Charlotte link giochi d ombra

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Presentazione

IL NUOVO THRILLER DELL’AUTRICE NUMERO 1 IN GERMANIA. Cinque diverse persone riconoscono come responsabile delle loro disgrazie un unico uomo: David Bellino. Ricco, senza scrupoli e senza amici. Eppure da ragazzo questi erano i suoi amici. Ma adesso è arrivata l’ora della resa dei conti. Insieme, i cinque cercano di interrompere il circolo vizioso che li tiene legati al passato. Sono mossi dalla speranza di dissipare le ombre dei ricordi e di liberarsi di pericolose relazioni sentimentali e oscuri segreti. Soprattutto sono convinti che con la Morte di David Bellino potranno finalmente ricominciare a vivere. Tutti hanno un movente... Charlotte Link, nata nel 1963, è una delle scrittrici tedesche contemporanee più affermate. Deve la sua fama soprattutto alla sua versatilità: conosciuta inizialmente per i romanzi a sfondo storico, ha avuto molto successo anche con i thriller psicologici, tanto che ogni suo nuovo libro occupa per mesi i primi posti delle classifiche tedesche. In Italia Corbaccio ha pubblicato «La casa delle sorelle»; «La donna delle rose»; «Alla fine del silenzio»; «L’uomo che amava troppo»; «La doppia vita»; «L’ospite sconosciuto»; «Nemico senza volto»; la trilogia «Venti di tempesta», «Profumi perduti», «Una difficile eredità»; «L’isola»; «L’ultima traccia»; «Nobody»; «Quando l’amore non finisce»; «Il peccato dell’angelo»; «Oltre le apparenze» e «Giochi d’ombra».



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Titolo originale: Schattenspiel Traduzione dall’originale tedesco di Gabriella Pandolfo

In copertina: © Jayne Szekely / Arcangel Images Grafica: Linda Ronzoni / Rumore Bianco

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright © 1991, 2011 by Blanvalet Verlag, a division of Verlagsgruppe Random House GmbH, München, Germany Casa Editrice Corbaccio è un marchio di Garzanti Libri S.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol © 2014 Garzanti Libri S.r.l.


ISBN 978-88-6380-748-6 Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.


New York, notte di San Silvestro 1988-89

Qualche minuto dopo la mezzanotte mentre il cielo sopra New York si accendeva dei colorati fuochi d’artificio che salutavano l’arrivo del nuovo anno, Andreas Bredow avvertì un dolore pungente nella parte sinistra del petto e ansimò per qualche istante. D’un tratto cominciò a sudare. Poi così come era venuto, il dolore passò; Andreas inspirò profondamente appoggiandosi alla poltrona, ma un nuovo terribile spasmo si riverberò attraverso le braccia e le gambe tanto da togliergli il fiato e farlo contorcere portandosi le mani al petto. Un infarto. Poteva essere solo un infarto. Erano anni che temeva potesse accadergli. Il suo medico gli ripeteva sempre che era un soggetto a rischio. Doveva prendere pillole per il cuore e per la circolazione a ogni pasto. Ma il fatto che ci fosse sempre qualcuno pronto ad aiutarlo lo tranquillizzava. Oltre a David, che ormai dormiva anche nel suo appartamento, poteva contare su un autista, un maggiordomo, una signora delle pulizie, una segretaria e una domestica. In effetti, negli ultimi anni Andreas non era mai rimasto da solo neppure un minuto; dopo tutto dove sarebbe potuto andare tutto solo un sessantunenne cieco? Ovunque lo avesse portato qualcun altro tenendolo sempre per mano e standogli accanto. Non doveva fare altro che chiamare o suonare un campanello e una mezza dozzina di anime pie accorreva all’istante. Sempre. Ma non quella notte. La notte di San Silvestro 1988-89, Andreas Bredow, uno degli uomini più ricchi dell’America della East Coast, era completamente solo nel suo lussuoso attico sulla Fifth Avenue. Doveva assolutamente vomitare. Si sarebbe sentito meglio e avrebbe potuto pensare meglio. Bastava alzare la cornetta del telefono, premere il tasto uno e il portiere di sotto nella hall all’ingresso avrebbe risposto. Il portiere conosceva il numero del medico, e aveva anche una chiave di riserva del suo appartamento. Avrebbe anche potuto accompagnare il dottor Harper di sopra al ventesimo piano. Sì, il portiere. Gli serviva solo il portiere. Nel suo studio, che si affacciava su Central Park, tutti i mobili erano stati addossati alla parete in modo da lasciare uno spazio libero al centro e mettere Andreas nella condizione di potersi muovere velocemente senza inciampare.


Gli girava la testa. Strisciò mani e piedi sul vecchio e costoso tappeto persiano. I dolori erano insopportabili. Crollò da qualche parte in mezzo alla stanza, si rannicchiò come un feto mentre le lacrime gli salivano agli occhi, e si portò la mano al collo per allargarsi la cravatta. Muoio. Muoio. Muoio. La paura di morire lo spinse a rimettersi a strisciare. La scrivania... il telefono sulla scrivania... se solo lo avesse raggiunto... Fuori, gli scoppiettanti fuochi d’artificio andavano avanti a festeggiare. Era come se le immagini delle notti di San Silvestro degli anni passati gli fossero rimaste impresse nella mente e potesse vedere davvero quei lampi rossi, le stelle verdi e i fuochi dorati che illuminavano il cielo nero. In preda ai rantoli e quasi privo di sensi per il dolore, cercò lo spigolo della scrivania e si tirò su. Allungò la mano in cerca del telefono e si sentì raggelare. Non c’era. Si era sbagliato; il telefono era dall’altro lato della scrivania. I capogiri e la difficoltà respiratoria lo avevano confuso. Non sapeva più dov’erano l’alto e il basso, la destra e la sinistra. Gesù, se solo il dolore si fosse attenuato! Se solo il cuore avesse ripreso a battere normalmente! Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto per massaggiarlo affinché riprendesse a battere liberamente. In ginocchio davanti alla scrivania allungò ancora una volta la mano tremante: dittafono... fotografia in cornice dei suoi genitori... portamatite... il telefono doveva essere lì! Tra i singhiozzi cercò di fare mente locale per ricordare la disposizione dell’arredamento nella stanza: la panca d’angolo era alle sue spalle, la finestra gli stava davanti, a destra c’era la lampada, e a sinistra doveva esserci il telefono, maledizione! Vomitò una seconda volta e poi scivolò a terra. Cadendo una mano gli andò a finire sotto la guancia, e si tagliò con l’anello d’oro che aveva ereditato da suo padre. Improvvisamente l’anello gli risvegliò un ricordo. Era passato quasi mezzo secolo da allora, ma quelle immagini erano ancora così vivide che sembravano del giorno prima. Berlino 1940. Aveva tredici anni quella calda estate di guerra, in cui, ricordava, ovunque si parlava con compiacimento della vittoria finale, e le truppe tedesche potevano annunciare un successo entusiasmante su tutti i fronti. Andreas sedeva spesso davanti alla radio, il ricevitore del popolo, ad ascoltare Joseph Goebbels che con la sua voce penetrante proclamava il dominio dei tedeschi su tutto il mondo. Ad Andreas non piacevano né Goebbels né Adolf Hitler, ma, naturalmente, non lo aveva mai manifestato apertamente, soprattutto perché non avrebbe saputo spiegare bene il motivo della sua avversione. Dopo tutto, il partito era molto attento ai giovani. Andreas faceva parte dello Jungvolk e ogni fine settimana erano in programma escursioni, campeggi, giochi, prove di coraggio. Certo, quelle erano tutte attività fantastiche per un tredicenne,


ma dietro il gioco e il divertimento c’era qualcos’altro che spesso lo spaventava. Andreas era un bambino sveglio e molto sensibile, e avvertiva un impalpabile, abominevole pericolo. Quell’estate, più precisamente il 25 maggio, accaddero due cose: una riguardava Christine, sua compagna di giochi, migliore amica, confidente e custode di tutti i suoi segreti più intimi. Facevano i giochi più disparati, ma rimanevano anche semplicemente a parlare per ore, in particolare quando lui si sentiva abbattuto e triste e gli sembrava che nessun altro potesse capirlo. Lei era la più forte dei due, ma quel giorno aveva gli occhi gonfi per il pianto e i capelli sciolti. «Hanno arrestato mio padre, Andreas! Hanno arrestato mio padre!» «Chi?» «La Gestapo. Stamattina, all’alba. Hanno messo a soqquadro la casa e poi lo hanno portato via. Andreas, cosa devo fare?» «Perché lo hanno arrestato?» Christine riprese a piangere. «Perché è contro Adolf Hitler. Dice che Hitler è un criminale che ci porterà tutti alla rovina. E qualcuno deve averlo denunciato per questo... Andreas, ho tanta paura.» L’abbracciò. «Ci sono io con te, Christine. Non avere paura.» Ma non poteva aiutarla, lo sapeva. Contro la Gestapo nessuno poteva fare niente. Era potentissima. Circolavano voci su camere della tortura, prigioni terribili, campi di concentramento, uomini che non erano più ritornati. Disse: «Forse lo interrogheranno e poi lo lasceranno andare». Ma in cuor suo non ci credeva. E neppure Christine. Con gli occhi pieni di sconforto disse di essere convinta che non avrebbe più rivisto suo padre. Poi, in silenzio, tornò a casa per occuparsi di sua madre, che era rimasta come pietrificata e non si capacitava dell’accaduto. In effetti, il padre di Christine non fece mai più ritorno; si seppe che era stato deportato in uno di quegli orribili campi di morte e poi più nulla. E come per uno strano scherzo del destino, quello stesso giorno anche Andreas venne a sapere che suo padre era morto in Francia. Con il solito tatto da elefante, glielo disse zia Gudrun la sera al suo ritorno a casa. Cominciò col prenderla alla larga, ci girò un po’ intorno parlando di valore ed eroismo tedesco (zia Gudrun era una brava patriota!), poi quando Andreas, sconvolto, cominciò a immaginare gli scenari peggiori, gli disse tutto d’un fiato: «Ah, a proposito, oggi è arrivato un telegramma. Tuo padre è morto, Andreas. Non c’è più niente da fare». Si voltò verso la cucina e riprese a girare energicamente qualcosa in una grossa pentola, incapace anche solo di guardare negli occhi il pallido ragazzino spaventato, che, ammutolito, le stava alle spalle, figurarsi prenderlo tra le braccia o fargli una carezza. In quel momento l’unico pensiero di Andreas fu: non ho più nessuno. Sono rimasto solo al mondo. Sua madre era morta dandolo alla luce e suo padre, il tenente colonnello Bredow, non era stato assolutamente in grado di occuparsi da solo di un bambino piccolo. Era un alto ufficiale prussiano, serio,


corretto e consapevole dei propri doveri, sempre un po’ severo e inavvicinabile. Nel suo cuore provava certo orgoglio e amore per il figlio, ma non riusciva a trasmettergli i suoi sentimenti. Trovò una puericultrice, la pagò una fortuna; sollevato si mise da parte e la lasciò libera di fare quel che voleva. Naturalmente, non ce ne fu soltanto una; in genere in una famiglia questo tipo di figura cambia per i motivi più diversi e all’età di otto anni Andreas aveva già avuto sette «signorine» e visto suo padre molto di rado. Lui adorava e ammirava quell’uomo dal portamento calmo e dignitoso che indossava sempre quella bella uniforme, e spesso la notte prima di addormentarsi piangeva perché per l’ennesima volta il suo desiderio di vedere il padre e dargli la buona notte era rimasto deluso. Tra tutte le signorine che si erano occupate di lui, soltanto una gli era piaciuta davvero, ma era rimasta sei mesi e poi si era sposata e si era trasferita a Berlino. Tutte le altre avevano sempre avuto qualche difetto. Una era noiosa, priva di senso dell’umorismo e metteva sempre il bambino in soggezione, un’altra rideva sempre e parlava tanto da fare venire il mal di testa. Una lo trascurava e alla fine fu licenziata, una aveva gli artigli di un corvo al posto delle unghie. L’ultima aveva un ragazzo che stava sempre a casa Bredow quando non c’era il tenente colonnello e che diceva ad Andreas che lo avrebbe «ammazzato» se lo avesse spifferato a suo padre. Una volta li aveva osservati mentre facevano l’amore sul tappeto del salotto; per lo shock Andreas aveva avuto incubi notturni e non aveva più voluto mangiare con lei. Ma neppure a un tenente colonnello quasi sempre assente poteva sfuggire una cosa così grave; alla fine l’uomo riuscì a farsi raccontare dal figlio tutta la storia, col risultato che le signorine furono bandite e arrivò zia Gudrun. Quantomeno con zia Gudrun non si correva il rischio di comportamenti sconvenienti. Era la sorella maggiore del tenente colonnello rimasta zitella. Odiava tutti gli uomini – fondamentalmente perché mai nessuno l’aveva corteggiata – e, con particolare zelo e indicibile bravura, aveva cercato di compensare la sua condizione di nubilato. Si trasferì, con armi e bagagli, nella casa di suo fratello, e da allora non mancò occasione per far notare ogni giorno a tutto il mondo quale straordinario atto di amore per il prossimo stava compiendo. Nelle orecchie del piccolo Andreas risuonava sempre lo stesso ritornello: «Non mi ringrazierai mai abbastanza!» Quando scoppiò la guerra e il tenente colonnello fu chiamato al fronte, Andreas rimase ancora più solo. Certo, la scuola, le attività dello Jungvolk e Christine gli riempivano le giornate, ma non aveva più nessun adulto cui affidarsi e dimostrare amore, non aveva più un modello da imitare. Solo un pensiero lo faceva andare avanti: presto la guerra sarebbe finita e papà sarebbe tornato a casa! E invece il padre era morto. L’immagine di quella sera gli sarebbe rimasta impressa per tutta la vita. Il cielo plumbeo fuori dalla finestra,


qualche nuvola rossastra al tramonto, e dentro l’odore di cucinato misto a sudore. Zia Gudrun era una casalinga perfetta. Andreas vide solo le sue spalle larghe e le grosse braccia arrossate che si muovevano rabbiose. Senza voltarsi disse: «La domanda adesso è: cosa ne sarà di te?» Non avrebbe mai dimenticato quella sensazione di abbandono. Una settimana dopo, un giovane soldato, rimasto al fianco del tenente colonnello fino alla fine, si presentò a casa Bredow. Disse che i pensieri dell’uomo, prima di morire, erano stati per il figlio. «Era preoccupato per te. Mi ha detto di venire qui a salutarti e a dirti che ti amava tanto. E mi ha dato questo per te». Il soldato frugò nella tasca della giacca e tirò fuori qualcosa. Era l’anello d’oro, quello che il padre portava sempre al dito e che nella famiglia Bredow da generazioni veniva tramandato di padre in figlio. «Questo adesso è tuo, ha detto. E ha detto anche di non dimenticarti mai di lui.» Mai. Non lo avrebbe mai fatto. Qualche tempo più tardi, zia Gudrun cominciò a lamentarsi sempre più spesso che era troppo vecchia e stanca per crescere un bambino da sola; che non si era mai risparmiata nella vita e che aveva tutto il diritto di pensare a se stessa una volta tanto. «Se solo sapessi cosa fare con te!» ripeteva sempre ad Andreas, che dal canto suo non sapeva come rispondere. Fortunatamente c’era ancora un parente, un cugino di zia Gudrun e di suo padre. Rudolf Bredow era emigrato in America quando era molto giovane e in breve tempo aveva fatto fortuna; era un uomo in gamba che amava correre rischi e così nel frattempo quella fortuna si era trasformata in un impero, le Bredow Industries, che comprendevano una catena di alberghi, ristoranti, giacimenti petroliferi in Texas e una compagnia aerea privata. Andreas non aveva mai conosciuto il leggendario zio Rudolf e sapeva che non era ben visto dal resto della famiglia, che invece considerava sporco quel tipo di affari. Tuttavia, quel comune sentimento familiare non rappresentò un ostacolo tale da impedire a zia Gudrun di mettersi in contatto con il cugino e assillarlo con diverse lettere finché lui cedette e acconsentì a prendersi carico dell’orfanello. Non aveva figli, e sua moglie Judith ne desiderava tanto uno da tempo e così quella sembrò la soluzione migliore per tutti. Zia Gudrun era tutta emozionata. «Spero che tu capisca la grande fortuna che hai avuto, Andreas! Alla fine erediterai tutto. E quando succederà ricordati di tua zia Gudrun. Non mi ringrazierai mai abbastanza!» Poi, frastornato, Andreas si lasciò travolgere dagli eventi. Non aveva ancora capito quel che gli stava accadendo che gli era già stato comprato un biglietto per la traversata in nave e i suoi bagagli erano stati sistemati in corridoio. Lui era fuori di sé perché non voleva lasciare Christine; quanto avrebbe voluto occuparsi di lei, portarla via con sé! Invece dovette lasciarla prigioniera di Hitler e della Germania; la Gestapo si era anche rifatta viva e aveva interrogato lei e sua madre.


Così Andreas vide come un tradimento il fatto che se ne stava andando dall’altra parte del mondo. Rudolf e Judith lo accolsero a braccia aperte, e in particolare Judith lo ricoprì fin da subito di amore e tenerezza. Sfortunatamente però quell’amore giunse troppo tardi a liberare Andreas dalla solitudine e dal turbamento, e a colmare i troppi vuoti che lo avevano segnato da bambino. Era sempre più malinconico e taciturno. Si sforzava di nascondere la sua tristezza perché capiva che Judith ne soffriva, ma gliela si leggeva negli occhi. Qualche volta pensava a come sarebbe stato se ci fosse stata Christine e ripensava ai pomeriggi trascorsi insieme, ai segreti che avevano condiviso e subito la nostalgia e la preoccupazione lo assalivano. Per giunta dalla Germania giungevano notizie sempre più tristi; sempre più città venivano bombardate e migliaia di persone uccise. Con angoscia continuava a chiedersi se Christine e sua madre stavano ancora a Berlino o se si erano messe in salvo da qualche parte. Per lui New York significava un nuovo mondo, una vita agiata su Central Park, vacanze nell’isola di Martha’s Vineyard o nel ranch texano, scuole private e poi un corso di studi in economia e giurisprudenza ad Harvard, ristoranti stellati e feste da ballo, autista, bagno personale e ore di tennis. Il giorno del suo compleanno invitava i suoi compagni di scuola e per tutti c’erano gelato e regali, e Judith stessa intratteneva tutta la compagnia. Tutto l’amore che poteva Judith lo donava al bambino venuto da lontano e Andreas la ricambiava con affetto e confidenza; ma l’unica cosa che proprio non riusciva a darle e che lei avrebbe tanto desiderato era la naturale, spensierata allegria di un adolescente normale. «Sei troppo serio per la tua età» gli ripeteva spesso. «Perché sei così triste?» Lui si limitava a sorriderle, ma avrebbe voluto rispondere: sarò triste finché vivrò. Il giorno del suo diciottesimo compleanno – nel maggio del 1945 quando la Germania aveva capitolato – Rudolf chiamò il figliastro nel suo studio e gli porse una spessa busta. «Per te, Andreas» disse. «È una copia del mio testamento. Sei il mio unico erede. Tutto ciò che mi appartiene un giorno sarà tuo.» Era un patrimonio a sei zeri. Andreas avrebbe voluto dire qualcosa, ma prima che aprisse bocca Rudolf aggiunse: «Non lo farei se non fossi certo che puoi farcela. Hai sempre dato prova di essere intelligente e affidabile. Ho grande fiducia in te, Andreas». «Sei davvero sicuro che io ne sia all’altezza?» chiese Andreas, dubbioso. «Ne sono convinto» rispose Rudolf. Andreas aveva venticinque anni quando Judith morì di tumore al cervello. Quattro anni dopo, Rudolf fu vittima di un grave incidente in elicottero. La sua agonia durò solo un giorno in un ospedale texano, e


quando, poco prima di morire, in un ultimo momento di lucidità riconobbe Andreas al suo capezzale, che lo aveva raggiunto da New York, gli disse: «Andreas sposati e fai dei bambini. Non è bello stare da soli». Negli anni che seguirono, quelle parole gli tornarono spesso in mente ogni volta che soffriva per la sua solitudine e attraversava stringendo i denti periodi di depressione. E allora si tuffava a capofitto nel lavoro, e faceva in modo di avere sempre qualcosa da fare, anche durante i fine settimana, tanto che le sue segretarie si lamentavano per il troppo lavoro. Nell’estate del 1967, Andreas ormai quarantenne fu colpito da un infarto. E il suo dottore gli disse preoccupato: «Se lo supera, non avrà una seconda possibilità, signor Bredow. È troppo giovane per avere un cuore già così mal ridotto». Dal suo diciottesimo compleanno, Andreas aveva cercato in tutti i modi di sapere cosa fosse successo alla sua amica Christine. Non lo aveva mai abbandonato il tormento per averla lasciata in Germania. Poi, finalmente un giorno d’autunno del 1969, gli investigatori privati che lavoravano per lui in Europa gli diedero una buona notizia. «Abbiamo trovato Christine. Suo padre è morto nel 1940. Lei e sua madre se la sono cavata benino finché lei si è sposata con un commerciante italiano Giuseppe Bellino e si è trasferita a Londra. I due hanno avuto un figlio, David. Subito dopo la sua nascita Giuseppe Bellino è morto di polmonite. Christine e David sono rimasti soli, e adesso il bambino ha nove anni.» Andreas non avrebbe mai dimenticato il momento in cui rivide Christine e conobbe il piccolo David. Che bel bambino! Magro, con la carnagione chiara e i capelli neri – eredità del padre italiano – e occhi chiari un po’ trasognati ma che si accedevano all’istante quando gli veniva rivolta la parola. Gli si avvicinò e disse: «Tu devi essere David. David Bellino». Lui annuì. Chiunque altro avrebbe affermato che David era troppo serio per la sua età, ma Andreas non aveva alcuna esperienza a riguardo. Lui vide soltanto la purezza innocente di un bambino ed ebbe la sensazione di aver finalmente trovato una persona cui poter dimostrare tutto l’amore di cui era capace. Ritrovarsi fu una vera gioia per Andreas e Christine; nessuno dei due aveva mai smesso di vivere nel passato e insieme ripercorsero tutti gli anni che avevano trascorso separati. Andreas apprese da Christine quanto aveva sofferto per la morte di suo padre prima e dopo per quella del marito. «Mio padre era tutto per me» disse, «lo adoravo, e non riuscirò mai ad accettare che sia morto in un terribile lager così presto. Giuseppe gli assomigliava un po’. L’ho amato tanto. Era di vent’anni più grande di me e mi ha saputo trasmettere calore e sicurezza. Ho pensato di non farcela quando è morto all’improvviso. Ho pensato anche che forse non ce


l’avrei fatta se non ci fosse stato David. Lui è tutto ciò che mi è rimasto. Amo tanto, troppo questo bambino, è impossibile esprimere a parole quello che sento per lui. Vorrei che un giorno diventasse come mio padre.» David ascoltava con gli occhi sgranati. Era presente anche quando Andreas, poco prima di partire, fece sedere Christine su una poltrona, le si mise di fronte e prendendole le mani tra le sue, disse: «Christine, ci ho pensato molto, e vorrei che tu fossi d’accordo con me e non rifiutassi per stupido orgoglio. Sai che io non ho eredi. Quando morirò, qualcuno dovrà prendere il mio posto nell’impero Bredow, e ho deciso che questo qualcuno sia David. No, non interrompermi. Io amo tuo figlio. Come sai, io non ne ho, lui non ha più un padre, e per me è come se fosse... mio figlio. È un ragazzo straordinario, intelligente. Per me è come un raggio di sole dopo la tempesta; le persone come lui sono la speranza per il futuro, nessuno deve subire quello che abbiamo vissuto noi. Lui deve avere tutte le possibilità, capisci? Vorrei che ricevesse la migliore istruzione, la pagherò io. E che un giorno diventasse un uomo ricco e potente, ascoltato e rispettato. Christine, lo desidero davvero. Gli starò vicino, gli darò tutto quello che posso e soprattutto l’amore che io ho avuto troppo tardi». Poi aggiunse con un filo di voce: «Saremo orgogliosi di lui». Le parlò con il cuore. E poi si scambiarono un sorriso in silenzio come a suggellare un legame indissolubile tra due anime che a metà della loro esistenza scelgono di dedicarsi con tutto l’amore e la dedizione possibili a un bambino. Andreas giaceva ancora sul pavimento, la guancia graffiata dall’anello di suo padre, mentre i fuochi d’artificio andavano avanti a scoppiettare allegramente. Per un attimo si sentì di nuovo abbastanza forte per tentare di raggiungere il telefono, ma ancora una volta le sue dita afferrarono solo aria. Mentre crollava di nuovo sul tappeto, rifletté. Aveva lasciato il telefono da qualche parte? No, non lo spostava mai da quando aveva perso la vista. Così avrebbe sempre saputo dov’era. E nessuna segretaria o signora delle pulizie osava spostarlo. Non avrebbe mai risolto quel mistero, lo sapeva. Sarebbe morto. Negli articoli che i giornalisti gli avevano dedicato, la sua vita da favola era sempre stata stigmatizzata come la «realizzazione del sogno americano». E se qualcuno gli faceva qualche domanda, lui rispondeva sempre: «Che dire, si vede che era il mio destino». In quegli ultimi attimi, pensò anche al destino e al suo ruolo nella vita di un uomo. Solo in quel momento, a posteriori, vedeva i singoli eventi del suo passato come concatenati e uniti in una unica storia, di cui stava vivendo l’epilogo. Sette anni prima un uomo gli aveva sparato mentre usciva dal Plaza; il suo obiettivo non era lui, ma la sua segretaria che lo aveva lasciato per un altro. Mirò male e Andreas cadde a terra e rimase in una pozza di sangue. I dottori lottarono per giorni per salvarlo. Aveva


il capo e gli occhi bendati, e quando gli tolsero le bende, la sua vista se ne era andata con loro. Con delicatezza gli dissero che era diventato cieco. E quella notte di San Silvestro era rimasto solo, soltanto a causa di quella puttanella che David considerava il suo grande amore. Una giovanissima ragazza del Bronx, che si era guadagnata una dubbia fama perché era comparsa nuda sulla rivista Hustler. Andreas non l’aveva vista ovviamente, ma aveva sentito la sua voce, capito le sue intenzioni. «Non ti ama, David, credimi. Vuole i tuoi soldi, la bella vita che puoi darle. Ti usa e basta!» Era come parlare a un muro. L’ultimo tentativo lo aveva fatto proprio quella sera. Aveva dato la libera uscita al personale, ordinato un buffet freddo da un ristorante, sistemato lo champagne in fresco e chiesto a David di mettere su un disco. Avevano chiacchierato del più e del meno per un po’ e poi Andreas con cautela aveva portato la conversazione sull’argomento Laura Hart. Ma David era subito esploso: «Basta, Andreas! Non voglio più sentire una sola parola contro di lei!» «David, se solo capissi che voglio il tuo bene. Questa donna non è niente per te. Devi rendertene conto prima che sia troppo tardi!» «Non approvi solo perché non ha un soldo e sua madre è morta alcolizzata!» «Questo non è vero. E neanche per quelle... foto di nudo, sebbene non mi faccia comunque piacere. Non approvo perché sento che non è sincera. Non ti ama David, per quanto te lo dica cento volte al giorno. Fidati. Noi ciechi vediamo cose che i vedenti spesso non vedono. Percepisco chiaramente che la sua è una recita.» Andreas era rimasto in silenzio, in attesa. Aveva sentito David alzarsi e capito che era furioso. «Avevo pensato che potessimo festeggiare piacevolmente questa notte. Ma se vuoi litigare, allora festeggia da solo. Me ne vado da Laura». «David, non andare! Parliamone...!» La porta si era chiusa e Andreas era rimasto da solo. Ed ecco che il suo destino si compiva: da bambino aveva lasciato la Germania con la tristezza nel cuore, e mezzo secolo più tardi, diventato vecchio e cieco, moriva di infarto in solitudine nel suo attico su Central Park solo perché un maledetto telefono non era al suo posto. Era quasi l’una di notte, quando Andreas Bredow esalò il suo ultimo respiro e il giovane inglese, David Bellino, ereditò un patrimonio milionario.


LIBRO I


New York, novembre 1989

Nonostante avesse preso il solito sonnifero, David si svegliò alle tre del mattino e prese a girarsi nel letto. Alla fine si svegliò anche Laura. «Cosa c’è? Non riesci a riaddormentarti?» «No, ma non preoccuparti. Vado nel mio studio.» «Dovresti andare da un dottore, David. Non dormi una notte intera da settimane!» «Ci sono andato e mi ha prescritto queste pillole, ma a quanto pare non aiutano un granché. Forse ho bisogno di qualcosa di più forte. Ma tu non preoccuparti.» Spinse indietro la coperta e si alzò. Al buio non poté vedere il viso di Laura e così non si accorse dell’espressione di astio sul suo viso. Certo che non mi preoccupo, pensò lei. Andò nel suo studio, quello che un tempo era stato di Andreas e che a quasi un anno dalla morte, lui aveva ristrutturato secondo i suoi gusti. Aveva lasciato solo la scrivania vicino la finestra, su cui campeggiava una fotografia incorniciata di Andreas. Si sedette. Era stanco e infreddolito. Le tante pillole che aveva ingurgitato avevano uno strano effetto su di lui; gli davano sonnolenza ma non gli toglievano l’ansia, avrebbe dormito per anni ma allo stesso tempo si sentiva un nodo in gola. «Che pillole di merda» mormorò, «fanno stare solo peggio!» Era diventato molto alto e aveva un bell’aspetto con quei suoi capelli neri e i piccoli occhi chiari. Ciò che colpiva di più le donne erano le mani e le spalle larghe. E lui era consapevole del suo fascino, che sfruttava di continuo. Ma in quel momento, rannicchiato nel cuore della notte, si sentì un miserabile. Le dita gli tremarono leggermente quando da un cassetto tirò fuori una pistola, posata su una pila di buste. Con cautela sfregò il metallo nero brillante. Avvertì un po’ di sollievo. Dalla morte di Andreas non era più riuscito a dormire. La mattina in cui, rientrando a casa, lo aveva trovato morto davanti alla scrivania aveva stravolto la sua vita. Non poteva più fare a meno dei calmanti, che lo salvavano dai sensi di colpa e dalle paure sempre in agguato in cui rivedeva di continuo l’ultima scena di quella notte di San Silvestro. «Me ne vado da Laura!» gli aveva detto. Per un attimo il suo sguardo si era posato sul telefono sulla scrivania. Andreas conosceva il numero di telefono di Laura; la ragazza viveva in un piccolo appartamento sul fiume Hudson che le pagava David.


E lì non potrai disturbarmi, aveva pensato, non stanotte. Quelle poche volte che Andreas aveva chiamato da Laura sapendo di trovarvi David avevano causato delle sgradevoli discussioni. Quella notte David non glielo avrebbe permesso. Il tappeto aveva attutito i suoi passi quando si era alzato e si era diretto verso la scrivania; dopo tutto, il giradischi andava avanti a suonare. Aveva afferrato di scatto il telefono e lo aveva riposto sul carrellino portadocumenti nell’angolo. Andreas lo avrebbe trovato di certo, ma prima avrebbe dovuto cercarlo per un bel po’. «David, non andare! Parliamone...!» Ma lui se ne era andato sbattendo la porta. Una volta fuori, aveva tirato un profondo sospiro. Qualche volta lo avrebbe mandato al diavolo. Ma perché gli uomini anziani credono di potersi immischiare nelle cose che non li riguardano? Lo ricordava come fosse stato il giorno prima: era una tranquilla mattinata fredda, di neve. Era tornato a casa in auto, da solo senza autista. Voleva scusarsi con Andreas per la sua reazione incontrollata e poi avrebbero potuto parlare con calma del problema «Laura». Chissà, magari Andreas si sarebbe liberato dai suoi pregiudizi – pregiudizi, pensò amaramente in quel momento. Col tempo era sempre più dell’idea che Andreas avesse avuto ragione. Ma allora era convinto che Laura lo amasse. Gli piaceva come rideva, parlava, gesticolava, come beveva entusiasta lo champagne, come si muoveva o come si sporgeva dalla finestra e lasciava che i fiocchi di neve si sciogliessero sul suo viso. E gli piaceva anche quando la sua espressione allegra mutava improvvisamente in malinconia e si faceva mesta e riflessiva. Mai avrebbe potuto rinnegare le sue umili origini del Bronx neanche con indosso un abito di Ungaro o una pelliccia di Fendi. Nei suoi ricordi c’erano freddo e povertà, paura e violenza. Qualche volta cercava il suo abbraccio come un cucciolo che cerca protezione nella madre, e col capo contro il suo petto, sussurrava: «Non voglio più essere povera, David. Mai più. Ho paura di svegliarmi un giorno e di ritrovarmi di nuovo nella mia casa fatiscente nel Bronx, con mio padre ubriaco che mi russa accanto e mia madre che non è tornata a casa e io che mi metto a cercarla per strada...» «Non aver paura, Laura. Ci sono io a proteggerti adesso. Sei mia ormai.» «Lo so, David. Ma alle volte ho degli incubi tremendi, e ho paura quando si fa buio o mi trovo in mezzo alla gente...» «Finché sarò al tuo fianco, non devi temere nulla, Laura.» Lui la teneva tra le braccia e la rassicurava; e lo aveva fatto anche quella mattina di Capodanno quando la paura del futuro le era sembrata un invalicabile grande muro nero. A lui piaceva il ruolo dell’angelo custode, lo faceva sentire forte, ma non riusciva a comprendere del tutto la psicologia di Laura, e in particolare, che quel suo comportamento suscitasse in lei sentimenti contrastanti: da un lato era legata a lui


perché era stato il primo uomo che le aveva dato sicurezza, ma lo odiava al contempo perché rappresentava la sottile linea di demarcazione tra il suo passato e la sua nuova vita, senza contare che per quel motivo lui la teneva in pugno. Quando era tornato nell’appartamento suo e di Andreas quella mattina ammantata di neve, non pensava affatto di averla lasciata agitata e triste. Credeva che fosse di buon umore proprio come lui. Qualche tempo dopo lei avrebbe detto di lui: «È stato assolutamente insensibile». David aveva capito che Andreas era morto non appena lo avevo visto riverso a terra davanti alla scrivania, e un attimo dopo aveva capito anche come dovevano essere andate le cose. Il telefono! Andreas aveva cercato di raggiungere il telefono prima di morire. David non sapeva dire quanto tempo fosse rimasto nella stanza a fissare ogni oggetto, ogni mobile. Ogni particolare gli bruciò per sempre nella mente. La tavola imbandita con il buffet freddo della cena, vomito sul tappeto, avanzi appiccicati nei piatti dall’aspetto poco invitante alla fioca luce di quel mattino invernale, bicchieri di vino lasciati a metà. Il disco, che avevano ascoltato, giaceva immobile sul giradischi, e si sentiva puzza di fumo stantio. Mentre cercava di raggiungere la scrivania, Andreas doveva aver perso una pantofola; era rimasta al centro del tappeto. Nell’acquario illuminato posato su un ripiano della libreria, due pesci nuotavano veloci l’uno dietro l’altro. In quel momento, il telefono aveva squillato e David era trasalito. Con la mano tremante aveva alzato la cornetta. «Sì?» «Signor Bredow?» Era il portiere. David si era schiarito la voce. «No. Sono David Bellino.» «Ah, signor Bellino! Buongiorno. Il ristorante ha mandato il personale a ritirare le stoviglie. Posso farli salire?» «Purtroppo è successa... una cosa terribile...» «Signor Bellino? Ha uno strano tono, cosa è successo?» «Quando sono rientrato a casa, ho trovato mio zio a terra davanti alla scrivania. È... morto...» Quelle parole erano rimaste intrappolate nella stanza. E con loro i ricordi. Soprattutto il ricordo di quando aveva rimesso il telefono al suo posto prima che arrivassero il dottore e la polizia. Tutti avevano pensato che Andreas non avesse avuto la forza di alzare la cornetta e nessuno si era fatto altre domande. La morte di Andreas era finita su tutti i giornali, ma poi era stata subito dimenticata. David, l’erede, prese il suo posto nella società newyorchese e sulla stampa che con dovizia di particolari descrisse e riportò chiacchiere e pettegolezzi sulla sua relazione con Laura Hart. Nessuno lo aveva mai criticato pur sapendo che quella notte avevano discusso e lo aveva lasciato solo. Come avrebbe potuto immaginare che proprio quella notte Andreas avrebbe avuto un infarto? David pensava molto ad Andreas, lì in quella stanza, e lo faceva sempre più spesso. Aveva voluto bene a quell’uomo, o meglio: non


aveva trovato alcun motivo per non volergliene, e si era sempre vergognato quando non era stato d’accordo con lui su qualcosa. Andreas si era sempre comportato bene con lui, e anche la discussione su Laura era scaturita solo dalla sua preoccupazione per David, e ne doveva averne sicuramente sofferto. David ricordava le tante vacanze che aveva trascorso a New York: Andreas aveva sempre cercato di fargli piacere. Voleva che si divertisse, facesse ogni tipo di esperienza, e soprattutto che ritornasse volentieri. Gli aveva sempre dedicato tanto tempo, gli aveva mostrato la città; una volta lo aveva persino portato con sé a Los Angeles e un’altra volta in Colorado a sciare. Quando poi ritornava a casa, non sapeva da dove cominciare a raccontare. Eppure... c’era sempre un’ombra. La malinconia negli occhi di Andreas era la stessa che vedeva negli occhi di sua madre. Sembravano estraniati, come aggrappati al passato. Quel distacco dalla realtà lo aveva tormentato quando stava con Christine, e lo tormentava quando stava con Andreas. Talvolta il fatto di essere allegro e contento e non triste come loro due lo faceva sentire in colpa. Non avrebbe mai dimenticato il discorso che gli fece Andreas quando compì sedici anni. Era il Natale del 1976. David era volato a New York il 25 dicembre. Nell’attico di Andreas lo aspettava un gigantesco albero di Natale adorno di tantissime palle colorate, e stipato di doni ai suoi piedi. Andreas gli offrì un calice di champagne. Il giradischi suonava canti natalizi e l’aria era profumata di cera di candele e aghi di abete. David si era seduto tra i suoi regali; era contento. Davvero. Teneva un orologio in mano, un meraviglioso orologio da polso con quadrante nero e sottili lancette d’oro. Un regalo di Andreas. Lo aveva guardato e sorriso. «Grazie, Andreas. È bellissimo! Ma come hai fatto a indovinare che desideravo proprio un orologio?» «Me lo ha detto tua madre» aveva risposto lui. Aveva osservato il ragazzo, e David si era sentito un po’ a disagio. «Sono felice che ti piaccia, David. E sono felice ancora di più che tu sia qui con me.» «Lo sai che vengo volentieri qui a New York», aveva dichiarato David timidamente. Andreas aveva annuito. «Allora quando avrai finito la scuola in Inghilterra, potrai venire a vivere in America per sempre. Avevo paura che tu la pensassi diversamente e che non ti piacesse qui. Ma qui ti piace, vero? E anch’io... ti piaccio?» «Certo che mi piaci...» Andreas aveva annuito di nuovo lentamente e poi, pensieroso, aveva rivolto lo sguardo verso l’albero avvolto dal chiarore delle candele. «Tu sai, David, che io sono sempre stato solo. Già da bambino. Avevo solo tua madre, nessun altro. A tredici anni sono rimasto orfano, non che prima ci fosse qualcuno che si prendeva davvero cura di me, comunque. Ho sempre desiderato avere un giorno qualcuno tutto per me. Qualcuno che mi amasse, che avesse bisogno di me, che avesse fiducia in me. Qualcuno, per cui io significassi qualcosa...»


