City&City

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City&City La tua città in un magazine

PROFONDITÀ DI RIVA

UNA VITA TUTTA DA SCRIVERE


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SOMMARIO 4

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SARDEGNA ESOTERICA


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RICOMINCIO DA ME! La stilista ogliastrina Mary Emme racconta al nostro magazine la sua nuova vita tra progetti e famiglia

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i chiama Maria Antonietta Murgia ma da tutti è conosciuta come Mary Emme, il suo nome artistico che è riuscita a rendere un brand conosciuto in Sardegna e non solo. Un’esperienza lavorativa decennale che l’artista e stilista ha ripreso con tutta la sua forza e la sua vita da un anno a questa parte. Una vita che si è ripresa coi denti, col sangue e una forza di volontà forse sconosciuta anche a se stessa, dopo un grave incidente. La nuova Mary Emme è <<una persona più consapevole e determinata, con le idee più chiare e meno frivola, una donna che ha capito che si può lavorare con passione divertendosi, senza pressioni. E poi sono diventata nonna. Vuol dire che dovevo rimanere in vita, mia figlia è rimasta in cinta quando ho avuto l’incidente>>. Da artista emergente, specializzata in fashion, design, usi e costumi locali, a essere scoperta da Venus Dea, l’agenzia di moda di Maurizio Ciaccio che l’ha fatta esordire al Teatro Massimo, a vestire Miss Glamour (in collaborazione con Marinella Staico) e la finalissima di Miss Italia nel 2015 (con Michela Giangrasso). Mary Emme ha una carriera già ricca di soddisfazioni, mentre adesso vuole <<riprendere dei progetti interrotti e promuovere il mio marchio nelle grandi distribuzioni, ma mi basta anche qualche negozio in Sardegna. Ho sempre creato collezioni nel rispetto della tradizione sarda, rivisitate in chiave moderna, mentre le ultime mie creazioni sono state ispirate dai viaggi che ho fatto. Dubai mi ha suggerito abiti in pura seta. La mostra “La donna fanciulla”, ispirata da una visita a Barcellona, si è realizzata con materiali e tessuti acquistati in loco>>. Mary Emme vanta anche collaborazioni con Paolo Modolo, ha

di LAURA FOIS Foto di FRANCO FELCE

curato mostre con manichini viventi e il progetto “Vestire la casa”, organizzato in una boutique di via Sulis a Cagliari. <<Doveva durare una settimana, invece è durata sei mesi, vi esponeva anche Antonio Marras. All’interno di quel progetto dovevo capire, attraverso le personalità e i modi di vestire delle persone, come avrebbero potuto arredare le proprie case. Mi son divertita e mi ha arricchito molto>>. Da molti anni vive a Cagliari, <<ormai la mia casa, che un po’ mi isola e non ti mette al centro dell’attenzione>>. Per Mary Emme la moda <<non è solo spettacolo, è anche raccontarsi. Ho fatto sfilare anche donne normali, comuni, non modelle. Perché per forza il bello, il perfetto? Io devo dar risalto per prima cosa alla bellezza delle mie creazioni, troppo facile far indossare un bel vestito a una bella donna! Bisogna mettersi in discussione, essere curiose. Per esempio, quando ero più giovane andavo tutte le mattine al mercato di San Benedetto a vedere come si comportava la gente, come si vestiva, cosa si diceva. A vent’anni avevo spedito una cartolina a un’agenzia chiedendo cosa dovessi fare per diventare una stilista. Poi è successo, l’ho voluto. Questo è un mondo dove c’è anche amore, se ti presenti bene lasci anche qualcosa agli altri. Bisogna poi promuoversi a vicenda, è ciò che faccio con Artèmoda, la mia associazione culturale. Non so se tutto questo abbia anche a fare col mio passato da ex commerciante, vendevo e creavo ceramiche, dipingevo. Gestivo un negozio di artigianato sardo e abbigliamento. Credo che ognuno debba seguire il suo istinto e trovare la sua strada>>.


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L'ARTE DI ESSERE

SEMPLICE RIVA, IL MITO E L'UOMO L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DI UN SINISTRO MICIDIALE Così Walter Veltroni racconta RIVA nel libro del giornalista Giovanni Gelsomino

Il libro RIVA E L'ISOLA NEL PALLONE a cura di Giovanni Gelsomino Editore: Almanacco Gallurese Iniziative

Me la ricordo ancora. E come potrebbe essere altrimenti visto che sto parlando della “partita del secolo”. Città del Messico, per noi davanti ai televisori in bianco e nero era notte fonda, sul campo si sfidano Italia e Germania, le avversarie di sempre. Due squadre così diverse non si erano mai viste, quadrata la Germania di Gert Muller, elegante e leggera l’Italia di Valcareggi. Era quella della rivalità Rivera-Mazzola, era quella di Albertosi, Burgnich, Facchetti…. Era soprattutto quella di Gigi Riva. Finì 4-3 dopo i supplementari e, a distanza di quasi mezzo secolo, non se l’è dimenticata nessuno. Come nessuno s’è dimenticato di Gigi Riva. E come potrebbe essere?

È il simbolo del calcio bello ed essenziale, un’ala sinistra che segnava con una regolarità spaventosa, che prendeva un sacco di botte dai difensori (quante volte gli hanno rotto le gambe… cose che oggi non si possono nemmeno immaginare), che non si lamentava mai e si rialzava più affamato di prima. Se c’è un rimpianto per me, juventino, è che non abbia mai accettato di vestire la maglia bianconera. Ma in fondo lo capivamo quel suo attaccamento al Cagliari, lui che c’era arrivato da Leggiuno, provincia di Varese, lombardo quasi di confine, cresciuto guardando il Lago maggiore e finito a guardare il mare della Sardegna. Nelle interviste lui ricorda con affetto le persone semplici, i pescatori, i muratori che incontrava per strada, quell’ammirazione e quel rispetto che tutti gli portavano e che ancora raccoglie ogni volta che appare in pubblico nell’Isola. Gigi Riva è di quei calciatori che lasciano il segno, ma è impossibile parlare di lui senza pensare all’uomo Gigi Riva. Silenzioso, qualche volta ombroso, generoso e serio. I suoi gol (ne ha fatti tanti, ha ancora il record di reti segnate in Nazionale in anni in cui si giocava di meno) erano bellissimi, veloci, potenti. Rombo di tuono: il soprannome glielo affibbiò Gianni Brera. È un soprannome bellissimo per due motivi: racconta perfettamente l’idea della rapidità e della forza del suo calcio e insieme è un nome da pellerossa (come Toro Seduto, Cavallo Pazzo) alludendo anche al suo volto che ricorda quello di un guerriero indiano e alla sua combattività. Era un calcio ruvido e bello e Gigi Riva ne è stato protagonista assoluto. Un calcio in cui il Cagliari poteva vincere lo scudetto (e sarebbero stati probabilmente due se un difensore dell’Austria non gli avesse rotto tibia e perone durante un match della nazionale), in cui i soldi non erano tutto, in cui per il pallone d’oro si sfidavano spesso calciatori italiani. Era un calcio vero e semplice quello in cui – lo racconta Riva, in una bellissima intervista di molti anni fa- i suoi compagni gli chiedevano di restare al Cagliari perché solo così, vincendo le partite, avrebbero finito di pagare la cucina comprata a rate. Era il calcio di Manlio Scopigno, l’allenatore che era stato ribattezzato “il Filosofo”, e dei giocatori che si chiudevano in albergo a giocare a carte e fumare sigarette finché il mister non bussava alla porta e diceva: “Posso fumare una sigaretta con voi. Ma dopo questa tutti a dormire che domani si gioca”. Gigi è il calcio italiano al suo meglio. Il calcio come un gioco di 11 contro 11, in cui i calciatori anche quando avevano vent’anni erano uomini e non ragazzi.


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UN CALCIO AL PALLONE E AL DESTINO Gigi Riva e il rapporto con l’isola che non è mai finito: Cagliari è casa sua

