IL CUBO - n.14 Autunno 2015

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note di vita universitaria rivista trimestrale

Pierre Gonnord,Vengador, 2014

autunno 2015 n.14 anno 25 terza serie

CIRCOLO in visita alla mostra di El Greco a Treviso VITA UNIVERSITARIA Gli impiegati amministrativi Unibo POESIA Approfondimenti su Francesco Benozzo MUSICA La stagione 2016 del Teatro Comunale di Bologna LIBRI La brigata partigiana Giustizia e Libertà ‘Montagna’ EVENTI Foto/Industria, le mostre di Burtynsky e Gonnord ALTRE NOTE ‘Guerra inFame’, un portale realizzato dagli Istituti Storici dell’Emilia Romagna / Folco Quilici e gli animali nella Grande Guerra / Dynamo, la nuova velostazione di Bologna


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Il Sovrano e Venerabile Ordine del Fittone, somma magistratura della goliardia bolognese, ristabilì nel 1984 una copia del piccolo monumento nel luogo dove si trovava l’originale dal 1912, trasferito da via Spaderie, sparita con il rifacimento del Mercato di Mezzo, ora via Rizzoli. L’originale è esposto al museo degli Studenti, palazzo Poggi. La scritta al piede, con i nomi dei dedicatari, dice: “Exemplum alumnorum reverentiae reducit” cioè (l’Ordine del Fittone) riconduce la copia alla reverenza degli studenti. Marco Bortolotti

autunno 2015 n.14 trimestrale anno 25 terza serie Direttore Responsabile Fausto Desalvo Caporedattore Vito Contento Redazione Gaetano Baldi, Marco Bortolotti, Cecilia Carattoni, Francesco Cattaneo, Jonny Costantino, Daniele Levorato, Mauro Querzé, Pio Enrico Ricci Bitti Progetto grafico e impaginazione Cecilia Carattoni, Vito Contento Editore CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna via Marsala 31 Bologna Prezzo per copia € 0,77 Abbonamento annuo (4 numeri) € 3,08 Hanno collaborato a questo numero Valentina Barbieri, Angela Ghinato, Giovanni Neri, Arialdo Patrignani, Daniela Peca, Sarah Tardino Sede CUBO / Circolo Dipendenti Università Via. S. Giacomo 9/2 Bologna Tel. 051251025 cubo.info@unibo.it

Una realizzazione editoriale di

Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2 comma 20/B legge 662/96 Filiale di Bologna - Registrazione Trib. di Bologna n. 5682 del 26.1.1989 ISBN 978-88-491-3912-9

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SOMMARIO CIRCOLO / andar per mostre 4. El Greco in Italia di Arialdo Patrignani

VITA UNIVERSITARIA 6. Unitate Melos di Marco Bortolotti

POESIA 8. La rivolta delle felci di Francesco Benozzo di Sarah Tardino

10. Intervista a Francesco Benozzo di Sarah Tardino

MUSICA 12. La stagione 2016 del Teatro Comunale di Giovanni Neri

LIBRI / storia 14. Giustizia e Libertà in Montagna di Angela Ghinato

EVENTI / fotografia 18. La macchina e la polvere di Francesco Cattaneo e Valentina Barbieri

22. Rendez-vous a Santa Maria della Vita di Daniela Peca

ALTRE NOTE 25. Recensioni brevi di Vito Contento

EDITORIALE C’è una nuova Fondazione, un nuovo luogo di ricerca, un centro di produzione culturale, di promozione e sostegno delle arti a Bologna. Basta andare a visitarne la meravigliosa sede in via Speranza, per rendersi conto dello spessore e dell’alto profilo dell’Istituzione che stiamo segnalando. E’ il MAST e si chiama come l’albero maestro delle navi in lingua inglese, sta per MANIFATTURA di ARTI, SPERIMENTAZIONE e TECNOLOGIA e “intende favorire lo sviluppo della creatività e dell’imprenditorialità tra le giovani generazioni, anche in collaborazione con altre istituzioni, al fine di sostenere la crescita economica e sociale”. Un’istituzione che è nata in sordina ma ha già conquistato il cuore dei bolognesi grazie anche al successo della seconda edizione della biennale Foto/Industria: dodici mostre di cui dieci nei più importanti palazzi nel centro storico della Città (una delle quali a Palazzo Poggi dell’Università di Bologna) e che in questo numero approfondiamo con articoli di Daniela Peca, Valentina Barbieri e Francesco Cattaneo. In passato ci siamo occupati molto di canzone d’autore ed è stata per noi una piacevole sorpresa scoprire fra i ricercatori UniBo un candidato al Nobel per la Letteratura, proposto per la sua opera poetica a contatto con la canzone. Si tratta di Francesco Benozzo, accademicamente parlando, ricercatore in filologia al Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne, specializzato in linguistica romanza e celtica che svolge le sue ricerche soprattutto nell’ambito delle tradizioni orali. Scrive canzoni che canta accompagnandosi con l’arpa e fra l’altro è stato nel 2009 finalista al premio Tenco. E’ Sarah Tardino in questo numero ad offrirci un ampio approfondimento sulla sua opera più recente e sulla sua avventura di candidato al Nobel. Sempre nell’ambito della musica si inaugura in questo numero una rubrica del prof. Giovanni Neri, il quale offrirà gentilmente a “Il Cubo” un’appassionata e sapiente lettura della proposta operistica e di musica sinfonica nel territorio Bolognese. La rubrica non poteva che iniziare con l’analisi della nuova stagione del Teatro Comunale di Bologna, cuore pulsante della città e della cittadella universitaria. Pubblicato da Pendragon, fra i libri che sono pervenuti in redazione negli ultimi mesi, abbiamo notato l’importante opera del prof. Pier Giorgio Ardeni, ordinario di Economia politica e dello sviluppo. Si tratta di Cento ragazzi e un capitano. La brigata Giustizia e Libertà “Montagna”, libro che racconta quella che fu l’avventura a tratti eroica, a tratti dolorosa, fondamentale per la liberazione dell’Italia dal Nazi-Fascismo, del gruppo di giovani partigiani che lottarono sugli appennini bolognesi. Il libro è recensito qui da Angela Ghinato, dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Vito Contento

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CIRCOLO / andar per mostre

Casa dei Carraresi , Treviso

EL GRECO in Italia Ad un anno di distanza dalle celebrazioni spagnole per il quarto centenario dalla sua morte anche in Italia si onora El Greco. di Arialdo Patrignani

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Domínikos Theotokópoulos detto El Greco, Cristo morto in croce, 1573/1574, Olio su tela, 67,5x42 cm, Collezione privata

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Treviso nella suggestiva Casa dei Carraresi è in corso fino al 10 aprile 2016 la mostra “El Greco in Italia - Metamorfosi di un genio”. La qualità dell’esposizione è garantita dal suo curatore Lionello Puppi, uno dei maggiori conoscitori dell’opera del maestro cretese. La mostra pone l’accento su due aspetti: il periodo trascorso in Italia tra il 1567 ed il 1576, fondamentale per la sua formazione, e l’eredità raccolta dai maestri dell’arte contemporanea. Partendo da queste premesse, il circolo universitario con l’impagabile professoressa Vera Fortunati, ha visitato la mostra. Domínikos Theotokópoulos nacque nel 1541 a Candia, nell’isola di Creta. Dal 1204 l’isola era dominio della Serenissima Repubblica di Venezia. In questa piccola comunità multiculturale convivevano la religione cattolica e quella greco ortodossa; lì anche il mondo dell’arte era diviso tra artisti tardo bizantini e veneto-cretesi. El Greco assecondava con successo il gusto di una committenza eterogenea, non esclusivamente orientata alla maniera greca; con questa logica si spiega la prospettiva presente nel San Demetrio. Il senso di spazialità è invece assente nella tavola Cristo Grand’Arcivescovo in trono e donatori, dipinta da Michael Damaskinós che pure era pittore cretese del ‘500. La decisione di confrontarsi con i maestri italiani porterà El Greco a lasciare Creta e gli affetti più cari per approdare a Venezia. Nella città lagunare conosce Tintoretto, Tiziano, Jacopo e Leandro da Bassano; assimila rapidamente, senza farsi omologare, la loro maniera. Le tonalità scure, care ai pittori veneti, saranno una costante nelle sue opere. Una delle prime commissioni veneziane è stata l’Altarolo portatile del Miles Christi, noto anche come Trittico di Modena. L’altare è un opera cruciale nel percorso artistico di El Greco: in esso convivono armoniosamente i caldi colori delle icone bizantine e le pastose tinte scure della pittura veneta. Nel 1570 l’artista si trasferì a Roma dove venne folgorato da Michelangelo. Diventando pittore


di corte dei Farnese restò affascinato dal Parmigianino. Le figure allungate del maestro parmense influenzarono notevolmente la nuova cifra stilistica del pittore cretese. Nell’ambiente romano diventò amico di Giulio Clovio, importante miniatore croato del Rinascimento. L’amicizia è testimoniata dal ritratto che il maestro cretese fece al “Michelangelo della miniatura” come Clovio era definito dai suoi contemporanei. L’opera è stata concessa alla mostra dalla collezione Schorr di Londra. Nel catalogo Massimo Cacciari parlando del tema delle Crocifissioni che sono in esposizione scrive: “Il cielo intorno a lui si oscura; l’ora segna la notte del mondo; ma la sua figura è integra e scende armoniosamente lungo il legno; i suoi occhi restano bene aperti, rivolti all’alto; nessun “grande grido”, nessun abbandono e fiduciosa accoglienza della volontà del Padre”. A seguito del tormentato rapporto con i Farnese, El Greco lascia l’Italia ed approda in Spagna, senza conoscerne la lingua. Dopo un breve soggiorno a Madrid, egli si stabilisce definitivamente a Toledo, città dell’inquisizione e dell’ortodossia più intransigente. Lontano dalla corte di Filippo II, che lo avrebbe costretto ad uniformarsi ad un linguaggio pittorico rigido, egli prosegue in solitudine il percorso del suo stile visionario. Le figure sono forme spettrali, diafane e anatomicamente imperfette, ma conservano una caritatevole tenerezza. Dopo la morte di El Greco le sue opere furono dimenticate fino a quando, prima Manet, poi i maestri del Cubismo e gli artisti dell’avanguardia riscoprirono la grandezza del suo valore artistico. Essi videro in lui il modello di riferimento per una serie di rielaborazioni del suo linguaggio pittorico. L’allestimento si conclude con il confronto tra alcuni dipinti del maestro cretese e le opere di Bacon e Picasso. Il paragone rende evidente che El Greco è stato da esempio sia per l’umanità straziata rappresentata dalle due Crocifissioni di Francis Bacon, sia per il tema de Les Demoiselles d’Avignon, raffigurate in un disegno su cartone che il genio andaluso rifece cinquant’anni dopo la prima versione. Usciti dalla Casa dei Carresi noi del circolo universitario ci dirigiamo in Piazza Santa Maria Maggiore. Di fronte alla Chiesa della Madonna Grande c’è la trattoria “All’Antico Portico”. Sono convinto che El Greco avrebbe gradito il lauto pranzo che ci è stato offerto: soppressata di salame e purea, risotto trevigiano, filetto di manzo con patate al forno e un Cabernet Sauvignon rosso. Prima di lasciare Treviso, il gruppo si concede una piacevole passeggiata tra le vie della città che è ricca di vestigia medievali.

El Greco, Adorazione dei pastori, 1570, tempera su tavola El Greco, Guarigione del cieco, 1573/1574, olio su tela

El Greco, San Demetrio, 1565/1566, Dipinto su tavola, 27,4x21,9 cm, Collezione privata

“Il cielo intorno a lui si oscura; l’ora segna la notte del mondo; ma la sua figura è integra e scende armoniosamente lungo il legno.”