Oddio, aveva pensato David un po’ nel panico. Andreas lo aveva guardato. «Tu sai che per me sei come un figlio, David. Ti darò tutto quello che possiedo. Mi riempirebbe davvero di gioia se tu accettassi di venire a vivere qui per sempre.» «Qui a New York, intendi?» «Qui con me. Questo attico è troppo grande. Perché non ti trasferisci qui? Così nessuno dei due sarà mai solo. Naturalmente io non ti starò tra i piedi. Sei grande e potrai startene per conto tuo quando vorrai. Ma la sera potremo ritrovarci, parlare, potremo fare colazione insieme la mattina, uscire insieme. Sarebbe bello potersi confidare tutto, gioie e dolori. Avremmo sempre qualcuno che ci ascolta.» Andreas gli aveva parlato con il cuore in mano, e David aveva notato le lacrime nei suoi occhi. D’un tratto si era reso conto di quanto fosse solo quel ricco signore di New York. Davanti alla tristezza e al dolore degli altri, rimaneva paralizzato. Accidenti, aveva pensato, vivere qui con lui! Aveva sempre pensato che avrebbe ricevuto un appartamento tutto suo a New York. Nulla di eccezionale, solo un posticino dove potesse tornare e starsene un po’ per conto suo. La proposta di Andreas, degna di un padre amorevole e premuroso ma schiacciante al contempo, di andare a vivere con lui, l’aveva spaventato. Ma come gli era già capitato con sua madre, non era riuscito a dire di no. Quando viveva con la madre, avrebbe tanto voluto esplodere qualche volta perché lei lo opprimeva in modo insopportabile. Da bambino dormiva nel letto con lei, e come se non bastasse, dopo la morte del padre, lei aveva preso a ripetere come una cantilena che lui era l’unica cosa che le era rimasta. Ricordava bene il forte senso di colpa per aver desiderato di non stare più con lei; tutte quelle domeniche in cui avrebbe tanto voluto giocare con gli altri bambini, e invece, per non vedere la triste espressione sul viso di sua madre, rimaneva a casa con lei. «Così dovrò prendere il caffè da sola» diceva. «Non vedo l’ora di passare il pomeriggio con te, David. Ma, se stare con gli altri bambini ti diverte di più che stare con la tua noiosa mamma...» «Preferisco stare con te, mamma» diceva poi lui alla fine, un po’ arrabbiato, un po’ rassegnato e anche con un po’ di vergogna perché era evidente che non le voleva abbastanza bene per stare con lei. «Rimango qui!» E quel giorno, Andreas lo aveva guardato con la stessa espressione negli occhi che aveva sempre avuto sua madre, e ancora una volta David era stato colto da quel senso di incapacità di esprimere i propri desideri e di rabbia impotente. Se avesse risposto «no», se avesse detto che avrebbe preferito vivere per conto suo, sarebbe stato come punire un bambino innocente mosso solo da buone intenzioni. Andreas era in buona fede. Lui era la bontà in persona ma gli aveva risvegliato quel familiare senso di vergogna; avrebbe tanto voluto urlare. «È una buona idea, Andreas» disse con gentilezza. «Certo che vengo a


vivere qui con te.» Con lui, pensò. Merda! Ora, dopo la sua morte, era contento di non aver mai perso il controllo. Lo avrebbe rattristato e stravolto, e Andreas non lo avrebbe mai capito. Mentre era perso nei suoi pensieri, posò lo sguardo sul grosso anello d’oro dei Bredow, quello che Andreas gli aveva sempre promesso e che lui aveva sfilato dal suo dito quella mattina di inizio gennaio. Sollevato pensò: almeno non sono stato un ingrato. Non gli ho mai dato un dispiacere! Aprì di nuovo il cassetto e tirò fuori un plico di buste legate con un elastico. Non avevano mittente, erano state scritte a macchina e contenevano insulti e minacce terribili. Minacce di morte. «Guardati le spalle, sporco maiale. Presto morirai.» «Pagherai per i tuoi errori, David Bellino, il giorno della vendetta è sempre più vicino.» David Bellino era sempre stato ipocondriaco. Al minimo starnuto si imbottiva di antinfluenzali. Se veniva colto dal singhiozzo, si convinceva di avere un cancro all’esofago e andava da uno specialista. Se per caso leggeva su un giornale di una malattia, subito ne avvertiva tutti i sintomi. Il pensiero del dolore e del deperimento fisico lo atterriva, non accettava la possibilità di morire. In sostanza si adoperava per morire il più tardi possibile. Chiunque altro non avrebbe dato peso a quelle lettere che arrivavano ogni due settimane ormai da tre mesi. Era ovvio che un uomo nella sua posizione avesse dei nemici, ma non per quello avrebbero messo in atto quelle minacce. David le aveva fatte analizzare da uno psicologo e quello aveva concluso che l’autore delle lettere provava una profonda soddisfazione nello scriverle ma non aveva alcuna intenzione di passare alle vie di fatto. «Chi scrive è una persona intelligente e sensibile. Non penso sia capace di fare del male.» David si era tranquillizzato, ma aveva comunque deciso di non lasciare perdere del tutto la questione. Lui c’era quando avevano sparato ad Andreas – quella scena si era impressa nella sua memoria – e ogni volta che usciva da un edificio e andava in strada si aspettava che gli succedesse la stessa cosa. La paura era il suo peggior nemico; lo tormentava ovunque andasse. Le lettere erano state il colpo di grazia, che fossero vere o no. Doveva scoprire chi le scriveva; doveva mettere fine a quella storia o sarebbe diventato pazzo. Gli veniva in mente un bel po’ di gente. Soci in affari che alla fine ci avevano rimesso, dipendenti che erano stati licenziati, politici, ecologisti, che non erano mai d’accordo con qualunque cosa facessero le Bredow Industries. La lista era lunga. Prese carta e penna e scrisse quattro nomi in stampatello: MARY GORDON STEVEN MARLOWE


NATALIE QUINT GINA ARTANY Quattro nomi, quattro vite. Quattro vecchi amici. Non sapeva più quante volte ci aveva pensato. E più ci pensava, più si convinceva che quello che bramava la sua rovina era uno di loro. Ognuno di loro aveva un motivo. Poteva essere ognuno di loro. Li aveva invitati da lui e con sua grande sorpresa avevano accettato tutti. Sarebbero stati suoi ospiti dal 27 dicembre al primo gennaio. I quattro non si vedevano più da anni, e da anni non avevano più voluto vedere David. Si alzò e si avvicinò alla finestra. C’era ancora buio. Novembre... che mese deprimente, grigio e freddo! Nebbia ovunque che celava pericoli oscuri. «Nebbia, nebbia, nebbia; per tutto il dannato tempo. Non vedi dove vai, non vedi niente» per dirla con Anna Christie di Eugene O’Neills. David Bellino era d’accordo. David non era affatto felice, e così andava regolarmente da uno psicoterapeuta, o meglio, siccome non era un uomo molto paziente ogni volta che aveva la sensazione di non sentirsi aiutato da quello in carica in quel momento, decideva subito di rivolgersi a un altro. «Penetrare la mente umana è un lavoro lungo e faticoso» aveva dichiarato una volta uno dei suoi dottori. «Le cose che ha vissuto da bambino e che ha rimosso devono emergere ed essere analizzate pian piano. La fretta non aiuta in questi casi!» «Ma la mia è stata una infanzia serena, dottore!» Il dottore aveva sorriso comprensivo. «Se lei ne è tanto convinto, allora senza dubbio è stato il contrario.» David aveva cambiato terapeuta. In realtà non sapeva neanche lui quello che voleva davvero. Almeno era sano. Quando poi decise di non farsi più aiutare dagli strizzacervelli, gli successe di tutto. Divenne isterico perché si convinse di avere problemi alle ossa. Cominciarono degli incubi tremendi. E poi anche forti attacchi di emicrania che lo costringevano a casa giornate intere. Ed eccolo sdraiato di nuovo su un divanetto nello studio di un terapeuta. «Perché si chiama David?» aveva chiesto il dottore. «È un nome ebraico!» «Lo ha scelto mia madre... è tedesca, ed era una bambina durante il nazismo. Lo ha fatto in ricordo di tutti i bambini ebrei uccisi.» «Quindi lei non è ebrea?» «No. Ma suo padre è morto in un campo di concentramento.» La foto di suo nonno aveva avuto sempre un posto d’onore in salotto, David lo ricordava bene, probabilmente era il primo ricordo della sua vita. Sua madre aveva allestito una sorta di altare con tanto di candele, fiori e una Madonna. Lei era cattolica. In Inghilterra non c’erano chiese cattoliche, ma lei era molto credente. Una volta, lui aveva preso la piccola statua per giocarci; gli sembrava una bella bambolina con quel


suo abito blu e il velo rosso intorno al viso. Ma la madre gliela aveva strappata di mano e gli aveva dato un paio di schiaffi. «Non farlo mai più, David!» Poi, quando piangendo e strillando si era buttato sul tappeto – nessuno mai lo aveva picchiato e non riusciva a capacitarsene – sua madre lo aveva preso in braccio, piangendo con lui. «David, tesoro. Mi dispiace. Mi dispiace. Devi capire... mio padre... un giorno ti racconterò di lui e capirai...» «Sua madre le parlava spesso di suo nonno?» gli aveva chiesto il dottore, leggendogli nel pensiero. «Sì.» «Cosa le raccontava?» «Non so dirle di preciso...» «Non ricorda nulla?» Ricordava i suoi brutti sogni, pieni delle storie di sua madre che spesso si fondevano con quello che altri gli avevano raccontato o con le immagini che aveva visto in televisione. Ricordava che si svegliava in preda al panico e accendeva subito la luce per sentirsi al sicuro, senza capire perché quelle terribili immagini si fossero fuse insieme. «Sua madre l’ha sempre amata molto?» aveva chiesto il dottore con delicatezza. David aveva annuito. «Sì. Aveva solo me. Aveva perso suo padre e suo marito e mi ricopriva di tutto l’amore di cui era capace.» «E poi c’era l’uomo di New York, quello che lo ha nominato suo erede. Trascorreva molto tempo con lui?» «Quasi tutte le vacanze. Oppure veniva a trovarci lui di tanto in tanto.» «E anche lui lo ha amato molto?» «Sì.» David si era spazientito, non capiva cosa significava tutto quel discorso. «Neanche lui aveva nessuno. Mi ascolti dottore, io...» «Questo è un punto importantissimo, signor Bellino. Si è mai sentito soffocare? Hai mai sentito il bisogno di difendersi, senza sapere da cosa?» Aveva toccato un punto dolente, e David aveva avvertito quel familiare e angoscioso groppo in gola. «Sì... credevo di morire soffocato, dottore. Mi succedeva spesso. Ero pieno di rabbia, ma non potevo rivolgerla contro nessuno. Loro erano così buoni con me. Volevano solo il meglio per me. Dovevo avere il meglio ed essere il migliore. A volte avrei voluto urlare, ma non lo facevo mai. Temevo il loro sguardo inorridito se lo avessi fatto.» «Secondo la mia opinione, le radici del suo disagio, signor Bellino, non si devono ricercare in quello che le è stato raccontato o nelle paure con cui ha vissuto sua madre che senza dubbio le ha trasmesso; quelli sono aspetti con un’evoluzione completamente diversa. Sua madre e il signor Bredow l’hanno letteralmente... sì, come ha appena detto lei, soffocato con il loro amore e le grandi aspettative che nutrivano su di lei. Quell’amore lo ha reso impotente. Lei non ha avuto la possibilità di fare


tutte le normali esperienze di vita che un giovane della sua età deve fare. E ora non trova pace.» Il dottore aveva sospirato. «Se pensa a quando era piccolo, che aggettivi le vengono in mente se dovesse descrivere quel bambino con due parole?» «Disorientato», aveva risposto David, e poi aveva aggiunto: «Avevo paura di tutto quello che non conoscevo. Ero... ipersensibile e anche un po’ isterico. Avevo incubi tremendi». Non si era accorto di aver descritto esattamente l’adulto che era diventato.


New York, 28.12.1989

1 Gina Artany amava il lusso. Siccome in passato aveva sempre dovuto risparmiare, non appena entrò in una delle camere degli ospiti di David non resistette all’impulso di consumare tutto ciò che la circondava. Accese tutte le luci, riempì la vasca da bagno fino all’orlo e vi rovesciò dentro un profumo costosissimo, che aveva trovato in un mobiletto del bagno, in una quantità tale da riempire tutto l’ambiente. Stappò due bottiglie di champagne solo per stabilire che avevano effettivamente un sapore diverso. Poi spalancò la finestra e alzò il riscaldamento perché quella miscela di aria fresca e calda rappresentava per lei il massimo del lusso. Si immaginava Charles, suo marito, che in tono assillante le diceva: «Tesoro, se apri la finestra abbassa il riscaldamento. Se no la bolletta sale, lo sai...» Lord Charles Artany. L’uomo che le aveva dato il titolo di «lady». L’uomo con cui era dovuta andare a vivere in una villa di campagna poco confortevole e piena di spifferi nel Nord dell’Inghilterra e con cui aveva fatto bancarotta. Avvolta in un soffice accappatoio bianco, si mise di fronte allo specchio e si esaminò il viso: era il viso di una donna di ventinove anni, praticamente al verde e che ormai comunicava solo con gli ufficiali giudiziari. «Sono la donna che John Eastley ha amato e perso» disse ad alta voce facendo attenzione a come pronunciava quel nome. Quando Charles era con lei, le venivano le lacrime agli occhi mentre pronunciava quelle stesse parole; ora, con l’Atlantico che li divideva, si sentiva meno triste. Fingere di amare un altro uomo, quando tutto il suo amore era solo per John, era la cosa peggiore. Sopportava controvoglia la tenerezza di Charles, la ricambiava ancora più controvoglia e aveva la sensazione che il suo cuore non sarebbe mai guarito. Per la prima volta, il dolore sembrava un po’ sopito, ma forse anche perché era stanca di concedere a quella tristezza tutto quello spazio. Doveva concentrarsi. Si tolse l’accappatoio, e poiché non aveva più tempo per un bagno, si infilò della biancheria pulita e prese l’abito che voleva indossare per cena. Ce l’aveva dai bei tempi con John, era di seta nera e aveva una profonda scollatura rotonda. Aveva accorciato l’orlo della gonna in modo che fosse più alla moda. Si mise un collier di smeraldo e si spazzolò i lunghi capelli scuri. Lo specchio restituiva l’immagine di una donna


vestita in modo costoso. Che buffo, pensò considerando la sua disastrosa situazione: se l’invito di David non fosse stato accompagnato da un biglietto aereo, lei non avrebbe mai potuto pagarsi il viaggio. Non aveva mai più voluto rivedere David. Lo odiava con tutta se stessa da sempre, ma era così dannatamente ricco e lei aveva urgente bisogno di soldi. Centomila dollari l’avrebbero aiutata a uscire da quel momento critico, e David doveva darglieli. Non sarebbe di certo andato in malora per quello, al contrario, se la sarebbe cavata anche con poco, troppo poco. Avrebbero dovuto mettergli un cappio al collo, pensò Gina, Dio solo sa quanto lo meritava! Raddrizzò le spalle e si sentì pervadere da quella fiducia in se stessa che negli ultimi tempi aveva creduto di aver lasciato al monte dei pegni con tutte le altre cose. Al chiarore della lampada i suoi capelli castano scuro brillavano come la seta, e i suoi occhi ambrati scintillavano. Era una donna attraente e forte, e aveva già affrontato e superato prove ben più difficili di quella attuale. Guardò l’orologio. C’era ancora un po’ di tempo prima della cena e decise di farsi portare ancora un’altra bottiglia di champagne. La terza, e di nessuna delle tre aveva bevuto più di un bicchiere. Sapeva che David l’avrebbe considerata una mancanza di rispetto, ma non le interessava. Per tutto il giorno, Natalie Quint aveva cercato di mettersi in contatto telefonico con il suo appartamento di Parigi. Nel tardo pomeriggio, circa le undici a Parigi, era riuscita a raggiungere Claudine. «Pronto?» la sua voce sembrava allegra e un po’ affannata. «Claudine! Finalmente! Ma dove sei stata? Sono ore che ti cerco!» «Nat? La linea è disturbata, ti sento malissimo. Come va lì a New York?» «Tutto ok. Dove sei stata?» «Prima a fare un po’ di spesa, non c’era più nulla da mangiare a casa. E poi da Marguerite Fabré a Versailles. Mi voleva parlare perché ha scritto una sceneggiatura e pensa che solo io possa recitare nel ruolo della protagonista del film. Da quello che mi ha raccontato, deve essere una storia davvero bella.» «Pensavo che non volessi più recitare» disse Natalie allarmata. Con la cornetta bloccata tra il mento e la spalla si accese una sigaretta. Gli innumerevoli, vani tentativi di mettersi in contatto con la compagna per tutto il giorno l’avevano resa molto nervosa. Con tono perentorio ripeté: «Perché tu non volevi più recitare, vero Claudine?» «Certo che no, amore» rispose lei con un po’ di ansia. «Ho solo pensato che non ci fosse niente di male a incontrare Marguerite un’altra volta. E poi, le fa sempre piacere quando qualcuno si interessa alle sue sceneggiature.» «E nessun altro è interessato?» «Certo... ma noi ci conosciamo da così tanto tempo. E cosa avrei


dovuto dirle? Non posso non avere mai tempo!» «Devi fare quello che vuoi» disse Natalie in tono brusco. Claudine prese a giustificarsi. «Natalie non volevo farti arrabbiare. Ho detto a Marguerite che non voglio più fare film... davvero.» «Cosa vuol dire ‘davvero’?» «...l’ho detto così per dire. Non farò più film, Nat, questo è chiaro. Non avercela con me, ti prego!» disse con un tono infantile e sincero. Nat sospirò. «Scusami, Claudine. Non so cosa mi prende. Il solito probabilmente.» «Hai portato le pillole?» «Certo. Tantissime. Il dottor Guillaume mi ha persino aumentato la dose giornaliera di cinque milligrammi, ma oggi sembra non fare effetto. Maledetta cena! Mi sento uno schifo!» E ho anche un aspetto da schifo, pensò. Si sedette sul letto con le gambe incrociate e osservò la sua immagine riflessa nell’anta a specchio dell’armadio. Era pallida e con le occhiaie; solo un bel po’ di trucco avrebbe potuto salvare la situazione, tanto più che aveva pure tutti i sintomi di una crisi claustrofobica che neanche il valium avrebbe potuto placare. Sentiva di non farcela a rivedere David. E per giunta alloggiava nell’attico di un edificio di venti piani, dalle cui finestre sarebbe stato impossibile mettersi in salvo in caso di pericolo. Il suo appartamento di Parigi era al pianterreno e anche quando andava in albergo chiedeva sempre di stare nei piani bassi. Cercò di ricordare le parole del suo terapeuta: «Deve smetterla di pensare sempre alla fuga, Natalie. Non deve temere niente e nessuno. La sua vita è bella, di successo e interessante. Non c’è motivo di avere paura». Una vita bella, di successo e interessante! Fece una smorfia e nello specchio notò che i capelli della sua frangetta bionda si erano arricciati e appiccicati sulla fronte. Natalie Quint, la famosa giornalista televisiva. Le avevano affidato un talk show tutto suo in Inghilterra. Uno anche in America. E ora uno anche in Francia. Ma chi avrebbe mai immaginato che si imbottiva di valium per entrare nello studio? Per andare a una festa o anche semplicemente per entrare in un supermercato? Il suo produttore sapeva quello che passava prima di una trasmissione quando, con l’espressione di un animale in gabbia, si rannicchiava nel camerino. «Non posso fare la trasmissione. Non posso, non posso, non posso!» «Natalie! Stringi i denti! Ce la fai perché sei la migliore! Lo sanno tutti.» «No, non ce la farò.» «Non dire così, Nat!» le disse Claudine dall’altra parte dell’oceano. Natalie trasalì. Si accorse di aver alzato troppo la voce. «Claudine, questa cena... i vecchi amici... e poi David... temo di crollare di nuovo!» «Avrei dovuto accompagnarti!» «Devo riuscirci da sola. Claudine, mi sarai vicina col pensiero? Per tutto il tempo? Mi aiuterebbe molto.» «Tesoro mio, sarò sempre con te. Sempre, in ogni momento. Questo lo


sai!» Ascoltò la voce dolce che giungeva da Parigi come un bambino ascolta una ninnananna. L’amore e la dedizione di Claudine la calmarono un po’. Mancavano venti minuti alla cena, e pensò: Non sono sola! Decise quale abito indossare cercando di convincersi che era una donna normalissima, che andava a una cena normalissima senza pensare a nulla. Andò in bagno e si truccò, ma come aveva temuto non aiutò molto. Continuava a vedersi uno schifo. Ma perché sono venuta qui? si chiese. Esitante, fissò il suo viso nello specchio. Solo per guardare negli occhi quel maiale di David dopo nove anni? Steven Marlowe era quasi certo che Gina fosse a New York per il suo stesso motivo: le servivano soldi. Aveva seguito con interesse sulla stampa britannica le notizie che la riguardavano: avevano cominciato col raccontare della bancarotta del marito dovuta principalmente a un musical in cui aveva investito, che però era stato un fiasco, fino al giorno in cui gli avevano pignorato tutti in beni. Se quanto dicevano i giornali era vero, a Gina rimanevano solo i vestiti che aveva addosso. Ciononostante, sembrava che lei non fosse povera quanto lui, anche se, probabilmente lui aveva più denaro di lei. Gina aveva sempre dato l’impressione di essere una donna sicura e indipendente, comunque le andassero le cose. Il suo carattere forte le aveva sempre fatto superare tutte le prove difficili della vita, e senza dubbio sarebbe passata sopra anche alla perdita di tutti i suoi agi. Niente e nessuno al mondo, Steven ne era convinto, avrebbe mai potuto metterle i piedi in testa. Ma lui, lui era di nuovo caduto in basso. Non si era ancora ripreso da quando era uscito di prigione la prima volta, e la seconda volta che era finito al fresco non aveva fatto che acuire tutte le sue nevrosi. Era ossessionato dall’idea di puzzare di galera, che la sua pelle avesse assunto il colore della galera; che tutto di lui dicesse che era stato in galera e che quindi chiunque lo incontrasse lo capisse solo vedendolo. Aveva ricordi terribili di quel periodo, che ancora lo perseguitava con incubi notturni che lo facevano svegliare nel cuore della notte in un bagno di sudore. Il suo pensiero fisso era: mai più, non deve succedere mai più. Ma sapeva che poteva succedere ancora. Chi veniva risucchiato dal vortice in cui si era trovato lui, prima o poi finiva di nuovo davanti a un giudice. Il suo lavoro come cassiere in un parcheggio londinese era a rischio; presto avrebbero messo delle macchinette automatiche al suo posto, e senza più un lavoro in poco tempo si sarebbe cacciato in qualche altra faccenda losca. Solo per avere un po’ di soldi, per potersi permettere una bottiglia di vino, un buon dopobarba, o un pullover di cachemire. Da giovane, indossava solo camicie di seta e pullover di cachemire, li adorava. Il bel e impeccabile Steve! Così raffinato, così elegante, così perbene. Il ragazzo che stava in bagno per ore. «Steve passa metà della vita in bagno, e l’altra metà a imbrogliare chiunque


possa essergli utile» gli aveva sempre detto Gina per provocarlo. Lui e Gina non si erano mai piaciuti. Lui disprezzava il suo modo di rifiutare in toto le convenzioni ma al contempo doveva ammettere suo malgrado che ammirava l’audacia con cui trattava le persone di un certo livello. Dal canto suo, Gina lo considerava un furbetto arrampicatore sociale che avrebbe fatto carriera sfruttando tutte le opportunità. E infatti, grazie alle conoscenze di suo padre, Steve aveva subito trovato un posto con un contratto di formazione nella rinomata banca londinese Wentworth & Davidson, dove, nei suoi desideri, un giorno sarebbe diventato almeno vicepresidente. Ma le cose erano andate diversamente. Niente pullover di cachemire e naturalmente niente carriera in banca. La sua era stata invece una vita da perdente, da pregiudicato; non aveva più amici e la sua famiglia non voleva più avere contatti con lui. Sicuramente, quella sera alla cena sarebbe stato quello vestito peggio. L’abito che indossava aveva dieci anni e si vedeva. E quella strega di Gina si sarebbe comportata come se andasse ancora a vestirsi da Harrod’s. Lui non vi era mai riuscito. In passato camminava a testa alta, aveva le spalle larghe: insomma, aveva stile. In quel momento era curvo sotto il peso di tutti i suoi complessi e le sue paure. Steve andò alla finestra. Ai suoi piedi, i lampioni illuminavano il soffice velo bianco che ricopriva i viottoli e gli alberi di Central Park. Niente al mondo, pensò, era più affascinante di New York ammantata di neve. Si sentì un po’ sollevato. Aveva solo trent’anni, poteva ancora ricominciare. Non aveva mai rinunciato al suo sogno di rifarsi una vita in Australia. E David doveva dargli i soldi per partire. Era suo dovere, se non lo avesse tradito e abbandonato allora, la sua vita non avrebbe preso quella brutta piega e avrebbe avuto un posto in uno dei piani più alti della Wentworth & Davidson. Guardò l’orologio. Era ora. Pensò di bussare prima a Mary per chiederle se voleva andare con lui. Mary Gordon era l’unica rimasta in contatto con Steve in tutti quegli anni. Era andata a trovarlo in carcere, gli aveva telefonato regolarmente e lo aveva incontrato di tanto in tanto. Un po’ perché erano nella stessa barca. David, Gina e Natalie se ne erano andati e ciascuno a modo suo aveva fatto carriera; Mary e Steve invece erano rimasti a Londra, dove avevano dovuto barcamenarsi tra gli alti e i bassi della vita. Mary era sposata e aveva una figlia; viveva in un piccolo appartamento di tre locali nella zona est di Londra, e aveva i nervi a pezzi per la paura della prossima bolletta della luce e del marito violento. Era stata una bella donna, ma di quella bellezza aveva conservato solo i folti capelli rossi, che le ricadevano in soffici ricci sulle spalle. Per il resto aveva l’aspetto di un’affaticata casalinga di quasi quarant’anni. Un’espressione di spavento traspariva di continuo dai suoi occhi grigioverdi incastonati tra quegli zigomi lentigginosi e spigolosi. Temeva sempre di essere in pericolo.


Trasalì anche in quel momento quando Steve, dopo aver bussato una sola volta, entrò nella sua stanza. «Ah... sei tu, Steve!» «Ti ho spaventato?» «No, ero soprappensiero.» Lo guardò e come sempre, vederlo in quelle condizioni fu come una pugnalata. Gli occhi tristi, le spalle strette, la giacca antiquata, i capelli, una volta ben curati, che probabilmente non erano stati tagliati da un buon barbiere da tempo. Eri così bello e giovane, Steve, pensò Mary, e un altro ricordo le ridestò un sentimento dal sapore agrodolce, una nostalgia che aveva custodito per tutti quegli anni: in passato aveva amato quell’uomo, e lo aveva messo al centro di tutte le speranze e i desideri della sua vita. Ma lui se n’era mai accorto? Si era sempre comportato solo da buon amico. Il bel Steve, che avrebbe fatto una grande carriera. E la piccola Mary, che a soli diciassette anni, non ancora sposata, aveva avuto un figlio. D’un tratto, lì in quella stanza illuminata appena da una sola lampada, Mary fu colta dall’intenso desiderio di tornare indietro nel tempo e avere una seconda possibilità. Se potessimo tornare indietro. Solo per un attimo. Gli parlerei, gli direi tutto quello che sento, e se anche a lui non importasse di me, potrei almeno invecchiare senza il rimpianto di aver perso la mia grande occasione di felicità. «Hai un bel vestito» disse Steve. Mary si guardò. Era un abito di velluto verde muschio, dal taglio semplice ed essenziale che faceva risaltare la sua figura ancora molto bella. E sembrava in punta di piedi nelle scarpe a tacco alto, verde scuro, che indossava. «Molto bello» ripeté Steve. «Ho speso tutto quello che avevo. Comprare cose così costose... devo essere impazzita, ma almeno per una volta...» si interruppe. Steve annuì con comprensione. «Basta andare in giro sempre come dei pezzenti» disse lui aspramente, «basta essere trattato male o escluso solo perché sembri povero. In questo mondo, i soldi misurano tutto, Mary. Che vita di merda!» Lei gli accarezzò il braccio dolcemente. «Almeno possiamo dire di stare bene in salute, Steve. Pensa a Nat...» «Perché cos’ha?» «Credo che sia farmacodipendente. Ieri l’ho incontrata subito dopo il nostro arrivo. Le tremavano le mani e mi fissava come se fossi un fantasma. Non se la passa bene.» «Ma guarda, la nostra Nat! La super giornalista di successo! Probabilmente riesce ad andare avanti col suo lavoro solo grazie ai tranquillanti.» «Deve aver passato l’inferno» disse Mary. «Per la tragedia di Crantock...» Entrambi tacquero ripensando al passato, poi Steve chiese: «Come va con tuo marito, Mary? Sta lavorando?» «No. Niente. In realtà non cerca neanche più, ha lasciato perdere e vive alla giornata. Non so proprio cosa ne sarà di lui.»


«Adesso tua figlia è con lui?» «No, da un’amica. Non volevo che rimanesse da sola con lui. Quello che fa a me è più che abbastanza, Cathy non deve soffrire a causa sua. Per giunta è anche furioso perché ho accettato l’invito di David.» Steve sorrise. «Ma l’hai fatto lo stesso. Un bel progresso, piccola. Prima obbedivi a qualunque cosa il signore e padrone dicesse. Perché questo cambiamento? Cosa aveva l’invito di David di tanto importante da farti litigare con tuo marito?» «Non so... ho avuto solo la sensazione che...» «Io so bene cosa ci ha portato qui, me e te. I soldi. Vero, Mary? Quest’uomo ha commesso troppi peccati e pagato troppo poco. È giunto il momento che...» Mary lo guardò sconcertata. «Soldi? No, io non sono qui per i soldi. È solo perché credo... che in qualche modo forse alla fine capirò perché le cose sono andate come sono andate.» Laura dovette lavarsi via il trucco per la seconda volta, e ricominciare daccapo. Il pennellino dell’eyeliner le era sfuggito di mano lasciando un segno nero tutto storto sulle palpebre. Imprecò sottovoce e prese un batuffolo di cotone. David, in piedi accanto a lei mentre faceva il nodo alla cravatta, disse: «Sembri piuttosto nervosa, Laura». «Già. Mi dispiace. E non so neanche il perché.» «No? Davvero?» Qualcosa nella sua voce la fece insospettire. «No» disse in tono di sfida. «Davvero.» «Oggi sei anche stata a casa per tutto il giorno. Non è da te. Di solito sei irreperibile per tutto il pomeriggio.» Laura, che si era sporta in avanti per avvicinarsi allo specchio, si voltò. «Cosa intendi per ‘irreperibile’?» chiese piccata. David non la guardò. «Quello che ho detto. Che sparisci e nessuno sa dove sei per ore. Non dico che devi rendermi conto di quello che fai, ma almeno dirmi dove sei.» «E come di preciso? Dirti anche quando vado in bagno?» «Questo sarcasmo è fuori luogo. Non ti sto rimproverando. Dico solo quello che succede.» «Perché? Se la questione non ti interessasse non mi romperesti con domande stupide.» Subito dopo, cacciò un gridolino perché David voltandosi le aveva preso il braccio e lo stringeva tanto da farle male: «Che vuoi? Lasciami stare!» «Dirti solo una cosa!» La guardava con occhi fiammeggianti di collera. «Fa’ quello che vuoi, va’ dove ti pare, non dirmi quello che ti passa per la testa, ma se c’è un altro uomo, se vengo a sapere che mi tradisci, ti giuro che è finita. Farò in modo di farti tornare in quel postaccio da dove sei venuta e che ti vada peggio che mai. Non avrai un centesimo da me; così capirai cosa significa toccare il fondo ancora una volta. Pensaci bene, Laura. Non puoi giocare con me!»


Con uno scatto lei riuscì a divincolarsi. «Lasciami. Mi fai male. Che cosa ti salta in mente? Non capisco perché questa scenata!» David cercò di calmarsi. «Scusami. Oggi non è giornata.» «È per via dei tuoi amici? Ma li hai voluti tu qui... li hai invitati tu!» David si specchiò, la cravatta annodata. «Lo so, e tutto va secondo i piani. Ma rivederli dopo così tanti anni, è strano. Spero che durante la cena qualcuno abbia qualcosa da dire!» «Ma certo! La brunetta – come si chiama? Gina? – quella parla eccome!» «Forse anche troppo.» «Potrebbe spifferare cose sconvenienti?» chiese lei in tono mordace. David non rispose. Laura si sfilò l’accappatoio e disse: «Natalie è lesbica, vero?» «Cosa te lo fa pensare?» «Sesto senso. Non chiedermi come, ma lo so. È così, vero?» «Sì» rispose lui laconico. «Hai ragione.» La guardò nello specchio mentre nuda attraversava la stanza e apriva l’armadio per prendere un abito. Aveva una pelle morbida e chiara e il corpo più bello che avesse mai visto. Non appena le si avvicinò e le cinse le spalle, lei sussultò. Le posò la testa sul collo. «Su, amore! C’è ancora un po’ di tempo...» «Ma poi devo truccarmi di nuovo.» Le sue mani le accarezzarono dolcemente la vita e poi i seni. «Abbiamo tempo, Laura. Non cominceranno senza il loro ospite. Facciamo l’amore. Ti amo.» Un altro lapsus, pensò, un attimo fa volevi sbattermi fuori e adesso vuoi portarmi a letto. All’inizio della loro relazione, fare l’amore con David le piaceva. Lui appagava soprattutto il suo profondo bisogno di protezione, di cui, lei sapeva bene, non si sarebbe mai liberata. Il sesso per lei era innanzi tutto un modo per sentirsi protetta. E David ci riusciva molto bene. Tra le sue braccia, si sentiva come se avesse trovato rifugio in una grotta accogliente. A volte immaginava persino che David fosse un orso nella cui morbida pelliccia potersi rannicchiare. E dopo aver fatto l’amore, indossava spesso la pelliccia, si raggomitolava in un cantuccio e sorseggiava con gusto una bella tazza di cioccolato. Già, lei preferiva il cioccolato allo champagne. Ma da un po’ di tempo qualcosa era cambiato. Andare a letto con David era diventato sempre più difficile. Doveva sforzarsi, sempre di più. Sentiva dolore ovunque; era come se il corpo si chiudesse in una sorta di difesa. Spesso pensava disperata: vorrei rilassarmi! Vorrei che oggi funzionasse! Vorrei avere di nuovo voglia! Ma non ci riusciva, e più ci provava, più le cose peggioravano. Anche ora giaceva pietrificata e sperava solo che lui non se ne accorgesse. Almeno non aveva mai detto niente. David si alzò e andò in bagno a spegnere il rasoio, come sempre fischiettando. Era tutto così intimo e familiare; Laura cominciò a


piangere.

2 A tavola, l’atmosfera era tesa. David aveva ordinato la cena a un ristorante giapponese, e senza dubbio era la più squisita che ognuno di loro avesse mai mangiato, ma neanche ciò riuscì ad allentare la tensione. Ciascuno scrutava l’altro di nascosto e faceva le proprie considerazioni. Mary ha davvero una brutta cera, pensò Gina, e Nat non sembra particolarmente sveglia. Che ragazza carina ha preso all’amo David! Ma l’abito in lamé non le sta affatto bene! Ha un visetto così dolce e indifeso, ma scommetto che ha pianto. Steve pensava: santo cielo, guarda Gina! Lo sapevo che avrebbe finto. Non si darà mai per vinta, finché vivrà. Come vorrei essere come lei! Poi si voltò verso David che lo stava già guardando e si fissarono per qualche secondo. Steve cercò dentro di sé l’odio che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni e gli aveva dato la forza di resistere in prigione, ma non lo trovò. Era solo stanco e vuoto. «Sapete» esordì Mary, «cosa mi ricorda questa cena?» Tutti la guardarono sollevati che qualcuno avesse finalmente rotto il silenzio. «Cosa?» le chiese a sua volta Natalie con gentilezza. Mary, che odiava stare al centro dell’attenzione, si sentì gli occhi di tutti puntati addosso e cambiò colore in viso. «Mi ricorda quando, ai tempi della scuola, andavamo a mangiare tutti insieme a Londra in quel ristorante costosissimo, e...» «Già, ricordo» intervenne Gina euforica. «Era il 1978, io...» «1979» corresse David. «No, secondo me era l’anno in cui a scuola ci fu l’incendio che fece crollare tutta l’ala ovest. Ne sono certa.» «No!» Era Natalie. La sua voce suonò molto calma. «David ha ragione. Era il 1979. Perché un anno dopo noi due andammo a Crantock.» disse rivolgendosi a David, che distolse lo sguardo. D’un tratto calò un silenzio assoluto; neanche il minimo tintinnio di posate. «Ti ricordi ancora di Crantock, David?» chiese Natalie alla fine. «Sì, sì» rispose sbrigativo. Mary fece un debole tentativo per riportare la conversazione sull’argomento iniziale. «Nessuno di noi aveva soldi con sé, peccato però che ce ne accorgemmo solo prima del dolce. La nostra unica speranza era che...» «...nel ristorante arrivasse qualcuno che conoscevamo, in modo da potergli chiedere un prestito» continuò David, «mentre io e Steve fumavamo una sigaretta dopo l’altra pensando a come fare.»


