, spiantate le selve, fecero crescere l’oliveto come si può vedere in tanti luoghi del Salento”. Si adoperarono per far crescere più rigogliosi gli olivi e per inventarsi il modo di spremere le olive e far uscire l’olio dal torchio. Questi invasori barbari e crudeli sono degni di lode per aver introdotto una ricchezza così grande nei campi. Forse anche a loro si deve la propagazione della varietà di oliva Cellina, conosciuta anche con il nome di Saracena, a loro si deve l’introduzione delle giuggiole e dei meloni che in alcuni luoghi del Leccese sono detti saragineschi. È probabile che gli olivi originali non siano giunti a noi, in quanto anche la natura è intervenuta a cambiare il boschivo paesaggio olivicolo del Salento; in una cronaca del 1103 si racconta che “foe una grande carestia de oglio per avire restato sconquassato et destrutto omne territorio de terra d’Otranto”. Altre distruzioni di oliveti furono causate dalle eccezionali nevicate del 1457 e 1468 che “fecero seccare tutte le olive” e dalle alluvioni e dai venti del 1502 e 1523, nonché dagli assedi nei momenti di guerra e dalle crisi di mercato dell’olio che portarono i prezzi della legna a essere più alti e più remunerativi di quelli dell’olio. I maestosi oliveti che vediamo oggi è probabile che siano il risultato degli impianti e degli innesti su olivastri realizzati dai monaci

Tronco di olivo salentino

Verso Noicattaro e Rutigliano l’oliveto lascia lo spazio alle “coperture” dell’uva da tavola

Foto R. Angelini

193


paesaggio basiliani e dalle popolazioni che con loro vennero dal Peloponneso, dalla Morea e dalle isole dell’arcipelago greco. Il ripristino degli oliveti ci è documentato già nel 1525 da fra Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta l’Italia; egli parla della terra d’Otranto ricca di oliveti, vigneti e frutteti, “ben coltivati (…) dando gran piacere a riguardarli”. Di Brindisi, l’Alberti riferisce, “fra l’altre cose produce tanto olio, che pare cosa indescrivibile a chi non averà veduto le grandi selve di olivi che vi sono”. Le grosse produzioni di olio del Salento erano esportate dai mercanti veneziani che gestivano le rade di Castro e che si erano stabiliti a Lecce già dal Quattrocento, mentre dal porto di Gallipoli partivano navi di olio dei mercanti genovesi. Interessanti sono le notizie sul modo usato anticamente di ricevere, misurare e imbarcare l’olio al porto di Gallipoli. L’olio veniva misurato nei vasi di rame però, verso la fine del XV e il principio del XVI secolo, dai regnanti dell’epoca fu concesso di far uso dei vasi di creta. Il computo dell’olio consegnato dai produttori ai negozianti si faceva a “salma misura di magazzino” del peso di 175 rotoli; la salma era divisa in 10 staia, lo “staio” in due “mine”, la “mina” in 16 “pignatelle”. Per la vendita al minuto la “pignatella” si ripartiva in 6 piccole “misure”. L’olio acquistato dai negozianti veniva versato nelle “posture” ricordate da Gabriele d’Annunzio nella beffa di Buccari, scavi sotterranei per lo più a base quadrata, ora rivestite di mattoni ora a pareti nude, della capacità variabile da 20 fino a 400 salme, tutte però munite di un segno interno chiamato “nizzo” indicante il limite al quale doveva giungere il livello del liquido.

Foto R. Angelini

Gli olivi circondano il fiabesco paese dei trulli di Alberobello

Gallipoli, porto da cui partivano le navi di olio dei mercanti genovesi

Foto R. Angelini

194


olivo in Puglia Foto R. Angelini

Oliveti nel Salento

Per il caricamento sui velieri, l’olio veniva fatto passare per le “regie pile”, in numero di 4, due dette “le prime” e due dette “le seconde”, ciascuna della capienza di 11 “salme di caricamento” anticamente in pietra leccese e poi rifatte, nel 1806, in marmo, a spese dei negozianti. I facchini al servizio dei negozianti prendevano il nome di “curatolo” il primo e “sottocuratoli” gli altri; “vende” si chiamavano le squadre di operai che trasportavano l’olio dai magazzini al caricamento, alla cui misura accudiva un facchino nominato dalla dogana. Estratto l’olio chiaro dalle “posture”, i sottami venivano cotti in caldaie oppure riposti in recipienti di creta e introdotti nei comuni

Olivo secolare nel Salento

Giovane oliveto nel Salento

Foto G. Romagnuolo

195


paesaggio forni da pane, da cui si otteneva il “raffinato” o “morchioso-cotto” per saponeria. I residui della cottura, “mamme”, si tornavano a cuocere per ottenere del ricotto più scadente. Il commercio si poteva effettuare solo per via marittima a causa delle disastrose condizioni della viabilità stradale di allora, ciò consentiva di controllare tutti i traffici e di poter gestire gli aggravi fiscali. Infatti il governatore di Gallipoli, per l’olio destinato fuori dal regno, nel 1694 stabilì per decreto che si doveva pagare un diritto di 12 o 16 ducati a “soma” a seconda che fosse esportato dai negozianti napoletani privilegiati o da negozianti non privilegiati. Nel 1766, l’olio che s’imbarcava da Gallipoli era gravato da un diritto di estrazione pari al 50 per cento del prezzo corrente di mercato in modo che, al prezzo di 12-13 ducati, si dovevano pagare al re 5 ducati. Il pagamento del Jus exiturae, che si esigeva a soma di olio esportato, si ritiene sia stato imposto per la prima volta da Federico II di Svevia, verso l’anno 1220. Questo ci documenta come la Puglia abbia dato un ampio contributo economico al commercio dell’olio. Nel Seicento l’olivicoltura e la produzione di olio diventarono la principale fonte di entrata economica delle popolazioni salentine, tanto che la coltivazione era regolamentata da leggi che tutelavano l’integrità del capitale arboreo per incrementarne la produttività. Le imposte e i vincoli non erano i soli problemi degli olivicoltori dell’epoca, le difficoltà erano ancora più gravi a causa dei baroni che, arrogandosi una sorta di presunto diritto universale, esercitavano in modo esclusivo la molitura delle olive. Essendo vietata ogni libertà nell’esercizio dei frantoi, le olive che si raccoglievano, qualche volta fino al tardo inverno, dovevano essere depositate negli insufficienti depositi dei trappeti feudali, nelle “giave” o “camini”, e lì rimanevano per mesi e mesi a marcire in attesa del turno

Foto R. Angelini

Olivi intorno a Locorotondo

La “bianca” Ostuni contrasta con la distesa di olivi che arriva fino al mare

Foto R. Angelini

196


olivo in Puglia di molitura e, data la cattiva qualità dell’olio che ne derivava, la destinazione del prodotto era unicamente la saponeria. Maggiormente, le annate di piena, invece che portare gioia, si trasformavano in disgrazia. Le condizioni degli olivicoltori si aggravarono ulteriormente nel periodo napoleonico, durante il quale furono sospese le attività commerciali e il prezzo dell’olio precipitò a tal punto da non compensare neanche le spese per la coltivazione dell’olivo. Le olive si lasciarono marcire a terra e moltissimi alberi furono abbattuti per ricavarne legna. Una ripresa si ebbe con l’abolizione delle leggi feudali nel 1806 quando il feudatario venne sostituito con il padrone e il vassallo con il mezzadro o compartecipante e si avviò una nuova fase di trasformazioni e messa a coltura di oliveti con alberi ben disposti a filari regolari e ben distanziati. La liberalizzazione a creare nuovi frantoi permise di raddoppiarne il numero e quindi migliorare la qualità dell’olio. Dal 1870 in poi si ebbe il grande movimento di colonizzazione delle terre con l’impianto di estesi oliveti grazie alla capacità di adattamento delle piante ai terreni rocciosi e alla loro limitata necessità di cure colturali durante le calure estive. In quel periodo di grandi trasformazioni cominciano a distinguersi le diverse produzioni pugliesi; l’olio salentino per quattro quinti era impiegato per l’industria laniera, per la fabbricazione dei saponi, per l’illuminazione e per tale utilizzo era molto ricercato e pagato più degli oli della Terra di Bari. Per impedire che i prodotti di diversa provenienza potessero con la frode imbarcarsi da Gallipoli come olio salentino, fu emanato il Regio decreto del 12 dicembre 1844 che faceva obbligo a tutti i carichi di essere accompagnati da un certificato di origine.

Tronco scolpito nel Salento

Oliveti nel Salento

Foto R. Angelini

197


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Basilicata Antonio Rotundo,

Claudia Cantile

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Basilicata L’olivicoltura lucana ha origini antichissime. Numerosi reperti archeologici del VI secolo a.C. (resti di legno, frutti, foglie e noccioli) rinvenuti in località Pantanello di Metaponto e un frantoio del IV secolo a.C. all’interno di un contesto rurale, scoperto in località Sant’Antonio Abate sul pendio meridionale di Ferrandina, testimoniano la coltivazione dell’olivo sin dai tempi della Magna Grecia. Attualmente la coltura dell’olivo è diffusa su oltre l’85% del territorio regionale e si caratterizza per la ricchezza del germoplasma autoctono e per le peculiari caratteristiche qualitative degli oli. In particolare il comparto olivicolo lucano interessa oltre 31.000 ha, dei quali circa il 60% in provincia di Matera e il restante 40% in quella di Potenza, per un patrimonio di oltre 5 milioni di piante. La coltivazione è diffusa in collina e in montagna, ove svolge non solo un ruolo produttivo ma anche di difesa dell’ambiente e del suolo da erosione e smottamenti. Le produzioni nelle annate di carica possono superare i 500.000 q, che rappresentano oltre il 6% della P.L.V. agricola regionale e il 2% circa di quella nazionale. Pur diffusa in quasi tutti i comuni, la coltivazione è concentrata in cinque ampi areali, che si differenziano per caratteristiche pedoclimatiche e per presenza di cultivar autoctone di notevole pregio, oltre trenta quelle finora recuperate dall’Università della Basilicata.

Olivicoltura in Basilicata

• Di particolare interesse storico per

l’olivicoltura lucana è la scoperta di un frantoio, risalente al IV secolo a.C., in località Sant’Antonio Abate, situata all’ingresso principale di Ferrandina, ove sono state trovate le due basi per le presse, canalette per il deflusso dei residui dell’olio e la cella olearia per il conferimento del prodotto. Il frantoio testimonia così la presenza della coltura dell’olivo e la conoscenza di tecniche olearie di età greca e lucana

Vulture

Melandro

Colline Materane Medio Agri Basento

Areale delle colline materane Geografia. Occupa un’ampia superficie della provincia di Matera, prossima alla regione Puglia. Attraversata per la maggior parte dal fiume Bradano, ha il suo epicentro nel lago artificiale di San Giuliano.

Pollino

Foto R. Scattino

Aree vocate all’olivicoltura

Frantoio del IV secolo a.C. scoperto a Ferrandina e particolare (a sinistra)

198


olivo in Basilicata

In sintesi

• Stretta fra 3 colossi olivicoli (Puglia, Calabria e Campania), la Basilicata si caratterizza per climi, suoli e paesaggi diversi fra loro

• Anticamente chiamata Lucania, era

Rotondella

il collegamento tra le colline della Magna Grecia e le città etrusco-italiche. Dopo la caduta dei Bizantini, la coltura dell’olivo ebbe nuovo impulso con i monaci basiliani che necessitavano di olio per celebrare il culto cristiano

Ogliarola del Bradano

• 31.000 ettari a oliveto • 180 frantoi • 40.000 aziende • 50.000 tonnellate di olio • Aree vocate sono il bacino

Il fiume Basento, poi, lo delimita a sud e lo separa dall’areale del Medio Agri-Basento. Le acque dell’invaso contribuiscono all’irrigazione degli oliveti del Metapontino, specie nel periodo estivo, caratterizzato da temperature elevate e periodi di siccità prolungata. Caratteri generali del clima. L’areale è distinto da temperature medie annue tendenzialmente calde (16 °C circa), sostenute da un periodo invernale relativamente mite con rari abbassamenti termici inferiori a 0 °C e scarse gelate primaverili. Il periodo estivo è caldo (con punte superiori a 38 °C). La piovosità media annua risulta pari a circa 410 mm, con due picchi nei mesi invernali e primaverili. Precipitazioni torrenziali concentrate in poche ore si alternano a lunghi periodi di siccità, determinando talora gravi danni all’ambiente con smottamenti e frane.

pedemontano del Vulture, le valli del Bradano e del Basento, sulla costa ionica e tirrenica

Veduta del lago artificiale di San Giuliano

199


paesaggio Ambiente di coltivazione e caratteristiche dei suoli. Il territorio, prevalentemente collinare, presenta anche aree pianeggianti, per lo più fondovalle, con versanti costituiti da argille azzurre plioceniche, a elevata erodibilità e soggette agli attacchi degli agenti esogeni. I terreni olivetati sono argillo-sabbiosi, con pH subalcalino, basso livello di sostanza organica e di azoto totale, probabilmente per fenomeni di degradazione determinati anche dalle alte temperature estive; mediamente dotati di calcio scambiabile.

Areali olivicoli lucani e relative cultivar autoctone

• Colline materane: Dipoppo, Ghiannara, Nociara, Ogliarola del Bradano

• Medio Agri-Basento: Augellina, Justa, Maiatica di Ferrandina

• Melandro: Cornacchiola, Ficatara, Oglia,

Cultivar. La cultivar più diffusa è l’Ogliarola del Bradano, presente in oltre il 50% negli oliveti tradizionali e in quelli più recenti. Dotata di buona vigoria, è molto produttiva, pur se tende ad alternare. L’inolizione è elevata; l’epoca di maturazione medio-precoce. È apprezzata per le caratteristiche organolettiche degli oli. Meritevole di ulteriore espansione. Buona la resistenza a stress abiotici; discreta invece quella per mosca (Bactrocera oleae), rogna (Pseudomonas savastanoi) e occhio di pavone (Spilocaea oleagina).

Ogliastred, Romanella

• Pollino: Carpinegna, Faresana, Sammartinegna, Spinoso

• Vulture: Acerenza, Cannellina, Cima

di Melfi, Fasolina, Fasolona, Lardaia, Ogliarola del Vulture, Olivo da mensa, Orazio, Palmarola, Provenzale, Racioppa, Roma, Rotondella, Russulella, Scarpetta

Caratteristiche dell’olio. Olio di ottima qualità, presenta elevati tenori in fenoli totali e medi contenuti in acido oleico. Trattasi di un olio armonico dal fruttato intenso, di tipo verde tendente al maturo, con sentori di erba, carciofo e foglia di olivo. Al gusto, presenza rilevante e armoniosa di dolce e piccante e buon amaro. Adeguato il rapporto acidi insaturi/saturi.

Lavorazioni superficiali al terreno, spesso superflue e invasive, contribuiscono a peggiorare lo stato dei luoghi e facilitano l’incedere della desertificazione ambientale

200


olivo in Basilicata Areale del Melandro Geografia. È il più piccolo dei cinque areali, compreso per intero nella provincia di Potenza. Dagli altopiani di Picerno (600-700 m s.l.m.) si spinge fino a valle (250-300 m) ove si ricongiunge con gli oliveti della contigua provincia di Salerno. Caratteri generali del clima. Il clima di tipo continentale si caratterizza per avere temperature medie annue pari a 12,8 °C, con inverni rigidi e nevosi, ed estati relativamente fresche, con temperature che raramente superano i 30 °C. La piovosità media annua risulta di 631 mm, con due picchi nei mesi invernali (dicembregennaio) e primaverili (marzo-aprile). Ambiente di coltivazione e caratteristiche dei suoli. Il territorio, molto vario, alterna aree collinari a zone montuose. I suoli sono tendenzialmente alcalini, poveri in scheletro, di natura argillo-sabbiosa, di media fertilità, anche se con un basso tenore in calcare attivo. Gli oliveti occupano ampie fasce collinari e presentano caratteristici terrazzamenti, con argini inerbiti, nelle aree a maggiore pendenza.

Romanella

Cultivar. La Romanella è la cultivar più diffusa. Utilizzata prevalentemente per la produzione di olio, è caratterizzata da media vigoria e costante produttività. I frutti presentano una resa in olio elevata, raggiunta anche a parziale invaiatura delle drupe. Per tale caratteristica la raccolta viene effettuata precocemente entro la prima decade di novembre. Ciò consente di prevenire possibili

Olivi in un’azienda sperimentale Giovani impianti di olivo in prossimità dell’invaso di Rendina presente nell’areale del Vulture-Melfese

201


paesaggio danni alle drupe e/o perdite di prodotto per eventuali attacchi da mosca. Si distingue per una buona resistenza a stress abiotici; sensibile invece a mosca e rogna. Caratteristiche dell’olio. Interessanti le caratteristiche compositive e sensoriali dell’olio. È un prodotto a elevato contenuto in acido oleico e con rapporto acidi grassi insaturi/acidi grassi saturi interessante. I fenoli si mantengono su valori medi. L’olio, dal fruttato medio-leggero di tipo maturo, si distingue per una presenza persistente di dolce e piccante. Molto richiesto da consumatori extra regionali. Areale del Vulture Geografia. È il più importante degli areali olivicoli lucani, sia per produzioni sia per presenza di cultivar autoctone. Occupa i territori più settentrionali della provincia di Potenza. È delimitato a nord-ovest dall’Appennino meridionale e a sud-est dalle pianure pugliesi. Si caratterizza per la presenza di numerose colline alternate ad ampi areali di ridotta pendenza. Insieme alla vite, la coltivazione dell’olivo trova in tale area la sua migliore espressione vegeto-produttiva. I vigneti e gli oliveti consentono rispettivamente di produrre un vino, Aglianico del Vulture, fra i più rinomati a DOC italiani e oli di eccellente qualità, legati al territorio per tipicità strutturale, per tradizione, cultura e storia.

Ogliarola del Vulture

Caratteri generali del clima. Il clima è di tipo continentale, con temperature medie annue di poco superiori ai 13 °C e un periodo

Cima di Melfi

Nell’areale del Vulture sono presenti vecchi oliveti (sopra) con densità molto basse (100 piante circa a ettaro) e impianti recenti con sesti pari a 5×5 m dotati di impianti di irrigazione e con forme di allevamento, prevalentemente a vaso policonico, adeguate alla raccolta meccanica delle drupe (a sinistra)

202


olivo in Basilicata invernale relativamente freddo ( 5-6 °C, dicembre-febbraio) caratterizzato da sensibili abbassamenti termici, talora inferiori a –6 °C. Sporadiche le gelate primaverili. La piovosità media annua risulta intorno a 730 mm, con due picchi, di cui uno ampio nei mesi invernali e un secondo in aprile; breve periodo di aridità nei mesi di luglio e agosto.

Lagane cu la middìa (mollica)

• Ingredienti: lagane (pasta fatta in

casa) o bucatini, aglio, olio di oliva del Vulture, acciughe o in alternativa uvetta e mandorle tritate, peperoncino, mollica seccata e sbriciolata, prezzemolo

Ambiente di coltivazione e caratteristiche dei suoli. Il terreno è prevalentemente di origine vulcanica, particolarmente vocato alla coltura dell’olivo, ma anche della vite e del castagno, diffuse nell’areale. Il sottosuolo è ricco di acque minerali rinomate non solo in Italia ma anche all’estero. Il pH è neutro; solo in aree molto dilavate si trovano suoli con pH <7. Il suolo può ritenersi fertile, di medio impasto, con modeste quantità di azoto totale, ma con buoni livelli sia di fosforo assimilabile sia di calcio e potassio scambiabili.

• Preparazione: soffriggere l’olio

con l’aglio (che poi va tolto), un peperoncino spezzettato e le acciughe o uvetta e mandorle. Tostare il tutto per pochi istanti. Lessare le lagane e sistemarle in porzioni nei piatti. Versare il soffritto, mescolare bene e servire ben caldo. Innaffiare con Aglianico del Vulture invecchiato

Cultivar. Molte e interessanti le cultivar autoctone presenti in tale ambiente; di esse le più diffuse e caratteristiche sono l’Ogliarola del Vulture e la Cima di Melfi. – Ogliarola del Vulture è la cultivar più diffusa e interessante del Vulture, presente in oltre il 60% degli oliveti in coltura specializzata. Nel disciplinare della DOP Vulture, in corso di approvazione, viene indicata come la varietà più importante e caratterizzante. È cultivar da olio, di media vigoria, buona produttività, ma con tendenza ad alternare. Le drupe sono caratterizzate da elevata resa in olio e destinate in massima parte all’oleificazione. È antica con-

Oliveto in provincia di Potenza

203


paesaggio suetudine destinare i frutti più grossi e ben maturi all’essiccazione e consumarli quali olive da friggere. L’inolizione precoce ne consiglia la raccolta tra la prima e la seconda decade di novembre. Ottima la resistenza a stress abiotici; sensibile a mosca e a rogna. L’olio è caratterizzato da un buon tenore in acido oleico e presenta apprezzabili livelli in fenoli totali, specie se ottenuto da olive raccolte a invaiatura appena iniziata. Dal fruttato medio di tipo maturo si presenta al gusto tendenzialmente dolce, con amaro leggero e piccante persistente. – Cima di Melfi è cultivar da olio, mediamente vigorosa, consigliabile per impianti intensivi e forme di allevamento a vaso e/o monocono. Entra precocemente in produzione e si distingue per produttività buona e costante. Drupe di peso medio, caratterizzate da alta resa in olio. L’epoca di raccolta è media; per l’ottenimento di oli di buona qualità si consiglia di raccogliere i frutti a invaiatura appena iniziata. Buona la resistenza a stress abiotici; sensibile alla mosca, parzialmente resistente a rogna e occhio di pavone. L’olio si presenta con un elevato contenuto in acido oleico e mediamente dotato in fenoli totali. Si tratta di un prodotto dal fruttato di tipo verde, con sapore di amaro e piccante gradevole, specie se ottenuto da olive appena invaiate. Per le sue caratteristiche sensoriali e compositive viene considerato un olio di qualità, meritevole di essere commercialmente valorizzato.

IGT Peperone di Senise (peperoni verdi o rossi essiccati e macinati) utilizzato in piatti tipici lucani unitamente all’olio di Faresana

Invaso di Monte Cotugno, la più grande diga in terra battuta d’Europa creata per ottenere un’enorme riserva d’acqua, utilizzabile per uso potabile e per l’irrigazione di vaste aree agricole in territorio lucano e pugliese

Areale del Pollino Geografia. È compreso per la sua totalità nel Parco Nazionale del Pollino, il più grande Parco naturale d’Europa.

204


olivo in Basilicata L’area a prevalente vocazione olivicola ricade in massima parte nella parte mediana del Bacino idrografico del fiume Sinni e per la restante parte in quella del torrente Serropotamo e del fiume Sarmento. Il territorio comunale e l’invaso del Monte Cotugno, una delle più estese dighe in terra battuta del continente europeo, ne costituiscono l’epicentro. L’olivo rappresenta la coltura arborea preminente, seguita da vite, fico e altri fruttiferi. Presenti le colture orticole come fagiolo e peperone. Caratteri generali del clima. Il clima è caratterizzato da temperature medie annue pari a circa 16 °C. Gli inverni, nel complesso freschi, presentano temperature che si abbassano fino a sfiorare i –7, –8 °C e frequenti precipitazioni nevose. Il periodo estivo è relativamente caldo, con temperature che possono raggiungere valori prossimi ai 40 °C. La piovosità media annua risulta pari a circa 520 mm, concentrata nei mesi autunno-invernali e primaverili. Siccitoso, invece, il periodo estivo. Ambiente di coltivazione e caratteristiche dei suoli. Nell’area convivono due distinte dominanti morfologiche: un’area collinare e un’altra montuosa. Di particolare interesse è quella collinare, che comprende la maggior parte dei terreni destinati alla coltura dell’olivo. Non meno importanti rimangono in tale area gli altopiani e i pianori prospicienti il lago artificiale di Monte Cotugno, ove accanto ai terreni destinati alle coltivazioni ortive (per la maggior parte peperone) sono sorti nuovi impianti di olivo. I suoli sono generalmente neutri, argillo-sabbiosi, con discreta fertilità e carenza in azoto, dovuta a basso contenuto in sostanza organica.

205


paesaggio Cultivar. La cultivar Faresana è la più antica e diffusa in tale areale. A duplice attitudine, di buona vigoria, altamente produttiva e tendenzialmente alternante, specie se la raccolta viene posticipata per destinare i frutti all’essiccazione o alla salamoia secondo il metodo greco. I frutti sono di buona pezzatura, con un buon rapporto polpa/nocciolo. L’inolizione procede con una certa lentezza, per cui la raccolta viene spesso effettuata verso la fine del mese di novembre. Presenta buon adattamento ai climi temperato-caldi. Meritevole di estendere la sua presenza in ambito regionale ed extra regionale. Caratteristiche dell’olio. L’olio prodotto da olive faresane si caratterizza per l’elevato contenuto in acido oleico, fenoli totali lievemente contenuti e basso tenore del numero di perossidi. Al gusto si presenta come fruttato medio con persistenti toni di amaro e piccante, ma comunque gradevoli. Apprezzato per gli accoppiamenti con produzioni tipiche locali. È un olio che possiede tutte le caratteristiche per essere definito dalle grandi potenzialità. Le caratteristiche intrinseche della varietà e l’ambiente ne esaltano qualità e gradevolezza.

La cultivar Faresana ha origine autoctona, da quello che Rocco Scotellaro chiamava il “mondo dei padri”, differenziandosi per le sue piante secolari, il colore caratteristico della drupa, la fragranza dell’olio, il sapore che sapeva conferire al cibo delle genti locali

Areale del Medio Agri-Basento Geografia. Occupa la parte centro-meridionale della Basilicata. Ha in Ferrandina e comuni limitrofi il centro di maggiore interesse. I fiumi Basento e Agri lo attraversano segnandone i contorni. Caratteri generali del clima. È caratterizzato da temperature medie annue superiori ai 16 °C e piovosità media annua pari a circa

Oliveti nella parte centro-meridionale della Basilicata

206


olivo in Basilicata 500 mm; agosto è il mese più caldo e più arido, gennaio il più freddo e dicembre quello con maggiore quantità di pioggia (oltre 80 mm). Ambiente di coltivazione e caratteristiche dei suoli. L’assetto geomorfologico di quest’area risulta particolarmente instabile, a causa dell’erosione dei versanti calanchivi. I terreni, tendenzialmente argillo-sabbiosi, presentano pH neutro-alcalino, basso livello di sostanza organica e di azoto totale, anche per effetto di fenomeni di degradazione dovuti alle alte temperature estive, talora prossime ai 40 °C. Cultivar. È la Maiatica di Ferrandina la cultivar più diffusa in tale areale. Coltivata anche in ambiti extraregionali, occupa nel comune di Ferrandina oltre 1600 ha in coltura specializzata con una produzione annua di circa 70.000 q. Di questi, il 4-5% viene destinato al consumo diretto come olive infornate. Mediamente ogni anno vengono prodotti circa 1000 q di prodotto essiccato. La pianta è mediamente vigorosa, a portamento assurgente, con infiorescenze di medio sviluppo e aborto dell’ovario pari a circa 30%, praticamente autofertile. Entra precocemente in produzione e mantiene una produttività costante nel tempo; tende ad alternare allorché i frutti destinati all’essiccazione vengono raccolti tardivamente. La maturazione delle drupe è scalare e tardiva. L’epoca ottimale di raccolta per l’oleificazione coincide con la fine di novembre, allorché i frutti sono parzialmente invaiati. Per le drupe da destinare all’essiccazione, la raccolta si protrae anche fino al mese di febbraio, selezionando a mano i frutti maturi e in ottimo stato di conservazione, privi essenzialmente da punture di mosca.

Paesaggi caratteristici in Basilicata

207


paesaggio La pianta presenta buona resistenza a stress abiotici; suscettibile però alla mosca, alla rogna e all’occhio di pavone. Basilicata e DOP

Caratteristiche degli oli e delle olive infornate. L’olio ottenuto da olive maiatiche presenta caratteristiche sensoriali e compositive nel complesso apprezzabili. Trattasi di un olio dal fruttato di intensità medio-leggera; al gusto la sensazione di dolce è rilevante e persistente, mentre l’intensità del piccante è lieve. Considerevole il contenuto in acido oleico (75% circa), elevato quello dell’acido linoleico. Medio-basso il valore dei fenoli totali. Nel complesso è da ritenere un olio di buona qualità, tant’è che, oltre che al consumo locale, viene destinato con notevole successo a quello extra regionale. La denominazione protetta potrebbe concorrere a valorizzarne e migliorarne la diffusione. La preparazione dei frutti essiccati in forno risale a epoche remote. Le prime testimonianze sono del 1700, mentre è tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo che sorsero a Ferrandina iniziative artigianali che contribuirono a diffondere e accreditare l’oliva maiatica infornata fuori della sua zona di origine, su tutto il territorio nazionale e anche all’estero (Stati Uniti, Regno Unito, Francia). Nel 1937 si ha la prima descrizione del ciclo di lavorazione dell’oliva essiccata di Ferrandina. La cultivar era in quei tempi la più coltivata della regione e, per l’essiccamento dei frutti, erano in attività, nel solo comune di Ferrandina, 21 forni di cui 6 importati dalla Germania. Nonostante successivi contributi volti a migliorare il ciclo della lavorazione, la produzione rimane ancora legata a tecniche artigianali. Sul ciclo produttivo gravano diffi-

• Allo stato attuale la Basilicata

non dispone di oli DOP. È prossima la certificazione della DOP Vulture, mentre sono ancora nelle fasi iniziali quelle relative alle DOP Lucania e IGT Ferrandina per le olive infornate della cultivar Maiatica

208


olivo in Basilicata coltà dovute all’elevato costo della raccolta e selezione manuale delle drupe da destinare all’essiccazione, nonché ai limitati quantitativi di frutti da lavorare nelle annate di scarica e in quelle con diffusi attacchi di mosca. Il metodo attuale di preparazione delle olive infornate prevede diverse fasi per le quali è richiesto un elevato contributo di manodopera, prevalentemente femminile, sia nella fase di raccolta sia in quella di selezione delle drupe e confezionamento. Per le olive nere essiccate di Ferrandina è in corso il riconoscimento europeo della IGT. Il ciclo di produzione ha inizio nel mese di dicembre e continua fino a tutto il mese di febbraio. La raccolta delle olive completamente invaiate deve essere eseguita manualmente tramite brucaturapettinatura, o meccanicamente con agevolatrici o scuotitori e con l’ausilio di reti. Il metodo di preparazione delle olive prevede le seguenti fasi: – selezione delle olive mature e sane; – lavaggio in acqua; – scottatura in acqua a circa 90 °C per tre minuti; – salagione mediante aggiunta di sale (2%) per la durata di 36-72 ore; – essiccazione su graticci in forni a circolazione d’aria forzata con temperatura di 50 °C per circa 36-48 ore; – eliminazione del sale in eccesso presente sulle drupe mediante scuotimento e cernita; – selezione finale manuale o automatica delle olive; –c onfezionamento.

Abbinamento olive nere-cibo: penne alle olive nere

• È l’olio che consente alla pasta

di aggregare i pregi delle produzioni orticole locali con le acciughe del mar Ionio, ma sono le olive nere infornate e snocciolate che danno un tocco di grazia a un piatto povero ma molto caratteristico

• Scaldare l’olio con aglio e far

soffriggere il peperone, consigliabile quello di Senise, tagliato a quadrucci. Aggiungere poi le olive snocciolate, le acciughe e pomodori di orto a pezzetti. Far cuocere per circa 10 minuti e insaporire con sale e peperoncino, aggiungendo ½ bicchiere di vino rosso Aglianico. A parte cuocere la pasta lunga o corta, saltarla poi in padella con il sughetto, aggiungere qualche foglia odorosa di basilico, mescolare e servire

209


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Campania Claudio Di Vaio, Antonio Rotundo

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Campania Introduzione La coltivazione dell’olivo in Campania vanta una storia millenaria. La diffusione è attribuita a Fenici e Greci, presso i quali gli olivi erano coltivati non solo per la produzione di olio alimentare, ma, soprattutto, per l’illuminazione, per ricavarne unguenti e profumi e per accendere lampade votive in omaggio alle divinità. Testimonianze della presenza dell’olivo in Campania in epoca romana si hanno negli scavi di Pompei ove sono stati ritrovati reperti di olive carbonizzate, noccioli e foglie, oltre a bottiglie di vetro contenenti olio e numerose lucerne fittili (Pompei, Termopolio di Asellina). Raramente l’olivo o le olive figurano nei dipinti delle case romane di Pompei ed Ercolano; tuttavia, due famose coppe d’argento ornate da rami con foglie e frutti di olivo sono state ritrovate nella casa del Menandro a Pompei. Numerosi sono i dolii ritrovati nell’area vesuviana contenenti oli, mentre annessa alla Villa della Pianella (Boscoreale, NA) è stato rinvenuto un frantoio d’epoca romana (trapetum). Nel Cilento recenti ricerche archeo-botaniche hanno documentato la presenza dell’olivo già nel VI secolo a.C.; la tradizione vuole che le prime piante siano state introdotte dai Focesi. L’olivo era certamente presente tra i templi di Paestum e le rovine di Velia. In Campania, poi, è facile imbattersi in olivi secolari; nel Salernitano, in particolare, sono stati individuati esemplari millenari attribuibili alle varietà Pisciottana e Rotondella. Oggi, in Campania l’olivo è diffuso su gran parte del territorio regionale, occupando circa 70.000 ettari, prevalentemente nelle aree interne, collinari, dove rappresenta anche un elemento di forte caratterizzazione

Bottiglia di vetro contenente olio rinvenuta a Pompei

Frutti della cultivar Olivo da olio Introdotto dai Focesi, l’olivo era già presente tra i templi di Paestum

Foto R. Angelini

210


olivo in Campania del paesaggio. La Campania, con il 7,5% del totale della superficie nazionale, si colloca al sesto posto tra le regioni italiane per superficie olivetata, a cui corrisponde un patrimonio olivicolo di oltre 8,5 milioni di piante. Gran parte dell’olivicoltura si trova in provincia di Salerno, che da sola rappresenta il 58% del totale regionale, seguita da Benevento con il 20%, da Avellino, Caserta e Napoli. La coltivazione dell’olivo è presente prevalentemente in collina (75%) e per il 21% in montagna, mentre solo per il 4% è localizzata in pianura, svolgendo, così, oltre a un ruolo produttivo, una funzione di salvaguardia e difesa del territorio. La produzione media supera di poco i 2.000.000 di quintali di olive, pari a circa il 6% del totale nazionale. Uno degli elementi che caratterizza e qualifica l’olivicoltura campana è l’ampio patrimonio genetico, con oltre 60 accessioni presenti sul territorio. L’olivicoltura campana, grazie all’ampio patrimonio varietale e alle condizioni climatiche favorevoli, è in grado di produrre oli di eccellente qualità e spiccata tipicità. Attualmente si fregia di tre Denominazioni di Origine Protetta (DOP), Penisola Sorrentina, Cilento e Colline Salernitane, alle quali dovrebbero seguirne altre.

In sintesi

• Fin dal tempo dei Romani la Campania

Felix produceva, oltre ai vini, oli di pregio, tradizione che, come per altre regioni meridionali, risaliva ai coloni greci

• 70.000 ettari coltivati • 8,5 milioni di piante • oltre 2 milioni di quintali di olive • 80.000 aziende • 555 frantoi attivi • La coltivazione dell’olivo è presente

in collina (75%) e in montagna (21%), mentre solo il 4% è localizzato in pianura

• L’olivicoltura è presente in provincia

di Salerno (58%), Benevento (20%) e poi ad Avellino, Caserta e Napoli

DOP Penisola Sorrentina L’olivicoltura della provincia di Napoli si identifica, in massima parte, con l’area della Penisola Sorrentina. In questa zona, infatti, l’olivo ricopre vasti territori, spesso lunghe terrazze che costituiscono da sempre parte integrante della bellezza paesaggistica della costiera. I comuni di Vico Equense, Sorrento, Massa Lubrense comprendono il 70% degli oliveti dell’intera Penisola. Interessa oltre 4000 aziende con circa 1500 ettari di superficie coltivata

• 3 le DOP:

- Penisola Sorrentina, che comprende oli prodotti in provincia di Napoli, Sorrento e Capri e parte di Castellammare di Stabia - Cilento - Colline Salernitane A queste dovrebbero seguirne in futuro altre

Foto R. Angelini

• Tra le cultivar: Pisciottana, Rotondella,

Carpellese e Salella nel Salernitano, Ortice, Ortolana e Raciottella in provincia di Benevento, Ravece nell’Avellinese, Caiazzana e Tonda nella provincia di Caserta e Olivo da olio nella Penisola Sorrentina. Oltre 60 sono le cultivar autoctone che costituiscono il patrimonio varietale insieme a cultivar di pregio importate da altre regioni

Vista del Golfo di Napoli dalla Penisola Sorrentina

211


paesaggio e una produzione media pari a 84.000 q di olive. Pur trattandosi di una produzione non elevata, il notevole flusso turistico, unito a un’antica tradizione commerciale, contribuisce a valorizzare questi oli da sempre apprezzati e qualificati. La Penisola Sorrentina delimita il Golfo di Napoli e si protende, lunga e sottile, fra lo stesso e il Golfo di Salerno. Appare essenzialmente come un’area aspramente montuosa, con il culmine a 1500 m s.l.m. in cima al Monte Sant’Angelo ai Tre Pizzi. È possibile distinguere tre zone a diversa altimetria: la zona di montagna, coperta da castagneti e in parte coltivata a vite e olivo; la zona di collina, con i comuni di Meta, Piano di Sorrento, Sant’Angelo, Sorrento, Vico Equense e Capri, dove prevalgono gli oliveti e i vigneti, e quella costiera ove si trovano prevalentemente gli agrumeti. La coltivazione dell’olivo nella Penisola Sorrentina risale a tempi antichissimi, a cui si è aggiunta nel XVI secolo quella degli agrumi. La punta Campanella, che fronteggia l’isola di Capri, era dominata da un tempio, sacro alla dea Atena-Minerva, cui era consacrata l’intera Penisola. Era, pertanto, meta di pellegrini che acquistavano sul posto l’olio votivo da bruciare in onore alla dea. Tutto il territorio è disseminato di prestigiose vestigia d’epoca romana, fra cui numerosi resti di santuari minori dedicati proprio alla dea Minerva. Da allora l’olivo non ha mai abbandonato questi luoghi e, con la vite e i limoni, domina e caratterizza il paesaggio. Il clima è decisamente mediterraneo, mite, con periodi di siccità estivi e forte insolazione. Le temperature medie oscillano tra i 15 e i 20 °C, mentre le temperature minime eccezionalmente scendono sotto zero gradi e quelle massime raramente superano i 30-32 °C. Le precipitazioni medie annue superano i 1000 mm, molto limitate in estate e abbondanti in autunno-inverno. Tuttavia, il clima non è uniforme per tutte le zone; si registrano, infatti, notevoli variazioni tra la zona di pianura e quelle di collina e di montagna.

Oliveti a salvaguardia del territorio

212


olivo in Campania Il paesaggio risulta fortemente caratterizzato dagli olivi che crescono sui terreni scoscesi, a picco sul mare, insieme ai “giardini di limoni“ e alle piante aromatiche, come il rosmarino e la menta, che rendono il paesaggio originale e unico. Ed è proprio nell’olio che spesso ritroviamo i sentori delle piante spontanee e coltivate, che conferiscono tipicità al prodotto. Il valore e la funzione della coltivazione dell’olivo risultano importanti in queste zone anche per la difesa dell’ambiente. Ciò richiede, pertanto, un grande impegno da parte degli olivicoltori, che su un territorio difficile, impervio e dagli spazi ridotti, collocano gli oliveti su arditi terrazzamenti degradanti verso il mare. In pratica, le terrazze sono state ricavate scavando in piano le zone in forte pendenza, delimitandole da muretti di pietra a secco che sostengono il terreno, formando così uno scalino di larghezza variabile. I terrazzamenti rendono coltivabili anche colline ripide e aree costiere, svolgendo una funzione di contenimento del suolo ed evitando, quindi, scivolamenti a valle e frane. In molti casi gli oliveti risultano costituiti da piante secolari. La forma di allevamento più diffusa è un vaso irregolare, caratterizzato da grosse chiome difformi. In alcune aree costiere l’olivo risulta consociato ad agrumeti e rappresenta l’ultimo piano produttivo a cui seguono gli agrumi, la vite e i seminativi. La coltivazione dell’olivo, quindi, svolge in quest’area un ruolo importante, non solo dal punto di vista produttivo ed economico, ma anche per l’insostituibile funzione paesaggistica e di contenimento idrogeologico. I terreni della Penisola Sorrentina appartengono al Cretaceo dell’epoca terziaria. Da un punto di vista pedologico si caratterizzano per la presenza di arenarie e argilloscisti, unitamente a prodotti di proiezione vulcanica. Il terreno, quindi, risulta argilloso-calcareo, anche se la sua compattezza è andata man mano modificandosi, per le ceneri, i lapilli e i tufi vulcanici, e per la fitta vegetazione arborea boschiva.

Frutteti coperti da “pagliarelle”

• I frutteti della Penisola Sorrentina sono

ricoperti dalla tipiche “pagliarelle”, stuoie di paglia appoggiate a pali di legno, prevalentemente di castagno, che servono per proteggere le chiome degli alberi dagli agenti atmosferici. L’olivo svetta al di sopra della copertura, mentre agrumi e altri fruttiferi vengono difesi dai venti e dalle basse temperature invernali

Oli aromatizzati al limone della Penisola Sorrentina Oliveti consociati ad agrumi con strutture per sostenere le “pagliarelle”

213


paesaggio Il patrimonio varietale è rappresentato prevalentemente da un ecotipo di Ogliarola, denominato Olivo da olio, detto anche Minucciola, apprezzato per produttività e buona resa in olio, 20% circa. La diffusione della cultivar Olivo da olio è pari all’80-90% delle varietà coltivate. Si adatta alle più svariate condizioni ambientali, mentre è esigente per le cure colturali specialmente per la potatura e la concimazione. La fioritura avviene a fine maggio, l’allegagione i primi di giugno e la raccolta entro fine ottobre, prima decade di novembre. Produce abbondantemente e la sua produzione può ritenersi piuttosto costante per piante sottoposte a buone cure colturali. La pianta ha un’altezza media di 5 metri, la chioma ha un portamento più o meno ampio e dipendente dal sesto d’impianto. Si caratterizza per una discreta resistenza agli attacchi della mosca e agli stress abiotici. Tra le altre varietà coltivate nella Penisola Sorrentina si ritrovano anche la Rotondella, tra quelle locali, e Frantoio e Leccino, di provenienza extraregionale. Una grande quantità di olivastri è presente soprattutto nei luoghi più accidentati, a strapiombo sul mare. La zona di produzione dell’olio DOP Penisola Sorrentina comprende per intero i territori della Penisola Sorrentina e dei Monti Lattari, l’isola di Capri e parte del comune di Castellammare di Stabia. L’olio DOP Penisola Sorrentina si ottiene dalle olive della cultivar Olivo da olio, per non meno del 65%; e in misura non superiore al 35% da Rotondella, Frantoio o Leccino, da sole o congiuntamente. È ammessa anche la presenza di altre varietà per un massimo del 20% del totale. L’olio presenta, a prima vista, un bel colore giallo paglierino, più o meno intenso, con riflessi verdognoli, a volte velato. L’esame olfattivo rivela notevole armonia aromatica, con un delicato sentore di fruttato di oliva e con fini e piacevoli note di erbe aromatiche (soprattutto rosmarino e menta). Il sapore è decisamente dolce, con note di amaro e piccante e piacevoli sfumature speziate. Ha retrogusto pulito, di mandorla verde e fresca. L’acidità non supera mai il valore dello 0,4%. L’olio presenta, inoltre, un buon patrimonio fenolico, in particolare di idrossitirosolo, e i suoi esteri, specialmente quando ottenuto da olive appena invaiate. La notevole presenza di note aromatiche fa prediligere l’uso di quest’olio su piatti di una certa consistenza e tipici della tradizione gastronomica campana.