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na sera passeggiavo lungo via Dante con mio padre. Ad un certo punto si è fermato di colpo, ho alzato il sopracciglio e l’ho visto sorridere, immobile. Ha detto <<buonasera>> a Gigi Riva e gli ha stretto la mano, facendogli quasi un inchino. Riconoscente, contento. Riva lo ha ricambiato salutandolo, composto, con un altro sorriso. Lo fa quasi tutte le sere con chiunque lo ferma per un saluto o una foto. Molte volte l’ho visto abbozzare lui stesso un mezzo inchino, perché è lui stesso a sentirsi in debito nei confronti dei sardi che lo hanno accolto, coccolato, amato. A Cagliari tutti conoscono le sue abitudini. Sai dove puoi trovarlo a cena, la mattina lo puoi incrociare in edicola mentre compra il giornale. Occhiali scuri, cappotto lungo, cammina introverso con un’aria indisturbata ma allo stesso tempo pacata ed elegante. Spesso è solo e assorto passeggia con le braccia dietro la schiena. Lo guardano intensamente e pieni di ammirazione sia i piccoli sia i più grandi. Alcuni non lo fermano per riverenza o timidezza, altri semplicemente hanno paura di scocciarlo, ma chiunque appena lo vede gli sorride. Riva è come la luce di Cagliari che illumina volti e lughi anche quando non c’è il sole. Il rispetto e la quasi venerazione nei confronti di Giggi Rivva, così come lo chiamano affettuosamente i suoi concittadini, saranno eterni. Perché Gigi Riva è Cagliari e Cagliari è Gigi Riva e per sempre lo sarà. Nel capoluogo isolano ci arrivò per la prima volta diciottenne per il campionato 1963-

di LAURA FOIS

64 e da allora non indossò nessun’altra maglia, se non quella della Nazionale, di cui ancora è capocannoniere. Nonostante si giocasse di meno e con un pallone di cuoio, nonostante i calci e le menate che prendeva senza squalifiche né moviole. Altro calcio, altri tempi, altri giocatori e forse, altri uomini. L’ala sinistra arrivata da Leggiuno, sulle rive del Lago Maggiore al confine con la Svizzera, ha subito incantato l’Amsicora (dove accorreva sugli spalti il 26% delle donne, rispetto a un misero 11% nei campi italiani) e poi il Sant’Elia (<<il nostro Olimpico>>, ha sempre detto). Con lui il Cagliari e la Sardegna hanno conquistato il primo e tuttora unico scudetto del calcio. Era il 1970, l’anno delle stragi di stato. Nel dicembre del 1969 c’era stata quella di Piazza Fontana, poi il deragliamento del treno a Gioia Tauro e il Golpe Borghese. Nel 1970 erano comparse anche le regioni a statuto ordinario, si istituiva la scuola media obbligatoria con l’obbligo portato a 14 anni e si varava lo Statuto dei Lavoratori. La Sardegna in quegli anni inizia a subire i primi effetti del Piano di Rinascita, istituito nel 1960, che aveva finanziato la nascita dei poli petrolchimici di Porto Torres e Sarroch, e di quello industriale a Ottana a seguito delle indicazioni della Commissione d’inchiesta parlamentare sul banditismo in Sardegna. Si pensava che l’industrializzazione avesse potuto sconfiggere il banditismo. Tutte le foto sono tratte dal libro "RIVA un'Isola nel pallone" per gentile concessione di Giovanni Gelsomino


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La gente mi è vicina come se ancora andassi in campo a fare gol. E questa per me è una cosa che non ha prezzo»

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CHIAMATELO

ROMBO DI TUONO

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iva è sempre stato dalla parte dei pa- «Di quegli anni ricordo soprattutto stori, dei pescato- lo spogliatoio. Ci volevamo bene. ri, degli agricolto- Passa il tempo, e continuiamo a ri. I suoi amici provengono volerci bene. […] Banditi e pastori, da quel mondo. Non è mai ecco come ci chiamavano quando stato in Costa Smeralda, andavamo a giocare a Milano o a che in quei tempi iniziava Torino. Invece noi vedevamo solo i suoi fasti e le sue passe- tante facce da emigranti. Venivamo relle. dalla Germania, dal Belgio, dalla È stato, spontaneamente e Svizzera. Erano minatori, camerieri, senza volerlo, portavoce di operai. La loro gioia era la nostra.» una resistenza comune a Gigi Riva molti sardi; Più ci urlavano pastori, banditi, pecorai, più mi sentivo sardo fino al midollo; ha rilasciato più volte questa dichiarazione. L’hanno intervistato ripetutamente, ha avuto tante donne (belle, anche famose), è stato osannato e premiato. Ha vinto l’argento ai Mondiali del Messico 1970 e l’oro agli Europei di Italia 1968 ed è stato ripetutamente capocannoniere. Negli ultimi anni girano voci che sia stanco, che non abbia più niente da dire, che è malato. Abbiamo provato a contattarlo tramite amici e conoscenti, non ci siamo riusciti ma non abbiamo neanche insistito. Di lui si è scritto tanto, si è detto molto. Non ha neanche mai voluto essere al centro dell’attenzione. Gli son stati offerti incarichi politici, ruoli nei film. Non ha mai voluto che si facesse marketing con la sua persona. In giro non c’è la sua maglietta, eppure la indosserebbero tutti, anche fuori dalla Sardegna. È stato l’icona di un’isola e di più generazioni senza mai mettersi in mostra,

tirando calci a un pallone e rialzandosi sempre, scegliendo Cagliari come posto in cui vivere, facendo una vita semplice, con qualche vezzo (il fumo). Nei suoi occhi, che puoi incrociare quasi ogni sera in via Dante, puoi scorgere un pizzico di rammarico misto a nostalgia quasi depressiva. Non ha superato i suoi drammi famigliari, dicono i più informati. L’ha ammesso anche lui in qualche intervista. Speriamo che tutto l’amore e l’affetto che ti hanno dato i sardi abbia a volte affievolito il tuo rimpianto e il tuo dolore, Rombo di Tuono. Si vede quando qualcuno porta un peso. Si nota quando riunisci le mani in tasca o dietro la schiena, e a volte abbassi lo sguardo. Non ti abbiamo mai fatto il terzo grado, ti abbiamo tifato e ci inchiniamo a te ogni volta che ti incontriamo. Perché ti vogliamo bene Gigirrivva, e adoriamo il calciatore che sei stato e l’uomo che non smette di ispirarci e di farci sentire un po’ più sardi. Un po’ più forti. (L. F.)


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CONFESSIONI DI UN ABATE

Lo scrittore cagliaritano: «Sempre meglio raccontarsi che farsi raccontare» di LAURA FOIS

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progetti vanno raccontati quando sono pronti. Per ora posso dire che entro il 2018 usciranno altri due lavori per la carta stampata e che il prossimo libro è quello a cui son più affezionato”. Francesco Abate è uno scrittore sardo che vive a Cagliari, scenografia costante delle sue storie. “Io qua vivo, qui vedo le cose”, mostrando un’umiltà non comune essendo anche giornalista. Collaboratore dal 1986 per l’Unione Sarda, assunto dal 1993, è da qualche anno responsabile delle pagine culturali e dello spettacolo dello storico quotidiano isolano. “Prima mi occupavo di cronaca nera, dopo il trapianto ho chiesto di non occuparmene più, è pesante e non posso più permettermi un lavoro che non ha orari. Anche perché se ammazzano qualcuno non lo fanno in orario delle poste! ”. Divertente, pratico e acuto osservatore, Abate ti guarda fisso negli occhi e ti chiede “perché mi intervisti?”. Incontrarlo non lascia indifferenti. È sincero il ricordo del suo primo libro, Mister Dabolina (1998), che ammette di aver scritto per divertirsi. “Lo considero un libro molto acerbo, non fu neanche accompagnato da un lavoro di editing. Quello scrissi e quello uscì”. Abate ti insegna che se ogni lettore ha il suo libro preferito, anche gli scrittori hanno un rapporto diverso con ciascuno di loro e inoltre si evolve. “Getsemani (2006) all’inizio non è stato un libro fortunatissimo, perché è uscito prima del trapianto. Non è stato promosso ma ha ripreso strada nel tempo quando il Mastrale (che ha editato anche Il cattivo cronista, 2003 e Ultima di campionato, 2006) ne fece un’altra ristampa. È stato un esperimento narrativo”, continua l’autore, “mentre Chiedo Scusa

(2010), il libro legato al trapianto e scritto insieme all’attore Valerio Mastrandrea, ha segnato uno spartiacque sia dal punto di vista professionale sia, ovviamente, dal lato umano”. Il libro ha avuto un importante successo commerciale, ha avuto diverse edizioni ed è stato tradotto in Francia, dove ha ugualmente conquistato critica e lettori. L’approccio differente rispetto alla scrittura è stato quindi frutto, inevitabilmente, del suo percorso di vita. “L’aver vissuto la terapia intensiva da paziente, l’aver visto persone morire e pure te stesso al limite, implica che la corazza che prima avevi per raccontare tutto ciò che vedevi non ce l’hai più. Ecco perché anche la mia carriera giornalistica ha preso un’altra direzione. Il giornale per sua conformazione brucia il dolore, per cui se tu oggi racconti una storia, al limite la segui per alcuni giorni, ma nel momento in cui la scrivi quella storia ha una durata di quarantotto ore, poi ce n’è un’altra e un’altra ancora. Non avevo più la forza di affrontare le storie con cinismo, professionalità e distacco”. E dal momento che fai anche il giornalista, “sai che la tua vita è esposta. Io però decido ciò che voglio esporre e faccio vedere ciò che voglio. Quando il sipario del libro si chiude, c’è tutta la mia vita che pochissimi conoscono. D’altra parte, sai che oggi un libro lo vendi se sei disposto a dar un pezzo di te stesso, a incontrare le persone e, per quanto mi riguarda, a metterti alla pari con loro; anche a far cadere quel divario che un tempo ci si poteva anche permettere ma che non fa parte del mio essere. Oggi devi andare a raccontare le tue storie e condividerle, bisogna mettere un limite, ma son convinto che sia sempre meglio raccontarsi che farsi raccontare”.