«E come andò a finire?» intervenne Natalie. «Non ricordo.» «Non bene» disse Steve. «Dovemmo ammettere che non avevamo soldi e un cameriere ci guardò come se fossimo una banda di teppistelli mentre un altro telefonò a scuola. Uno degli insegnanti venne a pagare il conto, e dopo ovviamente dovemmo ripagare il debito con la nostra paghetta.» «Be’ in un certo senso eravamo una banda di teppistelli» aggiunse Gina allegramente. «Salute! Alla nostra giovinezza!» Brindarono. David pensò: Non avete mai avuto idea di quanto desiderassi esservi amico. Gli aveva sempre fatto male rendersi conto che invece loro non lo capivano. Non lo avevano mai capito. Avrebbe dato l’anima per essere amato da tutti quanti loro. Pensò al giovane che aveva sempre elemosinato un po’ di attenzione, simpatia e rispetto, ma al quale era sempre andata male. Gli avevano dato dello spaccone, dell’egocentrico, che parlava sempre e soltanto di se stesso, della sua fantastica eredità in America o di qualche malattia immaginaria. Se ne erano infischiati di come poteva prenderla lui. Dopo tutto, cosa ne sapevano loro della confusione, della pressione che lo schiacciava, delle storie terribili che gli turbinavano nella mente? Cosa ne sapevano loro dell’altare in salotto, della Madonna e della fotografia del nonno nella cornice d’argento? Cosa ne sapevano loro di un altare che custodiva il bene più prezioso: il ricordo? Nessuno di voi ha mai provato a scoprirlo, pensò ancora, neppure Natalie che sentenziava sempre e credeva di diventare una grande psicologa, un giorno. «Erano bei tempi, quelli» disse Mary con tono sincero. «I migliori» aggiunse Gina. Tacquero e ciascuno ripensò agli anni passati, quando tutti prendevano la vita con leggerezza, come un’avventura affascinante. Pensarono alle sere d’estate al Saint Clare, il collegio raffinato in cui erano stati, alla luce del sole dalle sfumature rossastre che si spandeva sui prati e gli alberi accarezzati dal vento leggero, al cielo azzurro. Alle lussureggianti siepi di more che ricoprivano i muri di pietra in rovina, e all’edera antichissima che si arrampicava sulle pareti dell’edificio. Saint Clare sembrava un castello incantato: l’edificio e il parco risalivano a un’altra epoca ed erano sopravvissuti intatti ai secoli passati, erano rimasti superbamente cristallizzati nel loro mondo. Natalie ricordava di aver sempre avuto la sensazione di lasciarsi il mondo reale alle spalle quando oltrepassava il cancello e raggiungeva il portale percorrendo i viali fiancheggiati da querce. Le si allargava il cuore quando sentiva tra le dita il muschio cresciuto negli interstizi nei muri. «Vivevamo sotto una campana di vetro» disse, «troppo protetti. Come tutti sappiamo bene, dopo è stata particolarmente dura.» «Prima o poi l’incanto finisce» osservò Gina. È buffo, pensò Mary, quanti ricordi si risvegliano quando dei vecchi


amici si ritrovano. Le tornò in mente quello che le aveva detto Gina dopo che Leonard, il padre di sua figlia, l’aveva amaramente delusa: «Gli uomini di questo tipo vanno bene per le donne romantiche come noi, Mary. Ci rendono più forti». «Ma che senso ha diventare più forti, smettere di sognare?» «Essere più forti aiuta a vivere meglio. La vita non è un sogno.» Comparve il maggiordomo, svelto e silenzioso cambiò piatti e posate, e poi servì il dessert. «Non posso più dire ‘papino’» constatò Gina sospirando. David fissò Natalie che in quel momento guardava verso la finestra e mostrava il suo profilo perfetto. «Ho sentito che la tua amica Claudine Combe reciterà di nuovo in un film» disse in tono allusivo. Natalie si voltò. «Come fai a saperlo?» «Così si dice in giro.» «Non può essere, David. Non farà mai più un film, e l’unica persona a cui lei ha detto di aver visto un copione solo per amicizia, sono io.» I suoi occhi si erano ridotti a fessure. «Hai origliato la mia telefonata, David?» «Questa è davvero grossa!» gridò Steve. «Se hai origliato Nat, allora probabilmente anche noi! Ascolta David, io...» David non sembrò affatto imbarazzato. Gina ebbe piuttosto l’impressione che l’avesse fatto apposta per sollevare una discussione. Voleva provocare, pensò, voleva far scoppiare un putiferio. Ma a che scopo? «Amici, non sono un ingenuo» dichiarò. «Ho fatto installare cimici in tutte le camere degli ospiti. Devo stare attento. Siamo circondati dai nemici.» «Ah... non è che per caso soffri di manie di persecuzione?» chiese Gina caustica. Lui ricambiò il suo sguardo beffardo senza fare una piega. «Non si può parlare di manie quando ci sono i fatti.» Gina rise. «Misterioso come sempre il nostro amato David! Sul serio, tesoro, ci stai spiando davvero?» «Sì.» Tutti tacquero per qualche secondo, perplessi della franchezza impudente di David. Laura gli lanciò un’occhiata spaventata. «David, penso che...» Lui la apostrofò aspramente: «Tu stanne fuori! Questa storia non ti riguarda!» «Come faccio a sapere quali delle tue cose mi riguardano e quali no? Alle volte mi chiedo se mi consideri parte della tua vita!» «Non capirò mai» disse David, «perché le donne devono fare discussioni per principio su tutto, e soprattutto nel momento meno opportuno!» «Questo momento non è opportuno neanche per rimproverarmi» rispose lei con voce rotta e le lacrime agli occhi. Si alzò di scatto. «Vogliate scusarmi.» E lasciò la stanza, sbattendosi la porta alle spalle.


«È isterica» disse David in collera. «La sua reazione non è isterica, ma assolutamente normale» disse Natalie, «non puoi rimproverarla così davanti a noi!» «Sono affari miei, Nat, o sbaglio?» D’un tratto c’era ostilità nell’aria; era quasi tangibile, e non più celata dietro finta allegria, buone maniere o gentili convenevoli. La vecchia confidenza era riaffiorata, ma senza più nulla di amichevole. Erano apertamente l’uno contro gli altri. «È assurdo» disse Steve. Disgustato allontanò il suo piattino da dessert. Non l’aveva neanche toccato, come del resto avevano fatto gli altri. Solo Gina aveva finito il budino e mormorato tra un cucchiaio e l’altro: «Che bontà». «Davvero assurdo» ripeté Steve. «Così scopriamo che David tiene sotto controllo i telefoni delle nostre stanze. Dovremmo alzarci e andarcene.» Una dopo l’altra, le guardò tutte per vedere se anche loro fossero d’accordo. Da solo non poteva ancora fare quello che pensava fosse la cosa giusta da fare. Almeno una di loro doveva essere dalla sua parte. «Vorrei sapere perché lo hai fatto, David» chiese Natalie. «Cosa intendevi dicendo che siamo circondati da nemici? Di chi o di cosa hai paura?» «Io invece vorrei sapere» intervenne Gina, «perché ci hai invitati?» Lui rise, e non senza una punta di ammirazione. «La nostra Gina, cinica ed egoista! Dritta al punto come sempre. Perché vi ho invitati? Hai già capito che è questa la domanda cruciale!» «Possiamo sapere cosa succede o continuerai a fare allusioni per tutta la sera?» chiese Natalie spazientita. Tutti guardarono David, che si alzò e, fissando i suoi amici uno dopo l’altro, disse in tono freddo e deciso: «Vi ho invitati per scoprire chi di voi vuole uccidermi». Nel muto stupore generale si udì un rintocco dell’orologio a pendolo. Erano le 22.30. A passi lenti, David uscì dalla stanza.

3 Erano quasi le 23.00 quando Gina lasciò la sua camera. Dopo l’uscita di David, la compagnia si era sciolta in un baleno. C’era stata ancora qualche osservazione, come: «Mio Dio, ma è impazzito?» e «È sempre stato un po’ melodrammatico, ma oggi ha superato se stesso!» «Vado a dormire» aveva poi detto Gina, e gli altri avevano fatto lo stesso. In passato nessuno di loro sarebbe andato a letto volentieri, se non dopo aver parlato a lungo di David e delle sue strane parole, ma erano passati troppi anni, troppe cose li avevano allontanati. Quella confidenza era mutata in diffidenza. Gina non aveva alcuna intenzione di dormire. Le era chiaro che almeno


Steve, come lei, voleva chiedere soldi a David, e forse anche Mary dagli occhi grandi aveva in mente la stessa cosa. Dunque, in una situazione così delicata, chi si muoveva per primo aveva sicuramente la meglio. Mary avrebbe aspettato finché non le si fosse presentata un’occasione e poi probabilmente non avrebbe spiccicato una parola. Steve avrebbe esitato a lungo e poi alla fine glieli avrebbe chiesti nel momento meno opportuno. Ma lei, Gina, doveva farlo ora. Subito. Sperava solo che David non stesse facendo la pace con Laura, e che invece, proprio a causa del litigio, fosse da solo. Per sua esperienza, dopo una discussione con le proprie donne, gli uomini di solito vanno dritti nel loro studio a seppellirsi tra le scartoffie. E aveva una vaga idea di dove fosse lo studio di David perché subito dopo il suo arrivo aveva chiesto alla domestica come era suddivisa la residenza. L’attico di David consisteva di due piani: in quello superiore si trovavano il salotto, la sala da pranzo, il bar e il suo studio. Le camere da letto, i bagni e le stanze degli ospiti erano al piano di sotto. Questo appartamento sarà anche grande, ma è una casetta in confronto al nostro castello gravato dai debiti; in qualche modo ti trovo caro David, pensò Gina, e chiuse la porta della camera senza fare il minimo rumore. Il corridoio era sempre illuminato da una calda luce soffusa. Gina ricordò la luce blu dei corridoi del Saint Clare, che di notte illuminava agli studenti la strada per le toilette, e il pavimento in pietra sgradevolmente freddo sotto i piedi nudi, quando, la camicia da notte svolazzante, correva in bagno e, battendo i denti, non vedeva l’ora di tornare sotto le calde coperte del suo letto. Ora, invece il riscaldamento era acceso e camminava su soffici tappeti dorati; si era spruzzata qualche goccia di profumo dietro le orecchie e sulla scollatura del négligé, aveva spazzolato i capelli e rimesso il rossetto. Era ancora la più bella, ne aveva avuta la conferma prima, a cena. Quella ragazzetta, Laura, non avrebbe mai potuto competere. Certo era fresca come la primavera, ma lei, Gina, era una seduttrice. Anche ora avrebbe ottenuto da un uomo quello che voleva. Il soffice tappeto attutì i suoi passi mentre si insinuava lungo il corridoio. Laura si trascinò stancamente nella sua camera da letto. Fissò per un po’ il suo riflesso nello specchio; gli zigomi delicati, il nasino, le labbra sottili. Aveva pianto e il mascara era colato in strisce nere fin sotto il mento. «Sei proprio una frignona!» mormorò. Gina era scomparsa nello studio di David. La bella ed elegante Gina, tanto sicura di sé. Laura desiderò non averla seguita e non aver origliato. Ma che senso aveva chiudere gli occhi e non vedere quel che accadeva? Squillò il telefono. La luce rossa sull’apparecchio annunciava che era il portiere. Non c’erano più domestici in casa. Alzò la cornetta. «Sì?»


«Signorina Hart, buonasera. Quelli del ristorante sono venuti a ritirare le stoviglie. Posso farli salire o preferisce che tornino domattina?» «No, no, li faccia salire.» Riattaccò e si guardò di nuovo allo specchio. D’un tratto ricordò quante volte sua madre aveva pianto per causa di suo padre. Povera mamma, pensò con affetto. Di sotto vide Gina, che tornava dallo studio di David, e Steve che usciva dalla camera di Mary. Lui sembrò molto imbarazzato di essere stato beccato. «Io e Mary abbiamo parlato un po’» bofonchiò. Gina sorrise. «Ma non devi giustificarti, Steve! Sappiamo che sei molto amato dalle donne. E che tu ricambi soprattutto se sono al tuo livello!» Steve la fulminò con lo sguardo. «Vediamo se hai sempre la risposta pronta, sentiamo, che ci fai in giro nel cuore della notte, Gina?» «Ho appena avuto un colloquio con David.» In quel momento comparve Laura che sembrava così provata e nervosa che Gina pensò compassionevole: povera cara, dovresti cercarti un bravo ragazzo che non ti tratti male come David, e che non meriti neanche una tua lacrima! Disse a voce alta: «Per una vecchia questione. Tra me e David c’è ancora un conto in sospeso. Buonanotte», e scomparve nella sua camera. «Buonanotte» mormorarono Steve e Laura. Anche Steve aveva fretta di chiudere la porta della sua camera. Per un attimo Laura fissò le due porte chiuse, e poi proseguì. Erano le 23.15. Alle 23.30 Mary non resistette più e compose il numero del suo appartamento di Londra. Aveva contato sei ore indietro per l’ennesima volta: in Europa dovevano essere le 17.30. Mentre ascoltava nervosamente lo squillo, si chiese se non fosse stata troppo scostante con il povero Steve. (Mary passava gran parte del suo tempo a chiedersi se si fosse comportata bene o no con chiunque). Steve aveva cercato di persuaderla ad andare insieme da David per chiedergli i soldi, ai quali secondo lui avevano pieno diritto. «Pensa a tutto quello che ci ha fatto.» «Non posso, Steve. Fallo da solo, se credi sia il caso. Io non ci riesco!» Tremava al solo pensiero. «Ti prego, Mary! Ne va del mio futuro!» Ma sei in grado di fare una cosa da solo, almeno per una volta? aveva pensato lei. «No, Steve. Mi dispiace.» Era quasi in lacrime, quando lui era uscito dalla sua camera. Perché non riusciva mai a uscire dall’ombra? Perché sempre quella paralizzante insicurezza? Era davvero troppo quello che le aveva chiesto? Passò un’eternità prima che qualcuno rispondesse dall’altra parte dell’oceano. La linea era disturbata: «Pronto...» La voce di Peter suonò come se fosse stato appena svegliato dal telefono. Ma, per amor del cielo, possibile che stia dormendo a quest’ora? si


chiese Mary contrariata. «Peter» pigolò. Sapeva bene che svegliarlo era la cosa peggiore che gli si potesse fare. «Sì?» «Peter, sono Mary.» La calma durò solo un attimo, poi Peter disse al rallentatore: «Ma sei impazzita?» «Mi dispiace averti svegliato, ma non immaginavo che dormissi a quest’ora... di pomeriggio...» «Ma quale pomeriggio, maledizione! Sono le cinque e mezzo del mattino!» Mary si sentì raggelare. «Cosa? Ma come? In America non sono sei ore avanti rispetto all’Europa...» Peter sospirò. «Sei proprio una stupida, Mary. Una vera stupida. Qui siamo sei ore avanti. Lo capisci? Avanti! Sei la donna più stupida al mondo!» «Oddio, hai ragione. Peter scusami, sono sconvolta...» si interruppe, si sentiva malissimo. «Va bene. Non cambierai mai! Che vuoi, perché hai chiamato?» Mary sapeva che sarebbe suonato molto banale, ma lo disse lo stesso: «Volevo solo dirti, che... sono arrivata bene...» «Ma davvero! L’avevo immaginato dal momento che non ho sentito di nessuna sciagura aerea!» Peter credeva che quel tipo di battute fossero argute e di meritarsi sempre l’applauso. E, come sempre, Mary rise amabilmente e disse: «Naturalmente hai ragione! Non ci avevo pensato!» Ma in realtà, riaffiorarono le vecchie paure e i giorni passati a elemosinare da quell’uomo una parola gentile o un sorriso. Ogni volta che si era chiusa in bagno a piangere per sfuggire ai suoi attacchi, prima verbali e poi anche fisici, non aveva fatto altro che ripetersi disperatamente: Se solo riuscissi a liberarmi di lui! Se solo avessi la forza di lasciarlo! Per la prima volta, in quel momento ebbe la sensazione di avere quella tanto agognata forza. La rabbia ebbe il sopravvento sulla paura e l’insicurezza. Maledizione, Peter Gordon, chi ti credi di essere? Sei solo un perdente inetto senza lavoro e sempre buttato davanti al televisore con una bottiglia in mano che crede di poter tormentare il prossimo quando e come più ti piace. Ti rendi conto che mi hai rubato gli anni migliori della mia vita? «Hai notizie di Cathy?» chiese alla fine freddamente. Qualcosa nella sua voce sembrava averlo irritato. Ci fu una pausa. «Tua figlia ha chiamato prima» rispose, sottolineando che non considerava Cathy sua figlia. «Penso stia bene. È dai suoi amati amici, no? Come te. Solo io sto da solo come un cane. Ma a voi non interessa. Vi interessa solo di stare bene voi!» «Peter, lo sai che desidero che anche tu stia bene. Io e Cathy non


possiamo farci niente se tu non hai amici. Dovresti...» «Dovresti, dovresti!» la scimmiottò furente. «E risparmiami la solita solfa per piacere! Sono stufo dei tuoi rimproveri. Vuoi sapere qual è l’unica cosa di cui sono felice adesso? Di non dovermi sorbire quella tua maledetta aria tronfia e presuntuosa!» Pronunciò le ultime parole urlando, e Mary fece qualcosa che non aveva mai fatto: riattaccò sbattendo con forza la cornetta facendo tintinnare il telefono. Lei lo fissò mentre dentro di sé sentiva montare sempre più il rimorso. Cosa ho fatto? Santo cielo, come ho potuto? In quell’esatto momento, suonò acuto e stridulo l’allarme. In un batter d’occhio uscirono tutti in corridoio, così come si trovavano: Mary e Steve ancora vestiti, anche se Mary era a piedi nudi; Gina avvolta in un accappatoio bianco, un asciugamano sulle spalle e un po’ di dentifricio sul naso. Natalie indossava una camicia da notte nera molto elegante con vestaglia in seta coordinata, che svolazzava come uno scialle. Si era appena struccata, e gli altri notarono che senza trucco stava proprio male. «Un ladro!» urlò Gina in modo teatrale, prendendo l’intera faccenda come uno scherzo. «E adesso, cosa si è inventato David?» chiese Steve nervoso. Natalie era bianca come un cadavere. «Se è uno scherzo, è davvero di cattivo gusto, e se l’artefice è davvero David, domani me ne torno a Parigi col primo aereo!» «Andiamo a vedere cosa è successo» disse Gina. In fila salirono la bianca scala a chiocciola. Come se si fossero messi d’accordo, una volta al piano di sopra si separarono: Steve e Mary andarono da una parte dell’appartamento, Gina e Natalie si diressero dall’altra. Entrarono in sala da pranzo, sulla cui tavola giacevano ancora i resti della cena. Sul pavimento c’era Laura con i piedi legati alle caviglie, e le mani legate dietro la spalla, e con un fazzoletto in bocca che le impediva di urlare. La scena era così grottesca che Gina e Natalie rimasero per qualche secondo stupite. Solo quando Laura emise un gemito, si riscossero e si affrettarono ad aiutarla. «Vi presento Manhattan» disse Gina mentre toglieva il bavaglio di bocca a Laura. «Cosa diavolo è successo?» Laura ansimò cercando di riprendere aria. «Gli uomini che sono venuti a ritirare le stoviglie» gracchiò, «mi hanno aggredito!» L’allarme suonava ancora. «Qualcuno può spegnere quell’aggeggio?» chiese Natalie in preda ai nervi. «E adesso dove saranno quei bastardi?» Gina si guardò intorno. «Ancora nell’appartamento?» «Credo che se la siano svignata, e il portiere deve aver fatto suonare l’allarme» disse Laura. Si alzò a fatica. «Sono tutta intera, per fortuna!» Nello stesso momento, dal corridoio giunse un urlo, così forte e acuto,


che sovrastò persino l’allarme. «E adesso, cosa succede?» Alla domanda di Gina giunse la macabra risposta: «David! David è morto! Qualcuno gli ha sparato!»


New York, 29.12.1989

Nuvole cariche di neve si addensavano sopra la città nel cielo grigio e cupo dell’alba. L’ispettore Kelly era seduto sulla poltrona davanti al camino in soggiorno e fissava pensieroso davanti a sé. Il suo collaboratore, il sergente Bride, lo vedeva stanco e corrucciato. I due uomini non avevano chiuso occhio tutta la notte, ma mentre Kelly era stato teso e sveglissimo, Bride aveva sbadigliato ogni due minuti senza neanche provare a reprimere la sonnolenza. Per lui il caso era chiaro: i ladri si erano introdotti nello studio dell’ormai defunto David Bellino, convinti di non trovarvi più nessuno a quell’ora. David, che invece era ancora seduto alla sua scrivania, aveva subito afferrato la pistola (Laura aveva identificato l’arma rinvenuta sulla scena, che secondo la Scientifica era l’arma del delitto, come di proprietà di David), ma non era riuscito a sparare, perché uno dei ladri gliela aveva strappata di mano, premendo il grilletto. Il proiettile l’aveva colpito dritto alla tempia. David doveva essere morto nel giro di qualche secondo. E siccome un omicidio non era assolutamente nei loro programmi, i ladri, in preda al panico, se l’erano svignata a gambe levate. Vedendoli andare via in fretta e furia, il portiere doveva aver immaginato che qualcosa non andava e aveva azionato l’allarme. Un quarto d’ora più tardi era giunta la polizia. «Quella Laura Hart ha fornito una descrizione piuttosto dettagliata dei ladri» disse Bride. «Non dobbiamo fare altro che starcene qui tranquilli ad aspettare l’esito delle ricerche.» Kelly alzò il capo. «Non capisco proprio come possa essere tutto così chiaro per lei, Bride. I ladri hanno sparato a David Bellino! Questo è chiaro. Ma non le dà da pensare quello che, secondo tutti i testimoni, Bellino ha detto poco prima di morire? ‘Scoprirò chi di voi vuole uccidermi!’ Lo ha detto ai suoi ospiti. Ha lasciato la stanza e circa un’ora e mezza dopo è stato ucciso. Strano, no?» «Perché uno dei suoi ospiti avrebbe voluto ucciderlo allora?» «...il famigerato movente. A prima vista sembra non ce ne sia, ma, a quanto pare, Bellino deve averne visto uno. Per prima cosa analizziamo l’opportunità: ognuno dei quattro l’avrebbe avuta.» Kelly si sporse in avanti con sguardo concentrato. «La cena è finita alle 22.30. Tutti gli ospiti sono tornati nelle rispettive stanze. Laura Hart, che durante la cena era stata rimproverata da Bellino, dice che si trovava nella sua stanza a piangere. David Bellino è tornato nel suo studio. Con ogni


probabilità alle 22.30 era ancora vivo. Deve essere quindi morto tra le 22.30 – fine della cena – e mezzanotte – l’ora del nostro arrivo.» «Tra le 22.30 e le 23.40» corresse Bride, «quando è partito l’allarme.» Kelly scosse il capo. «Loro partono dal presupposto che gli assassini sono i ladri. Ma non è così. Bellino può anche essere stato ucciso dopo che i ladri se ne sono andati.» «Ma...» disse Bride vago. «Esaminiamo ancora i quattro ospiti» disse Kelly. «Nessuno di loro ha un alibi per l’ora del delitto. E poi c’è Lady Gina Artany. Lei ha cercato Bellino circa dieci minuti prima delle undici nella sua stanza, stando a quel che dice per ‘chiedergli un prestito’. E lo ha lasciato dopo circa venti minuti. Dopo avergli sparato?» «Allora difficilmente avrebbe ammesso di essere andata da lui!» «Ma, primo, è stata vista dalla signorina Hart e dal signor Marlowe al suo ritorno, e quindi doveva dare una spiegazione. Secondo, può averlo detto proprio per rendersi insospettabile. Quella Artany è una donna a sangue freddo...» «Ma...» mormorò nuovamente Bride. Era così stanco. «La signorina Natalie Quint» proseguì Kelly, «è tornata dritta nella sua camera subito dopo la cena. È davvero rimasta lì fino a quando è suonato l’allarme? O è uscita prima e ha sparato a David Bellino?» Bride sospirò. Non era plausibile. La Quint era stata interrogata per ultima, ed era apparsa una donna fredda, controllata e di cultura, non una donna che nel cuore della notte se ne va in giro a uccidere un uomo. Come se gli avesse letto nel pensiero, Kelly aggiunse: «Credo che la signorina Quint sia farmacodipendente». «Cosa glielo fa pensare?» «Una sensazione. Quella donna non sta affatto bene.» All’ultimo momento Bride si trattenne dal dire: «Mah». «Steven Marlowe» proseguì Kelly, «dopo la cena si è recato nella camera di Mary Gordon. I due hanno parlato di qualcosa ‘in privato’. Quando è andato via, ha incontrato Gina Artany, che tornava da Bellino. Dovevano essere le 23.10 circa. Dopo potrebbe aver avuto tutto il tempo e l’opportunità per commettere un omicidio.» «Non è il tipo.» «No? Secondo me è perfetto. Ha una personalità molto difficile. È un uomo che soccombe alle avversità della vita. La sensazione di trovarsi in una situazione senza scampo può averlo spinto all’omicidio.» Bride pensava che Kelly avesse esagerato nell’interpretazione di quell’uomo che invece a lui sembrava assolutamente normale, ma si tenne la sua opinione per sé. «E infine Mary Gordon. Marlowe ha lasciato la sua stanza alle 23.20. Alle 23.30 lei ha telefonato a suo marito, questo è comunque da provare. Ciononostante rimangono ancora venti minuti, in cui lei avrebbe potuto uccidere Bellino.» «Mi scusi» disse Bride, «ma non credo che la signora Gordon sia


davvero capace di fare una cosa del genere. Sembra più una scialba donna piena di paure, pronta a urlare anche davanti a un semplice ragnetto.» «Probabilmente lei ha ragione; magari urla quando vede un ragno. Ma perché non dovrebbe impugnare un’arma e sparare a un uomo? La criminologia è piena di assassini all’apparenza timorosi e insignificanti. Passano una vita a temere gli altri, non riescono a farsi valere, vengono calpestati da tutti, poi un giorno ne hanno abbastanza e ammazzano. Non è insolito.» Bride sbadigliò senza farsene accorgere. «E la signorina Laura Hart?» «Bella domanda. Quando Lady Artany è uscita dallo studio di David Bellino – sempre che non l’abbia ucciso lei – lasciando dunque il campo libero al suo assassino, ha incontrato la signorina Hart che si accingeva ad aprire la porta ai presunti dipendenti del ristorante. Questa li ha accompagnati in sala da pranzo, dove si trovavano le stoviglie, ed è stata aggredita e legata. Gli altri l’hanno trovata solo quando l’allarme era già scattato.» «I ladri sono rimasti lì piuttosto a lungo» disse Bride. «Possibile che l’assassino di Bellino che si aggirava contemporaneamente nell’appartamento non si sia accorto della loro presenza?» «Questo attico è dannatamente grande. E sia i ladri, sia l’assassino, per non farsi beccare, si sono mossi con cautela e circospezione. Potrebbero anche essersi visti, e ignorati.» «Come?» «Immagini di aver appena sparato a un uomo. Il suo unico obiettivo sarebbe tornarsene nella sua stanza più veloce della luce e senza essere visto da nessuno. Ma a metà strada si accorge di qualcosa; per esempio vede tre uomini sconosciuti che buttano a terra la signorina Hart e la legano. Si precipiterebbe lì? Chiamerebbe aiuto? Farebbe scattare l’allarme? Oh no, se è intelligente, non fa assolutamente nulla. Perché prima o poi dovrebbe dire quello che stava facendo lì e incomincerebbero i guai. E quindi si affretta ancora di più.» «Hmm.» «In ogni caso la sua osservazione non è del tutto fuori luogo, Bride. Il portiere dice che gli uomini gli sono passati davanti come inseguiti dal diavolo in persona. Altrimenti lui non avrebbe avuto motivo di far scattare l’allarme. È tutta la notte che penso a quale possa essere stata la causa di una fuga così precipitosa. È probabile che i ladri si siano imbattuti nell’assassino e se la siano data a gambe perché scoperti.» Bride scivolò sulla poltrona, sgranchendosi un po’ nella speranza di trovare una posizione più comoda per le sue ossa doloranti, e poi allungò la mano per massaggiarsi il collo contratto. Fuori l’alba era ancora pallida e livida. Talvolta odiava il suo lavoro. «Non pensa di complicare un po’ troppo le cose, ispettore?» chiese e pensò con disappunto: soprattutto le complica a me. «Secondo me è tutto chiaro ed evidente.» «Lei dimentica le parole con cui David Bellino ha scioccato tutta la


compagnia prima di andarsene. ‘Scoprirò chi di voi vuole uccidermi’. Non trova che sia una frase su cui riflettere? Tanto più che l’ha pronunciata un uomo che un’ora e mezza dopo è stato trovato morto?» «Melodrammatico» disse Bride. «Lo crede sul serio?» «Ascolti, durante l’interrogatorio la signorina Hart ha dichiarato che David Bellino soffriva di manie di persecuzione. Dopo tutto teneva una pistola nel suo studio – o dovunque fosse – per avere un’arma a portata di mano. Io vorrei essere d’accordo con lei e se l’uomo non fosse stato ucciso per davvero – e fatalmente con la sua stessa pistola –, anch’io parlerei volentieri di mania, ma tutto considerato direi di andarci piano con quella parola. Senza contare che abbiamo anche trovato tutte quelle lettere minatorie nella sua scrivania. Bellino aveva una gran paura di morire, e a ragione, come poi hanno dimostrato i fatti. E per qualche motivo pensava che uno dei suoi vecchi quattro amici potesse farlo fuori.» «E allora perché invitarli?» Kelly guardò il collega con aria compassionevole. «Quando la paura e la tensione diventano insopportabili, tentiamo di affrontare da soli il pericolo. Preferiamo vedere in faccia la realtà piuttosto che aspettare che le cose ci accadano improvvisamente alle spalle. Non le è mai capitato?» Bride era un uomo razionale e concreto. Neppure il suo lavoro come agente di polizia a Manhattan era stato capace di scuotere via la sua indifferenza. Kelly ricordò quella volta in cui avevano risolto insieme un caso di omicidio di stampo mafioso. Una coppia di anziani, che secondo le testimonianze aveva strettissimi legami con la mafia, era stata ritrovata crudelmente massacrata nel proprio appartamento, e quando Kelly e Bride si erano recati sul luogo, a tutti gli agenti, compresi Kelly, gli si era rivoltato lo stomaco. Bride era stato non solo l’unico rimasto impassibile, ma era anche andato su tutte le furie perché la nausea di tutti stava ritardando le indagini e avrebbe compromesso la sua serata libera. «No, non è mi è mai capitato», disse di rimando. Sbadigliò ancora una volta sognando una bella e ricca colazione. Kelly prese la cartellina che aveva lasciato su un piccolo tavolo accanto a lui. «E poi» disse «c’è questo! Cinquecento pagine scritte da David Bellino ‘Da leggere dopo la mia morte’. La vita dei suoi amici dall’infanzia a oggi. Una sorta di piena e aperta confessione della vita di Bellino. A quanto pare, chiunque dei suoi amici avrebbe avuto un motivo per ucciderlo.» Non siamo in un film di Hollywood, pensò Bride contrariato. «Qui, proprio all’inizio scrive: potrebbe essere stato uno dei miei amici a scrivermi le lettere minatorie. Uno di loro potrebbe volermi morto. Ognuno di loro avrebbe un motivo, e io li considero capaci di qualunque crimine. Non mi fido dell’umanità, e, sono convinto che ogni uomo sarebbe capace di uccidere persino la propria madre se facendolo


ne traesse dei vantaggi o soddisfacesse la sua sete di vendetta o qualunque altra emozione. Sono tutti potenziali criminali, e che Dio mi protegga da tutti quanti loro! Ho sempre cercato di conquistarmi la loro amicizia, adesso mi è rimasto solo il loro odio.» «Assurdo» mormorò Bride. «Assurdo? Forse. Dobbiamo provare tutto. Queste pagine sono assolutamente interessanti» disse sventolando la cartellina. «Vediamo cosa ne pensano i nostri quattro amici.» Il maggiordomo aveva servito un brunch: fettine di torta salata alle zucchine, uova strapazzate e pane, e poi dolci al cioccolato e due grandi bricchi di caffè. Gli ospiti erano nella sala da pranzo, che nel frattempo era stata lasciata libera dalla scientifica. Qualcuno aveva acceso il televisore, che come sempre negli ultimi giorni, mostrava Berlino, la porta di Brandeburgo aperta, uomini stipati contro il famoso muro. Poi rumeni e scontri di piazza dopo che era stata eseguita la condanna a morte del suo dittatore Ceauşescu. Nella sala il fuoco crepitava allegro nel camino; fuori sembrava che il fioco mattino stesse cedendo il posto a una fioca serata. Quel giorno, il sole non sarebbe mai uscito. Nevicava a Manhattan. Quando era arrivato il brunch, Laura si era unita agli altri, ma aveva toccato a malapena qualcosa. Bevve solo del caffè, mangiò qualche pezzetto di dolce e fumò una sigaretta. Senza trucco e con i capelli pettinati all’indietro sembrava ancora più giovane della sera prima. Aveva infilato le lunghe gambe in un paio di jeans stravecchi, indossato un pullover in mohair nero e stivali da cowboy neri. Le mani le tremavano leggermente. Natalie aveva preso un’altra pasticca di valium e se ne stava rannicchiata in un angolo. Steve fissava il fuoco, Mary leggeva un libro, ma non girava pagina da un’ora immersa com’era nei suoi pensieri. Gina, ancora in accappatoio, girava per la sala sempre più furente. «Devo rimanere qui finché divento vecchia e grigia?» chiese rabbiosa. «Sapete una cosa, non credo che questo Kelly, o come si chiama, abbia il diritto di trattenerci! E perché poi? Okay qualcuno ha sparato a David, e probabilmente la cosa non dispiace a nessuno, ma questo non vuol dire che sia stato uno di noi. Non capisco perché ci siano ancora dei dubbi sul fatto che siano stati quegli sporchi bastardi!» «Nessuno di noi ha un alibi!» fece notare Natalie. «E quindi siamo tutti sospettati.» «Accidenti! Non è che per forza uno deve avere un alibi per ogni momento della sua vita solo perché per caso hanno sparato a un suo conoscente» ringhiò Gina. «Ora me ne vado e vediamo chi prova a impedirmelo!» Andò alla porta, dove si scontrò con l’ispettore Kelly, che stava entrando nella sala. «Ops» disse «dove va così di fretta?» «Nella mia stanza a vestirmi, impacchettare la mia roba e a


informarmi sul prossimo volo per Londra. Finora nessuno è stato capace di darmi anche solo una buona ragione per essere trattenuta qui!» «Posso dargliela io una ragione, Lady Artany.» La voce di Kelly suonò calma, ma non come se accettasse le sue proteste. Spense il televisore. «La notte scorsa in questo appartamento è stato commesso un omicidio. E io voglio sapere chi è l’assassino.» Con uno scatto del capo, Gina chiese con aria di sfida: «E io come posso aiutarla?» Kelly le lanciò una occhiata fulminante, e poi indugiò, uno dopo l’altro, su ciascuno degli altri ospiti tralasciando la pallida Laura. «Dovete rispondere a una domanda» disse. «Tutti voi. Credo che anche il signor Bellino vi abbia fatto la stessa domanda. Chi di voi voleva ucciderlo?» «Non comincerà anche lei con questa follia!» disse Natalia, i nervi a pezzi. Aveva bevuto due tazze di caffè anche se non ne reggeva neanche una, e ora respirava con affanno e il cuore le martellava nel petto. Era arrabbiata per non aver chiesto un tè al maggiordomo. «Secondo lei è davvero una follia, signorina Quint?» chiese Kelly. Steve si alzò. «Secondo lei siamo davvero sospettati ispettore? In tal caso, dal momento che nessuno di noi ha un alibi solido per l’ora del delitto, e a quanto pare lei basa su questo le sue accuse infami, forse dovremmo rivolgerci a un avvocato.» «Non ne sono sicuro» rispose Kelly. «Ma resta il fatto che voi lo foste per Bellino. Il motivo è scritto qui.» Sventolò la cartellina. «C’è tutta la vostra vita, per quanto lui ne sapeva.» «Buon per lei!» Gina lo guardò. «Così saremo un libro aperto.» «Non del tutto, purtroppo. Ma all’inizio David scrive che crede che ciascuno di voi, signorina Quint, signora Gordon, Lady Artany e signor Marlowe, possa essere il colpevole. Ciascuno per un motivo diverso. In qualche punto della vostra vita, lui è stato l’ostacolo su cui siete inciampati.» Nessuno fiatò. Nella sala era calato un silenzio totale interrotto solo dal crepitio della legna nel camino. «Già» disse Kelly con calma. «È proprio così. Lo odiavate tutti. È stato il responsabile del destino di ognuno di voi.» Ancora nessuna parola. L’ispettore proseguì senza fare una piega: «Ecco quello che faremo, analizzeremo le vostre storie. I tanti avvenimenti importanti e meno importanti che hanno determinato la vostra vita. Che hanno costituito il vostro passato e che vi hanno portato qui oggi, e coinvolto in questa brutta faccenda». «Solo perché per caso noi...» cominciò Steve, ma l’ispettore Kelly lo interruppe. «No. Il caso qui non c’entra. E quello che voglio è proprio scoprire il perché. Ricostruiremo insieme le vostre storie. Una buona parte possiamo apprenderla da questa cartellina, il resto vorrei ascoltarlo da voi. Vi farò delle domande e voglio che mi rispondiate onestamente.» «Davvero molto allettante!» disse Gina. «Qualcuno può darmi una


sigaretta così non mi addormento mentre l’ispettore Kelly racconta le sue favolette?» In silenzio, Laura le porse il suo pacchetto di sigarette. Bride guardò distrattamente i biscotti al cioccolato non sapendo cosa dire. Un ciocco di legno cadde scricchiolando lievemente. Fuori andava avanti a nevicare. Gli scritti di David avrebbero sicuramente fornito un quadro incompleto non avendo lui mai saputo tante cose, avendo solo fatto congetture su alcune cose, e nemmeno immaginato tante altre. E i protagonisti del caso non avrebbero rivelato tutto; e avrebbero lasciato che le indagini brancolassero nel buio. Mai nessuno conosce tutti i risvolti del destino, del proprio o di quello degli altri, rimangono sempre delle zone d’ombra, misteriose, ignote. Cos’era accaduto davvero?