Pizza napoletana

• La pizza ha origini antiche essendo

consumata, nella forma di focacce e schiacciate presso Fenici, Greci e Romani. Solamente verso la metà del XVI secolo la pizza comincia ad avere una rinomanza internazionale. Perché tale successo? Eppure la pizza non è altro che una pasta ottenuta dalla farina con aggiunta di acqua e lievito, condita con sale, olio, pomodori e talora tranci di mozzarella con profumi vari. A Napoli si è ancora convinti che il merito sia dovuto alla maestria dei pizzaioli, all’acqua del Serino, all’olio extravergine prodotto in Campania, al pomodoro e al basilico cresciuti al sole di Napoli. E tanto è bastato per avere il riconoscimento della DOP

DOP Cilento Comprende 62 comuni tra cui Palinuro, Agropoli, Paestum, Velia e Sapri, noti internazionalmente per caratteristiche ambientali e storiche. L’area DOP rientra interamente nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e ha come confini naturali a nord i fiumi Sele e Tanagro, a ovest e a sud-ovest il mar Tirreno, a sud il

Pizza alla marinara

214


olivo in Campania Golfo di Policastro, mentre a est è delimitata dal Vallo di Diano e dal fiume Bussento. Lungo la fascia costiera, il clima, mitigato dalla presenza del mare, è di tipo temperato caldo; le precipitazioni sono concentrate nel periodo primaverile e tardo-autunnale (circa 980 mm/anno). Le temperature medie annuali si aggirano intorno ai 18 °C e il periodo estivo è caratterizzato da prolungati periodi di aridità. Le temperature raramente scendono al di sotto di 0 °C e oltrepassano i 30 °C durante l’estate. Le aree interne e i massicci montuosi sono caratterizzati da precipitazioni, di norma, molto abbondanti (comprese tra 1200 e 1900 mm/anno) sempre con massime invernaliprimaverili e minime concentrate nel periodo di giugno-luglio. L’areale del Cilento è costituito prevalentemente da aree di collina e montagna, con limitate zone pianeggianti in prossimità della costa. Il territorio è ricco di contrasti, l’altimetria passa velocemente dal livello del mare delle aree costiere ai quasi duemila metri di altitudine dei monti Cervati, Gelbison e degli Alburni. È attraversato da numerosi corsi d’acqua, come l’Alento, il Lambro, il Mingardo, il Bussento, il Calore e il Tanagro. La sua pe-

Napoli

Melfi

CAMPANIA Battipaglia

BASILICATA

Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano Sapri Areale del Cilento

Il comune di Capri rientra nell’areale della DOP Penisola Sorrentina

Foto R. Angelini

215


paesaggio culiare posizione geografica, le coste, i numerosi corsi d’acqua e i massicci montuosi conferiscono al territorio una variegata orografia che si manifesta con una complessità di ambienti e una duplice natura geologica delle rocce che lo costituiscono. Presenta, infatti, una vasta zona di calcare mesozoico alla base ricoperta da argille dell’Eocene. Il terreno di natura silicio-calcarea, tendente allo sciolto, risulta ricco di elementi nutritivi, di pronto impiego, in grado di condizionare lo sviluppo vegetativo e la produttività dell’olivo, che trova, quindi, in questi terreni condizioni di sviluppo molto favorevoli. Gli impianti sono di tipo tradizionale, con piante di grossa taglia spesso secolari, allevate a vaso, impalcate alte e con sesti d’impianto ampi e irregolari. Solo in oliveti di recente costituzione si trovano forme di allevamento a vaso policonico, monocono e globo. La Pisciottana è la varietà più diffusa in tale areale. È coltivata soprattutto nel comune di Pisciotta, da cui deriva la sua denominazione, e nelle aree limitrofe. Di origine antichissima, in oltre 2500 anni di coltivazione questa cultivar si è diffusa tanto da coprire fino al 90% delle aree olivetate del Cilento. Accanto alla Pisciottana sono presenti inoltre due varietà tipiche del Salernitano, la Rotondella e l’Ogliarola campana. La pianta è di vigoria molto elevata e ha portamento assurgente. Molto apprezzata soprattutto per l’elevata produzione, pur se alternante, e per l’elevata resa in olio dei frutti. La fioritura coincide di norma con l’ultima decade di maggio; l’invaiatura è medio-tardiva e procede scalarmente. Le drupe sono di dimensioni medio-piccole, a forma ellissoidale e con endocarpo piccolo e di medesima forma. Resistente a stress abiotici e alla rogna, ma sensibile agli attacchi di mosca e all’occhio di pavone. La DOP Cilento interessa oltre 18 mila ettari, pari al 30% circa del totale regionale e al 50% circa della provincia di Salerno. L’olio si ottiene dalla spremitura di olive delle varietà Pisciottana, Rotondella, Ogliarola, Frantoio, Salella e Leccino per almeno l’85%; possono, inoltre, concorrere altre varietà locali presenti nell’area di produzione in misura non superiore al 15%. L’olio è di colore giallo paglierino, all’esame olfattivo mostra un leggero sentore di fruttato e risulta sufficientemente armonico, tendenzialmente dolce. L’acidità è sempre inferiore allo 0,4%, presenta un rapporto medio tra oleico e linoleico inferiore a 7, discreto è il contenuto in fenoli totali.

Oliveti nell’area degli Alburni

Frutti della cultivar Pisciottana

DOP Colline Salernitane L’areale di produzione dell’olio DOP Colline Salernitane comprende 82 comuni dell’area centro-settentrionale della provincia di Salerno, inclusi in un vasto territorio che va dalla Costiera Amalfitana fino alla Valle del Calore, attraversando i Monti Picentini, gli Alburni, l’Alto e Medio Sele, le colline del Tanagro e parte del Vallo di Adriano.

Frutti della cultivar Carpellese

216


olivo in Campania Il clima, tipicamente mediterraneo, è fortemente influenzato dalle correnti calde provenienti dal Golfo di Salerno, mentre le catene montuose costituiscono una solida barriera alle correnti fredde settentrionali. Le temperature medie segnano valori intorno ai 16 °C, mentre nel periodo estivo frequentemente superano i 35 °C. Le precipitazioni medie raggiungono i 1000 mm di pioggia, concentrate nel tardo autunno e a fine inverno. Grazie alle peculiari condizioni pedo-climatiche l’olivo trova in questa zona un habitat ideale. L’area è molto diversificata per orografia e natura dei terreni. È dominata dai monti Alburni, la formazione calcarea più rappresentativa, ove numerosi sono i fenomeni carsici; le sorgenti e i corsi d’acqua (Sele, Picentino) danno origine a una struttura orografica del territorio alquanto complessa. Si passa, poi, dal gruppo dei monti Lattari al complesso dei monti Picentini per finire alla fertile Piana del Sele. L’area è attraversata dai fiumi Sele e Calore, che costituiscono una valle alluvionale. I terreni olivetati sono situati per la maggior parte nella fascia collinare e si presentano di natura argillosa, argillosa-calcarea, ricchi in potassio, fosforo, ferro e calcio. Si tratta dell’area più intensamente olivetata di tutta la Campania: qui, più che altrove, si può misurare l’evoluzione che sta vivendo il comparto. La tradizione e l’innovazione coesistono: accanto ad aziende tradizionali, ve ne sono altre che adottano le più moderne tecnologie. In questa area gli oliveti si estendono prevalentemente nella fascia collinare, su di una superficie che supera i 19.000 ettari, e rappresentano il 30% della superficie olivetata regionale. Le aziende dedite all’attività olivicola sono circa 26.000 e sono prevalenti gli impianti specializzati, gestiti secondo moderne tecniche agronomiche. In tale area la cooperazione è molto sviluppata, per cui ad aziende private si affiancano strutture di trasformazione associate. Il legame con il passato è garantito da un patrimonio varietale ricco e originale, nell’ambito del quale le cultivar Rotondella e Carpellese sono le più coltivate. Rotondella è la varietà più diffusa nel Salernitano, dove è conosciuta con molti sinonimi. È molto apprezzata per produttività, resa, intorno al 23%, e qualità dell’olio. La pianta è di media vigoria con portamento assurgente e autoincompatibile. L’invaiatura del frutto inizia dall’apice e l’epoca di maturazione è intermedia. Resistente a stress abiotici e all’occhio di pavone, sensibile agli attacchi di mosca e rogna. Dopo la Rotondella, la Carpellese è la cultivar più diffusa nel Salernitano. La pianta, di medie dimensioni, ha un portamento ampio con chioma provvista di numerosi rami penduli. L’invaiatura delle drupe procede dall’apice, la maturazione è tardiva e la resa in olio è su valori soddisfacenti. Si distingue per produzioni elevate e costanti. Resiste mediamente a stress abiotici, è sensibile, invece, alla rogna e all’occhio di pavone.

Areale delle Colline Salernitane

Caratteristiche dell’olio

• La DOP Colline Salernitane è riservata al prodotto ottenuto dalla molitura di olive delle cultivar Rotondella, Carpellese e Frantoio per almeno il 65%, l’Ogliarola campana e Leccino possono concorrere in misura non superiore al 35%, mentre è ammessa una percentuale massima del 20% di altre varietà

• L’olio presenta un bel colore che va dal

verde al giallo paglierino più o meno intenso. All’olfatto mostra un deciso e ampio sentore di fruttato di oliva pulita, con discrete note di foglia verde, di erba e di pomodoro acerbo. Al gusto rivela un sapore deciso e persistente, gradevolmente amaro e piccante, giustamente corposo, con buona ed equilibrata struttura e chiari sentori di carciofo, cardo e vegetali amari. Il retrogusto è pulito. L’acidità è sempre inferiore allo 0,5%, mentre il contenuto di polifenoli totali si attesta su valori medi

217


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Sardegna Sandro Dettori, Maria Rosaria Filigheddu, Antonio Montinaro

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Sardegna La caratteristica più evidente dei paesaggi rurali della Sardegna è la grande estensione di superfici incolte: una multiforme varietà di macchia mediterranea, cespugliame e pascoli naturali permanenti forma un mosaico dall’elevata eterogeneità spaziale. Nella lunga stagione asciutta il mosaico dinamico di singoli addensamenti tende a uniformarsi poiché solo il giallo delle stoppie e dei pascoli, formati da specie erbacee annuali ormai disseccate, si alterna alle macchie più scure degli arbusteti di sclerofille mediterranee, ma dalla fine dell’inverno e durante la primavera la vegetazione esplode e il verde diviene la nota dominante, qua e là screziato di bianco e rosa per il fiorire del cisto marino nei terreni percorsi dal fuoco e dell’asfodelo nei “tancati” dove la pecora ha eliminato tutte le specie pabulari, di giallo vivo per le grandi infiorescenze ombrelliformi della velenosa ferula e del viola e azzurro della borrago e delle meno appariscenti orchidee selvatiche. Il progressivo intensificarsi dei muretti in pietra accompagna il viaggiatore verso il villaggio rurale che apparirà circondato da una corona di piccoli orti, bassi vigneti allevati ad alberello e contorti olivi da olio. Nei vasti open fields della pianura e bassa collina l’albero non incide sul paesaggio in misura sostanziale perché la sua presenza si limita a isolati esemplari, in molti casi rappresentati da antichi olivastri e spinescenti perastri sopravvissuti ai ricorrenti incendi o, al più, a piccoli gruppi arborei spesso allungati lungo i corsi d’acqua a formare boschi a galleria. Questa è piuttosto la terra dell’arbusto e del cespuglio, pronti a ricomparire non appena la pressione dell’uomo a favore delle coperture erbacee – indispensabili all’ovino da latte – si attenua; in questo denso groviglio di vegetazioni oleastro e olivastro, indifferenti al substrato, giocano un ruolo fondamentale frenati solo dai freddi invernali. I veri boschi compaiono in alta collina e montagna: luminose fustaie di

Ordinamento spaziale delle colture agrarie all’interno del borgo rurale di San Gavino Monreale (1977)

Comparsa dell’olivo in Sardegna

• La più antica documentazione

archeologica della presenza dell’oleastro (O. europaea ssp. sylvestris) in Sardegna proviene dalla Grotta Rifugio di Oliena, non lontano da Nuoro, nei cui anfratti carsici furono rinvenuti dei carboni attribuiti indubbiamente alla specie e datati al Neolitico medio (6000 anni a.C.). Secondo L. Castelletti il rinvenimento “conferma le note ipotesi di indigenato dell’olivo nell’isola”, aggiungendosi e allineandosi ad altre analoghe documentazioni preistoriche note del bacino settentrionale e occidentale del Mediterraneo

Eterogeneità spaziale del paesaggio agrario

218


olivo in Sardegna quercia da sughero e impenetrabili cedui di leccio a costituire il 50% del milione di ettari di superfici forestali attribuiti all’isola. Le coltivazioni intensive, in questa grande isola di oltre 24.000 km2, sono poco diffuse e conservano ancora traccia della localizzazione periurbana andata strutturandosi sin dalla fine dell’Impero romano intorno alle mansio, prima, a castelli e borghi, poi. È il risultato dell’azione sinergica di un insediamento tuttora molto rado (solo 1,7 milioni di abitanti, cioè 67 per km2, contro i 193 della poco più grande Sicilia) e dell’estensività di un’agricoltura a lungo fondata sulla monocoltura cerealicola (presente sin dall’epoca classica) e sull’allevamento brado della pecora da latte di razza sarda, sviluppatosi in epoca contemporanea a partire dalla Sardegna centrale. La loro azione ha impoverito e uniformato il paesaggio agrario, così relegato in secondo piano dalla forza e dalla bellezza dell’ambiente naturale. L’assenza del bosco nelle aree di piano e la presenza di un paesaggio rurale più vicino alla steppa che al giardino mediterraneo derivano, quindi, dal ruolo centrale che dalla seconda metà del XIX secolo ha svolto il pastoralismo che, con una consistenza pari al 40% del patrimonio ovino nazionale, è giunto negli anni ’80 del XX secolo a impegnare circa il 50% del territorio regionale e la massima parte della totale superficie agraria e forestale per alimentare poco meno di 5 milioni di ovini da latte. In questo scenario pastorale le colture arboree specializzate hanno sempre avuto un ruolo di secondo piano, contribuendo alla produzione vendibile dell’agricoltura regionale per valori prossimi al 12% contro il 60-65% degli allevamenti. L’olivo non fa eccezione e pur rappresentando oggi, con circa 40.000 ettari, la più estesa coltura arborea della regione – non si tiene qui conto degli oltre 80.000 ettari di sugherete specializzate – capace di superare la viticoltura ridimensionata dalla politica comunitaria “degli espianti”, pare ben poca cosa a confronto con i numeri di Puglia

In sintesi

• La diffusione dell’olivo risale

probabilmente all’arrivo dei Fenici. Alcuni toponimi testimoniano l’antichità di questa tradizione (le regioni storiche Ogliastra e Parteolla, i borghi Oliena, Ollastra e Dolianova), così come le molte anfore ritrovate

• L’olivicoltura riprese in epoca romana e,

dopo la caduta dell’Impero, la produzione aumentò a opera dei governatori della Repubblica di Pisa, che favorirono l’impianto degli olivi concedendo al fittavolo la proprietà delle piante innestate

• L’espansione fu massima nel XVII

secolo sotto la dominazione spagnola, che favorì il diffondersi della coltura e l’introduzione di molte varietà iberiche

• Numeri dell’olivicoltura di oggi: 6 milioni di piante coltivate, 40.000 ettari di oliveti, 52.500 aziende olivicole, 10.000 tonnellate di olio (1,4% della produzione nazionale)

• Aree tradizionali di coltivazione sono le

colline marnose del Parteolla-Trexenta, a sud-est, con le cultivar a duplice attitudine Tonda di Cagliari e Pizz’e carroga; le colline granitiche del SulcisIglesiente, a sud-ovest, con la Nera di Gonnos e la Nera di Villacidro. Ancora, il Montiferru in provincia di Oristano con Bosana e Semidana; il Nuorese con Bosana e Nera di Oliena; l’altipiano calcareo del Sassarese, regno della tipica oliva Bosana, e l’Algherese con la Palma

• Una sola DOP: Olio di Sardegna

Le dominanti ambientali sovrastano il paesaggio agrario: olivastreti termofili sulle rive granitiche del lago Cedrino

219


paesaggio

Oliveto più antico di Sardegna

• S’Ortu Mannu è ritenuto il più antico

oliveto dell’isola, la cui nascita, secondo le teorie più accreditate, è riconducibile al “Pregone” che il viceré del Regno di Sardegna emanò nel 1436 per invitare i cittadini di Villamassargia (Iglesiente) a innestare gli olivastri della vallata del Cixerri concedendo la proprietà delle piante e 35 centesimi di contributo per innesto. L’oliveto, sormontato dai ruderi del castello pisano di Gioiosa Guardia, si estende su circa sette ettari comprendendo 700 esemplari di cui molti monumentali. L’albero più imponente è quello di Sa Reina con 16 metri di circonferenza alla base del fusto; la proprietà degli olivi non coincide con quella della terra: ogni famiglia del paese è proprietaria di un albero. La cultivar sembra essere la Pizz’e carroga (becco di cornacchia)

La corona di olivi circonda Sassari nella ricostruzione dell’Uso del Suolo al 1860

e Calabria, ponendosi invece sullo stesso piano della molto più piccola Umbria. L’olivicoltura, infatti, coinvolge solo l’1,7% del territorio regionale, lasciando presagire un assai modesto contributo al paesaggio rurale. In realtà una vasta, ma poco incisiva, diffusione territoriale – l’olivo è presente nel 98% dei 377 comuni sardi: nell’82% di questi le superfici superano i 10 ettari ma solo nel 3% i 500 ettari – si contrappone al suo concentrarsi in una decina di comprensori dove la coltura arborea concorre, in misura talora fondamentale, alla formazione del paesaggio agricolo e di agro-ecosistemi molto stabili per la loro vicinanza alla vegetazione naturale, quindi capaci di difendere il suolo dall’erosione, incrementare la biodiversità e produrre reddito e occupazione. I cantoni dell’olivo, quasi sempre organizzati intorno a uno, o più, nuclei urbani di aggregazione, sono ancora oggi la fonte della gran parte delle produzioni olearie regionali e uno dei più caratteristici paesaggi rurali: nel XVIII e XIX secolo certamente agricoli, oggi sovente rururbani perché non riconducibili né alla campagna né alla città, ma appartenenti a entrambe. L’olivo in Sardegna ha spesso avuto un ruolo centrale nella formazione e conservazione dei sistemi agricoli periurbani, con la sola importante eccezione della città di Cagliari, e quando la sua presenza è risultata particolarmente incisiva gli stessi borghi rurali hanno da esso preso nome: Oliena, Dolianova, Ollastra Simaxis tra gli altri. La coltura risulta, quindi, meno dispersa di quella della vite presente alla periferia di tutti i borghi: essa si concentra in alcuni, arrivando a formare dei Sistemi dell’Olivo là dove la vicinanza tra i villaggi e/o le città mette in contatto le diverse corone periurbane che convergono in un’unica macchia di livello sovracomunale.

Colline denudate dall’allevamento ovino con residui di vegetazione naturale nelle aree pendenti e lungo i corsi d’acqua

220


olivo in Sardegna La storia di questi cantoni specializzati è piuttosto antica, come attesta il Fara scrivendo nel 1580 della città di Sassari, nel cui territorio gli olivi incominciarono a sostituire la preesistente boscaglia di lecci e olivastri già nella seconda metà del XVI secolo. La politica agricola aragonese ricevette nuovo impulso nel 1624 quando il vicerè decretò che ogni cittadino sassarese soggetto ai tributi dovesse, pena il pagamento di un’ammenda di 40 soldi, innestare ogni anno 10 olivastri acquisendone la proprietà. E là dove l’operazione avesse interessato più di 500 alberi, il signore del luogo era obbligato a realizzare un frantoio. La formazione professionale degli operatori locali fu svolta da una cinquantina di esperti giunti espressamente da Valencia e Maiorca che, diffondendo la tecnica dell’innesto, introdussero nell’isola le prime varietà esotiche: tra le altre la Majorca e la Bosana, destinata, quest’ultima – il cui nome deriva dall’omonima cittadina dove si erano stabiliti i formatori –, a divenire la più diffusa varietà regionale. Il nuovo governo sardo-piemontese proseguì la politica di “rifiorimento” della Sardegna, sia riducendo, con l’“Editto delle chiudende” del 1823, le terre a gestione collettiva sia concedendo titoli nobiliari a chi piantava un certo numero di olivi. L’agricoltura intensiva si rafforza nelle aree periurbane in ragione della bassa densità di popolazione dispersa favorendo la diffusione della vite (in particolare nell’hinterland di Cagliari) e dell’olivo (soprattutto in quello di Sassari) che, incuneandosi tra i seminativi, aumentavano il grado di eterogeneità spaziale delle tessere. La conseguente riduzione del latifondo e la formazione di una classe borghese inserita nei circuiti culturali europei favoriscono le due specie legnose che trovano nei mercati nazionale e francese gli sbocchi per le accresciute produzioni, grazie anche all’intensificarsi dei traffici marittimi facenti capo ai porti di Cagliari e Porto Torres. In questa fase di espansione economica, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, il paesaggio rurale subisce un profondo e rapido cambiamento per la distruzione dei vigneti a opera dell’afide di origine

Rapporti città-campagna: la corona di olivi di Sassari

• Nel 1860 la corona si sviluppava su 3883

ettari che nel 1920 diventarono 5075 in seguito alla crisi fillosserica, da un lato, e a una prima erosione degli oliveti interni per l’espansione dell’edificato compatto, dall’altro. Nel 1977 la corona si riduce a 4771 ettari, con la popolazione sassarese che passa dai 43.792 abitanti del 1921 ai 118.631 del 1981. Si perdono circa 144.000 vecchi alberi di olivo di grande valore ambientale e monumentale, solo in parte compensati nella funzione produttiva dalla messa a dimora di 48.000 nuovi alberi in aree non a diretto contatto con la città. Il saldo finale del cinquantennio 1920-1970 si chiude con la perdita di circa 96.000 olivi. Dal 1977 al 2005 l’espansione di aree commerciali e infrastrutture e lo sprawl residenziale consumano altri 50.000 alberi: la corona comprende oggi 545.000 olivi

Nell’altipiano di calcari miocenici, gli oliveti hanno occupato il versante meridionale delle incisioni Lo sprawl urbano logora il paesaggio olivicolo

221


paesaggio americana “fillossera della vite”, segnalato per la prima volta nel 1883 nel territorio sassarese ma che impiegherà circa 20 anni per diffondersi nell’intera isola. La consultazione del Cessato Catasto Terreni del comune di Sassari, istituito dai Savoia a metà del XIX secolo, attribuisce a vigneto e oliveto 2986 e 3883 ettari nell’ordine, valori che all’atto dell’impianto del Nuovo Catasto Terreni (1920-1928) risultano molto diversi poiché olivo e pascoli si sono espansi negli spazi liberati dalla viticoltura: l’olivo, in particolare, guadagna ulteriori 1190 ettari e supera i 50 km2. Molti degli oliveti periurbani regionali sono tuttora in produzione costituendo una tipologia definibile “tradizionale”: ubicazione in aree pendenti su terrazzamenti sostenuti da muretti a secco, suoli spesso superficiali, distanze di impianto piuttosto ampie (8×8 m la più diffusa), forme di allevamento poco consone alle esigenze della raccolta meccanica, assenza di apporti irrigui anche solo di soccorso, utilizzo di varietà locali tra le quali spicca per diffusione la Bosana. Quest’ultima si conferma estremamente attuale perché i suoi oli, ricchi di sostanze antiossidanti e con marcati sentori di fruttato, sono in linea con le attuali richieste del mercato come confermano prestigiosi riconoscimenti quali l’Ercole Olivario. La “nuova” olivicoltura si avvia stentatamente con le riforme agrarie del Novecento: la Bonifica integrale degli anni ’20 e ’30 realizza la sistemazione idraulica di vasti territori “malsani” e le relative infrastrutture con insediamento di coloni di provenienza padana; la Riforma agraria avviata alla fine degli anni ’50 dalla neonata regione autonoma della Sardegna bonifica estesi territori incolti

Sassari, capitale regionale dell’olivo

• L’etnografo Paolo Mantegazza (1869),

nel giungere a Sassari dalla strada reale proveniente da Cagliari (la Carlo Felice), giunto in località Scala di Giocca (“Scala della Lumaca”, così chiamata per la bassa velocità imposta dal succedersi delle curve a gomito o perché il percorso si avvolge su se stesso come le spire sul guscio delle chiocciole), restava colpito dall’estensione e dalla condizione degli oliveti che circondavano la città: “(a)scendete un monte tutto pieno di magnifici olivi, coltivati colla stessa sollecitudine e tenerezza con cui si coltiva un orto cittadino”, e sottolineava il contributo della coltura all’economia cittadina: “(d)i questa ricchezza mi accorsi anche entrando in Sassari, dove molte case nuove si stavano rizzando ed erano le olive trasformate in muri e marmi”

Limiti provinciali Limiti comunali Comuni olivicoli Tematismi Oliveti Oliveti consociati Vigneti Oliveti e vigneti nella Carta UdS RAS

La rielaborazione del Piano topografico del IV Reggimento Fanteria (1857) mostra l’eterogeneità della corona olivetata di Sassari

222


olivo in Sardegna

Poesia in sassarese di Salvator Ruju (1950 circa)

• “Abà ch’è ischurighèndi,

e l’ócci di lu sòri s’è cuadu in fond’a l’aribari, mi posu aizaréddu inòghi i l’utturinu. Cant’aggiu caminadu abbaidèndi la tràmura, la prata binidetta sòbra l’aribi di Sassari nósthra!” Ora che imbrunisce, e l’occhio del sole si è nascosto in fondo all’oliveto, mi metto a sedere un po’ qua nel viottolo. Quanto ho camminato guardando le mignole, l’argento benedetto sopra gli ulivi di Sassari nostra!

L’oliveto, alternandosi agli orti, si spinge sino alle porte della città di Sassari nell’incisione ottocentesca del Cominotti

ricoperti di macchia mediterranea, li dota delle principali infrastrutture (tra queste la rete consortile di distribuzione irrigua) e li suddivide in regolari poderi. Nell’autarchica impostazione delle unità produttive, i pochi ettari di colture legnose erano rappresentati dalla consociazione vite-olivo dove la tardiva messa a frutto dell’olivicoltura asciutta era bilanciata dalla precoce entrata in produzione della vite a uva da vino destinata a successiva eliminazione. Si realizza così un paesaggio della bonifica: una regolare

Varietà Bosana

• Nota anche con i sinonimi di Bosinca,

De ozzu, Olia de ozzu, è la più diffusa varietà regionale presente in coltura con circa 3 milioni di olivi. La sua presenza si concentra nelle province di Nuoro, Oristano e Sassari. È ritenuta una cultivar-popolazione perché l’analisi genetica ne ha riconosciuto la vicinanza alla Sassarese (o Tonda sassarese), alla Palma diffusa nell’Algherese e alla Nera di Oliena (sinonimi Olianesa e Olia niedda). Le accessioni condividono rusticità e produttività, modesti livelli di alternanza, alto contenuto di polifenoli che nell’olio si traduce in serbevolezza, sensazioni di fruttato intenso, retrogusto amaro e piccante spesso accompagnato da sentori di carciofo, cardo e pomodoro. Gli oli più pregiati sono armonici con buon equilibrio fra fruttato amaro e piccante che si completano a vicenda

I vigneti colpiti dalla fillossera sono sostituiti da pascoli e oliveti nella ricostruzione del 1920

223


paesaggio maglia di frangiventi di eucalipti delimita i geometrici poderi, a loro volta articolati in regolari campi. La casa colonica si colloca in posizione centrale, stalle, fienili e ricoveri per gli attrezzi completano le dotazioni aziendali. Le due Riforme hanno, per quanto riguarda l’olivicoltura, un modesto impatto sia per l’esiguità delle superfici investite sia per il successivo abbandono di parte dei territori bonificati, anche se l’iniziale previsione di un modello finale basato sul solo oliveto è stata rispettata. I suoi limitati effetti si colgono, ad esempio, nella Carta dell’Uso del Suolo relativa al comune di Sassari, che evidenzia come alla fine del Novecento prevalga sempre la corona olivetata periurbana, ma come, negli open fields, si colgano tre nuovi nuclei di oliveti, tutti coincidenti con gli insediamenti realizzati dalla Bonifica regionale. Negli anni ’60 e ’70 l’Amministrazione regionale dà avvio a un’azione specifica per il potenziamento dell’olivicoltura finanziando l’innesto degli innumerevoli olivastri sparsi per le campagne dell’isola, in ciò (inconsapevolmente?) replicando quanto attuato oltre tre secoli prima dagli Aragonesi e sul finire degli anni ’30 dal governo fascista, quest’ultimo capace di recuperare ben 4,5 milioni di “selvaggi olivastri”; pur ricordando la visione ottimistica della propaganda bellica e anche riducendo il numero della metà, rimane comunque un dato considerevole, testimone dell’estesa presenza della specie. I risultati sono effimeri e di modesta portata poiché l’irregolare distribuzione delle piante e la difficile morfologia dei terreni, spesso non lavorabili con macchine, impone dei costi di produzione insostenibili; l’azione serve solo a formare dei nuovi paesaggi dove olivo e olivastro convivono in dense boscaglie quali quelle che si possono ammirare intorno alla fonte sacra del nuragico tempio a pozzo di Santa Cristina, in territorio di Paulilatino (OR).

Oliveti e vigneti terrazzati alla periferia di Bolotana (NU)

Antichi terrazzamenti in pietra calcarea nelle colline di Ittiri (SS)

Gli oliveti tradizionali valorizzano suoli superficiali privi di alternative I regolari poderi della Riforma degli anni ’60 in agro di Alghero (1977)

224


olivo in Sardegna Comune di Sassari, carta di Uso del Suolo (fonte RAS 2003) Codice UDS 221-Vigneti 11-Zone urbanizzate

223-Oliveti

12-Zone industriali, commerciali e reti

2411-Colt. temp. assoc. all’olivo

13-Zone estrattive e cantieri 14-Zone verdi artif. non agr. 21-Seminativi

L’incendio nell’oliveto

• “Il vento scuote i vecchi olivi fitti sulla

china della valle, dando loro ondulazioni e toni grigi cangianti come di nuvole; le olive cadono, verdoline e violacee lucenti come perle e bisogna sveltirsi a raccoglierle dalla terra fredda. Quando il cestino ne è colmo si va a vuotarlo entro la casetta, ove ce n’è già un bel mucchio. (…) Le chine della valle coperte di ulivi apparivano più argentee del solito, e i cavalli al pascolo, fra i lentischi sulle prime falde del monte, nitrivano come fosse già di primavera. Ma i mandorli erano ancor neri e i boschi sull’alto dei monti conservavano il verde tetro invernale. (…) Tutto l’orizzonte ardeva di nuvole di fumo rosso, e il chiarore della luna impallidiva come al sorgere dell’aurora. Sulle chine ove ancora bruciavano gli alberi il fuoco pareva sgorgare dalla terra stessa, quasi si fosse aperto un cratere, mentre sul fianco già incendiato della valle sanguinavano i solchi ancora coperti di brage, come ferite su un fianco umano squarciato a morte.”

24-Altre zone agric. eterogenee 31-Zone boscate 32-Ass. veg. arbustive/erbacee 33-Zone aperte veg. rada 4-Territori umidi (paludi) 5-Corpi idrici

Solo con la Riforma agraria gli oliveti e i vigneti compaiono negli open fields

Negli anni ’80 la RAS elabora un “Programma coordinato di Interventi per favorire lo Sviluppo dell’Olivicoltura” che si pone l’obiettivo di sottrarre alle importazioni quote importanti del mercato interno dell’olio di oliva e di attivare anche un flusso di esportazioni per le olive da mensa. Il Programma, non dotato di adeguate risorse finanziarie, è realizzato solo in parte, ad esempio con la formazione di “aree pilota” a funzione dimostrativa nei principali comprensori olivicoli. In definitiva il trentennio post-bellico si traduce in un periodo di decadenza con abbandono degli impianti “marginali”, riduzione delle superfici per l’erosione degli oliveti periurbani a seguito dell’inurbamento con la conseguente espansione delle città – Sassari in particolare – e del progressivo invecchiamento delle strutture produttive. Le rese sono alternanti e tra le più basse d’Italia, i costi di produzione insostenibili e sempre più forte risulta la concorrenza esercitata da altri oli vegetali. I primi segni di ripresa si hanno negli anni ’90, quando la Sardegna si avvantaggia del generale processo di valorizzazione della dieta mediterranea e di un suo ingrediente fondamentale: l’olio extravergine di oliva. La politica comunitaria (Reg. CEE 2052/88 e 2081/93) sostiene la ristrutturazione degli oliveti tradizionali (per 2500 ettari) e la messa a coltura di nuove superfici (per 5300 ettari). Il rinnovamento e l’ampliamento della base produttiva continuano con i più

Grazia Deledda, 1917 Foto M. Santona

L’olivo compare alla fine dell’Oligocene precedendo l’uomo di 20 milioni di anni

225


paesaggio recenti Progetti Operativi Nazionali (PON) e i Programmi Operativi Regionali (POR), finalizzati all’olivicoltura da mensa. Dopo cinquecento anni l’olivo esce dai sistemi periurbani e si diffonde nei campi aperti spezzando l’uniformità dei pascoli permanenti e delle colture cerealicole, senza però formare nuovi nuclei di aggregazione per una politica piuttosto aziendale che territoriale. Gli oliveti sono ora molto diversi poiché basati su modelli intensivi irrigui e ridotte distanze di piantagione. Anche i rigidi vincoli varietali si spezzano e si assiste a un processo di globalizzazione con diffusione delle varietà locali in nuovi ambienti regionali – le cultivar a frutto grosso e medio contenuto in polifenoli della Sardegna meridionale compaiono in quella settentrionale – e la comparsa di cultivar nazionali. Oltre alla sempre valida Bosana, i nuovi oliveti ospitano la Semidana, prima limitata all’Alto Oristanese, la Nera di Gonnos e la Tonda di Cagliari, e varietà extraregionali quali Nocellara e Carolea. È un processo disordinato poiché non preceduto né accompagnato da una pianificazione di livello territoriale, piuttosto favorito dal crescente livello dei prezzi dell’olio extravergine di oliva, dalla comparsa – come già in viticoltura – di piccoli produttoriimbottigliatori, forse dall’ottenimento della prima Denominazione

Oliveti intensivi nella pianura alluvionale del Campidano

Descrizione dei principali comprensori olivicoli della Sardegna Comprensori

Principali comuni

Superficie oliveti da UDS (ha)

Principali varietà

Substrati

Sassarese

Sassari, Alghero, Sorso, Ittiri

10.811

Bosana, Palma, Sassarese, Sivigliana

Calcari miocenici, depositi eolici, basalti

Bassa Gallura

Budoni

324

Bosana, De Cunfettu

Metamorfiti e alluvioni antiche

Planargia

Cuglieri, Bosa

1274

Bosana

Basalti, andesiti

Nuorese

Oliena, Nuoro

1749

Bosana, Nera di Oliena

Graniti

Baronia

Dorgali, Orosei

2908

Bosana, Nera di Oliena, Majorca

Basalti, calcari cristallini

Oristanese

Cabras, Oristano, Seneghe, Paulilatino

1471

Bosana, Semidana, Manna

Alluvioni antiche, basalti

Ogliastra

Arzana, Jerzu, Ilbono, Lanusei

882

Bosana, Nera di Oliena

Graniti, metamorfiti

Marmilla

Villanovafranca, Sardara, Barumini

705

Tonda di Cagliari, Pizz’e carroga, Cornetti

Calcari miocenici

Medio Campidano

Villacidro, Gonnosfanadiga, San Gavino Monreale, Guspini

3705

Nera di Gonnos, Nera di Villacidro, Terza

Metamorfiti, alluvioni antiche

Trexenta

Dolianova, Serdiana, Senorbì

2012

Tonda di Cagliari, Pizz’e carroga, Paschixedda

Calcari miocenici

Iglesiente

Santadi, Iglesias

249

Pizz’e carroga, Nera di Gonnos, Bosana

Calcari cristallini

Totale comprensori

26.091: 49% dei 53.426 ha che l’UDS riconosce in Sardegna

226


olivo in Sardegna di Origine Protetta Olio di Sardegna. Il suo impatto sul paesaggio è limitato dalla dispersione degli impianti sul vasto territorio regionale, risultando comunque utile per aumentare l’eterogeneità tra le tessere. Dunque come si presenta oggi l’olivicoltura sarda? Colpisce l’estrema polverizzazione fondiaria, accentuatasi nel corso degli ultimi 150 anni, come dimostra il caso della corona olivetata di Sassari: tra il Cessato Catasto Terreni del 1860 e il Nuovo Catasto del 1920 le particelle comprese nell’agro comunale passano da 5000 a 17.000 per arrivare al dato odierno di 17.726 particelle per il solo olivo. Oggi una superficie regionale in produzione di 39.385 ha, di cui 1660 da mensa, costituisce il 3,7% della Superficie Agraria utile (SAU) regionale risultando articolata in 34.140 aziende impegnate nella produzione dell’olio per un valore medio di 1,11 ha. Ancora, le aziende olivicole con SAU inferiore a 5 ha rappresentano il 78% dell’universo aziendale, ma solo il 51% della superficie olivetata risulta contenuto in aziende con SAU inferiore a 5 ha. Merita di essere ricordato che gli oliveti partecipano con 1227 ettari alla Rete Natura 2000, sistema regionale di tutela in situ della biodiversità, comprendente 92 Siti di Interesse Comunitario (426.250 ha) e 37 Zone a Protezione Speciale (296.229 ha). La modesta estensione complessiva e la frammentazione fondiaria sottolineano la presenza di un forte autoconsumo familiare o, al più, di una collocazione “porta a porta” dell’olio, e l’incapacità di soddisfare anche solo la domanda interna, che le circa 10.000 tonnellate di olio in media prodotte ogni anno coprono per il 50%. La tutela dei milioni di oleastri e olivastri diffusi nelle coperture vegetali seminaturali è un problema sempre più attuale in relazione alla regressione delle terre agricole, fenomeno comune a tutta l’Europa ma che in Sardegna procede con un ritmo molto più veloce di quello nazionale e della media delle regioni meridionali: la tendenza recessiva della SAU, pari nel 2005 al 44% della superficie regionale, procede con una percentuale circa doppia del dato nazionale poiché, nell’ordine, pari a –7,7 e –4,9% (Sardegna) contro –3,1 e –2,7% (Italia) per i confronti 2005 vs 2003 e 2005 vs 2000. Le strategie per il recupero e il potenziamento del ruolo degli oliveti nel paesaggio regionale – siano essi oliveti tradizionali collinari, periurbani o intensivi – vanno oggi ricercate nel coordinamento tra i dispositivi disciplinari di carattere regolativo e indicativo di fonte urbanistica e la pianificazione agricola regionale. Ci si riferisce in primo luogo agli strumenti di pianificazione di area vasta: i Piani Urbanistici, di livello sia comunale sia provinciale, e il Piano Paesaggistico Regionale (PPR), ma anche il Piano Forestale Ambientale Regionale (PFAR) e il Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 (PSR). Particolare rilevanza assume il PPR che, nel disciplinare l’uso delle aree agricole e forestali, prescrive all’articolo 24 che le pianificazioni settoriale e locale si

Istruzione olearia

• A uso de’ Vassalli del Duca di San Pietro

ed altri agricoltori del Regno di Sardegna proposta dal cavaliere Don Giuseppe Cossu (Torino 1789). “Se necessario è all’uomo il vino, e le bevande, che se gli apprestano, non lo è meno l’olio; in tanta maniera, che sembrami debbasi considerare questo secondo liquore come un bisogno anche più indispensabile. (…) Sebbene però vi siano moltissimi piante e frutti de’ quali si può fare dell’olio; e la Sardegna presentemente ne estragga ancora dal seme di lentisco; quello che si cava dal frutto dell’olivo supera incontrastabilmente qualunque altro per molti riguardi. (…) il 1625 si stabilì di far venire da Valenza e Majorca 50 uomini capaci di innestare olivastri, a ciascun de’ quali si dessero 10 uomini Sardi in assistenza per apprendere l’innestamento, in modo che in un anno si potessero avere 500 uomini già pratici di innestare” Foto R. Angelini

Particolare di tronco secolare

227


paesaggio debbano conformare a “(…) vietare trasformazioni per destinazioni e utilizzazioni diverse da quelle agricole originarie di cui non sia dimostrata la rilevanza pubblica economica e sociale e l’impossibilità di localizzazione alternativa, o che interessino suoli a elevata capacità d’uso, o paesaggi agrari di particolare pregio o habitat di interesse naturalistico (…); promuovere il recupero delle biodiversità locali e delle produzioni agricole tradizionali, nonché il mantenimento degli agrosistemi autoctoni e dell’identità scenica delle trame di appoderamento e dei percorsi interpoderali; preservare e tutelare gli impianti di colture arboree specializzate, sottraendoli possibilmente alle trasformazioni”. Il PPR riconosce, ad esempio, nella corona olivetata di Sassari, come detto, il cuore del più esteso Sistema olivicolo regionale, “un elemento caratteristico del paesaggio e della coltura locale” che “si spinge anche sui terrazzamenti realizzati sulle formazioni calcaree intorno alla città e [ha] costituito un fattore attrattivo per la residenza stabile”. Tuttavia, “le diverse tipologie di paesaggio agrario determinano criticità differenti legate alla frammentazione aziendale, a tecniche colturali non ecocompatibili in prossimità di particolari habitat naturali con i quali entrano in relazione, e scarse conoscenze dei valori dei prodotti agricoli o agroalimentari di nicchia”. Nel PPR “conservare e restaurare il paesaggio agrario storico” appare un obiettivo da raggiungere solo attraverso “il mantenimento dell’agrosistema delle colture arboree (olivi, fruttiferi, viti) innovando le tecniche colturali e recuperando la sua connessione legata alla risorsa proveniente dai corsi d’acqua e dalle sorgenti, creando inoltre una dimensione aziendale capace di consentire un’attività

Foto I. Chessa

Sa Reina, maestoso albero dell’antico oliveto pisano di Villamassargia

Nella valle di Oddoene (NU) oliveti e vigneti tradizionali si integrano con le componenti ambientali del paesaggio

228


olivo in Sardegna agricola professionale a tempo pieno e resistente a trasferire ad altri usi la sua base fondiaria e riqualificando l’edilizia rurale esistente parte integrante del paesaggio”. Solo riconoscendo che “la corona verde degli oliveti è impostata secondo un preciso rapporto fra la struttura fondiaria e la struttura insediativa la cui presenza costituisce un potenziale elemento di tutela e presidio degli oliveti” è possibile individuare dispositivi normativi di tale rapporto, basati “sul mantenimento dei rapporti volumetrici e dimensionali esistenti, ai fini di evitare un’eccessiva frammentazione e densificazione della diffusione insediativa e per garantire comunque l’azione di presidio e manutenzione del paesaggio degli uliveti svolta dai proprietari”. La governance territoriale dispone, quindi, di molteplici e puntuali strumenti normativi atti a tutelare i paesaggi seminaturali e agricoli con forte presenza dell’olivo, così da consentire l’evoluzione delle vegetazioni transitorie verso quella finale (boscaglia di leccio e oleastro), il restauro dei territori a olivicoltura tradizionale con tutela di germoplasma locale e biodiversità, l’espansione dell’olivicoltura intensiva. Spetta ora alle comunità locali, alle organizzazioni di categoria e ai singoli imprenditori cogliere queste opportunità avendo anche presente che il paesaggio “naturale e storico” è elemento cardine dell’attrattività regionale nei confronti dei flussi turistici. L’olivo può, infatti, favorire il ri-orientamento dei visitatori verso le zone interne abbinando itinerari naturalistici ed enogastronomici che permettano ai turisti di fruire delle bellezze ambientali e di conoscere aspetti della tradizione e della cultura delle popolazioni che vivono nel territorio collinare e montano.

Foto M. Agnetti

Oliveto tradizionale compreso nel Parco Nazionale dell’Isola Asinara

L’oliveto pisano di Villamassargia è ritenuto il più antico della Sardegna

229


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo nel Lazio Rita Biasi, Eddo Rugini

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo nel Lazio Origini del paesaggio olivicolo laziale Scrivere della storia del paesaggio dell’olivo nel Lazio significa ripercorrere la storia del paesaggio agrario della regione, trattandosi di una specie fortemente radicata nei luoghi e nella tradizione agricola locale, che ha tramandato a noi i plurimi paesaggi contemporanei di questa coltura. Le prime documentazioni della coltivazione dell’olivo a scopi alimentari (consumo di olive più che di olio), oltre che religiosi, nel Lazio e nell’Etruria, risalgono al VII-VI secolo a.C. Sembra che l’olivo sia stato introdotto nel Lazio all’incirca nel 500 a.C., certamente dopo la vite e tra le ultime colture arrivate nel mondo romano. Probabilmente gli Etruschi conobbero prima dei Romani la pianta dell’olivo e i suoi frutti, grazie ai consolidati scambi commerciali con il mondo fenicio e greco, patrie culturali dell’olivo. L’olivicoltura nel Lazio accompagnò lo sviluppo e il declino dell’agricoltura dell’Impero Romano. La coltivazione dell’olivo fu oggetto di trattati di agronomia che distinguevano la tipicità dei diversi oli ottenibili dalle tante varietà conosciute e che esaltavano un olio laziale, quello sabino in particolare, per le sue qualità organolettiche e per le diversificate possibilità di impiego. Dopo il declino di tutta l’agricoltura italica nel II e nel III secolo, l’olivicoltura caratterizzò nuovamente le produzioni agricole del Medioevo, sotto la spinta dell’affermazione del Cristianesimo e pertanto anche di un utilizzo liturgico dell’olio. Chiese e monasteri del Lazio ancora conservano traccia di queste piantagioni simboliche, così come gli orti-frutteti di epoca medievale, ancora presenti così numerosi nella città di Viterbo. Nell’alto Medioevo, fra l’VIII e il IX secolo d.C., impianti intensivi di olivo sono ricordati in Sabina a opera di enti religiosi e proprietari laici. Un’espansione di questa coltura anche in consociazione con vite, alberi da frutta e ortaggi, accompagnò l’affermarsi di un’agricoltura per lo più di autosufficienza nei secoli XII e XV. Le fonti documentaristiche del Due-Trecento menzionano oliveti associati a orti, vigne e colture cerealicole soprattutto nell’agro viterbese. Alla fine del Medioevo e con l’inizio dell’età moderna l’olivicoltura assurge nel Lazio a elemento connotativo del paesaggio agrario a seguito della sua rapida espansione, stimolata forse anche dalla vicinanza a un forte centro di commercio e consumo rappresentato dalla città di Roma. Nel corso del XV secolo la coltura dell’olivo si spinge anche oltre la fascia altimetrica ottimale per dar vita a un mosaico di paesaggi su aree vaste e in luoghi singoli, in coltura specializzata o consociato con la vite, in pochi o singoli esemplari negli orti-frutteti, a segnare i confini di vigneti e orti. Oltre che nel territorio tiburtino e nella Sabina, l’olivo si espande nel Viterbese e nel Lazio meridionale, colonizzando gradualmente tutti quegli ambienti in cui lo si ritrova ai giorni nostri.

