In conversazione con Arianna Carossa

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In conversazione con Arianna Carossa. di Claudio Zecchi


Che cos’è una scultura oggi? Come si rivela? Quali sono i suoi contorni? Sono le domande – alcune e parziali – con cui ci si può avvicinare al lavoro di Arianna Carossa (Genova 1974, vive e lavora tra Genova e New York). Un lavoro complesso che si sviluppa su più livelli in cui il linguaggio è continuamente sottoposto a verifica. Un’indagine ontologica non solo sull’oggetto ma anche su ciò che lo genera. Il lavoro di Carossa nasce infatti dal suo incontro con il mondo procedendo in una direzione in cui significante e significato si allargano a dismisura. Sono l’uno il reagente dell’altro ma una volta attivata la reazione funzionano benissimo anche indipendentemente solo come evocazione l’uno dell’altro. Il suo lavoro è il luogo dell’incontro erotico, fisico e intellettuale; il luogo dell’impossibile, della verifica dell’impossibile o meglio della possibilità dell’impossibile; il luogo dell’aporia. È proprio in questa perenne condizione “tra”, di mancanza e sospensione in cui esso vive che paradossalmente si risolve attivando lo sguardo dello spettatore verso il limite tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Piccoli dettagli che cambiano radicalmente la storia di un oggetto facendolo diventare altro o magari solo se stesso. Lo spettatore, quindi, è silenziosamente costretto ad abbandonare la sua posizione di ricettore passivo per diventare collettore tra opera, spazio e altro. Sottraendosi al principio di efficienza e funzionalità ogni opera, così come il complesso delle opere nel suo insieme, si trasformano infine in un oggetto narrativo complesso.

Claudio Zecchi A differenza della maggior parte degli artisti non hai un sito o un blog e non pubblichi immagini dei tuoi lavori sui social. Paradossalmente, però, seguendoti su Facebook si capisce molto del tuo approccio al lavoro. Tutto parla del tuo lavoro, ma niente parla del tuo lavoro. Così come quello che scrivi, infatti, anche il tuo lavoro si rivela per sottrazione. Esiste effettivamente una relazione tra queste cose, tra il racconto non rivelato del tuo lavoro tramite uno strumento di comunicazione di massa e la sua oggettivazione? Arianna Carossa Devo dirti che non ho mai pensato realmente in questi termini, ho solo ritenuto in principio che fosse triste per un artista mostrare il proprio lavoro mischiandolo con altre milioni di immagini, togliendo così quel minimo di sacralità rimasta, una esposizione al mercato, con certamente qualche risvolto positivo nell’immediato ma in definitiva controproducente al lavoro in generale. All’arte in generale. Così ho pensato e ho trovato più stimolante l’idea di proporre piuttosto qualcosa che fosse più ad hoc per quel sistema di comunicazione. Ho sempre pensato che l’artista sia la base di un sistema, non colui che il sistema lo debba inseguire e dunque ne stabilisca le regole, non segua quelle imposte. Per me’ pubblicare una opera sui social è un atto politico conservatore che segue solo una logica di mercato ed esposizione mercantile. Inoltre esser artista è molto di più che fare un lavoro, un’opera. Per Platone, nella Repubblica, l’artista è il benvenuto nella città e gli si spargeranno sul capo profumi e verrà osannato, ma nella città non potrà abitarci e verrà mandato via. Diciamo che come visitatore è il benvenuto ma come abitante no. Se l’artista si ferma a viverci, il suo ruolo cambia e diventa qualcosa di diverso. CZ. Questo modo di comunicare il tuo lavoro, o il tuo approccio, mi sembra riveli un inciampo intenzionale. Uno stare in bilico, una condizione precaria e fragile da accogliere come elemento costituente – di forza, direi – piuttosto che respingente. Una sorta di crisi ricercata e costante che mette sotto verifica il tuo linguaggio di artista “costringendoti” a rinegoziarne continuamente i termini. Questa attitudine, credo, ti permetta di procedere nella tua ricerca per discontinuità piuttosto che per continuità producendo, così, sempre nuovi immaginari. Cosa significa lavorare sullo scarto? Come si lavora sullo scarto?