9 Francesco Abate nato Cagliari nel 1964, è uno scrittore e giornalista. È tra i fondatori di Radio X, fra le prime emittenti radiofoniche su Internet. Dal 1991 al 2004 fa il deejay nei club della Sardegna col nome di Frisko. Il suo esordio come scrittore è con un breve racconto del 1996 "L'Oratorio Vietato ai minori di 14 anni". Ha scritto pièce teatrali, testi per la televisione e sceneggiature cinematografiche. Alcuni suoi libri sono tradotti in Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Grecia. Nel 1999 ha vinto il miglior soggetto al Premio Solinas con ‘Ultima di campionato', con "Mi fido di te" ha vinto il Premio del Libraio Città di Padova 2007, con il romanzo "Chiedo scusa", Einaudi Stile Libero, nel 2011 ha vinto il Premio Alziator, nel 2014 ha vinto il Premio Lawrence con il romanzo "Un posto anche per me", Einaudi Stile Libero. Dal 2013 cura la collana Freschi per Caracò Editore. Il suo ultimo romanzo è "Mia madre e altre catastrofi", Einaudi Stile Libero, 2016.

Dopo Chiedo Scusa seguono altri due successi editoriali, Un posto anche per me (2013) e Mia madre e altre catastrofi (2016), sempre editi da Einaudi. La curiosità di quest’ultimo prodotto letterario è che è “tutto basato sui social. È nato giocando, volevo soltanto prendere in giro mia madre e divertirmi con lei. Poi è diventato libro perché abbiamo capito come stava funzionando sui social, per cui anche dal punto di vista della comunicazione coi lettori non abbiamo mai usato i media tradizionali. La chiusura della presentazione del libro al Poetto è avvenuta in modo spontaneo, è nata da un post su Facebook chiedendo: ma sei io faccio questa cosa, venite? Sì? Allora la faccio. Così ho fatto, si è presentata davvero tanta gente, è stata una serata bellissima”. Abbiamo riso a lacrime, direbbero i cagliaritani. Chi ha letto Mia madre e altre catastrofi non può non aver riso a crepapelle, magari riconoscendo qualcosa in comune con la propria madre o con se stessi in quanto figli. I social networks sono un altro capitolo delle nostre vite. Soprattutto negli ultimi anni, non sono diventati solo un (non)luogo di condivisione, ma anche di scontro. Sono degli spazi in cui si decide ugualmente di esporsi, per questo anche in questo caso “bisogna mettere un limite. Provo sempre a mantenere un equilibro nella comunicazione che faccio, altrimenti divento logorroico, prendo all’anima! Non so se in futuro per raccontare una storia si possa continuare a far promozione attraverso i social, che ultimamente mi soffocano un po’.

Mi annoiano, trovo molto livore di recente e piattezza mentre prima trovavo cose più interessanti. Devo ammettere però che mi piacerebbe gestire i social degli altri!”. I discorsi con Abate scorrono fluidi e dilettevoli. L’ultima domanda riguarda il futuro della comunicazione, che attualmente viaggia sia su carta stampata sia sul web. “Se sapessi rispondere risolverei la crisi dei media tradizionali che non riescono a stare né sulla vecchia riva né sulla nuova. È chiaro che c’è una crisi dei giornali ma non della lettura, nel senso che la gente è meno disposta ad acquistare un quotidiano ma non a leggere. Pensa che L’Unione Sarda vende tra le 40mila e le 50mila copie, mentre i dati Audipress dicono che viene letta online da 420mila persone. Ciò vuol dire che la gente preferisce sfogliarlo al bar come fa lo scroll di un un social network! La nuova strada? I nuovi media. Cosa sta succedendo adesso? Si trasferisce l’informazione su internet e si amplifica sui social, ma che rientro economico si ha per poter mantenere un’azienda in modo da pagare in maniera congrua tutte le persone che ci lavorano? Siamo nel guado, per cui tutti i media devono fare bene l’uno e bene l’altro. Siamo proprio nel mezzo tra il trasporto a carrozza con cavallo e l’invenzione dell’automobile, solo che quella volta si passò da un business reale a un altro business reale. Il web ancora non dà possibilità alle grandi aziende giornalistiche di poter vivere solo di quello, quindi io la formula al momento non ce l’ho! Il primo che ce l’avrà ci salverà tutti dalla crisi del web”.


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IO Penso Positivo Ben-essere e crescita personale

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LA MAPPA NON È IL TERRITORIO

La nascita della PNL ha cambiato l'approccio alla comunicazione

di ALESSANDRA PUGGIONI Mental Coach e Counselor Professionista

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ante volte ci arrabbiamo perché sentiamo di non essere capiti o non riusciamo a farci capire dagli altri? La maggior parte dei disagi personali e professionali e dei conflitti è dovuta a difficoltà comunicative e relazionali. Ma perché è così difficile comunicare con gli altri? Per trovare una risposta a questa domanda e capire cosa si nasconde dietro una comunicazione efficace, dobbiamo prendere consapevolezza di una questione tanto banale quanto spesso sottovalutata: al mondo ci sono circa 7 miliardi e mezzo di persone e, tra queste, non esiste una persona perfettamente identica ad un’altra. Sì, il mondo è abitato da 7 miliardi e mezzo di “pezzi unici”. Persino due gemelli, che possiedono lo stesso patrimonio genetico, non sono uguali. Ogni persona è resa unica dalle proprie caratteristiche di personalità, dall’educazione ricevuta, dalle esperienze passate, dai propri valori, dalle proprie convinzioni e da molti altri fattori e variabili. Ma cosa c’entra tutto questo con la comunicazione? C’entra in quanto tutti questi fattori individuali fungono da filtri attraverso i quali interpretiamo la realtà. In sostanza ogni individuo possiede una “mappa”, una visione soggettiva del mondo, ha cioè un suo modo di vedere le cose e reagire agli eventi. Tra il 1960 e il 1970, presso l’Università della California a Santa Cruz, il matematico Richard Bandler e il linguista John Grinder, cominciano a studiare e analizzare gli schemi di comportamento e di pragmatica dell’azione di tre terapeuti che, per via delle loro eccezionali capacità comunicative, ottenevano grandi risultati con i loro pazienti: il terapeuta di scuola Gestalt, Fritz Perls, la terapeuta della famiglia, Virginia Satir e il presidente fondatore della Società Americana della

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Ipnosi clinica, Milton H. Erickson. Da questo studio e sotto la supervisione dell’antropologo Gregory Bateson, nasce la PNL. La PNL, acronimo che sta per Programmazione Neuro Linguistica, può essere definita come una metodologia di sviluppo personale volto a facilitare il cambiamento, tramite un insieme di tecniche e strumenti relativi alla comunicazione, alla percezione e all’esperienza soggettiva. Dicono i fondatori Bandler e Grinder: ”Vi è un’irriducibile differenza tra il mondo e l’esperienza che ne abbiamo. Noi esseri umani non agiamo direttamente sul mondo. Ciascuno di noi crea una rappresentazione del mondo in cui vive; creiamo cioè una mappa o modello, che usiamo per originare il nostro comportamento. La nostra rappresentazione del mondo determina in larga misura l’esperienza del mondo che avremo, il modo in cui lo percepiremo, le scelte che ci sembreranno disponibili vivendoci dentro.” Applicando questi concetti alla comunicazione,

mettiamo che tu stia discutendo con un amico riguardo a una questione e che siate in totale disaccordo, probabilmente penserai: “Ma come fa a non capire? È così chiaro! Che testardo.” Sappi che il tuo amico starà pensando la stessa identica cosa e che probabilmente entrambi avete ragione e state semplicemente valutando la situazione da due prospettive diverse, ognuno attraverso la propria mappa. Concludendo, se quello che vuoi è comunicare al meglio con i tuoi interlocutori devi in primis sforzarti di comprendere che la realtà che vivi non è oggettiva ma è solo la tua interpretazione, la tua visione, la tua mappa. E secondo, avere l’apertura e la flessibilità mentale per entrare nella mappa dell’altra persona, provare a comprenderla approfondendo, facendo domande e non dando niente per scontato... perché il nostro mondo interiore è completamente diverso da quello di chiunque altro.

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SARDEGNA ESOTERICA

PARTE 1/3

COME SI CURAVANO I NOSTRI ANTENATI? I rituali magico-religiosi degli antichi sardi

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e credete che le psicosi siano un problema dell’uomo moderno vi sbagliate. Anche i nostri antenati, sottoposti a preistoriche forme di stress, soffrivano di disturbi mentali. Oggi, per capire e curare simili patologie, abbiamo a disposizione una vasta letteratura scientifica e schiere di professionisti. Soprattutto, per tenerle sotto controllo, abbiamo i farmaci. Prendiamo, per esempio, l’insonnia cronica legata a scompensi emotivi, alterazioni psicologiche e stati d’ansia. Possiamo combatterla grazie a un’ampia scelta di ansiolitici e antidepressivi. Basta la ricetta di uno specialista. Ma gli antichi sardi, che non potevano certo Il Nuraghe Losa situato nelle campagne del comune di Abbasanta contare sul conforto di qualche pillola magica, come si difendevano da simili agguati della psiche? Un attento osservatore della realtà naturale e umana vissuto nel IV secolo a.C. sembra suggerirci una possibile risposta. Secondo quanto riportato da Aristotele nella Fisica – e confermato da altri autori classici – un tempo in Sardegna le persone schiave di incubi, allucinazioni o altri tipi di turbamenti spirituali, erano solite andare a dormire presso i templi contenenti le spoglie degli eroi nuragici, che avrebbero avuto il potere di liberare il malato da quella allora ritenuta, in tutta probabilità, una forma di possessione demoniaca.

di GIANMICHELE LISAI

Nell’ipotesi in esame, il paziente veniva quindi posizionato vicino alla salma e, durante un rito che propiziava il contatto spirituale tra il mondo dei vivi e quello dei morti, precipitava in un sonno profondo, della durata di alcuni giorni. Un sonno che si ritiene fosse indotto da sciamani o sacerdotesse con la somministrazione di estratti di funghi o erbe soporifere. Un sonno al termine del quale l’individuo si sarebbe risvegliato libero dalle sue ossessioni, senza averne più alcuna traccia neanche nella memoria. La pratica magico-religiosa appena descritta è conosciuta come “rito dell’incubazione” e la sua stretta connessione con il riposo psicofisico non dovrebbe stupirci, dal momento che ancora oggi la terapia del sonno è utilizzata per analoghi scopi curativi. Quale fosse il monumento destinato a simili riti non si può determinare con certezza, ma secondo Simplicio i corpi degli eroi nuragici divinizzati apparivano “incorrotti”, integri, con le “sembianze di dormienti”. Questo perfetto stato di conservazione tramandatoci dagli autori classici lascia supporre che fossero imbalsamati e custoditi in luoghi chiusi, come le tombe dei giganti, le domus de janas o i nuraghi. Secondo Giovanni Lilliu, la pluralità dell’immagine degli “eroi dormienti era evocata dal carattere delle tombe, a deposizione collettiva”, quali sono riconosciute, appunto, le tombe dei giganti.