In sintesi

• Le origini dell’olivicoltura laziale si

perdono nella notte dei tempi, avendo l’olivo trovato qui l’habitat ideale per clima e orografia. Gli Etruschi piantarono olivi in tutta l’Italia centrale e nella Tuscia in particolare (provincia di Viterbo). I Romani perfezionarono le tecniche di produzione ed estrazione dell’olio, diffondendo la coltura dell’olivo in tutti i territori conquistati. L’importanza del traffico d’olio la troviamo al Testaccio, antico porto fluviale (Emporium) dove giungevano i carichi di anfore che, una volta svuotate, venivano rotte e depositate, in tale quantità da formare una collina detta “monte dei cocci”. Nei secoli bui, l’abbazia di Farfa in Sabina tramandò le tradizioni agricole e oggi il settore olivicolo laziale è particolarmente avanzato

• 88.600 ettari di superficie coltivata

a olivo, di cui l’81% in collina, il 15% nelle montagne interne e solo il 4% in terreni di pianura

• Circa 22.000 t di olio • 123.000 aziende • 370 frantoi • 3 le DOP: Sabina, Canino, Tuscia.

Altre denominazioni sono in regime transitorio

• Ricco è il germoplasma olivicolo

locale rappresentato principalmente da varietà vigorose e scarsamente resistenti al freddo: Canino, Crognolo, Itrana, Olivone, Raja Sabina, Carboncella, Fosco, Rosciola

230


olivo nel Lazio Da allora gli oliveti, fortemente radicati nel territorio laziale, hanno opposto una sorta di inerzia ai cambiamenti dell’organizzazione del territorio nelle epoche successive costituendo una sorta di ordito con cui si è intessuta la trama del paesaggio agrario della regione. Le analisi più recenti riguardanti il cambiamento degli assetti del paesaggio rurale nella regione Lazio evidenziano un’espansione delle aree olivicole e, quindi, il consolidarsi di una tipologia paesaggistica dove questa specie predomina e di tante tradizioni locali legate alla produzione e all’utilizzo dell’olio. Paesaggi contemporanei dell’olivo nel Lazio La coltivazione dell’olivo e la produzione dell’olio rappresentano una delle eccellenze del territorio laziale. L’olivo nel Lazio si identifica con la nozione stessa di territorio, ne rappresenta una componente fondamentale nei paesaggi sia rurali sia urbani. La coltura dell’olivo si è espansa un po’ ovunque nella regione, tanto negli ambienti più favorevoli e facilmente coltivabili, dove si sono infine concentrati gli impianti specializzati e intensivi, quanto in quelli naturalmente e storicamente difficili, ma pur vocati, come negli ambienti dell’alta collina e bassa montagna, dove resistono ai cambiamenti del paesaggio oliveti marginali di gran pregio e plurimo valore. Nelle zone di diffusione la coltivazione dell’olivo e la trasformazione delle olive svolgono un ruolo importante per l’economia agricola locale e la gestione del territorio, rappresentando spesso l’unica utilizzazione di aree altrimenti destinate all’abbandono e al degrado sociale e ambientale. Più della metà (53,3%) delle aziende agricole del Lazio ha una parte della superficie destinata a oliveto: ne deriva una polverizzazione della coltura sul territorio che origina tanti unici e suggestivi paesaggi.

Vecchi vasi cespugliati di olivo ricostituiti in seguito alle gelate, eventi frequenti anche nel Lazio

Oggi, come nel Due-Trecento, nelle campagne laziali l’olivo è spesso consociato alla coltura dei cereali

Foto R. Angelini

231


paesaggio Sono state distinte due tipologie fondamentali di aree e paesaggi dell’olivo: l’area dell’olivicoltura specializzata e l’area dell’olivicoltura promiscua (assieme rappresentano il 30% della SAU della regione Lazio). Dove la coltura dell’olivo è specializzata (province di Roma, Rieti e in parte Frosinone) l’uso del suolo è semplificato e gli oliveti (39% della SAU) sono intercalati da prati e pascoli permanenti (42,7% della SAU). Nelle ben più vaste aree a olivicoltura promiscua nel senso lato, ovvero non necessariamente intesa come consociazione con altre colture, predomina, invece, un paesaggio più sfaccettato con orientamenti produttivi policolturali (province di Viterbo, Rieti, Frosinone, Latina) dove l’olivo rappresenta solo il 18,4% della SAU e coesiste, oltre che con i prati pascoli permanenti, con la coltura della vite, dei fruttiferi, le foraggere e i cereali. Questi contesti colturali costituiscono due antitetiche realtà dal punto di vista della produttività della coltura e rappresentano la dualità dell’economia dell’olivicoltura laziale. Da un lato un’olivicoltura ad alta produttività e redditività (impianti moderni, intensivi, meccanizzabili) e dall’altra un’olivicoltura marginale a bassa produttività e redditività, ma di indiscusso valore paesaggistico e ambientale, spesso produttrice di oli di eccellenza. Accomuna queste due realtà la frammentazione della struttura fondiaria e una poco competitiva valorizzazione del prodotto. La superficie totale degli oliveti laziali è oggi di circa 88.684 ha (Istat, 2006), rappresentando le aree in collina (81%) e montagna interna (15%) la quasi totalità della superficie destinata a questa coltura, solo per circa il 4% ospitata nei fertili suoli della pianura (quasi esclusivamente in provincia di Roma e Latina). Questa distribuzione per zone altimetriche non ha potuto che imprimere un carattere di unicità al paesaggio dell’olivo nel Lazio che si esprime

Foto Archivi Alinari

Il caseggiato dei dolii, così chiamato per i 35 orci in terracotta infossati nel terreno per la conservazione di vino e olio, 1890 circa, Ostia (© Archivi Alinari, Firenze)

Olivi presso le fortificazioni di Terracina, prima etrusca e poi potente centro dei Volsci, con il nome di Anxur (Giove)

Foto R. Angelini

232


olivo nel Lazio in tante diverse, ma omogenee, fisionomie: un’olivicoltura moderna, intensiva con sesti regolari, meccanizzabile, un’olivicoltura estensiva (meno di 200 piante/ha) specializzata, ma più spesso consociata, che rappresenta la tipologia prevalente, un’olivicoltura di versante e un’olivicoltura di particolare valore storico-culturale. Ricco il germoplasma olivicolo locale, per lo più rappresentato da varietà vigorose e scarsamente resistenti al freddo: Canino, Crognolo (sin. Frantoio), Itrana, Olivone, Raja Sabina (sin. Frantoio), Carboncella (sin. Marziale), Fosco (sin. Moraiolo), Rosciola. Tanti i frantoi polverizzati nella regione, oltre 370, ben rappresentati in tutte le province (Frosinone 97, Latina 53, Rieti 43, Roma 91, Viterbo 87) e per metà con tecnologia di frangitura a pressione. Tre sole le denominazioni di qualità riconosciute e affermate: una storica, la prima nazionale nel comparto olivicolo, quella dell’olio DOP Sabina, quella dell’olio DOP Canino e una più recente, quella dell’olio DOP Tuscia. Alcune altre denominazioni sono in regime transitorio avendo affrontato l’iter per il riconoscimento europeo in un’ottica di valorizzazione delle produzioni e dei loro territori.

L’olivicoltura tradizionale nel Lazio è spesso caratterizzata da vecchie piante allevate a vaso, di difficile gestione e bisognose di drastiche potature di riforma

Paesaggio olivicolo moderno. Un’olivicoltura moderna nel Lazio si è affermata solo in tempi recenti e prevalentemente nei facilmente coltivabili e fertili terreni della bassa collina o pianura delle province di Rieti e Roma. Anche nel Lazio si è cercato, non sempre con successo, di introdurre i criteri per una razionale, redditizia e concorrenziale produzione di olio di qualità, spesso adottando modelli di coltivazione diversi, meccanizzabili in vario grado per la raccolta, e di diversa longevità. Accomuna questa tipologia di impianti il ricorso a risorse genetiche autoctone, in grado di fornire le migliori garanzie produttive grazie all’ottimale interazione con l’ambiente, ma migliorate sotto il profilo della qualità del materiale

Nel Lazio, il paesaggio olivicolo contemporaneo è ancora quello degli indirizzi policolturali, olivicoltura, viticoltura e cerealicoltura, come al tempo degli Etruschi

Foto R. Angelini

233


paesaggio di propagazione rispetto al passato. Così da un lato il paesaggio olivicolo è stato strappato alla sua staticità e impianti regolari (con disposizione in quadro o a rettangolo) a elevata densità di piantagione (300-500 piante/ha), con forme di allevamento a vaso o monocono, di rapida entrata in produzione, ma di altrettanto rapido declino, si sono succeduti e rinnovati nelle aree più facilmente meccanizzabili e con i genotipi più plastici. A fianco di questi modelli, si continuano a realizzare anche impianti di ridotta densità (meno di 300 piante/ha), regolarmente geometrici, ma con durata economica prolungata grazie alle minori competizioni fra le piante. Molti dei criteri dell’olivicoltura moderna si sono imposti anche in zone meno favorevoli, ma soprattutto su genotipi locali particolarmente vigorosi, che mal si sono adattati agli impianti ad alta densità e sesti ridotti (perfino dinamici), manifestando precocemente i sintomi delle competizioni reciproche, decretando il loro successivo abbandono a favore di impianti estensivi, maggiormente integrati nel paesaggio agricolo identitario del territorio. Fra le diverse espressioni della moderna ruralità del Lazio, vanno incluse le campagne urbane. Queste rappresentano nella regione, e ancor più attorno alla città di Roma, una delle nuove forme di paesaggio con cui pianificatori e urbanisti sono chiamati a confrontarsi. Non si tratta solo di un contesto rurale che si sviluppa ai margini di quello urbano, e da questo viene compenetrato, ma anche dell’autentica neo-importazione di una ruralità nei centri abitati, dai frutteti familiari dei giardini, agli orti urbani nei parchi, nelle aree verdi cittadine, su terrazzi e balconi. In tutti questi casi raramente manca l’oliveto o la singola pianta di olivo. Fin dalla sua introduzione nel mondo romano, la pianta di olivo ha ricevuto nei borghi, nei monasteri e nelle città l’onore e il rispetto che tutt’oggi mantiene. A partire dagli orti-giardini, che già dall’alto Medioevo costituivano

Il Lazio è terra di laghi e fiumi attorno ai quali si sono concentrati attività agricole e insediamenti urbani. Sulle rive mitigatrici del lago di Bolsena, gli oliveti impegnano l’uomo nel governo di un territorio che assume la fisionomia di un giardino

Alternanza di filari di viti e olivi

Foto R. Angelini

234


olivo nel Lazio una realtà propria dei paesaggi urbani, l’olivo, assieme agli alberi da frutto, è rimasto a lungo elemento prezioso all’interno delle aiuole nei giardini dei secoli successivi. Il Lazio è regione ricca di parchi e giardini, storici e contemporanei, in cui la pianta dell’olivo è presente come elemento costitutivo di rilievo. Il ricorso alle piante di olivo nella realizzazione delle aree verdi ha portato questa specie a rappresentare uno degli elementi che contraddistinguono gli agro-ecosistemi urbani e il loro paesaggio soprattutto nella città di Roma, uno degli insediamenti urbani a più alto rapporto di metri quadrati di verde per abitante in Europa, dove l’agro romano, con la tipicità delle sue produzioni, si incunea nella città in una miriade di orti-giardini e tenute agricole, fino a portare una specie, come l’olivo, da secoli radicata anche nell’ambiente naturale, a esaltare la bellezza delle aree archeologiche della città.

Foto R. Angelini

Paesaggio olivicolo tradizionale. Il Lazio è terra di antichi vigneti, frutteti e oliveti che conservano forme di utilizzo del suolo agrario riconducibili al passato e che hanno resistito alla continua e rapida trasformazione del paesaggio e degli insediamenti urbani, mantenendo l’individualità e l’identità specifica dei luoghi. Questa tipologia di olivicoltura non è identificabile in modo univoco, anche se per lo più interessa territori marginali per le condizioni orografiche o pedo-climatiche. Accomunano i diversi paesaggi olivicoli tradizionali l’eterogeneità varietale e la consociazione, spesso con altre colture arboree. Queste realtà olivicole risultano piuttosto invulnerabili laddove, se pur a bassa redditività, gli olivi sono facilmente gestibili (aree di bassa collina), ma laddove la coltivazione si fa difficile e in perdita sono sempre in agguato l’abbandono e il degrado, proprio in quei contesti ambientali, quali l’alta collina o la bassa montagna, in cui il permanere di questa coltura consentirebbe in-

Moderni oliveti nella campagna laziale

Tradizione e modernità coesistono nel Lazio anche nella tecnica olivicola. La faticosa e onerosa raccolta manuale a mezzo di scale è ancora ampiamente praticata (sinistra), mentre rara è la meccanizzazione integrale della raccolta, possibile solo con nuovi impianti intensivi di cultivar idonee, ad esempio adattando le vendemmiatrici meccaniche per la raccolta delle olive

235


paesaggio vece la conservazione di un assetto idrogeologico, di una tipicità paesaggistica e biologica ora a forte rischio di compromissione. Il valore di questi sistemi produttivi è plurimo ed è riconducibile al significato biologico per l’unicità del germoplasma olivicolo, ecologico per la sostenibilità dei sistemi di coltivazione (inerbimenti e naturale ricostituzione della fertilità del suolo, bassi input produttivi fino ad autentici modelli produttivi in biologico), estetico per la pittoricità degli impianti e il loro inserimento nel contesto paesaggistico dell’area vasta, storico per l’età spesso centenaria degli impianti riconducibile alla storia dei luoghi, culturale per le forme di conduzione che rappresentano la testimonianza di pratiche agricole antiche proprie della cultura contadina del passato. Un carattere costitutivo dell’olivicoltura tradizionale del Lazio è rappresentato dalla consociazione con colture erbacee o altre arboree. La pratica della consociazione era consigliata già nei trattati di agricoltura nel mondo romano: nei terreni più fertili le distanze di 60×40 piedi permettevano la consociazione con grano, avena e leguminose, e distanze più ristrette, 60×25-30 piedi, erano riservate ai terreni meno adatti ai seminativi. Nei documenti del Due-Trecento si parla di terra cum oliveto o olivetum cum terra, e l’associazione con vite e seminativi acquista maggior rilievo proprio nell’agro viterbese; da allora tale consuetudine ha costantemente caratterizzato le produzioni agricole per l’autoconsumo fino ai tempi nostri. In tante aree della Tuscia ancora oggi le consociazioni dell’olivo con la vite, le colture ortive e i cereali ci ripropongono modelli ancestrali di agricoltura degni di tutela e valorizzazione. Infatti, negli ultimi decenni, da un lato lo sviluppo delle tecniche agricole di pianura, dall’altro l’aumento dei costi di produzione, hanno decretato l’abbandono delle aree agricole marginali, soprattutto nelle condizione orografiche più difficili. Da

La moderna olivicoltura laziale richiede un costante aggiornamento tecnico degli operatori del settore. Consuetudine affermata è l’organizzazione da parte di istituzioni scientifiche e associazioni di categoria di gare di potatura dell’olivo in cui i tecnici possono confrontare la propria professionalità

Le consociazioni rappresentano un tratto distintivo del paesaggio olivicolo tradizionale nel Lazio. Oliveti centenari di cultivar locali convivono con i filari di vitigni autoctoni in territori incontaminati

236


olivo nel Lazio qui il graduale abbandono di paesaggi tradizionali, inclusi i terrazzamenti della montagna, con una sicura alterazione di quegli equilibri ambientali faticosamente mantenuti fra campagna coltivata, ambiente naturale e insediamenti urbani. Ma una mutata coscienza collettiva, anche del valore del paesaggio percepito da chi lo governa, ha avviato puntuali, ma significative, azioni di sottrazione di vecchi oliveti ad alto valore ambientale a rovi, ginestre e sterpaglie e la lenta ricostruzione della trama coltivata anche attraverso il recupero della vecchia viabilità agricola.

Foto R. Angelini

Olivicoltura dei laghi Il Lazio presenta una straordinaria ricchezza di laghi, fiumi, aree sorgive attorno ai quali si sono concentrati attività agricole e insediamenti urbani. Ai confini fra Lazio, Umbria e Toscana, in questa antica terra etrusca rappresentata dalla Conca calderica di Bolsena e Latera, uno dei più vasti bacini vulcanici d’Europa, si compone la trama fitta di un paesaggio in cui boschi, seminativi, vigneti e oliveti si affollano da secoli lungo le colline e le piane rivolte alle rive mitigatrici del lago di Bolsena, impegnando l’uomo nel governo di questi luoghi oggi, come accadeva fin dalla Preistoria. Tutto il territorio attorno al lago, la cui vegetazione naturale è rappresentata da cerri, castagni, faggi e ciliegi selvatici, è segnato dalla presenza dell’olivo, con le varietà Canino (sin. Caninese) e Frantoio, favorito nel suo sviluppo dalla mitezza di un clima che ha quasi impresso al luogo la fisionomia di un giardino, esteso dalle rive lacustri con i loro canneti alle colline dell’antico comune di Gradoli dove olivo, vite (i vitigni autoctoni Aleatico e Grechetto), patate e fagioli da secoli occupano, contendendoli al bosco e alla macchia, questi terreni vulcanici, tanto poveri quanto fecondi, e che ospitano fra i più tipici paesaggi dell’arboricoltura italiana.

Il clima mite del lago di Bolsena crea le condizioni ideali per l’olivo, che qui rappresenta una delle colture legnose agrarie prevalenti

Foto R. Angelini

237


paesaggio Tipiche in questo ambiente sono la consociazione dell’olivo con il vigneto e l’orto e l’associazione oliveto-pascolo. La coltura dell’olivo unisce poi idealmente il lago di Vico a quello di Bracciano, seguendo il profilo dei rilievi collinari e delle forre vulcaniche assieme ai boschi misti di castagni e noccioli, per arrivare a rappresentare una tipologia consueta di uso del suolo nei terreni che si affacciano sul lago di Bracciano e nel suo entroterra. Olivicoltura lungo le vie consolari Lungo le vie consolari che si diramano da Roma si trovano ancora oggi terre che ospitano oliveti secolari e moderni, che rappresentano alcune fra le aree olivicole di eccellenza della regione. Così fra i promontori del Lazio meridionale e la Piana di Fondi, dove l’olivastro, assieme a corbezzoli, allori, sorbi e sughere, rappresenta la vegetazione naturale prevalente, lungo il tracciato dell’Appia antica fra Itri e Fondi, man mano che l’orografia del territorio si fa più docile e cede il passo alla pianura dell’agro pontino, l’olivicoltura, anche da mensa con la cultivar Itrana (sin. Oliva di Gaeta), perde i tratti distintivi della coltura marginale delle aree pedemontane e si fa intensiva e moderna. Qui gli oliveti sono interrotti dalle colture orticole intensive in pieno campo o in coltura protetta e si presentano ben governati e ordinati, ma finiscono con il cedere gradualmente spazio alle più redditizie colture industriali e all’esotica actinidia di cui il Lazio, e la provincia di Latina in particolare, è divenuto il primo produttore mondiale, a dispetto delle tradizioni. La coltura dell’olivo è comunque presente ovunque, con la sola eccezione delle fasce costiere, ben inserita nel contesto di un’agricoltura intensiva e organizzata. All’interno del Parco regionale dell’Appia antica ricade un’area agricola le cui caratteristiche di unicità sono definite dalla coe-

Campagna coltivata del lago di Bracciano. Attorno ai grandi laghi laziali l’olivicoltura estensiva, per lo più consociata con i seminativi a pascolo, si armonizza con la vegetazione naturale di cerreti, faggeti, boschi misti e castagneti

I muri a secco rappresentano un tratto distintivo del paesaggio olivicolo pedemontano del Frusinate disegnando regolari terrazze o singole lunette adattate alle asperità rocciose del suolo calcareo

Lungo i tratti residuali della strada Appia antica la moderna olivicoltura intensiva a vaso con la cultivar Itrana a duplice attitudine (Oliva di Gaeta), mantenuta in pianta fino ad aprile inoltrato, si concentra nei fondovalle e accompagna il passaggio dagli ambienti pedemontani e collinari dei versanti sud-occidentali dell’Antiappennino meridionale alla piana dell’agro pontino

238


olivo nel Lazio sistenza di paesaggio agricolo, naturale e aree archeologiche frammiste a numerosi manufatti di architettura rurale storica. Il tracciato extraurbano della via Appia antica ripropone un paesaggio olivicolo che caratterizza la componente agricola di questa area protetta. Questo contesto rurale nel Parco dell’Appia antica, talvolta in stato di abbandono, aspira a nuova e rinnovata competitività nel rispetto di avvicendamenti colturali antichi, quanto indispensabili per opporsi al degrado, data dall’olivo consociato alla pastorizia e alle necessarie colture foraggere, con l’obiettivo di recuperare nel contempo anche la valenza paesaggistica di questa coltura in un’area in cui la terra coltivata convive con le componenti naturali, storiche, archeologiche e urbane. Poco distante da Roma, fra le due strade consolari Prenestina e Tiburtina, gli olivi dell’agro romano ricompaiono a occupare ambiti agro-ambientali estensivi. La campagna romana, territorio a vocazione agricola fin dalla preistoria, ospita gli oliveti con le cultivar Carboncella, Leccino e Frantoio su versanti e fondovalle di vasti territori incontaminati o coltivati a seminativo che sopravvivono da secoli nella struttura fondiaria del latifondo. La via Salaria, lungo le pianure e i deboli rilievi collinari della valle del Tevere, introduce a una delle zone a maggiore vocazione olivicola della regione. L’olivo, accanto alla vite, caratterizza in modo incisivo il paesaggio delle colline sabine. Qui l’olivo cresce anche allo stato selvatico, e selvatico (Olea oleaster) è il patriarca che ancora produce con immutabile vigore in questa area, dove le tecniche olivicole, inclusa la bacchiatura, si sono conservate sostanzialmente immutate dai tempi romani almeno fino ai primi del Novecento. La Sabina, area lievemente collinare (200-300 m s.l.m.) a cavallo delle province di Roma e Rieti, ospita una zona DOP di pregio, quella dell’olio DOP Sabina. Qui l’agricoltura si

Località “Olivetaccio” all’interno del Parco regionale dell’Appia antica. L’antico oliveto si affaccia sulla Valle della Caffarella e sull’acquedotto Claudio (sullo sfondo)

Il Frusinate è considerato zona di olivicoltura marginale, date l’asperità dell’orografia e le condizioni climatiche avverse per la coltura. L’olivicoltura è polverizzata in piccole aziende dove si realizza un’agricoltura talvolta eroica e orientata all’autoconsumo

Il latifondo dell’agro romano rappresenta una forma di uso del suolo consolidata da secoli intorno alla città di Roma, dove gli olivi occupano versanti e fondovalle di vasti territori incontaminati o coltivati a seminativo

239


paesaggio armonizza con la natura nella creazione di un paesaggio dolce di colline e borghi medievali dove modernità e tradizione si intrecciano in un contesto agro-ambientale estremamente diversificato e non facile dal punto di vista climatico data la collocazione interna e la giacitura in pendenza. Lo sfruttamento intensivo dell’olivicoltura (gli oliveti spesso hanno dimensione superiore all’ettaro e quindi maggiore rispetto alla media regionale) e di altre colture agrarie in questa area ha portato alla stratificazione di modelli produttivi contrapposti, dalla monocoltura gestita secondo i criteri dell’olivicoltura specializzata, alla più tradizionale coltura promiscua con specie arboree da frutto (pesco, susino, ciliegio) o la vite. Questa dualità di sistemi ha originato oltre che diversità del paesaggio olivicolo, anche diversità biologica facendo coesistere con l’autoctona cultivar Carboncella, e gli ecotipi locali Salviana, Olivago, Raja, Olivastro, le più diffuse varietà Leccino, Moraiolo e Frantoio, oliveti centenari e di giovane impianto. Anche la vecchia consolare Cassia si snoda fra piane e monti attraversando un ambiente suggestivo di boschi di querce, castagni e coltivi di oliveti, vigneti, noccioleti e noceti. Qui si vedono ancora oggi alcuni fra i paesaggi più tradizionali dell’olivicoltura laziale: olivo associato alla vigna, olivo e seminitavo, olivi negli orti-frutteti come fra Caprarola e Capranica, attraverso Ronciglione, lambendo San Martino in Cimino e ancora fino a Montefiascone dove oliveti, vigneti e orti tornano ad affacciarsi sul lago di Bolsena e sulla piana circostante.

Nelle vaste tenute agricole a prevalente indirizzo cerealicolo-zootecnico dell’agro romano l’olivicoltura si accompagna come attività prevalente agli allevamenti ovini e bovini

La via Salaria porta a una terra, la Sabina, di olivicoltura d’eccellenza e specializzata. Non è raro, tuttavia, trovare forme di consociazione dell’olivo con altre redditizie colture arboree come il ciliegio e il pesco (ai lati) in una tipologia di uso del suolo fra modernità e tradizione

Terrazzamenti a olivo del Frusinate Un paesaggio assolutamente tipico e unico nel Lazio è rappresentato dall’olivicoltura del Frusinate, realtà di rilievo nel panorama produttivo della regione, dove i terrazzamenti, diversamente

240


olivo nel Lazio gestiti, rappresentano l’unica forma di utilizzo ai fini agricoli delle forti pendenze pedemontane dei monti Ausoni e Aurunci, da pochi a 500-600 m s.l.m. Percorrendo la Strada Regionale 637 che da Frosinone porta a Gaeta, imperante è la presenza di terrazzamenti per lo più disegnati da elaborati muri a secco, testimonianza di un uso cosciente del territorio, per consentire la coltivazione finanche di un solo olivo in uno suolo circoscritto e tenacemente trattenuto da queste autentiche opere di architettura rurale, che definiscono lunghe terrazze o singole “lunette”. Per quanto ogni tipo di terrazzamento mantenga la comune funzione di sistemazione collinare-montana, in ogni ambiente si manifestano particolarità costruttive che rendono unico quel paesaggio. Nelle zone di fondovalle o a minor pendenza la coltivazione dell’olivo si realizza su dolci gradonamenti che ospitano grano, orzo, mais e filari di vite, che disegnano una regolare trama orizzontale, contornati da un contesto paesaggistico rappresentato da querceti a roverella, lecceti e boschi misti, corbezzoli, tamerici e ginestre. Nelle zone a maggiore pendenza e governate dai muri a secco domina, invece, incontrastato il paesaggio dell’olivo, qua e là vivacizzato dalle chiome svettanti dei cipressi e qualche ceppo di vite e colture orticole, in residuali attività agricole per l’autoconsumo di aziende polverizzate sul territorio, nella creazione di un sistema paesaggio terrazzato ora regolare, ora interrotto dall’asperità delle rocce affioranti. Spesso i terrazzamenti, nelle zone a maggiore pendenza e altitudine, si evidenziano nel loro abbandono. Il terreno brullo, testimonianza di passati incendi, ricorda all’osservatore attento il ruolo conservativo del paesaggio e dell’assetto geologico che queste difficili ed eroiche sistemazioni perpetuano nel tempo. Le varietà dominanti sono Moraiolo e Rosciola, assieme a varietà locali (Marroncina, Cellacchia, Sugghiacciana) che forniscono un olio di pregio, anche se non ancora certificato da alcuna denominazione di origine. Non è possibile riconoscere un sistema di impianto definito, essendo il sesto unicamente imposto dalle asperità del suolo con le sue rocce affioranti e le variabili pendenze, mentre la forma di allevamento è spesso libera (a vaso o cespuglio) e imponente. Il paesaggio si mantiene identico digradando verso il mare attraverso il Parco regionale degli Aurunci, con terrazzamenti meno aspri, molti dei quali abbandonati e spesso invasi dalla vegetazione dei boschi circostanti.

Foto R. Angelini

Nel Lazio è facile imbattersi in esemplari o impianti secolari che, con la loro residuale presenza, aggiungono un valore storicoculturale ai tanti che l’olivicoltura può possedere nel paesaggio dei sistemi arborei

Olivo patriarca e olivi centenari In Sabina, fra i patriarchi vegetali censiti (lecci, castagni e querce), si distingue un olivastro, monumentale esemplare con una circonferenza del tronco di oltre 7 metri e una chioma espansa di 30 metri. Cresce a Canneto, nella tenuta dei fratelli Bertini, acquistato per poco più di mille lire dagli antenati di famiglia e tramandato di padre in figlio. È considerato uno dei più vetusti d’Europa, probabilmente millenario. Per quanto la leggenda voglia far risalire

L’“Ulivone” millenario in località Canneto (Rieti). Con l’apertura di oltre 30 metri della sua chioma è ritenuto uno dei più grandi e antichi d’Europa

241


paesaggio la sua piantagione all’epoca dei Re di Roma (400 a.C.), probabilmente la sua messa a dimora è da attribuire ai monaci benedettini dell’abbazia di Farfa, che operarono la prima bonifica dell’area, amministrando gli allora possedimenti dello Stato Pontificio. Meta di visite di esperti e turisti, l’“Ulivone” continua a produrre quintali di olive, manifestando una grandiosa longevità e un vigore che sopravvive alla contingenza delle vicende umane. Sin dal Duecento l’area delle campagne di Tivoli era nota per importanti produzioni di olio. Nel Quattrocento la produzione derivava da numerosi piccoli appezzamenti di pochi esemplari di olivo. Probabilmente millenario, il patriarca Olivo di “Tivoli”, con una circonferenza del tronco di 14 m, è sopravvissuto alle gelate che si sono succedute nel tempo e ancora oggi si distingue all’interno di un oliveto di giovane impianto alla periferia di Tivoli (Roma) conservando un’elevata produttività. Ma nel Lazio, dove il paesaggio dell’olivo diventa connotativo di aree vaste, è facile imbattersi in esemplari o impianti secolari che con la loro residuale presenza aggiungono un valore storicoculturale ai tanti che l’olivicoltura può possedere nel paesaggio dei sistemi arborei. Un po’ ovunque, più le leggende che le fonti storiche alimentano i miti di olivi secolari radicati nel territorio e nel tempo. Così per l’oliveto dei Prischi a Canino, per gli olivi centenari lungo l’Appia antica. In località Chiusa Grande, lungo la via Salaria a Nerola, si trova un antico oliveto di origine romana. Dalla alternante e sorprendente (più di un quintale per pianta) produzione dei 75 esemplari centenari della cultivar Carboncella consociata con l’impollinatore Fecciaro si ricava un olio, “Cru-Secolare”, e un legno particolarmente ricercato dagli ebanisti. Questi sistemi produttivi antichi, impostati secondo criteri ribaditi poi dalla più moderna ecofisiologia delle piante arboree (orientamento nordsud, impianto a quinconce che ottimizza l’intercettazione della luce, distribuzione in sesto di piante impollinatrici) meglio d’altri si prestano alla coltura in biologico, manifestando un’equilibrata e ottimale interazione di genotipo e ambiente e una naturale reintegrazione della fertilità del suolo (sfalcio della medica intercalare). Olivi secolari e impianti “tradizionali” caratterizzano il paesaggio dell’olivo nella Maremma Laziale. Il territorio attorno a Canino e Arlena di Castro è caratterizzato da dolci colline, dominate dal Monte Canino, e da zone depresse (di fondovalle) con ambienti umidi ricchi di sorgenti termali. In questo comprensorio, al confine tra Lazio e Toscana, si produce ancora uno dei migliori oli laziali (olio DOP Canino), e in questi antichi feudi dei Torlonia oliveti secolari si mescolano al paesaggio dei boschi e della macchia, alle sughere residuali di un sughereto, un tempo vasto, e alle rocce di tufo su cui sorgono gli antichi borghi. Secolare è la cura riservata a questa coltura che Luciano Bonaparte (metà Ottocento) concorse a rinnovare con potature di ringiovanimento sugli olivi esausti e abbandonati. Da allora il classico olivo caninese (cultivar

Secolare impianto romano di olivo in località Chiusa Grande (Roma) con esemplari della cultivar Carboncella e Fecciaro disposti a quinconce

Area archeologica del Palatino e del Foro Romano alle spalle del Colosseo a Roma. Gli alberi di olivo, assieme a cipressi, pini marittimi e allori, fanno da ornamento alle antiche rovine e accompagnano lungo i percorsi ai luoghi antichi

242


olivo nel Lazio Canino) si è continuato a piantare di generazione in generazione a fianco alle cultivar Leccino e Frantoio, di più recente introduzione negli impianti di nuova realizzazione. Oggi il paesaggio è segnato da vecchi olivi che si ergono in mezzo ai seminativi di cereali rappresentando uno dei più tipici paesaggi vegetali dell’area mediterranea. Spesso anche questi esemplari centenari, come altri in Italia, non sfuggono al commercio per adornare giardini e terrazzi nell’intento di portare un po’ di campagna e natura nelle città e nelle periferie urbane.

Foto R. Angelini

Giardini e aree archeologiche di Roma Nell’Urbe, dai giardini privati ai giardini storici, e perfino nelle riqualificate aree verdi che accompagnano le strade dei quartieri dal centro storico alle periferie, le piante di olivo adornano, spesso con la monumentalità delle loro forme architettoniche strappate al paesaggio rurale, ogni spazio verde, in un mosaico di tasselli che acrobaticamente si elevano fino ai giardini pensili e ai terrazzi, sacrificando la funzione produttiva a quella estetica. In tempi recenti, olivi sono stati considerati come elementi vegetali da impiegare nei restauri vegetazionali di ville e giardini storici. Il ritorno delle piante produttive, incluso l’olivo, nei giardini dove all’origine della loro addomesticazione erano state introdotte, testimonia una riscoperta sensibilità alla bellezza della vista di questi alberi anche nei paesaggi urbani. Ma è soprattutto nelle aree archeologiche della città che l’albero di olivo, assieme ai cipressi, richiama fra le antiche rovine quel paesaggio coltivato che si portava fin dentro la città, rinnovando quell’antico omaggio tributato a questa pianta simbolica dagli stessi antichi Romani che mantenevano un oliveto in pieno mercato dell’Urbe, simbolo di una coltivazione rappresentativa delle terre attorno a Roma e in tutto il Lazio.

Olivi presso Villa Adriana a Tivoli. Passeggiando tra gli olivi e osservando i ruderi della villa, si ha idea di quanto fosse grande questa residenza imperiale, costruita nel II secolo d.C. e voluta dall’imperatore Adriano. È la più grande villa-città della storia

Foto R. Angelini

243


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Abruzzo e Molise Michele

Pisante, Solange Ramazzotti, Alessandro Sonsini, Nazario D’Errico

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Abruzzo e Molise Storia Le prime testimonianze di olivicoltura e di “industria” olearia nell’area dell’odierno Abruzzo risalgono al periodo della dominazione romana (V sec. a.C.) durante la quale la diffusione dell’olivo venne favorita per le propizie condizioni pedoclimatiche. Virgilio documenta la presenza dell’olivo nella Marsica “dove vegetava rigoglioso lungo le sponde del lago Fucino”; mentre Ovidio scrive che l’albero sacro a Pallade fioriva in agro di Sulmona, “terra ferax Cereris” (Amores, 2°, 16). Se in periodo romano era famoso l’olio liciniano, ottenuto appunto dall’olivo liciniano (Plinio, Naturalis historia, III, XV, 8) che prosperava lungo la fascia appenninica fino a Venafro, di tale pianta si perde successivamente ogni traccia. Diffusamente presente nei territori delle quattro province, con particolare concentrazione nell’area Vestina e Frentana, rappresentò un importante comparto produttivo nell’economia agricola della regione tanto che in età imperiale ingenti erano gli scambi commerciali di olio tra l’Urbe e i Municipi romani della regione, tra i quali Anxanum, Historium, Interamnia e Cluviae. Con la caduta dell’Impero Romano e l’inizio delle invasioni barbariche si ebbe in Abruzzo, come nel resto della Penisola, una crisi dell’olivicoltura e del mercato oleario protrattasi fino agli anni più bui del Medioevo che si caratterizzò per la tendenza all’autoconsumo, ovvero per una produzione limitata alle esigenze familiari. La ripresa andò delineandosi intorno al XII secolo e prese respiro, con molta probabilità, dall’interno delle abbazie e dei monasteri. In questo senso, San Clemente a Casauria, San Giovanni in Venere, Santa Maria d’Arabona costituirono isole felici dove benedettini e cistercensi continuarono a dedicarsi con grande

Abruzzo in sintesi

• L’olivo ha qui antiche tradizioni: Virgilio testimonia la presenza di oliveti nella Marsica, Ovidio parla della produzione di olio in Valle Peligna, Silico parla di Penne, nel Pescarese, come la “verdeggiante” in virtù della presenza di olivi che ancora oggi ne fanno una delle zone più produttive della regione

• L’olivo prospera dalle dolci colline

sull’Adriatico alle zone pedemontane interne fino a 400-500 m

• 45.000 ettari la superficie coltivata (10%

della superficie agricola totale), 24.000 tonnellate di olio, 65.000 aziende, 527 frantoi. La provincia più olivicola è Chieti con 27.500 ha, quindi Pescara con 11.200 ha e Teramo con 5100 ha

• 3 le DOP:

-A prutino Pescarese -C olline Teatine, con due menzioni geografiche: Frentano e Vastese - Pretuziano delle Colline Teramane

• Varietà dominanti: Dritta di Loreto e Gentile di Chieti

Oliveti sulle colline abruzzesi

244


olivo in Abruzzo e Molise operosità alla coltivazione dell’olivo selezionando anche alcune varietà locali ancora oggi peculiari come la Toccolana, tipica del territorio di Tocco da Casauria. A poco a poco rifiorì anche il commercio dell’olio e un cospicuo volume di traffici si registrò tra i porti dell’Abruzzo e Venezia, la Dalmazia e altri centri della costa Adriatica. Va ricordato, partendo necessariamente dal XII secolo, quanto scrive il grande geografo e viaggiatore arabo Idrisi che, lasciata la corte normanna a Palermo, compie un viaggio nell’attuale territorio dell’Italia centrale e scrive testualmente che “tutta la fascia costiera e collinare da Vieste fino ad Ancona è una landa deserta e acquitrinosa piena di malaria, che tiene lontani gli abitanti i quali sono rifugiati nei rilievi dell’interno”. Nel 1273 Carlo I d’Angiò divide l’Abruzzo in Citra et Ultra flumen Piscariae. Da allora in poi i riferimenti in agricoltura e olivicoltura terranno presenti le due realtà geografiche: Abruzzo Citeriore e Abruzzo Ulteriore. Quest’ultimo alla fine del Seicento viene a sua volta suddiviso in Abruzzo Ulteriore I (attuale provincia di Teramo, fino alla riva sinistra del Pescara) e Abruzzo Ulteriore II (corrispondente alla provincia dell’Aquila, con Sulmona e la Marsica, la quale tuttavia resterà coperta delle acque del lago Fucino fino al 1884). Malgrado la rilevante altitudine delle colline adiacenti al lago di Fucino, l’olivo vi prosperava fino all’altitudine di circa 750 metri, come ci assicura il Febonio, perché le acque del lago mitigavano il rigore del clima. Una volta prosciugato il lago, l’olivo scompare insieme ad altre piante come la vite e gli alberi da frutto. La dominazione spagnola segnò nel Seicento un nuovo periodo di decadenza per l’olivicoltura e l’agricoltura abruzzese in genere, le cui sorti si risollevarono a partire dal Settecento e ancor più nell’Ottocento, a seguito di alcune trasformazioni socioeconomiche.

Molise in sintesi

• L’introduzione dell’olivo è attribuita

all’agricoltore tosco-sannita Marco Licinio (IV sec. a.C.), dal cui nome deriva l’antica varietà Licinia, molto pregiata e coltivata un tempo nella zona di Venafro. L’olio venafrano, decantato da Plinio, Catone e Varrone, era considerato dai Romani il migliore in assoluto e molte notizie sono pervenute nei loro scritti, non ultimo quello di Varrone (I sec a.C.), che nel De re rustica si domandava se esistesse un olio più pregiato di quello di Venafro

• Accanto a zone vocate come il basso

Molise in provincia di Campobasso e la piana di Venafro in provincia di Isernia, piantagioni di olivo si trovano nella zona litoranea marina e sulle dorsali delle montagne dell’alto Molise

• 1 DOP: Molise • 13.000 ettari di superficie olivetata • 120 frantoi • 40.000-60.000 quintali di olio prodotto (1% circa del prodotto nazionale)

• La varietà più diffusa (25% della SAU)

è la Gentile di Larino, seguita da Rosciola di Rotello (23%), da Cellina e da altre varietà diffuse in tutto il Centro Italia come Leccino (20%), Moraiolo, Pendolino, Frantoio e Coratina. Tra le varietà autoctone: Oliva Nera di Colletorto, Aurina, Noccioluta di San Giuliano di Puglia, Salegna di Larino, Spagnola, Sperone di Gallo, Paesana, Curina, Olivastra e Cerasa di Montenero. Altre varietà sono l’Oliva San Pardo, la Rosciola di Rotello, l’Oliva nera di Colletorto, la Rumignana e la Cazzarella. Tra le varietà particolari e tipiche si annovera la Sperone di Gallo, a duplice attitudine, dal frutto lungo e curvo

Foto R. Angelini

245


paesaggio Le fonti archivistiche forniscono per quanto concerne l’olivicoltura notizie di un certo interesse solo a partire dalla prima metà del Settecento. Dalle fonti archivistiche si viene a conoscenza che in questo periodo l’olio era conservato in pile di pietra di 1×1 m di larghezza e 2 oppure 3, 4, 5 o 6 m di altezza. Così in data 15 ottobre 1751, da Atto di Notar Donato De Camillis (Archivio di Stato di Lanciano) si ha la notizia di “due file di pietra da conservar oglio, di 3 m l’una”. Da Atto di Notar Eliseo Porreca di Casoli (Chieti), rogato in terra Casularum in data 17 marzo 1776, si apprende che “Natale Onofrillo e Silvia de Camillis ricevono da Alessandro Travaglini 20 ducati per un metro d’olio all’anno, prezzo censurale solito a praticarsi in questa terra di Casoli e né i convicini luoghi”. Questo spiega il senso dell’espressione aver la pila ancora usata nel mondo rurale per designare la persone facoltose. Nel 1789 Gianfranco Nardi pubblicava a Teramo il noto Saggio sull’agricoltura e sul commercio della provincia di Teramo nel quale l’esponente del salotto illuministico Melchiorre Delfico denunciava la scarsa produzione di olio d’oliva nell’Abruzzo Ulteriore Primo, dovuta – egli dice – all’indolenza dei proprietari dei latifondi costituiti dalla nobiltà e dagli ordini religiosi. Nell’Ottocento il latifondo feudale si trasformò in latifondo borghese e le proprietà della Chiesa furono concesse in affitto. Si assiste così alla nascita di grandi proprietà borghesi e di medie e piccole proprietà contadine attraverso un cambiamento che si completerà verso la fine del secolo quando, con l’insediamento stabile nelle campagne, particolare sviluppo ebbero le coltivazioni arboree e l’olivo in primis. Interessanti sono le osservazioni fatte da Giuseppe del Re, nel suo Saggio Calendario per l’anno bisestile 1820. Lo storico e agronomo napoletano sottolinea che

Oliveti in Abruzzo

246


olivo in Abruzzo e Molise “da pochi anni si è cominciato a potare gli olivi e a concimarli dappertutto. Malgrado gli sforzi di uomini intelligenti, non si è ancora giunto a bandire il barbaro uso di raccogliere il loro frutto a forza di battere i rami con mazze, fuorché nel Primo Abruzzo (Citeriore). Ottimo sarebbe l’olio se l’usanza di porre le olive nei cosiddetti cammini, e ivi stivarle, non gli desse odor di disgustoso e molta grassezza. Ove infrangonsi le olive come si raccolgono, si ha una qualità eccellente e ricercata per le mense. La più delicata è quella di Vasto. Per lo più il suo prodotto è biennale ed è molto soggetto alle vicende dell’atmosfera. Basta che compaia il vento di levante sul mare al tempo della fioritura che il frutto si perde sul litorale”. Diversa è la situazione nell’Abruzzo Citeriore in cui l’olivicoltura registra un notevole incremento dovuto anche all’introduzione di alcune varietà di piante d’olivo testimoniata da rogiti notarili presenti nell’archivio di stato di Lanciano (CH). Nell’Archivio di Stato di Lanciano il notaio Casoli Nicola Belfatto redige un atto di compravendita di un terreno in cui vivono “due piedi d’olive: uno gentile e l’altro crognalegno”. Il tipo gentile sussiste tuttora in tutto l’Abruzzo. Circa l’altra tipologia di olivo, il crognalegno, il Finamore chiarisce che tale albero derivava il nome dal fatto che il suo fusto fosse “duro come il corniolo”. Diversi altri atti notarili dell’epoca riportano le definizioni di gentile e crognalegno alle quali si aggiungono quelle di cerregno e olive grosse. Le guerre mondiali, particolarmente la Seconda, metteranno a dura prova le coltivazioni, i raccolti e la vita nelle campagne, senza però impedire all’olio d’oliva di continuare a svolgere le sue funzioni energetiche e nutrizionali, apportando quelle benefiche sostanze antiossidanti nella dieta alimentare delle popolazioni d’Abruzzo.