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VITA UNIVERSITARIA

UNITATE MELOS B

di Marco Bortolotti

Staff amministrativo Unibo, anni ‘80

el motto per l’amministrazione e per amministrare l’Università. Tradotto con il latinuccio delle medie, sarebbe: canto, melodia nella concordia. Sul Cubo spesseggiano professori, troviamo notizia di mostre e nuove imprese universitarie, idee, viaggi, sport e più raramente, gli studenti. Mai, un vero mai, l’amministrazione campeggia sulla rivista eppure l’Università è una e trina. Professori, studenti ed impiegati formano in Bologna una trinità millenaria riconoscibile nei luoghi e gesti, che si mantiene e dura soprattutto con la sua stabile, disciplinata, esperta, docile (cioè disposta ad imparare) amministrazione. Gli studenti se ne vanno con la coroncina d’alloro cantilenando babbei quel “Dottore, dottore…”, che fa rimpiangere le strambe oscenità del tempo trascorso. I professori poi, estranei od indigeni che siano, arrivano vincitori e a volte se ne vanno in sedi e cattedre appetite. Diamo spazio allora ad una fotografia dell’amministrazione degli anni Settanta del secolo passato commentata con il motto in epigrafe e con i ragionevoli sentimenti ispirati dalla constatazione, ovvia e condivisa, che l’Università, quindi l’amministrazione - ossequiando e perseguendo specifiche finalità istituzionali, formazione, didattica e ricerca - accarezza un benvenuto modello organizzativo più vicino alle esigenze ed opportunità delle professioni, imprese, industrie. Aderendo al modello, l’amministrazione abbandona modalità burocratiche e notarili per approcci manageriali importati. Così il direttore amministrativo non è più il funzionario prossimo alla pensione che giunge alla carica per anzianità, ma un giovane direttore generale che aspira all’incarico, scelto e nominato. Se come recita un avviso affisso all’Archiginnasio -luogo incomparabile, maestoso ed incantevole -, “ la memoria è il nostro futuro dietro le spalle”, la fotografia non sia il ritratto di un palcoscenico amministrativo sparito. E’ foto festosa. Salutiamo, con laboriosa fiducia, il nostro direttore Fantazzini, uomo severo e giusto. Figlio di bidello, per lui l’Università, l’amministrazione, erano passione di vita, non incarico transeunte. La fotografia mostra un gruppo concorde e coeso, con valori condivisi. Fantazzini sapeva per averlo svolto in ogni forma, minima e massima, che il vero lavoro è fatto da collaboratori inosservati. Conosceva la realtà amministrativa, pratica e grammatica dell’istituzione. Conoscitore innamorato, sapeva che le strutture universitarie vanno avvicinate circospetti. Organismi intrecciati di saperi rari, soggetti a ristrutturazioni risparmiose, sfuggono dal letto di Procuste. Le novità organizzative che favoriscono responsabilità e motivazioni, abbandonando gerarchie tradizionali affliggenti, corporative e conformiste, disadatte a riconoscere meriti individuali, hanno bisogno di comportamenti leali, interiorizzati, divenuti cioè parte integrante della personalità coscienziosa di impiegati che si identificano con i fini organizzativi. Raccogliere, preservare i momenti di storia amministrativa universitaria, così caratteristica, distesa nel tempo che permanendo, diventa forma e modello nel succedersi delle generazioni impiegatizie, significa distanziarsi da attualità avvolgenti e a tratti soffocanti, significa soprattutto acquisire consapevolezza di ciò che rende diverso l’impiegato, il tecnico universitario da faune burocratiche satireggiate. L’impiegato orgoglioso del suo mestiere universitario segue volentieri i comandamenti, non i comandi. Benvenute allora tutte le proteiformi novità universitarie, saldate però al vincolo emotivo che stringe i colleghi antichi qui ritratti.

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POESIA

Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture Moderne / ed. Kolibris

La rivolta delle felci di FRANCESCO BENOZZO La raccolta di poesie del ricercatore UniBo candidato al Nobel. di Sarah Tardino

E c’era un orizzonte fosco-ruggine/ di foreste salate, acide, oblunghe/ dentro un ronzio scomposto di viandanti/ senza sentieri e senza antichi canti/ solo un cadere-implodere-spez-

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Le immagini di queste pagine ritraggono Francesco Benozzo

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n onomatopeico stupore coglie il lettore delle sinfoniche vegetazioni di Benozzo, davanti a questo poema della natura umana si può dire: meraviglia! Meraviglia! Anzitutto la forma poema tocca merce rara e, per questo, ancor più delicata il cui spaccio è cosa tanto audace per i moderni da essere quasi un tabù, specie nelle nostre contrade strette fra minimalismi sterili e stucchevoli verismi, ma questo professore ha la corazza dell’antropologo, non teme alcun azzardo e col poema si cimenta risultando vittorioso. E devo dire che stupisce la tenuta tematica e lirica dell’intera opera raffrontata poi con certi fallimentari tentativi dei moderni. Il poema è cosa ardua in un tempo senza epica, perché la sua essenza è assolutamente epica, e coloro che lo praticano devono possedere la grammatica e soprattutto la dialettica interiore (cioè un’autocritica epistemologica) di un’epopea silente, psichica, personalissima, grandemente classica e radicata nei modelli stereotipi della grande letteratura. Insomma, come ci ha insegnato di recente Seamus Heaney, la grande poesia non è, non può essere mai, poesia ingenua nel senso volgare e non etimologico della parola sgorgata da tremule corde; la grande poesia è poesia anzitutto colta e consapevole della sua origine. E Benozzo (che a proposito di corde suona l’arpa e come cantautore, autore di una decina di CD, è stato di recente finalista Premio Tenco) in questo se la ride perché è un romanzo che pratica l’amabile dono delle muse, uomo davvero coltissimo e fine glottologo, ma anche – cosa niente affatto scontata – con un grande gusto per la lingua. Perché in ultima analisi la poesia è una questione di gusto per la bella lingua. Una buona poesia può non avere mirabili contenuti, può parlare dantescamente di storia patria o leopardianamente di vita dell’anima, ma deve farlo con una lingua che abbia in sé lo sfavillio ritmico della ballata; altrimenti è uno schifo mascherato politicamente da roba pubblicabile. Se ne sono accorti a Stoccolma, infatti in Nostro è candidato al Nobel per la letteratura. Ma adesso la smetto di cianciare e dò un esempio:

zarsi/ le rovine degli angeli di pietra/ le cadute degli angeli di vento/ il disseccarsi degli abbeveraggi /le antiche vie ridotte a geroglifici./ Noi ci appartammo – poggio di confine –/ per cercare parole come mari/ sillabe bianche di segale chiara/ e versi somiglianti ad altre isole. È subito chiaro che non si tratta di un paesaggio idilliaco, c’è un orizzonte, ma richiama immediatamente la teoria della siepe di leopardi e delle mura adamantine di Locke. È fosco, logorato, fino ad essere arrugginito, così anche le fitte foreste sono salate, acidule e popolate da viandanti senza meta poiché quelle che questi viandanti hanno smarrito è il canto orientatore che possa condurli ad una meta vera e propria. Ci sono attorno solo rovine che, essendo rovine, paiono più nobili, accennano ad una grandiosa caduta, una caduta angelica addirittura che corrisponde all’implosione di angeli che sono però pietra e vento, quindi a priori senz’anima (e for-


Ciò di cui io racconto: di altri mari/ di cetacei arenati in Appennino/ di vita e morte dentro i corpi umani/ delle folle disperse degli abeti/ della risacca grassa d’erba medica/ calpestata dall’uomo-dei-confini/ di ventri in geografie biancolunate./ Passavano le pecore del sogno/ le lingue stanche ruvide di squame/ e i boschi negli incendi dell’autunno./ Ciò di cui io racconto:/ in qualche conca da qualche conca/ rosicchiata e grigia/ da una soglia del vuoto – cuore a pezzi/ – dal più furtivo rantolo di artigli/ da là veniva l’uomo ossa-slogate/ l’uomo azzurro dai passi impercettibili/ che incede e inciampa – fango, scricchiolio –/ che incede, inciampa, cuore a pezzi, grigio. Il racconto mitologico è di pachidermi arenati in mari terresti e, anzi, dichiara Benozzo, dentro i corpi umani e dei paesaggi in cui si aggirano questi uomini dei confini unici veri “viventi e veggenti”. Perché le lingue sono sfinite dal loro uso improprio anti-storico e così si consuma nell’autunno della decadenza; il poeta dice che ciò di cui parla dietro le fronde del suo poema di una natura aspra è null’altro che l’uomo, l’uomo malridotto dal fallimento della sua umana utopia di perfezione. È memore dell’uomo azzurro, il cavaliere che ha solcato la luminescenza del primo Novecento, ma oramai ingrigito come un vecchio re Artù privato delle forze da qualche maleficio e da un grandioso tradimento. Ed ecco che ci avviciniamo al cuore del poema: Il poeta ama i versi che lo uccidono/ il marinaio annegato ama quel mare/ da sempre esiste un cuore tormentato/ disposto a tutto per la fiamma che lo annienta/ non lascia tracce l’isola del mio corpo/ i miei poemi non viaggiano su rotte vaste/ e il mio sangue è soltanto una scusa./ Ma in fondo, usciti da Firenze e Smirne/ raggiunte le ottantuno lingue del mondo/ e i milioni di case e di scaffali/ Omero e Dante hanno lasciato tracce?/ debellato i latrati dell’inferno?/ o le combriccole, ad Itaca, di proci?/ Ho perso fede in barche controvento/ nella parola che rifonda il mondo/ un solo ramo che si allunga nell’aria/ risuona e plasma più di cento canti./Ma un poeta ama i versi che lo uccidono/ e il marinaio annegato ama quel mare Il poeta è ucciso dai versi che ama poiché essi assorbono la sua vita, lo risucchiano, e ama il suo male come il marinaio ama il mare in cui annega poiché la letteratura ha una natura

Franco Fortini

se per questo cadenti); non c’è più acqua per abbeverarsi su questo percorso e le vie dell’antichità sono illeggibili. E all’improvviso appare dal suo late biosios un “noi” che è un confine, un confine baluardo che distilla mari, sillabe incontaminate e altre dall’orizzonte disseccato che si presenta; versi che somiglino ad altre nuove terre, terre isole, microcosmi, quindi in sé compiuti. Quello di cui il poeta parla è l’esistenza e la resistenza ascosa della lingua poetica. Ne emerge dunque un dato con certezza: il paesaggio vegetativo di cui parla Benozzo, l’appennino soprattutto che vedremo fare da sfondo alle sue peregrinazioni fra le fratte, è un paesaggio del tutto interiore e trasfigurato dal filtro di un’alta nobile conoscenza e coscienza letteraria. L’appennino è la spina dorsale di una psiche che si espone, ben corazzata dal suo manto retorico ma pur sempre frontalmente data.

