Questa breve raccolta di testi nasce a conclusione di un progetto didattico realizzato in collaborazione tra il Liceo “Cotta” di Legnago e il Liceo “Guarino Veronese” di S. Bonifacio nell’anno scolastico 2023-24.
L’idea di far scrivere un racconto a ragazzi abituati al messaggio breve e alla comunicazione istantanea sembra anacronistica, eppure la partecipazione, l’interesse e l’entusiasmo manifestato hanno dimostrato il contrario: i giovani hanno piacere di scrivere, di raccontare, di dare voce ai loro pensieri, alle loro emozioni, alla loro fantasia.
In 52 hanno accolto lo stimolo dei docenti con entusiasmo e serietà e si sono cimentati nella scrittura! Come un’opera d’arte, il loro testo ha preso forma sotto le loro dita, al ticchettio ritmico di una tastiera. Il tema scelto per questo concorso di scrittura creativa è stato l’ansia: argomento ricorrente tra i ragazzi ma non solo. Con questa fantomatica ansia fanno i conti ogni giorno gli adolescenti, gli insegnanti che cercano di capire cosa pesi sul cuore dei loro studenti, i genitori che vedono i figli sofferenti. Ma per un pomeriggio, per qualche ora, l’ansia poteva assumere qualsiasi forma: c’è chi ha provato a esorcizzarla con lo squillo improvviso di un telefono, chi le ha dato la forma di un mostro che strangola, di un’ombra che perseguita, di rimorsi che non danno tregua, di un conto alla rovescia inesorabile. Ciascuno l’ha interpretata a suo modo, prendendo spunto da libri, dalla cronaca, dalla propria esperienza ma arricchendola col suo mondo interiore, con la sua sensibilità per le parole, le atmosfere che solo la scrittura sa rendere.
I testi sono stati letti con la consapevolezza che noi docenti abbiamo il privilegio e la responsabilità di ascoltare i loro pensieri, di guardare il mondo con i loro occhi e finché riusciremo a farlo, finché loro avranno il piacere e il desiderio di regalarci il loro sguardo avremo sempre un canale di comunicazione aperto.
Tra tutti i racconti sono stati selezionati per questa pubblicazione solo alcuni, pur consapevoli che molti altri meriterebbero visibilità.
I VINCOLI PER GLI SCRITTORI
Ai ragazzi che hanno partecipato al concorso sono stati posti alcuni vincoli alla loro creatività. Oltre a quelli di tempo (non più di quattro ore) e di spazio (non più di tre cartelle) è stato imposto loro di utilizzare nel racconto una frase di un autore partire dalla quindicesima riga in poi.
Potevano scegliere una delle seguenti frasi sorteggiate il giorno stesso della prova:
la paura di avere un nuovo attacco di panico e di impazzire non era il mio unico problema. Cominciai a soffrire di insonnia. Passavo le notti quasi completamente in bianco, addormentandomi solo poco prima dell’alba.
(da Gianrico Carofiglio, Testimone inconsapevole )
Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la vita a remare contro corrente; sono stanca, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi porti dolcemente fino al mare.
(da Isabel Allende, Paula)
Una storia, per essere tale, prima o poi, ha bisogno dell’irruzione improvvisa di un singolo evento, o di una presenza, o di un irripetibile concorso di circostanze capaci di imprimere alla torbida regolarità dell’esistenza un qualche tipo di sussulto - e dunque una forma.
(E. Trevi, La casa del mago)
TESTI SELEZIONATI DEL BIENNIO
PIUMA AZZURRA
Sin dal primo momento in cui misi piede a terra, il mio stato d’animo prese a cambiare radicalmente; l’effetto del sedativo stava per terminare, la poca calma recuperata durante il viaggio se ne stava andando, mentre venivo invaso da una sensazione di disagio profondo. Avevo avuto, per l’ennesima volta, un attacco di panico. Così, dopo essere stato visitato, ero arrivato qui. Ne era passato di tempo, dall’ultima volta in cui ero entrato all’interno dell’edificio grigio che si ergeva dinanzi a me. Gli uomini in uniforme che mi avevano portato fin lì mi fecero scendere dalla vettura, prendendomi entrambi per un braccio, mi incitarono a camminare. Alzai gli occhi al cielo e mi misi ad osservare ciò a cui stavo andando incontro.
Era enorme, alto, stretto e “ossuto”, come un essere umano privo di vita. La sua figura era incombente, soffocante, di fronte alla quale ci si sentiva degli esseri miseri, inutili, insignificanti. Non lo si poteva guardare senza ritrovarsi in uno stato di ansia e confusione incontrollabile. Aveva grandi finestre che parevano occhi e bocche sovrumane, pronte ad inghiottire chiunque si fosse avvicinato, o a scrutarti, fissarti ed osservarti fino a farti impazzire. Mi si strinse il cuore. Non avevo nessuna intenzione di entrarci. Così, mentre il panico si insinuava in me come una malattia incurabile che mano a mano ti distrugge, i miei piedi mi portarono fino al portico, da dove entrai. Le ante della porta, al mio tocco, produssero un rumoroso cigolio, che svegliò il ragazzo della reception dal suo sonnecchiare. Quel luogo era esattamente come ricordavo, e anche se erano passati due o tre anni, ne rammentavo ogni dettaglio. I muri ricoperti di malta erano scrostati, sporchi e pieni di muffa, per non parlare delle scale, delle sedie e dei servizi igienici che scorsi con la coda dell’occhio alla mia destra. I due uomini che mi scortavano presero a guardarsi furtivamente e capii che ciò significava che era meglio muoversi, e allora mi avviai verso il piccolo tavolino su cui il giovanotto sbrigava le formalità. “Prego signor Domic, dopo di lei…” mi disse uno di loro. “Certamente” risposi io, cercando di mostrarmi il più calmo possibile, ma la mia recita sarebbe presto finita...
Venni accompagnato nella mia camera da dove, dopo che ebbero sistemato e lasciato giù i miei effetti personali, se ne andarono. Rimasto solo, mi sedetti sul piccolo letto che si trovava nel mezzo della stanza. Non appena mi fui accomodato, arrivò quella sensazione che avevo provato poco prima, e che speravo di non provare mai più. Sentii un nodo allo stomaco. Inspirai ed espirai, ma la cassa toracica non permetteva all’aria di entrare. Sentivo le mani sudare, le gambe tremare, la testa esplodere. Premetti il pulsante di emergenza accanto alla finestra, giusto in tempo prima di accasciarmi a terra. Udii la porta aprirsi, le voci parlare, ma non coglievo il senso delle loro frasi, e pensai che tutti questi sintomi mi tormentavano da tutta una vita, esattamente da quando…
Gli attacchi di panico erano arrivati più o meno vent’anni fa, esattamente una settimana dopo il mio rientro dall’esercito. Finalmente era finita. La grande guerra era terminata, e io avevo ottenuto il permesso di tornare a casa. Eppure non mi ero mai sentito così angosciato e triste come allora. Arrivai
nella tenuta di famiglia verso sera. Scaricati i bagagli e sistemata la dispensa, mi sedetti sulla poltrona, di fronte al caldo tepore del fuoco. Gli occhi erano fissi in un punto: la mia baionetta. L’avevo usata anche troppo, quella cosa, ed era con lei che avevo tolto a famiglie in tutto il mondo figli, padri e parenti che non potevo riportare indietro. Tutte queste persone, tutti questi esseri umani che io avevo ucciso erano il mio tormento. E in quel momento iniziò tutto.
Stavo per alzarmi, mentre pensavo ancora a tutto il male che avevo creato, quando all’improvviso mi bloccai. Spalancai gli occhi, la vista mi si annebbiò e io non capii più nulla. Mi si chiuse lo stomaco, come se avessi letteralmente un nodo nel ventre. Provai a respirare, ma non mi fu possibile. I polmoni non si riempivano d’aria. Le mani presero a tremare e a sudare, così come le braccia e le gambe. Il cuore batteva all’impazzata nel petto, pompando il sangue che si accumulava nel cervello. Non capivo più nulla. Cominciai ad agitarmi. Volevo alzarmi, correre, scappare via con qualsiasi arto che potesse ancora rispondere ai miei comandi. Dopo alcuni tentativi, quando ormai avevo perso la speranza, riuscii a muovermi, cadendo così dalla poltrona e finendo di petto a terra. Il colpo fu tale che il cuore riprese il suo ritmo normale, e mi calmai. Avevo avuto un attacco di panico, e uno di quelli pericolosi.