Oliveto specializzato in Abruzzo

247


paesaggio Paesaggio L’olivo in Abruzzo è l’interprete storico e contemporaneo dell’evoluzione del paesaggio agrario a paesaggio rurale, protagonista identitario di minipaesaggi d’eccellenza che vivacizzano il panorama di vaste aree del territorio regionale. Questa connotazione non più e non solo attribuibile al paesaggio allo stato più o meno naturale. In Abruzzo, l’olivo ha rappresentato da sempre un importante valore identitario, tanto che le sue rappresentazioni stilizzate sono presenti negli stemmi araldici delle antiche casate locali. Dalla semplice lettura morfologica dei paesaggi antropizzati dall’attività agricola sono ancora evidenti diversi scenari multiformi di paesaggi capaci di restituire, tanto all’osservatore attento quanto a quello disincantato, una vasta gamma di porzioni di territorio sempreverdi. Tali paesaggi sono strutturati di volta in volta da punti, linee, superfici, masse o loro sovrapposizioni, opera e ingegno di speciali artisti che hanno operato con empirismo ma con geniale intuito in pieno campo, meglio conosciuti genericamente dalla società civile con il nome di agricoltori. La cultura dei popoli del Mediterraneo è indissolubilmente legata alla pianta dell’olivo e al prezioso nettare che dai suoi frutti si ottiene, l’olio. Un’interpretazione autentica di questa cultura è originalmente evocata dal paesaggio rurale della regione Abruzzo, per la sua particolare vocazione olivicola e olearia che affonda le sue radici nel passato e nell’incontaminato e aspro territorio rurale: dalle falde del Gran Sasso alla costiera adriatica, dalle colline teatine alle gole della Maiella. I differenti paesaggi ambientali sono ordinati dalla bastionata della cordigliera composta dai massicci della Laga, del Gran

Moderni paesaggi olivicoli abruzzesi

248


olivo in Abruzzo e Molise Sasso e della Maiella, che segnala con estrema nettezza la separazione tra i due grandi ambiti paesistici di cui la regione si compone: l’Abruzzo montano e l’Abruzzo marittimo, vale a dire le morbide groppe collinari che si estendono per 25-30 chilometri dalla linea del mare Adriatico. Ambiti paesistici che trovano un ulteriore riscontro su diversi fronti: da un lato l’argilla (versanti a ridosso della costa adriatica), dall’altro il calcare (versanti collinari a ridosso delle aree pedemontane); da un lato le piante sparse, disseminate a grumi sui dossi oppure isolate sui fondi, dall’altro uno stile insediativo rigorosamente compatto e accentrato; da un lato la coltura promiscua intensiva specializzata, fondata fino agli anni ’60 sulla mezzadria, con campi chiusi, tozzi quadrangoli circondati da siepi o comunque definiti da tracce invalicabili per il vicino, dall’altro la cerealicoltura estensiva imperniata fino all’ultimo dopoguerra sui diritti collettivi e sulle obbligazioni colturali, ossia sul rispetto di pratiche comuni, di sfruttamento comunitario del suolo, con campi aperti, strisce di terra molto più lunghe che larghe, prive di qualsiasi recinzione e disposte in maniera tale da preservare le pratiche e l’interesse della collettività. Diversità dunque delle figurazioni paesistiche dove appaiono accostati tutti i tipici lineamenti mediterranei, concentrati come in un catalogo. Nella “terra degli olivi” l’olivicoltura si è evoluta nei secoli per soddisfare gli usi e le necessità di numerose generazioni di coltivatori e successivamente di imprenditori, che per vocazione hanno sempre dedicato attenzione e cura alla pianta e al frantoio per incrementare la qualità dell’olio, modificando e orientando il progresso tecnologico senza incidere, però, sulle forme di paesaggio che la coltivazione ha diffusamente consolidato.

Abruzzo: olivi impiegati nell’arredo urbano

Olivi in Molise Viale aziendale delimitato da un doppio filare di olivi

249


paesaggio L’Abruzzo rappresenta indiscutibilmente una delle aree olivicole italiane di pregio, con una superficie di 45.000 ettari e una produzione di circa 140.000 tonnellate di olive; annualmente si ricavano, nei 600 frantoi presenti sul territorio regionale, circa 24.000 tonnellate di olio extravergine di qualità. A conferma di questo riconoscimento la regione Abruzzo vanta la produzione del primo olio italiano ad avere ottenuto il riconoscimento DOP nel 1996 con l’Aprutino-Pescarese, a cui hanno fatto seguito le denominazioni Colline Teatine e Pretuziano delle Colline Teramane. Per l’economia agricola della regione Abruzzo, l’olivicoltura rappresenta uno dei comparti produttivi più importati nonché una specializzazione del territorio, risultando molto ampia l’area di distribuzione della coltura che si estende dal mare alla montagna, dalle colline litoranee a quelle pedemontane della Maiella e del Gran Sasso. È evidente come in uno scenario così complesso siano riscontrabili differenti realtà olivicole, frutto della dimensione colturale e sociale delle aziende oltre che dell’influenza dei principali parametri climatici. Nel recente passato la mezzadria, riconosciuta come storica forma di conduzione delle aziende nell’Italia centrale, ha sicuramente condizionato la gestione degli oliveti. L’olivicoltura, infatti, in tale contesto, rappresentava una coltura secondaria perché considerata marginale alle attività principali quali la cerealicoltura e la zootecnia. La conferma di questo prevalente orientamento del sistema colturale è data dall’adozione di sesti di impianto senza schemi precisi, tipici di colture arboree perimetrali o consociate a colture di pieno campo erbacee e arboree. Nelle aree rurali dove la mezzadria è stata diffusamente presente, come le aree collinari del Teramano e in parte quelle del Pescarese, ancora oggi è evidente questa tipica

Tortiglione, tipica cultivar della provincia di Teramo

250


olivo in Abruzzo e Molise impostazione colturale. In altre zone, come quelle costiere della provincia di Chieti, invece, i filari di olivo delimitano i vigneti allevati a pergola, disegnando forme geometricamente regolari particolarmente caratteristiche sui versanti scoscesi esposti a mezzogiorno. Tuttavia, a queste particolari realtà territoriali si contrappongono significativi esempi di pregnante identità produttiva olivicola che si riscontrano nel comprensorio vestino, in particolare nei comuni di Moscufo e Pianella, caratterizzati dall’elevata specializzazione colturale e dalla diffusa presenza della varietà locale Dritta. Altri importanti comprensori regionali sono legati a interessanti varietà locali come la Toccolana per l’area di Tocco da Casauria e l’Intosso per Lanciano e i comuni vicini, in provincia di Chieti. Una particolare trattazione meritano le olivicolture minori come quelle dell’alta valle del Tirino nei comuni di Capestrano e Ofena, dove l’olivo è presente grazie alla coltivazione degli ecotipi Rustica e Gentile dell’Aquila, per la particolare adattabilità alle rigide condizioni ambientali tipiche dell’area pedemontana. Cultivar In Abruzzo, nonostante la limitata superficie coltivata a olivo, si evidenzia la presenza di un numero rilevante di cultivar, risultato di complesse evoluzioni e selezioni naturali e più recentemente dell’introduzione di nuove selezioni più rispondenti all’intensificazione colturale con cui l’olivicoltura abruzzese si è gradualmente sviluppata. Pertanto, se è vero che nel tempo alcuni ecotipi locali sono stati sostituiti da cultivar di nuova selezione, è altrettanto vero che l’evoluzione ha consentito la conservazione del rapporto di biodiversità tra le numerose cultivar attualmente coltivate. In ciascun microambiente si sono diffuse quelle che hanno manife-

Paesaggio collinare abruzzese

251


paesaggio stato la maggiore stabilità produttiva, adattandosi alle particolari e diversificate condizioni pedoclimatiche del territorio regionale, garantendo l’ottenimento di oli di qualità. In questo articolato scenario, tuttavia, vengono a distinguersi macro aree produttive territoriali dove la stessa cultivar è denominata con sinonimi solo per alcune specifiche caratteristiche morfologiche. Nell’area vestina è presente la Dritta, anche conosciuta con i sinonimi di Loretana o Lordana e Moscufese proprio a indicare la sua provenienza dai comuni pescaresi di Loreto Aprutino e Moscufo. Le piante, di media vigoria, si presentano con chioma rada a portamento espanso e contenuta produzione legnosa. Cultivar autosterile, si caratterizza per produttività elevata e costante. Suscettibile al cicloconio, è recettiva alla mosca olearia, con buona resistenza alla rogna. Varietà di origine toscana ma ampiamente diffusasi in regione a partire dagli anni ’60 e divenuta ormai una delle varietà più rappresentative del patrimonio olivicolo abruzzese, è Leccino o Leccio. Di medio sviluppo, resistente al freddo e ai più comuni parassiti, in particolare alla rogna, presenta una chioma raccolta, discreta produttività e media resa in olio. Predilige terreni fertili e profondi e al momento della maturazione i suoi frutti si presentano di colore nero corvino. In considerazione del buon rapporto tra polpa e nocciolo, Leccino è una cultivar a duplice attitudine, utilizzata sia nell’industria olearia sia per la produzione di olive “nere” da mensa, in salamoia “alla greca”, infornate e di pâté. Risultato di una selezione secolare fortemente legata al territorio sono: la Police o Toccolana, presente nei comuni di Tocco da Casauria e Castiglione a Casauria, la Castiglionese, impiantata negli oliveti di Castiglione

Olivo secolare in Molise

Giovani oliveti nelle colline molisane

252


olivo in Abruzzo e Molise a Casauria, la Castiglionese, impiantata negli oliveti di Castiglione Messer Raimondo, e la Carpinetana, denominata anche Pizzutella, coltivata a Carpineto della Nora, Civitaquana, Civitella Casanova, Vicoli e in misura minore in altri comuni della collina interna della provincia di Pescara. Una particolare varietà derivata da Frantoio prevale invece nel Chietino: è la Gentile, detta appunto Gentile di Chieti o Nostrana, la cui coltivazione è affiancata dal Leccino e, in misura minore, dall’Intosso, denominata anche Grossa o Indorse, e dal Croccalegno, denominata anche Crognalegna o Iannaro o Crognale. Robusta con portamento espanso e particolarmente resistente al freddo, la Gentile è molto produttiva, con frutti color rosa violaceo tendente al rosso, con una media resa in olio di buona qualità. All’olivicoltura specializzata del Pescarese e del Chietino, si affiancano gli oliveti a Leccino, Frantoio (denominata anche Frantoiano, Grognolo, Raraggio, Raggia) e Dritta, presenti nel Teramano oltre che alla tipica cultivar autoctona Tortiglione con piante dalla caratteristica e pronunciata crescita contorta del tronco, così come l’olivicoltura che interessa la fascia collinare subappenninica, la conca di Sulmona e la Valle del Tirino tra le province di Pescara e L’Aquila. Altre cultivar presenti localmente, sia in impianti specializzati sia come piante sparse nei campi coltivati a cereali e orticoltura da pieno campo, sono: Posola o d’Alannese, Posolella o precoce, Carboncella o Carvognola o Garbignola o Carbonella, Carbonchia o Carvogna o Imbrattasacchi.

Foto R. Angelini

Oliveti incorniciati dalle cime innevate della Maiella

Foto R. Angelini

253


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Toscana Riccardo Gucci

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Toscana Introduzione Olivo, vite e cipresso sono le tre specie vegetali che più facilmente vengono in mente pensando al paesaggio toscano. Appoggiati su una collina li troviamo riuniti in un’unica immagine, che è anche la sintesi emblematica della contrapposizione tra sistemi colturali intensivi (il vigneto in primo piano) ed estensivi (l’oliveto in secondo piano), tra giuste istanze di tutela del paesaggio agrario e necessità inderogabili di rinnovamento dell’agricoltura. Proprio l’oliveto mostra evidenti segni di una drastica potatura di ricostituzione che ha ridotto le dimensioni degli alberi e li ha resi più gestibili secondo criteri moderni. Il boschetto di cipressi sullo sfondo chiude il quadro e ne suggella l’identità toscana. In Toscana l’olivo è presente in tutte le province. Il 68% della superficie olivicola è in collina, l’8% in pianura e il rimanente 24% in montagna. Dal punto di vista climatico si possono distinguere grossolanamente due situazioni principali: la fascia costiera dal clima mite e piuttosto arido, le zone interne ove la stagione di crescita è breve, le precipitazioni relativamente abbondanti e gli inverni rigidi. Vi è poi un’ampia gamma di microclimi che si sovrappongono ai suddetti due principali e spesso ne alterano profondamente le caratteristiche. Nelle zone più fredde neve e brina creano paesaggi imbiancati, inconsueti per l’olivicoltura. Le gravi gelate impongono potature di ricostituzione e vincolano la forma di allevamento. Per esempio, la forma a vaso cespugliato diventa quasi obbligata per recuperare olivi seriamente danneggiati dal gelo. Così avvenne dopo gli ingenti danni da freddo del febbraio 1956.

Olivo nel paesaggio toscano

• Molti sono gli autori che si sono

cimentati con successo a scrivere sul paesaggio olivicolo in Toscana, mediante saggi o libri interi, illustrati spesso con documentazioni fotografiche di pregevole fattura. Braudel (1986), nella sua principale opera, individua nell’olivo il limite settentrionale del mondo mediterraneo, e la Toscana di case e olivi è proprio una delle regioni cerniera tra l’Europa continentale e quella meridionale

Olivo, vite e cipresso sono i marcatori vegetali inconfondibili del paesaggio collinare toscano

254


olivo in Toscana Per quanto riguarda il terreno, l’olivo è presente su quasi tutti i tipi di suoli, con l’eccezione di quelli molto argillosi ove si verificano di frequente condizioni di ristagno idrico e di asfissia per l’apparato radicale. Il colore della superficie ovviamente ha la sua importanza estetica, basti pensare alle terre rosse della Maremma e del Senese, ai mattaioni grigi del Volterrano, ai gialli delicati dei tufi e delle arenarie. L’inerbimento, oggi consigliato per ridurre l’erosione superficiale del suolo, stende un manto verde sulla superficie, che in primavera si accende dei colori delle fioriture della flora spontanea. Sistema produttivo, forma di allevamento e varietà incidono sul paesaggio olivicolo. La coltura specializzata, un tempo ristretta a poche province, oggi prevale in tutta la Toscana e rappresenta il sistema più moderno. Tuttavia, la coltura promiscua, seppur in regresso, è ancora diffusa. Filari di olivi contornano i campi, olivi da soli o insieme a cipressi e altre specie ornamentali arredano viali di case coloniche e strade campestri. La forma di allevamento prevalente nella regione è il vaso e le sue numerose varianti a seconda della zona. Basti ricordare il vaso policonico con le sue geometrie, il vaso cespugliato che ci ricorda delle gelate, il vaso con branche tagliate in cima “all’umbertina” e i grondacci allevati verso il basso per facilitare la raccolta delle olive senza scale, ancora visibile nel Fiorentino. Nei nuovi oliveti il vaso libero e il monocaule rispondono alle attuali esigenze di contenimento dei costi e di meccanizzazione. Le varietà più diffuse sono Moraiolo, Frantoio, Correggiolo e Leccino. Le prime tre sono documentate nel contado fiorentino già alla fine del XV secolo, la Leccino, di origine lucchese, si è diffusa dal dopoguerra per le sue ottime caratteristiche agronomiche. Un’indagine dell’inizio degli anni ’90 del Novecento

In sintesi

• Insieme alla vite l’olivo è protagonista

dell’economia rurale e della tradizione gastronomica ed è soprattutto insostituibile nella funzione ambientale, paesaggistica e culturale

• Le prime terre coltivate a olivo

furono il Livornese e la Lucchesia, poi Fiorentino, Senese, Aretino e Pistoiese. La grande svolta si ebbe nel periodo d’oro del Granducato. I Medici vollero dare un nuovo assetto alle campagne e tante famiglie del ceto popolare poterono usufruire di appezzamenti di terreno detti “predelle” con la corresponsione di un canone irrisorio a fronte dell’obbligo di impiantare vite e olivo. Grandi benefici arrivarono poi dall’Accademia dei Georgofili, dal Giornale agrario e dagli Istituti agrari di Meleto e dell’Università di Pisa

• 95.000 ha la superficie olivetata, di cui 29.000 solo a Firenze

• 19.000 tonnellate la produzione di olio • 70.000 aziende olearie • 417 i frantoi attivi • Varietà dominante è Frantoio,

Foto R. Angelini

quindi Moraiolo, Leccino, Pendolino, Correggiolo e tante altre meno conosciute che contribuiscono alla tipicità degli oli toscani

• La produzione è tutelata dall’IGP

Toscano che abbraccia tutta la regione con 8 sottozone

• Diverse le DOP: Chianti classico, Terre di Siena, Lucca e Colline di Firenze. In corso di istruttoria: Impruneta, Lucca, Colline di Arezzo

255


paesaggio stimava che circa il 48% degli olivi in Toscana era della varietà Frantoio e simili (in realtà è una varietà-popolazione che comprende un gran numero di ecotipi leggermente differenti da zona a zona), il 22% della Moraiolo, il 16% della Leccino e il rimanente 14% di genotipi minori. Senza entrare nel merito delle caratteristiche agronomiche e pomologiche delle diverse varietà, il diverso portamento degli alberi e la resistenza al freddo influiscono sul paesaggio. La varietà Moraiolo ha rami lunghi e poco flessibili, portamento assurgente e media resistenza al freddo. La varietà Frantoio ha portamento semi-pendulo, con rami lunghi e flessibili, ed è diffusa in tutte le province toscane, ma la relativa sensibilità al freddo ne riduce la produttività e la sopravvivenza in climi rigidi. La varietà Leccino è vigorosa, ha chioma espansa ed elevata resistenza al freddo.

Foto R. Angelini

Castello di Brolio

Terrazze, lunette e ciglioni Come in altre regioni italiane, l’olivo in Toscana vegeta spesso in aree dove le ripide pendenze costituiscono il vincolo principale alla coltura. La dura lotta per la messa a coltura e recupero dei suoli collinari, che ha coinvolto intere generazioni di contadini, ha origini lontane e annovera contributi teorici e pratici di valenti agronomi toscani, che già a metà del XVIII secolo si occuparono dei problemi dell’erosione e della regimazione idrica in collina. Tra i notevoli risultati ricordiamo lo sviluppo di sistemazioni collinari innovative, a girapoggio, a cavalcapoggio, a spina, ormai molto rare. Giovan Battista Landeschi (1810), sacerdote agronomo che gettò le basi per una corretta coltivazione in collina, descrisse l’importanza e il modo di costruire ciglioni inerbiti per ridurre la pendenza degli appezzamenti e consigliò di piantare olivi sopra il ciglione, secondo criteri minuziosamente descritti. Nei terreni sassosi, i

Foto R. Angelini

Monteriggioni (SI)

Foto R. Angelini

256


olivo in Toscana campi forniscono il materiale per i muretti a secco, che nelle zone più ripide possono giungere a migliaia di metri quadri per ettaro e diventano dei veri e propri muri a sostegno dei terrazzamenti. Nel tipico paesaggio del Chianti senese, gli olivi piantati piuttosto vicini gli uni agli altri occupano la parte centrale di terrazze sostenute da muri a secco. La forma a vaso cespugliato testimonia il ripristino della chioma con taglio alla base del fusto dopo la gravissima gelata del gennaio 1985 e l’allevamento successivo di alcuni polloni originatisi dal pedale. In zone declivi non particolarmente ripide o con scarsa disponibilità di pietre i muretti erano di altezza modesta e non sempre interessavano tutta la lunghezza della terrazza. Un certo volume di suolo in piano veniva trattenuto intorno a ciascun olivo tramite una lunetta, cioè una piazzola ottenuta costruendo un basso muretto a semicerchio a una certa distanza a valle del tronco. Di solito il suolo veniva lavorato e concimato solo nell’area della lunetta. Oggigiorno muri a secco, lunette e ciglioni sono interessati dagli stessi fenomeni di degrado e abbandono a causa degli alti costi di mantenimento e dalla scarsa redditività dell’olivicoltura in aree marginali (e non solo). Le sistemazioni a ciglioni sono state rarefatte da livellamenti, resi possibili dall’ampia disponibilità di macchine movimento terra e dalla scarsa sensibilità verso il problema dell’erosione superficiale nei decenni passati. I muri a secco hanno alti costi di manutenzione che si aggiungono ai vincoli di accesso e meccanizzazione degli oliveti terrazzati, e di fatto ne sanciscono l’insostenibilità economica. In tali condizioni svantaggiate anche la multifunzionalità dell’agricoltura appare inefficace in assenza di idonei incentivi, anche economici, che consentano ad agricoltori e proprietari di effettuare gli investimenti necessari per la salvaguardia di pregevoli ma fragili territori.

Oliveti su terrazzamenti nel Chianti senese

Foto R. Angelini

Oliveti e vigneti a Suvereto (LI)

Foto R. Angelini

Vigneti e oliveti a Montepulciano

257


paesaggio Bosco di olivi Il “bosco di olivi” non era altro che un oliveto specializzato, molto fitto, spesso recintato in caratteristiche chiudende, la cui presenza è documentata in forma scritta già dal periodo tardo-medievale nel contado di Pisa e che, pertanto, si distingueva dal resto dell’olivicoltura promiscua diffusa in Toscana. La specializzazione del “bosco di olivi” rendeva questo sistema molto produttivo e suscitava l’ammirazione dei tecnici dell’epoca. Il “bosco di olivi” non era esclusivo delle colline pisane, ma era diffuso, seppure con diverse varianti legate al clima, alla pendenza degli appezzamenti e alle consuetudini locali, anche nel Pesciatino, in Lucchesia e in Versilia. Le caratteristiche tecniche di tali oliveti specializzati, erano il gran numero di alberi per unità di superficie, l’irregolarità dei sesti di piantagione, la chioma impalcata alta (a oltre due metri dal suolo) su un unico fusto, sviluppata in alto, folta da somigliare a quella di alberi in una foresta. La potatura, non effettuata necessariamente ogni anno, era molto leggera, limitata a pochi tagli di rami secchi e dei succhioni, e lasciava la chioma libera di crescere. Questa tecnica di potatura era così diversa da quelle consuete in altre aree della Toscana da essere individuata come “pisana” fino a tutto il XIX secolo. Oggi sono ancora presenti estensioni rilevanti di oliveti specializzati con le caratteristiche del “bosco”, soprattutto nell’area dei Monti Pisani e in Versilia, in terreni di solito sistemati con terrazzamenti o lunette per ridurne la pendenza. Gli oliveti fitti e la forma di allevamento degli alberi producono effetti di notevole impatto visivo soprattutto nelle aree collinari. Tuttavia, l’età avanzata degli alberi, il precario stato di manutenzione delle sistemazioni permanenti, il difficile accesso e transito, soprattutto dove il pendio diventa più ripido e le terrazze più strette, determinano condizioni

Bosco degli olivi

• “Parimenti il sistema di coltivazione

non gli ha obbligati a potare gli ulivi, poiché le grandi olivete sono fatte a guisa di bosco cioè aprono delle buche senza ordine, né simetria e vi pongono i piantoni alla distanza di otto braccia circa senza mescolarvi né viti né frutti. Ordinariamente non vi seminano, ma nel caso vi fanno delle fave, delle vecce per sovesciarle a vantaggio degli ulivi stessi.” Così scriveva Francesco Chiarenti, agronomo, medico e politico toscano, nel 1822, a proposito degli oliveti nel contado pisano

Antico bosco di olivi

258


olivo in Toscana favorevoli per l’abbandono. La superficie del suolo è per lo più coperta dal prato naturale, che viene periodicamente falciato con piccoli attrezzi meccanici, mentre la brucatura da parte del pascolo ovino, un tempo diffusa, è praticamente scomparsa. Oggi la salvaguardia e il recupero di tali appezzamenti rappresenta un serio problema di natura ambientale e paesaggistica per la bassa produttività di questi oliveti, gli alti costi di produzione, la frammentazione delle unità colturali e i vincoli imposti dal territorio, che relegano “il bosco di olivi”, nei casi migliori, a una mera sussistenza legata all’autoconsumo.

Foto R. Angelini

Olivo in coltura promiscua della collina fiorentina Il Landeschi (1810) affermò, verso la fine del XVIII secolo, che per la potatura degli olivi “si può imparare dagli avveduti agricoltori fiorentini”. Non tutti furono concordi e il dibattito su quale fosse la tecnica di potatura più idonea e il sistema produttivo più adatto polarizzò per decenni l’attenzione sull’olivicoltura toscana. Come già accennato nel paragrafo precedente, i sistemi olivicoli a confronto erano la coltura specializzata diffusa nel Pisano e la coltura promiscua nell’agro fiorentino. Quest’ultima si caratterizzava per gli olivi, disposti in filari a delimitare i seminativi, secondo una consociazione colturale che rispondeva bene alle esigenze di autoapprovvigionamento, diversificazione produttiva e ottimizzazione temporale della forza lavoro della famiglia colonica o mezzadrile. Spesso gli olivi servivano anche da tutore vivo per l’appoggio delle viti, che completavano il filare insieme ad alberi da frutto. Le dimensioni degli olivi erano contenute attraverso potature severe che lasciavano pochi rami (e questo deprimeva la produttività) anche per consentire alla luce di penetrare attraverso le chiome e giungere al piano della coltura annuale. Ne risultavano olivi piccoOliveti attorno a Pienza

Foto R. Angelini

259


paesaggio li, con una struttura scheletrica ben visibile e poche fronde, i cui frutti venivano raccolti a mano direttamente. Era opinione diffusa che tenere gli olivi bassi serviva a renderli più resistenti al gelo e alla tramontana e che un cappello lanciato attraverso la chioma di un olivo ben potato dovesse passare da parte a parte senza incontrare ostacoli. Della coltura promiscua dell’olivo rimangono poche tracce in provincia di Firenze e nel Chianti. Più frequenti sono corruzioni del sistema originario, in cui il vigneto ha occupato del tutto o in parte lo spazio destinato ai seminativi e le chiome degli olivi non sono più potate secondo i rigidi criteri di un tempo. Nell’immagine a sinistra troviamo molti elementi tipici del paesaggio collinare fiorentino attuale, quali i vigneti specializzati e i boschi sullo sfondo, le chiome degli olivi piuttosto folte inframmezzate da singole viti sulla fila e con brevi filari di viti a riempire lo spazio tra le file di olivi. Olivicoltura della Maremma L’olivo compare nella Maremma toscana già in epoche remote, ma è solo negli ultimi due secoli, con il successo delle grandi bonifiche, prima granducali e poi dello stato unitario, che si diffonde e diventa elemento distintivo del paesaggio maremmano. Oggi l’olivicoltura delle province di Livorno e di Grosseto costituisce la parte più produttiva dell’olivicoltura toscana per motivi sia climatici sia di estensione media delle aziende. L’olivicoltura maremmana del passato si distingueva per la coltura consociata con i seminativi e i grandi olivi allevati a vaso policonico. Gli olivi, disposti in lunghi filari lungo le fosse laterali, delimitavano ampi appezzamenti destinati ai cereali. Gli olivi erano di

Olivicoltura promiscua in cui l’olivo è consociato con la vite. Sulla destra fa capolino parte della chioma di un salice, ormai non più capitozzato per produrre il materiale per legare le viti, contribuendo ad arricchire il quadro cromatico dominato dalle cangianti sfumature dei colori dell’autunno

Olivi lungo il viale di San Guido a Bolgheri

Foto R. Angelini

260


olivo in Toscana solito di grandi dimensioni, nei terreni più fertili arrivavano fino a 10 m di altezza, con la caratterstica chioma allevata a vaso policonico in cui quattro branche si diramavano da un unico fusto a un’altezza non inferiore a 1,5 metri. Questa forma di allevamento rappresentò il punto di arrivo di una lunga evoluzione tecnica della potatura e tuttora costituisce una delle migliori soluzioni sviluppate per conciliare le esigenze fisiologiche dell’albero e quelle gestionali. Con la crisi della mezzadria, entrò in crisi anche l’olivicoltura consociata della Maremma. Il vaso policonico nella sua forma e dimensione originale divenne troppo costoso da mantenere con la potatura, così come la raccolta e la difesa fitosanitaria risultarono impossibili da gestire secondo criteri moderni. Del vaso policonico rimangono però numerosi esempi opportunamente rimpiccioliti per tener conto delle attuali esigenze di meccanizzazione e di riduzione dei costi di produzione. Anche la coltura consociata diventò meno comune, ma non scomparve. L’immagine in basso è una testimonianza dei tanti casi che ancora costellano in modo inconfondibile il paesaggio olivicolo maremmano, come si può osservare facilmente percorrendo (in ferrovia o superstrada) il tragitto da Grosseto a Cecina. Come già detto, l’olivicoltura maremmana rappresenta oggi la spina dorsale di quella toscana per la sua alta produttività e la possibilità di produrre olio extravergine di oliva di alta qualità a costi relativamente contenuti. I moderni impianti produttivi si contraddistinguono per elevate densità di piantagione, forme di allevamento monocaule, chiome piuttosto folte senza una rigorosa geometria, predisposte per la raccolta meccanica.

Foto R. Angelini

Consociazione dell’olivo con seminativi nella Maremma toscana. Si noti l’ampia dimensione dei campi a seminativo delimitati dai filari di olivi

261


paesaggio Spesso è presente l’impianto di irrigazione. Dal punto di vista estetico, sebbene diversi da quelli del passato, gli effetti cromatici sono ugualmente interessanti e gradevoli, come si vede nella foto a lato in cui il colore verde intenso del fogliame degli olivi contrasta con l’ocra del suolo, a dimostrazione del fatto che la tutela di un bel paesaggio non è in contraddizione con le esigenze di una olivicoltura razionale. Olivo inselvatichito Non è certo se l’oleastro sia indigeno della Toscana. Segnalazioni sono state fatte nel passato per alcune aree costiere, in particolare nella parte meridionale della costa grossetana, ma le evidenze scientifiche non sono concordi. Se quindi non possiamo annotare la presenza dell’oleastro in Toscana con certezza, di sicuro vi è evidenza di olivi un tempo coltivati e oggi inselvatichiti. Non si tratta di alberi o cespugli isolati, ma talvolta di interi oliveti ormai sepolti o dispersi nel bosco o nella macchia. Non è una novità. Imberciadori (1953) scriveva: “nonostante i molti olivi pochissimo olio. Erano olivi troppo spesso non rischiarati, ma ammucchiati, non coltivati, con le barbe all’aria, abbandonati”. Di grande interesse paesaggistico e ambientale sono questi oliveti secolari abbandonati o quasi, contornati da vegetazione naturale, di cui ormai costituiscono parte integrante. Nella foto a lato in basso si vede il caso di un oliveto molto vecchio, risalente al periodo successivo alle bonifiche lorenesi, la cui gestione attuale è limitata alla raccolta delle olive e alla pulizia del suolo da parte del pascolo ovino e bovino allo stato brado. Le chiome degli olivi, lasciate crescere naturalmente, hanno assunto l’aspetto di gigantesche cupole grigio-verdi. Incorniciano il vec-

Oliveto intensivo di 10 anni in cui risalta il contrasto tra il colore del terreno e quello delle chiome

Foto R. Angelini

Vecchi oliveti in stato di semi-abbandono inseriti nella vegetazione di macchia mediterranea

262


olivo in Toscana chio oliveto una prateria di cisti in primo piano e il tipico groviglio di arbusti e alberi bassi della macchia sullo sfondo.

Foto R. Angelini

Conclusioni Non c’è dubbio che l’olivo sia un marcatore indelebile del paesaggio mediterraneo e toscano. Pertanto, non è raro che scrivendo sul paesaggio olivicolo ci si soffermi sugli aspetti tradizionali della coltura, magari con qualche nota nostalgica. L’olivo è specie longeva e, vivendo a lungo, gli oliveti divengono familiari a molte generazioni di uomini e ne suggestionano l’immaginario. Basti pensare a esemplari che sono autentici monumenti viventi, come l’Olivo della Strega a Magliano e quello di Semproniano in provincia di Grosseto o l’olivo di Massarosa in Versilia, ritenuti addirittura millenari sebbene manchi una datazione certa. Nelle aree a clima più mite, oltre ad alberi singoli, esistono, e sono tuttora produttivi, interi oliveti secolari di fronte ai quali non è possibile rimanere insensibili e che rappresentano un patrimonio da tutelare con opportune misure. Tuttavia, spesso il dibattito sul paesaggio sembra focalizzarsi solo sulla mera conservazione senza considerare le necessità di rinnovamento dei sistemi colturali. Succede così che le misure proposte siano spesso solo di tipo prescrittivo e impediscano l’adeguamento degli impianti alle moderne esigenze, e questo sembra avvenire per l’olivicoltura più che per altre filiere agricole. Servono, invece, delle linee di indirizzo chiare che possano guidare i produttori nel rinnovo degli oliveti in modo da non stravolgere il territorio, ma nella consapevolezza che il paesaggio è sempre il frutto di trasformazioni. Per tutelare veramente il paesaggio olivicolo bisogna essere pronti ad accettarne l’evoluzione secondo pratiche sostenibili che assicurino la continuità produttiva e multifunzionale di questa coltura.

Vigneti alternati a oliveti a Bolgheri

Foto R. Angelini

263


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Umbria Primo Proietti, Giorgio

Pannelli

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Umbria Premessa L’Umbria concorre con meno del 2% alla produzione nazionale di olio, ma può considerarsi una delle più interessanti aree olivicole del Paese sia per la qualità e la tipicità del prodotto, sia per i molteplici riflessi e le connessioni che l’olivo ha da tempi remoti nella storia, nella cultura, nel tessuto economico-sociale e nel paesaggio della regione. In Umbria la presenza dell’olivo non è spontanea, ma frutto della tenacia e della passione dell’uomo che con quest’albero ha stabilito un rapporto che all’aspetto produttivo associa valenze simboliche, sociali e culturali. Gli olivicoltori umbri, infatti, hanno sempre riservato un’attenzione particolare all’olivo e, al verificarsi di ogni circostanza avversa, hanno provveduto a sostituire le piante morte e a curare quelle danneggiate o malate; così l’olivo, divenendo simbolo di forza e di longevità, vive la sua vita secolare nonostante le frequenti avversità che lo colpiscono, contribuendo in maniera decisiva all’odierna immagine dell’Umbria nel mondo. Gran parte dell’olivicoltura umbra è rimasta ai margini del processo di intensificazione colturale che ha caratterizzato l’agricoltura negli ultimi decenni e che ha determinato profonde alterazioni dei paesaggi agrari tradizionali. Ciò, se da una parte ha determinato una progressiva marginalizzazione e insostenibilità economica della coltura, dall’altra ha consentito la conservazione dell’arcaica bellezza di numerosi paesaggi olivicoli, frutto del lavoro di generazioni di olivicoltori. Il geografo francese Henri Desplanques, nel 1975, scrisse che i paesaggi agrari della collina tosco-umbro-marchigiana sono stati realizzati “come se non si avesse altra preoccupazione che la bellezza”.

In sintesi

• Umbria è sinonimo di olio di qualità, sul suo territorio l’olivo cresce dappertutto

• Gli Etruschi furono i primi a coltivare

l’olivo e prosperarono grazie ai proventi del commercio dell’olio. A Orvieto è visibile il frantoio detto Mulino di Santa Chiara che ha spremuto olive dal tempo degli Etruschi fino al Seicento. I Romani ne incentivarono gli impianti, come testimoniano numerosi reperti quali i dolii (tipici contenitori di olio). Con la crisi del mercato romano iniziò la decadenza e a ripiantare gli olivi furono gli ordini monastici che davano in affitto gli oliveti ai contadini. Nell’Ottocento lo Stato Pontificio promosse l’olivicoltura per ripopolare le aree incolte. Le gelate del 1929 e del 1956 hanno ridotto le superfici

• 31.000 ettari di superficie coltivata • 31.600 produttori • 7,5 milioni di piante • 35.000-60.000 tonnellate la produzione a seconda dell’annata. La resa media in olio è del 18,5% pari a 6500-11.000 tonnellate di olio prodotto

Foto R. Angelini

• 270 frantoi oleari di cui il 70% è aziendale mentre il resto è artigianale o industriale

• Varietà principali: Moraiolo (41,7%),

Leccino (21,5%), Frantoio (20,4%), Dolce Agogia (5,9%), San Felice (1,4%)

• La superficie aziendale media è pari a 1 ettaro (78% delle aziende)

• 1 DOP Umbria prevede 5 sottozone: - Colli Assisi-Spoleto - Colli Martani - Colli Amerini - Colli Orvietani - Colli del Trasimeno

Oliveti intorno ad Assisi con il celebre complesso del Sacro Convento e della Basilica di San Francesco

264


olivo in Umbria La scarsa propensione all’intensificazione colturale nell’olivicoltura, con conseguente vetustà di gran parte degli impianti, è dovuta soprattutto alle limitazioni pedoclimatiche (con particolare riferimento alle basse temperature invernali) che deprimono l’attività vegetativa e il potenziale produttivo degli alberi, scoraggiando investimenti nel settore. Tuttavia, sussiste la possibilità di recuperare competitività rispetto a zone più produttive puntando sia ad attività non direttamente legate alla produzione, ma ai servizi culturali e turistici in un’ottica di multifunzionalità, sia al valore aggiunto di un olio di qualità superiore per valenze nutrizionali, salutistiche e sensoriali, obiettivi facilmente perseguibili in Umbria per effetto dell’ottimale e sinergica combinazione fra varietà, territorio, tradizione e professionalità degli olivicoltori. Ambiente olivicolo L’Umbria occupa un territorio di quasi 8500 km2, il 6% dei quali costituito da pianure, il 41% da colline intercalate da valli alluvionali con fianchi spesso ripidi e il 53% da rilievi montuosi che a nord e a Oriente costituiscono la dorsale appenninica umbromarchigiana. Le condizioni climatiche, come sopra accennato, sono tutt’altro che ideali per la coltivazione dell’olivo. La regione, infatti, rientra nella sottozona fredda dell’areale di coltivazione della specie ed è quindi soggetta al rischio di gelate capaci di provocare danni anche molto gravi alle piante. In tale situazione fattori quali l’altitudine, l’esposizione e la scelta varietale possono determinare condizioni di minori rischi per la coltura. In particolare, le zone collinari comprese tra 300 e 500 m s.l.m., con esposizione a ovest, sud e sud-ovest, offrono maggiori garanzie di sopravvivenza alla coltura sia per il ridotto rischio di

La scarsa incidenza del processo di intensificazione colturale ha consentito la conservazione dell’arcaica bellezza di numerosi paesaggi olivicoli umbri, frutto del lavoro di generazioni di olivicoltori Oliveti e panorama su Gubbio, dove si staglia la mole cubica del Palazzo dei Consoli, sorto tra il 1350 e il 1352 a controllo della città e del territorio circostante

Foto R. Angelini

265


paesaggio gelate, sia per i minori livelli di umidità atmosferica. La frastagliata distribuzione territoriale degli oliveti, le ridotte dimensioni degli alberi, le modeste e incostanti produzioni unitarie, le frequenti deformazioni del tronco e la scarsa densità della chioma sono tutte conseguenze delle difficili condizioni climatiche, cui si aggiunge la povertà di gran parte dei terreni destinati all’olivicoltura. La coltivazione dell’olivo è largamente diffusa in entrambe le province di Perugia e Terni e si ritrova soprattutto nelle colline che chiudono la Conca ternana e la Valle Umbra, a quote variabili dai 150-200 m nella prima e fino ai 500-600 m nella seconda, sopra Foligno, Trevi, Campello, Spoleto. Altre aree con elevata diffusione dell’olivo sono quelle prospicienti la media Valtiberina e il territorio limitrofo al lago Trasimeno. Solo nell’alta Valtiberina e nell’alta Valnerina, per effetto delle condizioni climatiche particolarmente avverse, l’olivicoltura è praticamente assente o sporadica in alcune pendici riparate dai venti freddi, dove comunque la produzione è molto scarsa e incostante. La zona di maggior concentrazione olivicola è in Valle Umbra, lungo la dorsale pedemontana appenninica occidentale che parte da Assisi, piega verso Nocera Umbra e si spinge fino a Spoleto. L’ambiente è piuttosto freddo, ma si avvale delle solatie pendici riparate dai venti del Nord. Il terreno è costituito da breccia calcarea, mescolata a scarso terreno argilloso; lo spessore dello strato coltivabile è disforme in quanto negli avvallamenti è abbastanza profondo, mentre sulle pendici è spesso molto limitato. Oltre a presentare insoddisfacente fertilità, tali tipologie di terreno, in annate siccitose, possono determinare stress idrici alle piante. Per questo nel territorio domina la cultivar Moraiolo, adattata a queste difficili condizioni pedoclimatiche. In queste zone gli oliveti sono specializzati e furono impiantati con un’elevata densità di piantagione, fino a 350-500 piante per ettaro

L’Umbria rientra nella sottozona fredda dell’areale di coltivazione dell’olivo che, di conseguenza, è soggetta a rischi di gelate, anche distruttive

Le ridotte dimensioni e le scarse produzioni degli alberi, le frequenti deformazioni del tronco e la scarsa densità della chioma sono conseguenza delle difficili condizioni pedo-climatiche di coltivazione

La zona di maggior concentrazione olivicola è in Valle Umbra. Il terreno, di profondità disforme e limitata, è costituito da breccia calcarea mescolata a scarso terreno argilloso

266


olivo in Umbria alle maggiori altitudini, per realizzare precoci e relativamente elevate produzioni per ettaro nonostante le limitate produzioni per albero. Le dimensioni degli olivi sono modeste, anche se esistono sporadici esemplari di notevole mole. La forma di allevamento prevalente è il vaso cespugliato, utilizzata per accelerare il recupero produttivo degli alberi danneggiati dalle gelate del 1956 e del 1985 e ottenuta allevando 3-4 polloni emersi dalla ceppaia. L’area del Trasimeno si presenta come un anfiteatro collinare che circonda quasi integralmente il lago (126 km2, il più esteso dell’Italia peninsulare, vincolato come Parco Regionale), eccetto che sulla parte occidentale, dove si apre in una fascia pianeggiante verso la Toscana. Il clima, grazie alla leggera azione mitigatrice delle acque del lago, è più favorevole per l’olivo rispetto alla fascia pedemontana appenninica e di conseguenza gli alberi, anche per la disponibilità di terreni più fertili e profondi, sono ricchi di fronde, sviluppano e producono maggiormente. Le temperature invernali relativamente miti e l’elevata umidità atmosferica favoriscono, però, lo sviluppo di alcuni parassiti dell’olivo verso cui sono in genere tolleranti le principali varietà tradizionali (per es. Dolce Agogia, particolarmente tollerante all’occhio di pavone). Ancora presenti sono la coltivazione promiscua, dove gli olivi sono consociati con colture erbacee, e impianti con alberi disposti senza regolarità geometrica. Nelle due fasce pedemontane della catena dei monti Martani, a partire da Sangemini verso occidente e da Spoleto verso oriente e nelle sue propaggini settentrionali fino a Torgiano attraverso i comuni di Montefalco, Giano dell’Umbria, Bevagna, Bettona ecc., il clima è più fresco e umido rispetto a quello del versante orientale della Valle Umbra. Le colline sono ricoperte da depositi fluvio-lacustri rappresentati da ghiaie, conglomerati, sabbie e argille ricche, talvolta, di depositi ligniferi e torbosi. Spesso i terreni

Gli oliveti lungo la dorsale pedemontana appenninica occidentale sono specializzati e caratterizzati da un’elevata densità di piantagione, le dimensioni degli olivi sono modeste, la forma di allevamento prevalente è il vaso cespugliato

Nell’areale del Trasimeno clima e terreno sono più favorevoli. Talvolta persiste la coltivazione promiscua con alberi disposti sul terreno senza regolarità geometrica (a destra)

267


paesaggio presentano un’elevata quantità di calcare che, comunque, non causa problemi alla coltura. Nella zona prevale la coltivazione della cultivar Moraiolo, seguita da Frantoio, Leccino e San Felice, diffusa quest’ultima prevalentemente intorno all’omonima abbazia nel comune di Giano dell’Umbria. Anche nell’Umbria meridionale e sud-occidentale l’olivo trova la sua sede naturale in collina, addensandosi maggiormente sulle pendici che fiancheggiano la Conca ternana e la Valnerina, su quelle che sovrastano la riva sinistra del Tevere e la destra del fiume Paglia, sui dossi calcarei e ghiaiosi di Narni, Amelia e Otricoli e sulle trachiti vulcaniche circostanti Orvieto. Predomina la cultivar Moraiolo (sinonimo Carboncella) e in minor misura le cultivar Leccino, Frantoio e Raio. Le condizioni climatiche e orografiche sono migliori di quelle della zona pedemontana appenninica, tanto che già nella seconda metà dell’Ottocento i folti oliveti che si distendono da Rocca San Zenone fino a Cesi venivano descritti come piante di maggiori dimensioni rispetto a quelle coltivate alla stessa altitudine in Foligno e Spoleto, per effetto di favorevoli condizioni topografiche che inducono temperature più elevate. Il terreno spesso presenta caratteristiche sub-ottimali, in quanto l’olivo in genere è relegato su pendici impervie, povere, aride e a volte con carenze di calcio. Cenni storici sulla coltivazione dell’olivo L’olivicoltura umbra ha radici antichissime: gli Etruschi, oltre la riva destra del Tevere, furono i primi a coltivare l’olivo utilizzando i frutti per il consumo diretto, così come testimoniato dal ritrovamento di noccioli in contenitori posti all’interno di tombe etrusche del VII secolo a.C. A Bovara (frazione di Trevi, PG), si trova uno dei più vecchi olivi d’Italia, testimone secondo la tradizione del martirio di

La diffusione dell’olivo avviene anche in prossimità di importanti insediamenti religiosi come il santuario Madonna delle Grazie in Bevagna (in alto) e l’abbazia di San Felice in Giano dell’Umbria (in basso) Sulle trachiti vulcaniche circostanti Orvieto, l’olivo trova la sua sede naturale

Foto R. Angelini

268


olivo in Umbria Sant’Emiliano, che sarebbe avvenuto nel 304 d.C. proprio sotto un giovane olivo nei pressi di Bovara, località ritenuta sacra dai pagani, durante la persecuzione dei cristiani operata dall’imperatore Diocleziano. L’olivo di Sant’Emiliano presenta un tronco con perimetro di ben 9 m. Nel Ternano le origini della coltivazione dell’olivo risalgono all’epoca romana, così come testimoniato da vari reperti ritrovati in edifici dell’epoca, nonché da resti archeologici di frantoi per l’estrazione dell’olio dalle olive rinvenuti nel 1870 a nord-ovest di Terni e recentemente in località Tripozzo, nel comune di Arrone. L’estremità meridionale dell’Umbria, che fu parte dell’antica Sabina, mandava a Roma olio, vino e altri prodotti avvalendosi, probabilmente, del sistema di collegamento fluviale Nera-Tevere con l’antico “porto dell’olio” di Otricoli posto in un’ampia ansa del Tevere, ora interrata per il deviare del corso del fiume. La caduta dell’Impero Romano e le successive invasioni barbariche portarono allo spopolamento delle campagne e all’abbandono della coltivazione dell’olivo. L’interesse per l’olivicoltura riprese a partire dalla fine del XII secolo, soprattutto a opera delle grandi

Martirio di Sant’Emiliano

• Nella Chiesa di Sant’Emiliano a Trevi,

sulla cantoria seicentesca sopra la porta principale, sono raffigurate, in sette pannelli dipinti a olio su tavola risalenti al XVII secolo, scene del martirio di Sant’Emiliano. L’ultima scena raffigura il Santo che sta per essere decapitato ai piedi di un giovane olivo

• Tutti gli episodi del martirio sono

descritti nella Passio Sancti Miliani Martiris, in cui si menziona l’olivo che per tradizione, da tempo immemore, si chiama appunto il piantone di Sant’Emiliano. Della Passio esistono due codici, uno a Montecassino, databile tra il IX e il X secolo, e l’altro nel Duomo di Spoleto del XII secolo, entrambi ritenuti copie di precedenti codici del V-VI secolo

Gli olivi nodosi, scanalati, contorti e sofferenti, ma vitali e indomiti, simboleggiano le mutevoli vicende della vita, l’umiltà e la forza delle genti che li hanno coltivati. Giovani olivi, invece, esprimono la volontà di aprirsi al futuro, in un rinnovamento che trae linfa vitale dal passato

Vicino a Trevi c’è il millenario olivo di Sant’Emiliano raffigurato nella scena del martirio del Santo sulla cantoria seicentesca della chiesa a lui dedicata

269


paesaggio congregazioni religiose animatrici di innovative tecniche agricole. A partire dal Quattrocento, aumentando il consumo e il valore dell’olio, è documentata la presenza di una consistente quantità di olivi nelle colline tra Assisi e Spoleto, con una coltivazione effettuata all’interno della cinta muraria di alcune città, di cui ancora oggi rimangono testimonianze ad Assisi, Spello, Foligno, Trevi e Spoleto. Fuori da queste l’olivo veniva protetto dal pascolo del bestiame nelle clausurae, termine dal quale deriva la parola “chiusa” ancora oggi comunemente usata per indicare un appezzamento olivetato. Le chiuse erano delimitate da muri a secco o da siepi. Nel XVI e XVII secolo crebbe ulteriormente l’interesse per la coltura e l’olivo si diffuse ampiamente anche verso la fascia altimetrica dei 500-600 m in sostituzione del bosco. I monaci dell’abbazia benedettina di San Pietro in Perugia, dopo aver ammantato di olivi quasi tutti i pendii delle frazioni circostanti la grande casa religiosa, intensificarono la coltivazione anche nelle colline della restante immensa proprietà, lungo la valle del Tevere. Nei contratti di enfiteusi, affitto e colonia comparve frequentemente l’obbligo di piantare olivi. Nella seconda metà del Cinquecento gli oliveti erano così copiosi che la conca ternana fu descritta come un giardino capace di produrre olio in abbondanza. Gran parte dei suggestivi oliveti tradizionali, tuttora visibili in Umbria, è principalmente frutto di interventi a sostegno di nuove piantagioni approntati a più riprese dallo stato Pontificio a partire dalla seconda metà del Settecento, fino all’Unità d’Italia. Gli olivi vennero impiantati con sesto regolare per facilitare il conteggio da parte degli addetti al controllo per l’elargizione degli incentivi. L’opera si trasmise al neonato Stato unitario, contribuendo alla trasformazione del paesaggio lungo l’intera fascia collinare che corona il bacino del fiume Tevere e dei suoi numerosi affluenti.