AC. Lo scarto, l’escrescenza, mi sembra possa esser l’unico modo di portare avanti il mio lavoro. Il rimanere in bilico, mi sembra che possa dare un’autonomia maggiore. In realtà il mio percorso è quello prima di tutto di essere umano che si interroga sui propri pregiudizi, l’oggettivazione del mio percorso diventa l’opera. Lo scarto è outsider, lo scarto rivela anche nella sua fragilità un essere più complesso e fallibile. Esattamente come quando respiri, l’espirazione e l’inspirazione sono due atti necessari, ma ciò che approfondisce ho sempre la sensazione che sia la pausa tra uno e l’atro. CZ. L’idea di vuoto, di sottrazione, è presente anche nella tua ultima mostra italiana (Massetere) presso la Fonderia Artistica Battaglia a Milano. Il cavallo, il tema iconografico da cui sei partita, è una sorta di presenza/assenza, si rivela senza esserci mai o solamente a tratti. Il tema del vuoto, però, è presente anche nell’installazione della mostra rivelandosi nel suo negativo. Come ti approcci allo spazio facendolo diventare una parte essenziale del tuo lavoro e al vuoto come elemento concettuale? Esiste il vuoto? AC. La mia idea di vuoto e la sua rappresentazione nel tempo è cambiata molto. Non so in effetti se il silenzio di Cage sia un reale vuoto o sia un pieno fatto di silenzio. Mi ha sempre colpito la rappresentazione del vuoto nelle pale medievali, una specie di vuoto solido che costituisce in qualche modo e da’ anima al soggetto rappresentato. Potrei dire che mi interessa oggi lavorare su ciò che è eterogeno, non solo mi offre l’opportunità incredibile di scoprire nuove domande, ma altresì di indagare l’assenza di ciò che potrei prevedere. Perché quello che desidero in fin dei conti, come in una immaginaria staffetta, è che il mio lavoro riveli a me che l’ho fatto, attraverso un imponderabile mistero, qualcosa che prima mi era difficile vedere. CZ. Volevo condividere con te una riflessione sulla pratica dello studio perciò non ti farò una domanda vera e propria. A volte le circostanze ci costringono a ripensare il nostro lavoro. Da qualche tempo, infatti, a New York non hai più uno studio e credo che questo ti costringa ad un approccio al lavoro più fluido. In fondo lo studio è una sicurezza, una protezione, qualcosa che definisce i confini di quello che fai e di chi sei. Qualcosa verso la quale ti senti in qualche modo responsabile. Non averlo, credo, ti costringa ad una continua verifica di te stessa e del tuo lavoro; ad un continuo stato di crisi e quindi ad una continua ri-negoziazione del tuo linguaggio. AC. Ho sempre avuto studi senza cercarli, in alcuni momenti anche due contemporaneamente qui a New York, lo studio che avevo era frutto di circostanze particolari…era all’interno di un magazzino di materiali edili, lavoravo con i muratori, quella situazione era unica e mi ha dato moltissimo sotto vari aspetti. Oltre che scoprire materiali che non conoscevo, ho imparato a comunicare con loro. Mi mancano. Oggi l’edificio è stato abbattuto, e non mi affretto a cercarne un altro, in qualche modo questa situazione che ho subito è stata disorientante ma quel baratro iniziale si è rivelato di una leggerezza disarmante. Insomma se la crisi non c’è me la vado a cercare. CZ. «È sempre stato così. Se ho problemi nel selezionare quello che faccio divento istintivo e se ho dei problemi istintivi divento intellettuale. […] Mi piace prendere cose in giro per il mondo e metterle in galleria […]». Sono le parole con cui Damien Hirst risponde ad una delle tantissime domande che si trovano pubblicate in Manuale per giovani artisti. E invece come succede con te?