È uomo davvero coltissimo e fine glottologo, ma anche – cosa niente affatto scontata – con un grande gusto per la lingua. ancipite faustiana e non sempre salvifica. È una dichiarazione poetica, il corpo del poeta, il corpo lirico del poeta, la consistenza della sua poesia, così come la sua fama, è isolata (ma diremmo come l’isola di Ungaretti o come “l’universo che mi spazia e m’isola” di Gatto); siamo in presenza di una poesia reduce da una lotta di trincea, una lotta interiore, una lotta contro il tempo mondano che è acronico al tempo poetico. Perché quello che vuole la grande poesia è sempre solo la lotta suprema contro l’immanenza, la battaglia di Orfeo con la sua misera cetra che sfida gli inferi. Il poeta dice di aver perso fede in una parola fondatrice e si affida ad un diverso orfismo, quello della natura, che irrompe e tuttavia non può in alcun modo rinunciare al suo daimon e allora ritorna l’azzurro sotto forma di fauna e metamorfosi antica: Se come un faggio, come un faggio azzurro/ se ho tremato al passaggio delle sere/ se come la marea dei golfi atlantici/ se ho potuto tremare – vento, mare –/ se il vento, il mare, le inaudite alture/ e le spinose graie del mattino/ hanno raggiunto i campi d’Appennino/ è per via della luna epiglaciale/ dei fragori nel vuoto biancopallido/ taciturno brusio mitocondriale/ le traslucide resine di luna/ hanno estirpato dalle mie parole/ lo sfacelo barbarico del sole e io racconto, adesso, vita e morte/ dopo che cadde l’ultimo dei mondi Il poeta è consapevole di aver tremato nel novero dell’immanenza, perché la sua consapevolezza poetica era all’altezza oceanica del tremore e del terrore da questa dettate e perché un sacrificio è stato consumato, ed è quello della lingua e nella lingua, di cui rimane l’unica consapevole certezza: la poesia è per chi la pratica l’unica via praticabile, continuare questa antica sapienza l’unico scopo. Questo straordinario poema, il cui autore lodano oltralpe, Felci in rivolta con a fronte la traduzione in inglese di Gray Sutherland è edito da Kolobris nel 2015, compratelo leggetelo e amatelo, ve lo consigliamo.

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POESIA

Intervista a Francesco Benozzo L di Sarah Tardino

a sua opera è complessa e sfaccettata. Come nascono le varie anime della sua natura di artista e studioso poliedrico?

Ho sempre provato a pensare che si tratti di qualcosa di simile a una struttura geologica, i cui sedimenti più profondi sono quelli della poesia, e i cui affioramenti di superficie, a volte poco riconoscibili come facenti parte dello stesso paesaggio (può risultare difficile, ad esempio, concepire come appartenenti allo stesso mondo un saggio sul lessico protoindeuropeo e l’incisione di un canto di migrazione del primo Novecento), provano comunque a rivelare ciò che ancora non è emerso da quei fondali in forma compiuta. Quale ispirazione pone l’innesto della sua storia accademica di filologo romanzo con quella di poeta e musicista?

Faccio un mestiere bellissimo, che spesso, per come l’ho concepito e lo concepisco, e cioè come pratica di quella che io chiamo etnofilologia, mi porta a contatto con luoghi e tradizioni che sono già essi stessi affioramenti di poesia (mi riferisco alle inchieste sul campo in aree linguisticamente marginali, agli studi sui dialetti, sui nomi preistorici dei luoghi, o su tradizioni orali di tipo narrativo o musicale). Da questo punto di vista le tradizioni su cui lavoro e i territori in cui mi muovo possono diventare, dentro di me, tradizioni e luoghi in cui sento che vive anche la mia poesia. Non sarà poi un caso, tra l’altro, che un grande poeta italiano del secolo scorso, Giosuè Carducci, insegnasse proprio filologia romanza nella nostra università. Come è nato il suo interesse per la musica e la sua scelta dell’arpa celtica come strumento? Quando avevo vent’anni vidi un’arpa irlandese in un negozio di musica, a Bologna, e con i soldi che avevo guadagnato raccogliendo la frutta d’estate decisi di comprarmela. Poco alla volta mi accorsi che riuscivo in qualche modo a strimpellarla. Ho poi approfondito la mia tecnica negli anni in cui ho vissuto in Galles, sempre in ossequio a una tradizione orale che rifiuta o non riconosce come forma musicale la trascrizione delle note, e adesso ho quattro arpe. Al mondo celtico mi ero già interessato leggendo da ragazzo i romanzi del ciclo bretone e le traduzioni dei cicli epici irlandesi alto-medievali, forse anche spinto dal fatto che nel fregio di una delle porte del duomo di Modena (la porta della Pescheria) è scolpita una delle più antiche attestazioni narrative della leggenda arturiana. Qual è lo spazio della poesia nel suo orizzonte semantico? Mi auguro che sia lo spazio semantico per eccellenza. In ogni

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caso, è certamente così dentro di me. È stato lieto di essere candidato al premio Nobel? Come ho già detto in un’altra occasione, credo che il desiderio di essere elogiati o riconosciuti sia l’unico tratto che accomuna tutti gli esseri umani, e che anche quelli che affermano o mostrano di essere indifferenti a tutto, non siano indifferenti ai complimenti. Una candidatura al Nobel è qualcosa di enorme, e le mentirei se le dicessi che mi ha lasciato indifferente. Considerando poi che la mia si presenta come una candidatura per molti aspetti “surreale”, o – come è stato detto, credo correttamente – come una “candidatura di protesta”, si aggiunge anche una specie di empatia con la mia visione anarchica della realtà, che mi fa guardare a questo episodio della mia vita come a qualcosa di insensatamente sensato. Quali sono i suoi progetti di studio e composizione futuri? Per quanto riguarda gli studi, ho licenziato da poco tre libri a cui ho lavorato per molto tempo (il Dizionario semantico-etimologico della lingua italiana, scritto insieme a Mario Alinei, un volume sulle Origini sciamaniche della cultura europea e una monografia piuttosto impegnativa proprio su Carducci) e sto per pubblicare un’opera in tre volumi intitolata Il giro del mondo in ottanta saggi, che raccoglie in circa 1600 pagine una parte dei miei studi etnofilologici e linguistici. Per la musica, a parte alcune nuove canzoni che vorrei prima o poi incidere, ho sempre in mente di comporre una sinfonia appenninica per arpa e spero di poterci lavorare a breve. Per la poesia sto lavorando da un po’ di tempo a un lungo componimento intitolato Corpoema, il quale ha dentro di me le caratteristiche di un’opera inglobante e vasta, e a cui è cioè possibile che lavori ancora per alcuni anni.


Scheda biografica a cura di Sarah Tardino

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oeta, musicista e filologo, Francesco Benozzo è nato a Modena nel 1969. Dopo la laurea in Lettere a Bologna (1992) ha conseguito un dottorato in Filologia romanza a Bologna e uno in Filologia celtica alla University of Wales. Nel 2000 è stato “Poet in residence” al Wordsworth Trust, nel Lake District, la dimora in cui visse il poeta inglese William Wordsworth. Ha vissuto per lunghi anni in Galles, e successivamente sull’Appennino modenese. Autore in particolare di poemi epici, è stato candidato quest’anno al Nobel per la letteratura per la sua poesia incentrata sui paesaggi naturali, sulla composizione orale e sulla performance più che sugli scritti. Si ricordano Fondazioni / Strofe dell’alluvione vegetale (“La questione romantica”, 2006), Bretagne des Apennins (pubblicato in Bretagna su “Hopala!” nel 2008), Gondomar. Poema dei fondali (pubblicato in Galizia su “A Trabe de Ouro” nel 2008), Clogwyn Clarach, un lungo poema in lingua inglese sulla scogliera di Clarach, nel Galles centrale, uscito su “The Welsh Planet” nel 2006. Nel 2014 ha pubblicato Onirico geologico per l’editore Kolibris, editore per cui è appena uscito Felci in rivolta, con traduzione inglese a fronte di Gray Sutherland. Benozzo Ha rappresentato la poesia italiana alle ultime edizioni del “Printemps des poètes” francese, allo “Stanza Poetry Festival” di Edimburgo e al “Festival Literario de Madeira”. Nel 2002 è stato scelto per coordinare il primo workshop di scrittura nei paesaggi al “Rich Text Literature Festival” di Cardiff. La sua poesia Luna epiglaciale (apparsa su “Semestrale di ricerca transdisciplinare”, 5, 2013) è stata inclusa nella nuova edizione dell’antologia di poeti del mondo World Poetry. An Anthology of Verse from Antiquity to our time (New York, 2014). Come cantautore e arpista ha realizzato 8 album, prodotti in Italia, Gran Bretagna e Danimarca, e presentati in diversi festival internazionali, tra cui, di recente, al “Summartonar” danese (edizioni 2011 e 2013) e al festival Folk “Tradicionarius” di Barcellona (2013). Vincitore nel 2004 e nel 2007 di due menzioni speciali della critica ai “Folk Awards” di Edimburgo, nel 2010 è stato finalista al Premio Tenco per la musica d’autore. Ha vinto per due volte (2013 e 2015) il Premio Nazionale Giovanna Daffini per la musica. Tra i suoi album: In’tla piola (Sain Records, UK, 2001), Llyfr Taliesin / Il libro di Taliesin (Frame Events, ITA, 2004), Terracqueo (Tutl Records, DK, 2009), Libertà l’è morta (Tutl records, DK, 2013), con Fabio Bonvicini e Ponte del diavolo (RadiciMusic Records, ITA, 2014). Come filologo è il fondatore dell’etnofilologia, una “indisciplina” nella quale i documenti antichi sono considerati con una metodologia etnografica e secondo un approccio di tipo libertario e anti-autoritario, e i cui principi sono stati esposti nei due libri Etnofilologia. Un’introduzione (Napoli, Liguori, 2010) e Breviario di etnofilologia (Lecce-Brescia, PensaMultimedia, 2012). Tra gli altri suoi volumi etnofilologici: La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze (Roma, Viella, 2007), Cartografie occitaniche. Appros-

simazione alla poesia dei trovatori (Napoli, Liguori, 2008), DESLI. Dizionario Etimologico-Semantico della Lingua Italiana (Bologna, Pendragon, 2015), con Mario Alinei. Come filologo in senso stretto ha all’attivo, accanto a numerosi studi, la traduzione dei Poeti della marea. Testi bardici anctico-gallesi dal VI al X secolo (Bologna, In forma di parole, 1998), l’edizione de Il Gododdin: poema eroico antico gallese (Milano, Luni, 2000), l’edizione critica del Tristan et Lancelot di Pierre Sala (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001) e l’edizione del Ceccardo di Lorenzo Viani (Viareggio, Mauro Baroni, 2004). Tra gli altri suoi libri: Landscape Perception in Early Celtic Literature (Aberystwyth-Oxford, Celtic Studies Publications, 2004), Dizionario del dialetto di San Cesario sul Panaro, 3 voll. (Bologna, Istituto per i Beni Culturali della Regione EmiliaRomagna, 2006-2008), Alfred Bassermann: Orme di Dante in Italia (Bologna, Forni, 2006), Origens célticas e atlânticas do megalitismo europeu (Lisboa, Apenas Livros, 2009), Le origini sciamaniche della cultura europea (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015) e il recentissimo Carducci (Roma, Salerno Editrice, 2015; con edizione affiancata distribuita dal “Corriere della Sera”). Benozzo è il direttore delle riviste internazionali “Philology. An International Journal on the Evolution of Languages, Cultures and Texts”, pubblicata dall’editore Peter Lang (Bern, Oxford, New York) e da lui stesso fondata, “Studi celtici” (Edizioni dell’Orso, Alessandria), “Quaderni di Semantica” (Edizioni dell’Orso, Alessandria) e “Quaderni di Filologia romanza” (Pàtron, Bologna). Come intellettuale anarchico, ha contribuito alla teorizzazione di un’epistemologia anarchica legata a un nuovo umanesimo, in particolare esposta nel libro-intervista Anarchia e Quarto Umanesimo. Un’intervista su irriverenza, scienza e dissidenza (Bologna, Clueb, 2012) e nell’Appello all’Unesco per liberare Dante dai dantisti (Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013). Nel già citato album Libertà l’è morta, ha poi riscoperto e riproposto la tradizione del canto anarchico italiano di fine Ottocento e inizio Novecento, fornendo un contributo prezioso e nuovi materiali inediti agli studi sulla canzone libertaria.

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MUSICA

La stagione 2016 del Teatro Comunale Belle novità, luci ed ombre.