13 Secondo Antonio Taramelli, “estendere anche agli ipogei” come alcune domus de janas il rito dell’incubazione “parrà cosa verosimile, se non ovvia”. Eppure, secondo Massimo Pittau, solo in certi nuraghi troviamo dei “veri e propri loculi entro i quali sta perfettamente un cadavere immobile”, quindi adatti a contenere una salma integra e visibile. Se nelle tombe dei giganti il rito si sarebbe potuto svolgere solo presso l’esedra, e non certo all’interno dell’angusta camera, solo nei nuraghi, nelle capanne circostanti e nelle domus de janas di adeguate proporzioni l’officiante avrebbe avuto lo spazio per stare in piedi, vigilare e operare agevolmente sul paziente per narcotizzarlo e protrarne il sonno qualora fosse stato necessario. Le tombe dei giganti, inoltre, per i detrattori della tesi che le vedrebbe come il luogo deputato a simili cerimoniali, essendo sepolture comuni, forse addirittura ossari, poco si adatterebbero allo status di mausoleo celebrativo degli eroi descritto da Aristotele, e per quanto anch’esse siano popolarmente ritenute luoghi magici, portatori di energie positive e curative, sembrerebbero inadeguate al rito descritto. Non a caso, proprio la testimonianza resa da Aristotele, che rimanderebbe a un’importante monumentalità sacra, è uno degli argomenti de- Chiesa di San Giovanni di Sinis, Cabras. gli studiosi che sostengono la funzione religiosa e funeraria del nuraghe in contrapposizione a quella esclusivamente militare e civile. Che sull’isola simili riti avessero effettivamente luogo non è possibile determinarlo con certezza, ma la cultura locale ha conservato nel tempo consuetudini che sembrerebbero discendere proprio dall’incubazione a scopo terapeutico. Nel XVI secolo Sigismondo Arquer riferiva dell’usanza di pastori e contadini di trascorrere la notte nelle chiese campestri, dove udita la messa in onore del santo si trattenevano per ballare, cantare e sacrificare animali in onore del patrono. Un rituale pagano contestualizzato dal cristianesimo: così come i sardi antichi si recavano a dormire presso i templi nuragici, i loro discendenti hanno conservato l’uso di dimorare presso le chiese di campagna, dove le reliquie del santo hanno sostituito idealmente quelle dell’eroe divinizzato. Di tale pratica sono un esempio anche le contemporanee “feste lunghe” insas cumbissias, piccoli edifici sorti in prossimità dei luoghi di culto al fine di ospitare

Il demone del sonno, ovvero lo spirito maligno che certe notti ci possiede turbando il nostro riposo, in Sardegna è noto come s’Ammuntadore, tradizionalmente identificato con l’incubo per giorni i pellegrini. Tradizioni simili a quelle sarde si registrano anche nel sud della Corsica, dove durante l’età del bronzo si era sviluppata la civiltà torreana, affine a quella nuragica. Come riporta Dolores Turchi, fino al secolo scorso, nel santuario di San Martino, a Sartene, la notte dell’8 settembre venivano lasciate dormire le persone affette da problemi psichici. Nelle chiese campestri di alcuni borghi dell’oristanese, invece, erano portati a riposare individui in stato di shock per un forte spavento e, sempre fino al secolo scorso (in rari casi tutt’oggi), in varie zone della Sardegna, numerose donne esercitavano la medicina popolare mescolando conoscenze empiriche e superstizione. In alcuni centri, prima di praticare la terapia sul malato, queste aspettavano la morte di qualcuno: la presenza di un defunto era infatti necessaria per trasferire sul cadavere il “disturbo” che affliggeva il paziente. In sostanza, qualora il problema fosse stato interpretato come la possessione di uno spirito maligno, si procedeva con una sorta di esorcismo. Un caso comune era il trattamento dell’epilessia. Fino agli anni Cinquanta, in certi paesi, era ancora possibile trovare l’usanza di introdurre il malato in una camera mortuaria, dove la donna che eseguiva il rito, fatti uscire dalla stanza tutti i presenti, recitava sos berbos, “le parole” magiche, le quali mettevano in contatto il vivo con il morto e su quest’ultimo spostava il male. Un rito che, ancora una volta, sembra rievocare l’incubazione a scopo terapeutico di epoca nuragica. D’altra parte, come scrive sempre Dolores Turchi – che all’argomento ha dedicato alcune tra le pagine più interessanti –“le vecchie credenze non scompaiono facilmente specie se son ben radicate nell’animo popolare; se mancano le condizioni primarie donde sono scaturite, si modificano e si adattano alle nuove situazioni, ma non si cancellano, anche se cambia la religione o l’assetto sociale”.


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Frutti di un anno deleddiano

di SEBASTIAN COCCO Assessore alla Cultura del Comune di Nuoro

CHI È Alessandro Tamponi, la parabola di un Artista Inizia il suo percorso artistico a Roma, dopo aver trascorso la sua adolescenza in Sardegna dove è nato. Si allontana dalla città di Nuoro per recarsi a Roma, dove affianca alla passione per l'arte e la pittura, lo studio presso la Facoltà di Architettura dove consegue la laurea. Tra la passione per l'architettura e l'arte, sceglie coraggiosamente quest'ultima.

MODERNITÀ DI GRAZIA,

DA NUORO AL MONDO

Nell'anno appena trascorso, la città di Nuoro ha celebrato Grazia Deledda nel doppio anniversario della morte (1936) e del conferimento del Premio Nobel (consegnato nel 1927, ma riferito al 1926) che ha consacrato la nostra concittadina sugli altari della letteratura mondiale. Si è cercato di trovare il giusto equilibrio tra diversi momenti. Quelli di approfondimento letterario e scientifico si sono alternati a quelli di divulgazione dell'opera deleddiana, attraverso le iniziative rivolte alle scuole - una delle quali finalmente è stata a lei intitolata - dalle elementari col Bibliobus alle superiori, nel tentativo dichiarato di riconoscere ed esaltare nuovi talenti tra i giovani studenti. Altri eventi si sono concentrati sulla memoria del periodo in cui la Deledda visse: perché la sua grandezza è legata indissolubilmente al contesto di provenienza, a quegli inizi del '900 che per la Sardegna, e segnatamente per Nuoro, significavano arretratezza, miseria, diseguaglianze, emarginazione, ma anche un sistema valoriale molto forte. Si è dato spazio anche all'arte visiva e alla musica, perché Grazia amava entrambi; quanto alla musica, lei era affezionata non solo a quella dei canti della sua terra ma anche a quella cosiddetta colta, che la portò a comporre delle liriche. Alle iniziative dell'amministrazione si sono aggiunte quelle dei privati, segno di un fermento e di un amore per la figura di Grazia che in data di oggi, novant'anni fa, ha portato la Sardegna e la nostra città alla ribalta del mondo. Lasciandoci un messaggio potente: essere un' isola non significa essere ai margini del mondo ma significa essere se stessa un mondo, che va vissuto, amato e raccontato. Enfaticamente, si dice che abbia solcato il mare dell'indifferenza e del pregiudizio; questo è il senso della foggia della statua bronzea scolpita dal Maestro Pietro Costa e che abbiamo voluto installare alle porte del rione di Santu Predu, dove Grazia nacque e ora, simbolicamente, ci invita a scoprire. Insomma, è stato un anno davvero intenso di relazioni e di confronti, di gratificazioni e di entusiasmo, di suggestioni, di scoperte e di fascino. Ho tratto anche alcuni insegnamenti: occorre avere l’umiltà di ascoltare tutte le proposte, anche quelle che, a primo acchito, appaiono fuori asse; che le energie, pubbliche e private, che si sono sprigionate in quest’anno devono essere convogliate verso un obiettivo più alto che faccia crescere la consapevolezza di avere grandi prospettive per la nostra comunità; che Nuoro non può vivere (e morire) di presuntuosi individualismi, ma fare squadra per un obiettivo e una visione comune, che apra le porte della città al resto del mondo. Questo obiettivo e questa visione deve essere la candidatura di Nuoro a Capitale della Cultura.