Questo lo scoprii, qualche giorno dopo, quando venni visitato da un medico che per la prima volta mi condusse in quel palazzo grigio, dove mi fece restare per tre settimane. Lì passai il tempo a girare per i corridoi, spesso ritrovandomi a terra a causa dei frequenti attacchi di panico. Spesso capitava che impazzissi così, di colpo, per futili ragioni. Ma non fu di certo l’ultima volta che visitai quel posto, visto che negli anni successivi ci tornai due, se non tre, volte all’anno. Perché, anche dopo essere stato dimesso, avevo continuato, nonostante tutte le precauzioni e i trattamenti, a essere vittima di questi sintomi orribili. Ormai mi era impossibile anche uscire di casa, perché mi sentivo sempre un enorme macigno addosso, come se la mia anima e la mia coscienza fossero costantemente oppresse e schiacciate da questo peso. Avevo ansia in ogni momento, non mi sentivo mai tranquillo o al sicuro da questo mostro, anche se la paura di avere un nuovo attacco di panico e di impazzire non era il mio unico problema. Cominciai a soffrire di insonnia. Passavo le notti quasi completamente in bianco, addormentandomi solo poco prima dell’alba. Venivo definito da tutti come un pazzo nevrotico, incapace di vivere in pace per l’ansia e la preoccupazione di quello che sarebbe potuto succedere. Questa mia costante agonia derivava dalla paura e dal senso di colpa che le mie azioni si ritorcessero contro di me, in modi terribili. Mi sentivo osservato e non facevo nulla se prima non mi voltavo per vedere che, per caso, non ci fosse qualcuno alle mie spalle. Era diventata una tortura. Ora, da quell’episodio, ho ancora le stesse identiche sensazioni. L’ansia, ormai, regna incontrastata su tutte le altre emozioni. Ogni tanto, quando magari sono stanco, arrabbiato o più debole del normale prende il sopravvento, causandomi attacchi di panico, terribili e insopportabili. Non è facile, non lo è mai stato. Spesso, mi capita di avere le mani in preda a terribili scosse, ma senza dolore, o il contrario. Più di una volta in passato cercai di togliermi la vita, ma anche in quei casi, non appena ci provavo, mi partivano fortissimi attacchi di panico che me lo impedivano. Ma adesso, dopo anni e anni di
agonie, mi capita una cosa curiosa. Senza accorgermene, ormai, ho imparato a convivere con questa mia ansia. E, nonostante sia difficile, è la cosa migliore che io possa almeno provare a fare per salvarmi.
Testo primo classificato del biennio
Autore: Irene Salomon, classe 1H, liceo classico
RYUU
Correvo, correvo, senza tregua. Sbattevo passi rumorosi sulla strada, lasciavo andare con respiri dolorosi tutto il fiato che avevo in corpo. Ansimavo mentre le gambe mi si appesantivano, i polmoni urlavano, il mio corpo minacciava di cedere ogni secondo che passava. E ogni volta negavo con tutto me stesso il lusso di fermarmi, di riposare, e continuavo disperatamente a correre. Senza smettere, perché io non potevo smettere. Mentalmente mi urlavo di rimando di farmi forza, di andare avanti: anche se non lo meritavo, lo dovevo al peso caldo che, aggrappato alla mia schiena, rimbalzava senza una protesta ad ogni mia falcata. E così, continuavo.
Quando finalmente provai a dare retta al mio corpo, ogni senso mi rispose, senza pietà: “Sono al limite”. Guardando finalmente dove mi trovavo, nel buio della notte, realizzai di essere nella via adiacente al porto. L’aria salmastra mi batteva forte sugli occhi, facendomeli bruciare e desiderare solo di chiuderli. Quanto mancava alle mura? Un chilometro, o forse due, ma in quel momento davvero non importava. Non posso farcela. Questo era l’unico pensiero che riuscivo a formulare, nonché l’innegabile verità. Con lo sguardo puramente guidato dalla disperazione, notai finalmente una casupola buia. Era una piccola capanna di legno marcio, uguale a molte altre, usate dai pescatori per riporre reti, arpioni e ami. Piccola, non dava nell’occhio per molti: perfetta.
Mi avvicinai cauto, cercando di contenere i miei rumorosi e ansimanti respiri e, una volta adocchiato il semplice pomello di ferro arrugginito, spinsi. Niente. Riprovai. Spinsi e tirai. Ancora, di nuovo, direzionai il mio peso avanti e indietro; provai ancora, e ancora, una quinta, sesta, settima volta, avanti, indietro, e avanti e indietro, ancora, ancora, e ancora dietro e avanti, con le forze crescenti assieme alla disperazione, le mani che sfregavano e si stringevano al pomello. Perché, perché, perché perché, perché?! Cominciarono a lacrimarmi gli occhi, mentre una cocciuta quanto inutile resistenza mi intimava di continuare a provare. E per cosa, poi? Tirai, e spinsi, e tirai e spinsi, mentre lacrime di rabbia e disperazione mi colavano sugli zigomi e mi bruciavano le guance gelide, come lava su una superficie pietrosa.
Il vento mi portò degli echi improvvisi, e quei fiumi salati si interruppero all’istante. Urla lievi ma imperiose mi fecero congelare sul posto. Ordini scoordinati, ma concisi. E se potevo udirli significava solo una cosa: distavano poco, forse solo qualche isolato, da me. Mi si accapponò la pelle, mentre tornavo ad ansimare e tremare. Una goccia di sudore freddo mi corse lungo il collo.
Che faccio? Che posso fare?! Volevo urlare. Volevo nascondermi. Volevo uscire da quella situazione di terrore e ansia. Ma come?!
Sentii un soffio di aria calda sul collo. Calmo, tranquillo, rassicurante. Veniva dal corpicino che ancora portavo sulla schiena. Mi fermai, respirai profondamente in contrasto con tutto ciò che prima avevo provato. Raccolsi forza nelle braccia che ancora tremavano, e, dopo aver delicatamente sistemato quel mio “bagaglio” su un braccio stretto e protettivo, tirai una spallata al legno. Sollevai un rumore
tremendo, ma non m’importava più. Ecco. Spallata. Per cosa! Un altro colpo. Ecco! E ancora, e ancora, ancora ancora, un’altra…
CRASH!!! Il legno si ruppe con uno schianto tremendo, e io finii in mezzo a un mucchio di ciarpame e rifiuti. I cardini della porta erano finalmente ceduti. Cercai subito di appoggiare la porta al suo posto per coprire i danni evidenti. Poi, dopo essermi guardato un po’ attorno, notai la carcassa danneggiata di una piccola barca a remi, rivolta a pancia in su. Raccolsi il corpo caldo che, nella caduta, avevo protetto con il mio, in quel momento immobile sopra una rete da pesca sporca e maleodorante. La portai con me, sotto il riparo della pancia della barca. Una volta sistemati, ansimando sommessamente per non farmi scoprire dalla minaccia che fuori ancora ci cercava, osservai la mia piccola compagna di viaggio: mia sorella continuava a dormire tranquilla, ignara del pericolo. Chissà se aveva compreso la ragione per cui stavamo scappando, per cui dovevamo raggiungere le mura.
Io, fino a pochi mesi prima, ero sempre stato un semplice giornalista. Raccontavo gli eventi rilevanti, gli scandali, le tristi vicende della piccola, ma popolosa città dove abitavo con mio padre e la mia amata sorellina. Non ci era mai accaduto niente, nonostante la dura dittatura sotto cui vivevamo. Ma, come ricorda uno dei miei autori preferiti: “Una storia, per essere tale, prima o poi, ha bisogno dell’irruzione improvvisa di un singolo evento, o di una presenza, o di un irripetibile concorso di circostanze capaci di imprimere alla torbida regolarità dell’esistenza un qualche tipo di sussulto – e dunque una forma”. Ecco, per me l’evento dirompente era stato pubblicare un articolo che, in qualche modo, aveva criticato la dittatura presente. Non sospettavo nulla, ma non sapevo quanto potesse essere severa la censura. Avevo prima ricevuto avvertimenti, poi minacce. Infine stasera mio padre, pallido in viso, mi ha solo detto: “Vattene”. Dalla porta chiusa arrivavano voci concitate e occasionali ordini secchi. Avevo capito subito e, dopo aver preso con me mia sorella, ero uscito dalla porta sul retro e mi ero messo a correre. L’unica idea che mi era venuta in mente era quella di provare ad uscire dalle mura, che segnavano il confine tra il terrore della dittatura e la libertà.