Il suono giallo, Teatro Comunale di Bologna (foto di Rocco Casalucci)

di Giovanni Neri

I

l nuovo management del teatro insediato lo scorso anno ha iniziato un’opera di rinnovamento che vede alcuni cambiamenti significativi sia dal punto di vista organizzativo che culturale. Iniziamo dal primo punto. Innanzitutto la stagione sinfonica viene riportata nel suo alveo naturale ovvero quello del teatro. L’anomalia dell’uso del teatro Manzoni che ha lasciato di fatto inutilizzato il teatro per lunghi periodi (a costi però costantemente correnti) pare finalmente avere raggiunto il capolinea. E’ ben vero che il teatro Manzoni appartiene al teatro comunale ma la non utilizzazione della bellissima sede del Bibiena è stata a lungo un’assurdità difficilmente giustificabile. In questo contesto andrebbe analizzata la situazione gestionale e amministrativa del teatro di via Manzoni ma riserviamo l’argomento a un prossimo articolo in cui analizzare anche il rapporto “problematico” fra orchestra del teatro e orchestra filarmonica. Il secondo punto riguarda la politica dei prezzi e in particolare quella rivolta ai giovani. E’ questo un argomento di primaria importanza ovunque ed è certamente significativa la decisione di offrire abbonamenti a prezzi del tutto popolari per gli under 30 (per l’operistica e balletto “prime” platea 180€ per 9 spettacoli - Attila, El Amor Brujo, Carmen, Carmen K, Il Barbiere Di Siviglia, Le Nozze Di Figaro, Luci Mie Traditrici, Rigoletto, Werther. Abbassare però tutti i prezzi degli abbonamenti “normali” - inclusi quelle delle prime (850€) che in una piazza come quella di Bologna (ma anche altrove) costituiscono un’irrinunciabile attrattiva mondana cui ben difficilmente il pubblico avrebbe rinunciato anche in presenza di prezzi più elevati - è certamente decisione discutibile, tanto più sorprendente se si considera che la situazione finanziaria del teatro è tutt ’altro che rosea. Naturalmente non sfugge che i ricavi da botteghino coprono solo in parte i costi di gestione ma il segnale non appare indurre gli agognati (e purtroppo spesso non particolarmente aufgeklärt - se si eccettuano alcuni meritevoli esempi) sponsor bolognesi a mettere mano alla borsa. Sempre da un punto di vista organizzativo è invece certamente positiva la proposta di dotare il teatro di un bookshop come nella maggioranza dei teatri internazionali e di rendere gli spettacoli fruibili anche a un pubblico non presente in sala. Il teatro – si sa - si trova in una zona “disagiata” a volere utilizzare un termine eufemistico e questa decisione potrebbe costituire (insieme ai molti altri finora colpevolmente trascurati dalle varie amministrazioni) un tassello della rinascita di una piazza che meriterebbe ben altri interventi che non siano la blanda e inefficace sorveglianza finora attuata. Ma veniamo alla stagione operistica del 2016. L’apertura (l’Attila di Verdi) non è di quelle che potranno scatenare gli entusiasmi degli spettatori. Si tratta di un’opera non di primaria importanza con l’improbabile libretto dell’ineffabile Temistocle Solera, lo stesso della Giovanna d’Arco testé rappresentata alla Scala. Il cartellone risulta più appetibile con i titoli che seguono, molti dei quali di grande repertorio (Werther, Rigoletto, Figaro, Berbiere etc.). Ne presenteremo la recensione (un genere ormai in disuso soprattutto nei quotidiani locali in favore di “presentazioni” preventive che evitano di dovere prendere posizione e infastidire gli addetti ai lavori) a mano a mano che saranno rappresentate. Non manca nel cartellone (ma qui si sente tutta l’impronta del sovrintendente Sani) un’opera modernissima (Luci mie traditrici di S. Sciarrino) come è stato il caso nelle due stagioni precedenti. L’auspicio è che non si tratti di uno spettacolo inaccettabile sotto ogni profilo come Qui non c’è perché (titolo preso dal romanzo di Primo Levi) che oltre ad essere velleitaristico e sconclusionato aveva come perla anche una citazione sbagliata dal Macbeth di Shakespeare (il famoso verso “Life is but a walking shadow”…) e che raggiunga almeno il livello (quantomeno esteticamente accettabile) de Il suono giallo. Incrociamo le dita! (Giovanni Neri cura il blog www.kurvenal.wordpress.com)

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LIBRI / STORIA

Edizioni Pendragon / Istituto Parri Emilia Romagna

GIUSTIZIA E LIBERTÀ IN MONTAGNA

La storia partigiana bolognese È dedicato ai partigiani della brigata Giustizia e Libertà “Montagna”, ai caduti, ai feriti, a paesi coinvolti nella guerra per la Liberazione questo libro scritto a quattro mani da Pier Giorgio Ardeni e dal partigiano “Checco”. È un invito alla riflessione. di Angela Ghinato

C

orredato da un’ampia bibliografia e da un rilevante indice dei nomi, il volume presenta un’impegnativa ricerca su quanto accadde tra le montagne dell’Alto Reno, nel Bolognese, tra l’8 settembre 1943 e la fine del 1945. La premessa di Luciano Casali traccia un panorama sulla Resistenza nel Bolognese, indicando i punti di forza del volume dedicato a un brano di storia del territorio dell’Alto Reno che ha pagato un forte tributo di sangue alla Liberazione, un territorio strategicamente importante per la Wehrmacht e come tale sfondo di numerose stragi consumate dai nazisti contro la popolazione civile e contro le formazioni partigiane di montagna. Nella definizione “eccidi della Valle del Reno” sono infatti racchiuse le stragi della terribile estate del 1944 – ricordate da Ardeni insieme alle diverse formazioni partigiane che operarono in quelle zone dell’Appennino tosco-emiliano – vale a dire gli eccidi di Biagioni (4 luglio), Castelluccio (12 agosto),

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Antonio Giuriolo, detto Capitan Toni, comandante della Brigata Matteotti “Montagna”

Ca’ Berna (27 settembre), Ronchidoso (28-29 settembre), Silla (24-29 settembre), Savignano (29-30 settembre), Molinaccio (2 ottobre). Tra storia e memoria si legge nel sottotitolo del libro, nel quale la storia si fonde davvero con la memoria in suggestioni dai tratti commoventi e coinvolgenti, per offrire una cronaca puntuale e profonda grazie alle testimonianze di chi ha vissuto in prima persona la guerra partigiana tra le montagne dell’Alto Reno, grazie a documenti che “parlano” raccontando la quotidianità di cento ragazzi guidati dal capitano Pietro Pandiani attraverso venti mesi di storia del movimento partigiano. In premessa è dichiarato il «duplice intento» che ha dato origine alla corposa ricerca. Il primo: «raccontare la storia di quella brigata, la “Giustizia e Libertà” Montagna, quei “cento ragazzi”, come li dipinse Enzo Biagi, che si diedero alla macchia e presidiarono i monti tra Gaggio Montano e Lizzano, tra il Corno alle Scale e il Belvedere sull’Appennino tosco-emiliano»; il secondo: «raccogliere la testimonianza viva di Francesco Berti Arnoaldi Veli, quel Checco che, partigiano giovanissimo, fu a 18 anni tra i fondatori della brigata, su quell’esperienza, su quei lunghi mesi di coraggio e di passione e su quello che ne è rimasto...», insieme alla testimonianza scritta di altri due protagonisti della brigata, Paolo fratello minore di Checco e Renato Frabetti. Al rigore scientifico della ricerca che sta alla base del saggio si affianca un cenno biografico, in quanto tra quei ragazzi era anche il padre dell’autore, Sisto Ardeni. Tutto si snoda nella sequenza delle cinque parti che formano il volume, dal quadro storico generale sulla Resistenza in Italia e nel Bolognese alle fitte e intense pagine dedicate alla brigata e alla Resistenza partigiana nelle valli dell’Alto Reno, scorrendo giorno per giorno quei lunghi mesi divisi in quattro fasi: la nascita della formazione partigiana (8 settembre 1943 - giugno 1944); il periodo che si chiude con gli eccidi (1 luglio - fine settembre 1944); quello che comprende la liberazione di Gaggio Montano e l’inverno di scontri tra il Belvedere e Monte Castello (ottobre - dicembre 1944); l’offensiva finale, la Liberazione, il dopoguerra (1945). «Ogni parte – spiega Ardeni – alterna un primo capitolo che racconta la cronaca degli avvenimenti, con attenzione speciale ai loro protagonisti, con un secondo capitolo che riporta la testimonianza» di Checco, “viva”, costruita sui suoi ricordi; di Paolo Berti «basata sul diario ... tenuto nei giorni del conflitto»; di Renato Frabetti “Rendo”, «frutto della sua ricostruzione ex post, scritta anni dopo». Non mancano le parole di altri partigiani che hanno ricordato la brigata nelle loro memorie: Leonardo Gualandi “Alpino”, Enzo Biagi, Sandro Contini Bonacossi e numerosi altri. Un racconto corale composto a quattro mani, come accennato: la storia di quel complesso periodo e la lucida memoria di Checco, oggi «un nobile signore» quasi novantenne dallo «sguardo fiero di chi c’era, perché l’importante era esserci» (p. 21). Checco che ha ricordato gli amici, i loro volti, gli eventi durante le conversazioni con Pier Giorgio Ardeni, il quale si è inserito – o ancora meglio, immerso – con l’acribia dello storico dentro i fatti analizzando meticolosamente carte e parole. Nel complicato contesto storico che seguì l’8 settembre 1943, la Resistenza si identificava in movimenti spontanei e perlopiù disorganizzati le cui azioni venivano duramente colpite dai tedeschi e dai fascisti che istigavano alla delazione e punivano a suon di rappresaglie, intimidazioni, processi sommari,

fucilazioni. Però il «fascismo ricostruito sotto spoglie repubblicane», come scrive Ardeni, faticava a ristabilire il controllo sul territorio anche dopo il “bando Graziani”, che prevedeva la pena di morte per i giovani che non si fossero arruolati o avessero disertato. Intanto quelle bande di “ribelli” disponevano le loro “brigate” e pianificavano le azioni dividendosi le zone di influenza. Nella primavera del 1944 furono maturi i tempi per una formazione partigiana a Gaggio Montano, che andò a coprire l’area a ovest del Reno lungo la valle del Silla, di qua dal passo della Masera entro il crinale tra Ronchidoso e Monte Bevedere. La brigata cominciò a formarsi a seguito delle battute dei fascisti per catturare i renitenti alla leva di Graziani; tra i molti che si imboscarono, un gruppetto di otto giovani si riunì, con la complicità del custode, in locali sotto la “Chiesina degli Emigranti” di Ronchidoso: il 24 giugno 1944 è ricordato come il giorno del “battesimo” della brigata Giustizia e Libertà “Montagna”. «La voce si era diffusa», racconta Checco, e al 30 giugno erano già arruolati 120 partigiani, ricordati nei profili tracciati incrociando documentazioni archivistiche. Nomi, cognomi, nomi di battaglia: Binda, Lungo, Garibaldi, Pelloni, Giandòn, Gimmi, Rigoni, Fido, Macario, Camillo, Tempesta, Alpino, Franchino, Croccante, Priletto, Checco... si muovevano tra i monti con tutti gli altri guidati dal “capitan Pietro” Pandiani,