LIBRO II


Mary

1 Mary Janet Brown, coniugata Gordon, nacque a Liverpool in un sudicio ospedale fatiscente che poco più tardi riempì le pagine di tutti i giornali a causa di uno scandalo legato a un’emergenza igienica e fu chiuso. I Brown vivevano in un piccolo e poco illuminato appartamento di tre locali nella zona est di Liverpool perché il giovane insegnante Michael Brown non guadagnava molto e sua moglie malata non poteva lavorare. Davanti alla cucina c’era un minuscolo balcone, concepito solo per stendere il bucato; era di un metro quadrato e sempre umido poiché non vi batteva il sole, ma Mary vi portava comunque le sue bambole e le costruzioni perché voleva vedere un po’ di cielo e toccare il muschio che cresceva nelle nicchie del muro. Desiderava molto vedere prati e fiori, ma il balcone si affacciava solo su un muro sporco e nero di fuliggine che delimitava l’area della fabbrica. Come tante ragazzine, anche Mary sognava un principe che un giorno l’avrebbe portata con sé nella sua casetta in riva al mare, con un grande frutteto di meli, cespugli di more e dolci fragoline selvatiche. Il padre di Mary era un battista osservante e il suo fanatismo religioso cresceva giorno dopo giorno. Le parole più ricorrenti nelle lunghe prediche cui sottoponeva la famiglia erano sostanzialmente: peccato, impurità, macchia, depravazione, tentazione. La donna dell’appartamento di sotto, di cui si diceva che tradisse il marito, o la giovane donna che abitava accanto, che se ne andava sempre in giro in gonna corta e scarpe col tacco alto erano per lui i segni concreti della presenza di un Dio malevolo. «Puttana» diceva Michael Brown, «peccatrice; un giorno avrai il castigo che ti meriti!» Mary passò così tutta la sua infanzia a pregare per redimersi da peccati, di cui non era neppure consapevole. «Cosa ho fatto?» aveva chiesto un giorno a suo padre con le lacrime agli occhi, quando per l’ennesima volta l’aveva costretta a stare in ginocchio per un’ora sulla dura panca della cucina a implorare il perdono di Dio. Michael l’aveva guardata con i suoi occhi neri da fanatico e le aveva risposto: «Il peccato originale. È dentro di te come in tutti noi. Un giorno diventerai una donna, Mary, e ti renderai totalmente colpevole. È nelle


donne che si insinua il male». Mary non capiva cosa intendeva. «Anche dentro mamma?» aveva chiesto. Sua madre, febbricitante e malaticcia come sempre si trovava nella sua camera buia, e Mary non riusciva proprio a vedere in quella donna smunta, pallida e silenziosa la personificazione del male. «In ogni donna c’è il male» aveva ripetuto il padre, «e tu stessa puoi vedere quanto sia duro il castigo per tua madre.» Un giorno sarebbe stato lo stesso anche per lei solo perché era una donna? Mary cominciò a temere i suoi peccati, perché se la madre, che non aveva fatto male a nessuno, soffriva così tanto, che altro poteva capitare di peggio a lei stessa? In preda alla paura, cominciò col farsi un esame di coscienza per ogni cosa: a scuola aveva sbirciato il quaderno della compagna di banco? Aveva studiato davvero abbastanza? Aveva detto alla cassiera del supermercato che le aveva dato più soldi di resto? Le giornate erano una prova continua, e la probabilità di fallire era molto alta. Mary diventò sempre più seria, calma e inespressiva, fino a chiudersi in se stessa. Poco prima del suo dodicesimo compleanno, si accorse che il suo corpo stava cambiando e andò nel panico. Era solo questione di tempo, e le profezie di suo padre si sarebbero avverate. E proprio poco prima di quel suo dodicesimo compleanno, la madre fu ricoverata in ospedale. Solo più tardi Mary venne a sapere che aveva il cancro e che secondo il medico non c’era più niente da fare; ma anche se le avevano taciuto l’amara verità, aveva intuito che non l’avrebbe mai più rivista. Un’ambulanza venne a prendere la signora Brown, che pesava ormai solo una quarantina di chili, in un giorno di novembre grigio e cupo; il cielo era scomparso dietro la pesante coltre di nebbia e faceva molto freddo. Mary le teneva la mano, e il viso le faceva male per lo sforzo di non farsi vedere piangere da lei. Michael Brown era andato al lavoro, mentre Mary aveva marinato la scuola pur consapevole che quello sarebbe stato un punto a suo sfavore al cospetto di Dio. Ma non poteva lasciare sua madre da sola. La signora Brown cercava di sorridere fiduciosa. «Mary, tesoro, non essere triste, tornerò presto, guarita. Pensa a quello che potremo fare insieme! Ma nel frattempo stai alla larga da tuo padre, va bene? E non dargli troppa retta. Me lo prometti, Mary?» Mary si limitò a fare cenno di sì col capo; aveva un nodo in gola e non riusciva a parlare. «E quando incontrerai un brav’uomo» proseguì la signora Brown, «vai via con lui, subito, che tuo padre parli di castighi del cielo o no. Tuo... tuo padre non è... onnisciente...» Solo la consapevolezza di avere ancora poco da vivere strappò alla signora Brown quelle esplicite parole. «Vorrei che un giorno tu fossi felice. È l’unica cosa che desidero.» Gli infermieri entrarono in casa e deposero la signora Brown sulla barella facendola gemere lievemente. Mary voleva accompagnarli, ma uno di loro le fece cenno di no. «Rimani qui, piccola. Fuori fa molto freddo, rischi solo di ammalarti. Hai già salutato tua madre.»


Mary corse alla finestra, schiacciò il viso contro il vetro e guardò giù in strada. Qualche attimo dopo comparvero i due uomini che portavano la barella. Quanto sembrava piccola sua madre da lì su. E indifesa. La fecero scivolare nell’ambulanza, chiusero il portellone e se ne andarono lasciandosi dietro la strada nebbiosa, sporca, buia e deserta. Il fumo saliva dalla ciminiera della fabbrica, sulle scale si sentivano i tacchi della giovane donna che Michael Brown chiamava «puttana». Mary si sedette sul divano, si avvolse in una coperta e si rifugiò nel suo desiderio più grande: un giorno un uomo l’avrebbe amata e si sarebbe preso cura di lei per sempre. Che fosse peccato anche solo desiderarlo? Una settimana più tardi, Mary tornò da scuola a mezzogiorno. Soffiava un vento gelido, l’aria era carica di neve e tutti si affrettavano per strada. A Mary piaceva l’idea del calduccio di casa, in cui il profumo del pranzo le avrebbe dato il bentornato. Il padre era già a casa e stava cucinando. «Papà! Papà! Sono qui!» Michael Brown si affacciò alla porta della cucina. «Buongiorno, Mary. Sei in ritardo.» «Ritardo? Torno sempre a quest’ora!» Nella sua voce c’era qualcosa che la induceva a fare attenzione a quel che diceva. «È l’una!» «Ho visto dalla finestra, Mary.» Cosa voleva dire? Non capiva. «Hai visto dalla finestra?» «Sì, vieni in cucina.» La prese per un braccio in modo piuttosto brusco. «Adesso, guarda fuori!» Lei fece quello che le aveva chiesto, ma per quanto si sforzasse vedeva soltanto la strada di sempre. «Cosa dovrei vedere?» «L’angolo» rispose Michael Brown, «l’angolo della strada dove si trova quel fish & chips!» «Sì e allora?» Stava vaneggiando? Quel locale era lì da anni, per quanto poteva ricordare Mary. «Ti ho vista lì!» disse Michael con voce calma e scandendo bene le parole. «Mi hai vista lì?» «Non fare l’innocente, Mary. E soprattutto non mentire. Ti ho vista lì con quell’uomo!» Aprì e chiuse la bocca per lo stupore. Voleva dire quello! Ah, santo cielo! «Papà, quello è un mio compagno di scuola. Non un uomo. Ha dodici o tredici anni. Oggi non ha capito delle cose che abbiamo fatto in classe e mi ha chiesto di spiegargliele. Tutto qui. Avremo parlato neanche cinque minuti.» «Mia figlia! Mia figlia che si apparta in angoli bui, per strada, con uomini sconosciuti!» «Papà!» «Papà! Papà!» le fece il verso. «Ma non lo sai quello che vogliono quei tipi da te? Sei davvero così stupida o ti diverte? Ti diverte se ti guardano con desiderio e ti toccano?»


«Ma non mi tocca nessuno, davvero!» «Davvero? In ogni caso imparerai una volta e per tutte quello che ti succederà quando ti metterai con un uomo! Sono o non sono ancora nella posizione di insegnare alla mia unica figlia cosa è giusto e cosa è sbagliato?» Aprì la porta che dava sul piccolo balcone. «Rimarrai fuori finché non ti sarai pentita.» «Ma papà! Da un momento all’altro comincerà a nevicare! Non puoi farlo! Non ho nemmeno il cappotto...» La trascinò fuori. «È la giusta punizione!» Chiuse la porta. Mary fissò il vetro. È impazzito, pensava, mio padre è impazzito! Il freddo le penetrava nelle ossa. Da qualche parte aveva letto una volta: «...come mille spilli». Era proprio così. Si sentiva gelare e bruciare al contempo; e piano piano perdeva la sensibilità del suo corpo. Già dopo qualche minuto batteva i denti e si rannicchiò con gli occhi pieni di lacrime per la disperazione. Morirò assiderata! Batté con entrambe le mani contro il vetro. «Apri! Fammi entrare! Apri!» Nessun rumore. Solo al piano di sopra qualcuno aprì una finestra, e una donna grassoccia si sporse giù. «Cosa succede?» chiese contrariata. «Cos’è tutto questo baccano?» Mary guardò in alto. «La prego, mi aiuti. Mio padre mi ha chiuso fuori, e sto congelando!» «Devi essertelo meritato» rispose impassibile la donna e chiuse la finestra. Mary crollò stringendosi nelle braccia. Angosciata alzò gli occhi al cielo nella speranza che la neve tardasse ad arrivare. Dopo un’ora – Mary non si sentiva più le membra e aveva la nausea per il tanto dolore – suo padre aprì la porta. «Entra. Mi auguro che ti sia pentita di quello che hai fatto!» Lei inciampò entrando nella cucina, si lasciò poi cadere su una sedia e avvertì una sensazione di vita nuova nelle sue ossa, ma non riusciva a smettere di battere i denti e a tremare come una foglia. Non riuscì a parlare per dieci minuti, e quando alla fine le sue labbra si rianimarono la prima cosa che riuscì a dire fu: «Mamma...» Suo padre la fissò. «Ah, già» disse con calma «non lo sai ancora...» Mary sgranò gli occhi neri. «Cosa? Cosa non so ancora?» E dato che lui non rispose, urlò: «Cosa non so ancora? Cosa è successo?» Michael Brown rivolse lo sguardo al crocifisso appeso sopra il tavolo della cucina. «Tua madre oggi ha trovato la sua redenzione.» Mary aveva quattordici anni quando lasciò Liverpool con suo padre. A Michael Brown avevano offerto un posto da insegnante tirocinante nell’esclusivo collegio Saint Clare vicino a Londra; era il posto giusto, considerato che la scuola aveva fama di essere uno degli ultimi bastioni contro il diffuso pensiero progressista e immorale di quei tempi. Il Saint Clare accoglieva sia ragazzi sia ragazze, ma vigevano un rigido regolamento e uno stretto controllo. Dietro quegli spessi muri che


abbracciavano i maestosi edifici, sembrava di vivere lontano dal mondo. Negli ultimi trent’anni l’orlo della gonna a pieghe blu scuro dell’uniforme scolastica non era stato accorciato neanche di un millimetro, e il coprifuoco serale era ancora fissato alle 22.30. Lì non si parlava né di lotta di classe o monarchia né di aborto o pillola. In seguito, Mary pensò spesso che la sua vita sarebbe potuta andare diversamente se avesse imparato di più dalla realtà, anziché studiare su libri impolverati e crescere sotto una campana di vetro. Naturalmente Mary si sentì sempre emarginata: i suoi compagni erano i figli di persone molto facoltose, lei era la figlia di un insegnante. Era la figlia di un impiegato, o almeno era così che lei stessa si vedeva. E suo padre non perdeva occasione per alimentare le sue insicurezze ripetendole continuamente che gli altri erano migliori di lei, e che non avrebbe mai dovuto neanche pensare di essere loro pari solo perché viveva sotto il loro stesso tetto. «Non si deve mai dimenticare qual è il proprio posto nella vita. Porta sfortuna!» Mary gli aveva nascosto che era diventata amica di una ragazza, Natalie Quint, che se pur figlia di uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra, nel suo tempo libero indossava semplicemente jeans e scarpette da ginnastica. Aveva capelli corti color argento chiaro. Scriveva i temi migliori, parlava sempre con gli insegnanti e risolveva complicatissimi esercizi di matematica con la stessa tranquillità con cui dipingeva un acquerello del Saint Claire nell’ora di disegno o segnava un goal dopo l’altro quando giocava a palla a mano nell’ora di ginnastica. Mary si meravigliava del perché quella straordinaria ragazza aristocratica dedicasse il suo tempo e la sua attenzione proprio a lei, e all’inizio aveva anche pensato che lo facesse per compassione, ma poi aveva capito che le voleva bene davvero. Gli amici di Natalie – David, Steve e Gina – la mettevano a disagio, ma Mary aveva fiducia in lei. Una volta, mentre ritornavano da una passeggiata, stanche e in silenzio, con i capelli arruffati dal vento, d’un tratto da qualche parte nel parco, tra lillà in fiore e gelsomini profumati, Natalie si fermò e le disse con la sua solita voce un po’ ansimante: «Sei così bella, Mary. Non sai quanto. Puoi avere tutti gli uomini che vuoi». Mary la guardò per un attimo sorpresa, poi protestò: «Non è vero. Non sono neanche carina, figurarsi bella. Io ho...» «Gli occhi verdissimi e i capelli ramati più belli al mondo. Mary su, non passi inosservata! Dovresti essere orgogliosa di te stessa!» «Nat, credi davvero quello che hai detto? Che... posso avere tutti gli uomini che voglio?» «Certo. Non dimenticarlo mai, non devi accontentarti del primo che capita; devi aspettare che arrivi quello giusto, quello degno di te!» «Vorrei sposarmi, Natalie, un giorno. Vorrei avere un marito tutto per me, che mi ami e che mi faccia sentire protetta. Vorrei avere una casa e un giardino fiorito e...» La sua voce esitò e poi tacque; una sensazione di


freddo e solitudine la pervase avviluppandola tra le sue braccia dure. Natalie la tirò a sé. «Non aver paura Mary. Sarà così, proprio come vuoi tu. Non temere.» «Ma ho paura» disse lei di rimando in un sussurro. «Perché credo che mio padre abbia ragione. Nessuno può dimenticare le proprie origini. Vivevo in una piccola casa squallida ed è lì che tornerò prima o poi.» «Sposerai Steve e avrete una bella vita insieme» disse Natalie senza riflettere. «Steve? Perché dici così?» Le lanciò un chiaro sguardo di intesa. «Tu ne sei innamorata. Perché non glielo dici?» «Cosa dovrei dirgli? Mi riderebbe in faccia.» «Perché?» «Siamo così diversi. Lui farà una splendida carriera e avrà bisogno di una donna completamente diversa al suo fianco. Non una poveretta di Liverpool.» Sul vialetto danzavano i raggi del sole che filtravano tremolanti tra le foglie delle querce fruscianti sopra di loro. «Non pensi che te ne pentiresti un giorno se non gli parlassi?» le chiese Natalie con delicatezza. Mary raccolse un lungo filo d’erba e lo spezzettò senza pensarci. «Mi pentirei se lo facessi.»

2 Una sera d’autunno del 1978, Mary era seduta accanto a David in treno, con la piccola borsa nera di velluto, che aveva ereditato dalla madre, schiacciata contro il petto. Conteneva solo qualche soldo, i documenti e un pacchetto di fazzoletti di carta. E anche una matita per le labbra e un profumo, che erano di Natalie. Avevano un odore aspro e fresco come le verdi colline del Somerset da dove veniva Natalie, e Mary trovava che a lei non si addicessero affatto. Il treno sferragliava attraverso la repentina oscurità autunnale mentre Mary osservava il profilo di David. Fronte alta, naso prominente, labbra ben definite. Come sempre, si chiese chi fosse David in realtà. Davanti a lui, provava la stessa insicurezza che provavano gli altri. Era davvero un buffone? Un buon amico? Era presuntuoso o gentile, disponibile o scostante, comprensivo o gli importava solo degli affari suoi? O era tutte quelle cose insieme? Alle volte Mary aveva l’impressione che tenesse molto all’amicizia dei suoi compagni, ma poi lui si comportava di nuovo in un modo che offendeva gli altri o quantomeno li irritava. Come quando riattaccava con la storia del ricco americano che lo aveva nominato suo erede. Non ne potevano più. «Nessuno qui può nemmeno immaginare quanto diventerò ricco. Avrò


talmente tante case da non poterle abitare tutte quante. Praticamente non farò altro che amministrare i miei conti.» Taceva per un attimo, e poi concludeva con le parole che più preferiva: «Potrò fregarmene di tutto e tutti». Gina, la bella Gina, dagli occhi pesantemente truccati e i bruni capelli lunghi fino alla vita rispondeva: «Certo che lo farai, eccome. Sei uno che non guarda in faccia a nessuno. Ti importa solo del tuo benessere; certa gente arriva sempre dove vuole». «E tu?» replicava lui, e lei sorrideva così che lui pensasse che erano simili. «Io purtroppo ho un senso di responsabilità» rispondeva. «Okay, anch’io non guardo in faccia a nessuno, ma poi arriva sempre qualcuno che mi prendo a cuore e che mi farà cadere prima o poi.» Avrei tanto voluto essere come Gina, pensava Mary, ben consapevole che il suo desiderio più grande sarebbe sempre stato essere un’altra. Non avere mai paura. Non avere paura ora! Osservò di nuovo il profilo di David, e poi rivolse lo sguardo nell’oscurità dove riusciva a vedere scorrere solo i contorni degli alberi e i cespugli. I campi erano spogli, ma gli alberi erano ancora carichi di foglie forti che di giorno brillavano colorate. Ora erano tutte nere e sembravano gelate. Involontariamente, Mary rabbrividì. Sotto il cappotto indossava un sottile abitino di lino rosa, la cui gonna copriva appena il sedere. Apparteneva a Natalie, la quale, sebbene fosse molto magra, in alcuni punti era un po’ più piena di Mary che aveva ancora il fisico di una dodicenne. In un batter d’occhio avevano fatto due pince, e poi Gina aveva portato una larga cintura in cuoio che avevano messo intorno alla sua stretta vita da bambina. «E voilà! Almeno adesso ti si vede qualche curva! E prendi le mie scarpe col tacco alto, saranno un po’ grandi, ma non puoi assolutamente mettere quelle scarpette basse allacciate davanti che porti sempre!» Quando si era guardata allo specchio, non si era riconosciuta nell’immagine riflessa: una bambola con le ciglia nere, le labbra rosse e le guance rosate per il fard. Nat le aveva messo i bigodini e i capelli le ricadevano ora in soffici riccioli. E tra i brillanti orecchini di strass vedeva un viso scialbo e smarrito. «Ehi» le aveva detto Gina, «su con la vita! Oggi è il tuo diciassettesimo compleanno!» Si sentiva come se avesse dieci anni al massimo, e avrebbe voluto che fosse così davvero. Così nessuno avrebbe potuto mandarla in un bar. Ma pensando che fosse una buona idea, gli amici le avevano regalato la serata per il compleanno. Lei aveva opposto ogni resistenza possibile. «Se mio padre lo scopre, mi conviene spararmi da sola!» «Non se ne accorgerà.» «Se ne accorgerà di certo.» «Santo cielo! Non controllerà mica tutte le sere se sei a letto o no. E domani è domenica. Sarai tornata prima ancora che tutti qui si siano


svegliati!» «E poi ti accompagnerà David. Non ti succederà niente!» In piedi davanti allo specchio, aveva esaminato sconsolata le sue gambe sotto la gonna – tanto, troppo corta – mentre nelle orecchie le risuonavano le parole del padre: «Il peccato originale si compie! L’ora dell’espiazione sta per giungere...» «A cosa pensi?» la voce di David la riscosse dai suoi pensieri. Il treno procedeva veloce sui binari, e fuori era ormai buio pesto. Mary si sforzò di sorridere. Si chiese se a David facesse piacere andare con lei in un bar o se avesse dovuto cedere alla pressione degli altri. Poteva immaginare i loro discorsi: «Povera piccola Mary! Deve pur uscire qualche volta e fare qualcosa di bello. Altrimenti sarà sempre più triste!» Forse lui e Steve avevano tirato a sorte, e David aveva perso. «Non la devi lasciare da sola neanche per un secondo» gli aveva raccomandato Gina, e lui spazientito aveva risposto: «Naturalmente no. Ve la riporto sana e salva!» Oltrepassarono i primi sobborghi di Londra, e d’un tratto la pioggia cominciò a battere contro i vetri, mentre i fulmini illuminavano l’oscurità. Quanto avrebbe voluto essere nel suo letto! Quella sera Leonard Barry era stato lasciato dalla sua compagna. Dopo alcuni anni, Carol se ne era andata con tutti i suoi vestiti, le scarpe, i gioielli, lasciandogli solo la grande fotografia in cornice che gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno e che ritraeva una Carol molto bella con indosso un abito da sera verde. «Questa te la puoi tenere, in ricordo della donna che non sono mai stata. Per anni sono stata quello che hai voluto tu, ma ora ne ho abbastanza. Sei insopportabilmente banale, e neppure particolarmente intelligente. E nel frattempo sei anche ingrassato!» Aveva portato una valigia dopo l’altra in strada, dove l’aspettava un taxi, sbattendo ogni volta la porta dietro di lei. Leonard non era riuscito a dirle nulla. Come un ebete, era rimasto lì a guardarla mentre dava di matto. Quando la porta dell’appartamento era stata chiusa per l’ultima volta, si era risvegliato dallo stordimento e si era diretto verso il bar per bersi una vodka. Dopo il primo bicchierino guardandosi nello specchio dietro il bancone aveva visto un uomo di cinquantacinque anni, grosso e dall’aria vissuta, che aveva un debole per le macchine sportive, le camicie di seta e le belle donne. Lo consideravano uno squalo nell’ambiente immobiliare; e anche un uomo senza scrupoli, ma quei giudizi non lo toccavano affatto fintantoché accumulava soldi sul suo conto. Dopo la seconda vodka aveva pensato a come trascorrere la serata. Aveva acceso il televisore, ma non aveva trovato nessun film interessante. Alla fine aveva messo su un disco, ma neanche la musica lo aveva distratto. La separazione da Carol lo aveva colpito più di quanto avesse inizialmente pensato. Quattro anni... ed era per giunta una bella


donna! Ma Londra era piena di belle donne. Senza esitare, aveva afferrato il cappotto ed era uscito. I bar erano la seconda casa di Leonard Barry, e a Londra conosceva solo quelli migliori. Aveva subito deciso di andare al Paradise Lost, una bettola nella zona est diventata di gran moda, che la polizia teneva d’occhio perché in occasione di una retata vi erano stati trovati cinquecento grammi di eroina. A Leonard piacevano le compagnie strambe. Entrò nel locale poco prima delle 23.00. Bevve due vodka Martini, e poi si guardò un po’ intorno. Due bionde con striminzite gonne in pelle erano dall’altro lato del bancone e gli sorridevano con aria ammiccante. Ma lui con un’espressione annoiata distolse lo sguardo. Non gli piacevano le donne che si offrono in modo così spudorato. Dall’altra parte c’era una brunetta carina, ma parlava già fitto fitto con un altro uomo e sembrava impossibile distrarla. La nera alle sue spalle, santo cielo... gambe lunghissime, ma a lui le donne di colore non piacevano. Invece quell’altra, quella con i capelli rossi, non era niente male. Ma perché sembrava così impaurita? Deve essere di sicuro una complicatissima, pensò lui, il tipo che non parla delle sue delusioni con gli uomini. E se un uomo, anziché ascoltarla, vuole portasela a letto, lei si fa venire una crisi isterica e lo accusa di essere un sessista. Ordinò un terzo vodka Martini. La rossa, che, come poté subito constatare il suo occhio esperto, indossava peraltro un abito costoso molto chic, aveva un accompagnatore, un uomo dai capelli scuri che non la degnava di uno sguardo. Quello non è il suo ragazzo, pensò Leonard, e se lo fosse la piccina mi farebbe pena. Sembra che lui si sia dimenticato della sua presenza. Lentamente, cominciò ad annebbiarglisi la vista. Maledetta Carol, pensò sfinito, perché diavolo te ne sei andata. Fu sopraffatto dalla tristezza e dall’autocommiserazione, e si rese conto che non sarebbe potuto tornare a casa senza una donna. Era sconvolto all’idea di rientrare solo nel suo grande appartamento buio e vuoto. Aveva bisogno di qualcuno... di una donna. Aveva appena scorto Lilian, una bionda assistente di volo della British Airways, con cui qualche volta era stato a Monte Carlo, ma prima che potesse raggiungerla, dalle scale giunse un urlo: «Fermi! Polizia!» In un batter d’occhio fu il caos. La musica fu interrotta, le coppie che ballavano schizzarono via in tutte le direzioni, le sedie furono rovesciate a terra, le luci spente. Una donna urlò istericamente, due uomini buttarono via i loro bicchieri di vino. Molti clienti cercarono di raggiungere la scala per l’uscita, ma lì furono bloccati da un agente di polizia che urlando fece tornare tutti nella sala. Qualcuno si infilò nelle piccole finestre, ma anche lì, da fuori, giungeva l’avvertimento: «Indietro! Indietro! Qui è pieno di polizia!» Un tavolo fu capovolto, e qualcuno urlò di dolore. Leonard avvertì una


sensazione di bagnato sul suo braccio; dovevano avergli rovesciato addosso del vino o champagne. Non gli importava, voleva solo uscire di lì. Leonard amava il rischio ma anche la sicurezza, e non sarebbe mai entrato in un club di dubbia fama come il Paradise Lost, senza prima informarsi delle possibili vie d’uscita. Ken, il titolare, suo buon amico, gli aveva detto che la strada si poteva raggiungere dalla finestra del bagno dell’appartamento del barista al primo piano passando sul tetto di un capannone, e da lì attraverso un cortile. Avrebbe fatto proprio così. Percorse il corridoio in cui si trovavano le toilette, e all’improvviso vide la ragazza dai capelli rossi impaurita, ancora più pallida di prima, che voleva scomparire dietro la porta con la targhetta SIGNORE. «Ferma!» disse. «No, quello è il primo posto dove vanno a cercare.» Lo fissò come un coniglio guarda una volpe. Poi notò che lei piangeva. «Ho perso David!» «David?» «Sì, era con me. Ma quando è arrivata la polizia, è sparito. Ho tanta paura...» disse tremando. «Okay. Venga con me» disse lui spazientito. «So come uscire da qui.» «Devo aspettare David!» «Piccola, il suo David saprà badare a se stesso, non si preoccupi. È da stupidi, rimanere qui a causa sua ad aspettare la polizia. Porterebbe solo grane, dia retta a me.» Leonard fece per andarsene, e lei gli corse dietro. «Aspetti! Vengo con lei!» Salirono una buia scala di legno e attraverso una stretta porta sgangherata entrarono in un appartamento fatiscente. Puzzava di cipolla e carbone, e l’aria era intrisa di fumo di sigaretta. Un pappagallino svolazzava eccitato in una gabbia dorata. Leonard conosceva la strada. Senza accendere la luce, trovò il bagno, saltò sul bordo della vasca e aprì la piccola finestra con una spinta. L’umido della nebbia fuori invase la stanza. Leonard osservò la finestra un po’ perplesso. «Lei dovrebbe passare facilmente, signorina... come si chiama?» «Mary. Mary Brown.» «Bene, Mary. Provi lei per prima. Quanto a me, potrò passarci a stento.» Lei esitò ancora un po’, e Leonard pensò: Che fifona! Proprio una fifona! Poi disse ad alta voce: «Su, si sbrighi! Dall’altro lato c’è il tetto di un capannone, non cade giù, non abbia paura!» Alla fine riuscì a infilare la testa nella finestra, e poi tutto il resto del corpo. Ha un fisico minuto, pensò Leonard. Ma nessun coraggio. Chissà se ha mai avuto un uomo? Mary era scomparsa nel buio. Leonard sentiva solo la sua vocina.


«Sono fuori!» «Okay. Arrivo.» Guardò dubbioso la finestra. Maledizione! Sono troppo grosso, pensò. Con la pancia strizzata il più possibile e qualche lamento, riuscì alla fine a passare anche lui e raggiunse Mary sul tetto in lamiera. Poi accovacciato la condusse via, e lei senza fare domande, lo seguì di corsa. Faceva molto freddo e loro non avevano il cappotto. Il tetto del capannone si abbassava gradualmente e finiva a un solo metro dal suolo. Poi c’era un piccolo cortile interno, da cui si accedeva a una stradina nascosta. In lontananza echeggiavano voci, urla e sirene della polizia. Leonard tirò fuori un pacchetto di sigarette. «Vuole, Mary?» Lei fece cenno di no col capo, e si guardò intorno disperata. Sembrava un cane randagio, che vaga per le strade in cerca di qualcuno che lo prenda con sé. «Dove abita?» chiese lui. Mary aveva gli occhi sgranati dalla paura. «Non sono di Londra. Sto piuttosto lontano da qui. Il primo treno parte solo domattina e devo assolutamente trovare David!» «Be’ sarà un po’ difficile adesso. Dove lo ha visto l’ultima volta?» «Era seduto accanto a me al bar, e un attimo dopo, quando è arrivata la polizia, non c’era più. È successo tutto così in fretta!» Leonard soffiava cerchi di fumo nell’aria. Poi sentì freddo, non aveva nessuna intenzione di rimanere lì un minuto di più a prendersi con ogni probabilità un bel raffreddore. «Sa una cosa? Trovo il comportamento del suo ragazzo piuttosto strano. Sembra che non gliene importi niente di quel che le può succedere!» «Non è il mio ragazzo. È solo... un conoscente.» «Persino un conoscente si preoccuperebbe un tantino di più della sua persona. Quando esco con una donna, cerco anche di tornare insieme a lei. Soprattutto se è bella come lei, Mary» aggiunse con delicatezza. Mary lo guardò con aria smarrita. «Che faccio adesso?» «Dunque, se rimane nei paraggi del Paradise Lost l’arresteranno, e avrà di certo un posto dove passare la notte; una bella cella calda, ma non so se...» «No! No, per l’amore del cielo! Domani devo tornare dritta a casa, altrimenti mio padre mi ammazza!» Oddio, pensò Leonard, papino ti ha tenuto sotto una campana di vetro! Gettò a terra la sigaretta e la spense col piede. «In ogni caso, non possiamo rimanere qui. Sto congelando, e lei ha già le labbra viola. Andiamo da me.» Era tutta la sera che quel pensiero gli ronzava nella testa, e nel frattempo si era sempre più convinto che non sarebbe tornato a casa da solo per nessuna ragione. Magari quella donna avrebbe potuto reagire con una crisi isterica, se l’avesse toccata, ma d’altro canto sembrava non ci fosse niente di meglio per quella sera. Le lanciò una occhiata di attesa. «Allora? Che fa, viene?» Mary sembrava un animale braccato mentre soppesava le alternative: era peggio finire nelle mani della polizia, passare la notte lì per strada o


andare a casa di uno sconosciuto? Si rese conto di non avere scelta, e scoppiando in lacrime disse: «Va bene, vengo con lei». Mary non aveva mai visto un appartamento di lusso in vita sua: lampadari di cristallo appesi al soffitto, cestelli di champagne pieni di veri bouquet di rose ovunque, musica in sottofondo diffusa da altoparlanti nascosti. E poi a terra soffici tappeti color oro che facevano da pavimento a una sorta di museo, dove arte e kitsch si fondevano in modo singolare e sfacciato. Anche se Leonard le aveva detto di «mettersi comoda», mentre lui era andato a cambiarsi, lei era rimasta immobile in mezzo alla stanza. Aveva la sensazione di essere dentro un incubo. La retata, la fuga dal tetto, il viaggio nella macchina di Leonard nella notte londinese e ora quell’appartamento si mescolavano in una assurda storia irreale. Durante il tragitto in macchina, Leonard le aveva messo una mano sul ginocchio, ma, accorgendosi che lei era trasalita e si era irrigidita, l’aveva subito tirata via con un sorriso. «Tranquilla, Mary. Non la mangio mica!» Già, magari di peggio, pensò lei nel panico. Leonard entrò nella stanza con indosso un accappatoio bianco, lasciandosi dietro una scia di fortissimo dopobarba. Aveva una bottiglia di champagne in una mano, e due bicchieri nell’altra. «Su, Mary, si sieda! Faccia come se fosse a casa sua. E non mi guardi così, non è la fine del mondo. Le prometto che domani mattina presto, prenderà il treno che la riporterà dal suo caro paparino. Ma fino ad allora, si rilassi un po’.» Mary fece un lieve sorriso e disse: «Naturalmente!» Si sedette sul divano, tutt’altro che rilassata. Leonard le si sedette accanto. Le offrì lo champagne, poi sollevò il calice e brindò. «Alla sua, Mary!» Lei sorrise di nuovo e pensò: Non posso continuare solo a sorridere! Gina avrebbe di certo qualcosa da dire, qualcosa di simpatico, di divertente. Persino Nat col suo carattere rigido riuscirebbe a coinvolgere questo Leonard Barry in una discussione politica. «Mi parli un po’ di lei, Mary. Da dove viene? Sono suoi quei meravigliosi capelli rossi?» «Certo... naturalmente... e io... vengo da Liverpool...» Era una situazione allucinante; si sentiva come esaminata da un insegnante. Prese un bel sorso di champagne e avvertì il calore pervaderle il corpo. Almeno per una volta, farò quello che le altre ragazze normali farebbero al mio posto... Si chiese come si sarebbe comportata Gina e non dovette pensare troppo a un’eventuale risposta. Rabbrividì e bevve con foga il resto del bicchiere. Mary aveva così poca esperienza con gli uomini che rimase a dir poco sconvolta quando Leonard la baciò. Il cuore le batteva forte; cercò di allontanarlo, soprattutto per prendere tempo.


«No, Leonard. Non lo faccia!» «Non ti diverte, tesoro? Non essere stupida! Ma certo che ti piace farti baciare!» Si sporse di nuovo verso di lei. Quel piccolo esile corpo, la viva paura negli occhi verdi – per nulla il suo tipo, ma ora doveva averla a tutti i costi. Tuttavia, era meglio essere prudenti. Un passo falso, e la ragazza se ne sarebbe andata via di corsa urlando. La baciò con delicatezza. «Sei così bella, Mary» le sussurrò. «Ti amo!» Lo champagne l’aveva intontita, ma non al punto da non capire quello che accadeva. Si rese conto che aveva assunto una posizione scomposta sul divano e che la gonna le era salita fino alla vita. Leonard le aveva tirato i collant giù fino alle ginocchia. Non aveva più le scarpe già da un pezzo, e aveva l’impressione che il trucco fosse tutto sbavato, e i capelli arruffati. Tutto questo è immorale, pensò, terribilmente immorale! Ancora una volta cercò di allontanarlo, ma lui le stava sopra con tutto il corpo e premeva talmente che lei non ebbe più abbastanza forza per contrastarlo. Era troppo pesante e forte. «La prego Leonard» disse disperata, «mi lasci andare!» «Ti prometto che ti piacerà» le rispose lui, e ansimando le infilò con decisione le mani tra le gambe. Non mi piacerà! Non mi piace. È disgustoso e poi è anche peccato! Ma era solo una parte di Mary che pensava quelle cose. L’altra cercava di prendere il sopravvento e diceva: Devi farlo. Fa’ tutto quello che vuole. Non essere vigliacca, Mary, non fuggire sempre la vita! Questo ne fa parte, affrontalo senza paura come farebbero Gina e Nat! Non pensare a papà e alle sue chiacchiere! Per una volta sii libera di fare quel che vuoi! Così rimase immobile tra i cuscini di seta e si lasciò andare agli eventi: il caldo respiro saturo di alcol sul suo viso, l’umida lingua che spingeva tra le sue labbra, le mani che scivolavano sul suo corpo, le dita che si facevano strada nella sua carne. Quando lui la penetrò, lei cacciò un gridolino, ma lui le mise subito una mano davanti alla bocca: «Zitta!» Le sembrava che il suo corpo si fosse chiuso in difesa contro di lui. Ogni parte di sé gli resisteva. Lui nel frattempo si muoveva sempre più velocemente, ma lei non emise più alcun suono. Alla fine Leonard gemette, ebbe un fremito e si accasciò su Mary. Neanche trenta secondi dopo, ronfava soddisfatto. Mary non osava muoversi. Era così frustrante che Leonard dormisse beato, e lei fosse sveglissima. Desiderava che l’abbracciasse, che le sussurrasse paroline dolci nelle orecchie. Avvertiva un profondo senso di calore e amore. Era successo alla fine; aveva resistito, non era scappata. E Leonard era l’uomo con cui era successo; il suo primo uomo. Aveva sempre escluso l’idea di fare l’amore con un uomo senza esserne innamorata, ma di indole era abbastanza volubile da rimuovere in un baleno il fatto che prima lei non lo amasse affatto. Lo avrebbe amato da quel momento in poi, era inevitabile.