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“COSIMA”, UN ROMANZO A PIÙ MANI Lo studioso Dino Manca licenzia la prima edizione critica dell’opera postuma

T

di GIAMBERNARDO PIRODDI

ne preziosa per sorprendere evoluzioni rivelatrici della scrittura ra le novità editoriali riguardanti Grazia Deledda, un posto d’eccellenza spetta alla prima edizione critica del romanzo po- deleddiana. stumo “Cosima”, curata da Dino Manca, docente di Filologia Quali, in sintesi, i risultati dello studio del manoscritto? italiana all’Università di Sassari, di recente edita dalla casa editri- Dopo un’attenta analisi sono giunto alla conclusione che vi siano stati, in ce sassarese Edes nella collana ‘Filologia della letteratura degli italiani’. tempi diversi, gli interventi di almeno tre mani sul testo: della Deledda, Un importante lavoro filologico che si aggiunge alle prime edizioni criti- del figlio Sardus e di Baldini. Ad esse hanno corrisposto strumenti scritche da lui curate uscite qualche anno fa: “Il ritorno del figlio”e “L’edera”, tori diversi. La portata e la qualità dei loro interventi sul testo cambiarono e non di poco l’identità primitiva dello stesso. Il lavoro editoriale non mentre quella di Elias Portolu è in corso di pubblicazione. si limitò soltanto alle sviste ma spesso Come comincia la storia del si estese agli aspetti sostanziali con revimanoscritto di Cosima? sioni spesso arbitrarie. Dopo qualche settimana dalla Qualche esempio concreto? morte della Deledda, nel 1936, il Alcuni interventi censori: attenuazioni, primogenito Sardus trovò in un eufemizzazioni, vere e proprie espuncassetto della sua casa un autozioni, che andarono a mitigare una cergrafo di 277 carte, senza titolo ta crudezza del racconto e alcuni chiari e senza la parola «fine»: un elariferimenti a situazioni, fatti, persone, borato inedito con memorie rocomportamenti considerati sconvenienti manzate della madre sul periodo e inopportuni: allusioni o richiami esplinuorese, una sorta di schermata citi alla sessualità, all’alcolismo del fraautobiografia tradotta in finzione tello Santus, ad atti di violenza, a furti, letteraria, in una narrazione di sé omicidi, nomi di banditi. fatta in terza persona. Questo lavoro su Cosima rappreDopodiché dove approdò? senta una novità nel panorama deFu consegnato un blocco di cingli studi deleddiani? quanta carte alla redazione della Per la prima volta viene proposta rivista Nuova Antologia, affinché l’edizione critica del romanzo: ovvero l’inedito manoscritto potesse esun lavoro compiuto che si caratterizza per la descrizione del sere nella disponibilità del redattore capo, Antonio Baldini. La manoscritto e la ricostituzione del testo nella sua forma oririvista, dopo significativi interventi correttori, iniziò la pubbliginaria. cazione a puntate. Nel maggio del 1937, Può dare una definizione breve ma esaustiva di queulteriormente riveduta e corretta, l’opera uscì per la casa edisto romanzo? trice Treves. DINO MANCA Può essere considerato senz’altro il suo romanzo-testamento, Da quel momento il testo conobbe vicende ed evoluzioni dil’opera della rivisitazione e della riappropriazione insieme, de sa recuiverse. da, del ritorno con la memoria a Itaca, al cordone ombelicale mai reciso Attualmente l’autografo dove è conservato? con la Madre Terra, a un sentimento del tempo, quello dell’infanzia e Presso la biblioteca dell’ISRE, Istituto etnografico regionale, a Nuoro. dell’ adolescenza, irrimediabilmente perduto. Un recupero che finisce Non reca né firma autografa né data. con l’inglobare, secondo la dinamica dei centri concentrici, la memoria Il fatto che si tratti di un’opera pubblicata postuma ha in familiare, sociale e storica di Nuoro. qualche modo influito sullo studio della stessa? L’ assenza di una redazione conclusa e definitiva è diventata un’occasio- Immagine sopra: dal manoscritto di Cosima ( Biblioteca ISRE )


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Come Collodi e Salgari, Deledda conquistò il pubblico anche con le sue fiabe

UNA SCRITTRICE

ETERNAMENTE BAMBINA

I

l 2016 è stato, fino a prova contraria, un anno di Grazia. A ottant’anni dalla morte della più celebre e amata scrittrice sarda, Grazia Deledda, e novanta dalla vittoria del premio Nobel per la letteratura, la Sardegna ha festeggiato la figura della narratrice nuorese che non smette di attirare l’attenzione di critici e studiosi in convegni, nuove pubblicazioni, letture nelle scuole, nelle università, negli istituti di studio. Un interesse crescente e fecondo di novità, che crediamo abbia messo ancora una volta in luce le qualità di una scrittrice che ha saputo affascinare l’Europa con la freschezza della sua rappresentazione dell’isola, oltreché con la sua fantasia, l’immaginazione, l’incorrotta fanciullezza (o pitzinnìa) compositiva in cui risiede l’eversività della sua scrittura, anche dal punto di vista antropologico. Questo perché la narrativa deleddiana pone le sue basi in una rappresentazione dell’isola, nell’accezione tutta novecentesca, di luogo del mito, punto di incontro e di scontro dell’immaginario individuale e di quello collettivo. Una spontaneità che scaturisce da un rapporto di ‘simpateticità’ con la natura sarda e la sua bellezza, caratterizza l’intero tragitto creativo della autrice e trova l’apice più appropriato nel continuo ricorso alle fantastiche similitudini di cui si nutre la sua scrittura. Grazia, attraverso il ponte-congiunzione ‘come’ («Mi pare d’essere una cosa stessa con la roccia, e che l’anima mia sia grande e luminosa come il cielo chiuso dalle montagne della Barbagia fatale») mette in comunicazione realtà e immaginario, invenzione e cronaca, seguendo il filo rosso di un’immaginazione quasi infantile, che non conosce censure e da cui origina altrettanta forza espressionistica delle parole. Ma questa operazione l’autrice seppe lucidamente attuarla non solo sui libri ma anche sui giornali, stavolta declinata attraverso la forma breve degli elzeviri sulle colonne del «Corriere della Sera», o nelle storie fumettate del «Corriere dei piccoli». Insieme ad autori quali Collodi, De Amicis e Salgari, Deledda ha il merito di aver dato forma e sostanza all’immaginario dei lettori piccoli e grandi dell’Italia unita. Anche attraverso le pagine delle miriadi di giornali a cui collaborò è cresciuta e si è formata una coscienza collettiva degli italiani, in un’epoca in cui il ‘discorso patriottico’ diveniva finalmente discorso pubblico, anche attraverso i manuali scolastici. Ma prima ancora che da questi la formazione di una coscienza e di un immaginario dell’Italia unita po-

ROMANZI A PUNTATE, RACCONTI E RUBRICHE ELEVARONO IL VALORE DELLA RIVISTA A CUI COLLABORARONO I PIÙ GRANDI ILLUSTRATORI DELL’EPOCA: ANTONIO RUBINO, ATTILIO MUSSINO, SERGIO TOFANO, CARLO BISI ED ALCUNE FIRME ILLUSTRI DELLA LETTERATURA: DINO BUZZATI, GUIDO GOZZANO, GRAZIA DELEDDA, ELSA MORANTE, OLGA VISENTINI, GIANA ANGUISSOLA.

teva essere degnamente perseguita dalle fiabe di Collodi o della stessa Deledda, laddove l’urgenza di ‘formare le coscienze’, appunto, è soddisfatta dal linguaggio, verbale e figurativo, della favola. Un linguaggio emotivo per antonomasia o - prendendo a prestito due termini cardine della teorizzazione giornalistica - dotato di spiccata emotainment e di conseguenza garanzia di sicuro edutainment: emotività di una lingua che parla ai sentimenti (il Cuore deamicisiano per l’appunto), educandoli; linguaggio diretto ai bambini, portatore di valori morali essenziali ancorati ad un innato buon senso che non prescinde dall’esperienza, ma che può e deve salvare l’individuo da quelle peggiori. Parole semplici, naturalmente figurative, che raccontano cose che sovente neppure le parole della cronaca, essenziali e prive di orpelli per natura, riescono a raccontare con pari efficacia. Dell’editoria italiana post-unitaria fu protagonista indiscusso Angelo Fortunato Formíggini: nome non molto noto perché legato in special modo al raccordo tra letteratura adulta e letteratura per l’infanzia. Ma fu proprio lui a tratteggiare, in un editoriale, un profilo di Grazia Deledda sintetico quanto eloquente: «È la sola fra tutte le scrittrici nostre che mi ha fatto sempre l’impressione di una buona mamma ed è la sola cui io, cinquantenne, oserei esprimere questo concetto filiale senza tema di darle dispiacere. Sono contento che il Premio Nobel sia stato assegnato proprio a lei». Una buona mamma, dunque. Lo sanno bene anche tutti gli scrittori sardi venuti dopo di lei. GP


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L’ANNO ZERO DI MURONI Politica o giornalismo?: Per ora penso al mio blog «