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LIBRI / STORIA

«lanciati verso la loro esperienza di guerriglia alla macchia» (p. 83) mentre le file si ingrossavano tra diverse storie di vita e un fine comune: esserci. La prima parte del volume (capp. I-II, pp. 27-113), come anticipato, è dedicata alla «fase nascente», alla prima Resistenza tra i monti dell’Alto Reno, alla nascita della Brigata; si dipana tra i ricordi dei protagonisti dopo la scelta partigiana, una decisione maturata riflessa nelle parole che danno il titolo al II capitolo: «Eravamo ragazzi, ma sapevamo di fare la cosa giusta». La seconda parte (capp. III-IV, pp. 117-244) accompagna il lettore attraverso l’«estate partigiana» del 1944 tra il consolidarsi della Brigata e l’intensificarsi di rappresaglie e scontri, tra l’arresto di Paolo sulla strada per Bologna – «Un secondo imperioso “Alt!” mi fece fermare mentre un tedesco mi si avvicinava e mi fece scendere dalla bicicletta» –, la febbre tifoide di Checco – «malato senza poter prender parte» – e il ferimento di Renato “Rendo” Fabretti in un conflitto a fuoco – «Forse anche Rendo sparò» rammenta Checco, «ma in ogni caso fu colpito, anche se solo di striscio, alla testa...». E il racconto si snoda, ricco di particolari, fino alle azioni partigiane di Gaggio Montano tra agosto e settembre e alla feroce strage nazista del 28-29 settembre 1944 a Ronchidoso, Ca’ d’Ercole, Cason dell’Alta e alla Lama, dove 66 sfollati tra uomini, donne, anziani e bambini furono assassinati «perché i tedeschi avevano deciso che lì si sarebbe stabilito il fronte per l’inverno... Non potevano permettersi di avere delle donne e dei bambini tra i piedi. Fu per questo che decisero di ucciderli tutti, dando poi fuoco alle case, con i morti dentro». Parole di Checco, che riconosce quell’itinerario di sangue che unì Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, passando per Ronchidoso. Nella terza parte (capp. V-VI, pp. 247-338) si leggono ancora stragi, azioni di rastrellamento e rappresaglie mentre i partigiani occupavano progressivamente paesi a ridosso del fronte tedesco lungo la cresta tra il Monte Belvedere e il Monte Castello, fino a Vergato: l’Appennino modenese e bolognese era diviso in due: «di qua, l’Italia liberata sotto il controllo militare degli alleati e l’amministrazione del CLN, di là l’Italia occupata, sotto il controllo militare dei nazisti e il giogo repubblichino» (p. 247). La brigata di “capitan Pietro” era stanziata nella valle del torrente Silla e faceva base a Gaggio, dove entrò il 19 ottobre insediando un’amministrazione democratica in accordo con il CLN: una pausa, un respiro di sollievo tra le pieghe di una sanguinosa cronaca. La brigata trovò un paese sospeso «tra attesa e timore, bersaglio dei cannoni americani e dei mortai tedeschi», scriveva Checco nel 1977, aggiungendo: «La “Giustizia e Libertà” che arriva in questo paese ... si presenta come la punta avanzata della coscienza politica che rinasce, ma che in quel momento è ancora enormemente arretrata e quasi embrionale» (p. 273). Gli alleati vollero che la brigata rimanesse “in formazione” dopo la liberazione di Gaggio. La pausa invernale fu sinonimo di attesa dell’offensiva finale che iniziò nella seconda metà di febbraio. La brigata – alla quale si unirono altri partigiani inviati dal CLN – venne strutturata aggregandola al contingente alleato con compiti di pattugliamento, perlustrazione delle retrovie, sminamento delle strade, azioni di disturbo. Quest’ultima fase, con la Liberazione e il primo difficile dopoguerra, occupa le pagine

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della quarta parte del volume (capp. VII-VIII, pp. 341-469) in un susseguirsi veloce di eventi e di ricordi fino all’“alba lunga” della liberazione di Bologna, sabato 21 aprile 1945, una «giornata indimenticabile», scrive Paolo Berti nel suo diario. Le strade di Paolo e del fratello Checco si erano divise: il primo con la brigata, il secondo segretario comunale della nuova amministrazione insediata a Gaggio dai partigiani. Dimesso nel giugno del 1945, è lui stesso che racconta dei “fatti di Gaggio” del 16 novembre: l’uccisione di 5 fascisti da parte di ex partigiani, tra cui alcuni «un po’ fanatici» e «quello sciagurato che finì per essere l’organizzatore del colpo che causò la strage di Gaggio» – rivela Checco tra le ultime pagine del volume –, una vendetta privata, uno strascico di sangue a guerra finita che ha ferito nuovamente e profondamente la Comunità. E ancora nelle parole di Checco si legge tutta la convinzione, la forza di un giovane combattente che girava sicuro «nei boschi di notte», che, in conclusione, si rivolgeva così a Pier Giorgio Ardeni: «Io sono solo un testimone, non uno storico, sono stato partigiano, tu sei figlio di partigiano ... La guerra civile era anche questo: aggrapparsi ai motivi di vita, noi eravamo lì per la vita, in quel periodo magico. È con i compagni di allora che io resterò». Infine, l’Epilogo, la chiusa dell’autore che riprende le fila della storia per concludere quella della Brigata Giustizia e Libertà “Montagna”, in parte finita con la liberazione di Gaggio, terminata ufficialmente il 21 aprile 1945 con la liberazione di Bologna e definitivamente con la fine della guerra. A quel punto, era terminata anche la vita di molti di quei giovani diventati «adulti, d’un colpo», di altri se ne sono perse le tracce, di altri ancora Ardeni è in grado di riportare alcune note biografiche del dopoguerra, pensando ai vivi e ai morti, ripensando, seguendo ancora le parole del testimone, al «sangue versato» e a «tutto il sangue salvato» con un’ulteriore dedica del volume al «tanto caro sangue» che chiude la lunga conversazione, ma che lascia aperta la strada ad altre riflessioni sulla Resistenza e sulle stragi troppo spesso dimenticate.


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EVENTI / FOTOGRAFIA

MAST - Manifattura Sperimentazione e Tecnologia

LA MACCHINA E LA POLVERE

Le mostre di Edward Burtynsky e Pierre Gonnord in occasione di Foto/Industria 2015

Edward Burtynsky, Demolizione di navi n. 10, Chittagong, Bangladesh, 2000

Dal 3 ottobre al 1 novembre 2015 si è svolta a Bologna la seconda edizione della biennale Foto/Industria, promossa dal Mast (Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) sotto la direzione artistica di François Hébel.

di Francesco Cattaneo e Valentina Barbieri L’iniziativa ha avuto il merito di mettere al centro dell’attenzione temi decisivi, come il lavoro e la produzione, attraverso lo sguardo di grandi maestri. Tutto ciò dando vita a una “mostra diffusa”, capace di disegnare un percorso virtuale tra alcuni dei luoghi e dei palazzi più suggestivi del centro storico, scelti come sedi espositive. Qui di seguito il racconto di due delle dodici mostre: quella di Edward Burtynsky a Palazzo Pepoli Campogrande e quella di Pierre Gonnord all’Oratorio della Chiesa di Santa Maria della Vita. I lavori di Burtynsky e Gonnord entrano per certi versi in dialogo. Il primo racconta quell’uniformazione globale per via tecnica e industriale rispetto alla quale i soggetti del secondo costituiscono le ultime sacche di resistenza. Ciò che viene escluso nell’opera dell’uno, prende corpo in quella dell’altro.

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Pierre Gonnord, Luis, 2013

U

n rintocco di campana, una messa a fuoco imbarazzata. Gli ultimi minatori di carbone delle Asturie sfilano davanti all’obiettivo: il video è famelico. Accelera, palpita come un cuore iperteso. Dal sottosuolo emergono volti, pupille impolverate, labbra che si schiudono per ingurgitare aria. I minatori, immortalati da Pierre Gonnord e in mostra all’Oratorio di Santa Maria della Vita, sono talpe sottratte all’oscurità, animali intolleranti alla luce. Oltre cinquanta ritratti si susseguono uno dopo l’altro: respiro affannato, sguardi sbalorditi, ritmo che incalza. La luce calda che taglia i volti è una carezza del tempo, una mano tesa verso esistenze in sottrazione. Gonnord tende la mano agli individui delle retrovie, alle identità che si sono mantenute tali, nonostante gli imperativi della società urbana. La fotografia diventa per l’artista francese naturalizzato spagnolo un medium per fare luce su, alzare il sipario su segmenti di mondo sbattuti lontano dagli epicentri, in quel limbo in cui sopravvivono l’arcano, il magico e il rituale. Il video fa da preambolo all’incontro con i veri e propri ritratti di Gonnord dislocati sulle pareti dell’Oratorio, ai piedi del gruppo scultoreo cinquecentesco di Alfonso Lombardi. Oltre ai minatori spagnoli, si aggiungono i lavoratori giornalieri impiegati nelle coltivazioni dei latifondi iberici in Estremadura, Andalusia e Rioja. Sono gitani e nomadi provenienti dalle rive del fiume Guadiana, dediti all’allevamento dei cavalli. Essi si spostano in transumanza durante i periodi della potatura e del raccolto, insieme ai loro animali e alle loro famiglie. Donne, bambini, anziani e uomini sporchi di sudore e fatica si avvicinano all’obiettivo di Gonnord con il terrore della “prima volta”, di chi sente addosso il potere mistificatore del mezzo fotografico, di che ne teme l’invadenza. La luce è calda, battente, svelante. I volti emergono dall’oscurità spaziale ed esistenziale per farsi toccare dal gesto artistico, per uscire dal guscio, per venire al mondo. L’esito risuona di un’intimità silenziosa, di un tacito accordo: i protagonisti fotografati si abbandonano nelle mani di Gonnord, si lasciano contemplare e possedere dall’occhio dell’artista e lo fanno grazie a un rapporto stabilito, a una fiducia guadagnata, a una fusione generosa con l’altro. Allo stesso modo, il fotografo li accoglie con reverenza e curiosità, li osserva, entra nelle loro case, si fa rapire dalle loro abitudini, si fonde con le loro esistenze e solo in ultimo vi dà luce. Lo scatto fotografico è dunque il risultato di un cammino compiuto necessariamente a due in cui ognuno si spoglia a poco a poco per affidarsi all’altro. I soggetti posano davanti all’obiettivo senza alcuna velleità, senza orpelli estetici che li abbelliscano fintamente: non vogliono e non devono piacere. Le fotografie appaiono volutamente decontestualizzate: ciascuno è immortalato lontano dal proprio spazio abitativo e professionale. Tutti i ritratti sono mezzibusti a fondo scuro, illuminati per lo più lateralmente da un fascio di luce calda. Solo e soltanto il volto si carica della responsabilità di incarnare l’intera esperienza umana. Gonnord riconosce l’essenziale tra le rughe di un viso e tra i cunicoli dello sguardo: non aggiunge altro. Nessuna didascalia, nessun accessorio. Egli rispetta il mistero e la scabrosa energia che scaturisce dai personaggi che ritrae; nulla, nelle sue fotografie, viene appiattito secondo i parametri uniformanti della società contemporanea, nulla è volutamente codificato, ma rimane da un lato accessibile, dall’altro imperscrutabile.