I monaci benedettini dell’abbazia di San Pietro in Perugia (in alto) si fecero animatori di innovative tecniche agricole. La coltivazione dell’olivo fu introdotta anche all’interno della cinta muraria di alcune città come ad Assisi (in basso) Olivi presso la Pieve di Orvieto. Le congregazioni religiose ebbero un ruolo fondamentale nel rilanciare l’olivicoltura

Foto R. Angelini

270


olivo in Umbria

Nei primi decenni del Novecento all’olivo si attribuiva ancora un’importanza straordinaria sia in campo economico per il suo ricco prodotto, sia in quello sociale per il vasto impiego di manodopera nella stagione invernale. La coltivazione si svolgeva prevalentemente in consociazione erbacea e/o arborea nelle aziende mezzadrili ubicate al limite altimetrico inferiore della specie, a confine con la valle, dove il terreno è più fertile. La coltivazione specializzata era per lo più praticata alle maggiori altitudini, dove restava prerogativa della media e grande proprietà. La coltura promiscua svolgeva un importante ruolo di supporto all’economia dei piccoli produttori, anche nell’ottica di rendere autosufficiente la famiglia contadina. I due tipi di coltura si distinguono per la

Nel XVI e XVII secolo crebbe ulteriormente l’interesse per la coltura e l’olivo si diffuse ampiamente anche verso la fascia altimetrica dei 500-600 m in sostituzione del bosco Tra il finire del Settecento e l’Unità d’Italia risultarono impiantati in Umbria 562.000 nuovi olivi, disposti con sesto regolare per facilitare il conteggio da parte degli addetti al controllo per l’elargizione degli incentivi dello Stato Pontificio

271


paesaggio densità di piantagione, con olivi molto più distanziati fra loro nel caso di coltivazione promiscua. Nella seconda metà del Novecento la superficie olivicola e il numero delle piante di olivo si è ridotto progressivamente, soprattutto per effetto della vetustà degli impianti e dei danni provocati dalle gelate, che hanno determinato la morte di molti alberi, non sufficientemente compensata da nuove piantagioni. Negli ultimi decenni, inoltre, l’estirpazione delle piante nelle zone più prossime alla pianura, dove si praticava la coltivazione promiscua, l’abbandono degli oliveti nelle aree più impervie e la scarsa incentivazione alla realizzazione di nuovi impianti hanno determinato un’ulteriore contrazione della superficie coltivata a olivo. Stato attuale e importanza dell’olivicoltura Attualmente in Umbria sono dediti all’olivicoltura circa 31.600 produttori che operano su una superficie di poco superiore ai 31.000 ettari (il 60% circa della superficie agricola regionale destinata a colture legnose), sui quali sono collocati circa 7,5 milioni di piante. L’estrazione dell’olio dalle olive è attuata in circa 270 frantoi oleari. La quantità di olio prodotta annualmente varia da 6500 a 11.000 tonnellate. Le varietà di olivo in ordine di diffusione sono Moraiolo (41,7%), Leccino (21,5%), Frantoio (20,4%), Dolce Agogia (5,9%), San Felice (1,4%), Raio (1,0%) e altre (6%), reperibili in quantità limitata e in aree circoscritte, ove si sono adattate a particolari condizioni ambientali. Il 70% circa della superficie olivicola è ubicata su versanti collinari con una pendenza media del 20%. In queste aree, per condizioni pedoclimatiche e orografiche, scarse o nulle sono le alternative colturali e occupazionali e, quindi, numerosi agricoltori traggono dalla coltivazione dell’olivo la totalità o gran parte del loro reddito.

Nella prima metà del Novecento la coltivazione si svolgeva prevalentemente in consociazione erbacea e/o arborea al limite altimetrico inferiore della specie, mentre la coltivazione specializzata era per lo più praticata alle maggiori altitudini

272


olivo in Umbria

Museo dell’Olivo e dell’Olio di Torgiano

• Il percorso nel Museo dell’Olivo e

dell’Olio in Torgiano si snoda lungo dieci sale, ambientate nei locali che furono già sede di un frantoio, e ospita una ricca documentazione sulle caratteristiche della specie, sull’evoluzione delle macchine olearie, dal V millennio a.C. ai nostri giorni, sulla presenza dell’olio e dell’olivo nel quotidiano, sugli usi e sulle valenze a essi attribuiti nel corso del tempo, sugli impieghi dell’olio come fonte di illuminazione, nei rituali delle grandi religioni, nella medicina, nell’alimentazione, nello sport, nella cosmesi, come fonte di riscaldamento e sulle valenze simboliche, propiziatorie, apotropaiche e curative. Oliere e salsiere, ampolle per profumi e balsamari, fra cui il bellissimo unguentario egizio in alabastro risalente al 1500 a.C., bracieri e scaldini, testi dotti e oggetti di manifattura popolare testimoniano i diversi usi dell’olio nei secoli

Cultura dell’olivo e dell’olio L’interesse turistico per la regione Umbria, che va progressivamente crescendo a livello nazionale e internazionale, può essere in larga parte attribuito alla singolare e sobria bellezza dei paesaggi olivicoli e all’armonioso raccordo che essi stabiliscono fra campagna e città, fra passato e presente, fra quotidiano e mistico, fra lavoro e cultura, fra mito e scienza. Interessanti testimonianze sull’importanza dell’olivo e dell’olio nella cultura delle popolazioni dell’Umbria sono il Museo dell’Olivo e dell’Olio e il Museo della Civiltà dell’Ulivo. Il primo ha sede entro le mura castellane di Torgiano (PG), in un piccolo nucleo di abitazioni medievali, dove era collocato un frantoio; il secondo ha sede nei suggestivi spazi dell’ex convento di San Francesco

• In particolare, nella sala dedicata ad

Athena, sono esposti, accanto a diversi interessantissimi reperti, un prezioso alábastron attico in ceramica a figure rosse e una lucerna trilicne marmorea del VII secolo a.C., superbo esempio di arte dedalica. Fra la raccolta di lucerne, degni di notevolissima attenzione sono la bilicne romana in bronzo, ageminata in argento e rame, e le due preziose lucerne da scala fiorentine del XVI secolo

• Il percorso museale si conclude con una grande tavola raffigurante un campo di olivi al vento, che attesta l’attenzione riservata al paesaggio olivicolo nel concepimento e allestimento del museo

Nel Museo dell’Olivo e dell’Olio in Torgiano sono esposti (da sinistra) un prezioso alábastron attico, una lucerna trilicne marmorea del VII secolo a.C. e una lucerna da scala fiorentina del XVI secolo

273


paesaggio

Museo della Civiltà dell’Ulivo di Trevi

• Il Museo illustra la storia millenaria

dell’olivo nell’ambiente mediterraneo in quattro sezioni: botanica, conosciamo l’olivo e l’olio, l’olivo simbolo di pace e storia dell’olivo

• L’impiego di oggetti legati alla simbologia dell’olivo e all’uso dell’olio in ambito mediterraneo è documentato sia da un’esposizione di lucerne e unguentari medio-orientali ed europei, sia dalla ricostruzione della fabbrica di profumi di Pyrgos (2000 a.C.) nell’isola di Cipro

Macina in pietra per la frantumazione delle olive e torchio per l’estrazione dell’olio composto da colonne e madre-viti in legno

a Trevi (PG). Entrambi documentano la storia dell’olivo, l’importanza dell’olivicoltura nelle trasformazioni del paesaggio collinare umbro e nel contesto sociale e artistico nel corso della storia, gli usi quotidiani dell’olio come condimento, medicamento e fonte di luce e le sue valenze simboliche. Altra iniziativa di notevole importanza è la recente realizzazione della Strada dell’olio extravergine di oliva DOP Umbria, costituita da un unico itinerario che coinvolge tutto il territorio regionale interessato alla produzione dell’olio extravergine di oliva DOP Umbria, la quale, riconosciuta con regolamento (CE) n. 2325/1997, prevede 5 menzioni geografiche: Colli Assisi-Spoleto, Colli Martani, Colli del Trasimeno, Colli Amerini e Colli Orvietani. La Strada dell’Olio si pone come autorevole elemento di integrazione

Premio Ercole Olivario

• Tra le manifestazioni olivicole umbre

va ricordato il premio Ercole Olivario, nato nel 1993 per iniziativa dell’Unione delle Camere di Commercio dell’Umbria e delle Camere di Commercio di Perugia e Terni: è il premio nazionale per i migliori oli extravergine d’oliva e DOP più ambito per migliaia di olivicoltori italiani. La fase finale dell’Ercole Olivario, alla quale partecipano le aziende vincitrici delle selezioni regionali, si tiene tutti gli anni a Spoleto (PG)

La Strada dell’Olio si pone come autorevole elemento di integrazione tra tutte le poliedriche risorse che animano il territorio olivicolo regionale (a destra la Torre dell’Olio di Spoleto)

274


olivo in Umbria tra tutte le poliedriche risorse artistiche, naturalistiche, storiche, religiose, gastronomiche e agroalimentari che animano il territorio olivicolo regionale. Essa si snoda in territori spesso marginali rispetto ai flussi turistici più consolidati, trasformando il viaggio in un’occasione per riscoprire le risorse naturali e le tradizioni popolari, fra esemplari di olivi secolari, suggestivi oliveti, frantoi, alcuni dei quali di rilevante interesse storico come quello nella grotta di tufo di Orvieto (TR) e quello di epoca romana di Arrone (TR), musei e beni artistici, fra i quali la Torre dell’Olio di Spoleto (PG) e l’antico porto dell’olio sul fiume Tevere. Paesaggi olivicoli In gran parte delle aree olivicole umbre, paesaggi arcaici documentano le vicissitudini storiche, le motivazioni economico-sociali e le esperienze culturali e tecnologiche che li hanno modellati. Il lavoro delle generazioni passate è ben percepibile soprattutto negli oliveti delle fasce pedemontane, sui versanti ben esposti dove minori sono i rischi di danni da freddo, anche in terreni molto calcarei, superficiali, sassosi e fortemente acclivi, non idonei ad altre colture, ma nei quali l’olivo riesce a sopravvivere grazie alla sua frugalità. La coltivazione in questi territori è il risultato dell’ingegno, dell’operosità e della tenacità dell’uomo che, lavorando duramente per generazioni sui versanti ripidi e sassosi, ha adattato l’albero alle sfavorevoli condizioni ambientali, realizzando complesse opere che nel tempo sono andate stratificandosi le une sulle altre, disegnando un paesaggio dinamico, indivisibile ed emozionante, che offre una straordinaria varietà di panorami e di scorci suggestivi. Il confine fra il limite superiore della fascia di coltivazione dell’olivo e il bosco in alcuni casi è netto e geometrico, per cui si evidenziano linee di demarcazione orizzontali, verticali o oblique che, spezzando le pendici e le continuità boschive, esaltano il contrasto fra il verde cupo, la compattezza e l’irregolarità del bosco e il verde argenteo e le rade geometrie degli oliveti. In altri casi, dove la roccia affiorante tende a prevalere sul terreno, i confini fra oliveti e bosco perdono la loro continuità poiché porzioni di oliveto si inframmezzano irregolarmente al bosco, creando una transizione più armonica e naturale. La mancanza e/o l’insufficienza della copertura vegetale, rendendo i pendii fragili, facile preda dell’erosione e del dissesto idrogeologico, ha imposto la necessità di difendere questi territori da rischi idrogeologici e la sottostante pianura da allagamenti. Ecco quindi che con opera dura, enorme e secolare è stato rimodellato il profilo delle pendici delle dorsali montane e collinari per ricavare strisce o fazzoletti di terra adatti alla coltivazione e per preservare dall’erosione l’esigua quantità di terreno disponibile, a volte addirittura trasportata a spalla dal fondovalle, imprimendo alle pendici più scoscese quei tratti che attualmente caratterizzano

In Umbria i processi evolutivi dell’olivicoltura sono stati molto limitati e paesaggi arcaici sono rimasti immutati fino ai nostri giorni fondendosi armoniosamente con contesti agrari più evoluti

Il confine fra il limite superiore della fascia di coltivazione dell’olivo e il bosco in alcuni casi è netto e geometrico, in altri casi i confini fra oliveti e bosco sono irregolari

275


paesaggio questi territori: terrazzamenti, ciglioni inerbiti, lunette circolari, muretti di pietra a secco ecc. Queste sistemazioni costituiscono un simbolo della vittoria dell’uomo sulle avversità naturali e sono considerate fra le più imponenti e più suggestive trasformazioni fondiarie che può vantare la storia dell’agricoltura. Grazie all’insieme di queste opere, gli oliveti caratterizzano il paesaggio collinare con continuità, ma senza monotonia, bensì con una serie di effetti e connotazioni, diversi da zona a zona, ma sempre interessanti e di singolare e sobria bellezza. Le opere di sistemazione sono minime nelle aree pianeggianti e sulle colline con modesta pendenza, mentre a quote superiori, dove l’inclinazione del terreno si accentua, sono frequenti e ben visibili, anche a distanza, dai fondovalle. Queste opere, che tuttora proteggono egregiamente i terreni dal punto di vista idrogeologico, sono state realizzate secondo modalità differenti in funzione della pendenza del terreno. La sistemazione a ciglioni, che venne avviata già fra il XIV e il XV secolo, fu realizzata su colline con pendenze inferiori al 40% predisponendo una scarpata, o ciglio, in terra battuta. Essendo attuata con movimenti di terra, è la più semplice fra le sistemazioni collinari. I ripiani sono stretti e allungati, spesso in pendenza, aderenti all’orografia della zona, sostenuti e divisi fra loro da scarpate inerbite molto inclinate, ma non verticali, realizzate con il costipamento della terra e, in alcuni casi, rinforzate con massi e pietre nei punti maggiormente scoscesi; l’ampiezza e la forma dei ciglioni è imposta dall’orografia. Gli olivi, in genere, sono in un unico filare che segue le linee di livello. Al declivio continuo della pendice si sostituisce, così, una successione di ripiani degradanti, senza creare visivamente, però, un’ecces-

Il lavoro delle generazioni passate è testimoniato nelle fasce pedemontane dove la coltivazione dell’olivo è resa possibile dalla frugalità della specie, dall’ingegno, dall’operosità e dalla tenacia dell’uomo

276


olivo in Umbria siva alterazione dell’orografia collinare, anche se le gradazioni del verde nell’alternarsi dei ripiani, delle scarpate e delle chiome degli alberi crea suggestivi giochi di colori, volumi, luci e ombre, variabili nel corso della giornata e delle stagioni, che conferiscono al paesaggio un senso di ritmica vivacità. Oliveti ciglionati si ritrovano frequentemente fra Assisi e Spoleto e in alcune aree delle colline intorno al Trasimeno. La sistemazione a terrazze, invece, fu realizzata su colline rocciose con pendenze superiori al 40%, erigendo muretti con pietrame murato a secco che assicuravano il contenimento del terreno dei ripiani, pianeggianti o leggermente inclinati. L’operazione, più complessa e costosa del ciglionamento, fu avviata nella seconda metà del XVIII secolo insieme alla sistemazione a lunette quando, per espandere la coltivazione dell’olivo verso l’alta collina, emerse l’esigenza di utilizzare terreni con maggiore pendenza. La sistemazione a terrazze è subordinata alla disponibilità di materiali duri quali i calcari, derivanti dallo spietramento del terreno. I muretti, in funzione della pendenza delle chine e della larghezza delle terrazze, possono essere di varia altezza e avere un andamento paral-

La sistemazione a lunette fu adottata nelle pendici più scoscese, impervie e con rocce affioranti Sistemazione a terrazze su colline con forte pendenza

277


paesaggio lelo e continuo, sinuoso secondo curve di livello, o spezzato. Rispetto al ciglionamento, la pietra diventa più evidente del terreno, tanto che dalle visuali dal basso quest’ultimo tende a scomparire, mentre resta visibile da punti di osservazione sovrastanti. La sistemazione a lunette fu adottata nelle pendici più scoscese, impervie e con rocce affioranti. La scarsa quantità di prezioso terreno intorno alle piante è sostenuta e trattenuta con muretti a secco semicircolari di varia altezza, spesso sfalsati tra filari adiacenti. I ripiani discontinui che ne risultano, distribuiti disordinatamente, senza un rapporto con l’orografia originaria, esaltano le asperità del terreno e suggeriscono una sensazione di tensione e aggressività, potenziata dal contrasto fra l’austero colore argento dell’olivo e il calcare bianco dei muretti delle lunette. Queste sistemazioni andarono a sostituire la lavorazione del terreno più antica e diffusa: il rittochino, ovvero la lavorazione secondo la linea di massima pendenza. Una soluzione poco dispendiosa e, soprattutto, relativamente facile da realizzare, che però è responsabile di gravi processi erosivi fino anche alla formazione di calanchi e fossi. Va notato che anche negli oliveti in cui la coltivazione è attuata a rittochino, raramente i versanti si presentano regolari e monotoni poiché i filari si spezzano, cambiano direzione e si intersecano con altri per ridurre il ruscellamento delle acque meteoriche e, quindi, l’erosione. Tediosi schemi geometrici sono assenti pure negli oliveti su terreni pianeggianti, poiché la modesta dimensione degli appezzamenti, i filari con orientamenti diversi fra un appezzamento e quelli contigui, l’inserimento di colture erbacee fra i filari negli oliveti promiscui che crea un paesaggio a struttura più complessa, i sentieri, la vegetazione lungo i fossi e la frequente presenza di svettanti cipressi inframmezzati agli oliveti disegnano un paesaggio variegato e vivace.

Con la sistemazione a rittochino i filari venivano spezzati per ridurre il ruscellamento e l’erosione delle acque meteoriche. Anche nei moderni insediamenti olivicoli i filari hanno spesso orientamenti diversi, creando un paesaggio a struttura più complessa

I sentieri, la vegetazione lungo i fossi e la frequente presenza di svettanti cipressi inframezzati agli oliveti disegnano un paesaggio variegato e vivace

278


olivo in Umbria

Gli olivi secolari del lago Trasimeno sono tra i più maestosi dell’Umbria e mostrano chiome espanse e morbide su forme contorte dei tronchi

Il paesaggio olivicolo del Trasimeno si differenzia fortemente da quello delle altre aree regionali per la dolcezza dei rilievi e la presenza di numerosi cipressi, disposti a filari o a piccoli gruppi. In una cronaca in latino del 1492 già si legge l’ammirazione suscitata dalla bellezza degli oliveti che contornano il Trasimeno. In effetti gli olivi secolari del lago, tra i più maestosi dell’Umbria, mostrano chiome espanse e morbide su forme contorte dei tronchi, connotando così fortemente il paesaggio. È soprattutto a nord e a est del lago che l’olivo, incontrastato, domina il paesaggio. Persino su una delle tre isole che emer-

Nella conca ternana le condizioni stagionali sono favorevoli alla coltivazione dell’olivo e olivi secolari sono facilmente reperibili, particolarmente alle maggiori altitudini

Olivi intorno a Spello

Foto R. Angelini

279


paesaggio

Olivi nei centri abitati

• Gli oliveti in Umbria spesso si spingono

fino ai margini dei centri abitati, creando suggestive cornici che esaltano l’abitato, le sue mura e le sue torri

Campello sul Clitunno

gono dalle acque del lago, l’isola Polvese, spicca la presenza di oliveti terrazzati. Intorno al lago gli oliveti lambiscono quasi la costa e da qui salgono lungo i versanti collinari dove si possono ancora scorgere i resti di sistemazioni a terrazza, in alcuni casi addirittura ricavate direttamente nella roccia (San Savino e Montemelino), e dove sui pendii più acclivi il bosco sta riconquistando quanto aveva perso nel passato negli oliveti abbandonati, nei quali gli olivi intristiscono sempre più fino a essere soffocati. In effetti, in Umbria è raro riscontrare l’abbattimento di oliveti improduttivi poiché si preferisce lasciarli al loro destino che, normalmente, è costituito da invasione, sempre più consistente, di rovi, ginestre e altre essenze della boscaglia. Nelle zone migliori per la coltivazione, gli oliveti tradizionali, in coltura promiscua e sparsa, sono stati sostituiti da oliveti specializzati. Il fascino degli oliveti più vetusti, che continuano a evocare

Trevi

Spoleto Assisi

280


olivo in Umbria

Olivi, cipressi e cimiteri

• In Umbria gli olivi, quasi sempre, si

trovano insieme ai cipressi nei cimiteri. Gli olivi appena fuori il cimitero e i cipressi dentro di esso. Questa associazione probabilmente non è casuale e cela un suggestivo e perfetto simbolismo. Il cipresso si slancia verso il cielo e quando viene tagliato non ricresce, simboleggia così la mortalità e l’anelito verso la vita ultraterrena. L’olivo riesce a superare ogni avversità e anche quando la parte aerea viene completamente danneggiata dal gelo, dal fuoco o da altri eventi si rigenera saldamente ancorato anche ai terreni più aspri e ostili come spesso sono le vicende umane, tanto da essere considerato simbolo di legame alla vita o addirittura di immortalità. Si stabilisce così attraverso questi alberi una relazione e una transizione tra la vita terrena e la morte, intesa come momento di passaggio a una vita ultraterrena

L’associazione tra cipresso e olivo nei cimiteri non è casuale, ma cela un suggestivo e perfetto simbolismo

paesaggi arcaici, non è compromesso dalla vicinanza dei nuovi impianti che, anzi, ne esaltano la secolare maestosità. Nel territorio olivicolo ternano si ritrovano con una certa frequenza le “chiudende”, delimitate da muretti alti un metro e oltre e con olivi disposti in file parallele, ma la vera peculiarità del comprensorio è rappresentata dalla diffusa presenza di piante monumentali, per effetto di condizioni stazionali migliori delle altre nella regione. Nell’areale limitrofo la chiesa di San Vittore, in località Poggio del comune di Otricoli, sono presenti numerosi esemplari monumentali di olivo delle cultivar Moraiolo e Frantoio, probabilmente coevi con la chiesa della fine del Trecento. Nelle zone di Amelia, Narni e Montoro, dove la stagione vegetativa è prolungata da un’ottimale esposizione e dalla buona disponibilità di acqua in terreni profondi, sono reperibili oliveti secolari con piante di notevoli dimensioni, particolarmente della varietà Raio (più vigorosa delle altre). Nella zona di Piedimonte, gli oliveti godo-

Nell’areale limitrofo la chiesa di San Vittore, in località Poggio del comune di Otricoli, sono presenti numerosi esemplari monumentali delle cultivar Moraiolo e Frantoio, probabilmente coevi alla chiesa della fine del Trecento

281


paesaggio no di condizioni microclimatiche particolarmente favorevoli, per cui le piante secolari appaiono integre nonostante le numerose gelate intervenute nella regione, particolarmente alle maggiori altitudini. Nel complesso, gli oliveti in Umbria creano paesaggi diversificati da zona a zona. Alcuni definiscono paesaggi dolci, che richiamano alla memoria il misticismo francescano e la dolcezza della pittura umbra del Quattrocento e che, infondendo una pacata serenità, invitano al silenzio e alla preghiera; altri, invece, delineano paesaggi aspri e ostili, in forme e aspetti che ricordano le sofferenze e documentano la povertà, ma anche la caparbietà, delle genti che popolarono queste zone; altri, infine, conferiscono un senso di movimento e vitalità, per effetti cromatici derivanti dal verde delle chiome cangiante con il muoversi delle foglie, allo spirare dei venti dal verde intenso e lucente della pagina superiore al verde argenteo e setoso nella pagina inferiore, che mitiga il giallo acceso delle ginestre e il rosso dei papaveri ed esalta il verde cupo e compatto dei cipressi. Nel mese di giugno, poi, gli olivi in fiore, con la loro elegante fragranza, si presentano con una chioma più chiara, per l’armonica fusione tra il verde delle foglie e il bianco dei piccoli e abbondanti fiori.

Integrazione tra oliveti e centri abitati

• Gli oliveti in Umbria spesso si spingono

fino ai margini dei centri abitati, arroccati per motivi di difesa e salubrità alla sommità di rilievi collinari, creando suggestive cornici che esaltano l’abitato, le sue mura e le sue torri e che determinano un’armoniosa integrazione fra città e campagna, non ottenibile, invece, con seminativi, che originerebbero disarmonie prospettiche, o con essenze boschive che, oltre a ridurre la visibilità dell’abitato, creerebbero una vistosa discontinuità con le colture contigue. Nonostante l’espansione degli abitati al di fuori delle mura, oliveti che confinano con la cinta muraria sono ancora presenti in diverse cittadine umbre (Spello, Trevi, Campello, Bettona, Assisi ecc.)

Olivi, religione e chiese Molti paesaggi olivicoli in Umbria assumono connotazioni mistiche e sembrano invitare al raccoglimento e alla preghiera. D’altra parte proprio le colline olivetate intorno ad Assisi sono state testimoni della vita di San Francesco, Santa Chiara e della Beata Angela da Foligno. Nella tradizione religiosa umbra ricorre spesso il racconto di apparizioni della Vergine, sopra o nei pressi degli olivi, che tramite innocenti bambini esortava le popolazioni locali alla devozione e alla costruzione di luoghi di culto. Uno di tali episodi accadde nell’estate del 1399 in un oliveto nei pressi di Assisi dove, subito dopo, venne costruita una piccola chiesa intitolata

Alcuni paesaggi olivicoli umbri sono dolci, altri, invece, delineano paesaggi aspri e ostili

282


olivo in Umbria

Infrastrutture al servizio dei vecchi oliveti

• Ad aumentare la complessità del

paesaggio olivicolo contribuisce una serie di infrastrutture finalizzate alla gestione degli oliveti: un sistema di sentieri per collegare gli oliveti alle strade, “torri piccionaie” per produrre il guano, ottimo fertilizzante per gli olivi, edifici temporanei per allevare le giovani piante di olivo, per conservare le olive durante la raccolta o per ricoverare le pecore che con il pascolo controllavano lo sviluppo delle infestanti nell’oliveto, soprattutto nelle zone più ripide dove più difficili erano le arature

alla Madonna dell’Oliva contenente un affresco evocativo, oggi in pessimo stato di conservazione. Un altro episodio accadde nella piccola chiesa di San Giovanni immersa tra gli olivi in Piedimonte, dove usava ritirarsi in meditazione Mons. Vincenzo Tizzani, vescovo di Terni dal 1843 al 1848, impegnato anche nel sollevare le sorti della locale industria olearia. Sotto l’intonaco di una delle pareti ebbe l’intuito di scoprire l’immagine di una Vergine con Bambino, subito da lui eletta Madonna dell’Oliva, restaurata e aggiunta di un ramo di olivo (rimosso da un recente restauro) per suffragare il titolo attribuito, ma anche per soddisfare uno specifico interesse per la coltura. La sacra immagine è tuttora oggetto di venerazione da parte della locale popolazione. L’originario culto per la Madonna dell’Oliva è evoluto nell’ambito della devozione rurale con la principale funzione di proteggere il popolo dalle sventure, propiziando anche i mezzi di sostentamento. Nella toponomastica di Assisi tale culto ha lasciato tracce indelebili con l’intestazione di una chiesa, di una strada e di diverse immagini votive.

Affresco della Vergine con Bambino conservato nella chiesa intitolata alla Madonna dell’Oliva (Piedimonte, TR) Chiesa intitolata alla Madonna dell’Oliva (Piedimonte, TR)

283


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo nelle Marche Barbara Alfei, Enrico Maria Lodolini

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo nelle Marche Cenni storici L’olivo è radicato da secoli nel territorio marchigiano. Si parla dell’olio di oliva delle Marche e della sua qualità già nel periodo medievale, più precisamente nel periodo delle Signorie, quando “l’olio de Marchia” doveva essere separato dalle altre produzioni similari per essere rivenduto a un prezzo superiore in virtù del suo colore e sapore. L’olio marchigiano veniva venduto ai commercianti veneziani e a Firenze. Nel 1347 i lanaioli fiorentini importarono dalle Marche ben 2500 orci di olio di oliva. Questa esportazione è continuata fino alla metà del Seicento e il Botero, nelle sue Relazioni universali, scrive: “La Marca abbonda di grani, olio e vino e ne manda copia grande fora”. Tra il Seicento e il Settecento la coltivazione dell’olivo quasi scomparve. Napoleone, negli anni 1811-1813, stabilì premi per tutti coloro che avevano introdotto l’avvicendamento in agricoltura o avevano coltivato la colza, o posto a dimora e allevato, per almeno 4 anni, 400 alberi d’olivo. Nei primi decenni del Novecento si attua la vera mezzadria, concedendo ai contadini la metà dei prodotti agricoli e ammettendoli alla comproprietà delle scorte vive e morte; per quanto riguarda le olive, il mezzadro doveva consegnarne al padrone, secondo molti patti colonici, fino all’80-85%. La scomparsa della mezzadria ha portato a una ristrutturazione fondiaria caratterizzata da una costante riduzione degli addetti in agricoltura, da una meccanizzazione sempre più spinta e conseguente specializzazione produttiva. Tale situazione ha causato la scomparsa del tipico seminativo arborato e l’estirpazione di molti piantoni storici di olivo, che ostacolavano le operazioni coltura-

In sintesi

• Offerta di una gamma di extravergine di gran pregio

• Coltivati 10.450 ha di olivo nelle province di: - Ascoli Piceno 42% - Macerata 26% - Ancona 19% - Pesaro e Urbino 13%

• 4000 tonnellate di olio • 30.000 aziende agricole • 165 frantoi attivi • 1 DOP Cartoceto per l’olio extravergine di oliva

• 1 DOP per l’oliva da mensa Oliva

Ascolana del Piceno tra le province di Ascoli Piceno e Teramo

• Già documentata in epoca romana,

l’olivicoltura marchigiana fu rifondata nel Medioevo dagli ordini monastici che avevano bisogno di olio per celebrare funzioni e riti religiosi. I monaci fecero ricostruire gli oliveti agli agricoltori stessi che potevano trattenere una certa quantità di prodotto; nacque così la mezzadria, che diventerà l’asse portante dell’economia regionale. Poiché, nel Medioevo, quello marchigiano era considerato un olio pregiato, le navi provenienti dalle Marche erano sottoposte a un pedaggio di 25 lire da versare alla Repubblica di Venezia

Foto R. Angelini

• Varietà prevalenti: Raggia, Mignola,

Coroncina, Piantone di Mogliano, Piantone di Falerone, Sargano di Fermo, Carboncella

Olivi nel Maceratese

284


olivo nelle Marche li. Alcuni esemplari sono rimasti, sparsi nei terreni a seminativo, quali elementi caratterizzanti del paesaggio marchigiano, grazie alla maggiore sensibilità di alcuni agricoltori. A oggi la gestione di tale olivicoltura promiscua comporta elevati costi di produzione. Negli ultimi 20-30 anni si è assistito pertanto a una graduale sostituzione degli oliveti promiscui con nuovi impianti specializzati, in parte di piccole dimensioni, per il consumo familiare, in parte per un’olivicoltura da reddito volta al mercato. Vige la regola del rispetto della tradizione, ma nell’ottica della razionalizzazione delle pratiche colturali, della riduzione dei costi, dell’aumento della produttività e del miglioramento qualitativo del prodotto. Brevi notizie di carattere etnografico L’olivo era, ed è, tenuto in grande rispetto: non poteva essere abbattuto se in produzione, ma solo se secco e, in occasione della nascita del primogenito, ne veniva piantato un esemplare. Come pianta legata alla tradizione cristiana, i suoi rami, benedetti, acquisivano la virtù di proteggere le abitazioni da violenti temporali, se bruciati all’aperto, o i campi dalle intemperie, se infilati su croci di canna il 3 maggio, giorno della Santa Croce. Ed era ancora un ramo ad accompagnare il defunto nella bara, per propiziare il perdono, mentre le nuove palme, benedette, sostituivano le vecchie, che venivano bruciate con devozione e con la recita di preghiere: “la palma benedetta vuole la casa netta”. Il suo legno, oltre che essere un ottimo combustibile, era utilizzato per fabbricare piccoli crocifissi o gli acini del rosario. L’oliva era raccolta con la massima cura, compresa quella caduta naturalmente. Quella non destinata alla molitura (oliva di San Francesco) era preparata in salamoia, o conservata con il sale in

Vecchio tronco in località Conero (AN) Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Olivo e croce con palma benedetta per proteggere i raccolti dalle intemperie

285


paesaggio appositi vasi di terracotta, lasciandola asciugare accanto al fuoco per circa un mese, quindi condita con finocchio selvatico, buccia d’arancia e mandorle. Importanza attuale dell’olivicoltura Nelle Marche la superficie coltivata a olivo è in costante aumento. Dagli ultimi dati Istat (2001) risultano coltivati 10.450 ettari in coltura specializzata, di cui il 42% in provincia di Ascoli Piceno, il 26% in provincia di Macerata, il 19% in provincia di Ancona e il 13% in quella di Pesaro e Urbino. L’olivicoltura marchigiana è distribuita prevalentemente nelle zone collinari sia del litorale sia dell’interno, con produzioni medie annue di circa 40.000 quintali di olio, soggette a oscillazioni negli anni, a causa del fenomeno dell’alternanza di produzione e delle ricorrenti gelate. La superficie olivicola è estremamente frammentata, suddivisa in un numero totale di quasi 30.000 aziende, con una superficie unitaria media molto ridotta. Questo comporta una notevole frammentazione dell’offerta, per cui molto prodotto è ancora destinato all’autoconsumo o al piccolo mercato locale. La trasformazione delle olive avviene in circa 165 frantoi presenti a livello regionale. Sono ancora abbastanza rappresentati i sistemi tradizionali ma con una percentuale in progressivo incremento di impianti continui sia a tre sia a due fasi. La vivacità che negli ultimi anni ha caratterizzato la filiera olivicola ha portato a un notevole aumento del livello qualitativo degli oli extravergini di oliva marchigiani: segno tangibile sono i numerosi premi vinti in concorsi nazionali e internazionali. A partire dall’anno 1998 è operativo il Panel regionale ASSAM-Marche, riconosciuto dal COI (Consiglio Oleicolo Internazionale) dall’anno 2000 e dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali dal 2004. Un ulteriore elemento di valorizzazione è rappresentato dal fatto che sempre maggiore è il numero di produttori che imbottigliano il proprio prodotto e, grazie alle numerose varietà autoctone, propongono una gamma di oli talmente ampia e ricca di sfumature che solo la passione di un collezionista può apprezzare in tutta la sua complessità. Molto si sta puntando sulla produzione di oli monovarietali, ottenuti da singole varietà autoctone di olivo, al fine di esaltare le peculiarità di ciascun genotipo, anche mediante i diversi abbinamenti gastronomici. Sono stati recentemente approvati i Disciplinari di produzione per la certificazione degli oli monovarietali delle Marche a marchio QM - qualità garantita dalle Marche, i cui principi basilari si possono ricondurre a qualità, tracciabilità e informazione. Nel 2004 è stata riconosciuta dall’Unione europea la DOP Cartoceto, prima Denominazione di Origine Protetta per l’olio extravergine di oliva nelle Marche, che interessa pochi comuni nella provincia di Pesaro e Urbino; la composizione varietale prevede Frantoio, Leccino, Raggiola (congiunte o disgiunte) per almeno il 70%.

Olivo secolare a Maiolati Spontini (AN)

Danni da neve su olivo Foto R. Angelini

Piantone secolare di Mignola nel territorio di Cingoli (MC)

286


olivo nelle Marche Nel 2006 è stata riconosciuta, a cavallo tra le province di Ascoli Piceno e di Teramo, la DOP per l’oliva da mensa Oliva Ascolana del Piceno, sia in salamoia sia ripiena e fritta.