SBAM! Lo schianto della porta mi pietrificò. Parole secche e spaventosamente vicine mi arrivarono dirette alle orecchie, insieme allo scalpiccio di stivali che pestavano e calciavano tutta quella robaccia nella capanna. Erano entrati. Le guardie, protettrici di quel clima di clausura, erano lì, nella capanna; ci cercavano. Calciavano le cianfrusaglie sul pavimento, adocchiavano ogni angolo della casupola, scrutavano alla ricerca dei colpevoli, dei ribelli. Era la fine, lo sapevo. Chiusi gli occhi, e aspettai. I minuti passavano, le voci continuavano insistenti. Aspetta. Si stavano allontanando. Finché…erano sparite. Non riuscivo più a udirle. Mi arrischiai a sbirciare fuori dal mio riparo: era tutto buio, silenzioso, e, a parte tutto quel ciarpame, vuoto: se n’erano andati. Al colmo della gioia, svegliai velocemente mia sorella. Ascoltavo, ma non sentivo nulla: uscimmo dalla capanna. Niente. Eravamo soli, finalmente. Non persi altro tempo e, dando la mano alla mia sorellina, ripresi la nostra avventura che, ero sicuro, si sarebbe conclusa con la nostra libertà.
Testo finalista del biennio
Autore: Greta Dal Savio, classe 2H, liceo classico
PSICHE
Il 28 marzo dell’anno 2008, in una soleggiata mattina di primavera, mentre il sole aveva ormai raggiunto il culmine della sua traiettoria giornaliera, nacque, nel cupo e freddo ospedale di una piccolo paese, una bambina.
Era minuta e talmente esile da suscitare quasi un senso di pietà in chi la guardasse, ma appena incrociavi il suo sguardo innocente, quei piccoli occhi pieni di gioia e purezza, irradiati da una felicità tiepida e calma, ti trasportavano in un altro mondo, facendoti toccare emozioni per te inesistenti, o forse dimenticate.
Crescendo, questa bambina si trasformò molto velocemente in una giovane ragazza, intelligente, buona, dai sani principi morali, ma in lei una cosa era cambiata radicalmente: il colore dei suoi occhi.
Quando i ragazzi crescono e maturano iniziano, inevitabilmente, a conoscere il mondo che li circonda, scoprendone progressivamente sia gli aspetti positivi, sia quelli negativi.
Una storia, per essere tale, prima o poi, ha bisogno dell’irruzione improvvisa di un singolo evento, o di una presenza, o di un irripetibile concorso di circostanze capaci di imprimere alla torbida regolarità dell’esistenza un qualche tipo di sussulto e dunque una forma. Infatti in loro cominciano ad urlare strepitando e ad imporsi con fragore nuove emozioni, sconosciute, in un primo momento respinte, perché suscitano paura, ma successivamente si radicano nella loro anima, diventano parte di essa, sino ad arrivare a definirla.
La ragazza, raggiunta l’età adolescenziale, iniziò questo processo conoscitivo. Alle scuole superiori, nonostante non fosse una persona estroversa, riuscì a farsi nuovi amici e grazie a loro conobbe aspetti del suo carattere, fino ad allora ignoti. In particolare, ad invadere e a sconvolgere la stabilità della sua mente e del suo cuore fu l’instaurarsi in lei della convinzione di dover raggiungere l’illusorio concetto che rappresenta la perfezione.
Ogni volta che doveva sostenere una prova orale o scritta l’ansia e i tremori, che le invadevano il corpo, non erano volti all’irrequieto e teso momento che avrebbe dovuto affrontare nell’imminenza, ma a ciò che si sarebbe presentato dopo lo svolgimento di quella fatale prova, il risultato che ne sarebbe derivato, ma, soprattutto, gli errori che lo avrebbero determinato.
Pensava che questa ansia fosse determinata dalle competizioni in ambito scolastico che spesso sono solite crearsi ma, in realtà, era causata dalla paura che si impossessava di lei ogni volta che volgeva lo sguardo verso la società alla quale apparteneva, verso il mondo che la circondava, dei quali percepiva solo ingiustizie ed imperfezioni.
Inconsciamente, dunque, la sua psiche, il suo complesso di inferiorità la stavano inducendo a raggiungere l’ideale di perfezione, per poter un giorno, da adulta, distinguersi e non cadere nel tunnel senza ritorno della degradazione umana. La persistente sensazione di pericolo che percepiva intorno a
lei, di cattiveria e di brutalità del mondo in cui viveva, accresceva in lei l’ansia. Quest’ultimo aspetto non era percepito dalla ragazza e dalle persone a lei care con un’accezione positiva, in quanto la rendeva tesa e non le permetteva di essere leggera moralmente, ma soffocava la sua libertà di adolescente e i suoi occhi, un tempo sereni.
Trascorreva così ogni giorno nel timore di fare un passo sbagliato che potesse incidere, in qualche modo, sul suo percorso futuro.
Quello che però non sapeva è che non aveva perso i suoi occhi di bambina, ma si erano semplicemente nascosti, con l’intenzione di proteggersi dalle atrocità del mondo.
La loro pace e serenità sarebbero tornate solo nel momento in cui avrebbe imparato ad essere la persona perfetta, l’unica persona in grado di conservare come sacri questi valori ormai persi nella società in cui vive, in cui viviamo.
Testo finalista del biennio
Autore: Kristal Casagrande, classe 2H, liceo classico
CERBIATTO A. “IL SINGOLO EVENTO”
La stanza era scura come i miei pensieri, le strade deserte e gli alberi spogli. Tutto ciò che c’era di vivo nella città dormiente era il cielo dipinto da fulmini. I fulmini erano violenti e squarciavano il cielo con maestria. Domani sarei partita per il viaggio dei miei più remoti sogni, quello che aspettavo dalle elementari. Ho avuto la fortuna di avere sempre viaggiato da piccola per il lavoro di mio padre; viaggiare è uno dei regali più preziosi della vita ed esistono un’infinità di luoghi, ognuno di questi con molto da raccontare. Da quando studiavo le civiltà egizie alle elementari e le piramidi di Cheope alle superiori, sognavo di andare in Egitto.
Mancavano ore all’alba e al viaggio che aspettavo da anni, ma avevo una voragine nello stomaco e passai quasi tutta la notte insonne. Non avevo solo una pessima sensazione, avevo un pessimo presentimento. Mio nonno mi ha sempre detto che la vita è composta da segnali e poi da eventi, però poche persone sanno cogliere i segnali prima ancora degli eventi; io invece ho sempre sostenuto che la vita sia composta soprattutto da coincidenze e siano pochi gli intrecci non casuali. Mi ha sempre risposto che la vita va osservata, non solo vissuta. Quella notte non sentii le farfalle che fluttuavano nello stomaco, ma che addirittura lo divoravano e non potevo impedirlo. Ero sicura che questo non fosse per il viaggio, ma che sarebbe successo qualcosa, qualsiasi cosa fosse. Mentre mi rigiravo nel letto, strattonai il lenzuolo e feci per cadere sul parquet.
Mi risvegliai all’alba con il rumoroso suono della sveglia, il che significava che era finalmente arrivato il momento di partire. Ora il cielo era sereno e la città in movimento; mi preparai e raggiunsi l'aeroporto in macchina, pronta per un volo di diverse ore. Dopo i vari controlli arrivai al gate dell’imbarco e mi accomodai su una panchina, in attesa che chiamassero il mio numero. Le farfalle continuavano a cibarsi del mio stomaco e l’ansia mi assalì.
Volevo davvero partire, volevo davvero lasciare tutto, inseguire i miei sogni, saltare nel vuoto e rischiare, ma non era questo il problema. Sapevo fosse ciò che avevo sempre desiderato, ma inconsciamente avvertivo un “segnale”, uno di quei segnali che vanno colti prima dell’evento, quei segnali a cui mio nonno mi aveva preparato. Una storia, per essere tale, prima o poi, ha bisogno dell’irruzione improvvisa di un singolo evento, o di una presenza, o di un irripetibile concorso di circostanze capaci di imprimere alla torbida regolarità dell’esistenza un qualche tipo di sussulto e dunque una forma.
Ero fermamente convinta che stessi aspettando qualcosa.
Vidi persone che partivano e tornavano, che parlavano, persone in movimento e vidi la confusione, ma udivo solo il ticchettio delle lancette. Poco lontano da me vidi un bambino che piangeva, tenuto per mano da una madre indaffarata a cercare i documenti per l’imbarco.
Sembrava che l’aria a mia disposizione fosse finita e non riuscivo più a respirare, come se non sapessi più farlo, come se l’avessi dimenticato. Guardai l’orologio al polso e le lancette che si spostavano meccaniche e veloci.
Vidi che il bambino venne preso in braccio dalla madre stanca e smise di piangere. Ricontrollai le lancette, ma quelle più veloci avevano già terminato il giro…com’era possibile? Improvvisamente il suono che percepivo era cambiato: il mio telefono iniziò a squillare insistente e subito risposi.
Questa era la telefonata, questo era il fulmine che squarcia il cielo, la farfalla che divora lo stomaco, il bambino che piange, la lancetta dell’orologio… questo era il singolo evento.