Gonnord riconosce l’essenziale tra le rughe di un viso e tra i cunicoli dello sguardo: non aggiunge altro. Ogni ritratto è un invito al viaggio, una finestra spalancata e mai un approdo sicuro: il mistero e l’oscurità dimorano tra le fenditure della pelle e lì rimangono. In ciò l’artista s’inserisce nella tradizione iniziata da Caravaggio e proseguita da Velázquez, Rubens e dai ritrattisti olandesi del XXVII secolo. Il chiaroscuro determina un coinvolgimento perturbante: nello spettatore s’insinua sempre il dubbio di essere allo stesso tempo vicino e lontano dal soggetto ritratto. Specchiandoci nei lavoratori fotografati, ci riconosciamo contemporaneamente solidali ed estranei ad essi, il loro essere ci risulta al contempo familiare e alieno. Tutto si gioca finemente sul filo dell’identità: se la nostra fluttua e diventa ogni giorno più evanescente, quella delle comunità immortalate da Gonnord rimane stabile nella sua essenza ancestrale. I ritratti degli allevatori ci illustrano un destino comune: ogni individuo, altrimenti anonimo e isolato, acquisisce un senso costitutivo in questa corale fotografica in cui emerge la potenza del legame fondato sul sodalizio di sangue. Dell’identità di stirpe si alimenta il motore che muove le singole esistenze: ognuno si riconosce quotidianamente come parte integrante della comunità, vi apporta tutte le energie, si percepisce importante solo in nome della funzione collettiva che attribuisce alle proprie azioni. La smorfia labiale del piccolo Isaac ricalca quella di sua madre Maria, Rogiero dal volto solcato dallo sporco è in braccio a una figura femminile tagliata che non ci è dato

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EVENTI / FOTOGRAFIA

vedere, lì accanto Moses ci fissa in tutta la sua antica fierezza simile a un personaggio biblico, Luis ci regala la freschezza di uno sguardo strabico e sognante che ci accompagna verso il seno di Elena succhiato dal figlio Aquiles. I protagonisti dialogano tra loro, ci spalancano a possibilità e corrispondenze che possiamo solo intuire o indovinare, sebbene non si risolvano mai ai nostri occhi: sono segmenti di realtà lontane che ci spingono a toccare il silenzio della distanza. I ritratti dei due cavalli, collocati sotto al corpo in bilico dell’ebreo Anania del gruppo scultoreo del Lombardi, ci spingono a interrogarci sulla natura della famiglia di lavoratori appena osservati. Tuttavia, gli animali sono volutamente esclusi dal contingente, sembrano cavalli pronti a trainare la biga di un eroe omerico: la luce li coglie e li vela di mistero. Così gli ultimi minatori delle Asturie sono raffigurati nella loro immobilità eterna; lo sporco è indelebile intorno alle loro orbite e tra le rughe della fronte, gli occhi sono truccati per sempre dalla polvere, le pupille dilatate e pulsanti. Ogni sguardo ritratto da Gonnord assume un’immortalità silenziosa, invita a una continua preghiera dell’anima. Ogni individuo, anche il più estraneo a noi, si palesa in tutta la sua perturbante monumentalità, degno di essere chiamato per nome e di essere conosciuto. La luce calda ci unisce, ma non ci conforta (v.b.)

Pierre Gonnord, Maria & Isaac, 2013

Ogni ritratto è un invito al viaggio, una finestra spalancata e mai un approdo sicuro: il mistero e l’oscurità dimorano tra le fenditure della pelle e lì rimangono.

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Palazzo Pepoli Campogrande entri e trovi la storia che ti si squaderna di fronte in una successione di stanze eleganti, con alti soffitti affrescati, pareti affollate di quadri, mobili e suppellettili disseminati qua e là. Era la metà del Seicento quando il conte Odoardo Pepoli diede inizio alla costruzione della nuova residenza per la nobile schiatta. La vecchia, quella medievale, Palazzo Pepoli, sta proprio di fronte, a decretare, in forza di raddoppiamento, il prestigio duraturo di una famiglia gentilizia bolognese che nel corso del XIV secolo aveva pure governato la città, conservando poi un ruolo di primo piano nelle vicende successive. Durante Foto/Industria 2015 lo spettatore viene messo di fronte a una repentina e inesorabile rottura di quest’ordine. Nell’ultimo salone si staglia un telone su cui scorrono delle immagini. Già l’installazione – con tutto il suo apparato tecnico – produce uno scarto considerevole. Ma sono soprattutto le fotografie dell’artista canadese Edward Burtynsky a determinare lo choc. In un vertiginoso balzo in avanti, non tanto tra epoche diverse, ma proprio tra mondi diversi – un po’ come lo stacco di montaggio che in 2001: Odissea nello spazio trasforma l’osso preistorico brandito come arma in una navicella spaziale dell’inizio del terzo millennio – le raffinatezze olimpiche del palazzo vengono soppiantate dal furore titanico dell’industria contemporanea. Uno squarcio irreparabile fende l’atmosfera ovattata d’altri tempi lasciando irrompere lo scatenamento della potenza macchinica: al silenzio raccolto si sostituisce il frastuono metallico, alla grazia delle forme un gigantesco dispiegamento di forze e di masse. E innanzitutto: al tocco di pennello si sostituisce la pressione su un pulsante. Manufactured Landscapes s’intitola l’installazione, un video che esibisce, in successione, le fotografie di Burtynsky, ripercorrendo trasversalmente la sua produzione. Le rime e i rimandi, le corrispondenze che si stabiliscono tra di esse sono ulteriormente accresciute e amplificate dalla musica, che scandisce il ritmo e determina il tempo della visione. Si tratta di fotografie paradossali, collocate sul sottile, ambiguo crinale che separa devastazione e costruzione, follia e genio, brutto e bello. “Voluptas atque horror”: alligna qualcosa di sublime in questi scatti dalla grammatica precisa quanto inesorabile. L’operazione di Burtynsky consiste in un dislocamento prospettico: non si tratta di mostrare qualcosa di inedito, ma di mostrarlo diversamente. Ciò che Burtysnky vuole mostrare è la fisionomia complessiva di quelle trasformazioni immani che noi continuamente attraversiamo, che ci avvolgono, ma che perciostesso non possiamo abbracciare nel loro significato più ampio. Per coglierne l’estensione, per capire, è necessario staccarsi un po’ da terra, assumere uno sguardo più panoramico: lo sguardo della riflessione, della contemplazione. Se la fotografia è un lavoro sull’occhio – un lavoro attraverso il quale ci viene insegnato ogni volta di nuovo a vedere, non essendo la vista alcunché di “naturale” – qui, in questo innalzamento della prospettiva, ci troviamo di fronte al modo in cui Burtynsky esercita il nostro sguardo. Che le immagini dall’alto stilizzino gli elementi paesaggistici e gli interventi antropici, conferendo loro un carattere astratto, è cosa nota. La distanza dal suolo può accrescersi enormemente, come nelle immagini dallo spazio, in cui non prende più corpo un’esperienza della terra, ma ci troviamo di fronte a un


Edward Burtynsky, Super pit n. 1, Kalgoorlie, Australia occidentale, 2007

Non prende più corpo un’esperienza della terra, ma ci troviamo di fronte a un pianeta fluttuante nel vuoto. pianeta fluttuante nel vuoto. Che senso ha, invece, l’altezza a cui si pone Burtynsky? A ben vedere, egli non procede ad alcuna trasfigurazione puramente formale dei dati reali – non compie il passaggio dal piano del concreto a quello dello smaterializzato. Al contrario, il fotografo canadese si pone a un’altezza tale da rendere visibile qualcosa che appartiene ai suoi paesaggi, ma che solo da quella prospettiva è dato cogliere. Il suo procedimento non è “estetizzante”, ma finalizzato a una dilatazione della percezione. Sia che ciò accada per le miniere di carbone della Columbia Britannica o per gli stabilimenti industriali cinesi o per le saline nel Golfo del Messico o per gli impianti di irrigazione a perno centrale dell’Arizona o per le cave marmoree del Portogallo o per i pozzi petroliferi degli Stati Uniti e dell’Azerbaigian o per le discariche di pneumatici della California – a importare è che emerga l’impatto immane dell’intervento dell’uomo sull’ambiente, un impatto indelebile e irreversibile, che segna un punto di non ritorno nella storia del mondo. Gli scatti sono imponenti, si ampliano sino a togliere il respiro e a intimorire. La loro terribilità è raddoppiata dal carattere sconvolgente e frastornante dei soggetti rappresentati,

nient’affatto fotogenici di primo acchito, segnati da disarmonia e squilibrio. Tutta l’esperienza si muove sul filo dell’inquietudine. La grandiosità di immagini bigger than life suggerisce anche, tra le righe, l’implacabilità di processi le cui proporzioni sono tali da non renderli immediatamente governabili. Ne risulta uno sguardo che non è più a misura d’uomo – e che infatti esclude quasi del tutto figure umane. Il compito che si assume la fotografia di Burtynsky è quello di raccontare nella loro portata, nella loro magnitudine, le cosiddette “manufactured landscapes”, vale a dire i paesaggi che sono frutto di un disegno, di una progettazione – paesaggi disastrati magari, ma intenzionalmente, al fine di garantire sviluppo e progresso. Se l’approccio di Burtynsky non è “estetizzante”, non è, d’altra parte, neppure ideologico: le sue fotografie non sono “a tesi”; il punto non è denunciare delle aberrazioni nel nome di battaglie ecologistiche. Gli stravolgimenti che accadono sono collegati allo stato di necessità in cui versa costitutivamente l’uomo. Ma ciò non toglie l’esigenza di allargare lo sguardo, di rendersi conto – perché solo così gli uomini possono stabilire un rapporto più libero con le potenze enormi che sembrano dominarli (f.c.)

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EVENTI / FOTOGRAFIA

MAST - Manifattura Sperimentazione e Tecnologia

MAST - il nido

Rendez-vous a SANTA MARIA DELLA VITA Un ulteriore approfondimento sulla mostra di Pierre Gonnord

di Daniela Peca Un volto che patisce tanto vicino alla pietra, è già pietra esso stesso! Albert Camus, Il mito di Sisifo

P

ierre Gonnord (Cholet, Francia 1963) è un fotografo francese che dal 1988 vive a Madrid e lavora principalmente in Spagna. È in questo «paesaggio di promesse infrante» come lo definì John Berger1 che vivono e lavorano gli uomini e le donne ritratti da Gonnord nel suo studio ambulante. Immigrati dell’Europa centrale e del Portogallo, il cui cammino si è interrotto nelle crepe di una terra straniera, metri e metri sotto la superficie del mare. Lì, nelle miniere dell’Asturia, il sole che scalda è lontano come il ricordo della casa che si sono lasciati alle spalle. 1. John Berger, Presentarsi all’appuntamento. Narrare per immagini, Libri Scheiwiller 2010, cit. pp. 74-75.

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I volti di quegli immigrati si affiancano, nelle stanze di Santa Maria Della Vita, a quelle dei perenni migranti, immigrati per condizione di nascita, i nomadi e i gitani che stagionalmente si spostano con i loro cavalli dalle due rive del fiume Guadiana fino alle regioni dell’Estremadura, dell’Andalusia e della Rioja dove sono impiegati come braccianti. I loro mezzi busti stagliati contro lo sfondo scuro sembrano resuscitati dalle tenebre, la luce rade loro la pelle del viso spessa come cuoio, dove in più punti si incrina e si increspa a formare rughe profonde come solchi d’aratro su una terra battuta. Fedele geografia delle passate stagioni della vita. Sono qua, guardami. Sono qua, guardati. E vedrai soltanto un uomo, nient’altro che un uomo nei suoi abiti sporchi, rammendati più e più volte, il respiro che sa di polvere. La sensazione di disagio, lì, al crocevia di quegli sguardi, è quanto mai immediata. Si è sorpresi a pensare che la resa è artificiosa, o quantomeno che Gonnord abbia calcato un po’ la mano per far si che la realtà della foto appaia più drammatica della realtà della loro stessa vita, effetto che riceve un contributo determinante dal forte contrasto tra le zone illuminate – fondamentalmente il volto – e le zone in ombra. In tutti i ritratti Gonnord sceglie infatti di utilizzare un unico punto di luce artificiale posto in maniera frontale rispetto al suo soggetto, per il resto è notte. Ma, in fondo, non c’è incontro che sia degno di questo nome che non avvenga al riparo dal sole. Che siano i due amanti stretti nell’abbraccio del perimetro della fioca luce del bancone di un bar o i pugili che incrociano i guantoni nei pochi metri del ring sotto i riflettori roventi. Romanticismo a parte si potrebbe affermare che il fotografo francese si inserisce a pieno titolo sulla scia della grande tradizione del genere ritrattistico, soprattutto pittorico (si pensi al molte volte citato Caravaggio, ma anche a , Gericault, Velasquez, Rembrandt, solo per dirne alcuni) genere che vanta grandi maestri in Spagna come nel resto d’Europa e che Gonnord tiene ampiamente presente pur non escludendo le ricerche dei suoi colleghi fotografi tra i quali August Sander, Dorothea Lange, Robert Frank, Diane Arbus, Nan Goldin. Eppure il taglio, la posa, la gamma cromatica scelte da Gonnord per i suoi ritratti non bastano a spiegare la ragione per la quale si ha, al cospetto di questi, la sensazione che quelle persone vengano da un altro tempo. Javier, Theo, Luis assomigliano più ai matti di Gericault che all’uomo del XX secolo di Agust Sander e, ancor meno, ad uno qualsiasi dei volti che si vedono nelle riviste o nelle trasmissioni televisive o, semplicemente, nelle nostre case. Già nel 1953 Roland Barthes si accorgeva e notava che, di colpo, le facce dei giovani francesi, per strada, somigliavano a quelle degli attori. Non è, scrive sulla rivista “Esprit”, solo questione di un’identità accidentale, riguarda piuttosto quelli che il critico definisce i caratteri mobili della persona: taglio dei capelli e stile del vestito. Barthes giunge alla conclusione che la moda ha cominciato ad influire in modo profondo sulla morfologia dei volti.2 Quella che Barthes chiama “influenza della moda” altro non è che un modo di vivere sempre più

concentrato sulla superficie delle cose, sulla comunicazione, sull’apparenza. Se si è in grado di misurare la distanza che ha portato l’uomo occidentale da uno stile di vita rurale a quello cittadino si può misurare centimetro dopo centimetro la lontananza che c’è tra gli uomini i cui ritratti sono appesi alle pareti di Santa Maria della Vita e noi che siamo lì a guardarli.