Foto R. Angelini

Come caratterizza il paesaggio Le Marche sono una regione al limite nord dell’area vocata alla coltivazione dell’olivo. Il rischio di danni da gelate o eventi nevosi è elevato soprattutto nelle zone più settentrionali e nelle aree interne. Ne sono una dimostrazione gli eventi calamitosi del 1929, 1956, 1985, 1996 (gelate) e 2005 (danni da neve), i cui segni sono ancora tangibili in diverse aree della regione. Infatti, passeggiando tra gli oliveti, è possibile trovare enormi ceppaie da cui i polloni hanno ricostituito le nuove piante, come ad esempio nella zona di Caldarola (varietà Coroncina), di Fano (varietà Raggiola) o piante riformate con numerosi tagli anche consistenti in oliveti di più recente impianto. Veri e propri monumenti della natura sono invece rappresentati dai piantoni secolari di Mignola nel territorio di Cingoli, nella Vallesina, fino al Monte Conero, e di Sargano di Fermo nell’area del Fermano, che hanno mantenuto un tronco perfettamente intatto e una chioma rigogliosa e ancora molto produttiva. L’olivicoltura presente sul territorio regionale mostra una certa disomogeneità. A fronte di una sempre maggiore specializzazione della coltura nelle aree litoranee e di media collina, dove si assiste alla realizzazione di nuovi impianti e alla razionalizza-

Polloni che partono dalla ceppaia, per ricostituire le piante danneggiate dal gelo Oliveto intensivo con i Sibillini innevati sullo sfondo (AP)

287


paesaggio zione della tecnica colturale, permane un’olivicoltura marginale nelle aree interne e pedemontane, in cui prevale un importante ruolo di protezione del suolo e di conservazione del paesaggio rispetto a uno strettamente produttivo. Le migliori condizioni pedo-climatiche della zona litoranea assicurano il più delle volte produzioni relativamente costanti e quindi reddito agli olivicoltori; l’olivicoltura dell’interno, invece, si preoccupa di “sopravvivere” e le condizioni difficili di clima e di terreno comportano una lenta e difficile maturazione dei frutti, con scarse produzioni e basse rese, ma con un’esaltazione delle peculiarità organolettiche degli oli. Le specificità del clima e del terreno contribuiscono a determinare un legame inscindibile tra le principali varietà autoctone e l’area di maggiore diffusione che ha conferito, nel tempo, un particolare adattamento all’ambiente. Il legame genotipo-ambiente è ulteriormente rafforzato dalle condizioni sociali ed economiche di tempi remoti che hanno condizionato numerose decisioni di tipo agronomico. La coltivazione tradizionale dell’olivo nelle Marche prevedeva infatti l’impianto di olivi soprattutto in terreni marginali o comunque in consociazione con colture estensive, con sesti d’impianto molto ampi, alberi con tronchi e chiome di dimensioni considerevoli, senza l’applicazione di concimi, irrigazione o particolari cure colturali, contando sulle ottime doti di rusticità e resistenza agli stress di questa specie. Nonostante la coltura promiscua sia ancora molto diffusa nel territorio regionale, negli ultimi anni la specializzazione della coltura e l’impianto di nuovi oliveti hanno richiesto un contenimento delle

Foto R. Angelini

Coltivazione tradizionale dell’olivo in promiscuità con girasole Foto G. Tassi

Foto R. Angelini

Fazzoletto di olivi nelle campagne marchigiane Foto G. Tassi

Nevicata a Cingoli (MC) Vecchi piantoni di Mignola tappezzano le colline del territorio di Cingoli (MC)

288


olivo nelle Marche dimensioni delle piante per aumentare la densità d’impianto, una razionalizzazione della tecnica colturale e una gestione oculata delle risorse dell’oliveto stesso. Le colline marchigiane, caratterizzate da pendenze più o meno elevate, sono fortemente soggette al pericolo di erosione del suolo. È quindi richiesta una tecnica colturale che eviti il più possibile le lavorazioni e favorisca l’inerbimento naturale. La gestione del suolo mediante inerbimenti naturali permanenti viene ormai generalmente effettuata nelle Marche tramite sfalci periodici in primavera (uno di solito coincide con la trinciatura dei residui di potatura) e in autunno (prima della raccolta) e rotture del cotico erboso in estate, se la competizione per l’acqua tra inerbimento e oliveto diventa troppo forte. Anche la gestione della nutrizione e dell’irrigazione in olivicoltura sta assumendo un ruolo fondamentale nel regolare gli equilibri vegeto-riproduttivi dell’albero e nel mantenere costanti le produzioni negli anni. Nelle Marche, la progettazione di alcuni nuovi oliveti intensivi prevede la dotazione di impianti di irrigazione a goccia (laddove l’approvvigionamento idrico a uso irriguo non è un problema) che consentono di ridurre lo stress idrico delle piante in estati particolarmente siccitose e veicolare la concimazione attraverso l’acqua (fertirrigazione). La possibilità di sostenere l’olivo nel periodo estivo mediante l’irrigazione o la fertirrigazione rappresenta un aspetto fondamentale soprattutto in annate sfavorevoli poiché durante l’estate si sovrappongono importanti eventi fisiologici se si considera il ciclo vegeto-riproduttivo biennale (accrescimento dei germogli vegetativi che porteranno la produzione nell’anno seguente, induzione delle gemme a fiore, crescita dei frutti). Il ricorso all’irrigazione va però considerato nelle Marche come un mezzo di soccorso da utilizzare solo in caso

Foto R. Angelini

Le pendenze delle colline marchigiane impongono l’inerbimento naturale

Oli monovarietali delle Marche

Foto G. Tassi

289


paesaggio di stagioni estive particolari e di cui va attentamente valutata la convenienza economica. Negli ultimi anni, si sta portando avanti un grande lavoro di formazione sulla potatura e le forme d’allevamento dell’olivo. La prima effettuata rispettando gli equilibri interni alla pianta e gestendo più liberamente le chiome; la seconda ricercando una maggiore funzionalità delle forme d’allevamento, riducendo al minimo gli interventi di potatura e assecondando il naturale habitus di crescita della pianta. In questo modo, a oliveti di piccole dimensioni con piante completamente gestibili da terra e raccolte mediante agevolatori pneumatici o elettrici, si stanno affiancando nel tempo alcuni impianti di grandi dimensioni in cui si sta cercando di meccanizzare al massimo le operazioni colturali. La densità di piantagione, i sistemi di potatura e le forme di allevamento devono essere adeguate alle singole varietà autoctone marchigiane e alle diverse condizioni climatiche. Lo studio della vigoria e del portamento della pianta, la comprensione dell’evoluzione (rinnovo) delle branche produttive e delle risposte fisiologiche all’irrigazione e alla nutrizione nelle diverse condizioni pedo-climatiche, costituiscono aspetti fondamentali per la razionalizzazione delle operazioni colturali negli oliveti marchigiani. Un’efficiente gestione delle operazioni di potatura e raccolta, unitamente alla possibilità di meccanizzazione (se le condizioni lo consentono), è un punto di essenziale importanza per ridurre i costi colturali, tenendo sempre presente che ciascuna scelta va calibrata considerando le diverse condizioni aziendali.

Oliveto irrigato in provincia di Pesaro e Urbino

Foto G. Tassi

Olivicoltura promiscua nelle Marche (AN) Foto G. Tassi

Frutti della varietà Piantone di Mogliano

Olivicoltura tradizionale (in primo piano) e razionale (sullo sfondo) a confronto

290


olivo nelle Marche Patrimonio olivicolo marchigiano La ricchezza dell’olivicoltura marchigiana è legata a un patrimonio genetico estremamente variegato; le numerose varietà autoctone caratterizzano fortemente il prodotto marchigiano e lo arricchiscono di storia, cultura, tradizione e paesaggio. Tali varietà sono diffuse da secoli in areali circoscritti e si sono adattate nel tempo alle caratteristiche climatiche e pedologiche locali. Nel territorio di Pesaro e Urbino, nell’area DOP Cartoceto, la varietà prevalente è la Raggiola, geneticamente simile al Frantoio, i cui aspetti morfologici sono resi “particolari” dalla presenza di un virus (Virus della maculatura anulare latente della fragola), che determina la classica forma “a pera” del frutto e l’aspetto lanceolato della foglia; l’olio è caratterizzato da profumo di mandorla verde, unito a toni erbacei. Molto simile è l’olio di Raggia, definita “Mandolina” per il netto sentore di mandorla, diffusa soprattutto nella provincia di Ancona, anch’essa geneticamente simile al Frantoio, caratterizzata da una produttività elevata e costante, frutti di medie dimensioni con buona resa in olio, adattabilità alla raccolta meccanica. All’interno della provincia di Macerata il territorio è caratterizzato da un clima severo, freddo in inverno per la vicinanza all’Appennino, e da terreni spesso difficili, poco fertili e scoscesi. Vi si pratica un’olivicoltura con un’importante funzione paesaggistica, un ruolo rilevante di legame con la storia, la cultura, le tradizioni locali. La varietà Coroncina è presente nella zona del lago di Caccamo; nonostante la produttività non troppo elevata, seppur costante, e le rese in olio medio-basse, essa ha un’importanza economica grazie alle eccellenti caratteristiche dell’olio, dal buon fruttato, con sentori erbacei e di carciofo, particolarmente amaro e piccante in quanto molto ricco in sostanze fenoliche. I vecchi piantoni di Mignola dall’aspetto monumentale tappezza-

Foto G. Tassi

Frutti della varietà Piantone di Falerone

Foto G. Tassi

Frutti della varietà Ascolana tenera Frutti della varietà Coroncina

291


paesaggio no le colline del territorio di Cingoli e scendono giù fino al mare, lungo la Vallesina; la sua diffusione nel territorio marchigiano è dovuta alla buona produttività e alla notevole resa, nonostante le piccole dimensioni del frutto. L’olio è particolare, dal fruttato medio, tendenzialmente verde, con sentori che ricordano i frutti di bosco; al gusto evidenzia note di amaro intense e persistenti, per un contenuto in polifenoli in assoluto tra i più elevati. La varietà Orbetana, nell’area del Monte San Vicino, è quasi a rischio di estinzione dato che la bassa produttività, la spiccata alternanza, le basse rese in olio hanno scoraggiato molti olivicoltori dal mantenerla negli impianti. In realtà, il suo germoplasma è importante per la valenza storica e paesaggistica, e fondamentale per la valenza agronomica di resistenza al freddo e per le ottime caratteristiche dell’olio. Il Piantone di Mogliano, dalle piante piccole ma estremamente produttive, riveste invece le colline di tutta la provincia di Macerata, fino ad arrivare alle aree più interne, ad altitudini anche superiori ai 600 m s.l.m., grazie alla bassa sensibilità al freddo; dal frutto particolare, a forma di limone, esce un olio delicato, dal fruttato leggero, prevalentemente dolce. Nella provincia di Ascoli Piceno, l’area del Falerio Picenus vede la presenza del Piantone di Falerone, varietà molto precoce, a elevata resa in olio, il cui fruttato, di tipo erbaceo, evidenzia sentori di pomodoro, carciofo e mela, accompagnati da un retrogusto amaro. Il Sargano di Fermo caratterizza il territorio del Fermano con le sue piante monumentali, di elevata vigoria; dai frutti di piccole dimensioni e basse rese in olio si ottiene un prodotto delicato con sentori di foglia e mandorla.

Ascolana tenera

• Conosciuta in tutto il mondo nella

classica preparazione delle “olive all’ascolana”, farcita con un ripieno a base di carne, impanata e fritta, storicamente segnalata come pietanza presente sulle tavole dei ricchi di Ascoli Piceno già dalla fine del secolo scorso. Ancora oggi assai apprezzata per la dimensione del frutto e la croccantezza della polpa, è molto sensibile alla mosca delle olive e produce un olio dai caratteri erbacei e sentore di pomodoro

DOP Oliva Ascolana del Piceno

• A cavallo tra le regioni Marche e Abruzzo, interessa il territorio delle province di Ascoli Piceno e di Teramo. Il Disciplinare prevede il 100% di varietà Ascolana tenera e la lavorazione delle olive sia in salamoia sia ripiene

Nuovi indirizzi per l’olivicoltura regionale L’olivicoltura marchigiana è stata attraversata da una fase, durata circa un secolo, in cui le varietà autoctone sono state trascurate a vantaggio di Frantoio e Leccino, cultivar ad ampia diffusione che hanno “colonizzato” anche le Marche grazie alle loro caratteristiche produttive, alla facilità di propagazione e all’adattabilità a diverse situazioni climatiche. Dopo le gelate più distruttive, molti nuovi impianti specializzati sono stati improntati su queste varietà, unitamente a piccole percentuali di Pendolino e Maurino, utilizzate come impollinatori. Grazie agli studi di caratterizzazione intrapresi da oltre 15 anni dall’ASSAM (Agenzia Servizi Settore Agroalimentare Marche) con il supporto scientifico del CRA – Oli di Spoleto, si è avviata una fase di recupero e valorizzazione del patrimonio genetico autoctono. Si è inoltre iniziato un percorso per la certificazione del materiale vivaistico, sottoponendo tutti i genotipi autoctoni a caratterizzazione morfologica, analisi genetiche e virologiche; ben 16 varietà locali sono state iscritte al Servizio Nazionale di certificazione volontaria (Ascolana tenera, Carboncella, Coroncina, Mignola, Orbetana, Piantone di Falerone, Piantone di Mogliano,

• Le olive in salamoia al consumo

presentano un colore uniforme dal verde al giallo paglierino, un odore caratteristico di fermentato, un sapore lievemente acido, con leggero retrogusto amarognolo, una polpa fragrante e croccante

• Le olive ripiene, dalla forma leggermente

allungata e irregolare, evidenziano aree verdi percettibili; alla rottura la panatura rimane aderente all’oliva, con impasto compatto; all’olfatto si percepiscono note fruttate di oliva verde e spezie; il sapore è delicato con retrogusto amaro e la polpa croccante

292


olivo nelle Marche Raggia, Sargano di Fermo, Ascolana dura, Rosciola Colli Esini, Capolga, Cornetta, Lea, Nebbia, Sargano di San Benedetto) ed è stato costituito un campo di moltiplicazione di materiale vivaistico certificato presso l’azienda dell’ASSAM di Carassai (AP). Gli oli ottenuti da varietà autoctone sono stati caratterizzati dal punto di vista analitico e sensoriale, alla ricerca dell’identità data dal legame inscindibile tra genotipo e territorio. Tale inestimabile patrimonio storico è ritenuto assai degno di essere riproposto nei nuovi impianti per i numerosi e interessanti aspetti produttivi, di elevata compatibilità ambientale e per le potenzialità qualitative di un olio extravergine di oliva delle Marche tipico. Negli ultimi anni sempre maggiore spazio viene dato nei nuovi impianti alle varietà autoctone, disposte in filari separati per differenziare la raccolta delle singole varietà (oli monovarietali). Grande importanza viene anche attribuita alla scelta dell’epoca ottimale di raccolta per esaltare al massimo le peculiarità organolettiche delle singole varietà autoctone. Indicazioni sui principali indici di maturazione vengono fornite settimanalmente tramite i notiziari agrometeo dell’ASSAM, unitamente a indicazioni sul controllo dei principali parassiti dell’olivo, in particolare la Bactrocera oleae. Da alcuni anni si svolgono nelle Marche iniziative di carattere nazionale come il Campionato Nazionale di potatura dell’olivo allevato a vaso policonico e la Rassegna Nazionale degli oli monovarietali, al fine di stimolare tra gli operatori del settore un confronto sulle tecniche di potatura e il recupero del patrimonio olivicolo locale con conseguente valorizzazione dell’identità chimica e sensoriale degli oli autoctoni.

Panel test presso la sala di degustazione dell’ASSAM di Ancona

Esposizione di oli nella 5a Rassegna Nazionale degli oli monovarietali Oliveto intensivo in provincia di Ancona

293


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Liguria Luca Sebastiani, Roberto Barichello, Stefano Pini, Riccardo Gucci

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Liguria Introduzione e brevi cenni storici Il paesaggio ligure è fortemente caratterizzato dalla presenza dell’olivo, la cui introduzione nella regione risale a epoche molto antiche. Alcune documentazioni indicano la sua presenza in Liguria, in consociazione con la vite nei seminativi, nelle centuriazioni dei territori di valle (Valle del Magra, Piana di Albenga) sin dall’epoca romana (Varrone 116-27 a.C.). Si è anche ipotizzato che, nel Ponente ligure, l’introduzione di piante di olivo provenienti dalla colonia fenicia di Marsiglia risalga a epoche ancora più remote. Successivamente a questi primi documentati nuclei di coltivazione, l’olivo si diffonde nelle zone collinari interne, grazie probabilmente all’opera dei monaci, e iniziano ad apparire alcuni nomi di varietà ancora oggi in uso. L’introduzione e la diffusione dell’olivo in Liguria proseguono senza interruzione almeno dal 100 a.C. fino all’alto Medioevo, in concomitanza con condizioni climatiche favorevoli. Nell’alto Medioevo la sua penetrazione superava i confini della Liguria, spingendosi a nord verso il Piemonte e a est verso l’Emilia. Dal XIV secolo, a causa della cosiddetta Piccola Era Glaciale, l’areale di espansione dell’olivo si contrae e, nel territorio ligure, si concentra nelle aree rivierasche o in quelle dove il microclima era mitigato dall’effetto del mare e dal susseguirsi di valli e crinali. Non solo il clima, però, ha determinato l’espansione dell’olivo in Liguria. Nel XVI secolo il grasso più utilizzato dalle popolazioni era il lardo ma, grazie alla presenza dei porti di Pisa, Livorno e Genova, l’olio di oliva era importato in Toscana e Liguria dalla Puglia, Campania, Provenza e Spagna. Grazie ai capitali derivati dal commercio e dai traffici marittimi gli investimenti si spostarono dalla città alle proprietà terriere. Nel 1623, la Repubblica di Genova, con l’introduzione del “Magistrato delle Comunità”, avvia un censimento delle proprietà per riequilibrare il prelievo fiscale alterato dai nuovi investimenti nelle campagne. È in questo periodo che l’olivicoltura in Liguria si specializza, portando alle profonde trasformazioni del paesaggio e all’affermazione delle aree olivicole del Ponente ligure su quelle del Levante, che rimasero meno sviluppate. Nei documenti mercantili del periodo sono presenti le citazioni di alcune varietà ancora oggi presenti in Liguria: Taggiasca, Lavagnina, Razzola, Pignole, Mortine, Olivastri e Lantesca. Nel XVIII secolo, grazie all’opera dei cosiddetti “economisti della natura”, iniziano i primi studi varietali sull’olivicoltura ligure e vengono diffuse nuove teorie per l’innovazione dell’agricoltura. Per tutto il XIX secolo, la diffusione dell’olivo prosegue a fasi alterne e sono molto vivaci i dibattiti tra chi sostiene l’adozione dell’olivicoltura specializzata e quelli che continuano a promuovere quella promiscua. Nel 1930 la Società Nazionale degli Olivicoltori promosse uno studio per censire le varietà da olio e da olive da

In sintesi

• 27.000 ha di superficie coltivata a olivo • 5000 ha di oliveti abbandonati • Imperia incide per il 50% della superficie coltivata, seguono Genova, Savona e La Spezia

• 4000 tonnellate di olio è la produzione regionale

• 23.300 aziende olivicole con una

superficie media compresa tra 0,72 e 0,25 ha

• 1 DOP Olio Extravergine d’Oliva Riviera

Ligure, con 3 menzioni geografiche aggiuntive: Riviera dei Fiori, Riviera del Ponente Savonese, Riviera di Levante

• Lunga e stretta, completamente

bagnata dal mare, la Liguria si estende ad anfiteatro protetta da un arco di montagne contro i venti del nord, garantendo un clima mite nella Riviera di Ponente anche in inverno

• Furono i Fenici a importare l’olivo

nell’Imperiese, anche se piante del genere Olea furono segnalate dal 3000 a.C. I Romani diedero impulso alla coltivazione dell’olivo e soprattutto i benedettini del convento di Taggia, in provincia di Imperia, seppero individuare le caratteristiche di rusticità e adattabilità ai terreni impervi della regione

• L’olivo occupa il 40% della superficie coltivabile della Liguria

• Gli oliveti sono arrampicati sui crinali

montuosi e su terrazzamenti strappati alla montagna e alla roccia

• La varietà più rinomata è la Taggiasca, che prende il nome dall’abbazia benedettina di Taggia

294


olivo in Liguria mensa presenti in Italia. In Liguria la ricerca fu affidata al prof. C. Carocci Buzi, allora titolare dell’Istituto Nazionale per l’Olivicoltura e l’Elaiotecnica di Sanremo, che preparò un preciso elenco delle olive da olio nelle singole province liguri, rimasto per lungo tempo l’unico lavoro sistematico in materia. A partire dal secondo dopoguerra la coltura dell’olivo ha subito contrazioni nelle superfici per la concorrenza di colture più redditizie, vedi le ortive e floricole nel Ponente ligure, e in seguito alle esigenze di sviluppo urbanistico e turistico dei centri abitati del litorale. In modo graduale, ma incessante, l’olivicoltura si è rarefatta prevalentemente nelle strette fasce di pianura vicine al mare, mentre nelle zone interne di collina è stata progressivamente abbandonata. Queste dinamiche sono avvenute in tutte e quattro le province liguri fino al 1980, quando compaiono le prime e sporadiche tracce di un rinnovato interesse per la coltivazione dell’olivo in Liguria. Secondo i dati del Censimento Istat del 2000, la superficie occupata oggi dall’olivo in Liguria risulta di circa 13.000 ettari (valore di poco superiore all’1% della superficie nazionale), anche se stime più recenti derivate dalla Carta Olivicola Regionale (GIS Olivicolo Regionale 2002 e Aggiornamento 2006) stimano per l’olivo un’area in coltivazione di circa 27.000 ettari a cui si aggiungono oltre 5000 ettari di oliveti abbandonati. La provincia ligure dove l’olivo è più diffuso è quella di Imperia, che contribuisce per circa il 50% alla superficie olivicola regionale, seguita da Genova, Savona e La Spezia. A causa di ragioni storiche, climatiche, orografiche e colturali il paesaggio dell’olivicoltura ligure è unico e assume connotati precisi, che non si riscontrano in altre regioni italiane su tale estensione. La diffusione di diverse varietà nelle province e nei comprensori aggiunge ulteriori motivi di diversificazione e interesse, che non riguardano solo il paesaggio inteso in senso estetico, ma anche il

Foto R. Angelini

L’olivo si arrampica sui crinali scoscesi della provincia di Imperia

Territorio della Liguria occupato da olivo (aree in verde) e dettaglio della carta con delimitazione dei terreni interessati dall’olivicoltura (in giallo)

Elaborazione e immagine CAAR-Regione Liguria

295


paesaggio mantenimento dell’ambiente. Nonostante l’importanza che riveste ancora oggi per la tutela del territorio, l’olivicoltura in Liguria è un settore debole dal punto di vista sia economico sia sociale e ciò rende problematico, in assenza di coerenti e incisive azioni di intervento e di sostegno, il mantenimento del fragile paesaggio olivicolo. In questo capitolo si intende descrivere le principali caratteristiche del paesaggio olivicolo ligure e i fattori che hanno contribuito a formarlo e modellarlo nel tempo, mettendo in risalto i delicati equilibri degli ambienti e dei sistemi colturali interessati dall’olivicoltura.

Foto R. Angelini

Caratteristiche climatiche L’areale di distribuzione dell’olivo è caratterizzato da condizioni climatiche tipiche del Mediterraneo, con inverni miti e umidi, temperature che raramente scendono sotto gli 0 °C ed estati calde e asciutte. In Liguria gli inverni possono essere rigidi e prolungati, e spesso determinano problemi di sopravvivenza della pianta alle basse temperature, così come le abbondanti precipitazioni in alcune aree possono porre rischi di asfissia radicale ed erosione superficiale del suolo. Comparando la carta degli areali olivicoli della regione con quelle climatiche di temperatura media e minima, si osserva che la distribuzione dell’olivo è ben correlata con la presenza di condizioni termiche favorevoli alla specie. La distribu-

Olivi su muro a secco

Areali olivicoli

Albenganese Interno

Valle Arroscia Imperiese Interno Colline del Taggese Ponente

Valle Scrivia/ Genovese Interno Val Trebbia Valle Aveto Savonese Ponente genovese Valli Fontanabuona Interno Sturla-Graveglia Savonese Val Tigullio Alta Levante genovese Bormida Val di Vara Golfo Paradiso Chiavarese Lavagnese Bassa Finalese Val di Vara Sestri Levante-Val Petronio-Moneglia Pietrese Riviera Spezzina Albenganese Costa Golfo di Spezia Val di Magra Dianese Imperiese

Riviera di Ponente

Taggese Costa

296


olivo in Liguria Distribuzione degli oliveti in classi altimetriche Foto CAAR-Regione Liguria

10.500 9000 7500 ha

6000 4500 3000

1300-1400

1200-1300

1100-1200

1000-1100

900-1000

800-900

700-800

600-700

500-600

400-500

300-400

200-300

100-200

0

0-100

1500

Oliveto in località Bonassola (SP)

Fascia altimetrica in m

Foto R. Angelini

Fonte: CAAR-Regione Liguria

zione dell’olivo in Liguria è compresa prevalentemente tra fasce altimetriche che variano da 0-100 a 400-500 m s.l.m., e si estende per la maggior parte sul versante marittimo dove le condizioni climatiche sono migliori rispetto all’entroterra appenninico in cui, più di frequente, sono meno favorevoli per venti freddi e gelate. In alcune aree interne (1% della superficie olivicola regionale), in corrispondenza di valli perpendicolari (Ponente ligure) e in condizioni di esposizione e giacitura favorevoli, la coltivazione può superare, come in provincia di Imperia, i 600 m s.l.m. Il regime pluviometrico suddivide ulteriormente la regione Liguria in due aree prevalenti, il Levante e il Ponente: nella prima area le precipitazioni primaverili e autunnali sono, infatti, più elevate rispetto alla seconda. Alla variabilità delle condizioni climatiche in Liguria si registra una forte variabilità dei parametri fisico-chimici del suolo. Questa variabilità climatica e pedologica, ulteriormente arricchita da quella riscontrabile a livello varietale, determina una ricca frammentazione regionale per quanto attiene le aree di coltivazione e i paesaggi che contraddistinguono l’olivicoltura ligure.

Oliveti in Valle Impero (IM) Foto CAAR-Regione Liguria

Caratteri del paesaggio olivicolo e dell’olivicoltura ligure Non è azzardato affermare che il paesaggio olivicolo della Liguria è unico al mondo, per l’ampia estensione delle superfici in condizioni orografiche difficilissime e la bellezza e diversità degli ambienti e dei luoghi. I caratteri distintivi dell’olivicoltura ligure si possono così riassumere: I) diffusione su terreni in forte pendìo e quasi sempre su terrazzamenti sostenuti da muretti a secco; II) frammentazione delle superfici aziendali; III) specializzazione della coltura con elevate

Oliveti intorno alla Torre Saracena, Rapallo (GE)

297


paesaggio Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Oliveti in provincia di Imperia Foto CAAR-Regione Liguria

densità di impianto; IV) età avanzata delle piantagioni; V) notevole altezza degli alberi. Come già detto in precedenza, la composizione varietale, molto diversificata a seconda dei comprensori, accentua la diversità, non solo biologica, degli oliveti liguri. Le pendenze del suolo e le sistemazioni a terrazze rappresentano un vincolo non rimovibile dell’olivicoltura ligure. Oltre il 67% delle superfici olivicole coltivate in Liguria insiste su terreni con classi di acclività comprese tra il 20 e il 50% e nel 20% dei casi si raggiungono anche condizioni più estreme (50-75% di acclività). In Italia vi sono molti altri comprensori ove l’olivicoltura è presente su pendii o terrazzamenti (si pensi, ad esempio, ai terrazzamenti dell’area collinare interna della Versilia, dei Monti Pisani, della Penisola Sorrentina, del lago di Iseo o del lago di Garda), ma la Liguria è sicuramente un caso unico poiché quasi l’intera olivicoltura regionale presenta questo tipo di sistemazione del suolo e insiste su terrazze o lunette (solo il 10% delle superfici olivicole ha una classe di acclività compresa tra 0 e 20%). I muretti a secco richiedono specifiche azioni di manutenzione periodica, che non servono solo per l’olivicoltura, ma consentono di sostenere e mantenere in loco il terreno che, a sua volta, era stato portato a spalla o con i muli nei secoli passati per mettere a coltura nuove aree. I muretti a secco hanno anche un ruolo (che talvolta sfugge all’opinione pubblica) sostanziale nel consentire la regimazione idrica e nel ridurre i fenomeni erosivi. La superficie dei muretti a secco è di solito cospicua e può giungere anche a 5000 m2 a ettaro nei pendii più ripidi. È evidente, da queste cifre, che l’onere del ripristino e della manutenzione non può essere lasciato per intero ai proprietari dei fondi agricoli.

> 100%

75-100%

50-75%

35-50%

20-35%

10-20%

45 40 35 30 25 20 15 10 5 0

0-10%

Frequenza (%)

Scorcio delle colline presso Imperia

Classi di acclività IM

SV

GE

SP

Frequenza degli oliveti coltivati nelle diverse classi di acclività per le quattro province liguri

298


olivo in Liguria Altro aspetto limitante lo sviluppo dell’olivicoltura in Liguria è costituito dalle esigue dimensioni degli appezzamenti olivicoli. La frammentazione delle superfici è un problema presente in tutto il territorio nazionale, ma in Liguria assume valori estremi. In questa regione, la superficie aziendale è compresa, di norma, tra un massimo di 0,72 e un minimo di 0,25 ettari. Rispetto al totale delle aziende olivicole, che costituiscono l’81% delle aziende con coltivazioni arboree, le imprese olivicole (aziende dotate di partita IVA) sono un’esigua minoranza. Nelle province di Imperia e di Savona il numero d’imprese olivicole in attività primaria raggiunge il 16% del totale, mentre in quelle di Genova e di La Spezia sono rispettivamente il 5 e l’1% del totale. In tali condizioni diventa praticamente impossibile programmare investimenti in quanto, oltre a essere ammortizzati su superfici troppo piccole da renderli non sostenibili dal punto di vista economico, sono spesso scarsamente sfruttati a causa della limitata capacità d’impresa dei proprietari delle aziende. La gran parte degli oliveti in Liguria è stata concepita dall’inizio come coltura specializzata da reddito. La consociazione con altre colture, assai diffusa in altre regioni fino a qualche decennio fa, si limitava a semine di cereali, legumi o qualche ortiva nel piano di coltivazione inferiore dell’oliveto. Le densità di impianto sono, quindi, elevate e possono arrivare a oltre 500 alberi a ettaro. I principali benefici odierni di questa tipologia di impianto sono l’elevata produttività potenziale e un notevole

Foto P. Viggiani

Un’immagine eloquente che mostra le forti pendenze del suolo e lascia intuire le difficoltà nell’esecuzione delle più semplici operazioni colturali Olivi e muri a secco tipici del paesaggio ligure

299


paesaggio Foto R. Angelini

Foto P. Viggiani

Il territorio ligure appare come un bosco di olivi, talvolta secolari, che ricopre completamente le pendici della regione

indice di copertura del suolo. Quest’ultimo aspetto costituisce un utile ombrello di protezione del terreno dall’azione battente della pioggia, spesso a carattere temporalesco, e dall’erosione superficiale. Dal punto di vista paesaggistico l’effetto è notevole, in quanto il territorio appare come un bosco di olivi, talvolta secolari, che ricopre uniformemente i pendii della regione. Tuttavia, l’attuale struttura degli oliveti liguri contiene elementi di forte criticità che causano elevati costi di produzione delle olive, rendono difficile, se non impossibile, la conduzione razionale degli impianti e impongono notevoli problemi per la sicurezza degli operatori nell’esecuzione delle pratiche colturali. Si tratta dell’età molto

Oliveto tradizionale su terrazzamento

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Gli olivi liguri raggiungono notevoli altezze; l’impalcatura delle branche principali è ad altezze dal suolo spesso superiori ai 3 metri

Elevata densità di piantagione e chiome impalcate in alto sono una caratteristica distintiva dell’olivicoltura ligure

300


olivo in Liguria avanzata degli alberi, che si riflette negativamente sulla produttività dell’oliveto, e della loro considerevole altezza, che rende di fatto impossibile eseguire la difesa fitosanitaria, la raccolta per brucatura nell’epoca ottimale di maturazione delle olive e il pieno rispetto delle norme di sicurezza. Gli olivi liguri raggiungono notevoli altezze sia in quanto lo spazio laterale a disposizione non è ampio, sia per l’impalcatura delle branche principali che viene impostata ad altezze dal suolo spesso superiori ai 3 m. La forma di allevamento tipica è a vaso o a globo, in entrambi i casi con un numero di branche superiore a tre, e la zona centrale della chioma rivestita di vegetazione. Notevoli miglioramenti nella gestione dell’albero possono essere ottenuti mediante il ringiovanimento della chioma, che si realizza con tagli di ricostituzione eseguiti sul tronco principale ad altezze non superiori a 1,8 m da terra. In questo modo si può riformare nel giro di qualche anno (da 3 a 5 anni) la forma di allevamento originaria, ma con alberi di mole ridotta e chioma ringiovanita e quindi più produttiva. È essenziale che i produttori olivicoli siano opportunamente stimolati e assistiti nelle operazioni di ringiovanimento e riduzione dell’altezza della chioma e che tali necessità siano fatte conoscere all’opinione pubblica per evitare inutili allarmismi.

Olivi nell’anno successivo al taglio di ricostituzione della chioma Foto R. Angelini

Distribuzione varietale Nonostante le varietà presenti nel patrimonio olivicolo ligure siano piuttosto numerose, l’olivicoltura della Liguria è caratterizzata da impianti costituiti quasi prevalentemente dalla cultivar Taggiasca a Ponente e dalla cultivar Razzola a Levante. Nelle province di Savona e Genova la situazione risulta più complessa e il panorama varietale più ricco. Un interessante spaccato del panorama varietale è riportato sotto. Recentemente, uno studio pluriennale condotto dalla regione Liguria, in collaborazione con la Scuola Superiore Sant’Anna di

Ripartizione varietale nelle diverse province liguri (1930) Provincia

Presenza (%) e tipo di varietà

Imperia

99% Taggiasca, 1% Colombaia, Pignola, Merlina

Savona

25% Taggiasca, 25% Pignola, 15% Colombaia, 20% Mortina, 5% Merlina, 8% Nostrale, 2% Finalina, Taggiasca di Feglino e altre

Genova

60% Lavagnina, 30% Pignola, 8% Rossese, 1% Mortina, 1% altre

La Spezia

80% Razzola, 20% Premice, Pignola, Lantesca, Fiandola, Cozzanina, Cozzanone, Toso, Olivella, Mortinella, Lizzone e altre

Terrazzamenti sostenuti da muretti a secco in Valle Impero, in provincia di Imperia. È una terra di pietre, quella che ha formato un ininterrotto serpente di muretti a secco per costruire le terrazze destinate alle coltivazioni

Fonte: C. Carocci Buzi

301


paesaggio Pisa e l’Università Cattolica di Piacenza, ha permesso di valutare la variabilità genetica del germoplasma olivicolo regionale. Lo studio ha analizzato sia le caratteristiche morfologiche sia quelle molecolari di individui appartenenti alle tipiche varietà regionali. In questo lavoro è stata identificata una trentina di ecotipi principali, alcuni dei quali però solo in litteris. Di questi ecotipi sono stati individuati ben 156 sinonimi locali. Le principali varietà identificate e censite mediante schede varietali dettagliate sono: Arnasca, Castelnovina, Colombaia, Lantesca, Lavagnina, Liccione, Merlina, Mortina, Negrea, Olivotto, Pignola, Prempesa, Razzola, Rondino e Taggiasca. Le analisi molecolari hanno permesso di evidenziare l’unicità del germoplasma olivicolo ligure rispetto a quello nazionale e internazionale. In uno studio molecolare (marcatori AFLP e SSR) comparativo tra le varietà liguri in collezione presso il campo di conservazione del germoplasma della regione Liguria e quelle conservate presso il campo internazionale del germoplasma di olivo di Cordoba, è emerso che le varietà liguri si raggruppano in modo omogeneo tra di loro costituendo un gruppo varietale assortito ma indipendente. In seguito a questo risultato sono in corso ricerche per arrivare alla certificazione genetico-sanitaria di alcune varietà di pregio dell’olivicoltura ligure: Castelnovina, Lavagnina, Liccione, Merlina, Mortina, Pignola, Razzola e

Foto CAAR-Regione Liguria

Ceppaia di Olivotto presso Savona

Caratteristici terrazzamenti in Liguria

Foto R. Angelini

302


olivo in Liguria Taggiasca. Questo materiale dovrebbe costituire la base per il vivaismo olivicolo ligure evitando, come già succede, che nella costituzione di nuovi impianti o nel reimpianto di nuovi esemplari in sostituzione di piante deperite o per recuperare fallanze gli olivicoltori utilizzino materiale di incerta origine genetica e scarsa qualità sanitaria o peggio ancora varietà non autoctone. Il processo selettivo attuato nel corso dei millenni dall’uomo e dalle peculiari condizioni macro- e microclimatiche del territorio ligure ha, infatti, determinato quel connubio tra le varietà e il territorio che oggi vediamo espresso nelle differenze sia varietali sia negli oli tra l’olivicoltura del Ponente e quella del Levante ligure.

Foto CAAR-Regione Liguria

Caratteristiche degli oli liguri La variabilità ambientale presente in Liguria, dovuta alla conformazione stretta e allungata della regione, al rapido passaggio dalla costa alla montagna e alle caratteristiche orografiche e pedoclimatiche, in aggiunta al panorama varietale, fa sì che anche gli oli prodotti abbiano caratteristiche diversificate nell’ambito regionale. Infatti, sebbene la Liguria abbia ottenuto per l’olio di oliva un unico riconoscimento di Denominazione di Origine Protetta a livello regionale già dal 1997 (DOP Olio Extravergine di Oliva Riviera Ligure, prima regione italiana a ottenere tale riconoscimento con il Reg. CE 123/97), la stessa norma prevede tre menzioni geografiche aggiuntive: Riviera dei Fiori, Riviera del Ponente Savonese, Riviera di Levante.

Oliveto storico di piante di Lavagnina presso Chiavari (GE)

Aree di produzione di olio extravergine di oliva DOP Riviera Ligure

Riviera dei Fiori Riviera del Ponente Savonese Riviera di Levante

303


paesaggio Le tre sottozone risultano caratterizzate, oltre che da condizioni climatiche e pedologiche diverse, anche da una differente composizione varietale, che nel disciplinare viene così prevista: A) Riviera dei Fiori: 90% Taggiasca e 10% altre varietà; B) Riviera del Ponente Savonese: almeno 50% Taggiasca e 50% altre varietà; C) Riviera di Levante: almeno 55% varietà Lavagnina, Razzola, Pignola e olivi locali riconducibili alla varietà Frantoio e restante 45% altre varietà. Nonostante quest’ampia diversificazione varietale nella composizione dell’olio DOP, tutti gli oli extravergini liguri (se prodotti adottando in campo e al frantoio le migliori pratiche agricole e tecniche) hanno caratteristiche pregiate dal punto di vista sia organolettico sia nutrizionale. Nelle diverse sottozone è possibile anche riscontrare specifiche peculiarità negli oli che, almeno in parte, sono già ricomprese nel disciplinare DOP, come, ad esempio, il colore più tendente al giallo o la sensazione di dolce dell’olio DOP Riviera dei Fiori o una maggiore sensazione al piccante per gli oli DOP Riviera di Levante. Dal punto di vista chimico, gli oli liguri sono stati oggetto di molteplici studi nell’ambito di attività pianificate per valutare nei diversi anni gli oli extravergini provenienti da aziende liguri distribuite nei diversi areali. A titolo di esempio, sotto sono indicati i dati medi di alcuni parametri relativi agli oli provenienti dalle tre sottozone DOP. Come si può notare,

Foto R. Angelini

Valori medi di alcuni parametri analitici degli oli DOP Riviera Ligure analizzati dal 1997 al 2001 Riviera dei Fiori

Riviera P.te Savonese

Riviera di Levante

Numero di campioni

132

90

155

Acidità

0,38

0,52

0,49

N. di perossidi

10,8

10,8

10,1

K 232

1,731

1,781

1,629

K 270

0,095

0,098

0,106

Δ-K

–0,001

–0,001

–0,002

Steroli

1321,2

1468,8

1369,3

Oleico

76,6

74,6

76,1

Linoleico

7,3

8,4

7,0

CMP-totale

122,4

102,3

127,8

Tocoferoli

76,9

83,3

99,8

304


olivo in Liguria dall’esame dei singoli parametri non si evidenziano particolari differenze dal punto di vista analitico, anche se si può rimarcare un valore di acidità inferiore per gli oli della Riviera dei Fiori, un valore in acido oleico inferiore (e di conseguenza un valore superiore in linoleico) per gli oli del Ponente Savonese e un valore crescente dei tocoferoli passando dalle aree del Ponente a quelle del Levante ligure. Utilizzando elaborazioni aggregate dei parametri come, ad esempio, quelle ottenibili dall’analisi chemiometrica, è possibile raggruppare in insiemi omogenei i campioni appartenenti alle diverse sottozone della DOP. Questo tipo di elaborazioni permette di osservare una maggiore omogeneità dei campioni provenienti dalla Riviera dei Fiori (probabilmente dovuta alla preponderante omogeneità varietale, 90% di Taggiasca). Gli oli dell’areale savonese sono invece più dispersi; questo comportamento potrebbe essere dovuto sia alla presenza di più cultivar sia alla presenza di cultivar (per es. Colombaia, Pignola, Olivotto) caratterizzanti i singoli oli. Lavori successivi sugli oli monovarietali hanno, infatti, dimostrato che queste cultivar possiedono composizioni acidiche molto diversificate. Gli oli della Riviera di Levante, pur essendo più dispersi di quelli della Riviera dei Fiori, si distanziano abbastanza da entrambi i gruppi, a conferma, ancora una volta, delle differenze ambientali e del diverso panorama varietale che caratterizzano la regione Liguria.

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

305


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Emilia-Romagna Annalisa Rotondi

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Emilia-Romagna L’Emilia-Romagna dispone di un patrimonio olivicolo importante dal punto di vista economico, storico, sociale e paesaggistico. La disponibilità di una ricca piattaforma varietale, le particolari condizioni microclimatiche che caratterizzano alcuni areali della regione e la sinergia tra ricerca e filiera produttiva, hanno contribuito alla valorizzazione e al miglioramento delle produzioni di olio extravergine di oliva. L’olivicoltura è maggiormente diffusa in quella parte di regione nota come Romagna, più precisamente in alcuni territori delle province di Rimini, Forlì-Cesena e Ravenna. Riferendosi alle province di Rimini e Forlì-Cesena, l’olivicoltura è distribuita nelle prime colline a ridosso della costa adriatica, distribuendosi prevalentemente lungo le valli dei fiumi Marecchia, Marano e Conca per gli areali riminesi e dei fiumi Rubicone, Savio, Bidente e Montone per gli areali cesenati. L’olivo in questi ambienti collinari ha trovato le migliori condizioni pedoclimatiche per il suo sviluppo con una maggior diffusione nei versanti più riparati da venti freddi settentrionali. Proseguendo verso ovest lungo la catena appenninica è possibile ritrovare un areale, in provincia di Ravenna, fortemente vocato alla coltivazione dell’olivo, caratterizzato da colline che sovrastano le valli dei fiumi Senio e Lamone dove le tipiche formazioni calanchive creano un riparo alle correnti atmosferiche più fredde: siamo nel comprensorio di Brisighella. È interessante sottolineare che nell’ultimo decennio la coltivazione dell’olivo ha trovato microambienti favorevoli anche nel versante occidentale della regione interessando così anche alcune province emiliane, in particolar modo Bologna. Nei territori romagnoli fonti archivistiche dell’alto Medioevo hanno documentato l’esistenza della coltivazione dell’olivo in forma semi-intensiva, unitamente alla presenza di numerose strutture di

In sintesi

• La coltivazione dell’olivo in provincia di Rimini e Forlì risale all’Età Villanoviana (X-VIII sec. a.C.) ed è sopravvissuta alla caduta dell’Impero Romano e alle invasioni barbariche. La ripresa avviene nel Medioevo, quando i monaci diffondono l’olivo ovunque e, anche sulle colline di Bologna, Piacenza e Parma. All’inizio del secolo scorso gli olivi sono stati poi espiantati per fare spazio alle colture di pianura e all’allevamento intensivo. La ripresa è recente, con una superficie complessiva di circa 5500 ha con 60.000 q di olive e 10.000 q di olio

• La coltura dell’olivo interessa

soprattutto le aree collinari nel Riminese, nel Forlivese e nel Faentino, che custodiscono un patrimonio olivicolo molto importante. Il 56% ricade in provincia di Rimini (Valli del Marecchia, Marano e Conca), 30% in provincia di Forlì-Cesena (Valli del Rubicone, Sauro, Bidente e Montone), 13% in provincia di Ravenna (Valli del Senio e del Lamone) e 1% nel Bolognese

• 2 DOP:

-B risighella: ottenuta dalla varietà autoctona Nostrana di Brisighella olline di Romagna: ottenuta -C da almeno un 60% della varietà Correggiolo

• Rossina e Capolga sono le varietà

autoctone di Rimini oltre alle colture del Centro Italia (Frantoio, Moraiolo, Leccino e Pendolino). In provincia di ForlìCesena esistono le varietà Selvatico, Grappuda e Carbunciòn di Carpineta. Diffusi nel Riminese e nel Forlivese gli ecotipi autoctoni Correggiolo di Villa Verucchio e di Montegridolfo Antichi olivi nelle colline bolognesi

306


olivo in Emilia-Romagna trasformazione. Anche per quanto riguarda l’ambiente pedecollinare di Bologna, pare che l’olivo abbia avuto in passato un’importanza colturale non trascurabile: infatti indagini archeobotaniche e il ritrovamento di reperti storici classificati come attrezzature olearie testimoniano come la coltura fosse praticata sin dall’epoca romana. Nei territori emiliani rispetto a quelli romagnoli tale importanza colturale è poi venuta meno in seguito al verificarsi di eventi climatici o a profondi mutamenti sociali ed economici. Attualmente in regione la coltivazione dell’olivo si sviluppa su una superficie complessiva di circa 5500 ettari di cui il 56% in provincia di Rimini, il 30% in provincia di Forlì-Cesena, il 13% in provincia di Ravenna e l’1% sulle colline bolognesi. Le piante sono in prevalenza allevate a vaso libero con una densità d’impianto che oscilla tra le 150 piante per ettaro nei vecchi impianti e le 300-330 piante/ettaro nei nuovi impianti. Il potenziale produttivo che la coltivazione dell’olivo attualmente è in grado di esprimere in regione è di circa 60.000 q di olive e 10.000 q di olio. Dai suddetti dati strutturali emerge un quadro di una coltura che, sebbene concentrata in una ristretta area di coltivazione, rappresenta una peculiare risorsa ambientale, in grado di fornire una sostanziale valenza economica e un alto pregio paesaggistico. L’olivo è possibile ritrovarlo all’interno di oliveti specializzati che conferiscono alla coltivazione la distribuzione definita a “macchia di leopardo”, oppure all’interno di impianti promiscui in consociazione con la vite e con colture erbacee. Molto spesso è possibile ammirare singoli esemplari secolari che padroneggiano l’intero versante collinare, oppure custodiscono con grande importanza rocche, chiese, chiostri, abbazie e castelli. Il valore paesaggistico dell’olivo sulle colline romagnole, in un’area che da sempre riconosce nel turismo un elemento di primaria im-

Foto R. Angelini

Olivi alternati a filari di viti sulle colline romagnole

Oliveti sulle colline riminesi

Foto R. Angelini

307


paesaggio portanza, contribuisce all’incentivazione di iniziative che coniugano la biodiversità e i suoi prodotti agroalimentari valorizzando al tempo stesso i territori di origine. Le azioni volte alla tutela del paesaggio olivicolo in Emilia-Romagna sono state oggetto di diversi progetti promossi da enti locali, dalla regione e dall’associazione dei produttori. È stata quindi seguita una linea comune avente come duplice obiettivo il recupero della pianta e lo studio e la conservazione del genotipo intrinseco a essa. Le tecniche di potatura di riforma e di manutenzione straordinaria hanno così permesso alle numerose piante colpite da gelo, grandine e patogeni, di ripristinare il loro aspetto paesaggistico e la loro potenzialità produttiva. Tali operazioni di mantenimento sono state effettuate su olivi secolari, di grandi dimensioni, appartenenti a varietà a rischio di estinzione o situate in zone di particolare interesse ambientale o paesaggistico. L’Istituto di Biometeorologia (IBIMET) di Bologna si occupa da tempo del censimento e della descrizione delle piante secolari ritrovate nelle province di Bologna, Rimini, Forlì-Cesena e Ravenna. Oltre 250 olivi secolari sono stati georeferenziati e dimensionati per la compilazione della relativa scheda fitometrica, le piante appartenenti a cultivar di dubbia identificazione sono state caratterizzate sotto il profilo morfologico e molecolare. Attualmente tutte le piante in studio sono inserite in una banca dati accessibile da Internet all’indirizzo http://olivisecolari.ibimet.cnr.it; il sistema di catalogazione, basato su architettura CMS (Content Management System) e strutturato in modo dinamico, offre la possibilità di essere continuamente aggiornato e arricchito; ogni pianta è corredata da una documentazione fotografica e da una visualizzazione esatta sia tramite immagini satellitari sia attraver-

Antica ceppaia di olivo a Rimini

Raccolta delle olive a Brisighella Olivi sotto la neve sulle colline riminesi

Foto R. Angelini

308


olivo in Emilia-Romagna so cartografia stradale. Le piante secolari che caratterizzano il paesaggio emiliano-romagnolo hanno mostrato svariate morfologie: spesso le piante allevate a vaso libero hanno un unico tronco portante una chioma globosa la cui larghezza può superare una decina di metri; alcune vengono sottoposte a potatura annuale mentre altre si trovano in condizioni di semiabbandono inglobate all’interno di siepi e rovi. Il paesaggio è caratterizzato anche da olivi con ceppaie molto grandi dalle quali si dipartono numerosi tronchi. Queste piante, ritrovabili prevalentemente a Brisighella, sono il risultato di inverni rigidi che hanno in passato danneggiato la parte aerea della pianta. Grazie alla quasi immortalità della specie, si sono generati numerosi polloni che, trasformatisi in veri e propri tronchi, hanno conferito a questi olivi un aspetto “cespuglioso”. A tale proposito è interessante segnalare la presenza, in provincia di Bologna, di 3 piante definite monumentali, uniche presenti in regione, poste sotto vincolo paesaggistico ai sensi dell’art. 6 della legge regionale n. 2 del 1977; l’aspetto cespuglioso di una di esse è caratterizzato dalla presenza di ben 19 tronchi. La localizzazione delle piante secolari ha portato alla caratterizzazione delle aree emiliano-romagnole più vocate alla coltivazione dell’olivo, seguendo un approccio integrato “tradizione-tecnologia”, in cui l’uso degli olivi secolari come bioindicatori si è affiancato a tecniche avanzate come i Sistemi Informativi Geografici. La diffusione di una specie mediterranea quale l’olivo all’interno di una regione posta al Nord Italia come l’Emilia-Romagna ha richiesto lo studio di linee guida relative alla scelta delle cultivar e dell’areale di coltivazione più idoneo, contribuendo così a una razionalizzazione e a una tipicizzazione dell’olivicoltura emilianoromagnola.