Mio nonno mi ha sempre detto che la vita va osservata, non solo vissuta.
Mi stava chiamando un numero sconosciuto e senza esitazione, con il respiro affannato e il tono spezzato stavo per mormorare un “pronto” quando qualcuno mi interruppe con urgenza: “Ciao, è interessato ad un’offerta Fastweb di giga e minuti illimitati a soli dieci euro?”
Testo finalista del biennio classe IG, liceo scientifico
JUST_ME
L’ansia viene definita come una sensazione astratta. Io penso che sia una delle cose più concrete che abbia mai provato in vita mia. La sento nelle vene, nel petto, nelle braccia, nelle mani e nel cuore.
Sapete quante volte mi hanno aiutato frasi come “Stai tranquilla, non farti prendere dall’ansia?”. Mai. Non c’è una volta nella mia vita in cui sono riuscita a cacciare via l’ansia. Decide sempre lei se andarsene o no. Io non posso fare altro che lasciarla fare, lasciarla divorarmi come un predatore farebbe con la sua preda. Sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la vita a remare contro corrente; sono stanca, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi porti dolcemente fino al mare. E quando l’ansia mi lascia in pace, abbandona la carcassa della sua vittima agli avvoltoi: il rimorso. Il rimorso di non esser stata in grado anche questa volta di contrastare l’ansia. Il rimorso di non esser stata in grado di prendere in mano la situazione e oppormi a questa forza che mi dimora nell’animo.
Quante volte mi è stato detto che è solo una fase della mia vita e che un giorno avrei imparato a non farmi controllare dall’ansia. Quando arriverà quel giorno? Probabilmente hanno ragione, cosa ne posso sapere io che non ho vissuto nemmeno metà della mia vita? Continuerò a sperarci.
Soffro di ansia sociale. Passo ore intere a pensare cosa potrebbe andare storto nella mia vita. Anche solo parlare con una persona mi riesce difficile e inizio a immaginare tutti gli scenari che mi potrebbero capitare. Cosa c’è di più semplice del rinunciare? Ho iniziato a chiudermi in una bolla lontana da tutto e da tutti. Odio le interazioni sociali per paura di essere umiliata e sembrare un’ebete.
Mi ritengo una persona molto simpatica e divertente, ma non ho amici. Colpa dell’ansia. E se rivolgessi la parola a una persona e ricevessi uno sguardo infastidito? E se non fossi all’altezza? E se invece sono antipatica?
Come si fa a superare l’ansia? Non lo so. A me sembra un obiettivo irraggiungibile, quasi impossibile. Mi sono rassegnata e mi lascio divorare dalla bestia che riposa dentro di me. Rassegnazione. L’unica scelta che mi è permessa contro l’ansia. Lasciarmi cullare dall’ansia. Ho smesso tempo fa di oppormi.
Odio l’ansia. Odio quando mi graffia lo stomaco per uscire. Odio il vuoto che mi fa sentire. Odio le mani sudate che mi provoca l’ansia. Odio balbettare per l’ansia. Ma come odiare l’ansia? È la mia unica amica. L’unica compagna che sta con me sempre e ovunque. Non importa chi sei o cosa fai, lei ti rimarrà sempre fedele.
Quante lacrime ho versato per colpa sua. L’insopportabile groppo in gola che mi si creava o gli occhi che pizzicavano… Stupide e insopportabili lacrime. Odio che l’ansia mi renda così vulnerabile. Non ne posso più. Probabilmente se continuerò così impazzirò. Ma io non sono pazza... Non sono pazza? Non lo so.
Se avessi a disposizione un desiderio chiederei una spalla su cui piangere. Un’ancora di salvezza che mi tiri fuori dall’oceano della mia autocommiserazione. È solo un sogno e probabilmente rimarrà per sempre tale. Quanto vorrei tornare indietro e ricominciare da capo. Magari sarei stata un’altra persona, meno ansiosa e avrei iniziato con il piede giusto. Quanto amo immaginare che tutto sia diverso. Magari, in un’altra dimensione parallela, potrò vivere senza ansia. Ma ora l’ansia è la mia compagna di vita.
Testo finalista del biennio
Autore: Meryem Benrais, classe 2M, liceo scientifico scienze applicate
ALESS RODRIGUEZ
Buio, freddo, un tremendo male alla testa. All’improvviso una luce, calda ed avvolgente, ricade su di me. Un costante bip bip in sottofondo mi fa capire di essere in ospedale, com’è possibile? Non può essere stato Filippo, non mi farebbe mai del male, oppure sì? Ricordo solo i sui occhi gelidi fissi sul mio corpo gemente a terra, occhi di ghiaccio, eppure pallidamente illuminati da un’ombra quasi di soddisfazione, di liberazione. Cerco di riportare la mia mente annebbiata fino alla sera prima, dev’essere successo qualcosa che mi è sfuggito che potrebbe giustificare il comportamento di Filippo.
Ora ricordo: stavo cenando da sola con Ettore, il mio cane, ed ogni tanto, quando lo sguardo cadeva su di lui pensavo che mi sarebbe davvero piaciuto essere così, così… libera. No, era un pensiero cattivo, io ero cattiva, cattiva e stupida come diceva sempre Filippo.
Filippo, lo avevo conosciuto ad una festa della scuola ancora al liceo, era ubriaco marcio e mi ha fatto pena, così l’ho accompaganto fuori in giardino e gli ho tenuto la testa mentre vomitava nelle aiuole. Da allora non mi ha più mollata, era sempre presente, dovunque andassi; le mie amiche mi avvertivano, ma allora mi piaceva pensare che qualcuno mi avesse così a cuore, mi faceva sentire desiderata. Così un mese dopo ci siamo findazati: all’inizio era quasi magico, non avevo mai avuto un ragazzo prima di allora, ma poi la magia è scomparsa. Prima il mio tempo, poi i miei hobby, le mie amicizie, una volta finito il liceo persino gli studi, tutto questo ho sacrificato per alimentare quella ossessione che lo animava tanto. Perfino fare l’amore non era più la stessa cosa, mi sentivo sempre più schiacciata dal suo corpo muscoloso. Una notte, si è svegliato di soprassalto, forse da un incubo, e una volta calmato, mi ha chiesto di spogliarmi.
Era tardi e gli ho detto che non mi andava, ha stretto forte i pugni e mi ha fissata con uno sguardo che era più terribile di tutto ciò che mi ha fatto in seguito, in quel letto.
Da allora ho avuto sempre più paura: ogni notte si inventava un “gioco” differente, ogni notte mi svegliavo e restavo immobile per paura di svegliarlo, ogni notte aumentava la paura.
No, non paura, la paura è qualcosa che si prova davanti ad un pericolo, la paura è un meccanismo di difesa; no quella non era paura, quella era ansia.
L’ansia è il timore inconscio di qualcosa che avverà, di ciò che sta arrivando.
L’ansia, l’ansia nell’attesa del momento in cui l’uomo che giace accanto a te si sveglierà ed abuserà di te, l’ansia dell’istante prima che il pugno raggiunga il tuo viso, l’ansia di sentire le parole: “sei proprio una puttana”, parole che dice prima di tornare a coricarsi, abbandonando quel corpo esanime sul pavimento, un corpo che ormai non ti appartiene più. Dopo un po’, non saprei dire quanto, era come se avessi assunto due identità: la me del giorno che si riproponeva sempre di opporsi, magari anche di lasciarlo quel maledetto, una parte insomma più combattiva, che però cedeva sempre il comando alla me della notte, una parte di me che non sapevo di avere e che non mi piaceva.
Se prima inizialmente mi opponevo quando si svegliava dai suoi incubi e mi violentava, ormai avevo realizzato che non aveva più senso e lo lasciavo fare.
Addirittura pensavo che fosse giusto, d’altronde ero cattiva, cattiva e stupida.
Dunque, ieri sera stavo cenando con la mia insalata scondita quando all’improvviso ho sentito la chiave girare con rabbia nella toppa, e lì il mio cuore si è fermato.
Un giro, due, tre, quattro, poi la porta si è spalancata di colpo mostrando un giovane uomo muscoloso e virile, ma deformato dalla rabbia: i muscoli sulle braccia vibravano, il tronco coperto da una maglietta aderente, si muoveva a forza mosso dai singulti. Eccola, di nuovo, l’ansia.