"M

i piacerebbe confrontarmi con voi, se avrete voglia di interagire con me. Sarà un piacere”. È l’invito che Anthony Muroni, ex direttore dell’Unione Sarda, fa nel suo blog, www.anthonymuroni.it, che in due mesi dal lancio ha registrato un vero e proprio boom di visualizzazioni (quasi 400mila) e contributi (300 articoli). <<Tutti spontanei>>, ci tiene a precisare il giornalista nato in Australia da genitori sardi e <<sardo fino al midollo>>. Da quando non è più direttore dello storico quotidiano isolano, in tanti si son chiesti se il suo prossimo orizzonte fosse quello della politica. In quest’intervista non lo esclude, ma spiega meglio le sue intenzioni e i suoi progetti per un 2017 che deciderà lui stesso se far svoltare in una direzione o in un’altra. Di certo Muroni riparte, ancora una volta, dal giornalismo. <<Non l’ho scelto io, il giornalismo ha scelto me. Da ragazzino volevo fare il classico e poi studiare lettere all’università, i miei genitori invece mi hanno indirizzato verso tutt’altro! Sono perito informatico e ho studiato giurisprudenza. Scrivere però era una passione che avevo da bambino e presto ho iniziato a collaborare con la Nuova Sardegna, mi occupavo di cronaca dal mio territorio. Nel 1998 ho conosciuto Carlo Figari, ex vicedirettore dell’Unione, l’ho aiutato a realizzare una serie di reportage sui desaparecidos tresnuraghesi sequestrati in Argentina. È stato uno scoop a livello internazionale e ha vinto diversi premi. A novembre del ‘99 lavoravo per Radio Planargia quando ricevetti una telefonata proprio da Figari, il quale mi propose tre mesi di prova all’Unione. Il capodanno del

»

di LAURA FOIS

2000 è stato il mio primo giorno di lavoro per il giornale e lo ricordo come se fosse oggi. Avevo coperto un omicidio a Borore>>. All’Unione Sarda troverà anche l’amore. Il 10 settembre 2016 si dimette da direttore e lascia dopo 17 anni il giornale più letto in Sardegna. <<Dopo aver rassegnato le dimissioni, non volevo lasciare sospesi i discorsi che avevo lasciato aperti con le battaglie sul giornale. Il blog l’ho fatto anche perché mi serviva non sparire troppo dal dibattito che riguarda la Sardegna a 360°>>. Subito riceve proposte di lavoro, sia politiche sia da parte di importanti aziende. Muroni le declina tutte. <<Ora sto gestendo il blog, all’interno del quale insieme a una squadra di comunicatori facciamo un lavoro aperto, di sinergia, perché vogliamo essere facilitatori del dialogo. Sono una persona che sin qui riesce a dialogare con tutti, sono un punto d’incontro, è proprio quello che volevo fare. Mi dispiace che non venga capito l’intento innovatore che c’è, ma è vero che ci sono anche tanti che lo capiscono. Avevo già un posto che mi assicurava soldi e potere, non è ciò che voglio. Se vuoi fare un discorso nuovo non puoi utilizzare modalità vecchie. Il mio impegno in questa fase qual è quindi? Se avessi voluto incardinarmi nei due poli tradizionali ed entrare in politica, avrei già tentato la scalata. Il mio impegno è diverso, è quello di essere con altri lo strumento per dare gambe nuove a idee fresche, in netta discontinuità con tutto quello che è stato fatto in Sardegna, non solo a livello politico, negli ultimi vent’anni. Non mi dispiace e anzi mi aspetto che tutti pensino che mi candidi in politica. È sicuramente ora di finirla di farci scegliere da fuori i nostri candidati per la Sardegna>>.

CONTINUA A PAG.20



20 Anthony Muroni, giornalista, è nato a Perth nel 1972. Ha

lavorato per La Nuova Sardegna, Radio Planargia e L’Unione Sarda, quotidiano del quale è stato direttore per tre anni. Ha collaborato con Panorama, Videolina e Radiolina. Ha scritto un romanzo sull’ex bandito Peppino Pes, saggi su Francesco Cossiga, Joseph Ratzinger, Jorge Bergoglio, Giulio Andreotti, un noir ambientato a Cividale del Friuli e un altro romanzo sulle degenerazioni della politica e sulle sue commistioni con certe lobby economiche.

<<È arrivato il momento di prendersi delle responsabilità, troppo comodo stare a guardare. Bisogna fare facendo. Bisogna creare classe dirigente. E siccome ce n’è, sia dentro sia fuori la Sardegna, sto stimolando le persone capaci ad occuparsi della cosa pubblica. Questo è un momento propizio>>

SEGUE DA PAG.18

Oltre al blog, il progetto di Muroni prevede anche incontri disseminati in tutta l’isola. <<Il 13 gennaio sono stato invitato a Mamoiada, poi andrò a Pozzomaggiore e il 10 febbraio ci sarà un grosso evento a Sassari dove sarà ancor più chiaro il messaggio che vogliamo mandare. Cerco persone che immaginano un futuro diverso, non certo comodo. Non è che ci si può sempre lamentare con un spritz in una mano e lo smartphone nell’altra. Oltre a me, si sono unite anche altre persone, giovani e anche con più esperienza, con delle idee che sto più che volentieri assecondando, in modo da pluralizzare il più possibile questo progetto. Certamente tra i miei interlocutori privilegiati c’è il gruppo culturale che fa riferimento a Pepe Coròngiu, che ha fatto una battaglia per la lingua sarda comune>>. Quest’anno usciranno due libri a firma di Muroni, uno già in primavera, <<legato alla mia carriera da giornalista, che racconterà i retroscena di incontri che ho avuto con personaggi quali il Papa e Cossiga. Per esempio con Bersani ho fatto una chiacchierata molto piacevole, di Tremonti e Mentana invece non ho un ricordo molto gradevole. Berlusconi è stato gentilissimo, Renzi quando l’ho incontrato ai tempi delle primarie non era conosciuto da nessuno ed era come un pulcino bagnato. Il secon-

do libro invece sarà un saggio, ci sto lavorando da tre anni e mezzo e avrà come titolo “Perché non possiamo dirci italiani”. Esprimerò la mia visione non soltanto del processo storico, ma anche del presente e del futuro che noi sardi dobbiamo avere anche nei confronti di ciò che sta accedendo a livello europeo e nel mondo. Io non credo per esempio che l’organizzazione dell’Europa sopravviva alla nostra vita>>. Non solo libri. Muroni collaborerà quest’anno <<con un’azienda editoriale e con alcuni enti pubblici, non regionali, per promuovere l’immagine della Sardegna fuori, da professionista dell’informazione>>. E poi? <<Molto presto ci sarà la fase due. Non so ancora se nel futuro ci sarà la politica: per ora non c’è. Certo, quest’occasione non tornerà mai più, di avere partiti tradizionali così deboli, forse anche il Movimento 5 Stelle, chi lo sa, magari chi riesce a governare lo farà per i prossimi vent’anni. È arrivato il momento di prendersi delle responsabilità, troppo comodo stare a guardare. Bisogna fare facendo. Bisogna creare classe dirigente. E siccome ce n’è, sia dentro sia fuori la Sardegna, sto stimolando le persone capaci ad occuparsi della cosa pubblica. Questo è un momento propizio>>. Anche per Muroni, se vorrà spendersi in prima persona. Come ha sempre fatto, d’altronde.



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QUI TURIN A VOI CAGLIARI

Q

uasi un quarto di secolo, cagliaritana e sarda, ora a Torino. Mi presento: mi chiamo Giulia. E questo potrebbe essere il mio identikit. Poche informazioni che con poche parole mi definiscono. Scrivo da qui perché ho deciso di continuare gli studi lontano da casa. E a fine della scorsa estate con uno zaino sulle spalle ho scelto di spostarmi sù al Nord nella città sabauda. A prima vista Torino è elegante, aristocratica e sembra un po’ che se la tiri e che non si scomponga mai: qui non tira vento, al massimo fa corrente. Io però vengo da una città in cui il vento q u a n to soffia lo fa forte e scombussola un po’ tutto e tutti. Ci sono cose che mai avrei pensato potessi sentirne la mancanza. Le pizzette sfoglia a colazione son state sostituite da banali cornetti, una seada con una fetta di bunet, un piatto di pasta ai ricci con uno di tajarin. Vivere in una nuova città vuol dire anche abituarsi ad altri modi di dire, qui nessuno ti chiede mai “come stai?” ma soltanto “Com’è?”. E ogni volta alzo gli occhi al cielo per vedere che tempo fa. Ora vado a prendere i caffè in centro e sento le macchine passare vicino. Non più i caffè nei baretti al Poetto in riva al mare. Ora corro, di tanto in tanto, in riva al Po e come un pesce cerco l’acqua come fosse aria e mi accontento di uno specchio che scorre. Ogni tanto salgo a piedi fino al Monte dei Cappuccini per sgranchirmi le gambe e i pensieri. Perché in ogni città serve sempre un posto che sostituisca Viale Europa e il suo panorama sulla spiaggia da una parte e su Cagliari

di GIULIA MELIS

dall’altra. Ora vado in bici e pedalo più di quanto non abbia mai fatto. Eppure persino a Cagliari mi ostinavo nel provarci, perché le salite sono soltanto discese al contrario. Qui bevo Peroni, Poretti, Moretti e tutte le birre commerciali che costan poco. Mi vizio però di tanto in tanto comprando l’Ichnusa per attenuare la nostalgia. Qui ho amici della mia città, che mi hanno aiutata a sentirmi a casa. Perché è proprio vero, noi sardi facciamo sempre “cricca” e a volte siamo un po’ chiusi almeno i turines. Qui non vedo stormi rosa di fenicotteri che volano sopra la mia testa. Ci sono però gli s c o i a ttoli che squittiscono al Parco del Valentino. I portici per le vie del Centro mi faranno sempre pensare a quelli della mia Via Roma che si affaccia sul porto. Ma é la fede calcistica che ci ha unite. Il primo contatto con questa città l’ho avuto in una fredda giornata di gennaio del 2009. Una partita allo Stadio Olimpico di Torino, Juventus - Cagliari. Finì 1 -1, prima Bianco, poi Nedved. E quel che ricordo meglio fu l’esultanza di mio papà in mezzo alla tribuna bianconera. Perché si può andar lontani quanto si vuole, ma crescere con i racconti sul Cagliari del 70, con le prodezze di Riva, Nenè e Albertosi, le partite allo stadio e aver visto con i proprio occhi il colpo di testa di Zola al Sant’Elia è una dolcissima condanna. E come i veri torinese che tifano Toro, una cagliaritana seppur emigrata al Nord avrà sempre nel cuore la sua squadra e la sua città.