Nuovo impianto a Castel San Pietro Terme (BO)

Piante di olivo certificate Oliveti sulle colline romagnole, sullo sfondo l’Adriatico

Foto R. Angelini

309


paesaggio Secondo importante obiettivo perseguito in regione è stato lo studio e la selezione di genotipi interessanti sotto il profilo genetico e agronomico. I primi rilievi, iniziati nel 1983, hanno interessato alcuni territori delle province di Rimini, Forlì-Cesena e Ravenna e, grazie alla costituzione di numerosi campi sperimentali, è stato possibile concludere il processo di selezione clonale. Sono state selezionate 14 cultivar, determinando per ognuna di esse i caratteri biomolecolari, morfologici e agronomici comprendenti anche l’indice ottimale di maturazione, l’attività rizogena e i caratteri chimici e organolettici degli oli monovarietali. Il patrimonio olivicolo regionale è stato ulteriormente valorizzato con l’avvio del processo di certificazione nazionale genetica e sanitaria del materiale vivaistico; dal 2005 IBIMET-CNR ha ottenuto il riconoscimento di Centro di Conservazione e Premoltiplicazione per la specie olivo. Grazie alla conoscenza delle caratteristiche delle cultivar e alla disponibilità di materiale vivaistico certificato, in regione si è puntato molto sulla qualità degli oli per differenziarli dagli altri oli presenti in commercio. Il binomio cultivar-ambiente è infatti in grado di conferire all’olio determinate peculiarità chimiche e organolettiche. In regione vengono prodotti due oli DOP, Brisighello e Colline di Romagna, le cui caratteristiche chimiche e organolettiche vengono, rispettivamente, conferite dalle cultivar Nostrana di Brisighella e Correggiolo. Il primo olio viene prodotto nei territori di Brisighella previsti dal disciplinare, è conosciuto per l’elevato standard nutrizionale grazie agli alti contenuti in acido oleico e in antiossidanti naturali; il suo profilo sensoriale è caratterizzato da note amare e piccanti, da un intenso livello di fruttato verde di oliva accompagnato da sentori di carciofo e pomodoro. Anche l’olio

Oliveto ai piedi dell’abbazia di Monteveglio (BO)

Esemplare secolare di olivo a Montebudello (BO)

Olivo secolare ritrovato nel cortile della rocca di Castrocaro Terme e Terra del Sole (FC) Oliveto specializzato nelle colline di Bologna

310


olivo in Emilia-Romagna DOP Colline di Romagna, prodotto nei territori delle province di Rimini e Forlì-Cesena previste dal disciplinare, presenta una buona qualità nutrizionale, i caratteri organolettici si distinguono per il buon livello di fruttato di oliva, l’equilibrio tra amaro e piccante, la netta prevalenza di mandorla spesso accompagnata anche da un lieve sentore di carciofo. In regione vengono inoltre prodotti due oli monovarietali, il Nobil Drupa, ottenuto dalla cultivar Ghiacciolo, e l’Orfanello, prodotto dalla cultivar Orfana. Sono oli, protetti da marchi registrati, dotati di spiccate differenze sensoriali: più amaro e con note di carciofo il primo e più dolce e con sentore di erbe aromatiche il secondo. Tutti questi oli hanno trovato un buon consenso soddisfacendo i diversi gusti del consumatore che è risultato essere sempre più attento e informato sulle possibili note aromatiche degli oli extravergini di oliva. L’olivo che in Emilia-Romagna è coltivato principalmente in aree collinari (65%), marginali per altri tipi di coltivazioni (il 45% delle aziende regionali è ubicato in zone agricole svantaggiate secondo la direttiva CEE 268/75), offre buone prospettive future di espansione grazie alla presenza di una ricca fonte di biodiversità ancora da ricercare e descrivere, affiancando al tempo stesso lo studio dei microambienti maggiormente vocati alla sua diffusione.

Olive della cultivar Correggiolo

Oliveti a Verucchio, nelle colline riminesi

Foto R. Angelini

311


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivo in Italia settentrionale Andrea Fabbri

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivo in Italia settentrionale L’olivo, pur se domesticato in Medio Oriente sin dal IV millennio a.C., non sembra abbia raggiunto la Penisola prima degli albori del I millennio a.C., a opera dei Fenici e dei Greci. Dalla Sicilia, verso il VII-VI secolo a.C., probabilmente passando dall’Etruria, è riportato, a opera degli storici classici, il passaggio dell’olivo al mondo romano. Le notizie relative alla presenza dell’olivo coltivato a nord degli Appennini, al di là delle province di Rimini e Forlì-Cesena, e della regione Liguria, che da un punto di vista ambientale più appropriatamente si dovrebbero considerare appartenenti all’olivicoltura dell’Italia centrale, sono scarse e discontinue, segno evidente che la coltura di questa specie arborea non può che essere stata contraddistinta, pur con alti e bassi, da superfici sempre contenute e da vicende contrastanti che ne hanno influenzato le fortune. In ogni modo la prima segnalazione storica ci viene da Columella (De agricultura, 1, 5), che visse nel secolo I d.C.: egli ci parla di quanto scriveva nel secolo precedente tale Saserna, georgico latino appartenente a una famiglia di agricoltori di origine etrusca che conducevano terre di loro proprietà nel Piacentino: questi scrisse, all’inizio del I secolo a.C., un trattato agronomico di cui ci rimangono frammenti riportati da Columella e da cui emerge che nel Nord Italia il clima era molto mutato rispetto al passato, tanto che regioni in cui era prima impossibile coltivare la vite e l’olivo erano, ai tempi dell’Autore, ricche di pingui oliveti e vigneti. In effetti sappiamo che vi fu un periodo di relativo riscaldamento tra il III secolo a.C. e il III secolo d.C. L’epoca di introduzione dell’olivo a nord è d’altronde difficile da stabilire, in quanto l’inizio della colonizzazione etrusca della Valle del Po centro-occidentale risale alla prima metà del I millennio a.C. Per alcuni poi gli Etruschi si sarebbero spinti fino al Piemonte sin dagli inizi di tale colonizzazione. Un sito etrusco risalente al V secolo a.C. è stato scavato anche in terra lombarda, presso Bagnolo San Vito (MN). La coltivazione dell’olivo si diffonde quindi nei secoli successivi, a opera dei Romani, e con essa anche la tecnica di estrazione, produzione e commercio di olio; testimonianze di un’intensa attività di trasformazione sono i ritrovamenti di resti di frantoi in ville rurali, come la villa di Desenzano, e quella del secolo I d.C. recentemente scavata in provincia di Reggio Emilia, nella quale sono evidenti i resti di torchi e di un’orciaia. Anche ritrovamenti carpologici, di residui vegetali e studi di archeopalinologia testimoniano la presenza di Olea europaea in Lombardia in età romana. Altre indagini di tipo archeobotanico hanno segnalato tracce di polline di olivo, risalenti ai secoli I a.C. e V-VI d.C., presso San Giovanni in Persiceto (BO). Di epoca analoga sono gli scritti di Flavio Cassiodoro (V-VI sec. d.C.), politico e scrittore romano, che attestano la presenza di folti oliveti sulle sponde dei laghi prealpini. Dello stesso

Lombardia in sintesi

• Terra del latte e del burro ma con radici olivicole antiche e consolidate grazie all’extravergine dei laghi prealpini lombardi: Maggiore, di Como, di Garda e d’Iseo, di pregevole qualità

• Toponimi come Oliveto Lario ne

testimoniano la produzione di olio nel passato; i monaci di Sant’Ambrogio chiedevano ai contadini il tributo in olio della zona

• Nonostante le radici in epoca

preromana, l’olivicoltura ebbe un grande impulso nel Medioevo con l’inizio della viticoltura intensiva sulla Riviera Bresciana del Benaco e i monaci ebbero la necessità di approvvigionarsi di olio per l’illuminazione delle chiese e per i riti sacri. Apprezzato dalla Serenissima, l’olio del lago di Garda incentivò ulteriormente l’olivicoltura

• Circa 700 tonnellate prodotte • 2200 ettari di superficie olivetata,

concentrati prevalentemente nella provincia di Brescia (circa 2000 ha)

• Piccoli numeri ma alta qualità,

documentata da 2 DOP: - Laghi Lombardi (Lario e Sebino) -G arda, accompagnata dalla menzione Bresciano

• Le principali varietà sono: Frantoio,

Leccino, Moraiolo, Pendolino, Casaliva gardesana o Gargnà

312


olivo in Italia settentrionale periodo sono documenti di compravendita che parlano di oliveti a Classe e nel Ravennate. L’olivo non sembra però molto diffuso nell’Italia padana in età romana, grazie alla facilità di trasporto da altre regioni dell’Impero. Se quindi i pochi olivi esistenti resistono alla recessione economica della seconda metà del IV secolo, che invece coinvolge la vite, molto probabilmente sono invece colpiti dalle profonde devastazioni provocate dalla guerra greco-gotica prima, e dalla discesa dei Longobardi poi. I quali però non tardano a riconoscerne l’importanza e a favorirne la diffusione. L’olivo sembra quindi entrare a far parte del paesaggio agrario di ampie zone del Nord Italia, e diviene una pianta abbastanza importante se nel VII secolo l’editto di Rotari (643) prevede addirittura multe elevate per coloro che danneggiano piante di olivo. Nel secolo successivo (VIII) le tracce storiche si intensificano: numerose sono quelle relative ai laghi di Lugano (Campione), di Como, d’Iseo e di Garda. Cominciano a nascere i primi toponimi: nella laguna veneta esiste un villaggio chiamato Olivola. Lo storico bresciano Paolo Guerrini ricorda che la Pieve di Manerba nel IX secolo fu un territorio della Badia di Leno e che proprio i monaci di Leno dissodarono tali paludi e colline per impiantarvi vigne e olivi. È dei secoli IX-XI la menzione, in atti notarili, di oliveti nel Novarese, nel Piacentino e nel Bresciano; sembra inoltre che nel tardo Medioevo l’olivicoltura arrivi fino a Cremona, probabilmente lungo le sponde del Po. Nel 1151 Vincenzo di Praga, descrivendo la marcia verso Garda dell’esercito di Federico Barbarossa, scrive che egli progrediva “inter olivas spendidissimas” e che vide cadere “olivas preciosissimas ad focum et ad equorum stabula”. L’olivo ormai è ampiamente diffuso e nei secoli XII e XIII sono numerosissime le segnalazioni di oliveti in tutto l’arco della Pianura Padana: se nel VI secolo sono segnalati oliveti nell’attuale Cantone Vallese, non può destare sorpresa apprendere che più a sud, in Valle d’Aosta e in Piemonte, olivi sono coltivati un po’ dappertutto; in Valle d’Aosta a Donnas, Verrès, Pont Saint Martin e in genere sulla riva sinistra della Dora: la presenza di olivi in questi territori è testimoniata per la prima volta in un atto di donazione del 515 dove Sigismondo, re di Borgogna, appena convertito al Cristianesimo, dona varie terre tra le quali oliveti in Valle d’Aosta. In Piemonte olivi si trovano nel Canavese e nel Biellese (Ivrea, Chiaverano, alture di Biella), dove numerosi sono i documenti e catasti tra il Duecento e il Settecento: un ordinato della Credenza di Ivrea stabiliva che tutti coloro che erano proprietari di gerbidi o di vigneti sulla collina morenica della Serra erano tenuti a coltivare almeno una pianta di olivo o di mandorlo per ogni sapatura di superficie. Il Comune, per ciascuna pianta in stato fruttifero, prometteva un premio di due soldi e, a loro tutela, proibiva il pascolo nei terreni con piante di olivo e di mandorlo. Sempre a Ivrea un editto del 1329 proibiva la vendita di piantine da olio ai forestieri, e un altro del 1341 obbliga-

Veneto in sintesi

• Antica è la tradizione olivicola,

nonostante il territorio sia molto più a nord rispetto a quello riconosciuto ideale per la produzione dell’olio, grazie al microclima del Garda e ai fertili terreni di origine morenica

• L’origine dell’olivicoltura risale all’epoca pre-romana, come testimoniato dalle vestigia ritrovate sulle sponde del Benaco. Nel Medioevo l’olio era la moneta corrente per pagare decime e canoni d’affitto e nel Cinquecento la Serenissima considerava il Benaco centro di produzione dell’olio per tutta l’alta Italia

• 1200 tonnellate la produzione di olio • Oltre 5000 ettari investiti a oliveto • Verona è la zona più produttiva con circa 4400 ettari

• L’alta qualità dell’olio è attestata

da 2 DOP: – DOP Garda, accompagnata dalla menzione geografica Orientale (ribattezzata anche Riviera degli Ulivi), dove prevalgono le cultivar Casaliva e Drizzar e poi Grignan, Lezzo, Favarol, Rosanna, Fort e Pendolino – DOP Veneto, con le sottozone Del Grappa, Euganei e Berici e Valpolicella, rispettivamente nelle province di Padova, Vicenza e Verona. Le varietà sono: Casaliva, Frantoio, Leccino, Grignan, Favarol, Raza, Trapp, Less e Fort

313


paesaggio va i proprietari di terreno di superficie superiore a uno iugero, nei territori comunali di Bollengo, Palazzo, Burolo e Piverone, a piantare 10 alberi d’olivo e mandorlo. La presenza di olivi nel Canavese è testimoniata anche nel secolo successivo: infatti un editto del 1449 stabiliva premi ai proprietari di oliveti in produzione, mentre a Chiaverano uno statuto sanciva tra le varie norme le distanze da rispettare tra i terreni privati e le strade, citando tra i diversi alberi di medio fusto l’olivo. Ancora nel XV secolo il catasto di Chivasso riportava nei comuni di Vestignè, Strambino e Parella alcuni toponimi come Regione d’oliva e Giardino d’oliva. L’olivo era presente anche nella zona di Torino, dove oliveti sono segnalati a Castelvecchio di Moncalieri, a Rivoli, in Val di Susa e in Val Pellice: fu in un periodo di innalzamento delle temperature, fra il 1545 e il 1564, che sembra fosse introdotto l’olivo nella Val Pellice. Come riferisce uno studio del Malan (1935-38), il materiale arrivò dalla vicina Provenza: si tratta di un caso più unico che raro in cui si ha conoscenza della provenienza del materiale vegetale. A Torino il 7 febbraio 1369 è emesso un ordinato che impone di piantare olivi e mandorli a chiunque abbia vigne; gli Statuti Criminali di Chieri, dello stesso secolo, impongono gravi multe a chi estirpi, rubi o danneggi piante di olivo, e se non può pagare “ponatur ad berlinam sine remissione per tres dies continuos”. La massima diffusione della coltivazione dell’olivo in Piemonte, come d’altronde in gran parte delle aree settentrionali che l’avevano accolto, si verificò nella seconda metà del Duecento, allorché molti statuti prevedevano l’obbligo della piantagione di olivi nella fascia pedemontana che va dalla Langa al Monferrato, fino ad arrivare, verso nord, ad aree con microclimi più compatibili al loro sviluppo quali il lago di Viverone, il lago d’Orta e le xerofile Valli di Susa. Olivi sono stati coltivati anche in provincia di Cuneo nel Saluzzese, nell’Albese (Vezza d’Alba) e a Santo Stefano Belbo, nel Mon-

Friuli Venezia Giulia in sintesi

• L’olivo è stato qui diffuso dai Romani

che lo impiantavano su tutta l’area nordorientale dell’Adriatico e sulla Costiera Triestina. Diversi frantoi del tempo sono stati rinvenuti. Significative sono anche le testimonianze d’epoca medievale. Nell’Ottocento si registrarono importanti traffici di olio e nel 1929 il grande gelo mise in ginocchio l’olivicoltura, che venne pressoché abbandonata. Nel 1958 chiuse l’ultimo frantoio della regione e nel 1977 riaprì il primo a Bagnoli

• Oggi la produzione è superiore alle 80

tonnellate di olio, una nicchia di qualità per l’eccellenza dell’extravergine prodotto

• 1 DOP, Tergeste, dal nome latino

di Trieste, che tutela l’olio extravergine di oliva prodotto nel territorio giuliano

• Bianchera rappresenta più del 50%

delle piante nell’area triestina, insieme a Leccio del Corno, Buka, Carbona, Gentile di Rosazzo, oltre a varietà del Centro Italia come Leccino, Frantoio, Moraiolo e Pendolino

Resti di frantoio (pressa), in una villa romana del I secolo d.C. nei pressi di Viano (RE)

314


olivo in Italia settentrionale ferrato e in provincia di Alessandria, se devono far fede toponimi nei comuni di Avolasca e Frassinello. Un documento del 20 febbraio 1167 attesta l’arrivo degli olivi a Rocca delle Donne, quando Guglielmo, Marchese di Monferrato, effettuò la donazione di vari olivi alla Chiesa e in particolare al Monastero di Santa Maria della Rocca, che aveva vari possedimenti a Maranzana e a Ronco. L’importanza assunta nel Monferrato casalese dall’olivo tra l’XI e il XIII secolo è testimoniata dalle contese giuridiche durate diversi decenni tra i comuni di Gabiano, Fontanetto, Palazzolo e Rocca delle Donne per il possesso di un vasto territorio denominato Giara o Oliveto, nel quale venivano coltivati gli olivi. Ma nella regione le segnalazioni più numerose e antiche riguardano il Nord-Est, nella zona dei laghi e delle province di Verbania e Novara: dell’885 sono documenti che menzionano oliveti sul Mont’Orfano nei pressi del lago di Mergozzo, e del 1148 per la Val d’Ossola; di poco più recenti altri che tra i secoli X e XV testimoniano la presenza della coltura dell’olivo sul lago Maggiore (Cànnero, Griffa, l’Isola Maggiore delle Borromee, nominata come “insula olivarum” nel 998), sul lago d’Orta (Cureggio e Gozzano), ma anche nei dintorni di Novara (Cerano). Molti olivi dovevano essere coltivati nelle aree rivierasche del Novarese, dove la presenza della specie, nel XII e nel XIII secolo, coincide esattamente con la curva climatica favorevole. In quel periodo il Vescovo Giovanni de Urbe, rinnovando l’invito a impiantare olivi e mandorli nei terreni agricoli nella misura di una pianta per ciascun sestario di pertica, minacciò di infliggere multe severe ai trasgressori: ben 5 soldi imperiali per ogni pianta omessa. La presenza di olivi nel Novarese è comunque antecedente: nel marzo dell’anno 1100 le direttive di Anselmo, Vescovo di Novara, indicavano come canone in natura per le proprietà di Gozzano un certo quantitativo di olio d’oliva.

Toponimi

• I toponimi relativi all’olivicoltura

nascono numerosi e molti successivamente scompaiono. Si ricorda, ad esempio, una località in Valpolicella (presso Pozzo di Val di Marano), che nel 1084 fu detta Olivo; Castro Oliveto e Corte Monte Oliveto nel Reggiano e, ancora, Madonna dell’Uliveto presso Borzano (RE). Numerosi sono anche i toponimi legati all’olivo in Friuli Venezia Giulia, alcuni dei quali sono rimasti fino ai nostri giorni: Ronco degli Ulivari, Braida degli Olivi, Oleis (quest’ultimo dà nome a un intero paese) ecc.

• Un altro toponimo interessante è quello molto antico e tuttora esistente di Olivone in Val Levantina, Canton Ticino (890 m), dove però non vi è memoria di coltura dell’olivo

Oliveti intorno alla villa romana delle Grotte di Catullo, Sirmione, sul lago di Garda

Foto R. Angelini

315


paesaggio Almeno fino alla fine del XIV secolo l’olivo risultava ben presente in tutto il Piemonte, e veniva segnalato a Buttigliera, Camino, Ceresole d’Alba, Corneliano e sicuramente in tutto il Roero, che si stava risollevando dalle lotte con Asti, dedicando ogni forza alla coltivazione delle alture, dove gli abitanti si erano dovuti trasferire. A Gabiano e Montiglio gli oliveti erano frequenti, ma la presenza di olivi era segnalata anche a Villadeati, Vignale, Viale, Viarigi, Ozzano, Revigliasco, Rosignano, Lu, Santo Stefano Belbo, Sinio e perfino a Murazzano, posta in alto, ma soleggiata e dolce. Le fortune dell’olivo sembra siano durate a lungo: nel 1566, in occasione del pranzo offerto per l’incoronazione di Pio V, vennero servite, come ghiottoneria, olive di Tortona. Alcuni studiosi ritengono che all’inizio del Settecento in Piemonte fosse più diffusa l’olivicoltura che la viticoltura, e comunque l’olio d’oliva era certamente prodotto in quantità considerevole, sia per uso alimentare, anche se meno dell’olio di noci, sia come olio da lampada per l’illuminazione. Ancora nell’Ottocento l’abate Goffredo Casalis compila una nutrita lista di località piemontesi in cui si coltiva l’olivo. Ma a quella data l’olivicoltura piemontese non rappresenta più un’attività di rilevanza economica: infatti i grandi freddi del secolo precedente (famoso quello del 1709) e la spietata concorrenza di altre colture arboree concorrono a far abbandonare la coltura. Il colpo definitivo fu determinato dagli abbassamenti termici a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo: tra la fine del 1700 e il 1812 gli inverni furono talmente rigidi da far gelare il vino nelle botti e costrinsero gli agricoltori a svinare all’arrivo del disgelo. Tali condizioni climatiche continuarono all’incirca fino all’Unità d’Italia; ma se intorno al 1860 ha termine il periodo dei grandi freddi, l’olivo non viene più rinnovato come coltura da olio e da reddito, a causa della ormai definitiva affermazione sulle pendici

Misure antiche

• Sapatura: antica misura di superficie agraria piemontese, equivalente alla quantità di terra che un uomo può zappare in un giorno e pari, circa, a 300 metri quadrati

• Bifolca: unità di misura emiliana

corrispondente alla quantità di terra che un bifolco (contadino) riesce a lavorare in un giorno, pari a circa 1/3 di ettaro. Oggi la bifolca è stata sostituita dalla “biolca”, il cui valore è simile alla bifolca, ma con approssimazione diversa a seconda della zona

Oliveti alla periferia di Verona

Foto R. Angelini

316


olivo in Italia settentrionale collinari piemontesi della vite, il cui prodotto trova ampi sbocchi commerciali. Inoltre, ottenuta l’unità territoriale, venne a decrescere la convenienza di produrre olio di oliva al Nord. Come vedremo anche per le altre regioni settentrionali, i collegamenti ferroviari, soprattutto con la Puglia, resero l’olio un prodotto meno costoso, mettendo fuori mercato i meno produttivi impianti del Nord. In Lombardia, la presenza dell’olivo si ha maggiormente intorno ai laghi Maggiore, di Lugano, di Como, d’Iseo e di Garda, ma anche su molte pendici collinari prealpine; in particolare quelle della provincia di Brescia sono cosparse di olivi. Testimonianze del Gallo e del Clementi evidenziano che in Lombardia, già dal periodo rinascimentale, l’utilizzo intensivo delle colline moreniche spinse a importanti opere di terrazzamento utilizzate per la coltura di vite, olivo e agrumi. D’altronde ancora nel 1288 Bonvesin de la Riva scrive nel De magnalibus urbis Mediolani che “le bacche d’olivo si raccolgono in qualche luogo del nostro contado anche se non sono sovrabbondanti”. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, una testimonianza del 541 ricorda oliveti nel Riminese, mentre in un atto notarile dell’VIII secolo, presente nelle carte nonantoliane, si hanno accenni di un oliveto situato nei pressi di Monteveglio, tra il Modenese e il Bolognese, e in particolare lo si individua in una località qui detta “Casale Sociolo”, la quale verrà di seguito denominata Oliveto. In questo atto notarile (datato 6 marzo 776) il Duca Giovanni da Persiceto trasferiva al monastero di Nonantola la proprietà di alcune terre “in pago Montebelio” (Monteveglio) specificando che il luogo era “oliveto circumdato”. In questo stesso territorio la coltivazione dell’olivo fu attestata anche da altri documenti quali, per esempio, una donazione del duca Orso datata 30 dicembre 789, un analogo atto del vescovo Wari-

Capitolato sulla coltivazione

• Il capitolato imposto dal podestà

di Parma Giberto Da Gente elencava anche tutte le località in cui gli olivi dovevano essere coltivati: “Capitulum quod Potestas teneatur facere plantari et allevari, benificari et manteneri XX pedas olivarum in primo anno et proquolibet foco infrascriptarum terrarum, et post modem in singulis annis X pedes. Quae villae sunt istae: Bazanum, Guardaxonum, Traversetulum, Castilionum, Rivalia, Mulazanum, Cazola de Rivalta, Lisignanum, Torclarea, Arolis, Casaticum, Langhiranum, Mataletum, Castrum, Rignanum, Strognanum, Padernum, Cirlianum, Castrum de Felino, Castrum de Tullorio, Munte Pallerium, Sanlarium, Ceretulum, Sanctis Vitalis Bagantiae, Limide, Maliaticum, Nivianum, Segalaria, Furnovum, Casellae de Furnovo, Fosium et omnes aliae terrae ultra Taronum et ultra Cenum usque ad planum per totam parmexanam”. Tutte località che, con diverse fortune, sono sopravvissute sino ai nostri giorni

Oliveti nella Valle di Illasi (VR)

Foto R. Angelini

317


paesaggio no datato 15 luglio 1016 e un documento di donazione da parte di Carlo Magno a favore della Chiesa di Modena. In quest’ultimo documento, datato 822, viene chiaramente specificata l’elargizione dell’oliveto sito presso il castello di Monteveglio. Una carta di livello dell’878 può far pensare alla presenza di un oliveto nel Piacentino, in questo documento è infatti previsto un canone di olio, così come il polittico Bobbiese del X secolo lo faceva supporre nel Parmense; in particolare questa testimonianza, se pur frammentaria, ha la particolarità di specificare la produzione di olio di questo oliveto, che si aggira intorno alle 500 libbre. In questo periodo storico sempre con maggiore frequenza si susseguono passaggi di proprietà, a causa del sistematico avvicendamento gerarchico, tipico del Medioevo. I documenti redatti in seguito agli accordi presi spesso rilevano la presenza di toponimi direttamente collegati all’olivicoltura: è il caso di Castro Oleriano, che viene ceduto al comitato di Parma nel 944. In provincia di Reggio Emilia, nei dintorni di Albinea, si ha una presenza inequivocabile di oliveti, confermata da diverse testimonianze: quella di Enrico II di Germania, in un diploma del 1002 ancora nominato nel 1072 da Papa Alessandro II, che conferma al monastero di San Prospero la proprietà di “S. Maria di Pissignano coll’oliveto attiguo”, che solamente un anno dopo, nel 1073, il vescovo reggiano Gandolfo cita come “S. Maria de Oliveto”. L’attività principale di questi monaci doveva essere la coltivazione dell’olivo, pianta che “abbondava nelle vallate, di Montericco e di Borzano, esposte a mattina e riparate dai venti e dai geli”. Ancora oggi si possono vedere, in queste zone, olivi che per secoli hanno fornito prezioso olio alle lampade delle chiese reggiane e rametti ai parrocchiani di Montericco nel periodo pasquale. Altra località del territorio matildico, in cui si produce olio, è Cortenova. Inoltre in una carta di precario del monastero di Nonantola del 1115 si citano Castro Oliveto e Corte dei Monti Oliveti. Un provvedimento del 1136, disposto dall’arcivescovo di Ravenna da cui allora dipendeva la chiesa di Bologna, accordò ai canonici di Santa Maria del Reno il privilegio su tutti i possedimenti di cui essi già godevano nel territorio bolognese, comprese alcune “vineas et oliveta”. Pagamenti in olio sono menzionati in alcuni contratti agrari del 1161 relativi al territorio di Montecatone, mentre documenti che risalgono ai secoli XII e XIII accennano alla coltivazione dell’olivo in terreni di proprietà della canonica di San Cassiano (Imola). L’esistenza di un’attiva olivicoltura nel Reggiano è documentata da un atto di compravendita conservato nell’Archivio Capitolare del Duomo di Reggio, in cui si legge di una vendita “in Vergnano il 29 dicembre 1212, di una terra con ulivi”. Pellini, nella sua monografia Alberi nella storia di Reggio, scrive che il prodotto derivato dalla frangitura delle olive veniva utilizzato in svariati modi: per la liturgia, la medicina, la farmacopea, l’illuminazione di ambienti sa-

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Oliveti sotto la neve Foto R. Angelini

Lungo le rive del lago di Garda l’olivo trova il suo ambiente ottimale

318


olivo in Italia settentrionale cri, per la lavorazione di tessuti e del sapone. Testimonianze della presenza di questa specie sono ancora oggi presenti nei pressi della Chiesa vecchia di Montericco di Albinea (denominata appunto “Madonna dell’Uliveto”), nei pressi del Castello di Bianello e nella zona di Canossa. Nel 1258, in uno statuto della parmense repubblica veniva ordinata la messa a dimora, in tutto il territorio di montagna, dell’olivo. Facendo riferimento a questo statuto Bianchedi, nel 1880, scrive che “dopo qualche lustro si videro le coste di molti dei nostri colli floride e popolate d’olivi che vi prosperarono per oltre due secoli”. Nel XIII secolo, che l’olivo fosse coltivato nel Parmense è testimoniato dal fatto che se ne fa menzione al pari di colture risaputamente più importanti: nel “1234 il freddo fa gelare le viti, i fichi e gli uliveti”. È proprio il freddo una delle cause dell’alternata presenza degli olivi nell’Emilia; il monitoraggio del clima dal XII al XVII secolo nel Bolognese, e successivamente fino ai giorni nostri, segnala il verificarsi di eccezionali eventi climatici (taluni fuori stagione) con particolare riguardo alla temperatura e alle nevicate. Nel 1300 due autori bolognesi, Pier De’ Crescenzi e Paganino Bonafede, scrivono due trattati agronomici di rilevante successo ed entrambi dedicano particolare attenzione all’olivo. Paganino Bonafede, nel suo Thesaurus rusticorum del 1360, dà un’ampia e originale descrizione della pratica dell’innesto come metodo di propagazione, ma sostiene che per l’olivo è preferibile la propagazione per talea; inoltre dà consigli anche sulla potatura e sulla concimazione. E infine, se è vero quello che scrive come conclusione del suo poemetto, cioè che tutte le cose da lui scritte sono state provate, corrette e certe, c’è da ritenere che a Bologna e nei dintorni vi fossero olivi. Per tutto il Medioevo la valle del Reno fin verso Vedegheto fu “coperta di oliveti”. Nel 1387 in Albinea (ad Puzalium) si affitta per cinque anni una terra “casamentiva, clausurativa, vineata, olivata, figata”, cioè una casa, chiusa con vigna, olivo e fico. Sulle colline reggiane compaiono, in questo periodo, terreni coltivati a olivo e fichi; una di queste località è addirittura chiamata Figarium, “una pecia terre figate clausurate et olivate”. Nel 1390 si danno a mezzadria per un anno, rinnovabili, sei bifolche di terra lavorativa “olivata figata in loco dicto ad Figarium”; nel documento viene specificato che “il mezzadro darà metà del grano, olio e fichi, ricevendo cinque fiorini in auxilium laborandi”. Esempio di quella alterna fortuna alla quale questa coltura è stata soggetta nel tempo è la sorte di tre oliveti posseduti dal monastero bolognese di San Procolo alla fine del Duecento (due situati sulle colline immediatamente a sud della cinta urbana, una nella zona collinare di Casalecchio dei Conti); a neppure un secolo di distanza di essi non restava più nulla se non un “olivetum satis desolatum et triste”. Simile sorte tocca a un oliveto situato nella valle del Savio, che nel XVI secolo era ormai scomparso

Foto R. Angelini

Oliveti sui Monti Lessini (VR) Foto R. Angelini

Oliveti sulle colline venete Foto R. Angelini

Oliveti presso Villa Arvedi

319


paesaggio per lasciare posto a vigneto e selva. In seguito alla generalizzata riduzione dell’olivicoltura in tutto il Nord Italia, le notizie storiche diventano sempre più sporadiche e l’olivicoltura viene citata nelle opere di pochi autori come l’Alberti nel 1551, che raccontava di olivi nel Bolognese (verso Imola), i quali producevano una specialità di Bologna. Tali olivi venivano descritti dall’Autore come “quegli olivotti tanto stimati confettati da ogni lato d’Italia e massimamente a Roma”. E infine ve ne sono accenni da parte del Bussato (1578), del Garzoni (1584) e del Tanara (1644); quest’ultimo attesterà il completo abbandono dell’olivicoltura bolognese, visto lo spostamento dell’agricoltura verso la pianura. Nel 1688 in uno schizzo a penna viene raffigurata la presenza di olivi tra la chiesa di Santa Maria di Monteveglio e la nuova strada detta del Calvario. L’inverno del 1709 fu caratterizzato da un’eccezionale gelata che, secondo Calindri, provocò la morte di oltre 5000 olivi nel Bolognese. Tra il 1772 e il 1785 la produzione media di olive in provincia di Bologna era stata di 6000 libbre all’anno, aveva raggiunto le 8000 libbre nel 1829, ma nel 1837 si assistette a un crollo della produzione (3800 libbre). Molto interessante è l’esistenza, nel 1831 a Bologna, di tre “mole da olio” (tre frantoi). Anche nel Piacentino fino a duecento anni fa esistevano dei frantoi, ne è testimonianza un documento del 1821 del Catasto Napoleonico conservato presso l’Archivio Storico di Piacenza nel quale, per motivi fiscali, sono elencati tutti i beni del Comune di Nibbiano e dove si annovera l’esistenza di almeno un torchio da olio a Trevozzo. Nel Reggiano, più precisamente nella zona di Quattro Castella (castello di Bianello), intorno al 1850 si ha l’introduzione di olivi da impiantare intorno al castello come risposta all’aumento del prezzo dell’olio da parte del Duca di Pontremoli. Per ultima si annovera l’opera dell’ingegnere Camillo Bianchedi, che nel 1880 scrive, in chiave lodevolmente propositiva, L’olivo sulle colline parmensi, con l’intento di poter ripristinare questa antica coltivazione di cui sono rimasti come testimonianza “olivi sparsi e non pochi anche prosperosi e secolari, accennanti indubbiamente a una più estesa florida e propizia coltivazione di quella pianta”. Nelle Venezie la coltivazione si spinge ben più a nord degli attuali areali del lago di Garda e della piana del Sarca, per arrivare fino al laghetto di Santa Massenza e nei dintorni di Bolzano (Valle dell’Adige). Il lago di Garda comunque, che nei primi secoli dell’era cristiana non pare interessato dalla coltura, diviene nel giro di pochi secoli una delle più importanti aree di produzione olearia dell’alto Medioevo. Nei secoli IX e X vi sono attestati gli oliveti dei vescovati di Verona, Vicenza e Reggio Emilia, dei monasteri di San Colombano di Bobbio, Santa Giulia di Brescia, San Martino di Tours, e di quelli veronesi di San Zeno e Santa Maria in Organo.

Castello di Bianello (Quattro Castella, RE) visto da sud

Monumentale olivo plurisecolare sito nei pressi del Castello di Tabiano (PR)

Olivo sito nei pressi di Viazzano, Varano Melegari (PR). In questo caso, molto comune negli olivi più antichi, sono visibili i resti di una ceppaia molto estesa, dalla quale si è sviluppata una corona di ricacci

320


olivo in Italia settentrionale Relativamente abbondanti sono gli olivi sui colli veronesi e vicentini, sui colli Berici ed Euganei, fino a Bassano e alle pendici della Valle del Brenta, località queste ultime nelle quali la coltura dell’olivo non si è mai interrotta, e anzi sta conoscendo una vigorosa rinascita. In atti di locazione del 1238, riguardanti i possessi di Santa Maria in Organo nella Valpantena (VR), si menziona l’affitto di due poderi, uno con viti e olivi, e l’altro solo a olivi. Lo Statuto di Castelnuovo Veronese sull’anfiteatro morenico gardense, del 1260, contiene un capitolo in cui si minaccia una grossa multa contro chi “faciet ire aquam oliue in alienas terras”, cioè per chi riversava l’acqua di vegetazione derivata dalla spremitura delle olive su terreni altrui. Documenti relativi a Panego (1334) e Clozago (1343) nel Veronese testimoniano la presenza di olivi anche in queste zone, ove l’olivo era di norma maritato alla vite. Ricordi della coltivazione dell’olivo si trovano sempre più frequenti nel XV secolo in tutto il distretto del Garda e del Veronese dove, fino a quel momento favorita dalle leggi, doveva aver raggiunto una grande estensione. Sulla riviera bresciana Marin Sanudo (1847) ricorda che fra Salò e Maderno “si cavalca sempre per oliari, pareno boschi”. Una locazione di mezzadria del 1458 nel Veronese fa obbligo al mezzadro di non seminare sotto gli olivi, il che dimostra che vi erano anche dei veri oliveti specializzati. La diffusione della coltivazione dell’olivo nel Bassanese si pensa sia iniziata in epoca romana con l’insediamento in zona della Gens Bassia, portatrice della cultura agraria romana. Nella trasmissione dei “livelli” (affitti di terreni), trascritti nei documenti medievali della pieve di Solagna, troviamo l’attestazione che un certo numero di piante di olivo era in dotazione ai parroci. Analoga testimonianza troviamo più tardi negli annali delle parrocchie, a conferma della presenza e dell’importanza di questa coltura. Anche la tradizione si rivela particolarmente affezionata a questa pianta: il sacro e miracoloso crocifisso di Pove, scolpito in una sola notte da un misterioso pellegrino, è in legno d’olivo. Oltre il Piave, pur se varie fonti letterarie (Strabone V, 1,8) documentano l’importanza di Aquileia come centro per il commercio di olio in età romana, bisogna attendere l’anno 1140 per avere documentazione certa sulla presenza dell’olivo coltivato in Friuli; si tratta di una donazione a un monastero. Nei secoli successivi (XII-XV) i documenti divengono numerosi, anche se le superfici e le produzioni riportate restano modeste, segno evidente, in fondo, dell’importanza attribuita alla coltura e al prodotto. La coltivazione dell’olivo appare presente su tutto l’arco pedemontano che va dalle alture occidentali della provincia di Pordenone, i primi contrafforti delle Prealpi Carniche, alle Prealpi Giulie, passando per l’anfiteatro morenico posto tra San Daniele, Gemona e Udine. Nel Collio, in particolare, l’olivo sembra aver trovato un ambiente relativamente favorevole, se ancora nel XIX secolo vi si produceva olio; attività che ha iniziato a rifiorire solo negli ultimi decenni.

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Gli olivi circondano borghi e rocche sul lago di Garda Foto R. Angelini

Olivicoltura in Veneto

321


paesaggio Le alture di Gorizia e Monfalcone continuano la sottile striscia di coltura che, attraverso la ben posizionata area triestina, confluisce nella tradizionale olivicoltura istriana. L’olivicoltura padana raggiunge, come abbiamo visto, la massima diffusione nel periodo che va dal XII secolo alla prima metà del XIV secolo. Questo a causa dell’interesse delle classi dirigenti a estenderne la coltura; innumerevoli sono gli Statuti, gli Editti e le Ordinanze che obbligano gli agricoltori a piantare olivi, come quello della Valsolda (lago di Lugano) del 1246, di Parma del 1258, di Castelnuovo Veronese del 1260, di Vicenza del 1264, di Este (Colli Euganei) del 1276 (che rinnovava un precedente statuto del 1212 che obbligava i coloni a piantare 12 piante per villa), di Novara del 1276-1286, di Riviera d’Orte del 1357, di Ivrea dei primi del Quattrocento, fino alle sovvenzioni offerte dal comune di Torino nel 1377 a chi avesse piantato olivi sulle rive del Po. Nello stesso periodo (XIV-XVI sec.) la zona del Garda produce tanto olio che può esportarlo nelle zone di Bergamo, Mantova e nei Paesi del Nord, passando dal Trentino verso la Germania; e Marco Dandolo nel 1629 scrive: “la riviera un anno per l’altro rende sei et più milla mozi di oglio del quale se ne ispedisce per Alemagna circa moza quattromila et del rimanente parte ne va a Brescia et parte si consuma in servitio di quelli sudditi”. Purtroppo questa spinta si sarebbe presto infranta su una serie di fattori avversi che si stavano accumulando sul percorso dell’olivo. Uno di essi fu senza dubbio il crollo demografico dovuto al peggioramento del clima e alle carestie che ne seguirono, e quindi alle pestilenze di cui quella di metà XIV secolo fu solo la più famosa e devastante. Molti villaggi vennero abbandonati e quindi anche parte dei terreni meno produttivi, favorendo le colture alimentari di base. Da un punto di vista climatico i secoli XIV e XV furono carat-

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Presenza dell’olivo nell’Italia settentrionale accertata mediante documenti storici. Le zone evidenziate indicano le aree storicamente interessate dalla coltivazione dell’olivo

Oliveti a gradoni nella Valle di Illasi (VR)

322


olivo in Italia settentrionale terizzati da forte abbassamento medio delle temperature, fenomeno cui l’olivo è sensibile. Da Cronache Spilimberghesi: “Nell’anno 1432 il freddo seccò gli olivi insieme agli allori e agli alberi di fico”. Un resoconto analogo si ha per Cividale nel 1490: “Nell’anno 1490 fu un freddo straordinario con gran quantità di neve che durò da dicembre ad aprile, e si seccaro li oliari e li figari e li aurari e vide assai”. Dal che si deduce tra l’altro che l’olivo era presente anche in pianura, e in una zona niente affatto favorita geograficamente; questa presenza dell’olivo in pianura o su rilievi appena accennati non riguarda solo Spilimbergo, ma altre zone del Nord; alcune erano favorite dalla vicinanza del mare, quali Aquileia, Jesolo, Venezia, ma in altri casi (Cremona, San Giovanni in Persiceto) era stata la mitezza del clima a spingere la coltura in zone oggi inimmaginabili. Dalla metà del Cinquecento alla metà dell’Ottocento si ebbe poi il periodo climaticamente peggiore, quella che è chiamata Piccola Era Glaciale. Nel corso dell’inverno del 1709 la temperatura scese a –17°, e i danni furono gravi perché ci si affrettò a spiantare gli olivi seccati e a sostituirli con la vite invece di tagliarli e allevare i polloni che la ceppaia avrebbe prodotto l’anno successivo. Un evento analogo si verificò nel 1788. Ma più che da avvenimenti climatici, l’olivo fu ostacolato da eventi socio-economici: si stava uscendo dal Medioevo, la classe dei mercanti si espandeva e con essa i commerci e le comunicazioni, sempre più efficienti e veloci. A rendere più difficoltosa la produzione in loco di olio di oliva fu il verificarsi della differenziazione dei noli avvenuta nel corso del Quattrocento, per cui il costo del trasporto delle merci non era più legato al peso o all’ingombro, ma al loro valore: questo rendeva il trasporto a distanza di prodotti agricoli meno costoso, e veniva a cadere la convenienza a produrre derrate che altrove si reperivano a costi minori. Rientrava in questa tipologia di derrate l’olio di oliva.