Ma quella volta era diverso, mi sono promessa che la me del giorno non avrebbe ceduto alla me della notte, ho avuto una improvvisa voglia di correre, di gridare di reagire. Ricordo solo che abbiamo litigato, non ricordo cosa gli ho detto, devo averlo rimosso, ricordo solo che ad un certo punto lui, perso dall’ira, ha afferrato un vaso di fiori e me l’ha scagliato contro; il vetro si è spezzato sulla mia fronte ed il sangue a iniziato a colarmi sulle palpebre, e poi sono svenuta. Mi sono risvegliata di soprassalto, come tutte le notti da quando io e Filippo viviamo insieme; lui era sopra di me e stava abusando del mio corpo in maniera selvaggia ed animale, lo capivo da come stringeva le mie cosce e mi palpava i seni strizzandoli forte. Poi, quando ha finito, si è messo a piangere dicendomi che non era nulla e che mi amava veramente, ma più che convincere me sembrava che volesse convincere se stesso.
Ma io lo sapevo che non mi amava e in quel momento ho avuto la sensazione come di saperlo da sempre.
Poi mi ha guardato e sembrava un bambino che esamina i danni del suo giocattolo preferito mentre cerca di capire se vale veramente la pena di tenerlo.
Alla fine si è deciso e mi ha abbandonata, nuda, sul gelido pavimento del garage a tremare, avevo tanta rabbia in corpo, ma la rabbia si è presto sciolta in pianto: piangevo ed intanto il sangue della ferita continuava a gocciolarmi sugli occhi, poi ho anche vomitato.
Così mi ha trovata Filippo, tremante e riversa su un lago di sangue vomito e lacrime. Ha iniziato ad inzupparmi e mi sono chiesta perché l’acqua con cui mi stava bagnando avesse questo strano odore.
Nell’attimo in cui la sigaretta stava cadendo, ho realizzato di aver fallito, non ero riuscita a salvarmi e nessuno poteva farlo. Ero costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corressi non arrivavo da nessuna parte, se gridavo nessuno mi avrebbe sentito. Avevo passato la vita a remare contro corrente; ero stanca, volevo girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi portasse dolcemente fino al mare.
Gli ultimi momenti li ho vissuti al rallentatore, ho rivissuto tutta la mia vita sprecata in sacrificio a quel mostro, mi piangevo addosso ma era tardi, non ho emesso un lamento, non gli ho dato questa soddisfazione. Ho fissato con insistenza la brace della sigaretta, ci stava mettendo troppo a cadere, che ansia!
Testo del biennio premiato con una menzione della giuria
Autore: Matteo Boschi, classe 2H, liceo classico
TESTI SELEZIONATI DEL TRIENNIO
VRIXELM
Sessantacinque ore, dodici minuti e ventitré secondi.
Esso è il tempo restante tra il presente e la fatidica prova.
Ogni mia singola azione è finalizzata a quel momento. Ogni mio singolo attimo di pausa è strappato dagli artigli del tempo. Ogni mio singolo pensiero indirizza le attenzioni della mente a quella giornata.
Questa pressante situazione non è, in nessun modo, il risultato di fattori esterni, ma è il frutto dei miei inquinanti e inquietanti ostacoli e dei conseguenti fallimenti. Ad ogni possibilità a mia disposizione, ho sempre risposto con incertezza ed evidente paura, la cui vera e più profonda origine, nonostante le innumerevoli ipotesi elaborate in momenti di riflessione, mi è ignota.
L’unica certezza attualmente presente nel mio cervello è l’impellente necessità di un esito diverso. La sola via per il conseguimento di esso è la totale chiusura in me stesso, nella mia stanza e nella mia conoscenza. Sigillato il mondo esterno al di fuori dei confini della mia coscienza, do nuovamente inizio allo studio.
Trentasette ore, otto minuti e cinquantacinque secondi.
Oltre ventiquattro ore si sono dissolte nelle mie mani.
Il consueto scorrimento del tempo è alterato dalla colossale presenza, in perpetuo avvicinamento, di quella prova. I consueti pensieri appaiono più offuscati e turbati di attimo in attimo. La consueta tranquillità nei seguenti mesi dipende esclusivamente dall’esito di quel giorno.
Mentre il natural colore degli ambienti vivi è, di giorno in giorno, più vicino a un acceso verde, la mia vista ultimamente ha conosciuto solo gracili raggi di luce intaccati dal grigio della serranda e il suggestivo incontro tra la cupa oscurità e la debole luminosità proveniente da una piccola lampadina.
Nella mia mente girovagano confusamente piani cartesiani e logaritmi in un movimento vorticoso e confusionario. Nonostante una crescente sensazione di sicurezza sembri insinuarsi nelle mie previsioni, l’inquietudine insita nell’abisso non sembra prossima all’allontanamento.
Nove ore, trentanove secondi, cinquantadue secondi.
Ormai è alle porte la fatidica prova.
Tempo e spazio sono congelati. La mia mente è congelata nella morsa dei pensieri, tra speranza e fatalismo. Il mio intero trascorso è congelato in vista di questa prova.
Ho riflettuto, negli ultimi minuti, sul mio vissuto. L’unico termine adatto è miserabile. Miserabile, perché non ho mai accettato un vero confronto con me stesso. Miserabile, perché ho sempre cercato una opportunistica fuga dai miei timori. Miserabile, perché ho sempre aspettato, nell’auto-imposta indifferenza, un magico aiuto esterno. Miserabile, perché ho rifiutato ogni possibilità di avanzamento e
miglioramento a causa della paura verso l’ignoto. Miserabile, nonostante la flebile speranza, suppongo da sempre al mio interno, di cambiare qualcosa.
È tempo di abbandonare gli iniqui pensieri e tornare, per l’ultima volta, sui libri.
Cinquanta minuti e cinquanta secondi.
Divorato. Divorato dalla fatidica prova. Divorato dall’incertezza. Divorato dal crudele sgretolamento del tempo. Divorato dalla mia stessa coscienza. Divorato dalla impetuosa trepidazione. Non ho dormito. Non ho potuto dormire. Non oggi. Non mi è stato concesso il meritato e fondamentale sonno dai miei pensieri.
Saluto i miei genitori; loro rispondono al saluto e mi augurano un risultato positivo. Raggiungo i miei compagni di classe, anche loro vittima di una pressante, ma salutare, forma di trepidazione. Io invece, considerata la precaria situazione in altre due discipline, sono oppresso dalla consapevolezza che questa è, per me, l’ultima spiaggia. Oltre a quella, le colonne d’Ercole e lo sconfinato, glaciale mare aperto.
Entro a scuola. Forse ne uscirò vincitore, forse ne uscirò perdente. La fatidica prova dista pochi, sospesi attimi.
Zero.
Il fatidico foglio giunge nelle mie mani.
Primo quesito: uno sguardo, una soluzione immediata. Secondo quesito: qualche sguardo, una soluzione di maggiore complessità. Terzo quesito: diversi sguardi, la soluzione non arriva, ma indubbiamente apparirà da un momento all’altro. Ne sono certo. Quarto quesito: innumerevoli sguardi, ma, tra errori e disattenzioni, non arriva. Quinto quesito: nulla. Sesto: nulla. Rimangono quattro quesiti. Trepidazione, panico, sgomento e terrore prendono forma e raggiungono, come un virus, ogni sinapsi, e in quel momento, tutto ha fine. Ho fallito. Di nuovo.
Meno due ore.
Mi alzo, cammino, corro, fuggo e mi dileguo. Raggiungo ansimando il cuore di un bosco ai piedi di un colle. Ora sono costretto a rimanere fermo e silenzioso, per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la vita a remare contro corrente; sono stanco, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi porti dolcemente al mare.
Però non riesco. Non riesco ad abbandonarmi alla corrente. Qualcosa insito in me mi trattiene sulla barca. Un filo di speranza mi tiene in vita. In questo luogo, posso udire solo la mia voce. Forse, è giunto il momento del dialogo con me stesso. Forse, da oggi affronterò i miei timori. Forse, da oggi non sarò più oppresso. Forse, da oggi alzerò la testa contro i miei ostacoli. Addio, Ansia.
Testo primo classificato del triennio classe 4G, liceo scientifico
GIACOMO CORSETTO: “IL QUADERNO DELL’ANSIA”
Il dottore l’aveva chiamata “ansia”. Mary non aveva mai sentito parlare di ansia. All’inizio li chiamava “spiritelli”. Erano sempre al suo fianco, tutti i giorni, tutto il giorno. E la cosa che più la spaventava era che sapevano tutto di lei: sapevano delle sue difficoltà in matematica, della sua paura di parlare durante l’ interrogazione, che le parallele a ginnastica non le venivano mai… sapevano persino di Giovanni e di tutte le volte in cui era passato senza degnarla di uno sguardo. E commentavano tutto, non mancando mai di farle notare dove sbagliava, le figuracce che faceva, le peggiori eventualità di ogni situazione.
Non si era mai chiesta chi fossero, da dove arrivassero e come sapessero tutte quelle cose su di lei. Semplicemente si era arresa all’idea che sarebbero rimasti lì, a perseguitarla per tutta la vita.