3 Natalie era fuori di sé dalla rabbia quando scoprì cos’era successo. «David! Maledizione a te!» urlò. «Avevamo deciso che non avresti dovuto lasciare Mary da sola neanche un secondo! Come hai potuto...» Come sempre, quando veniva attaccato, David si comportava con indifferenza, come se lui non avesse alcuna colpa. «Quando uno si trova in una retata, cerca sempre di svignarsela il prima possibile. Sarebbe stato meglio se ci avessero arrestati entrambi?» «Non lo avrebbero fatto. E poi tu sei riuscito a fuggire dalla polizia. Avresti dovuto portare Mary con te!» Già, pensò lui, avrei dovuto farlo. Cercò di ricordare quello che aveva provato quando la polizia aveva fatto irruzione nel locale e tutti se l’erano data a gambe urlando nello scompiglio generale. Il panico; quel solito sentimento di orrore, che fin da bambino lo assaliva ogni volta che si sentiva minacciato da un pericolo, e che, protetto e viziato com’era, lo faceva impazzire perché sentiva vacillare le sue sicurezze. Quando aveva paura, lui scappava. Davanti a Natalie invece si sforzò di dissimulare: «O Natalie, cara! Non capisco perché ti agiti tanto. Dopo tutto anche Mary se l’è cavata egregiamente. Non è finita in prigione ed è tornata sana e salva. Perché tutta questa scenata?» «Sana e salva!» ripeté con una punta di sarcasmo. «Ma non vedi quanto è turbata dalla notte con quell’uomo? Non so di preciso cosa le sia successo, ma probabilmente qualcosa la preoccupa!» «Oddio! Non fare come se fosse vittima di un destino funesto! Va bene, ha passato una notte con uno sconosciuto e, forse è successo qualcosa e forse no! Non lo rivedrà mai più e così la faccenda sarà dimenticata. Passata! Finita! Perché vedi fantasmi dove non ci sono?» «Come fai a essere così sicuro che Mary non rivedrà mai più quest’uomo?» «Perché dovrebbe farlo?» «Temo che se ne sia innamorata» replicò lei. Leonard Barry non telefonò al Saint Clare né la domenica né il lunedì né tantomeno il martedì successivi, nonostante Mary gli avesse lasciato il numero di telefono. Ogni tanto pensava: Cosa gli impedisce di farsi vivo? Non poteva averla dimenticata! Aveva perso il bigliettino col numero di telefono? O aveva paura di imbattersi in suo padre? Il mercoledì mattina presto, dopo una notte insonne, era decisa ad andare a Londra per incontrarlo. Ne parlò con Gina, che già andava spesso in città per incontrare un giovane. Lo aveva conosciuto in un cinema, si chiamava Lord Charles Artany, era tanto povero quanto aristocratico e in quel periodo lavorava in una orchestra londinese come secondo violino. Diceva che era noioso da morire e che lo frequentava solo per mancanza di meglio. «Parla solo ed esclusivamente del musical che un giorno


comporrà. Sarà l’opera migliore di sempre, ma neanche con tutta la buona volontà, riesco a immaginare che un uomo così scialbo possa comporre qualcosa di davvero coinvolgente per gli altri!» D’un tratto Mary le aveva chiesto: «Hai già... avete già...» «Cielo, no! Charles Artany è un uomo all’antica! Mi ha dichiarato che andrà a letto con una donna solo dopo averla sposata, e dal momento che non è mai stato sposato, temo che non abbia una particolare esperienza dal punto di vista sessuale. Come me del resto; non credo che vorrò cominciare proprio con lui.» Gina voleva andare di nuovo a Londra giovedì; voleva andare a prendere Charles alle sue prove d’orchestra e poi fare compere con lui. E Mary, con la sua solita vocina le chiese se poteva andare con lei. «Naturalmente non vi disturberò. Me ne andrò da sola in giro per la città; solo che mio padre non dovrà mai sapere che ci siamo separate!» «Oh, a me non importa di rimanere da sola con Charles» replicò Gina, «puoi tranquillamente farci compagnia!» «No... preferisco stare sola...» Stranamente Gina non commentò l’espressione eccitata di Mary, e invece di canzonarla si limitò a rispondere: «Va bene. Come vuoi. Sprecherò un altro giorno della mia vita con quel noioso Charles Artany!» Leonard Barry sbatté stremato la cornetta sull’apparecchio. Era stufo di discutere con Carol. Sempre la stessa storia. «Cosa vuole?» borbottò. «Che mi metta in ginocchio e le chieda perdono? Perché poi? Non le ho dato tutto quello che potevo?» Quando sentì il campanello, non aveva la minima voglia di andare ad aprire, ma dopo il secondo e il terzo squillo, decise di andare alla porta. Una ragazza con i capelli rossi era in piedi davanti a lui e sorrideva. Accidenti, che sorriso affascinante! «Sì?» chiese lui. «Leonard... dovevo assolutamente vederti. Perché non hai più chiamato? Ho aspettato tanto...» «Io... ecco...» farfugliò per prendere tempo. Poi gli tornò in mente: ma certo, la rossa del Paradise Lost, quella che si era portato a casa. Come diavolo si chiamava? «Non ero sicuro che tu volessi che io ti chiamassi» mormorò lui alla fine come un imbranato. Ma la ragazza annuì comprensiva. «Ma forse è stato un bene. Mio padre...» «Appunto.» Non voleva farla entrare, ma lei lo fissava, pallida e infreddolita, e quel che era peggio con occhi languidi. Senza troppa convinzione indietreggiò. «Se vuoi entrare...» Entrò in un secondo, gli occhi dolci e brillanti, e Leonard ebbe la sensazione di essere in trappola. L’aiutò a togliersi il cappotto (rendendosi conto con rassegnazione che voleva trattenersi a lungo) e le fece strada. «Prego!» Lei entrò in salotto, e l’espressione con cui guardò il divano era così


estasiata che lasciò Leonard senza parole. Sul divano avevano fatto sesso, e probabilmente ci stava pensando. Santo cielo, si è davvero innamorata di me! «Accomodati, Maggie» disse e lei lo guardò contrariata. «Mary, mi chiamo Mary.» «Giusto. Naturalmente, è stato un lapsus. Mary.» Leonard andò al bar, prese due bicchieri e una bottiglia di Vov e mise tutto sul tavolo. «Allora, Mary che hai fatto in questi giorni?» chiese allegramente. Non doveva assolutamente suonare romantico. Mary bevve un sorso di liquore e poi senza guardare Leonard disse: «Non ho fatto altro che pensare a te. Tutto il tempo». «È molto carino da parte tua» rispose con gentilezza. Trovava che avesse l’aria di un coniglio malato. I capelli ricci rossi e brillanti avevano un che di ammaliante, ma da soli non riuscivano a stuzzicarlo. E chi le aveva suggerito di presentarsi lì con quella gonna a pieghe blu scuro, le scarpette basse allacciate davanti e quel pullover di lana grigio? «Mary» disse, «è stato molto bello l’altro giorno con te...» «Sì?» «Sì. Sei una donna stupenda, e non ti dimenticherò mai...» Nei suoi occhi verdi si insinuò il panico. «Cosa vuoi dire con non ti dimenticherò mai?» «Su, cosa voglio dire? Quello che ho detto... sei molto dolce Mary...» Il telefono squillò. Leonard si alzò di scatto e si precipitò a rispondere. «Pronto.» «Sono ancora io, Carol.» La sua voce fredda e scostante fu come una pugnalata. «Ho bisogno di un po’ di riposo, Leonard. E dal momento che per caso ho ancora le chiavi di Monti con me...» Fece una pausa. «Sì?» chiese Leonard teso. Monti era il nome della villa di Monte Carlo che le aveva regalato per il suo quarantesimo compleanno. Una casa nella zona alta di Monte Carlo, che si affacciava sul mare. «Vorrei andare lì per un paio di settimane.» «Non devi chiedermi niente. Monti è tua.» «Come faccio a esserne sicura? Magari la rivuoi indietro!» «Non dire sciocchezze, Carol. Monti è tua e puoi farne quello che vuoi. Puoi anche venderla, se vuoi cancellarmi completamente dalla tua vita!» La sua risata suonava divertita. «Ecco il solito vecchio Leonard. Esagerato come sempre. Non ho mica detto che voglio vendere. Ho solo detto che vorrei trascorrervi un paio di settimane!» E riattaccò. Leonard rimase lì a fissare l’apparecchio ma avrebbe preferito di gran lunga lanciare un urlo di trionfo. Lei andava a Monte Carlo. E l’aveva anche informato prima. Ovviamente, sarebbe partito anche lui! D’un tratto guardò al futuro con ottimismo. Londra, soprattutto in autunno, non era il posto adatto per le riconciliazioni, ma il Mediterraneo... Si voltò e vide la pallida ragazza seduta sul divano. Sospirando prese


una bottiglia di grappa, riempì un bicchiere e se lo scolò d’un fiato. Quella storia doveva finire ora. «Dunque, Maggie, ascoltami...» «Mary» disse lei soffocando le lacrime. «Già, Mary. Scusami. Devo dirti una cosa...» Gina era finita con Charles Artany in una pizzeria nei pressi di St Paul. Si stava rimpinzando di peperoni mentre quello per l’ennesima volta straparlava del suo musical. «Lo intitolerò Pioggia. Che ne pensi? La musica ricorda le gocce di pioggia!» «Davvero originale» disse lei ironicamente, e rendendosi conto che lo aveva ferito, aggiunse conciliante: «Mi dispiace. Non l’ho detto con cattiveria. Su mangia un peperone!» Ne prese uno dalla sua pizza, ma lui alzò le mani in segno di difesa. «No, lo sai che sono troppo pesanti per me.» Tutta la vita è troppo pesante per te, ragazzo mio, pensò e chiamò il cameriere. «Ancora un quartino di rosso, grazie!» Charles la guardò preoccupato. «Sono solo le cinque del pomeriggio. Non credi che non dovresti bere così tanto a quest’ora?» «Non credi che non dovresti essere così perbenista?» disse imitando il suo tono di voce. «Non ho mai capito la gente che consuma l’alcol secondo il momento della giornata. Voglio dire, che differenza fa se mi ubriaco adesso o più tardi?» «Non fa bene alla salute, Gina. Sono preoccupato per te. Sembri così stanca e tesa...» «Sono gli esami di novembre. Ci rendono tutti nervosi.» «Ti va di passare le vacanze con me nel maniero degli Artany? È una bellissima antica tenuta, e lì potresti lavorare in pace. E nel frattempo potremmo fare passeggiate nel parco o andare a cavallo, o stare seduti davanti al camino...» La sua voce era calda, piena di desiderio, quasi implorante. Ti voglio, dicevano i suoi occhi, ti amo, ho bisogno di te! Lei rispose fiaccamente: «Lo sai che le antiche tenute inglesi non fanno per me, e poi fa troppo freddo lì. Preferisco un posto caldo». «Basta un pullover e il problema è risolto...» «Non se ne parla. Tra l’altro io odio la lana.» Davanti ai suoi occhi si formò l’immagine di nebbia densa, prati ricoperti di brina, forti scrosci d’acqua contro i vetri delle finestre e una furiosa tempesta che ululava nei camini. E lei e Charles Artany in pantaloni lunghi, stivali di gomma e pullover che camminavano affondando i piedi nell’atavica terra. Balzò in piedi di scatto: «Devo andare a prendere il treno. O Mary dovrà aspettarmi». Si accorse subito che Mary aveva pianto, o meglio: sembrava che volesse buttarsi sotto il treno. E alla fine, Charles andò a comprarle il biglietto, perché lei non sembrava affatto nella condizione di farlo. Gina la prese per un braccio. «Mary, cerca di calmarti. Cosa è successo?»


Mary voleva dire qualcosa, ma scoppiò a piangere di nuovo. Singhiozzava così forte che alcuni passanti si fermarono incerti se intervenire o no. «Può essere solo colpa dell’amore» disse Gina. «Sono sicura. Mary, sciocchina, su asciugati le lacrime e raccontami del mascalzone che ti ha fatto questo!» Mary scosse il capo disperata. «No, no, non posso. Sto malissimo!» «Ma, io voglio aiutarti...» «O Gina, sai cosa vuol dire? Sai quanto è doloroso?» Gina si guardò intorno, e i suoi occhi si posarono su Charles che, come un cagnolino fedele e affidabile, stava tornando con i biglietti in mano. Charles e gli altri prima di lui, flirt più o meno intensi con uomini più o meno interessanti, che avevano tutti una cosa in comune: la adoravano. Ed erano i suoi giocattoli che lei prendeva e lasciava secondo i suoi capricci. «No» disse «non lo so quanto fa male. Ma alle volte penso che il dolore faccia parte del gioco, e allora desidero... desidero di essere io per una volta quella che ama in questo modo, che sente la felicità e il dolore così profondamente.» Due persone che per un caso fortuito si incontrano in un giorno e in un luogo preciso hanno ciascuna la propria storia che sembra destinata a intrecciarsi a quella dell’altra, se viste a posteriori. Quella fredda sera di ottobre, mentre Mary in lacrime tornava in treno a casa da Londra, il suo futuro marito, che non aveva la minima idea della sua esistenza, era seduto al tavolo della cucina nel suo piccolo appartamento in affitto nella zona est di Londra senza capire perché avesse bevuto così tanto o perché la vita fosse una vera schifezza. Non gli era mai andato bene niente. Prima una infanzia miserabile, a scuola solo tanta sfortuna, poi nessuna formazione decente, e nessuna fortuna in amore. Con le donne era sempre andato tutto storto. Due settimane prima aveva perso un lavoro come cassiere al supermercato – in un paio di occasioni aveva litigato con dei clienti, era diventato villano – e l’ufficio di collocamento gli aveva trovato un lavoro come giardiniere in un collegio. In un collegio, da non crederci! Aveva accettato solo perché in un momento di onesta autovalutazione aveva capito che nel caso di una lunga settimana senza lavoro si sarebbe impantanato in una condizione da cui forse non sarebbe mai più uscito. Meglio andare in un dannato collegio, potare siepi e raccogliere foglie. Almeno lì avrebbe potuto vivere senza spendere un soldo e non avrebbe dovuto mollare il suo appartamento. Naturalmente non era un lusso da poco tenere un appartamento a Londra dove ritornare almeno ogni due settimane, ma gli sembrava impensabile non avere più un rifugio in città. Quel collegio – Saint Clare o come diavolo si chiamava – era alla fine del mondo, circondato da campi e prati e poi il niente. Si portò la bottiglia di birra alla bocca e se la scolò d’un fiato, poi si


alzò e barcollò verso l’ingresso. Sarebbe andato nel suo locale preferito a offrire da bere ai suoi amici. Forse c’era qualche bella pollastrella al Saint Clare: era il caso di festeggiare.

4 Mary si sentiva distrutta e ferita nell’anima, e alla fine anche il suo corpo reagì all’insonnia e all’inappetenza. Si prese un raffreddore che la costrinse in camera per due settimane, e quando alla fine pallida e smunta si rialzò dal letto, le medicine e i dispiaceri avevano influito così negativamente sui reni da farla tornare a letto per una nefrite. Nel delirio della febbre alta vaneggiava cose senza senso che per fortuna suo padre non capiva. Il dottore gli aveva detto: «La ragazza ha i nervi a fiori di pelle. Succede spesso alla sua età. Sa se soffre di pene d’amore?» Michael Brown si era voltato di scatto. «No! Certo che no! Mia figlia non ha nulla a che fare con gli uomini!» Il dottore non aveva risposto. Secondo lui, la maggior parte dei padri non conosceva le proprie figlie neanche la metà di quello che credeva, e nel caso di quella giovane donna era assolutamente convinto che dietro ci fosse un uomo. Una volta, quando era rimasto solo con Mary aveva cercato di farla parlare, ma lei aveva distolto lo sguardo, gli occhi velati di lacrime. «Poi passa» aveva mormorato lui, «stia tranquilla, è capitato a tutti; il tempo guarisce tutte le ferite e poi quando ogni cosa è risolta ci rendiamo conto che non era così grave.» All’inizio di dicembre Mary si era ristabilita e aveva deciso di andare a Londra con la scusa di fare acquisti per Natale, ma in realtà voleva incontrare ancora una volta Leonard Barry. Il cielo era carico di neve, i prati ricoperti di brina e un vento freddo sferzava i campi. Mary aveva una strana sensazione mentre, seduta nello scompartimento del treno, ripensava al sogno della notte precedente. Aveva visto una spada – o era un lungo coltello? – che, sprigionando una luce bianchissima, tracciava brillante un segno sul soffitto della stanza. A un certo punto, mentre fissava quella cosa inquietante, aveva capito che non stava sognando ma era sveglia: quello che vedeva era la realtà. Pietrificata, con il cuore che le martellava nel petto, era rimasta lì inerme, finché alla fine i suoi pensieri si erano confusi mescolandosi e si era addormentata. Quando al mattino si era svegliata, la spada era scomparsa. Aveva raccontato tutto a Steve e concluso dicendo: «È un brutto segno. Quasi un avvertimento. Non credi?» Ma Steve si stava spalmando le sue solite creme sul viso. Messi via i flaconcini, aveva avvolto una sciarpa grigia intorno al collo e aveva seguito Mary in camera, dove aveva capito subito che la causa di tanta


paura era stato il legno della finestra. «Deve aver disegnato una lunga ombra sul soffitto. Tutto qui.» «Ma l’ombra è scura, no? La spada era chiara! E poi avrei dovuto vederla sempre, non solo questa notte!» «Allora forse stanotte la luna descriveva un angolo particolare, o forse a quell’ora non eri mai sveglia. Non so. In ogni caso non c’è nulla di misterioso.» Il presentimento di un’oscura minaccia svanì quando Mary, arrivata a Londra, scese dal treno. Intirizzita a causa del freddo umido, si coprì il viso con la sciarpa, affondò le mani nelle tasche del cappotto e si incamminò a grandi passi per la strada. Conosceva una scorciatoia attraverso St James Park. La stradina iniziava con un vialetto ghiaioso fiancheggiato da sterpaglia spoglia. Tutt’intorno la nebbia si insinuava tra i rami nodosi, e l’umidità covava sul sottobosco. Un uccellino svolazzò e poi scomparve nella foschia: sembrava che il giorno facesse fatica a iniziare e che il sole non sarebbe comparso a illuminare quel cielo ancora molto livido. Mary si affrettò. Non c’era anima viva nel parco. D’un tratto desiderò aver scelto l’altro percorso, quello che passava tra le strade animate. Ripensò alla spada, e quasi si mise a correre. La strada diventava ancora più stretta e buia, ma non aveva alcun senso tornare indietro dal momento che ne aveva già fatto un bel pezzo. Non essere sciocca, si disse, nessuno ti farà nulla. È solo suggestione dovuta al sogno. Girò un angolo e rallentò il passo perché su una panchina lì vicino aveva visto una signora seduta. Per quanto potesse vedere in quella luce opaca, non doveva essere giovane, tra i quaranta e i cinquant’anni forse. Indossava un cappotto logoro con l’orlo sfilacciato. I capelli biondi tinti le stavano tutti appiccicati a ciocche intorno al viso alzato, curiosamente ovale. Si voltò per sbirciare; il suo viso era ricoperto di cicatrici, e le mancavano i due incisivi superiori. Lanciò a Mary uno strano sguardo scrutatore, e lei ricambiò con un sorriso incerto. La donna non rispose al sorriso, ma continuò a scrutarla. Quando le fu più vicino, Mary riprese a camminare velocemente. Ma non finiva mai il parco? E perché non incontrava nessuno? Udì un trapestio e trasalì vedendo la donna all’improvviso. Le era comparsa al fianco come emersa da sotto terra. Aveva una strana luce nei suoi occhi strabici. «Che ora è?» chiese. «Oh... sono le...» Goffamente Mary si tirò su la manica del cappotto. «Le cinque e mezzo!» «Che ora è?» ripeté la donna. Mary rispose: «Le cinque e mezzo» e riprese a camminare velocemente. La donna la raggiunse subito. «Dove vai?» Aveva una strana voce cantilenante. E quello sguardo spiritato... Una pazza, pensò Mary, e fu sopraffatta dal panico. Con tutta la calma possibile rispose: «A trovare un amico».


«Dove vai?» «A trovare qualcuno. È già tardi, devo affrettarmi.» «Mi porti con te?» Ma perché deve capitare proprio a me tutto questo? si chiese, in preda alla disperazione. Mai e poi mai, si sarebbe presentata da Leonard con quello spaventapasseri. «Mi dispiace, ma non posso portarla con me. Dobbiamo parlare di alcune cose importanti...» La donna continuava a fissarla con uno sguardo in cui si leggeva chiaramente che non capiva le parole di Mary. Era talmente strabica che Mary per un attimo pensò che non stesse guardando lei ma in un punto alle sue spalle. Istintivamente si voltò e in quell’esatto momento cacciò un tremendo urlo perché, sfruttando la sua disattenzione, quella l’aveva presa per un braccio e scaraventata a terra con una forza inaspettata. Mary era caduta su un lato, con metà viso nel fango e un piede dolorosamente piegato, ma non era tanto il malleolo a farle male quanto il braccio, le spalle e le costole in cui si stava diffondendo velocemente un fortissimo dolore. Cresceva sempre di più e si chiese: Perché questo dolore lancinante? Poi si rese conto che quella pazza era sopra di lei, la stava schiacciando contro il terreno con tutto il peso del corpo e aveva preso a trafiggerla con un coltello senza pietà. Il suo braccio andava su e giù tra le urla e i lampi del metallo della lama o erano sue le grida che Mary sentiva? Avvertì un calore, qualcosa di umido sulle sue mani e poi qualcos’altro prese a scorrerle sulle gambe, il dolore sempre più forte; quando finalmente perse conoscenza le sembrò che fosse passata una eternità. Quando si svegliò stava male e doveva vomitare. Qualcuno le sorreggeva la testa e le teneva una ciotola davanti alla bocca. Era in un letto bianco, l’ambiente odorava di cera per pavimenti e disinfettanti, e su un piccolo tavolo, da un portaspazzolini da denti, svettavano un paio di tulipani lilla. Mary sputò un po’ di bile, e poi alzò il capo. Un’infermiera e un dottore le stavano intorno chinati e la guardavano con aria preoccupata. «Oh, finalmente» disse il dottore. «Pensavamo che non si sarebbe più svegliata!» Mary li guardò con occhi spalancati e confusi. «Cosa è successo?» «Abbiamo fatto appena in tempo, signorina. Quando è stata portata qui era in condizioni gravissime: in un bagno di sangue, con diciotto coltellate su tutto il corpo. È un miracolo che non abbia riportato ferite agli organi vitali. Solo la milza è stata danneggiata e abbiamo dovuto asportarla...» «Cosa è...» I ricordi stavano riaffiorando lentamente. «Lei è stata aggredita in St James Park» dichiarò l’infermiera. «Da una donna affetta da disturbi mentali, che due giorni fa era scappata da un


ospedale psichiatrico ed era ricercata perché ritenuta molto pericolosa. Per fortuna due passanti l’hanno trovata riversa a terra, priva di sensi e gravemente ferita, mentre la pazza se ne stava seduta su una panchina a qualche passo di distanza, col coltello ancora accanto.» «Oddio!» La nebbia che offuscava la mente di Mary cominciò a diradarsi. Fu come se tante piccole tessere si componessero pian piano e le mostrassero l’immagine completa di un mosaico. Ricordava quello che era successo. E in quel momento si accorse che aveva bende su tutto il corpo: le braccia, le gambe, le spalle, le costole. «Oddio! Ricordo! Quella pazza che non mi mollava... i dolori lancinanti...» «È passata!» disse il dottore conn tono paterno dandole qualche buffetto sul braccio. «Non ci pensi più. I suoi amici sono venuti subito tutti qui, ma lei dormiva e noi non abbiamo potuto farli entrare. Le hanno portato i tulipani.» Mary annuì e poi scoppiò a piangere di nuovo consapevole di tutto quello strazio, di tutto quel dolore, e perché le sembrava tutto senza speranza. Il dottore la guardò con aria amichevole. «Ah, già! Ha avuto molta fortuna però, è stato un vero miracolo: le posso assicurare che il bambino sta bene!» Qualche altro singhiozzo e poi quelle parole trafissero la nebbia. «Cosa?» «Il bambino non ha riportato danni. Non deve temere.» «Quale bambino?» «Non lo sapeva ancora? Mia cara, lei è al secondo mese di gravidanza!» Michael Brown non dormiva più; ce l’aveva col destino. Dio solo sapeva se non lo meritava quel destino! Non era sempre andato regolarmente in chiesa? Non aveva sempre condotto una vita timorosa di Dio? Mai una goccia d’alcol; non una donna dalla morte della madre di Mary. E ora quello! Sua figlia diciassettenne, che aveva protetto e custodito gelosamente, era incinta. Avrebbe voluto prenderla a bastonate per strapparle il nome di quel farabutto che l’aveva messa incinta, ma lei aveva serrato le labbra e si era immersa nei suoi pensieri senza prendere sul serio le urla impazzite del padre. «Cosa pensi di fare? Cosa pensi di fare?» Alzò il capo e lo guardò, l’espressione di chi è lontano dalla realtà negli occhi. «Nulla. Non farò nulla. Non c’è nulla da fare.» «Ecco, la gentile signorina vuole starsene con le mani in mano e lasciare che le cose accadano. Ma non con me, capito? Mi hai rovinato la vita, Mary. Dovrò lasciare il Saint Clare!» Lei rimase in silenzio. Su tutte le furie, lui andò avanti a berciare: «Questo significa che anche per te è giunto il momento di andartene da qui. Non puoi più continuare a studiare. Le donne incinte non vanno a


scuola, ti è abbastanza chiaro?» Ancora silenzio, ma il suo era il silenzio dettato dalla rassegnazione, non dall’ostinazione. Non aveva nessuno con cui poter parlare, così si rifugiava in se stessa. Era quasi Natale e gli amici erano tornati tutti a casa. Natalie aveva telefonato due volte, Steve una volta sola, ma Mary non si era confidata con loro. Nat aveva chiesto: «Qualcosa non va? Hai ancora dolori?» E lei aveva semplicemente risposto: «No. È tutto a posto. Davvero!» Niente era a posto però. Assolutamente niente. Non aveva mai pensato di essere nata sotto una buona stella, e ancora una volta ne aveva avuto la prova. Aveva perso Leonard, aveva perso il collegio e con esso anche i suoi amici, e avrebbe avuto un figlio, un bambino, che l’avrebbe assorbita completamente. Come fossero passati anni dal giorno del suo diciassettesimo compleanno, le tornò in mente la sera al Paradise Lost e la casa di Leonard, dove ferma sul divano gli aveva lasciato fare quello che voleva perché per una volta, solo una volta, non aveva voluto scappare di fronte alla vita. Piegò le labbra in un sorriso storto, e il padre si infuriò ancora di più. «Ti farò perdere il sorriso, Mary, te lo giuro. Non lascerò che mio nipote, oltre a essere stato concepito nel peccato, sia anche un figlio illegittimo. Dovrai sposarti!» «Con chi, papà?» «Sarà un matrimonio combinato» rispose torvo. Peter Gordon, il giardiniere, aveva la sensazione di non aver capito bene. Da sopra l’imponente scrivania perfettamente in ordine, fissò Michael Brown con aria stupefatta. «Cosa vuole dire? Che devo sposare sua figlia?» «L’ho detto chiaramente mi pare!» Michael aveva la fronte imperlata di sudore e le mani serrate. «E le ho detto come stanno le cose. Quindi, cosa decide?» «Mi coglie un po’ di sorpresa. A prescindere dal fatto che non capisco... mi chiedo, siamo nel ventesimo secolo, giusto? Deve sposarsi per forza sua figlia?» «È fuori discussione! Non voglio un bastardo in famiglia!» «Ma...» Peter Gordon rifletté. Non vedeva il problema ma quel signor Brown evidentemente sì e non voleva mettersi a discutere. Come l’arcangelo... Ripensò alla piccola Brown. Non era una brutta ragazza, forse un po’ magra e pallida, ma per i suoi gusti piuttosto scialba. Lui preferiva le more, con gli occhi castani. Ma un momento... gli uomini devono essere un po’ flessibili. «Come è arrivato a me?» chiese. Michael si alzò. Si avvicinò alla finestra e senza guardarlo disse brusco: «Lei ha l’età giusta. Non è troppo vecchio né troppo giovane. L’ho osservata e credo non si farebbe scrupoli a sposare una donna che aspetta un bambino da un altro uomo. Per me sarebbe impensabile». Peter ne era convinto. «Ma non sono quel che si dice un buon partito»


disse. «Si sarà informato sul mio conto, e saprà che spesso sono senza lavoro, ho pochi soldi e ho sempre... vissuto in modo disordinato, anche per quel riguarda le donne...» Non poteva vedere che la bocca di Michael si era ridotta a un’unica striscia sottile. Sei un miserabile, Peter Gordon, pensò, e non credere che io non lo abbia capito. Ma Mary deve pagare... e tu sarai la sua giusta punizione... Dalla finestra poteva vedere Mary avvolta in un pesante cappotto, che camminava lentamente nel parco. Una piccola figura solitaria in un grande prato tra fiori appassiti. Se l’era meritato. Quel miserabile, quel Gordon se lo meritava! Si voltò e, il viso bianco come un lenzuolo, disse: «Vorrà sapere cosa ci guadagna da questa faccenda, giusto?» «Volentieri» replicò Peter in tono insolente. Quella situazione era uno spasso. Da un lato, per una volta sentiva di essere importante – cosa che accadeva molto di rado – e dall’altro trovava quel Michael Brown davvero buffo. Un puritano di prim’ordine, avrebbe potuto essere il braccio destro di Oliver Cromwell in persona, o essere sceso direttamente dal Mayflower. Probabilmente indossava ancora un lungo cappotto nero, portava sempre una bibbia in mano e una croce in equilibrio sulla testa. Nel 1978, in Inghilterra, un uomo come quello poteva essere solo il personaggio di una barzelletta. Gli sorrise divertito. «Siccome, dopo tutto quello che è successo, lei non può vivere qui con mia figlia, dovrete trovare una sistemazione altrove» disse Michael. «Presumo che tornerà a Londra. Farò il possibile per aiutarla a trovare un lavoro.» «Mmm» fece Peter. Londra andava benissimo, ma la sua espressione diceva chiaramente che come ricompensa non bastava ancora. Michael afferrò il concetto. «Come insegnante non guadagno molto, ma fortunatamente sono una persona semplice. Le offro duecento sterline al mese per i prossimi cinque anni. Un extra niente male per uno come lei.» Peter ci pensò su un attimo, poi disse: «Per i prossimi dieci anni e l’affare è concluso!» Quell’uomo era la gramigna! Un veleno! Per un attimo a Michael venne il dubbio di non aver fatto bene a sceglierlo per sua figlia, ma poi la sua presunzione ebbe la meglio. «Bene» disse, «per i prossimi dieci anni. Come vuole, signor Gordon!» Peter si alzò, immaginandosi i volti dei suoi amici quando avrebbe raccontato loro quella storia. Rimaneva ancora un punto da chiarire. «Sua figlia è d’accordo?» chiese. Michael guardò ancora una volta fuori dalla finestra. A occidente il cielo invernale tendente al rosso faceva da sfondo agli alberi neri. E anche Mary, in piedi e ferma con le mani in tasca, era avvolta da quella luce rossastra. «Mary sa bene quanto me che tutto va come deve andare. E sa anche di non avere altra scelta.»


5 Si sposarono in gennaio in una piccola chiesa vicino al Saint Clare, naturalmente senza ospiti e senza una festa. Michael Brown non partecipò al matrimonio. Se pure sconcertati, increduli e alla fine anche arrabbiati per non essere riusciti a dissuadere la sposa, Natalie e Steve fecero da testimoni. Mary aveva un corpo un po’ più da donna, ma per il resto la gravidanza non si vedeva ancora. Non aveva potuto comprare un abito per quel giorno, ma Natalie le aveva prestato dei soldi senza ammettere rifiuti. «Devi indossare un bell’abito, Mary, è giusto così. Non essere così dura con te stessa, altrimenti lo saranno anche gli altri.» Alla fine Mary aveva comprato un elegante tailleur blu scuro con un cappello coordinato che le stava benissimo. Anche Peter faceva una bella figura nell’abito scuro che indossava; ma era insieme che quei due non stavano bene, persino il parroco se ne era accorto. Quando augurò loro di trascorrere una lunga vita insieme, sembrava non credervi. I quartieri della zona est di Londra erano stipati di case grigie o dai mattoni rossi, nere per la fuliggine delle ciminiere delle fabbriche; intervallate da cortili stretti e sporchi dove tra bidoni della spazzatura traboccanti, teloni lerci svolazzanti e pile di pneumatici giocavano bambini vestiti di stracci. Le strade erano punteggiate di pozzanghere oleose. Non un albero, né un cespuglio; solo davanti a un paio di finestre c’erano fioriere di plastica, ma naturalmente senza neanche un fiore essendo gennaio. In lontananza si sentivano sferragliare i treni. Peter chiuse la porta d’ingresso. Sesto piano, quarta porta a destra, in un odioso casermone grigio. «Eccoci qui. Entra!» Proprio di fronte all’ingresso era appeso uno specchio, così Mary poté vedersi nel suo bel tailleur tra carta da parati a fiori grandi e stampe kitsch che ritraevano tramonti; una ninfea in una palude. Sapeva che la desolazione, il grigiore, il freddo l’avrebbero presto inghiottita facendola diventare un tutt’uno con il resto, e lei sentiva di non avere più alcuna forza per opporvisi. Si tolse il cappello e si ravvivò i riccioli schiacciati. Poi seguì Peter in una cucina talmente piccola da ospitare a malapena due persone contemporaneamente. Il frigorifero ronzava; Peter non aveva mai staccato niente perché vi era sempre tornato per il fine settimana. Aprì una bottiglia di birra, se la portò alla bocca e ne bevve due belle sorsate e poi la allungò a Mary. «Ne vuoi?» Lei scosse il capo, lasciò la cucina e si diresse verso il salotto. La mancanza di gusto con cui era stato arredato la lasciò senza fiato. Un tappeto verdognolo infeltrito, carta da parati a strisce rosse e blu, un divano in pelle nera davanti a un piatto tavolo di legno, e due sedie da cucina. Un grande televisore era pericolosamente appoggiato su un traballante sgabellino a tre piedi, e sembrava un miracolo che ancora ne sopportasse il peso e non avesse ceduto. Alle finestre c’erano tendine gialle con dei triangoli neri. Nell’aria si sentiva puzza di muffa. Mary


rabbrividì. Si avvicinò alla finestra e vide che alla sua stessa altezza passava, a soli cinque metri circa di distanza, un ponte ferroviario. Proprio in quel momento sfrecciò un treno con un tale frastuono che i binari sussultarono, e lei dovette tapparsi le orecchie. Oddio, dove sono finita? Dove sono finita? «Ho fame» disse Peter ad alta voce dall’altra stanza. Mary si voltò. «Fame?» «Sì, fame» ripeté lui spazientito. «È così strano che un uomo abbia fame ogni tanto?» «No, naturalmente.» Un po’ incerta ritornò in cucina e cercò qualcosa da mangiare. Un vasetto di panna acida, un po’ di lattuga avvizzita, due pomodori, cavolfiori e qualche salsiccia. Birra in abbondanza e un barattolo di ananas. «Posso preparare un’insalata mista. E poi cavolfiori con salsiccia, e ananas per dessert. Ti va bene?» Si sforzò di parlare con un tono allegro desiderando disperatamente che Peter dicesse qualcosa di carino e sorridesse. Si sentiva sull’orlo delle lacrime. Peter fece una smorfia. «Bene!» ringhiò. «Un vero pranzo della festa! Ho sempre immaginato così il mio matrimonio!» «Potremmo andare a fare un po’ di spesa. Forse... forse potremmo prendere anche una piccola bottiglia di spumante per festeggiare...» «Spumante! La signora vuole lo spumante! Nient’altro?» «Pensavo solo...» «Pensavi! Allora ti dirò io come stanno le cose! Hai sposato un disoccupato, e questo significa che ti aspettano tempi magri. Dobbiamo stringere la cinghia. Forse, negli ambienti eleganti da cui vengono la tua Natalie e il tuo Steve si beve spumante ai matrimoni, ma noi non apparteniamo a quel mondo, e prima lo capisci meglio è. Noi stiamo molto al di sotto, Mary, lo capisci?» Lei rimase in silenzio. E lui pieno di collera ripeté: «Non mi hai capito?» «Sì» disse in un sussurro. Peter si voltò e sparì. Con le mani tremanti lei prese pentole e insalatiera, lavò l’insalata, tagliò i pomodori in quattro e immerse le salsicce in acqua calda. Quando Peter ricomparve alla porta, stava disponendo piatti e bicchieri su un vassoio. Lui si era tolto la giacca e la camicia, e aveva indosso solo i pantaloni. Mary si spaventò vedendo il suo petto muscoloso e villoso. La fece pensare a un gorilla tanto forte quanto pericoloso. Con tutta la serenità possibile, disse: «Puoi apparecchiare, Peter? Il pranzo è pronto!» Lui le si avvicinò, le prese il vassoio dalle mani, lo posò sul tavolo e la abbracciò: «Chi pensa a mangiare adesso! Siamo in luna di miele, abbiamo qualcos’altro a cui pensare, no?» «Ma è tutto pronto e caldo...» Lui sorrise. «Già. Soprattutto io! Vieni, tesoro, cerchiamoci un posticino più comodo. Magari la camera da letto.»


Per tutto il tempo aveva temuto quel momento, aggrappandosi alla speranza che lui non avrebbe avuto alcuna voglia di andare a letto con una donna incinta. A quanto pareva non gli faceva alcun effetto. «Ma è pieno giorno» disse lei, «aspettiamo fino...» «Non ti facevo così timida. Non lo sei sempre stata, giusto? O hai fatto tante storie anche con quello che ti ha messa incinta?» Mary tacque ferita. Peter la prese per il polso e la trascinò senza alcuna dolcezza nel corridoio fino alla camera da letto. Aveva già abbassato le veneziane e acceso il mangianastri, che spandeva canzoni d’amore un po’ tremolanti perché le batterie dell’apparecchio dovevano essere quasi esaurite. Il letto era già pronto con la coperta tirata via. «Su, Mary, spogliati. Non mi sono sposato per vivere come un monaco!» Puoi anche andare con un’altra donna, pensò lei, e lasciare me in pace! Esitante si sfilò la giacca. Peter si stese a letto, con le mani sotto il capo e la guardò con insistenza. «Ancora, Mary!» Non si era mai sentita umiliata come in quel momento, ma non aveva ancora capito che non era tanto per il fatto che si stava spogliando davanti agli occhi di quell’uomo, quanto perché lo stava facendo su suo ordine. Era come dirle di fare la ruota o stare a testa in giù. La umiliava dover fare qualcosa che non avrebbe mai voluto. Quando si stese accanto a Peter, con indosso solo slip e reggiseno, sentiva freddo, aveva le mani sudate, ed era in preda a un soffocante attacco di nausea. Da fuori giunse ancora una volta il frastuono di un treno che fece tintinnare le finestre, e dalla cucina arrivava la puzza di cavolfiori bruciati. Era passata un’ora? Due? O solo qualche minuto? Non ne aveva idea; potevano essere passati anche anni. Si trascinò con passi lenti e stanchi in cucina, osservò il pranzo – l’insalata avvizzita che navigava tristemente nella salsina, la carne come eruttata dai tagli nelle salsicce, i cavolfiori bruciacchiati. Sentiva la voce adesso allegra di Peter che canticchiava sotto la doccia. D’un tratto era di buon umore. «Se il pranzo è bruciato» aveva detto, «prepara semplicemente qualche fetta di pane con formaggio. E un po’ di affettato.» E le aveva dato un pizzicotto di incoraggiamento sulla guancia. «È stato bello, Mary. Non vedo l’ora che arrivi stanotte!» Mary aveva indossato la vecchia vestaglia blu di sua madre che profumava ancora della sua dolce acqua di Colonia. Forse era evaporata già da tempo e lei immaginava solo di sentirla. O forse la avvertiva perché non si era mai sentita vicina a sua madre come in quel momento. Davanti ai suoi occhi si formò l’immagine del suo viso pallido, torturato dalla malattia e dai dispiaceri. Era stato il padre a ridurla in quello stato. Aveva dovuto subire tutte le sue angherie, anno dopo anno, i suoi umori, la sua bigotteria, i suoi accessi di rabbia, i suoi divieti, i suoi ordini. Lei li aveva sopportati in silenzio, indebolendosi fino a morire. E sarà lo stesso anche per me, pensò.