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SPEDICATI, PROPRIO LUI N La voce dei Sikitikis: «Anarchico è chi decide di amare davvero»

di LAURA FOIS

ella sua carta di identità la sua professione è “artista”, lo stato civile “libero”. Sono sicuramente i due tratti che più caratterizzano Alessandro Spedicati, che ha rilasciato per City&City un’intervista intima e pop. Reduce da un’estate prolifica caratterizzata da più di venti date in Sardegna con la band di cui è vocalist dal 2000, i Sikitikis, lo incontriamo in “un periodo in cui non riesco a tirar troppo le somme, perché quando finisce un periodo di attività musicale così potente mi lascia un vuoto enorme”. C’è vita dopo i concerti? “Provo una sorta di horror vacui ogni volta che si chiude il sipario del tour. Non c’è niente di più figo di stare sul palco a suonare ma quando smetti ti manca da morire e sembra che quasi tutto quello che fai dopo è inutile. Per un musicista da una parte c’è il lavoro in studio, per cui vado matto, e dall’altra il rapporto col pubblico, che definisco come la differenza tra una storia di sesso occasionale e una storia d’amore duratura e costruttiva. Sono arrivato alla conclusione che bisognerebbe anche dimenticarsi di avere un pubblico perché non lo si possiede.” Il meccanismo del tour è anche logorante, bisogna imparare a proteggersi. “Cambio completamente il sistema di vita. Ho notato che mangio a casa solo quattro mesi all’anno! Non posso non nascondere però che tutto questo abbia anche strumenti rigenerativi.” Può fare a meno della musica un musicista? Ed è vero che i Sikitikis cantano anche “storie per scappare dall’amore”, come dice un verso della canzone Abbiamo perso, il cui disco omonimo è uscito nel 2015? “Sì, sostanzialmente ci inventiamo cazzate. Credo che la nostra società abbia equivocato moltissimo il concetto di amore, scambiando altre cose che non lo sono, per amore. Per la maggior parte di noi sia

il sesso sia la condivisione di spazi della vita con la persona del sesso preferito è un fine. In verità a me sembra che sia tutto un mezzo e che il fine sia qualcosa che non conosciamo e non riusciamo a vedere. La mia idea è che scappiamo dall’amore per sfuggire dal reale. C’è un’altra canzone, Soli, che per me è una preghiera verso l’amore condiviso, cioè una condivisone di una presenza che ci deve aiutare a scoprire davvero dove stiamo andando. Il dialogo in amore lo considero una delle cose più sopravvalutate che esistano. Tutto ciò che mettiamo nel lavoro non dovremmo metterlo nell’amore e viceversa. L’amore è un compromesso nell’equivoco che viviamo, altrimenti non lo è, o ami o non ami”. Segue una breve pausa. “Ovviamente non ci ho capito una mazza! Se la musica mi avesse aiutato a capire qualcosa dell’amore, probabilmente ora farei un altro mestiere”. Si scoppia a ridere. La maturità di un musicista si scopre anche nei momenti interiori che si decide di esternare, estremamente lucidi e caratterizzati da una raffinata leggerezza e un umorismo contagiosi. “Il nome Sikitikis? Un nome di merda”, dopo che l’autrice dell’intervista pensava che fosse una trovata geniale, “per noi è stato un grosso limite non averlo cambiato all’inizio, invece era necessario per far un salto di qualità nel mondo del pop. Il nome è fondamentale e non è un caso che le cose più fighe che siano uscite nel mondo del pop indipendente sia Calcutta, perché è un nome conosciuto, rimanda a molti concetti e luoghi noti. I Sikitikis hanno avuto ad un certo punto l’incoscienza di voler andare avanti con quel nome. È vero che al giorno d’oggi con la comunicazione puoi fare tanto, ma è vero altrettanto che ogni discografico ha storto il naso considerando il nome Sikitikis.”


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Certo, il settore musicale ha attraversato una grande crisi e forse anche il meccanismo della produzione discografica si è dimostrato impreparato ad attutire il colpo generato da Napster, My Space e compagnia cantante. “Pensate che la Sony italiana, la major più importante, nel 2004 aveva sede a Milano in un palazzo di dieci piani, adesso gli son rimasti due piani e quattordici dipendenti. Per dovere di cronaca bisogna dire che il mercato discografico è crollato in Italia più che in altri posti, mentre in America fa il 10% del PIL e in Francia non ha mai avuto una flessione, questo perché son stati presi subito provvedimenti, anche a livello legislativo. Penso che la musica debba essere considerata un’industria culturale. Gli Anni ‘80 hanno fatto un po’ di danni, si è pensato di essere onnipotenti, poi il cambiamento dei cinque giga ha sconvolto tutto”. Ciò non ha comunque ostacolato il processo di creazione musicale e la fruizione di ottima musica. L’incontro decisivo Alessandro Spedicati l’ha avuto con i Subsonica, e non solo per lui “son stati il gruppo italiano più importante degli ultimi trent’anni. Massimiliano Casacci, produttore e chitarrista della band, è stata la persona più importante della mia vita in termini artistici e umani. Per molti anni sono stati la mia unica famiglia, vivevo nella loro stessa città, Torino, ed erano le persone con cui passavo il Natale. Ho lavorato e scritto con loro, è stato un periodo incredibile, quello dal 2004 al 2009, anche se il nostro rapporto inizia prima. È stata l’esperienza principale della mia vita, estremamente intensa, quasi circondata dall’aurea del sogno. Dal punto di vista umano, ho capito quanto sia importante stare con persone che fanno il tuo stesso lavoro perché hai l’illusione di essere compreso e capito, di non sentirti solo in quel pianeta che nutre se stessi chiamato musica”. Oggi molti talent show e programmi TV sono dedicati alla musica. L’entrata in scena di Manuel Agnelli, uno dei massimi rappresentanti del mondo della musica indipendente, come giudice di X-Factor, ha fatto discutere. Per Spedicati il leader degli Afterhours

“ha fatto benissimo ad accettare di far parte della trasmissione. Sono convinto che mostrerà anche ai più scettici che non solo ci sta a far qualcosa ma che dirà e dimostrerà qualcosa in più. Un uomo che ha iniziato come tutti quelli della sua generazione, raccogliendo molto meno di quanto ha seminato, si trova a cinquant’anni a poter capitalizzare la sua esperienza, sta dimostrando che crearsi una sua credibilità paga. È solo questione di tempo. Non dobbiamo avere la pretesa di cambiare le cose, non possiamo condannare uno show televisivo, perché gli stiamo dando troppa importanza. Stiamo anche dando un valore troppo elevato ai soldi. Davvero dobbiamo pensare che una persona come lui si sia venduta al sistema? Allora non abbiamo neanche capito cosa sia il denaro”. Cosa succede in Sardegna? “C’è un’ondata di autori sardi che cantano folk americano, bravi sia cantare sia a scrivere. Posso dire, da una parte, che ci sono cose interessanti artisticamente ma non so fino a che punto commercialmente. Dall’altra, riscontro che in Sardegna si produce davvero tanta musica, spesso all’avanguardia. Abbiamo ottimi produttori di musica elettronica, mentre stanno cominciando a venir meno le band, ma credo sia una questione culturale. Prima, quando ero ragazzino, non ti facevano entrare in discoteca e spesso finivi nelle sale prove. Queste erano davvero il filtro in cui si fermavano gli sfigati! Le donne non ci filavano, non avevamo i soldi per pagarci il motorino, fortunatamente avevamo gl strumenti musicali. Oggi i ragazzi che vogliono fare musica comprano un software e si rinchiudono in casa con gli amici. La musica si fa coi tablet, quindi è più roba da nerd, però si fa comunque. È un periodo di flessione in termini di spazi, concerti, adesso la moda è l’hamburger gourmet, andar a mangiare fuori, cosa che noi non potevamo permetterci”. Così cambia la musica, la moda, le icone, così vede un’artista del suo tempo il mondo fuori e ciò che lo circonda.