Quando aveva provato a parlarne, mamma e papà avevano ridacchiato: “Mary, lo sai che gli spiritelli non esistono, sta tranquilla e dormi!”
Poi, da quando i suoi avevano iniziato a litigare, gli spiritelli avevano un nuovo argomento da trattare. Mary passava le ore di lezione ad ascoltarli e i voti, già non brillanti, calavano a vista d’occhio. Quantomeno la gente iniziò a capire che qualcosa non andava. Mary non era più la solita ragazza sorridente. In realtà da anni non lo era più, ma persino fingere, ormai, l’aveva annoiata.
Si alzò dal letto lentamente e si avvicinò alla finestra. Scostando la tenda, si fermò ad osservare la luce tenue della luna, oscurata in parte dalle nuvole…
Alla mamma la parola “psicologo” non piaceva: “Andiamo dal dottore, Mary, sono troppi giorni che non mangi!”. “E troppi mesi che non ridi”, pensò preoccupata.
Mary sapeva che il dottore faceva il suo lavoro, ma non riusciva a sopportare tutte quelle domande. Per questo inventava tutto di sana pianta, ogni volta.
Era sicura che se ne fosse accorto, ma non le interessava. A 15 anni era libera di tenersi i suoi segreti, e, dopotutto, agli spiritelli non avrebbe creduto nessuno e non le andava di raccontare ad uno sconosciuto dei suoi sporadici attacchi di panico.
“Mary, se continuiamo così non ha senso. Non la stai prendendo seriamente!”.
Il dottore aveva aperto uno dei cassetti della scrivania e con aria solenne stava tirando fuori qualcosa. “Da ora in poi, verrai qui solo una volta al mese, per tutto il resto del tempo ti basterà questo!” e mostrò un oggetto rettangolare rosso.
Lei lo prese in mano, cercando di non mostrare troppo interesse: era un quadernetto scarlatto, decorato da una cordina dorata, rilegato in pelle e di pregiata fattura, ma per il resto completamente anonimo. Alzò lo sguardo, il dottore sorrideva, incoraggiante.
...afferrò la maniglia e spalancò la finestra. La fredda aria notturna invase la stanza, mozzandole il fiato. Con la mano sinistra afferrò a tentoni un libricino…
Mary era stata di parola. Tutti i pomeriggi, dopo pranzo, raccoglieva i commenti e le previsioni degli spiritelli e li trascriveva sul quadernetto, sempre al suo posto sulla scrivania di camera sua. All’inizio sembrava funzionare: ciò che scriveva nel diario rimaneva nel diario e non rimbombava nella sua mente per tutto il giorno. Appunto, il giorno.
La paura di avere un nuovo attacco di panico e di impazzire non era più il suo unico problema. Cominciò a soffrire di insonnia. Passava le notti quasi completamente in bianco, addormentandosi solo poco prima dell’alba.
E tutto ciò che aveva scritto nel quaderno tornava nei suoi incubi con frequenza inaudita. Mary iniziava ad odiare la sera, il momento in cui la sua mente era libera di pensare e, quindi, libera di farsi abbindolare dagli spiritelli. Aveva persino smesso di chiamarli così. Ansia era un nome molto più adeguato ad una belva che pian piano la stava dilaniando.
Non dormendo, il suo aspetto peggiorava di giorno in giorno, così come la sua autostima, e quindi i suoi voti e le sue prestazioni a ginnastica. Delle relazioni d'amicizia, ormai, non le importava più nulla, si rendeva conto da sola di essere diventata troppo strana per poter socializzare. L’unico amico di quei giorni difficili e strani, l’unica possibilità di sfogo, era il quaderno rosso, che continuava ad apparirle anche in sogno.
La professoressa di matematica apre il registro… ma in un attimo è diventato quel maledetto quaderno... papà è ancora una volta arrabbiato con mamma, le lancia addosso qualcosa: è proprio quel quaderno...ora si trasforma in qualcos’altro...un uomo coperto di sangue che colpisce al volto il dottore…
“Mary! Mary!”. Si svegliò di soprassalto, tutta sudata. “Mary perché ti comporti così? Sei andata a letto alle 4:00, come fai ad andare a scuola ora? E perché sei tutta sudata?”. Ovviamente nessuna risposta. Mary non parlava neppure più con i suoi. Era convinta che a nessuno importasse di lei, che tutti avessero altre cose a cui pensare. E nel frattempo il suo interesse per la vita veniva meno, ogni singolo giorno.
...il respiro iniziò a farsi affannoso. I pensieri si susseguivano nella mente di Mary, immobile sul davanzale della finestra. “Dicono che quando stai per morire ti passano davanti agli occhi tutti i momenti felici della vita. Ma ho mai vissuto un momento felice fino ad ora?” pensava.
E badate bene, ce n’erano di ricordi felici, di motivi per cui rimanere attaccati a questo mondo. Ma la semplice ansia di tutti i giorni può facilmente diventare cronica e trasformarsi in depressione. E come un serpente soffoca la preda, stritolandola, così la depressione soffoca la nostra voglia di vivere e ci fa dimenticare tutta la bellezza della nostra esistenza. Dobbiamo liberarci da questa morsa prima che sia troppo tardi!
Abbassò lo sguardo sul diario che teneva così stretto che le nocche si erano sbiancate. Contò fino a dieci, non le era venuto in mente nemmeno un ricordo felice. Quindi saltò.
Testo finalista del triennio Autore: Lorenzo Tonin, classe 4H, liceo classico
FRIDA
Frida ha iniziato a soffrire di ansia quando era molto piccola. Lei era figlia unica e aveva tutti i riflettori puntati addosso, sempre.Si era sentita ripetere, almeno un milione di volte, che non avrebbe dovuto in alcun modo deludere i suoi genitori.
Era una bambina sensibile, intelligente, con due grandi occhioni verdi. Era paffutella, spiritosa ed impacciata. Dentro di sé nascondeva un mondo. Frida era cresciuta sentendosi un peso di cristallo in un mondo d’acciaio. Frida era solita correre in cameretta piangendo quando sentiva i genitori urlare, litigare e parlare di divorzio. Aveva la perenne sensazione di abitare in una casa di carta, in cui tutto era precario, in cui tutto stava per spezzarsi. Credeva che nemmeno i suoi l’amassero davvero, e che quindi nessuno lo avrebbe fatto mai.
E se i suoi si fossero separati? A sette anni Frida aveva paura del futuro. Credeva che l’unico modo per farsi amare fosse interpretare il personaggio della “bimba buffa”, credeva che se avesse fatto ridere gli altri nessuno l’avrebbe percepita come un peso.
Così, da quel giorno, interpretò la “bimba buffa”, e gli altri risero, risero eccome. Lasciò da parte la vera sé, la sé speciale. Confuse il labile confine tra il “ridere con lei” e il “ridere di lei”, e lo oltrepassò. Faceva cose che non voleva fare, diceva cose che non voleva dire: l’importante era far sorridere gli altri, niente di più. Cominciarono le risatine, le battutine, poi gli insulti.
Frida si sentiva senza un posto nel mondo, non voleva più andare a scuola, si sentiva pesante, e piangeva, sola, in cameretta. Avrebbe tanto voluto dire il perché, ma non poteva farlo, con nessuno. Lei doveva essere sempre allegra, perfetta, non poteva mostrarsi debole. E se i suoi compagni avessero continuato a prenderla in giro per sempre? A nove anni Frida aveva paura del futuro.
Cominciò le medie. Lasciò da parte il personaggio della “bimba buffa”, ora sarebbe dovuta diventare la più brava della classe. Frida studiava per interi pomeriggi, viveva per studiare. Non poteva permettersi un’ insufficienza, o un rimprovero, o di far fare brutta figura alla sua mamma. In seconda media arrivò però il primo quattro in matematica, odiava la matematica. Aveva percepito quel voto come una valutazione del suo valore. Quanto pianse quel giorno! Si sentiva stupida e temeva che gli altri la considerassero tale.
In estate era andata al campo scuola e il terzo giorno aveva avuto il suo primo attacco di panico. Tutti i bimbi giocavano, trascorrendo il pomeriggio di quel luglio afoso; tutti tranne lei, lei e la sua testa, a dire il vero. Aveva iniziato a sentire il cuore battere fortissimo, vorticosamente, pam-pam; il respiro era diventato affannoso, si fermava allo sterno. E i pensieri, vuoti, contorti, privi di senso, fluivano, entravano senza bussare. Ora aveva la sensazione di non respirare più, si sentiva morire. Frida era sola, e nessuno poteva aiutarla in quel turbine di pensieri, distorsioni, sensazioni. Non vedeva altro che buio, lacrime in una realtà che le appariva ovattata, indefinita. Riuscì ad aggrapparsi ad un pensiero, un pensiero stupido, il solo ad essere positivo: la torta della nonna; ne percepiva il profumo, il sapore e
quell’elemento la riportò alla realtà. In quel momento pensò, controvento, che quel momento sarebbe passato, e in effetti, poi passò.