2. Cfr. Marco Belpoliti, Look, in Guardami. Il volto e lo sguardo nell’arte 1969-

3. Pierre Gonnord http://www.fotoindustria.it/mostre/pierre-gonnord/

Pierre Gonnord, Armando, 2009

La vecchia credenza per cui la fotografia rubava l’anima delle persone che ritraeva sembra esercitare ancora tutto il suo fascino e la sua verità.

Gonnord ha infatti deliberatamente scelto dei «personaggi che vengono da tribù lontane dall’epicentro e dal benessere materiale, dal rumore uniforme della nostra società urbana […], un individuo solo e anonimo, membro però di un clan sociale ben definito, profondamente radicato in una cultura ancestrale». Un individuo che, forse proprio per queste ragioni è «consapevole della propria identità»3. Esiste dunque irrimediabilmente un “noi” e un “loro”. Dove “noi” siamo quelli dai volti grigi come i palazzi ravvivati da trucchi che mimano le locandine dei film, le unghia lacca-

2009. Catalogo della mostra. Polo Culturale di Lugano 26 ottobre-21 febbraio 2010, p. 60

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EVENTI / FOTOGRAFIA

4. Federico Ferrari, De visu, in Guardami. Il volto e lo sguardo nell’arte 1969-

5. Vincenzo Agnetti, Autoritratto 1971, feltro dipinto con la frase: “Quando

2009, cit. pp. 64,66.

mi vidi non c’ero”.

Rembrandt, L’uomo che ride, c.1629-1630, olio su metallo, 15.3 × 12.2 cm, Royal Picture Gallery Mauritshuis, L’Aia

te. Noi, moderni discepoli della sezione aurea, schiavi delle proporzioni che dettano i parametri della bellezza, i turisti del paesaggio, gli spettatori. “Loro”, d’altro canto, sono identici alla terra che lavorano, dalla quale estraggono i frutti nutriti con la loro stessa giovinezza. I volti crepati. Le unghie sporche. La stanchezza che gronda dagli occhi come il sudore dalla fronte. Come chi s’ama finisce per assomigliarsi, così loro al loro mestiere, alla loro vita, e noi alla nostra. No, io non assomiglio a Maria, e neppure a Cosè. No, quello non sono io, eppure mi vedo. Cammino alla ricerca di incontri e di altre esperienze di vita, afferma il fotografo. Ma incontrare chi? Un aiuto può venire da uno scritto di Federico Ferrari in cui, a proposito del ritratto, osserva: « Il ritratto è un’immagine sensibile di una invocazione, una convocazione degli sguardi sulla superficie dei volti. Nel volto dell’altro, di quell’altro che si moltiplica all’infinito e si di-

lata nei tempi, il mio volto appare come di riflesso. Nel volto dell’altro, il mio. E nel mio, quello dell’altro. È nel mondo dell’altro, ma di un altro ogni volta unico e irripetibile, che io ritrovo me stesso e incontro il mondo[…]. Ed è nel riconoscimento di quella irripetibilità che io ritrovo ciò che più amo: l’irripetibilità dello sguardo che mi ha dato e che mi dà la vita nel rinnovarsi infinito dell’amore […]. È infatti dell’amore, della sua esperienza straniante, che parla il ritratto: di questa uscita da sé per tornare in sé attraverso l’altro»4. Quando lo vidi io c’ero, si potrebbe dire invertendo i termini della storica opera di Vincenzo Agnetti5 e che, non a caso, porta il nome di Autoritratto. Se la fotografia è il movente, il mezzo e il testimone dell’incontro, il ritratto è il luogo in cui l’incontro avviene. Incontriamoci lì, sembra dire il fotografo, dove i nostri sguardi convergono, incontriamoci sulle tue palpebre, incontriamoci dove la tua bocca fa una smorfia, incontriamoci sui tuoi nei, incontriamoci una volta e poi per sempre. Un doppio incontro dunque quello del fotografo con il suo “modello”, scandito in due tempi, il primo quello dello scatto, due uomini uno di fronte all’altro, in carne ed ossa, il secondo quello dei fantasmi. Si, perché la vecchia credenza per cui la fotografia rubava l’anima delle persone che ritraeva sembra esercitare ancora tutto il suo fascino e la sua verità. Del ruolo della fotografia come testimone per eccellenza si è difatti sempre parlato, soprattutto quando, in era analogica, fare una fotografia significava scrivere con la luce della luce sulla pelle. In altre parole la fotografia era incontestabilmente la prova provata che una data cosa persona o paesaggio fossero stati, in un dato momento, al cospetto della macchina fotografica e del fotografo. Ragioni che dettano le parole della lettera scritta da Elizabeth Barrett nel 1843 e citata da Susan Sontag nel suo famoso saggio Sulla fotografia: «Desidero avere un tale ricordo di ogni essere che mi è caro al mondo. In questi casi non è solo la somiglianza che è preziosa, ma l’associazione e il senso di prossimità che la cosa comporta […] il fatto che l’ombra stessa della persona sia lì immobilizzata per sempre! È, mi pare, la santificazione stessa dei ritratti, e non è per niente mostruoso che io lo dica, anche se i miei fratelli protestano vigorosamente, che preferirei avere un tale ricordo di una persona che ho molto amato piuttosto che l’opera che il più nobile artista abbia mai prodotto»6. Così, a tenerla tra le mani, ci sembra quasi di carezzarlo quel volto. Motivo per cui la fotografia la si porta con se, la si stringe al petto, la si bacia, la si brucia. Antica stregoneria che non è andata perduta neppure con l’avvento del digitale e che in definitiva segna lo scarto tra il ritratto fotografico e quello pittorico. «Voglio vivere», confessa Gonnord in un’intervista, «è questa la ragione per cui faccio il fotografo». L’arte, ancora una volta, risponde così alla necessità dell’uomo di interrogarsi, di vedersi, di capire dove prendere la forza per far rotolare il masso sulla china della montagna, noi tutti eterni Sisifo.

Il fotografo francese si inserisce a pieno titolo sulla scia della grande tradizione del genere ritrattistico, soprattutto pittorico (si pensi a Gericault, Velasquez, Rembrandt).

6. Susan Sontang, Sulla fotografia, Enaudi 1978, cit. p. 157.

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ALTRE NOTE

Recensioni brevi

www.guerrainfame.it il portale sulla fame in guerra di Vito Contento

on line “Guerra inFame – la guerra non è mai servita”, un nuovo portale realizzato da Istituto Parri, Rete degli Istituti Storici Emilia Romagna, finanziato dalla Regione. Sulla scia della riflessione semestrale dell’Expo sul cibo, si tratta del primo portale che racconta della crisi alimentare dalla prima guerra mondiale fino al secondo dopoguerra, diviso in tre scenari temporali e focalizzato sull’Italia. Quello che venne chiamato il secolo breve, il secolo delle prime due guerre tecnologiche e mondiali e poi, in occidente, dell’avvento del consumismo e del boom economico, fu segnato in Europa da crisi alimentari profondissime, di vera e propria fame, paragonabili a quelle a cui purtroppo assistiamo ancora nei paesi del terzo mondo. Le maggiori responsabili di queste catastrofi furono soprattutto le guerre, ma non solo. Fra i paesi dove il fenomeno fu più drammatico si nota proprio l’Italia, caratterizzata da una civiltà rurale fra le più povere d’Europa, mortificata dal latifondismo, problema irrisolto anche dal fascismo e che perseverò fino al secondo dopoguerra. Il portale presenta filmati di repertorio, fotografie, manifesti pubblicitari, ricettari originali, approfondimenti su temi territoriali curati dagli Istituti Storici provinciali. Fra questi il lavoro realizzato dall’Istituto di Modena sulle bonifiche e risaie, di Parma sul prosciutto, pasta e parmigiano, di Reggio Emilia sulle cantine sociali, Ravenna sull’uva e frutta conservata, Piacenza sui federconsorzi. Pensato per qualsiasi utente, il sito dedica particolare attenzione agli studenti medi e superiori, con strumenti quali il “Dizionario Tematico”, curato dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, che comprenderà una ventina di voci su guerra e fame offrendo un percorso più generico sul tema. Il progetto coordinato da Luisa Cicognetti, docente Unibo del Master in Comunicazione Storica, vede la collaborazione di Elisa Dondi, Tommaso Ferrari, Gisella Gaspari, Giuseppe Ma-

setti, Metella Montanari, Francesca Panozzo, Anna Quarzi, Rossella Ropa, curato dalla web designer Erika Vecchietti di Bradypus, e sarà considerato completo per il convegno su guerra e fame del 26 Febbraio organizzato dall’Istituto Storico Regionale Parri a cura del Presidente Alberto De Bernardi e Agnese Portincasa. “Completo” fino a un certo punto, nel senso che lo strumento portale internet è stato scelto rispetto ad una pubblicazione cartacea, proprio perché offre la possibilità di continui aggiornamenti, implementazioni e inserimento di nuovi documenti ritrovati. In pratica il portale Guerra inFame, sotto la supervisione scientifica della Rete degli Istituti Emilia Romagna, potrà essere un contenitore permanente sul tema da arricchirsi negli anni.