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I Metallica sono tornati. Con il loro incedere pesante e potente danno alla luce a “Hardwired...To Self Destruct”. Un album ben costruito e prodotto con una qualità consona alla band. I divi, lo sappiamo, amano farsi attendere. Dopo otto anni di distanza dall’ultima fatica discografica, e i controversi “album di mezzo”, “Load”, “Reload” e sopratutto “St. Anger” che avevano fomentato lo scontento dei fan, ritornano in pista i Metallica (probabilmente la più famosa Heavy metal band al mondo insieme agli Iron Maiden). I buoni riscontri di “Death magnetic”, l’album del 2008, li aveva riportati su territori più consoni alle loro corde ( e alla loro reputazione), facendogli guadagnare un po’ della stima perduta. Tuttavia, in pochi oggi davano credito a un come-back discografico degno dell’illustre passato. «Lo slancio non è più quello dei gloriosi Anni Ottanta», fanno eco i detrattori e l’exploit del “Black album” rilasciato nel 1991, «è solo un ricordo sbiadito».

Contro ogni pronostico la band di San Francisco riesce invece a sfornare un disco di buona qualità. L’opener “Hardwired” è una palese dichiarazione d’intenti. Agguerrita, irruente nelle ritmiche, quasi un omaggio ai Motorhead. “Atlas, Rise!” è tra le migliori del lotto: chitarre in grande evidenza, fulminee e ispirate. Now That We’re Dead ripercorre i sentieri cari al Black Album. Anche “Moth Into Flame” continua la striscia positiva e il piglio battagliero citando felicimente il remoto passato. “Dream No More” è un piacevole mid-tempo che ricorda “Sad But True” dal disco omonimo del 1991. È il turno della cadenzata “Halo On Fire” dai toni epici e in crescendo che chiude il primo disco. “Confusion” si riviste dei toni e del groove di “Master of Puppets”. ManUNkind è un pezzo più ragionato e ipnotico. Here Comes Revenge è il brano più prolisso del lotto, ma si attesta su buoni livelli e si fa notare per le sincopate accelerazioni. Murder One assume un signficato particolare. È dedicata a Lemmy Kilmister il leader dei Motörhead scomparso nel dicembre 2015. Chiude Spit Out the Bone una scarica di adrenalina che non avrebbe sfigurato su “Kill’em All”. Ad ogni modo, i Metallica oggi sono “Hardwired…To Self-Destruct”. Prendere o lasciare.

Hardwired... To Self-Destruct è il decimo album in studio del gruppo musicale statunitense Metallica, pubblicato il 18 novembre 2016 dalla Blackened Recordings. Si tratta del primo album in studio del gruppo a non vedere la collaborazione del chitarrista Kirk Hammett per la composizione di alcuna traccia, a causa della perdita del proprio cellulare nell'aprile 2015 contenente oltre 250 riff da lui composti. Ha debuttato alla prima posizione in 57 paesi, tra cui gli Stati Uniti d'America, dove ha primeggiato, vendendo 282.000 copie fisiche. È stato inoltre il terzo più grande debutto dell'anno nel paese sulle vendite fisiche, dietro a Views di Drake e Lemonade di Beyoncé, e il più alto dell'anno in Germania con più di 200.000 copie spedite nella prima settimana, venendo certificato disco di platino. L'album ha ottenuto il più grande debutto settimanale del 2016 in Australia con 26.000 copie vendute, debuttando al numero uno. In Giappone, invece, l'album ha debuttato alla quinta posizione, vendendo 23.000 copie nella settimana di debutto e al numero uno della Japanese International Albums. A livello mondiale ha debuttato in prima posizione nella Global Chart Album Top 40 con 674.000 copie vendute.

MUSICA E SPETTACOLO

di ANDREA LOI

Ha ancora senso parlare dei Bon Jovi nel 2017? Il flavour degli Anni Ottanta è solo un ricordo. Ma la vera notizia è la dipartita del talentuoso chitarrista e cofondatore Richie Sambora che ha lasciato la band nel 2014. Partiamo da una nota positiva: la copertina. Una foto scattata da Jerry Uelsmann che ritrae una casa radicata nel terreno, malridotta ma impassibile di fronte all’incedere del tempo. È indubbiamente perfetta per simboleggiare il messaggio del titolo del disco: “la casa non è in vendita”. L’incipit è ineccepibile. Trasuda senso di appartenenza e un idealismo di fondo. La musica un po’ meno. La compagine dal 2000 in poi è dedita e ci ha abituato a un pop/rock che ovviamente caratterizza anche l’ultimo lavoro. Discrete e easy-listening la title-track e “Knockout”. Un barlume di rock si coglie in “Roller Coaster” e “The Devil’s In The Temple”. Il resto è molto standarzizzato. I tempi cambiano è vero, ma quelli di “Livin’ on a Prayer” sono davvero molto lontani.


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SPORTIVAMENTE BASKET

UNA SQUADRA SPIRITOSA

Sabrina Sussarello, fondatrice di Spirito Sportivo: <<Trasmetto la mia passione alle giovani>>

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na lunga carriera da giocatrice professionista, iniziata nella Veritas Cagliari, quando allora la serie B femminile era nazionale, esplosa poi nei campionati di A2 (a Castellamare di Stabia, Parma e Chieti) e nella massima serie, in A1 con Schio, poi il rientro nella sua Cagliari, dove non smette di dimostrare il suo amore per la pallacanestro. Sabrina Sussarello adesso segue le sue squadre dalla panchina, dove non dispensa sorrisi, incoraggiamenti e trasmette quello spirito da guerriera e atleta vincente di quando indossava maglietta e pantaloncini. <<Ho fatto del mio hobby la mia passione e poi un lavoro>>, racconta Sussarello, che ricorda: <<son stata per anni la giocatrice più bassa d’Italia ma mi son fatta sempre rispettare, e mi son anche divertita>>. L’anno che ha guadagnato di più prendeva due milioni di vecchie lire al mese, <<ma le straniere prendevano molto di più>>. È stata allenatrice anche di squadre maschili, arrivando ad allenare la serie C. Quando è rientrata in Sardegna, dopo dieci anni, <<ho notato che non era cambiato niente ma da allora ho sempre cercato di portare ciò che avevo vissuto e imparato fuori. Ho giocato e allenato la Virtus e con altre giocatrici sarde che erano rientrate dopo una parentesi fuori, come Angela Natale, Mavi Fara e Betty Murgia, avevamo tentato di risalire in A2. Non ce l’abbiamo fatta al tempo>>. Si cade e si rialza, lo insegna il basket, meravigliosa palestra di vita. Nel luglio dell’89 fonda

di LAURA FOIS

lo Spirito Sportivo, società che forma atleti ed atlete guidandole nell’intero percorso giovanile, dal minibasket fino alla prima squadra in serie B. <<Quello stesso anno ho organizzato un camp solo femminile portando sei giocatrici della nazionale. Ho organizzato l’NBA tour nel 2013 al Porto di Cagliari e anche il Nike skill context. Un anno Nike ha perfino sponsorizzato il Christmas Game, un evento che cerchiamo di organizzare ogni anno per far divertire i bambini. Proprio l’altro giorno mi son resa conto che ho alle spalle 25 anni di organizzazione di camp estivi per tutta l’isola>>. I successi e le gratificazioni sono arrivate anche sul campo: la giovane società annovera quattro titoli regionali e due partecipazioni alle finali nazionali. Parlare del basket isolano oggi per Sussarello significa <<iniziare dal constare la pochezza di talenti, questo perché si deve partire dalla base. Per far emergere la passione, credo ci vogliano un serie di componenti: una buona società, un team coeso, un bravo allenatore. Non ti devi aspettare niente, molte batoste le ho prese da persone in cui credevo. Una delle prime cose che faccio a inizio anno è condividere con lo staff la mission della società, una sorta di carta di valori>>. Il basket in fondo è un antipasto di altre portate che la vita ci mette davanti, è un’occasione di maturità e un percorso di crescita, non solo individuale ma collettivo. Perché non si gioca solo per vincere le partite ma per“esprimere il meglio di se stessi”, come si legge nella mission dello Spirito Sportivo.


BACKGROUND PEOPLE

è un periodico

Anno V N°ZERO FEBBRAIO-MARZO 2017 EDIZIONE CAGLIARI E SUD SARDEGNA Da un’idea di Andrea Loi

E-ditore: Andrea Loi, Web Solutions Internet Company Direttore Responsabile: Giambernardo Piroddi Caporedattore: Laura Fois Grafica e impaginazione: Web Solutions Internet Company In redazione:

Laura Fois, Gibi Puggioni, Giovanni Dessole, Argentino Tellini, Andrew Lloyd, Angelo Sanna, Alessandra Puggioni, Valentina Zuddas, Gianmichele Lisai, Roberta Gallo, Giulia Melis

Stampa: Grafiche Ghiani S.r.l.

Si ringraziano: Eugenio Cossu, Giovanni Gelsomino, Franco Baralla, Grimaldi Sardegna Srl, Assessorato Settore alle Politiche Culturali del Comune di Nuoro, Assessore alla Cultura Sebastian Cocco, Radio X, Sergio Benoni, Comune e Città di Cagliari, Alioth Consulenza Srl, Ideal Sistem Srl, Vito Senes, Sarda Forniture Professionali, Il Rosso e il Nero Snc, M°Angelo Sanna, Gavino Sanna, Hotel Edera, Alessandro Tamponi, Alberto Cocco, Officine Sarvi Soc. Coop. , RADIOX, Sergio Benoni

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