Scoprì che la cucina aveva una porta che dava sull’esterno, e aprendola si ritrovò su un piccolo balcone con la ringhiera di ferro. Tra i mattoni del muro della casa cresceva il muschio. Dalle finestre del vicinato usciva puzza di cipolla e pesce, e sulle pile di rottami ammassate nel cortile si arrampicavano due bambini. Il cerchio si era chiuso. Mary si trovava di nuovo su un piccolo balcone che si affacciava su sudici cortiletti, e presto un bambino avrebbe strappato il muschio dal muro e messo a cavalcioni sulla ringhiera i suoi pupazzi. Per la prima volta, da quando la sua vita era stata sconvolta da Leonard Barry, Mary fu sopraffatta da una tremenda collera; tanto breve quanto violenta. Ricordò la sera al Paradise Lost, quel terribile attimo in cui irruppe la polizia, e si accorse che David era sparito. Le risuonarono nelle orecchie le parole piene di stupore di Leonard: «Sembra che non gliene importi niente di quel che le può succedere!» Non gliene era importato assolutamente. Aveva promesso che non l’avrebbe mai lasciata da sola; sì, come no, quel maledetto l’aveva fatto eccome! E ora lei era lì con tutti i suoi sogni infranti. «Potrei ucciderti David Bellino» mormorò, «potrei...» La sua voce fu sovrastata dal frastuono assordante del treno che fece tremare le finestre per l’ennesima volta.


Steve

1 Era il 5 luglio 1979. Liz O’Brien aveva otto anni. Le erano stati regalati dei nuovi pattini a rotelle, una cartella in pelle rossa, due vestitini estivi con dei fiocchi per capelli coordinati e tutti i libri che desiderava. La mattina del suo compleanno, mentre faceva colazione, aveva però pianto perché non era stato esaudito il suo desiderio più grande, un cagnolino vero; e siccome proprio non riusciva a calmarsi, suo padre Ed le aveva detto: «Okay, signorina, oggi chiudo il locale alle cinque, mi vieni a prendere e andiamo da qualche parte a mangiare un gelato e poi stasera, se ti va, andiamo al cinema. Contenta?» Liz, che adorava suo padre, si asciugò le lacrime. Era quasi meglio che ricevere un cane. Gli O’Brien erano cattolici irlandesi di Belfast. Cinque anni prima, a Plymouth sulla costa meridionale dell’Inghilterra Ed aveva aperto al porto un locale, che era principalmente frequentato da soldati della marina britannica. Il Black Friars non lo arricchiva, ma consentiva a lui e alla sua famiglia di condurre una vita senza pensieri. Liz si mise in cammino alle cinque meno un quarto, con le raccomandazioni della madre nelle orecchie, e i fiocchetti nuovi tra i capelli. Era un limpido giorno d’estate, molto caldo, e persino il vento fresco, che soffiava generalmente dal mare nelle strade della città costiera, era calato. Alle cinque in punto, Liz entrò al Black Friars con le guance arrossate per il caldo e l’eccitazione. Quando pioveva, il locale rimaneva solitamente pieno anche il pomeriggio, ma quando splendeva il sole era tranquillo fino alle otto di sera. In quel momento c’erano cinque giovani, tutti della marina. Erano appoggiati al bancone, e quando videro Liz si voltarono tutti come rispondendo a un ordine e attaccarono a cantare a squarciagola Buon compleanno. Quando ebbero finito, Ed disse: «Bravi, ragazzi, davvero un bel coro! Ma adesso dobbiamo chiudere perché ho promesso alla signorina di andare con lei». «Non prima di averci offerto ancora un giro per il compleanno di tua figlia!» gridò uno di loro. Gli altri fecero vivacemente capire che erano d’accordo. Ed offrì a ciascuno una birra, a Liz toccò un succo di mela, e tutti brindarono felici e soddisfatti.


Poi Liz dovette andare in bagno. «Okay» disse Ed, «ma sbrigati. Nel frattempo lavo i bicchieri.» Anche se il Black Friars era raramente frequentato da donne, era comunque dotato di una toilette per signore. Quando Liz entrò nel minuscolo bugigattolo bianco con quell’orrenda stampa sulla parete, pensò stupita: che strano! Che ci fa quell’aggeggio nero in quell’angolo? Erano le cinque e diciannove. Alle cinque e venti scoppiò la bomba. La prese in pieno. In un decimo di secondo, Liz morì; il suo corpo, ridotto a brandelli e completamente ustionato, fu riconosciuto a malapena. Ed, che si trovava nel locale della birreria, fu scaraventato a terra dalla violenza della detonazione. Morì soffocato per il calore sprigionato, prima ancora che le fiamme si propagassero nel locale fino ad arrivare ai muri portanti. Dei cinque soldati ospiti, uno era appena uscito dal locale e dovette assistere impotente a quello che accadde: a due dei suoi quattro compagni toccò la medesima sorte di Ed. Gli altri due riuscirono a raggiungere l’uscita: l’uno come una torcia umana, l’altro strisciando con le gambe sfracellate per via dei calcinacci caduti dalle pareti e dal soffitto in seguito all’esplosione. L’uno morì poi in ospedale a causa delle gravissime ustioni, l’altro se la cavò, ma i dottori dovettero amputargli gli arti inferiori. E a causa del boato dell’esplosione perse anche l’udito. Qualche minuto dopo le sei, un anonimo chiamò la polizia di Plymouth e la informò che l’attentato al Black Friars portava la firma dell’IRA. Alle sette, chiamò un secondo anonimo, che fece il nome di Alan Marlowe e disse che era stato lui a piazzare la bomba la sera prima nel bagno delle signore del Black Friars. La polizia conosceva bene Alan Marlowe. Il suo nome spuntava sempre quando si parlava di membri influenti di organizzazioni terroristiche. Nel giro di pochi minuti, in tutte le stazioni di polizia della nazione fu diramato l’ordine di cattura, che fu esteso anche alle dogane di tutti i porti da cui partivano navi di linea verso il continente. «Anche se» come disse in tono contrariato l’ispettore capo della polizia di Plymouth a un collega, «anche se, volendo, quel farabutto potrebbe aver già lasciato l’Inghilterra!» Nello stesso istante – erano circa le sette e mezzo di sera – un giovane si trovava in una cabina telefonica a Nantes in Francia, e stava componendo un numero con le mani tremanti. In preda all’agitazione, attese che il telefono smettesse di squillare. Doveva esserci qualcuno a casa, doveva... Gli sembrò passata un’eternità quando qualcuno alla fine sollevò la cornetta. «Pronto?» «Pronto? Steve? Sei tu?»


«Sì, sono Steve Marlowe. Chi parla? Alan... sei proprio tu?» «Sì, sono io, Steve. Ascoltami bene, non posso dirti nulla al telefono, ma sono in grosse difficoltà e devo vederti prima possibile.» «Dove sei?» «In Francia. Nantes. Steve, hai una macchina?» «Sì, ma...» «Prendila e vieni alla stazione di Nantes. Non è molto lontano da St Brevin o come diavolo si chiama quel posto dove stai passando le vacanze! Di’ agli altri che vai a fare un altro giro perché è una bella serata o qualcosa del genere. Ma per piacere vieni subito!» «Alan, non capisco...» «Ti spiegherò tutto. Ma fino ad allora, se qualcuno te lo chiede, devi dire a tutti senza esitazione alcuna che io sono qui in Francia già da ieri e che sono stato tutto il tempo con te. Steve me lo prometti? Mi serve un alibi a prova di bomba!»

2 Erano sempre stati due fratelli molto diversi, Alan e Steve Marlowe, figli di un copywriter squattrinato di Norwich, Norfolk, che un giorno aveva avuto la fortuna di inventare uno slogan vincente per un produttore automobilistico con il risultato che quelle auto erano diventate famose in tutto il mondo e lui era diventato ricco. La famiglia aveva quindi lasciato Norwich e si era trasferita a Londra, dove aveva comprato un confortevole appartamento da dieci camere nei pressi di Buckingham Palace. George Marlowe, cui per la prima volta la vita offriva più prospettive di quante ne avesse mai sognate, voleva soprattutto una cosa: un futuro brillante per i suoi figli. Steve, due anni più piccolo di Alan, era molto sensibile ai progetti di suo padre. Era un giovane delicato, molto timido e per nulla interessato ai divertimenti sfrenati degli altri ragazzi. Sua madre, Grace Marlowe, lo aveva sempre tenuto sotto una campana di vetro, proteggendolo dalla vita vera. Steve era poi diventato un ragazzo bello e insulso, il cui unico pensiero era quello di curare il proprio aspetto e comprare sempre vestiti all’ultima moda. Nessuna fase di ribellione né tantomeno progetti audaci o folli per il suo futuro; non si discostava mai dalla strada dritta che aveva progettato per sé. Non sapeva che molte persone lo consideravano un insopportabile opportunista, e che non era affatto amato come credeva. Quando arrivò al Saint Clare per ricevere una formazione esclusiva, Gina era l’unica che, col suo carattere sfacciato, gli ripeteva sempre quello che pensava di lui (e che segretamente tutti pensavano), ma lui non le dava alcun peso considerandola ordinaria e rozza e pensando che parlasse per invidia. Suo padre, ben introdotto nel mondo


della finanza londinese, gli aveva già procurato un impiego nella Wentworth & Davidson, e il signor Wentworth non aveva alcun dubbio sul fatto che Steve potesse fare una grande carriera. Alan, grande e robusto, non era invece né raffinato né coccolato, e probabilmente neanche molto amato, e sentendosi discriminato dai genitori reagì con rabbia nei loro confronti. A tredici anni fu beccato a rubare in un grande magazzino. A quindici anni aveva fondato con i suoi amici un gruppo radicale che aveva l’obiettivo di annientare il capitalismo e di sovvertire i rapporti di potere. Inizialmente, le attività del gruppo erano piuttosto contenute; i giovani si dedicavano sostanzialmente a sit-in, manifestazioni e diffusione di volantini. Poi solidarizzarono con l’IRA e cominciarono a danneggiare le vetrine; e il padre di Alan ricevette moltissime richieste di risarcimento. Naturalmente Alan quasi non andò a scuola, sebbene George Marlowe avesse sborsato un patrimonio per fargli frequentare scuole private: alla fine il figlio si ritrovò senza un diploma e senza alcuna voglia di imparare un mestiere. Fino ad allora, quel suo modo di vivere era stato il dispiacere più grande per i suoi genitori che avevano sperato, sempre e comunque, che fosse solo una fase transitoria che sarebbe finita con la pubertà. Ma a diciotto anni, una notte, Alan se ne andò via di casa e per due anni nessuno ebbe sue notizie. Poi un giorno si ripresentò alla porta, con i capelli lunghi, dimagrito, gli occhi cerchiati e pallido. «Santo cielo, Alan, dove sei stato?» urlò Grace, precipitandosi in négligé di seta verde dalla sua camera dove aveva fatto colazione a letto e guardato, rimuginando, la fotografia in cornice del figlio. Alan posò a terra lo zaino, e fissò lo specchio del guardaroba all’ingresso come se vi vedesse riflesso uno sconosciuto. «A Dublino, mamma» si affrettò a rispondere. «Dublino? Cosa hai fatto due anni a Dublino?» «Ho imparato a conoscere l’Irlanda, un paese che non potrà mai essere completamente libero, da secoli sotto la repressione e il dominio di uno straniero che paradossalmente è il suo paese più vicino, e che si chiama Inghilterra.» Il panico invase gli occhi da bambola di Grace. «Non hai niente a che fare con l’IRA, vero? Ti prego figlio mio, non farci questo!» Con aria compassionevole, Alan guardò il delicato viso diafano di sua madre, i biondi capelli curati, il delicato nasino all’insù. Quella donna viveva tra parrucchiere ed estetista, shopping e spettacoli teatrali, e l’unico fuoco che le ardeva dentro era il suo smodato amore per Steve. Non sapeva nulla del vero fuoco, del fuoco della battaglia in cui si può anche morire. Non immaginava neanche cosa fosse l’esaltazione che consuma e che spinge un uomo quando è votato a una ideologia! No, Grace Marlowe non lo sapeva, e non lo avrebbe mai saputo. Subito dopo il ritorno di Alan, nell’auto di un politico inglese fu fatta esplodere una bomba; fortunatamente l’uomo, cui era diretta, non era


nell’auto e nessuno rimase ferito. L’attentato fu rivendicato dall’IRA e Alan fu tra i sospetti arrestati, ma fu subito rilasciato per insufficienza di prove. Quando Grace Marlowe sentì la notizia, si ricordò della dura luce febbrile negli occhi del figlio, e in cuor suo seppe che Alan vi aveva partecipato e che prima o poi lo avrebbe rifatto e sarebbe stato catturato. Stranamente, tra Alan e Steve, per quanto diversi, c’era un profondo legame, che sembrava forte abbastanza da superare le tempeste dovute al complicato carattere del fratello maggiore. Alan non se la prendeva con Steve per essere il cocco dei genitori, né Steve diceva alcunché contro le attività politiche di Alan, che pure trovava molto pericolose. Proprio come aveva sempre fatto per quel che riguardava la sua vita, era convinto di poter scansare anche tutte le difficoltà che Alan poteva causare. Non sapeva ancora però che nella vita non sempre ci si può mettere di lato per non farsi travolgere dagli eventi, e quella bella sera d’estate, quando Alan gli telefonò da Nantes, cominciò a capirlo. Superati gli esami finali, Gina aveva proposto a Steve, David, e Natalie di andare in Francia. Alcuni amici le avevano offerto la possibilità di usare una piccola casa per le vacanze sulla costa bretone in un posticino che si chiamava St Brevin Les Pins, vicino a Nantes. Non era stato facile mettersi d’accordo, perché David voleva andare in Germania e Natalie in Scozia, ma alla fine avevano deciso per St Brevin, ed erano partiti con due macchine stipate di valigie. «Chissà dove ci porteranno le nostre vite» disse Gina in tono enfatico. «Forse questa è l’ultima occasione che abbiamo per stare tutti insieme!» Naturalmente si erano sentiti in dovere di invitare anche Mary, ma lei aveva risposto che non poteva perché doveva occuparsi di Peter e della bambina. Cathy, sua figlia, era nata da una settimana. Situato nella zona in cui la Loira sbocca nell’Atlantico, St Brevin Les Pins era un piccolo paese fatto di tante casette bianche con giardini idilliaci. Inoltre c’erano una chiesetta molto bella, un paio di bar, gelaterie, birrerie, un cinema... Chiunque vi andasse non era in cerca di divertimento sfrenato, ma di pace e tranquillità. Di giorno si poteva fare il bagno, prendere il sole, mangiare un gelato e giocare a bocce, di sera si andava a cena in un bistro e si passava il tempo tra una chiacchiera e l’altra. Era il trionfo della calma e della spensieratezza... lontano dal mondo reale. Non così lontano, pensò Steve, quella sera quando Alan lo raggiunse al telefono. Perplesso riagganciò la cornetta; si trovava nel salotto della casetta e fuori, dietro gli alti alberi che delimitavano il giardino, il sole del tramonto infiammava di rosso tutt’intorno. Sulla ringhiera della veranda erano appesi i costumi bagnati, e attraverso la porta aperta si poteva sentire il profumo dell’olio abbronzante che impregnava i teli mare sulle sdraio. Una scarpetta da ginnastica giaceva solitaria sulle


scale che portavano in giardino. Una racchetta da badminton, un frisbee, un paio di sandali e un paio di occhiali da sole erano sparpagliati sul prato. Su una panca c’era una macchina fotografia. Gina ha lasciato di nuovo fuori la sua macchina fotografica, pensò Steve istintivamente, devo riportarla dentro prima che si bagni con la rugiada. Dalla cucina giungevano risatine e gridolini. «Guarda come taglia i pomodori David! Credi che dopo siano ancora commestibili?» «Gina, queste uova cuociono da mezz’ora. Potrebbero rompere il muro!» «Nat ha ragione! Ahi! Adesso mi sono anche bruciata le dita! Acqua fredda presto!» Sembra che la cena la stia preparando un centinaio di persone e non soltanto tre, pensò Steve. Solo dieci minuti prima, anche lui era allegro. Ora era in preda alla paura e gli batteva forte il cuore. Prese le chiavi dell’auto e uscì dalla casa di nascosto. L’auto era bollente per la canicola di quei giorni. Steve abbassò tutti i finestrini, aprì il tettuccio e avviò il motore. I due fratelli erano seduti l’uno di fronte all’altro a un tavolo del ristorante della stazione di Nantes. Alan aveva ordinato una birra, Steve del sidro. Parlavano sottovoce perché il ristorante era molto affollato. Alan aveva subito capito che Steve lo avrebbe aiutato solo se non avesse saputo la verità. Se avesse saputo che era stato lui a piazzare la bomba, sarebbe crollato senza dubbio se fosse mai stato chiamato a testimoniare. Nel frattempo, tutte le radio avevano diffuso la notizia dell’attentato continuando a ricordare la morte della ragazzina di otto anni. Alan vedeva già i titoli a lettere cubitali della stampa scandalistica del giorno seguente, con tanto di fotografie della bambina con un orsacchiotto o un porcellino d’India in braccio. Terribile. Chi avrebbe potuto immaginarlo? Il Black Friars non era frequentato né da bambini né da donne; per quello aveva pensato di mettere la bomba nel bagno delle signore. Alla fine aveva raccontato al fratello una storia mezza vera e mezza falsa. «Quindi, tu, davvero, non c’entri niente con la bomba?» chiese Steve per la centesima volta. Alan fece cenno di no col capo. «No. Ma alcuni amici mi hanno avvertito. Sono stato denunciato da una telefonata anonima alla polizia di Plymouth.» «Ma perché, se tu non c’entri niente?» «Chiunque sia non può farmi nulla.» Tacquero entrambi. Alla fine Steve disse: «Ma tu ti muovi negli ambienti dell’IRA». «Già» replicò Alan. «Mi aiuterai lo stesso?» «Naturalmente» rispose lui pensando però disperato: Maledizione,


Alan, come puoi farmi questo? Come puoi mettermi in una situazione del genere? Perché? «Ascoltami» continuò Alan, «io mi sono presentato qui a St Brevin presto ieri mattina. Non è che per caso eri solo?» «Io non sono mai completamente solo. Alle dieci Natalie e Gina sono uscite per fare compere a Nantes. Io sono stato tutto il giorno con David. Siamo stati fino a mezzogiorno a prendere il sole in giardino, poi abbiamo fatto un giro con la macchina lungo la costa bretone per un paio d’ore, abbiamo mangiato qualcosa in un posto dimenticato da Dio e siamo tornati. Erano circa le nove di sera.» «Che tipo è questo David?» «David? Mah!... è un po’ difficile. Qualche volta un po’ scostante... un po’ arrogante.» «Come la pensa politicamente?» «Non lo so. Ma credo che abbia un forte senso della giustizia. Sua madre è tedesca, suo nonno fu ucciso dal nazismo. Capisci? David è cresciuto con la consapevolezza che allora si sia consumata una tragedia immane e che noi, la nostra generazione intendo, abbiamo il dovere di fare in modo che non si ripeta mai più. Credo che David non potrebbe permettere che un innocente finisca in prigione!» «Non voglio coinvolgere nessun altro nella faccenda.» «Ma forse» disse esitante, «non sarebbe una cattiva idea per te avere un altro testimone. Io sono tuo fratello, e alla mia testimonianza potrebbe non essere dato il giusto peso. Ma se David dichiara le stesse cose...» «Ancora non capisco perché questo David dovrebbe fare qualcosa per me!» «La vita di David è diversa da quella degli altri. Ecco perché.» Come poteva saperlo? si chiese Alan. Era stanco e frustrato. Il suo istinto, la sua capacità di giudizio, la sua esperienza lo ammonivano a non fidarsi di un «David» che non conosceva nemmeno. Ma lo ammonivano anche a lasciare che Steve lo aiutasse a costruirsi un alibi. Non ricordava che suo fratello fosse così ingenuo, così immaturo. Bambini! Avevano appena finito la scuola e stavano trascorrendo una spensierata vacanza estiva in Francia. Che cosa ne capivano loro della sua vita, del suo mondo? Ma senza un alibi, non poteva tornare né in Inghilterra né nell’Irlanda del Nord. O se pure avesse mai potuto farlo, solo con un passaporto falso e con la costante paura di essere scoperto. Senza contare che non sapeva più chi gli fosse rimasto ancora amico e chi fosse diventato un nemico. Qualcuno lo aveva tradito. E chiunque lo avesse fatto, poteva rifarlo. Dove poteva sentirsi ancora al sicuro? Non si era mai sentito così stanco. Mai così miserabile e debole. Una volta uno dei suoi compagni gli aveva fatto una sorta di profezia: «Un giorno sarai colpito da tali sventure che desidererai avere una vita normale come non l’hai mai immaginata. Desidererai una moglie, dei


bambini e una bella casetta. E anche un buon lavoro. Lo desidererai più di ogni altra cosa al mondo». Lo desiderava. Lo desiderava più di ogni altra cosa al mondo. Fece a se stesso un giuramento; se fosse uscito indenne da quella situazione avrebbe chiuso con quella vita. Non perché avesse cambiato modo di pensare, ma perché si sentiva psicologicamente e fisicamente stanco. Portandosi il bicchiere di birra alla bocca con le mani tremanti disse: «Steve, se pensi sia giusto coinvolgere David, allora fallo».

3 Steve recitò la formula con voce chiara: «Giuro di dire la verità, tutta la verità, niente altro che la verità». E dopo qualche attimo di esitazione aggiunse: «Che Dio mi aiuti!» L’udienza contro Alan Marlowe si tenne nel tribunale londinese di Old Baily adottando le più strette misure di sicurezza e con solo pochi spettatori ammessi in aula. Steve evitò di incontrare lo sguardo dei propri genitori seduti nell’ultima fila, che sembravano non avere ancora compreso quel che era accaduto quel terribile 5 luglio. Il loro figlio era accusato di omicidio plurimo! La sua foto campeggiava su tutti i giornali, e loro stessi avevano ricevuto diverse telefonate anonime in cui erano stati insultati e chiamati «i genitori dell’assassino», oltre alle lettere minatorie in cui si parlava di vendetta e ritorsioni. Grace aveva dovuto subire lo sguardo di sottecchi con tanto di bisbigli dal parrucchiere e suo marito era stato lasciato in disparte per tutta la sera a una festa di un amico di lavoro. «Alan è innocente» diceva Grace a tutti, che volessero crederci o no. «Al momento dell’attentato non era in Inghilterra.» Ben pochi le credevano, perché fondamentalmente nessuno voleva crederle. Un Alan Marlowe innocente non serviva a nulla; ci voleva un colpevole. L’opinione pubblica esigeva di scovare l’autore di quel crimine orrendo; la furia generale si accontentava anche di un capro espiatorio. Come c’era da aspettarsi, la stampa dell’intera nazione aveva risvegliato profondamente le coscienze raccontando di nuovo con dovizia di particolari la storia della piccola Liz O’Brien. Ovunque campeggiavano foto che la ritraevano con la carrozzina delle bambole, su un pony, con i genitori a colazione, o sull’altalena. In tutte le immagini Liz indossava vestiti leggeri dai colori pastello, fiocchetti nei capelli e sorrideva raggiante. Una storia che arriva alle persone, aveva pensato Steve. Tra gli spettatori aveva scorto la madre di Liz, poiché la donna che «ha perso così tragicamente marito e figlioletta, e che sta attraversando un inferno di solitudine e dolore» (Sunday Times), e spesso presente nelle fotografie sui giornali, era facilmente riconoscibile nonostante gli


occhiali scuri e un cappello talmente calato sul viso da coprirlo quasi del tutto. Povera donna, pensò Steve, è una fortuna che Alan non sia responsabile del suo terribile dolore! Era consapevole che stava per testimoniare il falso. Il pubblico ministero gli aveva spiegato cosa significava: «Adesso lei è sotto giuramento, signor Marlowe. Può finire in carcere per falsa testimonianza». Fece cenno di sì col capo e guardò David. David che avrebbe giurato dopo di lui, che proprio come lui avrebbe testimoniato il falso. Non sarebbe accaduto, tutti e tre avevano concordato alla perfezione quello che dovevano dichiarare: quel fatidico 4 luglio, il giorno prima dell’esplosione della bomba, Alan si trovava a St Brevin; e per ogni minuto di quella giornata avevano stabilito esattamente cosa avevano fatto in modo da far combaciare le versioni che avrebbero fornito. Steve, la cui massima debolezza era di non fare mai nulla da solo («Un giorno» lo aveva canzonato Gina, «ci chiederà persino di accompagnarlo al bagno!»), ricordò come si era sentito sollevato quando David, a conoscenza di tutto, gli aveva messo la mano sul braccio e gli aveva detto: «Vi aiuto io, Steve, non preoccuparti. Sono con voi!» «Signor Marlowe, ci racconti cosa ha fatto quel 4 luglio a St Brevin!» Era il pubblico ministero Marsch. Non mi piace questo Marsch, pensò Steve, sembra un tipo scaltro e ambizioso. Conservatore fino all’osso. Un uomo per cui una assoluzione equivale a un pugno in faccia! In un bagno di sudore improvviso riuscì comunque a rispondere con voce ferma: «La mattina del 4 luglio io e David Bellino eravamo soli a casa a St Brevin. Le due ragazze con cui eravamo in vacanza, erano andate a Nantes molto presto per fare spese e non sarebbero tornate prima di sera». «Perché non le avete accompagnate?» «Faceva molto caldo e non avevamo nessuna voglia di andare in giro per la città. Preferivamo fare un bagno e prendere il sole.» «Signor Marlowe, lei ha dichiarato che verso le undici suo fratello, l’imputato qui presente Alan Marlowe, si è presentato da lei, senza preavviso. È corretto?» «Sì, quando il campanello è suonato eravamo in giardino. Sono andato io ad aprire e mi sono ritrovato Alan davanti.» «È rimasto molto sorpreso?» «Non lo aspettavo. Certo che ero sorpreso.» «Come faceva suo fratello a sapere che lei era in quella casa di St Brevin?» «Gli avevo parlato del mio viaggio. E gli avevo anche dato indirizzo e numero di telefono.» «Davvero? Questo mi meraviglia un po’, signor Marlowe. Dalle dichiarazioni dei suoi genitori, ho appreso che suo fratello da tempo non aveva più rapporti con la sua famiglia!» «È vero. Ma qualche giorno dopo il mio diploma mi aveva telefonato. Voleva... congratularsi con me e io gli chiesi se voleva unirsi a noi in Francia.»


«Perché glielo chiese?» «Non lo vedevo da tanto. Mi avrebbe fatto piacere averlo con noi.» Steve parlava con aria sicura perché almeno quella parte della storia non era una invenzione. Lui aveva davvero parlato al telefono con Alan, e gli aveva davvero chiesto se voleva raggiungerlo in Francia. Ricordava ancora bene la risposta del fratello. «No, Steve, non fare questo a te e ai tuoi amici. Non c’entro niente con voi. Io appartengo al lato oscuro del mondo, e temo che rovinerei tutto!» In qualche modo quella risposta lo aveva tranquillizzato; non era sicuro di come avrebbe reagito la sferzante Gina ad Alan e alle sue ideologie. «Ma Alan, scrivi comunque indirizzo e numero di telefono, nel caso cambiassi idea!» Mentre parlava, il pubblico ministero lo fissava con occhi penetranti attraverso le spesse lenti degli occhiali. «Cosa intendeva suo fratello con ‘appartengo al lato oscuro del mondo’?» «Credo che volesse dire che il mondo non è come sembra, che per lui ha un lato oscuro. Come se non fosse capace di condividere... l’allegria di noi ragazzi. Non ricordo di averlo mai sentito ridere spensieratamente. Secondo lui non siamo al mondo per divertirci ma per impegnarci con tutte le forze affinché sia un posto migliore e più giusto.» «E per farlo pensa siano adatte le bombe?» L’avvocato di Alan balzò in piedi. «Obiezione! Queste sono solo supposizioni del signor pubblico ministero prive di ogni riscontro.» «Respinta» rispose il giudice di rimando senza aggiungere altro. L’avvocato tornò a sedersi, e Marsch tranquillo continuò. «Dunque?» «Alan» rispose Steve con estrema convinzione, «ha sempre avversato qualunque tipo di violenza.» Marsch lo guardò con aria beffarda. «Ma che bello! Siamo tutti commossi. Ma adesso tutto questo è irrilevante. Secondo la sua dichiarazione, Alan Marlowe avrebbe cambiato idea all’improvviso e – malgrado il lato oscuro del mondo – si è presentato a St Brevin. Alle undici della mattina. Vada avanti, su, signor Marlowe.» «Dato che io e David avevamo già deciso di fare un giro in spiaggia, gli abbiamo chiesto se voleva venire con noi. Ha accettato e così siamo usciti con la mia macchina.» «C’erano molte persone in spiaggia?» «Avevamo scoperto una piccola cala dove ce ne stavamo sempre in pace. Quel giorno c’eravamo solo noi.» «Che coincidenza fortunata! Nessun testimone! Quanto tempo siete rimasti lì?» «Ce ne siamo andati verso l’una perché faceva troppo caldo, ma non volevamo tornare a casa. Abbiamo ripreso la macchina e abbiamo fatto un giro lungo la costa. Avevamo anche portato da mangiare dei panini e tre bottiglie di birra. Ci siamo fermati per strada, abbiamo fatto una sorta di pic-nic, preso un po’ di sole, dormito, e fatto quattro chiacchiere. È stato un bel pomeriggio tranquillo; non è successo nulla di


particolare.» «Sì. La sua dichiarazione suona come un tema di scuola media: ‘Il giorno più bello delle mie vacanze’. Tuttavia, caro signor Marlowe, durante quel bel pomeriggio tranquillo in cui non successe nulla di particolare qualcuno ha messo una bomba nel bagno delle signore del Black Friars. Una bomba che poi è esplosa la sera del 5 luglio ed è costata la vita a cinque persone, tra cui una bambina di otto anni. Se lo immagina il corpo di una bambina di otto anni dilaniato da una bomba?» La signora O’Brian, la madre della piccola Liz, si alzò e lasciò l’aula. Steve rispose con un sussurro: «No, non riesco a immaginarlo. Deve essere orribile». «Crede che sia giusto punire il responsabile?» «Sì.» «Bene. Allora siamo d’accordo. Dunque, signor Marlowe, dopo aver preso sole a sufficienza e goduto della solitaria costa bretone, siete tornati a casa?» «Sì. Erano circa le otto. Natalie e Gina non erano ancora rientrate.» «Un giro di negozi piuttosto prolungato, non trova?» «Sono andate anche al cinema e poi a cena.» «A ogni modo, quando alla fine loro sono rientrate, di Alan Marlowe non c’era già più traccia. Un po’ strano, no? Perché non è rimasto a dormire da voi? Aveva già trovato un’altra sistemazione?» Steve deglutì. Quello era il punto più critico della storia. Avevano riflettuto a lungo per trovare una spiegazione plausibile, ma per quanto la girassero e la rigirassero qualunque soluzione rendeva poco verosimile tutta la versione. «Alan se n’è andato per lo stesso motivo per il quale inizialmente aveva rifiutato l’invito a venire a St Brevin» disse Steve. «A lui non piace stare con persone allegre che si divertono, e dato che conosceva Natalie e Gina attraverso le cose che gli avevo raccontato io di loro, immaginava che una volta tornate sarebbero cominciate le ciance. Ha deciso di andarsene di colpo. Come fa sempre. Lui va e viene e non ama la compagnia degli altri.» Già mentre parlava, Steve si rese conto che Marsch non gli credeva. Lo ascoltava con pazienza certo, ma con un atteggiamento beffardo al contempo, come se volesse dire: Che spettacolo vederti in affanno mentre ti arrampichi sugli specchi nella speranza di uscire da questo intrico, ma a me non la si fa, sono una vecchia volpe io ed è inutile cercare di imbrogliarmi! Eppure, pensò Steve, quello che ho detto è vero! Se Alan fosse stato a St Brevin, si sarebbe comportato proprio così. Sarebbe scomparso prima del ritorno di Gina e Natalie. Potrei giurarci! «Secondo la sua dichiarazione, suo fratello passò la notte in una rimessa per barche nella periferia di St Brevin» disse Marsch con occhi spalancati. «Se anche la notte fosse stata molto calda, mi sembra un po’ troppo spartana questa sistemazione in confronto a un bel letto comodo!» «In queste rimesse per barche di solito ci sono sedie a sdraio e


coperte...» «Credo» disse il pubblico ministero, «che anche lei trovi questa storia improbabile. Sebbene si stia sforzando da un quarto d’ora di far apparire suo fratello come un tipo strano che se ne sta sempre per conto suo a fare cose assurde, ancora non riesco a spiegarmi per quale ragione è tornato in Inghilterra due giorni dopo. Vediamo se ho capito bene, e ovviamente mi corregga se sbaglio: il 4 luglio, presto al mattino, Alan Marlowe arriva a Calais con il traghetto. Non ha un biglietto, perché sostiene di averlo buttato appena sceso. Prende il treno per Nantes, e poi arriva a St Brevin in autostop e qui fa visita a lei e al signor Bellino. Trascorrete la giornata tutti e tre insieme, fate una gita nelle vicinanze – sempre però lontano da altre persone, si capisce – e tornate a casa la sera. Qui, improvvisamente Alan Marlowe decide di passare la notte da solo altrove. Di sua iniziativa si reca in una rimessa per barche, dorme lì, rimane il giorno dopo, il 5 luglio, a St Brevin, da solo, nota bene, senza rivedere neanche per un attimo suo fratello. Fa un bagno, prende il sole, compra una baguette e un po’ di formaggio in un negozio – naturalmente il titolare del negozio non si ricorda di lui, ma come potrebbe con tutti i clienti che vanno lì a comprare tutti i giorni durante le vacanze. Se ne torna nella sua rimessa per barche, dorme lì ancora una notte, e il giorno dopo, il 6 luglio, torna a Calais molto presto e prende il traghetto per Dover. Una volta arrivato lì, viene subito arrestato e presenta un alibi per quel fatidico 4 luglio. Cioè suo fratello Steve Marlowe e il suo amico David Bellino. E così crede di poterla fare franca. Tuttavia, io ritengo che sia la corte sia i giurati, proprio come me, siano rimasti un po’ stupiti di questa gita di due giorni a St Brevin. Anche in Inghilterra faceva abbastanza caldo da poter prendere il sole, non era necessario andare nel continente. Senza considerare che le traversate sono molto costose. Credo che neanche l’uomo più anticonformista farebbe mai una cosa così insensata!» «I comportamenti di Alan» disse Steve, «non sono mai stati considerati sensati.» Marsch si chinò in avanti con un’espressione pacata e amichevole, come se stesse parlando con un bambino testardo. «Signor Marlowe, non è che invece suo fratello è venuto in Francia il 5 luglio, il giorno dopo che la bomba era stata piazzata nel Black Friars, e che lei di comune accordo...» «Obiezione!» l’avvocato di Alan balzò di nuovo in piedi. «Il signor pubblico ministero accusa il teste di aver giurato il falso. Respingo le sue accuse!» «Accolta» disse il giudice, che sembrava abbioccarsi. «Riformuli la domanda, signor pubblico ministero.» «Mi scusi, non volevo accusare il teste di alcunché. Volevo solo ricordargli che ha prestato giuramento ed è tenuto a dichiarare la verità...» «Al contrario» lo interruppe l’avvocato di Alan, «sta di nuovo


accusando il teste di non dire la verità in un modo molto sottile. Il significato del giuramento è già stato spiegato al signor Marlowe all’inizio dell’udienza, e non c’è nulla che faccia pensare che non abbia capito il concetto. Il signor pubblico ministero è pregato di finirla con questi tentativi di intimidazione.» «Ritiro la mia ultima osservazione» disse Marsch condiscendente, dal momento che aveva messo la pulce nell’orecchio non c’era più bisogno di insistere. Alan ha un buon avvocato, pensò Steve. Glielo aveva trovato il padre. Ma comunque una cosa era certa: senza un solido alibi Alan non avrebbe avuto speranze. Tutto sembrava incriminarlo. Steve si chiese se aveva convinto almeno i giurati, e arrischiò una breve occhiata nella loro direzione. Avevano tutti uno sguardo impenetrabile. Era impossibile capire che idea si erano fatti. Doveva affrontare ancora soltanto l’interrogatorio dell’avvocato di Alan, che comunque considerava come giocare in casa dal momento che avevano già concordato tutto. Ma prima c’era la carta decisiva da giocare: David Bellino. Non il fratello dell’imputato, ma un estraneo. E uno che faceva colpo. Steve lo guardò: negli occhi aveva una espressione tranquilla e sicura, e nel complesso il suo magro viso appariva concentrato, e per nulla teso. Oh, bisogna solo attendere fino alla deposizione di David! E poi Alan sarà salvo. Forza David! In modo quasi impercettibile l’espressione di David cambiò quando pronunciò la formula del giuramento. Sembrava sotto stress e pallido. Probabilmente non se ne era accorto nessuno in aula, ma Steve, che non gli staccava gli occhi di dosso, lo percepì subito e si innervosì. Forse è solo una mia impressione, si disse nel tentativo di calmarsi, David non crollerà, non in una situazione così importante. Il pubblico ministero Marsch si avvicinò a David con aria gioviale, gentile, come se tendesse una mano a quel testimone, come se tra i due ci fosse un ponte immaginario. Il suo sorriso diceva: «Può fidarsi di me». «Dunque, signor Bellino ci racconti di quel memorabile 4 luglio a St Brevin. Di quel bel giorno d’estate quando si presenta alla porta un visitatore inatteso!» La fronte di David era imperlata di sudore. «Io... dunque...» cominciò a dire. Marsch si chinò verso di lui. «Con tranquillità, signor Bellino. Non c’è nessuna fretta. Si prenda tutto il tempo che le occorre, si ricordi che è sotto giuramento e un passo falso potrebbe essere fatale. Ma questo lo sa.» «Sì» disse David in un roco sussurro. Per la prima volta i giurati sembrarono agitarsi. Dopo la deposizione di Steve si erano rilassati e, con aria annoiata si erano stiracchiati un po’ sulle loro sedie perché pensavano di dover ascoltare di nuovo la stessa storia, ma ora sembrava


che non sarebbe stato così. Quel testimone vacillava. Aveva paura? Perché? Persino il giudice drizzò le spalle. Per la prima volta, prestava attenzione al processo. «Ci racconti» disse Marsch. David era ancora più pallido. Tutti potevano vedere che gli tremavano le mani. «Il 4 luglio... Natalie e Gina sono uscite presto. Voglio dire sono andate a Nantes.» «Lei e il signor Marlowe siete rimasti a casa?» «Sì. Era una giornata molto calda, e secondo noi le ragazze erano due pazze a volersene andare in giro nel traffico e nel caos di una grande città – ma d’altra parte ognuno può fare quello che vuole.» «Naturalmente. Invece lei e il signor Marlowe avete saggiamente deciso di rimanere a casa. Per grande fortuna del signor Alan Marlowe. Perché altrimenti non avrebbe un alibi.» David non disse nulla. Nell’aula calò il silenzio più totale. Steve aveva la sensazione che si sentisse il suo respiro perché era in preda al solito attacco di asma che gli veniva spesso quando era nervoso. Cosa aveva David? Perché non parlava? Avevano provato e riprovato tutta la storia centinaia di volte. Non avrebbe dovuto avere nessuna difficoltà. Guardò Alan, le mani serrate l’una dentro l’altra, e poi guardò l’avvocato immerso nelle sue carte che sembrava voler dire: «Obiezione», e poi ritornò con lo sguardo su David che stava per crollare. In quell’esatto momento Steve si rese conto che era stato un errore affidarsi a David come complice. Lo capì all’improvviso, e una voce beffarda gli urlò dietro le sue stesse parole riguardo David: «Non si lascia avvicinare da nessuno. Chissà cosa gli passa per la testa?» Che stupido, che ingenuo. Quando Alan gli aveva chiesto di David, avrebbe dovuto dire: «Ama solo se stesso. Per niente e nessuno al mondo correrebbe un qualunque rischio». Come avevano potuto essere così ciechi? Perché ci aveva messo così tanto a capirlo? Perché doveva sempre prima sbatterci il naso? E fu in quel momento che capì anche che senza un miracolo, il suo futuro sarebbe andato in pezzi. «Signor Bellino, su, voleva raccontarci del 4 luglio» disse Marsch con delicatezza. David era livido in viso, le labbra erano quasi grigie. Si sforzò di parlare. «Il 4 luglio eravamo... io e Steve eravamo...» Si interruppe. Quando si alzò non guardò Steve. «Signor pubblico ministero, vorrei ritrattare la dichiarazione che ho reso alla polizia.» Dall’aula si levò un fitto mormorio. L’avvocato di Alan si alzò in piedi. «Chiedo alla corte di sospendere la seduta.» «La seduta riprenderà tra un’ora» disse il giudice con aria stanca. Odiava le complicazioni. Quella sera Gina chiamò Natalie, che era tornata a casa mentre lei era rimasta a Londra per poter seguire il processo. Aveva prima chiesto a