Folco Quilici. Gli animali nella grande guerra di Vito Contento

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l regista e scrittore ferrarese Folco Quilici, classe 1930, cineasta, pioniere italiano del documentario, è ora in libreria con il documentario Gli animali nella grande guerra. Quilici è l’autore che ha raccontato in sessant’anni di energica carriera scienza, arte, antropologia, archeologia, storia, architettura, costume, avventura, sul grande e piccolo schermo. E’ fra i pochi ad aver collaborato per il cinema e la TV con Italo Calvino, ma fra le sue più importanti collaborazioni si annovera anche quella con Leonardo Sciascia. Compiuti 85 anni, non viaggia più di prima persona, ma continua a proiettare noi spettatori nel tempo e nello spazio. Presentato al festi-

val del Cinema di Roma, distribuito in alcune sale, Gli animali nella grande guerra è un documentario di montaggio di rara eleganza nella scelta dei materiali di repertorio inediti e di provenienza internazionale, per raccontare quella che fu la simbiosi fra uomo e animali durante la prima guerra mondiale. Vissero stretti gli uni agli altri anche solo per riscaldarsi, condivisero il loro senso di solitudine, la fame, la morte, l’umiliazione e perfino la gloria, i soldati con i loro cavalli, con i loro muli, con i loro cani, i loro piccioni, spesso addestrati meglio di migliaia di giovani che vennero a ritrovarsi in trincea. In quella che fu la prima guerra tecnologica, una guerra totale

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ALTRE NOTE

dai cieli a sotto i mari (dove furono impiegati i primi aerei, i primi carri armati, i primi sottomarini, i gas), continuarono ad avere un ruolo fondamentale gli animali, anche se, come racconta anche Steven Spielberg nel film War Horse (2011), ben presto sotto i colpi di mitraglia e granate, scomparvero le cavallerie d’assalto, di antichissima e nobile tradizione. Gli animali ebbero funzioni di trasporto, come i muli in montagna, ottimi battipista sui sentieri pericolosi, molto più mansueti dei genitori cavalla e asino, in quanto essendo sterili sono meno soggetti ai capricci del desiderio sessuale. I cani, furono impiegati da slitta, ma soprattutto per ritrovare uomini feriti. Vi furono cani che combatterono la stessa guerra su fronti opposti: sovente infatti venivano ritrovati dispersi dalla truppa nemica, che gli accoglieva e li riaddestrava, come animali preziosi, per il lavoro e per la compagnia. Numerose le lettere dei soldati alle famiglie che raccontano queste storie di amicizia fra uomini e animali che nascevano e morivano nell’inferno della guerra di posizione. Alcune bestie addirittura furono glorificate dopo che si deposero finalmente le armi: c’è un eroe nazionale di guerra americano che è un esemplare femmina di piccione viaggiatore. Venne chiamato Cher Ami perché donato, non ancora adde-

strato, dai Francesi agli alleati d’oltreoceano. Il corpo di Cher Ami imbalsamato e pluridecorato, oggi custodito allo Smithsonian Institution, è quello di un volatile che, compiendo 30 km in 24 minuti, salvò la vita a 194 soldati. Esclusi (forse) i cani, tutti gli animali divennero vettovagliamento vivo e fresco. Era già comparsa la carne in scatola, ma organizzare veri e propri allevamenti e macelli, non distanti dalle trincee, divenne una buona soluzione perché qualsiasi animale, potesse in estrema ratio, servire anche da cibo fresco per le truppe affamate. Vi furono anche le bestie non gradite, non simbiotiche ma parassitarie, quelle che nessuno aveva chiamato in trincea ma che ci vennero da sole, diventando uno dei maggiori incubi dei soldati in guerra. Le lettere dei soldati raccontano in ugual misura dell’incredibile invasione dei topi, delle mosche e dei pidocchi, in quantità indescrivibile, che costringeva i soldati a giacere sempre avvolti nelle coperte per proteggersi da morsi, pruriti e infezioni. La bestia in guerra più temibile, se così si può definire, fu la più microscopica e invisibile: il virus dell’influenza spagnola, responsabile della più grande pandemia della storia dell’umanità, maggiore della peste del XIV secolo, avendo ucciso oltre dieci milioni di persone.

DYNAMO la velostazione di Bologna

La sede della velostazione Dynamo

di Vito Contento

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on biciclette così eleganti e così attrezzate per la guida in sicurezza, si erano visti fino a qualche anno fa soltanto nelle metropoli nordeuropee come Londra e Berlino. Li vedi vestirsi, spogliarsi, cambiarsi, un po’ come fa Superman o James Bond, nell’atrio di un ufficio, all’ingresso di una scuola, nell’ascensore di un condominio, con il loro impermeabile con bottoni a clip, il loro caschetto, i fanali led smontabili, lo zainetto, la catena antifurto. Li vedi sui treni, con una bicicletta pieghevole (l’evoluzione della storica Graziella) oppure accompagnare i figli a scuola con biciclette a tre e quattro ruote. Riescono a calcolare esattamente quanto ci si mette da casa al luogo di lavoro e sono orgogliosi

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della loro puntualità. In Italia si chiamano “Salvaciclisti”, sono un’associazione nazionale, con sedi locali, si sono battezzati così partendo da una vertenza sulla strage di ciclisti nelle strade (7.000 morti e oltre 200.000 feriti in dieci anni, il 45% dei decessi in città). La questione sulle vittime stradali è la vertenza pilota dei Salvaciclisti i quali però sono i primi a sostenere che la bicicletta, a guardarla bene, offre spunti e riflessioni quanti sono i pezzi che la compongono. Se il tema sicurezza è il “manubrio e il campanello”, quello della tutela dell’ambiente è da considerarsi il “cambio”, come il “freno” potrebbe essere la questione sanitaria sempre più urgente visto l’aumento delle vittime di tumori collegati all’inquinamento. La questione sanitaria è ancora più profonda e complessa: perché utilizzare la bici è “movimento”, è salutare, è la migliore prevenzione per malattie cardiovascolari collegate alla vita sedentaria. Ma la bici è un vero proprio stile di vita, il mezzo per arrivare puntuali al lavoro, possa esserci il sole o la pioggia, il veicolo per gite nei week-end e per viaggiare, una vera passione da condividere con gli altri, quindi uno strumento di socializzazione (uno stare insieme) pedalando, ma anche riparando, restaurando, potenziando il proprio amato mezzo ecologico a due o più ruote. Le iniziative di sensibilizzazione dei Salvaciclisti in questi anni sono state tantissime: ciclo-raduni per mostrare ai cittadini quanto è bello andare in bici, eventi e feste di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale, presentazione alle amministrazio-


CONVENZIONI E MARKETING di Daniele Levorato Invito tutti a diventare fan del circolocubo su Facebook, per poter essere informati e fare proposte sulle convenzioni del CUBO, inoltre visitate il sito www.circolocubo.it dove, nel settore convenzioni, troverete i nuovi accordi attuati e gli aggiornamenti delle convenzioni in corso. Rimango a vostra disposizione per ogni eventuale chiarimento e suggerimento, potete mettervi in contatto all’indirizzo e-mail daniele.levorato@unibo.it, oppure al numero telefonico 051 2096118.

Convenzioni attive

La sede della velostazione Dynamo

(per i dettagli consultare la pagina delle convenzioni sul sito www.circolocubo.it)

ni di progetti urbanistici volti a implementare le piste pedonali e ciclabili (per salvaguardare i centri storici e per aumentare le zone con limite 30 km/h), campagne contro il furto della bici e per il recupero di bici rubate, servizi per la riparazione di biciclette. Ma soprattutto hanno manifestato il loro spirito politico prima di tutto sulla loro pelle e sul loro corpo, decidendo di scegliere come mezzo di trasporto quotidiano la bici, ma anche di offrire buon esempio stradale nella sicurezza curando l’illuminazione del mezzo, (sempre contornato da led e da catarifrangenti) indossando il più possibile il casco e utilizzando le piste ciclabili, anche quando non rappresentano la strada più breve per giungere a destinazione. Vi è per altro lo strano e piacevole caso, che in qualche modo i Salvaciclisti hanno fatto breccia nella moda alternativa: aumentano infatti coloro che abbandonano la vecchia bicicletta sgangherata, per una nuovissima, leggerissima e a scatto fisso (che si frena coi pedali), oppure, i più amanti del vintage, restaurano una vecchia gloriosa bici da corsa indossando l’ultima generazione di vestiario impermeabile da ciclista urbano. Ma tutto ciò ben venga, possa essere moda o coscienza civile, il risultato è positivo: sono aumentati esponenzialmente i ciclisti in città che usano biciclette sicure, belle (quindi diventa molto più grave rubarle) e ben illuminate. Ultima, importantissima iniziativa dei Salvaciclisti bolognesi che è appena divenuta realtà, è “Dynamo, la velostazione di Bologna”, un progetto che nasce quando l’associazione vince il concorso “IncrediBol” del Comune di Bologna, il quale ha messo a disposizione il sottoscala del Pincio in via Indipendenza. Si tratta di 400 metri quadri, con 250 posti bici custoditi, aperto 16 ore al giorno, dove i Salvaciclisti offrono servizio di parcheggio custodito al chiuso, officina, noleggio e marchiatura per il riconoscimento delle bici in caso di furto. Ma ovviamente è anche un luogo di socializzazione, con tavolini e un piccolo bar e spesso il sabato si ospitano mercatini e altre iniziative. I Salvaciclisti, sentinelle della sicurezza, ambientalisti, salutisti, urbanisti, modernisti, dimostrano un nuovo modo di fare politica e azione civile che parte soprattutto dal buon esempio e dalle proposte concrete.

AFM (Farmacie comunali) Automercantile San Luca (Volkswagen-Volvo) Autonoleggio Hertz Best Western Hotel CAMPA – Mutua sanitaria integrativa Castel Guelfo Outlet Centro estetica DEB Center Centro benessere CITY Spa “Progetto Bellezza” Circuito della Salute – Terme- Acquapark Poliambulatorio Concessionaria automobili Gruppo G (Alfa Romeo-FiatLancia) Decathlon (Articoli sportivi) Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche (visite e cure odontoiatriche) Ennevolte (Sito di proposte commerciali scontate) Erboristeria Herbis – Parafarmacia Herbisdue Farmacia Aicardi Fashion&fitness (palestra-centro benessere) Fini Sport FITeL – Federazione Italiana Tempo Libero Frigerio Viaggi (Agenzia di viaggi) Golf Club Siepelunga Gruppo La Perla – Spaccio Dalmas (abbigliamento intimo) Ipergomme (vendita e montaggio pneumatici) I viaggi senza filtro (Agenzia di viaggi) La Musica Interna (Scuola di musica) Libreria Punto Einaudi Libreria Irnerio Michelin (vendita pneumatici) Mingarelli S.a.S. (accessori e ricambi moto-scooter) Mr. Cucito (riparazioni sartoria) Secur 2000 (Antifurti per la casa) Società agricola vitivinicola “I due Aironi” Tortellini e pasta fresca – www.tortellini.biz Valigeria Cremonini

Convenzioni nella zona delle sedi Romagna Acquario di Cattolica Fotografia Dimedia Fotodini - Ravenna Graffi Capricci (Centro estetico e ricostruzione unghie) Hobby Sport Hotel Sole di Misano Adriatico Parco Oltremare Riccione

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All’inizio degli anni ’90 la Regione Emilia-Romagna viene investita dalla costruzione dell’Alta Velocità. Agli amministratori pubblici si pone il problema di far fronte a una ‘grande opera’ che attraverserà il loro territorio coinvolgendo le popolazioni della pianura e dell’Appenino: i lavori dureranno anni.

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James Graham Ballard attraversa le immense periferie delle metropoli postmoderne, in un viaggio allucinato tra nonluoghi, eterotopie, gated communities.

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A partire dalla presenza degli animali nel nostro quotidiano e nel nostro immaginario, il volume ripercorre il rapporto tra gli animali e la medicina. Strumenti per la medicina dell’uomo, destinatari di cure in nome della loro utilità, gli animali si ritagliano poi uno spazio identitario nuovo, diventano “esseri senzienti”.

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pp. 264; € 21,00

pp. 212; € 21,00

Una panoramica approfondita ed esaustiva del Romanticismo tedesco, che mostra le connessioni fra letteratura, storia, filosofia, scienza, pensiero esoterico e, in particolare, tra letteratura e riflessione estetico-poetologica.

Richard Cantillon Reprint dell’edizione 1767

formato 10 cm x 16 cm; pp. 392; € 28,00

Ristampa anastatica di un testo introvabile che ha ormai un posto consolidato tra i classici del pensiero economico.

Letteratura italiana e Grande Guerra

GIOVANNI CAPECCHI pp. 300; € 27,00

pp. 124; € 12,00

Questo volume contiene: una grammatica del greco odierno e delle sue tendenze attuali, trent’anni dopo la riforma ortografica del 1982; un’appendice comparativa, nella quale la storia del greco odierno è posta in rapporto con le evoluzioni parallele dell’italiano e dell’ebraico moderno; un eserciziario che consente al lettore di autovalutare i propri progressi.

Casa Editrice CLUEB CLUEB 28

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