Foto R. Angelini

Panoramica aerea su Verona con varie aree a verde, nelle quali è presente l’olivo

Foto R. Angelini

323


paesaggio Così, via via che gli olivi, per varie ragioni, scomparivano, non venivano rimpiazzati, ma piuttosto sostituiti da colture arboree di più pronta entrata in produzione e di sicuro reddito: la vite e il gelso. Alla decadenza della coltura contribuì anche la nuova politica economica iniziata nella prima metà del XVII secolo dalla Repubblica di Venezia, la quale, mentre favoriva la coltivazione dell’olivo sulle coste e nelle isole dei suoi possedimenti mediterranei, gravava con provvedimenti fiscali la coltura degli olivi sulla terraferma, per mantenere il mercato alla produzione più abbondante e sicura delle terre d’oltremare; il rifornimento di olio nell’entroterra cominciò quindi a dipendere sempre più da Venezia. Nel Friuli orientale (sotto l’amministrazione austriaca), la coltura dell’olivo diviene invece oggetto nel Settecento di un’intensa campagna di incentivazione promossa dalle autorità asburgiche, interessate a diffondere una produzione di rilevante interesse economico in quel territorio goriziano, che costituiva il meridione dell’Impero. Così, negli anni 1768-69 la Regia Società d’Agricoltura di Gorizia s’impegna a corrispondere “fiorini 4 per ogni 25 olivari piantati di nuovo, o in colle o in piano, due anni dopo che avranno allignato”, anche per favorire la ripresa della coltura dopo la disastrosa gelata del 1763. Fra le iniziative di incentivazione v’è anche la distribuzione di “alberi ollivi (...) gratis alli poveri villici di queste contee”. Ma l’olivicoltura era ormai entrata in una fase di recessione irreversibile. In alcune zone del Veneto (Valli d’Illasi, del Chiampo e dell’Agno) è provato che la produzione andò, nell’Ottocento, declinando soprattutto per motivi economici, infatti la costruzione della ferrovia facilitò la concorrenza di altri oli importati dalla Toscana e dalle Puglie. Ovviamente si tratta di un fenomeno che non può non aver interessato tutta l’Italia settentrionale, e che si è completato in epoca recentissima (XX sec.). Verso il 1840 aveva cominciato anche ad apparire il verme o mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), insetto che recò gravi danni alla produzione dell’olio. La comparsa della mosca rappresentò un motivo di sostituzione degli olivi nel Vicentino con specie più redditizie (gelso e vite). Quando i commerci si intensificarono ulteriormente la stentata olivicoltura padana continuò ancora a regredire o, più esattamente, a concentrarsi e a svilupparsi nelle zone più adatte: laghi lombardi, colline veronesi, vicentine, padovane e romagnole. In queste zone è sopravvissuta fino a oggi. Non si hanno molte informazioni sulle caratteristiche dell’olivicoltura settentrionale, perlomeno riguardo a quella del resto d’Italia. Sin dall’alto Medioevo è stata una coltura in genere non affidata a coloni ma piuttosto gestita direttamente dalla proprietà, fosse questa signorile o, più spesso, monastica. Questo legame tra olivo e chiesa cattolica è costante, soprattutto nelle zone nelle quali la coltura sopravvive con difficoltà; nella sua sopravvivenza è percepibile una componente

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Oliveti in Valpolicella

324


olivo in Italia settentrionale volontaristica, che consente di superare difficoltà ambientali ed economiche che avrebbero altrimenti determinato la scomparsa della coltura; tra l’altro ancora oggi le pievi isolate, i monasteri, e anche piccole chiese delle zone collinari del Nord spesso possiedono, riparati da muretti o da edifici, olivi più o meno antichi che si rivelano potenziali fonti di germoplasma raro o sconosciuto. La ragione ovvia è l’esteso uso fatto nella liturgia dell’olio di oliva (unzioni, luminarie) e delle fronde di olivo (Domenica delle Palme), che si aggiunge a quello alimentare e a quello, forse più importante nell’antichità, per l’illuminazione. Infatti nei secoli in cui l’olivo conobbe maggior sviluppo al Nord non sembra che ne fosse aumentato il consumo come alimento; ne aumentò però il commercio dopo l’XI secolo. Quest’ultima condizione è forse la causa di un progressivo spostamento della coltura, a partire dal XII secolo, verso i piccoli e medi proprietari terrieri, insieme al generalizzato declino dei grandi enti monastici. La diffusione dell’olivo in Italia settentrionale è stata ovviamente influenzata dalle vicende climatiche. Abbiamo visto che la pianura è stata raggiunta dalla coltura solo in periodi estremamente favorevoli, mentre la norma sono sempre state, al Settentrione, zone collinari ben riparate sul lato nord dalle incursioni di masse di aria fredda, soprattutto quelle che possono presentarsi verso la fine dell’inverno, quando i tessuti vegetali iniziano a reidratarsi e sono più vulnerabili alle basse temperature. Non sembrano invece di per sé negative, entro certi limiti, né altitudine né latitudine. Infatti olivi sono stati coltivati, e lo sono tutt’oggi, producendo, ad altitudini inaspettate, come a Chiesa in Val Malenco (900 m); riguardo alla latitudine, olivi sono ancora oggi coltivati ben oltre i 46° N: senza uscire dai confini nazionali, olivi sono stati e sono coltivati a Santa Massenza (TN), sul Collio (UD), sulle sponde dei laghi di Como e Maggiore (CO e VB). Poche sono le differenze storicamente riscontrabili da un punto di vista della tecnica colturale tra l’olivicoltura padana e quella del resto d’Italia; in realtà sotto questo aspetto la condizione dell’olivo al Nord è assimilabile a quella delle regioni centrali, e in particolare della Toscana, dove si trovano situazioni climaticamente identiche a quelle dell’olivicoltura transappenninica. Così sono presenti tipici adattamenti della tecnica all’ambiente marginale: potatura attenta e regolare, per una migliore utilizzazione della luce e per sfuggire alle malattie favorite dal ristagno dell’umidità; difesa limitata alla slupatura e all’eliminazione di rami e branche più colpiti da malattie e insetti; raccolta che viene eseguita direttamente a mano (brucatura), in quanto ragioni sanitarie e climatiche costringono all’anticipo dell’epoca di raccolta rispetto al Sud, e impediscono la raccolta da terra o la bacchiatura. Si tratta di un’olivicoltura che fornisce rese più basse che al Sud, ma comunque accettabili e non dissimili da quelle degli analoghi ambienti dell’Italia centrale.

Foto R. Angelini

Penisola di Sirmione in fondo alla quale si trova la villa romana delle Grotte di Catullo, circondata da olivi Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Oliveti attorno al lago di Garda

325


l’ulivo e l’olio

paesaggio Olivi monumentali Elvio Bellini,

Stefania Nin, Laura Natarelli

www.colturaecultura.it Diritti di sfruttamento economico: Bayer CropScience S.r.l. Realizzazione editoriale: ART Servizi Editoriali S.r.l. I nomi di coloro che hanno realizzato le fotografie sono riportati sopra le stesse; in tutti gli altri casi le immagini sono state fornite dagli Autori di ciascun capitolo o reperite da agenzie fotografiche.


paesaggio Olivi monumentali Introduzione Il paesaggio agrario italiano è caratterizzato da meravigliosi ambienti naturali, che mutano muovendosi dalla montagna, alla collina e alla pianura. Spesso durante alcune passeggiate si possono ammirare le varietà di habitat in cui si sono adattate numerose specie floreali e vegetali e, talvolta, è possibile imbattersi in esemplari di piante monumentali. Per pianta o albero monumentale si intende un soggetto vegetale che possiede almeno uno dei seguenti requisiti: – dimensioni: la pianta deve avere dimensioni molto grandi per la specie, oppure maggiori rispetto agli altri individui della stessa specie presenti nell’area esaminata; – longevità: in qualche caso, piante vecchissime possono non raggiungere dimensioni ragguardevoli; se si riesce a sapere o capire che una pianta è molto longeva, essa va considerata monumentale; – rarità: una pianta, o un gruppo di piante, molto rare in un certo territorio hanno un grande valore biologico; – requisiti storici: sono da considerare monumentali tutte le piante legate a un evento storico rilevante e memorabile; – requisiti paesaggistici e storico-architettonici (complessi monumentali): interessano tutte le piante che hanno rilievo nel paesaggio e nelle aree importanti sotto il profilo storico e architettonico.

Alberi monumentali

• Sono questi veri e propri monumenti

viventi che hanno sfidato le insidie del tempo, testimoni della nostra storia, contenitori di tradizioni e culture popolari, protagonisti di fiabe, miti e leggende. Alberi antichissimi, magici e incantati, che hanno assistito e resistito a guerre, incendi, terremoti, malattie, variazioni climatiche e quant’altro, spesso ancora capaci di produrre frutti

Negli oliveti secolari gli alberi non sono disposti regolarmente

Foto E. Marmiroli

326


olivi monumentali Le piante monumentali sono in grado di svolgere specifiche funzioni: – funzione scientifico-didattica: gli alberi monumentali hanno elevato interesse per gli studiosi del settore; – funzione turistica: gli alberi monumentali possono divenire oggetto di turismo da parte di tutti gli appassionati del verde. L’olivo è una delle specie da frutto ben adattata nel bacino del Mediterraneo. In Italia la sua introduzione ha radici molto antiche; furono i mercanti fenici, cartaginesi e greci a diffondere ai Romani le prime conoscenze sull’olivicoltura a partire dal VII secolo a.C. L’olivicoltura occupa attualmente in Italia un posto preminente per quantità e qualità. Il patrimonio olivicolo del nostro Paese è composto da numerose cultivar autoctone selezionate, in parte sostituite da cultivar a maggiore produttività, in grado di fornire un prodotto fresco (cultivar da tavola o da mensa) e trasformato (cultivar da olio) di ottime caratteristiche organolettiche. La coltivazione dell’olivo, diffusa in diverse regioni italiane su vaste superfici, ha creato paesaggi unici, quali espressione del legame culturale tra l’uomo, le sue tradizioni e l’olivo. L’olivo è una pianta molto rustica, adatta alle più svariate condizioni pedologiche, grazie alla sua capacità di rigenerarsi dalla ceppaia, ciocco o pedale, la vera parte perenne dell’olivo, derivante da iperplasie che si formano nella parte interrata del tronco, che accrescendosi e sovrapponendosi determinano con gli anni un forte ingrossamento del fusto interrato, ben distinto da quel-

Olivo di Atena

• Fra le tante meraviglie dell’Acropoli di

Atene vi è il tempio di Atena (Minerva) sulla cui maestosa facciata proietta la sua ombra la chioma di un modesto olivo. Secondo la leggenda questo olivo rappresenterebbe il dono offerto all’Attica dalla dea Atena, la quale disputava con Poseidone (Nettuno) la sovranità dell’Attica. Fu deciso, infatti, che la sovranità sarebbe spettata a chi dei due avesse offerto agli Ateniesi il dono più gradito. Poseidone, colpendo il suolo con il tridente, fece apparire un cavallo; mentre Atena, facendo altrettanto con la lancia, fece sorgere un olivo, che fu il dono preferito. Riconoscenti ad Atena, gli Ateniesi elevarono sull’Acropoli un tempio e di fronte vi piantarono un olivo. Nel 480 a.C. i Persiani invasero l’Attica, distruggendo il tempio e bruciando l’olivo, ma dalle sue radici si rigenerò un albero più vigoroso che venne a trovarsi presso il nuovo e più grandioso tempio di Atena ricostruito sulle rovine. Sappiamo che l’olivo che oggi si offre alla vista del visitatore dell’Acropoli non è certo quello sopravvissuto all’incendio, ma ci piace pensare che anch’esso derivi dall’antico pedale piantato oltre 2500 anni fa (Morettini, 1963)

Foto G. Romagnuolo

Olivo secolare nel Salento

327


paesaggio Principali olivi monumentali in Italia Caratteristiche essenziali Nome

Ubicazione (regione/provincia)

Altezza stimata (m)

Età presunta (anni)

Bibliografia essenziale

1,54

7,50

150-200

AA.VV.,1991

Circonferenza (m) Al suolo A petto d’uomo

Di Papa Luciani

Veneto/Treviso

Guarenti

Veneto/Verona

8,60

6,20

10

350

Bargioni, 1962; Regione Lombardia, 2003; Bellini, 2005

Preòn

Veneto/Verona

2,90

Due tronchi (1,50)

10

250

Bargioni, 1962; Carocci Buzi, 1937; Regione Lombardia, 2003; Bellini, 2005

San Vigilio

Veneto/Verona

6,80

5,10

8

350

Bargioni, 1962; Regione Lombardia, 2003; Bellini, 2005

Villa Are

Veneto/Verona

8,15

Due tronchi (3,20-2,30)

10

250-350

Bellini, 2005

Della Strega

Toscana/Grosseto

8,50

4

3000

Capodarca, 2003; Bellini, 2005

L’Impollinatore

Toscana/Lucca

7,50

9

Millenario

Bellini, 2005

Olivone Fibbianello

Toscana/Grosseto

5,50

22

2000?

Pavolini, 1998

Roccamare

Toscana/Grosseto

2,95

3,55

3

300

Bellini, 2005

Santa Caterina

Toscana/Lucca

14,20

Olivo dei Trenta Zoccoli

Toscana/Lucca

12,45

11,15

8

3000

Pavolini, 1998; Capodarca, 2003; Bellini, 2005

Vignale

Toscana/Grosseto

6

5,10

6

300

Capodarca, 2003; Bellini, 2005

Macciano

Umbria/Perugia

7,40

Millenario

Bellini, 2005

Sant’Emiliano

Umbria/Perugia

9,10

6

1700

AA.VV., 1990; Bellini, 2005

L’Olivò

Lazio/Roma

9,50

4

L’Olivone

Lazio/Rieti

6,02

10

Tivoli

Lazio/Roma

14

Dasa

Calabria/Vibo Valentia

Bevilacqua, 2001

Gattuzzo

Calabria/Cosenza

Bevilacqua, 2001

Rossano

Calabria/Cosenza

Bevilacqua, 2001

Gli olivi secolari di Castrum Boletum e Rotunda Maris

Basilicata/Matera

Regione Basilicata, Programma Leader, 2004

Olivo in via per Rutigliano

Puglia/Bari

4,20

8

Lorusso, 2006

Olivo località Santa Chiara 20

Puglia/Bari

4,30

6

Lorusso, 2006

Olivo località Santa Chiara 2

Puglia/Bari

4,20

5

Lorusso, 2006

8,45

8

328

www.arsia.toscana.it

Capodarca, 2005 2000?

Capodarca, 2005

Millenario

AA.VV., 1989; Bellini, 2005


olivi monumentali Principali olivi monumentali in Italia Dei Templi

Sicilia/Agrigento

4,50

Plurisecolare

Bellini, 2005

Baunei (olivastro)

Sardegna/Ogliastra

Luras 2 (olivastro)

Sardegna/Sassari

8,30

14

Luras (olivastro)

Sardegna/Sassari

11

14

Olivo di Sini

Sardegna/Oristano

Cossu, 2007

Olivo di Villamassargia

Sardegna/Carbonia Iglesias

Cossu, 2007

Palau (olivastro)

Sardegna/Sassari

Cossu, 2007

10

www.corpoforestale.it 2000

10

AA.VV., 1989; Bellini, 2005

www.corpoforestale.it

lo aereo. Per la caratteristica morfogenetica, che ha permesso a questa specie di perpetuarsi nei secoli, potremmo definire l’olivo una pianta immortale. Gli olivi secolari costituiscono un patrimonio naturalistico e storico di grande rilievo per il nostro Paese; infatti sono veri e propri monumenti paesaggistici, la cui longevità è di Foto P. Viggiani

Foto G. Romagnuolo

Olivo pluricentenario nel Salento Olivo secolare in Puglia

329


paesaggio estrema importanza anche sotto il profilo economico-produttivo per il rilevante patrimonio genetico di cui sono portatori, avendo attraversato indenni secoli di avversità atmosferiche e cambiamenti climatici. Essi sono giunti fino a noi con un messaggio genetico importantissimo, la biodiversità, valore da non perdere perché questo significherebbe diminuire le nostre possibilità di scelta per il futuro e rendere più precaria la nostra esistenza. I principali alberi monumentali di olivo, da noi inventariati in Italia, sono riportati in tabella; tale elenco, tuttavia, non è da considerarsi esaustivo, ma potrà essere ancora incrementato in seguito a nuovi ritrovamenti di altri esemplari secolari. L’intento è quello di riavvicinare l’uomo alla natura, di stimolare in chiunque il desiderio di andare a vedere da vicino e toccare con mano questi monumenti viventi e indurre i più distratti, nonché le autorità, a vegliare sulla loro sorte e avere sempre più rispetto per la natura. Questo patrimonio rischia però oggi di andare perduto a causa dello spopolamento delle campagne e dello stato di incuria in cui versano alcuni di questi alberi, a cui si è aggiunta la vergognosa pratica di sradicare gli olivi dal loro ambiente naturale a fini di lucro (spesso vengono venduti per alcune migliaia di euro) per abbellire le ville di ricchi signori. In Italia esistono leggi regionali sulla conservazione della biodiversità vegetale e tutela delle risorse genetiche autoctone, ma non esiste ancora una legge nazionale per la valorizzazione, protezione e tutela delle piante monumentali. Necessita pertanto l’attuazione di

Inventario degli alberi monumentali

• Presso il Corpo Forestale dello Stato

è istituito l’Inventario degli alberi monumentali, nel quale sono iscritti sia quelli individuati ai sensi delle varie leggi regionali (L.R. Lombardia n. 16 del 16.7.2007; L.R. Puglia n. 14 del 4.6.2007; L.R. Piemonte n. 50 del 3.4.2005; L.R. Molise n. 48 del 6.12.2005; L.R. Trento n. 10 del 15.12.2004; L.R. Veneto n. 20 del 9.8.2002; L.R. Toscana n. 39 del 21.3.2000; L.R. Liguria n. 4 del 22.1.1999; L.R. Basilicata n. 42 del 10.11.1998; L.R. Valle d’Aosta n. 45 del 24.8.1992, L.R. Emilia Romagna n. 2 del 1977 ecc.) sia quelli indicati direttamente dal Corpo Forestale dello Stato, nelle regioni che non si sono ancora dotate di una legge in materia, d’intesa con queste e sentito il proprietario del terreno dove si trova l’albero

Foto R. Angelini

Foto P. Viggiani

Olivi pluricentenari estirpati e sottoposti a drastica riduzione della chioma, allevati per alcuni anni in contenitori di rete metallica e poi trapiantati in parchi o giardini

Olivi secolari in Puglia

330


olivi monumentali una normativa nazionale che preveda innanzitutto azioni conoscitive, attraverso il censimento degli olivi monumentali e l’istituzione di un elenco regionale. Altri interventi prioritari riguardano azioni di tutela programmate attraverso un piano di salvaguardia e valorizzazione degli alberi monumentali individuati; azioni di promozione dell’immagine degli alberi monumentali a fini turistici, per divulgare il significato della tutela e valorizzazione degli aspetti ambientali, paesaggistici, rurali, storici e sociali del patrimonio degli olivi secolari italiani; sanzioni amministrative per chi danneggia, abbatte, espianta e commercia alberi secolari, nonché riconoscimenti e indennizzi per i proprietari che invece mantengono le piante in buono stato vegetativo.

Foto P. Viggiani

Dimmi quanti secoli hai? Uno dei requisiti fondamentali per annoverare una pianta come monumentale è conoscere la sua età. Esistono due metodi di datazione per gli elementi vegetali, che consentono di attribuire l’età con buona attendibilità. Uno di questi è la dendrocronologia, che si basa sul numero, lo spessore e la densità degli anelli annuali di crescita di alberi secolari o millenari. Negli alberi monumentali si esegue effettuando dei carotaggi con sezione a forma di spicchio, per evitare di ledere la vitalità dell’albero.

Olivi secolari in Puglia

Foto R. Angelini

Foto E. Marmiroli

Olivo secolare, Magliano in Toscana (GR) Olivo secolare in Calabria

331


paesaggio La datazione radiometrica si basa, invece, sull’impiego di serie radioattive (carbonio, potassio-argo, rubidio-stronzio, piombo) con tassi costanti di decadimento isotopico che fungono da “orologio geologico”. Il metodo del radiocarbonio è utile per risolvere problemi cronologici in archeologia, antropologia, oceanografia, pedologia, botanica, climatologia e geologia. Attraverso l’attività metabolica, il livello di carbonio 14 in un organismo vivente si mantiene pari a quello presente nell’atmosfera. Una misura del livello di carbonio consente, quindi, un calcolo dell’età dei resti; tuttavia, il rapido decadimento del carbonio fa sì che l’applicazione di questo metodo sia limitata alla datazione di oggetti di circa 50.000 anni, benché con tecniche moderne e sofisticate sia a volte possibile estendere l’intervallo di tempo a circa 70.000 anni; l’incertezza aumenta con l’età del campione. La datazione di alberi monumentali rispetto ad altri elementi naturali, quali rocce o sedimenti, è spesso un’impresa laboriosa per diverse difficoltà tecniche. Per esempio il ritmo di crescita della circonferenza diverge notevolmente secondo la struttura del tronco. A parità di ritmo di accrescimento in spessore degli anelli annuali, il minor incremento della circonferenza di un fusto si ottiene con una struttura monocormica a sezione perfettamente circolare. Se, invece, interviene una biforcazione a una distanza ridotta dal suolo, la sezione del tronco al di sotto del piano di biforcazione può risultare ellittica, cosa che si verifica quando il ritmo di crescita della pianta è più sostenuto. Le strutture basali possono complicarsi ulteriormente in seguito a traumi che l’albero subisce naturalmente (stroncature, sbrancature, attacchi patogeni) o a interventi antropici (potature, capitozza-

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Foto E. Marmiroli

Olivi secolari degli Etruschi, Magliano in Toscana (GR)

L’olivo viene spesso definito “la pianta che cammina” perché, con il passare degli anni, il tronco si divide e progressivamente si allontana

332


olivi monumentali ture). Questi traumi si ripercuotono sul ritmo di crescita dell’albero, determinando una successione di diverse fasi di crescita. Altri ostacoli si possono incontrare nelle operazioni di carotaggio e conteggio degli anelli annuali di crescita. Gli strumenti comunemente impiegati per prelevare campioni di legno funzionano abbastanza bene fino a 40 cm di profondità. Oltre questa soglia compaiono numerose complicazioni, e in ogni caso risulta praticamente impossibile realizzare dei carotaggi con un normale succhiello di Pressler oltre gli 80 cm di profondità. Le sequenze anulari complete che coprono tutte le fasi di crescita di un albero dovrebbero trovarsi alla base del tronco, ma nella realtà alcuni alberi quali vecchi olivi e castagni presentano ampie cavità che interessano soprattutto le parti basse del tronco. Solo per alberi di medie dimensioni vi è una certa probabilità di riuscire a estrarre una carota con sequenze complete di anelli di crescita. Malgrado queste difficoltà in alcuni casi si riescono a ottenere datazioni abbastanza precise anche con circonferenza del tronco superiore ai 7 metri. Per giungere a questi risultati positivi bisogna trovare alberi idonei, nonché impiegare tecniche di tree climbing e mezzi speciali per effettuare i prelievi. In alberi di medie dimensioni, vale a dire con circonferenze fino ai 4-5 metri, si riescono talvolta a ottenere precise datazioni impiegando le normali tecniche di estrazione di una carota di legno con un succhiello di Pressler, e procedendo in seguito con il conteggio degli anelli annuali di accrescimento. Di seguito viene reso omaggio a 14 esemplari di olivo che affondano le loro radici nella storia. Di ogni pianta vengono indicati la circonferenza del tronco, l’altezza, il diametro della chioma, l’età e l’ubicazione, nonché una descrizione dei caratteri salienti.

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Foto R. Angelini

Piantone secolare di Mignola e suo particolare, nel territorio di Cingoli (MC) Olivo secolare nel Tarantino

333


paesaggio Olivo “Dei Templi” Ubicazione: Valle dei Templi, ad Agrigento. Questo Patriarca assume un ruolo importante proprio per la sua posizione, ben visibile lungo il sentiero che porta al Tempio della Concordia, luogo frequentato da migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo. Descrizione: questa pianta, opera della natura che ha saputo plasmarla nel tempo, vegeta vicino a un altro grande monumento dell’ingegno dell’uomo antico. Chi visita la Valle dei Templi è attratto dai resti di queste colossali opere, che testimoniano la grandezza e il grado di cultura raggiunto dai popoli antichi, ma non meno importante è l’opera della natura che, partendo da un piccolo nocciolo, è riuscita a creare una scultura vivente che è il simbolo della mediterraneità.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a petto d’uomo: 4,5 m • Età presunta: plurisecolare

Olivo nella civiltà ellenica

• Durante la devastazione dei

Lacedemoni furono rispettate solo le piante di olivo perché sacre ad Atena e inviolabili

• Non si può immaginare la civiltà

greca senza l’olivo; i frutti venivano consumati maturi quando erano neri, dopo averli macerati nell’acqua per togliere l’amaro, oppure verdi ma trattati in salamoia

• L’olio d’oliva serviva per la cura

del corpo e costituiva la base degli unguenti e dei profumi

• Serviva anche per fare offerte agli dei, per lucidare e nutrire il legno delle statue sacre

334


olivi monumentali Olivi “Villa Are” Ubicazione: si tratta di un gruppo di olivi secolari presenti nella tenuta “Villa Are” di proprietà del Comune di Verona nella collina detta delle Torricelle. Descrizione: si tratta di un numeroso gruppo di olivi della cultivar locale Favarol, più o meno coetanei e in ottime condizioni di vegetazione e produttività, quali molto raramente si trovano nelle colline venete e sul lago di Garda. Alcuni hanno la base del fusto ancora quasi integra, cosa ben rara per i vecchi olivi dell’Italia settentrionale; gli altri hanno subito in tempi lontani operazioni di ricostituzione in seguito a forti gelate per cui risultano allevati su più fusti. La proiezione sul terreno della chioma dell’albero considerato presenta un diametro di 7,8 m in direzione nord-sud e di 8,9 m in direzione est-ovest. Gli altri alberi del gruppo hanno più o meno la stessa altezza e le stesse dimensioni della chioma. Poiché si trovano in una zona collinare particolarmente siccitosa, è da ritenere che gli alberi abbiano avuto crescita molto lenta e che pertanto l’età sia stata stimata forse per difetto.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: cultivar Favarol • Circonferenza a livello del suolo: 8,15 m (olivo considerato)

• Circonferenza a petto d’uomo: 3,2 m e 2,3 m (dei due fusti che emergono poco sopra la base)

• Altezza stimata: 10 m • Età presunta: 250-350 anni

Cultivar Favarol

• L’ecotipo diffuso sulle colline veronesi

appare leggermente diverso da quello presente sul lago di Garda; ha infatti vigoria medio-elevata e colore verde scuro della chioma. Il portamento è assurgente e i rami fruttificanti sono penduli. Ha buona resistenza al freddo e al cicloconio; la sua produttività è buona ma alternante, la resa in olio può superare il 24%

335


paesaggio Olivo di “Luras” Ubicazione: si trova in località San Nicola, una frazione di Luras, presso la piccola chiesa dedicata a questo Santo, nel comune di Tempio Pausania (Olbia-Tempio), nel cuore della regione storica della Gallura. Descrizione: le dimensioni di questo olivo sono veramente impressionanti, soprattutto se pensiamo che si tratta di un olivo selvatico, dall’accrescimento lentissimo e che vegeta su un terreno povero, in un’area siccitosa. La sua altezza non è rilevante, mentre la sua chioma si estende per un diametro di oltre 20 m. A breve distanza da questa pianta vi è un altro olivo millenario che il proprietario chiama “Il Figlio”, il quale presenta un tronco di dimensioni inferiori, ma una chioma ancora più ampia.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. var. oleaster DC

• Ecotipo: varietà selvatica Olivastro • Circonferenza a petto d’uomo: 11 m • Età presunta: 2000 anni

336


olivi monumentali Olivo “Della Strega” Ubicazione: si trova all’interno dell’oliveto della chiesa di Santissima Annunziata, in prossimità del paese di Magliano (GR). Descrizione: al primo sguardo la pianta, pur essendo per altezza ed estensione della chioma comune agli altri olivi, ci sconvolge e stupisce per le sue strane forme e per le dimensioni del tronco, la cui circonferenza di 8,5 m si rileva quasi a livello del suolo in quanto esso raggiunge a malapena la canonica altezza del petto d’uomo. L’olivo “Della Strega”, già protagonista di pagine di letteratura e soggetto di cartoline illustrate, è sicuramente uno dei più singolari patriarchi del mondo vegetale presenti in Toscana. Il tronco è come una parete scolpita, nella parte esposta a nord, quasi pietrificato, ormai morto e in disfacimento, mentre sulla parte esposta a sud è inserita la porzione ancora vivente, che ha lo stesso aspetto e le dimensioni degli olivi vicini, e può contare un paio di secoli di vita. La pianta per cause diverse moriva e rivegetava a sud, seguendo il sole, con la parte morta che restava attaccata alla vivente; non è escluso che siano scomparsi i resti di un’ulteriore parte della pianta ancora più antica. I tremila anni di età si riferiscono alla parte morta, ovvero all’apparato radicale, che è sicuramente quello originale e forse ancora più vecchio. In considerazione di quanto risaputo, l’olivo “Della Strega” è da più parti candidato a essere la pianta più antica d’Italia, insieme al siciliano castagno “Dei Cento Cavalli” e al sardo olivastro di “Luras”. Data la fragilità della pianta, al fine di salvaguardare l’integrità del patriarca, è stato eretto un robusto recinto metallico; decisione sofferta, ma inevitabile.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a petto d’uomo: 8,5 m • Altezza stimata: 4 m • Età presunta: 3000 anni Foto R. Angelini

Altri olivi secolari della chiesa di Santissima Annunziata, Magliano in Toscana

Perché il nome “Della Strega”?

• Secondo alcuni, tenuto conto della

sua esistenza già ai tempi dei Romani e, prima ancora, degli Etruschi, deriverebbe da antiche cerimonie pagane che venivano celebrate alla sua ombra. Secondo una leggenda popolare, le forme quasi mostruose del tronco dell’olivo sarebbero apparse al termine di una cerimonia di riti sabbatici tenuti da una fattucchiera, poi trasformatasi in gatto

337


paesaggio Olivo di “Roccamare” Ubicazione: si trova a Roccamare (GR), posto a circa 5 km a nord di Castiglion della Pescaia, di fronte a un magnifico esemplare di pino domestico. Descrizione: il tronco appare compatto e massiccio, privo di cavità. Lo stato vegetativo e sanitario dell’olivo risultano buoni, con assenza di malattie evidenti. La chioma non è di dimensioni particolarmente rilevanti e la sua irregolarità evidenzia una scarsa cura nella pratica di potatura. Pur non essendo di particolare bellezza, l’esemplare risulta essere di notevole mole ed età. Non sappiamo se sia già stato censito come albero monumentale ma, nonostante ciò, merita il nostro interesse.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a livello del suolo: 2,95 m • Circonferenza a petto d’uomo: 3,55 m • Altezza stimata: 3 m • Età presunta: 300 anni

Diffusione dell’olivo nel Mediterraneo

• Risale a tempi antichissimi; da fonti storiche vi è quasi la certezza che la prima regione italiana in cui i Greci portarono l’olivo sia stata la Calabria. Il pregiato olio di oliva toscano risale ai tempi dell’Etruria

338


olivi monumentali Olivo di “Macciano” Ubicazione: si trova a 2 km da Giano dell’Umbria (PG), vicino al cimitero di San Savino, una piccola frazione caratterizzata da oliveti e vigneti che si estendono in gran parte della campagna umbra. Descrizione: pianta singolare per la conformazione del tronco, simile a una scultura vivente, appare anche ai non esperti come un colosso vivente. Le sue dimensioni sono ancora più evidenti in quanto è contornato da altri olivi molto più piccoli. Inoltre occorre considerare che l’olivo è una pianta a lento accrescimento per cui occorrono tanti secoli per raggiungere tali dimensioni.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a petto d’uomo: 7,4 m • Età presunta: probabilmente millenario

339


paesaggio Olivo “Guarienti” Ubicazione: l’olivo si trova nel terreno di proprietà del conte Agostino Guarienti di Brenzone, in località San Vigilio, Comune di Garda (VR). Descrizione: è un albero di notevoli dimensioni, come appare dalle misure indicate e dall’ampiezza della chioma assurgente, che in direzione est-ovest ha un diametro di 9 m e in direzione nord-sud di 8,8 m. Per l’ambiente settentrionale in cui si trova può essere considerato un esempio raro di albero con tronco quasi integro, scavato solo da un lato per necessità di risanamento dalla carie. È in ottime condizioni di vegetazione. A circa 2 m da terra il tronco si divide in due branche, una delle quali, particolarmente poderosa, a circa 3 m da terra, si divide a sua volta in due grosse branche quasi verticali.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: cultivar Less • Circonferenza a livello del suolo: 8,6 m • Circonferenza a petto d’uomo: 6,2 m • Altezza stimata: 10 m • Età presunta: 350 anni

Cultivar Less

• Un tempo molto diffusa, è oggi

raramente rappresentata nel territorio che fa corona al lago di Garda. Autocompatibile, è molto rustica, resistente alla rogna e alla carie, di vigore analogo a quello di Casaliva (la cultivar oggi più diffusa nella zona). La resa in olio delle olive è di poco inferiore a quella di Casaliva, ma la produttività è modesta e incostante

340


olivi monumentali Olivo di “Tivoli” Ubicazione: questo patriarca vegeta lungo la via di Pomata, alla periferia di Tivoli. Descrizione: molto bello per la conformazione del suo tronco, questo grande albero è caratterizzato dall’allargamento del tronco alla base del terreno. Nonostante l’età, esso produce ancora elevate quantità di olive dalle quali si ricava un olio veramente “carico di storia”. Interessante è notare che questa pianta ha potuto resistere alle temibili gelate che si sono susseguite nel tempo, per cui potrebbe essere studiato e forse impiegato come germoplasma in quanto dotato di grande adattabilità all’ambiente e agli eventi meteorici.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a petto d’uomo: 14 m • Età presunta: probabilmente millenario

Olivo nell’antica Roma

• L’olivo è il simbolo della pace, creato

da Minerva e posto come emblema sull’elmo della divinità romana della guerra, protettrice degli artigiani. I giovani rami di olivo venivano intrecciati a corona sulla testa dei sacerdoti di Giove e dei messaggeri di pace. A questa pianta viene attribuito anche il significato di vittoria, ricompensa, forza e purificazione

341


paesaggio “Ulivo dei Trenta Zoccoli” Ubicazione: il grande olivo di Massarosa (LU) si trova in località Pian del Quercione, 1 km a nord del capoluogo comunale. Quando viene celebrata la Sagra dell’Olio e delle Olive, tutto il paese accorre attorno alla vecchia pianta, come si farebbe attorno a un nonno, a formulare un augurio di longevità che, si spera, accomuni tutti i membri della famiglia. Descrizione: l’antichissima ceppaia, che risale all’epoca romana o addirittura a quella etrusca, attualmente è costituita da cinque polloni che hanno dato vita a una sorta di bizzarro ma elegante albero-boschetto. La ceppaia, aperta solo sul lato occidentale, ha dimensioni imponenti, con una circonferenza a petto d’uomo più ampia che alla base. Dei tronchi che formano questa curiosa creatura vegetale, quello più grande presenta da solo una circonferenza di 3,8 m; mentre l’altezza, come per la maggior parte degli olivi, è modesta. Probabilmente c’è la paura che uno dei polloni, tutti un po’ minati alla base, possa rompersi, per cui il proprietario ha cinto la chioma in alto con un grosso canapo in modo da autosorreggerla. La varietà del tipo Mortellino, che nella zona è nota come un ottimo impollinatore, produce numerosi frutti di piccola pezzatura e dalla forma piuttosto allungata.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: varietà Mortellino (impollinatore)

• Circonferenza a livello del suolo: 12,45 m • Circonferenza a petto d’uomo: 11,15 m • Altezza stimata: 8 m • Età presunta: 3000 anni Chioma

• La pianta doveva avere in passato

una chioma molto più florida. Essa ebbe un forte e rapido deperimento a seguito di un grave episodio accaduto una trentina di anni fa. Sul posto era intervenuta l’Enel, ad allestire una nuova linea elettrica. Nel corso dei lavori, una grossa autogrù perse una gran quantità di gasolio che si sparse sul prato adiacente l’olivo e impregnò in profondità il terreno. La chioma, a seguito dell’incidente, perse molto del suo fogliame e venne ridotta in estensione. Inoltre, nel 1990, cadde il tronco più esterno, che venne reciso; la pianta tende ad allargarsi e il tronco successivo a quello già caduto rischia di seguire lo stesso destino

Perché “Ulivo dei Trenta Zoccoli”?

• La ragione è da attribuirsi alle

calzature, quasi certamente degli zoccoli, indossate dai contadini che lavoravano sulla pianta armati di pertica e intenti ad abbacchiarla, come narra già nel Settecento l’autore inglese George Christoph Martini nel racconto del suo viaggio in Toscana

342


olivi monumentali Olivo di “Preòn” Ubicazione: questo bell’esemplare si trova nel territorio del comune di Brenzone (VR), in località Preòn. Descrizione: l’albero appare sano e vigoroso, equilibrato e ben tenuto con la potatura, a differenza di quanto si può trovare nella zona, dove l’umidità elevata, la fittezza degli impianti e le tecniche di potatura, spesso poco razionali, non disgiunte dai danni provocati periodicamente dalle basse temperature invernali, portano ad alberi eccessivamente sviluppati in altezza, talora divisi in più fusti allevati dal pedale. Il fusto di questo olivo è costituito da due tronchi pressoché uguali e ravvicinati, originatisi probabilmente in seguito a una slupatura effettuata in tempi lontani. La corteccia è fresca e pulita, a indicare ottime condizioni di vegetazione. La proiezione della chioma sul terreno forma un cerchio quasi regolare, anche se eccentrico rispetto al fusto a causa della vicinanza del fabbricato, con un diametro di 14 m.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: cultivar Casaliva • Circonferenza a livello del suolo: 2,9 m • Circonferenza a petto d’uomo: sono due tronchi accostati, con circonferenza di 1,5 m ciascuno

• Altezza stimata: 10 m • Età presunta: 250 anni

Cultivar Casaliva

• Detta localmente anche Drizzer o Zentil,

è la più diffusa nell’area del lago di Garda e ricorda per molti aspetti morfologici e fisiologici la cultivar Frantoio. Autocompatibile, è molto produttiva, poco alternante, vigorosa, piuttosto suscettibile agli attacchi di cicloconio e di rogna e poco resistente al freddo. Questo olivo produce mediamente dai 70 agli 80 kg di olive, ma vi sono punte di 150 kg. In un’annata di produzione eccezionale nella zona consentì una raccolta di 187 kg

343


paesaggio Olivo di “San Vigilio” Ubicazione: l’olivo si trova in località San Vigilio, Comune di Garda (VR). Descrizione: è un olivo con tronco più volte scavato per risanamento dalla carie, ma che comunque si presenta di vigoria imponente, la cui chioma, nel passato più volte ricondotta a dimensioni limitate, assume un diametro di 7 m in direzione nord-sud e di 6,5 m in direzione est-ovest.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: cultivar Raza • Circonferenza a livello del suolo: 6,8 m • Circonferenza a petto d’uomo: 5,1 m • Altezza stimata: 8 m • Età presunta: 350 anni

Cultivar Raza

• È la più vigorosa fra quelle tipiche del

territorio gardesano. Autocompatibile, rustica, di notevole resistenza alla rogna e alla carie, presenta portamento assurgente, ma la sua produttività è scarsa e alternante, anche se dà origine a un olio di elevate qualità. Era un tempo molto diffusa nel territorio di Malcesine, ma quasi un secolo fa ebbe inizio un generale reinnesto con la cultivar Casaliva, più produttiva; il reinnesto, effettuato su alberi già di notevoli dimensioni, fu per necessità eseguito assai in alto e per questo oggi si trovano in quel territorio molti alberi di altezza non indifferente

344


olivi monumentali Olivo “Sant’Emiliano” Ubicazione: questa pianta, conosciuta anche come “Olivo del Vescovo”, si trova nella località Bovara del comune di Trevi (PG). Descrizione: si tratta di un olivo di grande importanza, perché è stato in grado di resistere alle gelate intense che si sono succedute nei secoli. Infatti vi sono immagini che testimoniano la scomparsa degli olivi disseminati intorno, mentre questo patriarca ha resistito. Da studi effettuati sembra si tratti di una varietà simile al Moraiolo, cultivar molto diffusa nella zona, che conferisce all’olio un profumo delicato.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza a petto d’uomo: 9,1 m • Età presunta: 1700 anni

Olivo e suoi significati

• Carico di significati simbolici, viene

chiamato anche “fuoco vegetale” in quanto dal suo frutto si ricavava in passato l’olio usato per le lucerne. Il suo fogliame argenteo è un trionfo di luce non accecante ma quieta, pacificante. Per ebrei, cristiani e musulmani, l’olivo è simbolo di pace, prosperità e rigenerazione. Nella Bibbia l’olivo è una pianta importantissima: nella profezia di Zaccaria i due olivi che appaiono ai lati della sacra lampada simboleggiano il potere civile e quello religioso

345


paesaggio Olivo di “Vignale” Ubicazione: si trova nella Fattoria di Vignale, di proprietà degli eredi del conte Frigoli, in località Vignale, Radda in Chianti (SI). Descrizione: nonostante la sua veneranda età la pianta appare molto rigogliosa con una folta chioma verdeggiante leggermente affastellata, tanto che se non fosse per il maestoso tronco si potrebbe confondere con esemplari più giovani. Particolarmente interessante risulta il fusto che a differenza dei suoi simili presenta un tronco pieno, evidenziato dal taglio di capitozzatura a circa 2 m da terra, robusto e uniforme, di forma cilindrica. La pianta risulta ben curata, in ottimo stato vegeto-sanitario, priva di evidenti malattie; come se l’età avesse giocato un ruolo immunitario verso i fattori biotici e abiotici di rischio. La pianta, infatti, è sopravvissuta egregiamente ai danni subiti durante la Seconda guerra mondiale, quando fu colpita da granate o proiettili simili, e alle due famose gelate, la più grave nel ’56, l’ultima nel 1985. Quanto all’età di questo bellissimo olivo, ipotizza il fattore Olivieri, dato che la fattoria ha 300 anni la pianta potrebbe essere sua coetanea o anche preesistente.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Circonferenza al livello del suolo: 6 m • Circonferenza a petto d’uomo: 5,1 m • Altezza stimata: 6 m • Età presunta: 300 anni

Particolare del tronco

Olivo, simbolo di pace

• Insieme alla colomba annuncia la

fine del diluvio universale: “Passati quaranta giorni Noè mandò fuori il corvo, il quale andò via e non tornò. Avendo poi aspettato altri sette giorni, Noè mandò fuori dall’arca la colomba, la quale tornò verso sera portando nel becco un ramo d’olivo con verdi foglie. E Noè capì che le acque non coprivano più la terra”

346


olivi monumentali Olivo “L’impollinatore” Ubicazione: questo gigante si trova in località Pian del Quercione, frazione a nord del capoluogo comunale di Massarosa (LU). Intorno all’albero sono stati posizionati quattro fari a terra e rivolti verso l’alto, per dare maggiore visibilità durante la notte. Descrizione: da lontano la pianta appare nel suo insieme maestosa, perché si erge sull’oliveto circostante in modo imponente. Nel dettaglio la ceppaia, molto antica, è costituita da tre grossi polloni separati ma molto ravvicinati, i tronchi piuttosto solidi e poco contorti formano l’impalcatura a 5 metri d’altezza; da lì partono numerose branche e grondacci che conferiscono alla pianta una chioma pendula, tipo salice; prima assume un andamento tendente all’assurgente e poi ricade sotto il peso della ramaglia e dell’abbondantissima produzione, costituita da frutti di forma ovale-allungata e di piccola pezzatura.

Caratteristiche

• Specie: Olea europaea L. • Ecotipo: varietà Mortellino (impollinatore)

• Circonferenza a livello del suolo: 8,45 m • Circonferenza a petto d’uomo: 7,5 m • Altezza stimata: 9 m • Età presunta: millenario

347


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.