Frida aveva iniziato a farci l’abitudine: questi momenti arrivavano fuori controllo, senza permesso. Ma la paura di avere un nuovo attacco di panico e di impazzire non era il suo unico problema. Cominciò a soffrire di insonnia. Passava la notte quasi completamente in bianco, addormentandosi solo poco prima dell’alba.
La situazione era diventata insostenibile, non sapeva se sarebbe riuscita ad andare avanti. E se la sua vita fosse rimasta così per sempre? A tredici anni Frida aveva paura del futuro. Frida aveva tanti amici, ma nessuno di vero, non usciva il sabato, non usciva proprio. Frida non riusciva a prendere il bus o a fare qualsiasi altra cosa da sola. Frida aveva paura di tutto, non più solo del futuro. Il suo unico posto nel mondo era la sua cameretta, dove, anni dopo, ancora si rifugiava piangendo sola sotto le coperte.
Abbozzava un sorriso solo quando collezionava l’ennesimo dieci a scuola.
Frida faceva tutto senza cuore: aveva accantonato i suoi genitori, sé stessa e la sua vita, non aveva più alcun controllo su di sé.
Da allora ne è passato di tempo; ora Frida ha diciotto anni, e sta bene. In questi anni si è ascoltata e ha parlato di sé, della vera sé. Frida ha lasciato andare gli attacchi di panico, l’insonnia, la testa. Ha reintegrato il cuore, la famiglia, le passioni, senza più paura del rifiuto o dell’abbandono. È stata in terapia. È stata dura, ma ora riesce a vedere la luce. Ma ricorda ancora il pensiero della torta di mele della nonna, per sempre lo farà.
Si ricorda anche di quando, al campo scuola di quel luglio, si era detta che quel momento sarebbe passato; ed in effetti, poi era passato.
Testo finalista del triennio
Autore: Stella Soresina, classe 5H, liceo classico
MARY SUN
Mi stavo avviando verso la scuola. Era una mattina grigia e noiosa come tutte le altre. Per strada c’era la solita gente di sempre. Nel giardino di una casa c’era sempre lo stesso cane che, mentre passavo, mi guardava e si limitava a fare un grugnito: non aveva più voglia nemmeno di abbaiare. Quel giorno mi sentivo proprio come lui. Per di più l’aria mi pizzicava il viso e mi congelava le ossa. Quel freddo non mi piaceva affatto, gelava ma non portava la neve. Quella sì che è bella, è così soffice e bianca… e invece no, invece c’era quel maledetto freddo che mi ghiacciava le dita ma della neve non c’era traccia. Mentre nella mia testa fluttuavano questi pensieri confusi, passando davanti ad una vetrina avevo guardato su di essa il riflesso di una ragazza spettinata, avvolta in una sciarpa fino al naso, con la faccia assonnata di chi si alza presto la mattina.
Beh, quella ero io: una ragazza intelligente, tranquilla, obbediente. Sin da piccola avevo ricevuto una buona educazione, mi avevano insegnato ad essere ligia al mio dovere. Tutti mi ritenevano una persona perbene. È quello che avevo sempre pensato anche io, a dir la verità. Quel giorno però mi sentivo diversa. Mi ero fermata di colpo nel bel mezzo del marciapiede, intralciando tutto il viavai di persone dietro di me, che mi aveva superato, scocciato. Guardavo il mio riflesso nella vetrina, ma all’improvviso non mi riconoscevo. Chi era quella? In quel momento mi ero resa conto che tutto ciò che avevo vissuto fino a quel momento ora mi sembrava non avere un senso. Cominciavo a pensare che in fondo avevo sempre fatto ciò che mi avevano insegnato.
Ma IO, perché lo facevo? Chi ero IO? Non lo sapevo. In quel momento cominciavo ad avvertire una sensazione strana, mai provata prima. Quella voglia di rompere gli schemi, di andarmene, di compiere qualcosa di folle. La cosa mi entusiasmava, e il fatto che mi entusiasmasse mi metteva paura. Sentivo le guance bollenti, nonostante il freddo. Fremevo dalla voglia di seguire il mio istinto anche se non sapevo dove mi avrebbe portata. Quel giorno non so cosa mi aveva detto la testa, ma l’avevo ascoltata comunque. Ora correvo nel verso opposto da dove ero venuta. Ero andata alla stazione dei treni. Mi ero precipitata alla biglietteria e avevo preso un biglietto per il primo treno che sarebbe passato di lì a poco. Ero salita ed ero partita. Me ne ero andata. Senza dire niente a nessuno. Nessuno sapeva che ero lì. Nemmeno io sapevo dove stavo andando. Da quel momento in poi la mia vita stava prendendo una direzione completamente diversa da quella che aveva avuto fino a quel momento. Se fino ad allora avevo navigato sulle acque di un lago tranquillo, ora mi trovavo in un fiume in piena che seguiva il suo corso burrascoso. Anche la mia testa e la mia mente erano tempestose, ribelli. Nel primo pomeriggio ero finalmente scesa dal treno e mi ero ritrovata in una città. Non sapevo quale, non mi ero mai allontanata così tanto da casa. Avevo cominciato a girovagare ma senza sapere da che parte dirigermi. C’erano folle di persone indaffarate che camminavano in tutte le vie e in tutte le direzioni, e tutte erano sicuramente consapevoli di dove stavano andando, al contrario di me. Iniziavo a sentirmi un po’ spaesata. Non sapevo cosa fare, o dove andare. Avevo passato il pomeriggio girovagando e fischiettando per le strade, convincendomi di aver fatto la cosa giusta, per scoprire che in realtà non
c’era nulla di così divertente in quel posto e che forse mi ero cacciata in un bel guaio. Non mi ero resa conto del tempo che era passato e che presto avrebbe fatto buio.
Camminando per una via di negozi mi ero fermata davanti ad una vetrina, sotto alla luce di un lampione. Riflessa sul vetro c’era la figura di una ragazzina, ancora avvolta in una sciarpa fino al naso, più spettinata di prima. Era sola, stanca, in una città sconosciuta. Era scappata. Non era a casa. E c’era ancora quel maledetto freddo che la gelava. Quella ero sempre io, solo che questa volta mi stavo preoccupando. Le mie mani avevano cominciato a tremare. All’improvviso ero stata scossa da un brivido, più di paura che di freddo. Avevo l’impressione di avere mille occhi puntati addosso. Mi sentivo a disagio, tutto ad un tratto il coraggio e l’euforia erano spariti e avevano lasciato spazio all’ansia. Avevo girato la testa perché mi sembrava di aver sentito qualcuno arrivare. Guardo. Nessuno. Sento un altro rumore. Volto lo sguardo nell’altro verso. Di nuovo nulla. È stato allora che mi sono fatta prendere dal panico. Nella testa adesso avevo una valanga di preoccupazioni e di domande che annebbiavano i miei pensieri. Cosa avrei fatto adesso? Non avevo nemmeno denaro sufficiente per acquistare un altro biglietto del treno; il mio telefono era scarico. Ero sola. Non conoscevo nessuno. Era buio. Sentivo strani rumori ma non ne capivo la provenienza. Ad un certo punto, in lontananza, avevo scorto un gruppo di persone losche, nel buio. Forse non lo erano, ma in quel contesto era quello che pensavo. Avevo paura. Il mio cuore batteva all’impazzata e minacciava di uscirmi dal petto da un momento all’altro. Sentivo le gambe molli, un po’ per la stanchezza e un po’ per la preoccupazione. Avevo deciso di distogliere lo sguardo dal mio riflesso. L’unica cosa che ora mi riusciva di fare era correre via, come se allontanandomi da quel posto sarei tornata a casa. Correndo a perdifiato sono giunta in un parco, fuori dal centro della città e rassegnata mi sono lasciata cadere su una panchina un po’ scassata. Ora sono ancora sulla panchina. Respiro a fatica, ho un groppo in gola. Il poco fiato che mi rimane forma delle piccole nuvole di vapore caldo nell’aria gelida della sera. Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la giornata a remare contro corrente; sono stanca, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi porti dolcemente fino al mare, fino a casa. Ero stanca del lago calmo, ma ora sono stanca anche di questo fiume tormentoso. Forse ciò che serve è davvero un mare, a volte calmo e a volte un po’ in tempesta… Sfinita, chiudo gli occhi e mi lascio cullare dalla notte.