Mary se poteva fermarsi da lei, ma Mary per paura le aveva risposto di no: «Lo sai che se fosse solo per me saresti sempre la benvenuta. Mi farebbe piacere rivederti. Ma con Peter non è così facile...» «Non voglio metterti in difficoltà, Mary, ma credi sia giusto cedere sempre e fare sempre quello che vuole lui?» «Devo vivere con lui.» «Okay. Era solo una domanda.» Si era sistemata in un piccolo albergo vicino al museo Madame Tussauds. La proprietaria aveva una gallina come animale domestico che beccava sempre tra i piedi degli ospiti, e per colazione c’era solo tè e niente caffè, ma Gina aveva prosciugato il suo conto con le vacanze a St Brevin e doveva accontentarsi. Nella camera non c’era neanche il telefono, così aveva dovuto chiamare Natalie dal telefono in fondo al corridoio, e come sempre aspettò un bel po’ prima che la cameriera trovasse Natalie nell’enorme casa di campagna di suo padre. Dopo aver sentito cadere giù le monete, Gina attese nello stretto corridoio poco illuminato, immersa nella puzza di muffa sprigionata dalle polverose tende di velluto bordò appese alle finestre. Con lo sguardo rivolto alla strada, palcoscenico del frenetico traffico londinese della sera, e davanti agli occhi il piccolo cuore che aveva disegnato sul sudicio vetro della finestra, si chiese se non fosse meglio lasciare l’Inghilterra e andare in America. In lontananza sentì un leggero scricchiolio delle assi del pavimento. Forse era la proprietaria con l’orecchio teso. Alla fine Natalie prese la cornetta. «Gina? Scusami, ero fuori. Ci sono novità? Sei stata al processo?» «Non mi hanno fatto entrare. Ma poi ho parlato con i genitori di Steve. Non immagini cosa è successo: David ha ritrattato!» «Cosa?» Natalie urlò talmente forte che Gina dovette allontanare la cornetta dall’orecchio. «Aveva appena terminato il giuramento e il pubblico ministero gli aveva posto la prima domanda quando di punto in bianco si è alzato e ha ritrattato la dichiarazione che aveva reso alla polizia. Ha dichiarato che quel 4 luglio è stato tutto il giorno solo con Steve.» Seguì una lunga pausa. Poi Natalie chiese con calma: «E tu a chi credi?» «A entrambi. Perché subito dopo Steve ha perso i nervi e ha aggiunto di aver giurato il falso.» «No, non ci credo!» «Già. E in più adesso si trova anche nei guai. Per falsa testimonianza è previsto il carcere.» «Santo cielo! Quindi il giorno in cui noi siamo andate a Nantes, davvero Alan Marlowe non era a St Brevin?» «In ogni caso non con David e Steve. Steve lo ha incontrato solo il giorno dopo a Nantes.» «Ah, ecco! Ecco perché sparì all’improvviso quella sera, ti ricordi? Non capisco perché non ci ha detto come stavano le cose in realtà, noi non gli


avremmo girato le spalle.» «Probabilmente ha pensato che alla polizia le nostre dichiarazioni sarebbero sembrate più convincenti se non avessimo saputo nulla della faccenda» disse Gina cercando altre monete nel suo borsellino. Susi, la gallina, trotterellò verso di lei, e prese a beccarle energicamente i piedi. «Maledetta gallina!» imprecò Gina. «Gallina?» chiese Natalie, piccata. «Qui c’è una gallina che non fa altro che beccare i piedi di tutti quanti» spiegò Gina, «e la proprietaria sta in cima alle scale a origliare quel che dico. Sono finita in un albergaccio schifoso, dovresti vederlo!» Dal pianerottolo giunse uno sbuffo di disappunto. Gina sorrise. Adesso almeno la vecchia sapeva come la pensava. «È terribile» disse Natalie. «Come ha potuto farlo David?» «David è l’uomo più egocentrico che abbia mai conosciuto. Non fa niente per nessuno. Tanto per cominciare avrebbe dovuto impedire a Steve di giurare il falso – ma forse voleva davvero aiutarli, e solo quando ha pronunciato la formula ha capito quali rischi poteva correre – e Bellino non vuole correre rischi, o comunque non per gli altri e soprattutto se lui non ci ‘guadagna’ niente.» «David è un maiale» disse Natalie nel suo modo schietto e diretto che qualche volta allontanava le persone. «Quello che ha fatto è inconcepibile. Ha messo Steve in guai molti seri.» Le due ragazze parlarono ancora un po’, con aria sconvolta e preoccupata, poi Natalie disse: «Ho avuto un colpo di fortuna. Dal primo settembre lavorerò in un giornale: Limelight. È il peggio della stampa scandalistica ma si comincia sempre dal basso. La redazione è a King’s Lynn. Andrò a vivere da sola». «Anch’io voglio farlo» rispose Gina. «Stavo appunto pensando di andare in America magari.» «Fallo» le disse Natalie di rimando, «è il posto giusto per te. E quanto a David qualcuno dovrebbe consigliargli di sparire nell’isola più sperduta ai confini del mondo, perché qui c’è già un bel po’ di gente pronta a rompergli l’osso del collo.» Era caduta l’ultima moneta e Gina sentì bip-bip-bip nella cornetta. Riattaccò. Guardò pensierosa la gallina Susy, che però aveva il becco altrove, e le venne in mente che David era già responsabile del destino di due di loro: di Steve, che probabilmente sarebbe andato in carcere, e in un certo senso anche di Mary, che non sarebbe finita nelle grinfie di quell’uomo se David non l’avesse lasciata sola quella notte. Venderebbe persino sua madre per salvarsi la pelle, pensò, e poi mentre saliva la scala scricchiolante per andare in camera, aggiunse: prima o poi qualcuno lo ammazza se lo fa ancora.

4


In carcere, Steve sognava casa. Erano piccole scene banali quelle che vedeva davanti a sé. Immagini di un idillio passato. Pensò all’estate alle isole di Scilly, alla casetta che suo padre aveva comprato lì; una casa bianca con la porta blu e le rose rosse rampicanti alle finestre. La colazione in terrazza, e il profumo del caffè appena fatto che inebriava Steve mentre sentiva suo padre fischiettare radendosi, e vedeva la sua bella mamma che se ne andava in giro per il giardino avvolta nella vestaglia di seta con i bordi in pizzo. Dal mare soffiava una brezza salata. Pensava a Londra, al grande e sontuoso appartamento con le alte finestre. Quando ritornava da scuola ed entrava in casa, il caldo abbraccio di Grace e il suo profumo di olio di lavanda gli facevano capire quanto la sua vita fosse governata dalla pace e dalla tranquillità. Quella sensazione lo avvolgeva come i morbidi pullover di cachemire che indossava, o come la delicata armonia che scandiva le sue giornate. Mai un momento di agitazione, mai un dubbio sul fatto che la sua vita potesse procedere sempre con quella serenità – fino alla sera in cui Alan gli telefonò da Nantes dando il via a quella serie di eventi culminati in un’aula di tribunale di Londra, e con David Bellino che d’un tratto, bianco come un cadavere, si era alzato e aveva ritrattato davanti a Dio e al mondo intero. E allora le isole Scilly venivano inghiottite dal mare che si portava via anche la casetta, le rose, la brezza salata, lasciandolo davanti alla dura realtà: le pareti della cella. A parte la vergogna, l’orrore e l’incubo, Steve odiava ogni minima cosa della quotidianità dietro le sbarre. Tutto lo ripugnava. Le stoviglie ordinarie, certamente lavate, ma di cui si erano servite centinaia di persone prima di lui, lo disgustavano talmente che nella prima settimana non era quasi riuscito a mangiare. Era abituato a dormire tra le lenzuola di seta e non riusciva a dormire con quelle ruvide coperte del carcere. La divisa graffiava; il sapone da bucato in dotazione per lavarsi gli irritava del pelle. Nelle docce dove non si stava mai da soli, lo assaliva sempre il panico perché non si era mai denudato davanti a nessuno e non aveva mai voluto vedere altri uomini nudi. Ma la cosa che lo inorridiva di più era dover andare in bagno davanti ai suoi compagni di cella. Oltre a lui, nella cella c’erano altri tre uomini, tre tipi massicci e rozzi, che raccontavano per tutto il tempo barzellette sporche e si vantavano dei loro crimini. Miles aveva tentato di rapinare una banca, ma gli era andata male ed era stato arrestato. Raccontava sempre del «colpaccio» che «farò quando sarò fuori di qui!» Voleva rubare almeno un milione e scappare ad Acapulco. «Se hai i soldi, tutte le più belle donne ti cadono ai piedi» ripeteva baldanzoso, «e vi garantisco che ad Acapulco ce ne sono tante.» «Ma se non ci sei mai stato ad Acapulco, come fai a dirlo?» lo punzecchiò Georgio, a cui mancavano due incisivi e che dopo aver rotto due costole e il setto nasale a sua moglie, le aveva fracassato anche la mascella. «Mai letti i giornali? Ci sono locali fantastici, puoi ballare e scopare


tutto il giorno, finché vuoi, e ci sono le troie migliori, che hanno tette grandi quanto meloni e che sculettano in un modo che ti fa girare la testa e non sai più dove è il sopra e il dove è sotto. E poi fa caldo ad Acapulco... molto caldo. Lì splende sempre il sole... mica hanno questo tempo di merda!» Miles fece un sospiro carico di desiderio e affondò di nuovo la faccia nel suo Playboy, dove a pagina cinque, tra dieci ragazze il lettore doveva scegliere la più bella, e Miles non riusciva a decidersi tra la bionda Jennie con le labbra carnose e la rossa Jo con le tette spaziali. Il terzo era Pete, chiamato «Birdie» per motivi sconosciuti. Birdie era in carcere per tentato stupro; aveva aggredito una ragazza sola in un boschetto ma poi, inaspettatamente, erano arrivati alcuni suoi amici, che lo avevano immobilizzato e consegnato alla polizia. Birdie era il più scemo e il più forte di tutti, ma fondamentalmente non era peggio di Georgio. Era di buon carattere e i compagni di cella ne approfittavano. Avrebbe battuto Miles e Georgio senza la minima difficoltà facendone sbattere le teste l’una contro l’altra come due uova, ma lasciava che loro lo costringessero a infilare la mano con tutto il braccio dentro il cesso per raccogliere lo schifo che ostruiva il tubo di scarico. Era lui quello che doveva schiacciare gli scarafaggi che se ne andavano a spasso nel lavandino, oppure se c’erano pezzi di carne nella zuppa, a lui toccava la parte più grassa. Birdie non capiva che lo sfruttavano e basta; si credeva persino indispensabile. I suoi compagni avevano capito il trucco. «Solo il nostro Birdie ha denti talmente forti da poterli lavare persino con il manico dello spazzolino» gli aveva detto Georgio un giorno, dopo avergli confiscato il nuovo spazzolino da denti, lasciandogli il suo vecchio che non aveva quasi più setole. Birdie aveva grugnito orgoglioso. «Senza dubbio! Birdie ha denti fortissimi!» E aveva subito preso a spazzolare i denti con tanta energia da farsi sanguinare le gengive. Birdie era quello di cui Steve aveva meno paura pur considerandolo imprevedibile nella sua stupidità; erano gli altri due che temeva e a ragione. Lo avevano odiato fin dal primo momento, per la sua bellezza, la sua intelligenza, il suo modo di parlare raffinato, la sua eleganza. Steve non faceva rumori molesti quando mangiava, non leggeva giornaletti porno e non pronunciava mai una parolaccia. La sua sensibilità d’animo gli si leggeva in faccia e questo li irritava. In presenza di Steve, Miles e Georgio facevano quasi a gara a chi era più volgare, e lo tormentavano con frecciate di ogni genere. «Suo fratello mette le bombe» diceva Georgio. Si agitava sulla sedia, e come sempre quando si annoiava sparava su Steve. «Le bombe dell’IRA. Di quelle che uccidono gli inglesi. E bravo l’inglese che fa cose del genere, non trovate?» Miles distolse lo sguardo da Jennie e Jo. «Proprio uno schifoso inglese» concordò. «E naturalmente la cosa diventa ancora più schifosa quando muoiono bambine piccole» proseguì Georgio. «Un mostro. Che ne pensi Miles?»


«Feccia pura» disse Miles. «E uno che poi cerca di salvargli il culo?» chiese Georgio prontamente. «Quello è un porco colossale!» disse Miles con entusiasmo. Era una cella molto vivace. «Non lo pensi anche tu Birdie?» chiese Georgio. Birdie era seduto sul suo letto e disegnava una donna nuda su un pezzo di carta; era la sua occupazione preferita, la donna aveva sempre seni enormi in cui erano infilate lunghe frecce appuntite. «Un porco» rispose, ma lo disse per obbedienza e senza odio, con la semplicità di uno scolaretto. Georgio sorrise. «Hai sentito Steve? Per tutti noi sei un porco! Che ne pensi?» Steve se ne stava sul suo letto a leggere un libro, o meglio, non riusciva a concentrarsi già da un po’ e stava rileggendo per la quinta volta la stessa pagina, senza capire nulla. In quel momento, non pensava ad altro che al bisogno impellente di andare in bagno. Non poteva più resistere, il corpo gli doleva tutto, e aveva cominciato a sudare freddo. Usare la toilette davanti agli altri era la tortura peggiore per lui, e ogni volta che sentiva anche la minima fitta all’addome, gli veniva lo sconforto. Per subire quel tormento il meno possibile, non beveva quasi più, solo il minimo indispensabile. La mattina prendeva una tazza di tè, poi per tutta la giornata cercava di non ingerire altro, e la sera solo un paio di sorsi d’acqua. Le conseguenze erano labbra screpolate e leggeri ma costanti dolori ai reni. Ma tutto era tollerabile se significava poter ridurre al minimo il supplizio del bagno. Quando gli altri avevano cominciato a punzecchiarlo, aveva deciso di capitolare perché non sopportava più i dolori, ma poi aveva cambiato idea perché non poteva fare niente di così umiliante mentre loro parlavano male di lui. Strinse le gambe e si morse le labbra. Oddio, pensò, perché devo sentire questi dolori? «Ehi, Steve, non mi hai risposto» disse Georgio. «E noi vogliamo una risposta. Non trovi anche tu che sei un porco?» «Io non ho fatto niente» rispose Steve con voce strozzata. Georgio rise di gusto. «Lui non ha fatto niente! Che anima candida; suo fratello mette le bombe, lui gli fornisce un alibi, e però non ha fatto niente!» Alan, cosa hai combinato! pensò Steve con amarezza, ma non disse nulla. Nel mondo in cui si trovava, era un perdente. Niente e nessuno lo aveva preparato a quello che lo aspettava lì. Aveva letto qualcosa al riguardo, ma non aveva creduto fosse vero. Fino a quel momento. D’un tratto si era ritrovato in un incubo; era come se da un momento all’altro dovesse svegliarsi da un sonno profondo, avvolto dalla luce del sole che filtrava dalle veneziane e inebriato dal profumo rassicurante del caffè appena fatto. Bofonchiò qualcosa sottovoce. Miles si alzò. «Non stai bene?» «Si lamenta perché è un porco» dichiarò Georgio. «Ma pensa, sei un


porco e ti lamenti pure!» I dolori venivano a ondate e rivoli di sudore gli scendevano sulla fronte. Si rannicchiò di lato con le gambe piegate schiacciate contro il petto. Aveva gli occhi cerchiati. «Sembra non stare bene» disse Miles, «forse è malato!» «Fa solo finta» disse Georgio spavaldo. «Ehi, Steve, stai facendo finta, vero?» Mezzo stordito si tirò su. Aveva la vista annebbiata e quasi non distinse i volti degli altri quando attraversò la cella barcollando. Solo cinque passi... cinque passi per la liberazione. Avvertì l’incredulità con cui gli altri lo guardavano. All’inizio avevano pensato che avrebbe vomitato, ma poi avevano capito cosa aveva in realtà, e dopo un attimo di silenzio scoppiarono in una risata sguaiata. «Non è malato! Deve andare al cesso!» «Non è possibile! Uno stronzo come lui, non è possibile!» Si gettarono sul letto sganasciandosi dalle risate. D’un tratto Steve pensò: Qui dentro non resisto. Non per due anni. Mi ammazzo prima. Di notte Steve piangeva spesso. Nella cella c’erano due letti a castello, e lui dormiva sotto Birdie. Da lì rivolgeva sempre lo sguardo verso la finestra a quadri, e osservava il cielo nero che diventava gradualmente chiaro man mano che si faceva mattina, passando da un grigio scuro a un grigio più chiaro, per poi tingersi di un blu acceso in quei primi giorni di settembre ancora caldi dell’anno 1979. Sarebbe più facile se piovesse? Si chiedeva. No, non sarebbe più facile. Che avesse superato una notte calda in cui sembrava sentire sussurrare il buio o un’alba fredda carica di pioggia non faceva alcuna differenza: era la vita che gli passava accanto. I fiori autunnali del parco del Saint Clare dovevano già essere in piena fioritura, e per le strade di Londra doveva soffiare già un venticello più fresco; quelli però erano solo ricordi a cui non avrebbe potuto aggiungere nuove esperienze. La sua vita era segnata per sempre: l’etichetta di galeotto gli sarebbe rimasta cucita addosso per sempre e nulla sarebbe stato più come prima. Erano passate settimane, le notti si erano allungate e le giornate accorciate. Il mese di dicembre arrivò con il suo carico di freddo e nebbia. In uno di quei giorni più cupi, uno di quelli in cui sembra che il sole non voglia mai sorgere in un cielo bianco di neve, Steve ricevette la visita dei suoi genitori. Gli comunicarono che avevano deciso di lasciare l’Inghilterra e di trasferirsi in America. Steve non riusciva a crederci. «Cosa?» Grace gli stava seduta di fronte avvolta nella sua nuova pelliccia, le gambe unite e le mani serrate in grembo. Sembrava non voler toccare nulla di quello che la circondava. Era completamente fuori posto, eppure anche sotto quella odiosa fredda luce del parlatorio sembrava una bambola. «Steve, comprendici, ti prego. Entrambi i nostri figli in


carcere. Non possiamo più farci vedere in giro. Di recente non mi hanno neanche salutato in una boutique...» Grace si morse le labbra, aveva gli occhi umidi. «È così terribile essere trattati da tutti con disprezzo. Noi... dobbiamo ricominciare, lontano da qui, dove non ci conosce nessuno...» Terreo, Steve si rivolse a suo padre. «Papà...» Suo padre distolse lo sguardo. «Tua madre ha ragione. Non ci sentiamo più a casa qui.» «Ma... non potete andarvene! Non finché io dovrò stare qui dentro! Non potete lasciarmi da solo. Ho bisogno di voi!» Grace sembrava sconvolta, ma non tanto da cambiare idea. Per la prima volta, Steve capì che sua madre nascondeva una parte cinica, che non aveva niente a che fare con la sua dolce voce e i trasognati occhi blu. «Steve, devi capire. Non puoi rovinarci la vita. Ci hai già fatto tanto male...» «Cosa avrei fatto? Io volevo proteggere Alan! Alan, mio fratello, vostro figlio! È per vostro figlio che l’ho fatto!» «Alan» disse Grace con voce strozzata, «non è più mio figlio.» «Mamma... non puoi dire sul serio!» Grace si alzò in tutta la sua piccola e delicata figura. «Non posso fare niente per Alan. E neanche per te. Ti prego, Steve...» Si interruppe, ma poi si riprese. «Non rendere le cose più difficili. Tu e Alan non potete immaginare quello che ci avete fatto...» «Mamma...» Anche Steve si alzò. Era pallido e dimagrito, con le guance scavate, le labbra spaccate. «Mamma, neanch’io sono più tuo figlio?» «Steve!» esclamò sfinito il padre. Grace girò intorno al tavolo, che la separava dal figlio, gli tese le braccia e lo abbracciò. «Fermi!» Giunse il rimprovero dell’agente di sorveglianza. «Questo non è permesso.» Per l’ultima volta Steve fu avvolto da quelle morbide braccia forti, per l’ultima volta fu avvolto dal dolce profumo dell’olio di lavanda, per l’ultima volta fu avvolto dalla sensazione di protezione che lo aveva accompagnato e sostenuto per tutta la vita. Per l’ultima volta si aggrappò a sua madre; ma poi subito la terra prese a tremargli sotto i piedi e quella sicurezza svanì. Aveva perso sua madre. Si era staccata da lui, perché lui non apparteneva più al suo bel mondo da fiaba. Lui soffriva e si sentiva ferito, ma lo stesso valeva per Grace; tuttavia, sicuramente tra i due quello che stava peggio era Steve, perché lei aveva deciso di salvarsi. «Mamma» disse ancora una volta, e lei gli fece uno dei suoi famosi dolci sorrisi che diceva tutto e niente. Lui la guardò mentre usciva dalla stanza, stretta nella sua pelliccia, fragile, bisognosa di protezione e troppo sensibile per quel mondo. Un bel guscio con un cuore duro?


«Arrivederci figliolo» disse il padre porgendogli la mano. «Fatti valere!» «Papà, che succederà quando sarà tutto finito? Quando sarò di nuovo libero?» «Vedremo... Deve passare ancora molto tempo. Steve, siamo responsabili delle cose che facciamo... comportano delle conseguenze, vedremo cosa succederà...» Uscì anche lui dalla stanza, con le spalle un po’ curve come se la vita, così gli sembrò, fosse stata ingiusta con lui. Steve si fece riaccompagnare in cella; era talmente sconvolto che persino Georgio, quando se ne accorse chiuse il becco e per quel giorno lasciò in pace la sua preda. Si fece sera, e nella cella calò il buio. Steve giaceva nel letto con gli occhi sbarrati, e ascoltava il rumore del respiro tranquillo degli altri che dormivano. Nelle ultime settimane, l’idea di poterla fare finita se non fosse riuscito a sopportare oltre lo aveva aiutato ad andare avanti. Il suo pensiero ricorrente era: bene, oggi ce l’ho fatta. Forse anche domani e dopodomani. Ma quando non ce la faccio più, la faccio finita. Possedeva una lametta da barba! Quella lametta era la cosa più preziosa, più importante che avesse mai avuto. Gliel’aveva regalata Chris. Chris era stato nella cella accanto, e un amico l’aveva fatta entrare in carcere di contrabbando, ma lui era stato troppo codardo per togliersi la vita. Nonostante il suo periodo di detenzione stesse per terminare, aveva una paura tremenda di quello che sarebbe successo dopo perché era stato condannato per atti sessuali con una minorenne, e sapeva che tutti, dai colleghi del suo vecchio posto di lavoro al suo vicinato, ne erano al corrente. Sua moglie aveva chiesto il divorzio ed era sicuro che i bambini sarebbero stati affidati a lei. Chris voleva morire, ma fino al giorno del suo rilascio non aveva mai avuto il coraggio di farlo davvero, e alla fine, rassegnato, aveva dato di nascosto la lametta a Steve. «Per te. Quando non ce la farai più.» Steve la teneva sotto il materasso. Con uno scatto repentino scivolò fuori dal letto, si inginocchiò e tastò le molle. La trovò e la estrasse con cautela. Le sue mani tremavano come quelle dei malati gravi; scottava come se avesse la febbre. Gli venne subito in mente l’immagine della madre, e si sentì ribollire dentro. Esitò qualche secondo – avrebbe fatto male, e lui per tutta la vita aveva avuto paura del dolore, ma quella volta gli sembrò l’unica soluzione possibile al suo profondo dispiacere e alle sue pene dell’anima. Con movimenti rapidi, decisi, si tagliò le vene del polso; era la prima volta che faceva una cosa d’istinto e senza aver chiesto prima l’opinione di almeno una dozzina di persone. Dopo ebbe solo il vago ricordo di se stesso che gemeva in una pozza di sangue, meravigliato di non sentire dolore, scosso dalla febbre che gli faceva battere i denti. Il sangue era ovunque: ne sentiva il gusto sulle labbra, lo avvertiva tra le dita; i capelli si erano impiastricciati sulla fronte per via del sudore, e aveva una sensazione di bagnato sotto la


pancia, forse se l’era fatta addosso. I forti gemiti scaturivano più da riflessi condizionati che da vero dolore. Era sollevato che stesse morendo dolcemente. Poi all’improvviso fu accesa la luce, e come dall’oltretomba giunse la voce di Georgio: «Merda! Questo stronzo si è tagliato le vene!» In un attimo fu un martellare unico alle porte, urla forsennate squarciarono la notte, e squillò un allarme. Si radunò una folla di uomini intorno a Steve; lo trascinarono senza che lui potesse opporre alcuna resistenza perché era troppo debole. Più tardi, si ritrovò in una semplice stanza con le pareti bianche, luminosa e confortevole, ma sempre con le grate alle finestre. Giaceva in un letto alto, con le braccia fuori dalla coperta. Erano fasciate dalla punta delle dita fino ai gomiti con una spessa garza bianca. Avvertiva un dolore pungente alle articolazioni del polso, e dentro vi sentiva rimbombare il battito del cuore. «Si è svegliato, finalmente» disse la voce di una donna. Steve alzò gli occhi e vide una giovane infermiera dai capelli scuri, il cui sguardo preoccupato stava accennando un sorriso. «Come si sente?» «Ho sete. E tanto dolore.» «Ecco, beva un paio di sorsi, su.» Gli porse un bicchiere. «Per i dolori, non posso fare niente purtroppo. Ma perché lo ha fatto?» «Volevo morire. Voglio morire.» «Cosa è successo?» «Non voglio parlarne.» Fissò la giovane donna che indietreggiava verso la parete. Non voglio dirti che persino mia madre mi ha abbandonato, pensò con ostilità. «Non va d’accordo con i suoi compagni di cella? Vuole essere trasferito?» Steve annuì distrattamente. «Ascolti» disse l’infermiera, «non voglio farle un sermone banale, ma deve pensare che è ancora giovane e che una volta uscito di qui, avrà ancora tutta la vita davanti. Non vale la pena buttarla via. La aspettano ancora tante belle cose.» «Non è vero; per me non ci sarà più niente di bello.» «Non parli così.» «Il carcere sarà la mia ombra. Alcuni incubi vivono per sempre dentro di te.» «Man mano sbiadiscono però.» Che cosa ne sai tu, pensò Steve sfinito. Cominciò a piangere. Erano lacrime di terrore, paura, disperazione e poi pensò a David, e alla fine quelle lacrime si impregnarono di odio.


Natalie

1 Quando Natalie era già una apprezzata giornalista conosciuta in tutta Europa e anche negli Stati Uniti, il caporedattore di una importante rivista americana le chiese di scrivere un pezzo su se stessa. «Mi ha capito» le disse, «qualcosa del tipo: come mi vedo.» Natalie sapeva che lui sperava facesse rivelazioni piccanti; era di dominio pubblico che lei era lesbica, e le confessioni di una lesbica solleticano sempre fantasie proibite. Si sedette alla scrivania e cominciò a scrivere: «Sono Natalie Quint. Sono nata nel 1960 nel Somerset, in Inghilterra. Sono cresciuta nella tenuta di campagna che appartiene alla mia famiglia da generazioni: una di quelle case padronali del periodo elisabettiano che i turisti ammirano strabuzzando gli occhi ma che nella realtà sono tutt’altro che pratiche, perché esageratamente grandi, piene di spifferi e difficili da riscaldare. Io amavo il paesaggio che la circondava, i cavalli e i cani che erano l’orgoglio di mio padre. Mia madre non poteva vantare una particolare bellezza né una spiccata intelligenza e cercava di compensare tali mancanze con una costante cura del suo aspetto e uno sfoggio sfacciato della sua ricchezza. Non credo ci sia un uomo sulla faccia della terra che l’abbia vista anche solo una volta non perfettamente truccata, forse neanche mio padre, che con grande rammarico di mia madre non le ha mai fatto un complimento e ha sempre guardato le galline della fattoria con più intensità di quanto avesse mai guardato sua moglie. Mia madre dedicava tutto il suo tempo e le sue energie al difficile compito di stare al passo con la moda, eclissando con i suoi gioielli lo splendore delle altre donne; sfortunatamente però, la mancanza di buongusto la rendeva spesso ridicola, e per lei è rimasto sempre un mistero perché le persone ridessero di lei invece che caderle ai piedi. Per qualche ragione avrebbe trovato molto più chic avere un figlio anziché una figlia, e non mi perdonerà mai il fatto che io sia nata femmina. Non ero una bambina graziosa, dunque non c’era nulla di cui vantarsi. A dodici anni ero già molto alta, avevo una carnagione chiara e cosce un po’ troppo forti. E come se non bastasse amavo leggere libri, risolvere complicati esercizi di matematica e discutere di politica. I miei genitori mi mandarono in un collegio esclusivo, e senza difficoltà riuscii


a dar loro la gioia di buoni risultati. Ogni estate li seguivo senza fare storie ad Ascot, ma solo perché mi divertivano i modi affettati con cui mia madre esibiva i suoi gioielli o il suo nuovo cappello e la sua risatina isterica quando inaspettatamente la duchessa di Kent o la principessa Margherita le rivolgevano la parola. Passati i tremendi anni dell’adolescenza, diventai una bella ragazza, e come per miracolo mi ritrovai due gambe snelle, e, sì, forse allora sarei potuta anche diventare la figlia dei sogni... ma poi ho cominciato a fare l’amore con le donne, sono diventata una giornalista a caccia di riconoscimenti professionali, e poi c’è stata la tragedia di Crantock, e da quella notte la mia psiche è ridotta a un cumulo di macerie e il maledetto valium fa il resto...» A quel punto Natalie si interruppe, e stracciò quel che aveva scritto pensando che a nessuno poteva interessare. Decise di scrivere un secondo pezzo ponderato, e l’unica cosa che mantenne del primo fu l’inizio: «Sono Natalie Quint». Si presentava sempre così, non diceva mai solo il cognome, oppure: «Mi chiamo Natalie Quint». Lei diceva: «Sono Natalie Quint», e chi le stava di fronte aveva la sensazione di conoscerla già. Con il risultato che davvero la conoscevano. Di lei si diceva che fosse una donna bella e intelligente in egual misura, ma anche difficile e lunatica. Prendeva troppo valium.