AC. Accumulo fino alla saturazione immagini, suoni, sensazioni, mi sento un po’ Tognazzi nella grande abbuffata, anche e soprattutto per l’epilogo finale. Morire sazi, è molto meglio che digiuni. Nel mio caso, non sento né l’istinto né la ragione prevalere, quando vedo qualcosa che mi attrae per un lavoro è come se gli vedessi qualcosa di misterioso intorno. CZ. Anche se il tuo lavoro si concentra da una decina di anni prevalentemente sulla scultura, hai cominciato come pittrice. Molto spesso, però, la pittura ritorna nelle tue mostre completandole. Ma al di là di questo, credo che sia ancora un elemento fondamentale attraverso il quale sviluppi la tua pratica scultorea. È così? AC. Incredibilmente nonostante senta la scultura più affine, perché mi dà una sensazione di debordamento dei confini più forte, penso alla pittura ogni giorno. Ma la pittura è un evento drammatico per me, che mi fa piombare in uno stato ossessivo, non riesco ad esser accogliente con la mia pittura. CZ. I tuoi lavori partono da oggetti pre-esistenti che poi rielabori tradendone la natura originaria per trasformarli in qualcos’altro. Qualcosa che sembra finito ma che in realtà non lo è mai. Questo inciampo, questa mancanza, li rende fortemente attraenti per chi ne fruisce rivelando un potenziale fortemente narrativo. Che ruolo ha lo spettatore nella costruzione dell’opera? AC. Ritengo che questo aspetto possa esser vissuto in modi opposti. Il fatto che sembri un non finito continuo, rivela sostanzialmente che io come essere umano non lo sia. Un giorno ho scoperto che Hitler era goloso, che sulla giacca aveva sempre briciole. Questo elemento difettoso, lo trovavo stridente con quell’universo fatto di perfezione diabolica. La briciola è così minuscola ma così preziosa perché rivela inequivocabilmente la propria esistenza e il proprio passaggio. Bisognerebbe conservare ogni briciola che lasciamo, e poi quando abbiamo un momento, raccoglierle e farci un panino. CZ. Le tue opere nascono per un contesto preciso. Sono il risultato di una reazione alla costante osservazione di un luogo, un territorio. E questo è evidente anche nella scelta dei materiali che usi, assembli o realizzi. Pensi che potrebbero funzionare in altri contesti? Cioè, pensi che potrebbero funzionare in totale autonomia? AC. Si, certo. Per me è assolutamente necessario ed è anche una sfida complessa, è chiaro che tuo figlio crescendo con te in un determinato contesto avrà la possibilità sempre di sentirsi a suo agio in contesti simili, ma tu come madre non gli offrirai gli strumenti affinché possa sentirsi autonomo e in relazione anche in contesti differenti? Se non avverto questa versatilità che ha a che fare con l’universalità quel lavoro non funziona. CZ. Recentemente mi parlavi della necessità di tornare ad una consapevolezza manuale del fare anche in un lavoro fortemente concettuale come il tuo. Puoi spiegare meglio perché e cosa lo rende così necessario? AC. Si. dopo anni in cui le mie competenze manuali/ artigianali sono state messe da parte in favore di un rigore strutturale quasi ossessivo. Ho sentito che non potevo andare avanti così, che l’eterogeno doveva comprendere più insiemi ed ho sentito la necessità di rendere meno perimetrali i miei lavori, l’unico modo era rimetterci le mani dentro. Era in fin dei conti, lasciare socchiusa la porta del caso. Un lavoro coinvolgente e misterioso, con una portata intrinseca di sacralità è quel lavoro che a mio parere unisce degli estremi e che in questa unione fatta di rigore e precisione, un’ondata di casualità lo lascia libero di


esistere esattamente come il respiro. Il lavoro senza le mani in pasta, lo sento oggi, rigido. Inoltre l’unico modo intrinseco al lavoro che l’artista ha per ristabilire un senso delle responsabilità di un sistema che si è scordato della sua importanza è quello di riprendersi il suo lavoro con tutto il corpo, oltre che con la testa. Badiou, parla di squarcio della realtà traumatico. Ecco a parer mio è sempre questo squarcio che l’artista cerca di rappresentare ed io credo che solo mischiandosi fino in fondo possa riuscire a farlo.


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