“Mary! Alzati! O farai tardi a scuola!” Mi sveglio di soprassalto. Mia mamma mi sta chiamando; per l’ennesima volta non ho sentito la sveglia. Ho i piedi gelidi, fuori dalle coperte. Mi alzo, stordita, senza capire. Dopo un’ora eccomi per strada, sto camminando per andare a scuola. Fa freddo ma sta cominciando a nevicare…
Testo finalista del triennio classe 3B, liceo delle scienze umane
CATENA
È tutto buio. Socchiudo gli occhi e scorgo le ombre immobili in attesa, come me, di quel momento desiderato da mesi. Dopo ore di preparazione, sudore e duro lavoro, sono pronta. Niente deve andare storto. Siamo tutte lì in quel piccolo spazio cupo che non ammette incertezze, tutte uguali, bellissime e pronte a splendere. Manca poco. Chiudo gli occhi e cerco di focalizzare la mia mente sul niente, sì, devo pensare al niente. Quando li riapro noto qualcosa di insolito: tra le sagome buie delle mie amiche ce n'è una diversa, di una forma indefinita ed inquietante. Mentre cerco di dare un senso a ciò che sto guardando, la figura si avvicina con movimenti scomposti ed inumani e, prima che io possa reagire, la ritrovo a due passi da me. Cerco di osservare il volto di quella sagoma che sembra essere rivestita da un velo nero. La scruto dall’alto al basso senza coglierne l’essenza, ma poi la mia attenzione si sposta alla mia mano sinistra: una scia nera aveva cominciato ad attorcigliarsi tra le affusolate dita ricoprendole di macchie scure. Seguo con lo sguardo quell’essere strisciare sul mio braccio fino ad arrivare a due centimetri dal mio viso e sento un brivido pervadermi la schiena. Sono pietrificata. L’ombra ora mi sta ricoprendo da cima a fondo e poco dopo anche i miei occhi vengono oscurati.
Adesso è veramente tutto buio, un buio più inquietante, più vuoto, che non lascia spazio ad un respiro. Mi sento soffocare, mi sento sprofondare in quel buco nero tremendamente familiare senza fine e senza ritorno. Il tempo è improvvisamente fermo, immobile, come se attendesse un mio segnale per ricominciare a scorrere. Le goccioline di sudore non sembrano altro che piccoli aghi pungenti che trafiggono ogni singola vena del mio corpo e il battito del mio cuore si fa via via più insistente.
Eccolo di nuovo, mi avevano promesso che sarebbe passata, che quel mostro se ne sarebbe andato. Invece eccolo qui, pronto ad assalirmi ancora, pronto a bruciare ogni possibilità di successo.
Sono sola, isolata in questa bolla costruita giorno dopo giorno dalle stesse mani che ora ricopre. Si è evoluta, è diventata più spaventosa dopo ogni “ci hai deluso, noi credevamo in te” o “non sei all’altezza, lascia perdere”.
Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Ho passato tutta la mia vita a remare contro corrente; sono stanca, voglio girarmi, abbandonare i remi e lasciare che la corrente mi porti dolcemente fino al mare. Sono stanca di dovermi sottomettere a questo MOSTRO che blocca la mia mente e la mia anima, imprigionandole in paranoie fittizie e opprimenti.
Dopo un attimo di totale silenzio, un applauso esplode in tutta la sala. Ero così concentrata sulla mia più grande nemica da aver dimenticato che ora è il mio turno. Esco dalle quinte del teatro quasi correndo, forse quella “cosa” rimarrà là dietro e la smetterà di tormentarmi. Salgo sul palco e raggiungo la mia posizione, ma quella dannata ombra mi sta ancora avvolgendo avidamente.
Il primo DO della melodia al pianoforte risuona cupo e freddo, ghiaccia le ossa del mio corpo e mi sembra di percepire lo sguardo inquisitore dei miei genitori, pronto come un radar a cogliere ogni singolo errore nei miei passi. Nonostante questo, mi convinco a non pensarci ed inizio ad eseguire la coreografia che conosco perfettamente a memoria. Dopo la prima sequenza, però, percepisco un sussurro all’orecchio “il prossimo passo è a destra, giusto? O a sinistra? No no, dovrebbe essere avanti.”
Sussulto: è il mostro, sta cercando di confondermi; devo concentrarmi, cosa devo fare? Sì, ne sono sicura, devo fare una pirouette e poi un passo verso il fondo con la gamba sinistra. Chiudo per un istante gli occhi e mi lascio trasportare dalla melodia, abbandonando ogni pensiero.
Sono libera, è il momento di mostrare quanto valgo. Connetto la mia energia con quella delle mie compagne, ora siamo una cosa sola.
Concludiamo la coreografia e il pubblico ci ringrazia con un caloroso applauso. Ce l’ho fatta. Mi giro, e l’ombra è sparita; la cerco tra la folla, tra le mie compagne e, mentre inizio a convincermi della sua definitiva scomparsa, eccola apparire proprio vicino a me: mi sta stringendo la mano. Mi è stata a fianco tutto questo tempo.
Tanti la chiamano Ansia, io l’ho sempre chiamata Mostro. È da molto tempo che cammina sopra di me, a volte la perdo e altre volte la ritrovo; mi ha sempre spinto negli abissi più profondi del mare, ma stavolta ce l’ho fatta, l’ho presa per mano e stiamo camminando insieme.
Finito lo spettacolo, raggiungo i miei genitori fuori dal teatro, so già cosa aspettarmi: di certo non un complimento, ma qualunque sia il loro giudizio, sono contenta di come è andata.
Entrambi mi sorridono, ma questa bell’immagine di una famiglia perfetta svanisce alla prima parola di mia madre. Dopo un lungo monologo sulle posizioni imperfette, le gambe troppo basse e l’espressione poco convincente, accompagnate da un evidente annuire di mio padre, torniamo a casa.
Mi stendo sul letto esausta ma felice, non mi interessano i discorsi dei miei genitori, ho ballato per il pubblico, ma soprattutto per me stessa. Mi sono lasciata trasportare dalla mia musica, di cui anche l’Ansia fa parte.
Un mostro? Un nemico? Forse, ma spero non mi abbandoni mai, poiché è anche grazie a lei che stasera ho ballato come mai prima; mi ha indicato la via, con lei ho seguito la corrente e sono arrivata ad ammirare l’infinito del mare.
Testo finalista del triennio
Autore: Sara Bonvicini, classe 3B, liceo delle scienze umane
IL GIUDIZIO DEI GIOVANI SCRITTORI
Al termine dell’esperienza abbiamo chiesto ai partecipanti di valutare l’esperienza con una parola o un breve giudizio, in forma anonima e volontaria. Abbiamo trascritto di seguito alcuni loro giudizi.
Divetente e mi ha aiutato ad esprimemi.
E’ stata un’espeienza magica, una possibilità pe iniziae a cotivae la
Sincea…poché essendo anoima ho potuto scivee quello che voevo.
Ispiante. Mi ha dato la possibilità di ceae nuoi pensiei e ragioamenti.
In questa espeienza mi soo MESSA IN GIOCO, Pe me è stata una sfida, peché soitamente no faccio leggee a nessuno ciò che scivo e patecipando a questo cocoso mi soo sentita più sicua di me stessa
Costutiva, peché ho esploato nuoi sentimenti.
È stato coe un blocco di ghiaccio: man mano che i minuti passavano la tensi o e fedda si scioglieva in paoe, che ri rivesavano sulla tastiea.
È stata un’espeienza bellissima. Ho sempre amato scivee e vedee che ciò che scivo, piace, è stata un’enome soddisfazio
Intigante e convogente
Avvogente
Intima, peché no pe tuti è facile palae dei prori sentimenti dell’animo e sora tu to esp o e c o limpida sinceità espeienza pesoali vissute.
Stimoante E divetente
Espeimento, è stato un modo pe metesi alla proa, un’espeienza nuoa e inteessante.
Stimoante. Pe me il cocoso
è stato più di un semplice poeiggio e mi ha pemesso di pensae, proae emozioi e rifletee su un tema che tocca tuti no ragazzi.
Ansia (in senso buoo)
Stupenda.
Lib e at o ia. Mi ha pemesso di esprimee paoe difficili da die ad alta voce.
Secodo me è stata un’espeienza magica, che ci ha pemesso di esprimee ciò che abbiamo dento in modo anoimo, coe un incantesimo.
Mi è piaciuto moto sfogami scivendo un testo! Viaggio (in senso buoo)
Noità!
Mi è moto piaciuta coe espeienza peché ho avuto l’opotunità di esprimee le mie emozioi e i miei pensiei libeamente atraveso la scitua ceativa, cosa che invece risulta difficile fae in ambiente scoastico