2 Da ragazza, non le erano mai interessati i ragazzi, ma non per quello aveva pensato di essere lesbica. Era un mondo a cui lei non apparteneva. Naturalmente aveva sentito e letto qualcosa al riguardo senza però mai rapportare niente a se stessa. Né aveva mai fatto caso ad avvisaglie nel suo comportamento. Una volta al Saint Clare, quando aveva diciassette anni, passò una notte intera nel letto con Gina; avevano parlato di tutte le cose che le preoccupavano in una atmosfera intima e di fiducia che avevano sperimentato solo rare volte. A un certo punto dopo la mezzanotte, Natalie aveva avuto il desiderio di tenere Gina per mano, ma non lo aveva fatto, e dopo si era detta che era stata solo una conseguenza di quella situazione. Dopo gli esami finali, lei e i suoi amici erano partiti per la Francia in due stipatissime macchine che sbandavano pericolosamente. Gli studi li avevano esauriti, la paura degli esami li aveva stressati, e per tutto il viaggio non fecero altro che immaginare come doveva essere magnifico stare in spiaggia, fare il bagno; sognavano il sole e il cielo blu, ma quando alla fine arrivarono a St Brevin, all’una, stanchi e affamati, cominciò a piovere; la costa fu ingoiata dalla nebbia, e di sera, poiché l’umidità era penetrata attraverso le pareti della casetta rendendo i letti umidi e freddi, si innescava una competizione vivace su chi doveva


accaparrarsi l’unica borsa dell’acqua calda. Tutta la prima settimana la passarono così, a litigare su chi aveva la colpa di aver scelto St Brevin. David e Steve passavano il tempo in giro con la macchina a caccia di belle ragazze, ma senza risultati, come si poteva dedurre dagli sguardi frustrati con cui tornavano a casa la sera. Natalie si era rintanata in salotto e non si staccava dal camino; aveva deciso di scrivere un breve racconto per una rivista e vi lavorava con molta energia. Era sommersa da biscotti al cioccolato che sgranocchiava distrattamente; mangiava quanto una famiglia di cinque persone. Come sempre Gina era irrequieta. Rimaneva a letto fino a mezzogiorno, anche se non dormiva; prendeva una tazza di caffè dopo l’altra dalla cucina, strascicava i piedi camminando e fissava malinconicamente la nebbia fuori dalla finestra, la foce della Loira nell’Atlantico e i vaghi contorni dei ponti di St Nazaire. Quando alla fine decideva di alzarsi dal letto, doveva vedersela con un altro problema: il freddo. Dal momento che non sopportava sulla pelle né la lana né qualunque altro capo di abbigliamento pesante, aveva portato con sé solo un paio di vestitini leggeri di seta e sandali aperti. Tremava per il freddo e girava per casa con una coperta sulle spalle, che la faceva sembrare una indiana col poncio. L’umidità le faceva arricciare tantissimo i capelli che le arrivavano fino alla vita e talvolta pareva avesse rinunciato a pettinarli. «Morirò di freddo» mormorava Gina, e Natalie, immersa nei suoi pensieri, rispondeva: «Vorrei sapere perché è così dannatamente difficile una storia decente!», e si passava la mano tra i corti capelli biondi scompigliandoli. Si rannicchiava più vicino al fuoco, si strusciava contro le piastrelle verdi del camino come un gatto nell’angolo di un divano e affondava il viso nel suo blocchetto pieno di scarabocchi. Quando il tempo cambiò, tirarono tutti un sospiro di sollievo. Un forte vento che proveniva dall’Atlantico spazzò via le nuvole; il cielo si tinse di azzurro e accolse un sole splendente, con un caldo sopportabile solo facendo il bagno o stando all’ombra. Natalie finì il suo racconto sotto il gelsomino, e Gina, lasciato definitivamente il letto, infilò una sottilissima canottiera di seta con le bretelline strette e un paio di pantaloncini di cotone: era pronta per nuove avventure. Andò in terrazza, dove Natalie fissava con sguardo sfinito e frustrato la lettera che aveva appena finito di scrivere a sua madre. «Nat, abbiamo sprecato troppo tempo. In questo triste paesino deve pur esserci da qualche parte una fermata dell’autobus, dobbiamo vedere se ne c’è uno che ci porti a Nantes. Divento matta se vedo ancora solo case per le vacanze e villeggianti ciccioni!» Ovviamente quel giorno non c’erano più autobus, e così l’indomani salirono su una carretta stravecchia, in cui furono letteralmente schiacciate da un’orda di signore del posto, che le scrutarono con aria sospettosa. Era il 4 luglio, il giorno in cui verso sera Alan Marlowe avrebbe


piazzato una bomba nel bagno delle signore del Black Friars a Plymouth. Né Gina né Natalie immaginavano che la loro decisione di trascorrere la giornata a Nantes avrebbe fornito ad Alan l’occasione di costruirsi un alibi. «Vorrei indossare i miei nuovi jeans» disse Gina d’un tratto. Passeggiavano in una galleria commerciale, cariche di buste e sacchetti pieni di cose inutili, comprate senza motivo. Gina aveva preso un nuovo paio di jeans strettissimi, in cui era riuscita a entrare solo con l’aiuto di Natalie e di due commesse del negozio. «Forse dovrebbe prendere una taglia in più» le aveva suggerito alla fine con aria provata una delle commesse mentre notava delusa che le si era spezzata un’unghia. Ma Gina era risoluta nella sua decisione. «Li prendo. Può aiutarmi a sfilarmeli?» «Ma adesso dove pensi di poterti mettere quella roba terrificante?» le chiese Natalie mentre passeggiavano. Gina si guardò intorno. «Lì, c’è una toilette.» Era la toilette più sporca che Natalie avesse mai visto. Scosse il capo disgustata e attese a distanza di sicurezza dalla porta dietro cui era scomparsa l’amica. Poteva sentire i suoi gemiti e i lamenti. «Gina? Va tutto bene?» «Oddio, Nat, no! Credo che dovrei sdraiarmi.» «Cosa?» «Devo sdraiarmi. Altrimenti non ce la faccio!» «Gina! Ma non puoi sdraiarti in questo postaccio!» «Devo. Che schifo!» I rumori da dentro la toilette giungevano distorti, e alla fine a quelli si unì di nuovo l’eco dei lamenti di Gina. «Non riesco a stendermi. È troppo piccolo qui. Devo aprire la porta!» «Così sporgeranno le gambe!» La porta si aprì, e comparve una Gina tutta contratta. Aveva i capelli arruffati, era scalza e la cerniera dei nuovi jeans era ancora tutta aperta. «Pensi che avrei dovuto prendere una taglia più grande?» «Oh, Gina!» Le sue gambe uscivano dalla porta dalle ginocchia in giù. Era completamente stesa a terra e per strizzare la pancia il più possibile tratteneva il fiato a tal punto che si vedevano le ossa delle anche a destra e sinistra. Natalie si mise a ridere. Colse di sfuggita l’aria esterrefatta e spaventata di una donna dall’aria borghese che stava puntando alla toilette, ma vedendo due gambe di donna spuntare nel corridoio, sentendo quegli strani lamenti e notando Natalie che si chinava interessata verso la fonte dei lamenti, aveva fatto immediatamente marcia indietro. «Con la sfortuna che abbiamo, quella lì andrà dritta alla polizia» mormorò Natalie. «Penserà che ti ho uccisa.» «Già» disse Gina ansimando. «Aiutami Nat, ti prego!» Mettendo da parte il disgusto per quel postaccio, Natalie appoggiò a


terra le buste con gli acquisti, e si inginocchiò accanto a Gina. Le posò la mano sul ventre; era caldo e riuscì a sentire la leggera peluria che lo ricopriva. Vide il suo petto che si alzava e abbassava velocemente per l’affanno, lasciando intravedere i capezzoli attraverso la sottile T-shirt. Gina era sbiancata e le labbra erano diventate quasi incolore per lo sforzo. Quel giorno non era truccata e il suo viso circondato dai capelli arruffati sembrava molto giovane. Natalie realizzò che non riusciva a togliere la mano dal suo ventre. «Gina» le disse in un roco sussurro, «sei bellissima.» Gina si bloccò per un attimo e guardò Natalie confusa. «Cosa?» «Sei molto bella, Gina. Non c’è da stupirsi che un uomo come Charles voglia stare per sempre con te.» In realtà non avrebbe voluto dire quelle parole bensì: ti trovo bella. Meravigliosamente bella. L’ho sempre pensato ma mai così intensamente e con questo trasporto... Si chinò in avanti e baciò Gina con dolcezza sulla bocca. «Piccola, questo posto è un vero schifo, ma tu sei bella persino qui.» Gina era troppo sfinita per capire quel che passava per la testa di Natalie. «Ultimo tentativo, Natalie. Basta, sono stufa. Pensi che ogni volta ci vorrà tutto questo tempo per infilarmeli?» Anche il giorno dopo fece molto caldo. Da dietro le colline il sole rosso era salito nel cielo azzurro sgombro di nuvole avvolgendo tutt’intorno con il suo luminoso e caldo abbraccio. Faceva talmente caldo da non riuscire a muoversi, da non poter lavorare. Fa troppo caldo persino per respirare, pensò Natalie. Era seduta sul prato in bikini all’ombra del gelsomino. Voleva scrivere una lettera a Mary, ma la penna si incollava alle dita, i pensieri erano lenti. Si allungò sulla soffice erba, tagliata da poco, che d’estate profumava di fieno e terra asciutta, e pensò alla pace di quel momento. David e Steve erano andati al mare, e Gina aveva ricevuto una telefonata di Charles ed era in salotto con la cornetta all’orecchio e l’aria afflitta di una vittima sacrificale. Natalie sorrise. Il fatto di non avere soldi, non lo tratteneva dal fare comunque lunghe conversazioni telefoniche. La tranquillità del giardino le ricordò la sua villa di campagna; anche lì aveva goduto delle lunghe giornate calde cercando posti appartati nell’erba alta vicino al mare o all’ombra degli alberi nel bosco. Ma l’incanto veniva sempre spezzato o dai cani, in giro liberi per la tenuta, che vedendola le andavano incontro scodinzolando festosi o, cosa peggiore, da sua madre, che la cercava per qualcosa di assolutamente inutile e non la smetteva di chiamarla finché lei, furiosa, non si alzava e tornava a casa. Mamma non riuscirà mai a capire che deve lasciar vivere gli altri, pensò Natalie con indolenza mentre raccoglieva una margheritina; non tollera chi la pensi diversamente da lei. Si alzò lentamente e rientrò in casa. Gina aveva finito di parlare al telefono e non era né in salotto né in cucina. Canticchiando, salì le scale per andare a prendersi una T-shirt. Ognuno dei quattro aveva una


propria camera, e Natalie sarebbe andata direttamente nella sua se, passando davanti a quella di Gina, non avesse sentito un rumore. Il letto scricchiolava leggermente. Era andata a letto? Esitò un secondo, e poi bussò ed entrò. Gina era stesa sul letto. Era completamente nuda e i suoi capelli castani ricadevano come un tappeto sui cuscini. Le mani con le unghie smaltate di rosso penzolavano a destra e a sinistra del letto. Aveva un’aria sfinita, e la fronte e il naso erano imperlati di sudore. Sembrava un giovane animale selvatico stremato per il gran caldo, che riposa per riacquistare forza. Nella piccola camera con le pareti spioventi si soffocava. Sebbene le due finestre fossero spalancate, non soffiava un alito di vento e gli alberi fuori davanti alla casa erano immobili. Dai pannelli in legno del soffitto si spandeva un odore di resina calda. La polvere sembrava tremolare al sole, e si sentiva un’ape ronzare. «Non stai bene?» chiese Natalie. Gina aprì pigramente gli occhi. «No, è tutto a posto. Sono solo un po’ stanca di questo caldo insopportabile. E di Charles. È un uomo tremendo: è così gentile e affettuoso che ti senti una vile se lo tratti male.» «Temo che non te ne libererai più» disse Natalie, ma pronunciò quelle parole piuttosto meccanicamente, quasi senza ascoltarle in realtà. Si rese conto che le sue mani avevano preso a sudare mentre osservava quella bella giovane donna che si crogiolava nuda sul letto. Quella pelle dorata! Gli occhi ambrati quasi gialli! I riflessi chiari dei capelli castani al sole. A Natalie sembrò che Gina fosse completamente immersa nell’oro. Che bel seno che aveva. Le gambe erano lunghissime e snelle. Tutto nel suo corpo era perfetto. Le mani, le braccia, il collo... Affascinata Natalie fissò la macchia scura tra le gambe, e immaginandosi come doveva essere dolce e delicato accarezzare quel punto con le dita, sentì girarle la testa. Sapeva che Gina non era ancora andata a letto con nessun uomo, e la sorprese la paura e il turbamento profondi che aveva avvertito pensando a un suo possibile amante. Chiuse la porta. Con un rapido movimento aggraziato scivolò sul letto accanto a Gina. «Ti dispiace se mi stendo un po’ con te?» le chiese. «Sono molto stanca anch’io.» «Certo che no» rispose Gina. Ma istintivamente aveva capito qualcosa. La sua voce era tesa, d’un tratto non si sentiva più stanca; la presenza tangibile di Natalie al suo fianco l’aveva svegliata. Non appena le due ragazze si sfiorarono, la loro pelle si fece umida. Notarono che non dava loro fastidio il fatto che il sudore si mischiasse, o che i loro respiri si confondessero. Per la prima volta sperimentavano il piacere delle mani che accarezzano un corpo. Le coperte e i cuscini a terra, il lenzuolo pregno di sudore. Le ragazze cominciarono a muoversi liberamente, sussurrandosi paroline dolci, chiamandosi con vezzeggiativi; risero, giocarono con le mani l’una nei capelli dell’altra. Gina si mise a pancia in giù, e Natalie le accarezzò dolcemente e lentamente la spalla nel silenzio più assoluto. Poi


ricominciarono a ridere, rotolarono l’una sull’altra, continuarono a toccarsi goffamente ma sempre con tanto desiderio. Sembravano essere una cosa sola, perfettamente concordi e in armonia, ma in realtà avevano pensieri diversi in testa. Gina pensava: Deve essere fantastico fare queste cose con un uomo! E Natalie pensava: Vorrò sempre solo donne. Fare queste cose con un uomo deve essere orribile! In quegli attimi, ciascuna a modo proprio prese una decisione. David scese le scale, adagio e pensieroso. Di sotto c’era Steve con in mano ancora un paio di cose che aveva preso dalla macchina: ingredienti per la cena a base di spaghetti. «Allora» chiese Steve «sono di sopra?» «Sì... sì, sono su.» «Se vogliono aiutarci con la cena, devono scendere. Vado...» Steve voleva salire, ma David lo trattenne. «Lascia. Adesso arrivano.» Non era necessario che anche Steve vedesse quel che aveva visto lui. Le ragazze non avevano sentito bussare e non lo avevano visto aprire la porta. Turbato e spaventato, David era indietreggiato.

3 La signora Quint era nella hall rivestita con i pannelli in legno di quercia di Graythorne e, un dito dopo l’altro, molto lentamente, si infilava i suoi guanti bianchi. Era fine agosto, e in effetti faceva ancora troppo caldo per i guanti, ma a un torneo di polo difficilmente si poteva andare senza. Il vicino Sir Frederic Laughcastle, mezz’ora a piedi da Graythorne, allevava cavalli da polo e organizzava tornei che diventavano vere e proprie feste mondane in giardino, a cui erano invitate solo le migliori famiglie della contea, e una quantità di giovani rampolli ancora celibi. Per poter rappresentare degnamente il rango e la ricchezza della sua famiglia, la signora Quint aveva comprato per sé un abito di Laura Ashley in seta azzurro cielo con piccole rose applicate, e per Natalie un abito in cotone rosa, con le spalle scoperte e un’alta fusciacca intorno alla vita. La signora Quint pensava fosse giunto il momento che Natalie cominciasse a interessarsi agli uomini, e loro a lei. Perché si comportava sempre con quella freddezza e quel distacco? I pochi uomini che avevano tentato un approccio si erano sempre dileguati troppo velocemente e un po’ spaventati. Non si dava mai la pena di frenare il suo carattere critico e sferzante, e quando si trovava a parlare con un uomo non parlava mai, mai, di nient’altro che di politica! La signora Quint fece un profondo respiro e guardò fuori nel parco attraverso una finestra ad arco; il sole estivo resisteva illuminando e facendo brillare tutto all’intorno, ma l’autunno era ormai alle porte: sulle foglie degli alberi di melo cominciava a intravedersi un contorno rossastro, le ragnatele luccicavano


tra i rametti dei cespugli e l’aria era satura del profumo di fieno appena tagliato. La mia vita potrebbe essere bellissima, pensò la signora Quint, se solo Natalie mi dimostrasse un po’ di calore e di comprensione. Le riusciva difficile accettare che Natalie conoscesse il giovane che era stato condannato a due anni di carcere per aver giurato il falso nel tentativo di coprire il fratello, che, incaricato dall’IRA, aveva piazzato una bomba in un locale pubblico. La stampa inglese si era occupata fin nei minimi dettagli del caso, tanto che a un certo punto era saltato fuori anche il nome del collegio frequentato dall’imputato, il Saint Clare. Non c’era conoscente o parente che non chiedesse a Natalie: «Anche tu eri al Saint Clare. Lo conosci?» La signora Quint aveva supplicato la figlia di minimizzare il più possibile circa la sua conoscenza di quel Marlowe. «Dì che lo conosci appena. Che l’hai visto un paio di volte. Credimi Natalie, non è un bene che tu frequenti un tipo del genere!» Natalie aveva guardato la madre con occhi pieni di freddezza e aveva risposto: «Steve è uno dei miei migliori amici. Lo sanno tutti». La signora Quint fece un altro sospiro profondo e si sistemò per l’ennesima volta il cappello in testa. Dov’erano suo marito e Natalie? Due ore prima, il signor Quint era corso alla scuderia, perché una cavalla stava per avere un puledrino, ma aveva promesso che sarebbe tornato in tempo. Ma perché diavolo doveva essere presente quando partoriva una cavalla? Aveva stallieri a sufficienza, e poi era venuto anche il veterinario. Ma faceva la stessa cosa anche con i cani, e la signora Quint ripensò con disgusto a quella volta in cui Melissa, l’amata cagnolina di razza Bassett Hound, aveva portato alla luce i suoi cuccioli nella camera da letto sulla sua camicetta di seta. Dalle scale giunse il suono di passi. La signora Quint si voltò fiduciosa e vide Natalie che scendeva i gradini adagio e con ostentata disinvoltura. Le sue lunghe gambe abbronzate erano infilate in un paio di pantaloncini sporchi, era scalza e portava una T-shirt bianca. Intorno al suo polso destro tintinnava un paio di sottili braccialetti d’argento. Sembrava molto giovane, vigorosa e in buona salute, tutto il contrario della grassoccia madre vestita di seta. «Natalie! È ora di cambiarsi! Ti ho lasciato l’abito sul letto!» «Sì» disse Natalie, con lo stesso tono indifferente con cui parlava sempre a sua madre. «Sì, è sul mio letto. Ma ho deciso che non vengo. Andate senza di me!» «Cosa?» «Non mi va. È una bellissima giornata, voglio starmene in giardino e leggere un libro. Rimango qui.» «Questo è fuori discussione» disse la madre con aria intransigente. «Ho già comunicato che verrai anche tu!» «Mamma, a questa dannata partita di polo ci saranno centinaia di persone, nessuno si accorgerà di chi c’è e chi non c’è. E tu sai quanto io


detesti le chiacchiere inutili che si fanno a questi eventi!» Natalie prese a gesticolare con le braccia mentre diceva: «‘Che fantastico cappello indossa signora Quint! Lady Laughcastle, mi dica, è vero che la principessa Anna ha tradito suo marito?’ Mamma, davvero, non puoi pretendere così tanto da una persona con un minimo di cervello!» «Questo è il mondo in cui viviamo, Natalie.» Come sempre quando si agitava, la voce della signora Quint diventava leggermente stridula. «Ed è anche il tuo mondo. È il tuo ambiente. Devi adattarti almeno un po’ anche tu, altrimenti non potrai mai avere il posto che ti spetta.» «Non voglio nessun posto in questo ambiente. Voglio andare per la mia strada. Io...» Natalie fece una pausa, sapeva che con quelle parole avrebbe ferito sua madre, ma doveva andare avanti. «La mia strada mi porterà sicuramente a vivere in modo diverso da te, mamma...» «Molto interessante!» Nervosamente, la signora Quint frugò nella sua borsetta, e alla fine ne tirò fuori un pacchetto di sigarette e ne accese una. Le sue dita perfettamente curate tremavano leggermente. «Si può sapere di che tipo di vita parli?» «Tanto per iniziare... non mi sposerò. Non voglio essere il trofeo da esporre di un uomo, che...» La signora lanciò un’occhiata beffarda alla figlia acqua e sapone, dalle gambe lunghe, e disse: «Probabilmente non lo vorrebbe nessun uomo». Per un attimo Natalie rimase in silenzio, ferita, poi con serenità disse: «Sai che ho sempre voluto diventare una giornalista. Adesso lo farò davvero». La signora Quint schiacciò la sigaretta in un vaso d’argilla pieno di terra, in cui lussureggiavano piante rampicanti verde scuro. «Adesso non è il momento di discutere di queste cose. E comunque non c’è motivo per non venire alla festa. Per favore cambiati, è già abbastanza che debba aspettare tuo padre.» «La cavalla non ha ancora partorito?» «Non lo so, e non mi interessa. Avevo detto che saremmo andati via alle tre, e sono già le tre e dieci...» Per il caldo e l’agitazione, il trucco della signora Quint cominciò a sciogliersi. Natalie guardò la madre con un po’ di compassione. Povera mamma, si logora nel perseguire l’eleganza e il prestigio a tutti i costi sottoponendosi a quelle diete lunghissime con cui spera di vincere la partita contro il suo girovita che aumenta inesorabile, e non supererà mai il fatto di aver avuto una figlia femmina, ribelle e testarda per giunta. Attraverso una finestra laterale filtrò un luminoso raggio di sole tremolante che si posò sul viso incipriato, incorniciato dai corti riccioli biondi. Perché doveva impiastricciarsi sempre con quel pastone rosa? Perché si comportava sempre come fosse alla ricerca dell’approvazione di quella gente? Per lei ‘appartenere a quel gruppo’ era tutto, e un giorno sarebbe morta spompata dopo avere inseguito per una vita e senza sosta quelle futilità. «Mamma, io non verrò dai Laughcastle. E devo dirti ancora una cosa: dal primo di settembre lavorerò in un giornale di King’s Lynn. Significa


che tra dieci giorni me ne andrò via da qui.» La signora rimase a bocca aperta per un attimo, poi disse alla fine: «Non può essere vero». «Mi dispiace. Te lo avrei detto prima, se non avessi avuto paura che tu potessi impedirmelo. Ho già trovato un appartamento tramite un’agenzia immobiliare. È un posticino semplice ed economico, così potrò permettermelo.» La signora Quint tirò fuori la seconda sigaretta e l’accese con foga. Le mani le tremavano di più adesso, il naso era imperlato di sudore. «Devo dire... devo dire che sai come scioccare le persone. Hai combinato tutto in segreto alle nostre spalle, e adesso te ne vieni, e... o...» si interruppe e guardò fisso la figlia. «O lo hai fatto solo alle mie spalle? Tuo padre lo sa già?» «No, non lo sa. Mamma non l’ho fatto alle spalle di nessuno, ma se ne avessi parlato prima ci sarebbero stati solo litigi e discussioni senza fine. Ti saresti opposta. Tu hai sempre voluto una vita diversa per me: dovrei sposare un bell’uomo di una famiglia ricca e stimata, indossare bei vestiti, dovrei essere un’ospite attraente, avere due figli da mandare in una scuola rinomata. Ma non capisci che ho solo una vita e sarei infelice se dovessi realizzare quelli che sono i tuoi desideri, e non i miei. Voglio diventare una buona giornalista, voglio scrivere e vedere il mondo, ma non come la moglie in abito di seta che se ne va in giro con le carte di credito del marito nella borsa, ma come una donna indipendente, che decide da sola quello che vuol fare. Riesci a capire quello che...» Natalie esitò, la voce strozzata. «Quello che capisco benissimo è quanto sei ingrata» replicò la signora Quint, anche lei con voce vacillante. Con una mano teneva la sigaretta, con l’altra cercava un fazzoletto. Santo cielo, pensò Natalie sconvolta, stiamo piangendo entrambe! In quel momento di massima tensione, il signor Quint arrivò a grandi passi tonanti, del tutto inconsapevole del dramma che si stava consumando. Era avvolto da una nuvola di puzza di stalla ed era circondato da cinque grossi cani che gli giravano intorno abbaiando. «Un maschio» disse a gran voce. «Un magnifico piccolo puledrino sano! E la madre sta già di nuovo sulle zampe.» «Oh» sospirò la signora Quint distogliendo lo sguardo. Natalie rimase in silenzio. Il signor Quint guardò prima l’una poi l’altra. «Vado a cambiarmi subito, arriveremo in tempo» disse lui a disagio. «Non andremo alla festa» disse la signora Quint e si soffiò il naso. «Vado a letto. Per favore non disturbatemi per le prossime due ore.» Lentamente salì le scale, reggendosi al mancorrente come una vecchietta. Natalie sapeva che a sua madre piacevano le uscite teatrali e che si ritirava volentieri a letto quando le cose non andavano come voleva lei, ma sapeva anche che quella volta l’aveva fatta davvero grossa. «Mi dispiace» disse.


Il signor Quint, che dentro esultava di gioia per il fatto di non dover più andare alla festa, chiese sottovoce: «Cosa è successo?» «Papà, io...» cominciò col dire, ma la signora Quint si fermò, si voltò e disse: «Non immagini neanche, figlia mia, quale errore madornale tu stia commettendo, un errore a cui probabilmente non potrai mai porre rimedio. Ormai sei grande, non aspettarti più che i tuoi genitori siano sempre pronti ad accorrere per rimetterti in piedi quando cadi». Poi proseguì, l’abito di seta blu brillava al riflesso della luce del sole, e Natalie, che guardava la sua figura grassoccia e tronfia, d’un tratto spinta da una collera inaspettata, pensò: Non mi hai mai aiutato! E finché avrò vita, non te lo lascerò mai fare!

4 Il signor Bush premette il tasto dell’interfono che lo metteva in comunicazione con la sua segretaria. «Mi mandi la Quint!» Osservò il manoscritto che giaceva sulla scrivania davanti ai suoi occhi. Lo aveva letto durante il fine settimana, dopo che Natalie glielo aveva consegnato il venerdì. Era un racconto diviso in dieci capitoli sulla vita di Aristotele Onassis: scritto straordinariamente bene; vivace, coinvolgente, originale. Perfetto per il suo giornale. Il signor Bush era il caporedattore di Limelight, la vivace rivista settimanale che si occupava di raccontare le ultime indiscrezioni sulle famiglie reali d’Europa e sui ricchi di tutto il mondo. La rivista si reggeva su una quantità di fotografie a colori, un paio di titoloni sensazionalistici, non necessariamente veri, di romantiche storie d’amore, e trattava con atteggiamento moralistico di aborto, di droghe e di tutto quanto è considerato immorale in genere. Il concetto era molto semplice: il signor Bush sapeva che il modo per fare i soldi era dare ai lettori quello che volevano senza pretendere nessuna loro partecipazione intellettuale, senza disturbarli con ragionamenti scomodi. Non si faceva alcuna illusione sul livello del suo giornale, e quando avvertiva un po’ di frustrazione, gli bastava pensare ai suoi soldi e trovava la giusta consolazione. Finché la baracca rendeva, poteva sopportarlo. Ma quella signorina Quint sarebbe andata lontano. Era un autentico talento. La porta si aprì e Natalie entrò. Il signor Bush era contento di vederla. Gli piaceva il suo stile discreto ed elegante, trovava attraente il suo viso pulito e intelligente, i suoi modi controllati e sobri. Aveva sempre un’aria tranquilla, non parlava mai a sproposito, e sembrava animata da un’inesauribile energia. «Signorina Quint, l’ho fatta chiamare perché vorrei farle i miei complimenti» disse indicandole la sedia di fronte alla sua scrivania. «Ho letto il suo racconto durante il fine settimana, e devo dire che non è stato un lavoro ma un divertimento. Avvincente fino all’ultima parola. Ha


svolto egregiamente il suo incarico.» «Molte grazie, signor Bush.» «Mi dispiace doverlo ammettere, ma temo, Natalie, che lei non rimarrà a lungo qui con noi. È troppo brava. Arriverà molto in alto e un giorno avrà un giornale tutto suo. Ho fiuto per queste cose, e di rado mi sbaglio.» Quello era in effetti il progetto di Natalie, e lei si sentì molto gratificata dal fatto che il suo capo la tenesse in una tale considerazione. «Lo spero» disse con calma. Il signor Bush annuì. «Deve crederci. E non permetta a niente e nessuno di interferire. È la cosa peggiore alla sua età. È il suo momento magico. Non sa quanti giovani ambiziosi, di talento e consapevoli dei propri obiettivi, dopo una partenza brillante verso una splendida carriera, per una sciocchezza o anche per qualcosa di serio, si sono poi persi per strada e, non avendo l’esperienza per mettere quel che gli è accaduto nella giusta prospettiva, non hanno più saputo ritrovarla, quella strada.» Natalie lo aveva ascoltato con attenzione. «Non posso sapere quello che mi succederà» disse lei. Il signor Bush rise. «Non succederà nulla. Sta solo a lei volerlo. In ogni caso deve pensare che il suo destino è nelle sue mani, e che, sì certo, gli altri possono farla cadere, ma lei avrà sempre la possibilità di rialzarsi con le sue sole forze.» «Ci penserò» rispose Natalie passandosi una mano tra i folti capelli biondi. Che vecchietto gentile, rifletté, tra un sorriso e l’altro ti spiega come va la vita facendoti sentire a tuo agio e al sicuro. «E poi c’è un altro motivo per cui l’ho fatta chiamare» aggiunse il signor Bush. «Ho bisogno di qualcuno per un reportage di viaggio, o meglio, ho bisogno di lei. Il titolo sarà La romantica Cornovaglia; dovrebbe mettere insieme qualcosa sulle bellezze del posto, storie, personaggi, leggende della Cornovaglia. Due o tre numeri. So che lei è abituata a scrivere altre cose, e che non le piacciono molto i nostri racconti di viaggio un po’ kitsch, ma la pensi come una vacanza, credo che possa farle bene in questo momento. Cosa ne pensa?» «A dire il vero, avevo proprio voglia di fare un viaggio. E per giunta in Cornovaglia.» «Bene. Allora è deciso?» «Certamente. Quando devo partire?» «Come sempre nel nostro lavoro: subito. Cioè se potesse giovedì, sarebbe grandioso. Oggi è lunedì, quindi le rimangono due giorni per prepararsi. Siamo d’accordo?» «Okay. Giovedì. Nessun problema.» Si alzò e fece per andarsene. «Ah, naturalmente deve portare con sé un fotografo» disse il signor Bush distrattamente. «Naturalmente...» Solo un fine osservatore avrebbe notato che


improvvisamente era cambiato il tono della voce di Natalie. Lei detestava i fotografi. O meglio, detestava viaggiare con loro. Aveva dovuto farlo due volte, ed entrambe le volte, la seconda sera aveva dovuto subire una scena sgradevole davanti alla porta della sua camera d’albergo dove il fotografo di turno l’aveva accompagnata dopo aver cenato insieme e dove lui aveva cominciato a farle avance per soddisfare le sue aspettative sulla notte. Ogni volta Natalie aveva dovuto fare finta di non capire dove volessero arrivare e quelli erano diventati più espliciti. «Lei è la tipica brava ragazza di campagna» le aveva detto uno, «che crede che un po’ di divertimento possa portarla sulla via della perdizione. Se continua così diventerà una zitella acida!» Lei si era precipitata in camera, e dopo aver chiuso la porta sbattendola, vi si era appoggiata con le spalle per qualche secondo. Perché quelli non capivano che non voleva niente da loro? Perché non la piantavano di assillarla? «Può portare uno dei nostri fotografi» disse il signor Bush, «oppure se ne conosce un altro, con cui è più in sintonia, per me va bene lo stesso.» «Uno...» L’idea le venne in mente come un angelo venuto a salvarla. Senza pensarci due volte rispose: «Un mio amico è un fotografo molto bravo. E di certo non inciderà molto sui costi». «Va bene.» Il signor Bush sorrise. E Natalie ricambiò il sorriso. Quanta gentilezza mi dimostrano tutti, pensò rilassandosi, e che bella serata! E il signor Bush mi ha anche detto che prevede una grande carriera per me! Era a King’s Lynn da quasi un anno, e dopo aver vissuto in un piccolo appartamento che si affacciava sulla piazza del mercato, da tre mesi si era trasferita a Gaywood. Aveva preso un appartamento al primo piano di una villetta bifamiliare, e nel frattempo aveva cominciato a guadagnare abbastanza per arredarlo in modo carino ed elegante. Aveva conoscenti, certo, ma non c’era né un uomo né una donna nella sua vita; così di tanto in tanto sprofondava nella più nera solitudine che non riusciva a lenire neanche stringendo i denti e buttandosi a capofitto nel lavoro. Quella sera avrebbe fatto qualcosa di carino. Tornò a Gaywood con l’autobus – di solito andava a piedi per tenersi in forma – ma ora aveva fretta perché voleva andare a Hunstanton per fare una passeggiata in riva al mare. E poi voleva telefonare a David. Aveva pensato di portarlo con sé in Cornovaglia perché gli piaceva fotografare e possedeva una macchina fotografica quasi professionale. Ma poi aveva avuto come un ripensamento. Da quella brutta faccenda con Steve, nessuno aveva più avuto contatti con lui, era come se ci fosse stato un tacito accordo tra i quattro amici. David invece aveva mandato a tutti e quattro il suo indirizzo e il numero di telefono di Southampton, dove studiava economia, ma nessuno si era dato la pena di rispondergli in alcun modo. A Natalie non faceva piacere l’idea di essere lei la prima


a fare il primo passo, ma alla fine si disse che non potevano bandirlo per sempre. E soprattutto, non se poteva servire a qualcosa. Fece una doccia, bevve un bicchierino di sherry e si accese una sigaretta, poi si sedette accanto al telefono e compose il numero. Forse, pensò, non c’è nemmeno. C’era. «Pronto» disse con una bella voce squillante. «David? Ciao, sono Natalie.» Dopo un attimo di silenzio pieno di stupore e sorpresa, David urlò: «Nat! Da quanto tempo!» La sua gioia sembrava sincera, e Natalie si sentì in colpa per non aver capito che doveva aver sofferto molto per il fatto di essere stato escluso dai suoi amici. Chiacchierarono del più e del meno per un po’, lei gli raccontò del suo lavoro e lui dei suoi studi. Poi, alla fine, Natalie venne al punto e gli disse il motivo della sua chiamata. «Devo fare un reportage di viaggio sulla Cornovaglia e mi serve un fotografo. Così ho pensato che mi potresti accompagnare.» «Ma io non sono un fotografo!» «Hai una macchina fotografica eccezionale, e hai sempre fatto bellissime fotografie!» «Non so...» «David!» «Quando? E per quanto tempo?» «Dovremmo partire giovedì prossimo. Per cinque giorni.» «Mmm... dovrei darmi malato... potrebbe funzionare.» «David, sarebbe fantastico se riuscissi a venire! Per me sarebbe molto meglio andarci con te che con uno sconosciuto!» In quel momento, Natalie si rese conto di quanto fosse importante per lei. Sentiva la voce di David così familiare; le faceva ricordare una parte bella e spensierata della sua vita. «Dai, su David, dimmi di sì!» David, che a causa del suo carattere complicato non aveva fatto molte amicizie all’università ed era in crisi di astinenza di amicizia, non ci mise molto a rispondere: «Sì». Il tempo era meraviglioso. Percorsero stradine di campagna fiancheggiate ai lati da muretti e siepi, e ombreggiate dalle chiome degli alberi. Oltrepassarono piccoli paesi idilliaci, dove sembrava che il tempo si fosse fermato e magri gattini sgusciavano qua e là tra pescatori diffidenti seduti sugli usci di casa. Chiese antichissime quasi in rovina, grigie e invase dal muschio con i cimiteri antistanti dominavano verdi colline. Nel luogo regnava un’atmosfera incantata, era come se il presente fosse stato ingoiato dal mare; e a David e Natalie non sembrava affatto impossibile che un cavaliere nero su un nero destriero potesse incrociarli da un momento all’altro. Guidava David sia perché la macchina era la sua sia perché così Natalie poteva prendere appunti lungo il viaggio. Voleva visitare Tintagel, il villaggio di re Artù, attraversare la brughiera di Bodmin


dove si trovava la famosa locanda Jamaica Inn, andare giù verso il villaggio di pescatori St Ives, poi Land’s End e l’isola di St Michael Mount, poi nel Dartmoor e a Plymouth. Aveva letto tutto quel che c’era da leggere sulla Cornovaglia, e la sua mente era un turbinio di storie di pirati, leggende, orribili fatti di sangue e fiabe romantiche. Riempì un blocchetto dopo l’altro; raramente si era sentita così bene. Rabbrividì al pensiero dei viaggi che aveva fatto con gli altri fotografi; seduta rigida come un palo accanto a loro, con le gambe serrate l’una dentro l’altra, aveva passato tutto il tempo a tirare giù l’orlo della gonna in modo che arrivasse al ginocchio e non scoprisse le cosce su cui avvertiva insistenti occhiate concupiscenti. Con David poteva conversare, ridere, stare in silenzio. Poteva dormire mentre lui guidava o persino togliersi i collant nel caso avesse avuto caldo. Si sentiva a suo agio, libera; pensò che aveva fatto la cosa giusta rinunciando alla sicurezza della sua vita in famiglia e imponendo le sue scelte ai suoi genitori. La confidenza tra lei e David crebbe a tal punto che alla fine smisero di evitare argomenti spiacevoli. Parlarono persino degli amici una sera a Tintagel, in un chiassoso locale fumoso. Avevano appena fatto una passeggiata sulle scogliere intorno al castello di re Artù, dove erano rimasti estasiati dallo spettacolo delle onde che si infrangevano sugli scogli e andavano a insinuarsi nelle piccole baie, con il sole che, tramontando, aveva ammantato di rosso le lussureggianti colline tutt’intorno. Alla fine, tra un bicchiere di vino e l’altro Natalie cominciò a parlare di Gina spontaneamente. «Si è trasferita in America proprio come aveva sempre detto. Vive da qualche parte a Manhattan e cerca di mantenersi con un misero lavoro che consiste nell’andare in giro per Central Park cercando di vendere dei quadretti di dubbio gusto in cornice dorata di un imbrattatele. Mi scrive delle lettere che sono un misto tra la disperazione e il comico.» «E Mary? Di lei sai qualcosa?» «Non se la passa bene. Quel farabutto con cui si è sposata la tratta malissimo. Ha persino paura di aprire bocca. Sta diventando l’ombra di se stessa.» David bevve un bel sorso di vino. «E... sai qualcosa di Steve?» Natalie gli rispose senza guardarlo. «Mi scrive di tanto in tanto. Non sta bene, David. Deve scontare ancora un anno là dentro. Lo sai che a dicembre ha tentato il suicidio?» «No, non lo sapevo. Mi dispiace» disse David in tono grave. Allontanò il bicchiere. «Nat, sono molto pentito per quel che è successo quel giorno, credimi ti prego. Non so cosa mi è preso. Solo in aula ho realizzato le conseguenze di quello che stavo per fare. Falsa testimonianza... tu puoi capirmi... voglio dire, tu sei una persona così onesta, così retta, e senza dubbio avresti messo da parte tutti i tuoi interessi per aiutare un amico, ma la paura di quello che poteva capitarmi ha preso il sopravvento. La mia vita è stata programmata fin


nei minimi dettagli da mia madre e da Andreas, e io ero sul punto di buttare tutto all’aria. L’erede delle Bredow Industries che giura il falso per difendere l’IRA. Impossibile!» «Certo. E nessuno ha mai pensato che tu dovessi correre un tale rischio. Ma avresti potuto dirlo prima. Così facendo hai messo Steve in guai seri!» Lo guardava attentamente adesso. «Allora perché ti sei lasciato coinvolgere in quella rischiosa faccenda?» «Pensavo...» Esitò. Non era sicuro che gli avrebbe creduto se le avesse confessato che lo aveva fatto nella speranza che con quel gesto Steve lo vedesse come un vero amico. Si era sempre sforzato di non fare intendere quanto profondamente desiderasse la loro amicizia, e Natalie probabilmente avrebbe pensato che fosse una stupida scusa se avesse tirato fuori l’argomento proprio in quel momento. Ma guardandola in quegli occhi saggi e attenti disse in un sussurro: «...ecco... pensavo che così Steve mi sarebbe stato amico per sempre. Ecco... l’ho detto!» Fece appello a tutto il suo autocontrollo per mantenere un tono neutro in modo che se lei avesse riso delle sue parole, avrebbe potuto ridere anche lui insieme a lei come se nulla fosse. Ma lei non rise. Lo fissava soltanto con aria pensierosa. Poi si affrettò ad aggiungere: «E anche di quella volta al Paradise Lost con Mary, mi dispiace tantissimo. Ho perso la testa. Ho visto la polizia, ho sentito le urla della gente, e non ho capito più niente!» Ancora una volta, mentre parlava, gli era chiaro che quel che diceva era vero solo a metà. Certo, aveva perso la testa, ma nel momento cruciale il suo comportamento era stato determinato da un insieme di sentimenti diversi... la paura delle conseguenze: l’erede Bredow arrestato in una retata di droga in una malfamata bettola londinese. E dispetto: questo è il vero volto di tuo figlio, mamma! Io non sono quello che credi, per quanto tu lo voglia con tutta te stessa! Il tuo meraviglioso figlio valente non doveva scappare; ma sono scappato per salvarmi la pelle! Sono una completa delusione. Tu e quel vecchio americano dovete farvene una ragione! Poi, come riscosso dai suoi tristi pensieri disse: «Mary e Steve. In qualche modo ho influenzato le loro vite, vero? Non hai un po’ paura di fare le cose con me? Avresti potuto chiamare un altro fotografo.» «No, non ho paura» rispose Natalie con calma. Guardò David e pensò che era davvero un bell’uomo con i suoi capelli neri, gli occhi piccoli. Era magro e alto; indossava un paio di jeans stretti con effetto invecchiato e una camicia bianca. Aveva ciglia lunghe e labbra delicate. Era piuttosto enigmatico, quel David Bellino, difficilmente parlava di se stesso. E pensò: Adesso sei pentito di quel che è successo, ma sono certa che lo rifaresti se ti trovassi di nuovo nella stessa situazione. Probabilmente non sapresti fare altro. La tua prima preoccupazione sarà sempre te stesso. «A cosa pensi?» chiese David. Rise. «A nulla in particolare. Riflettevo un po’ su come va la vita.» Adesso era David che la guardava. Vivere per conto suo l’aveva


cambiata. La tranquillità che la contraddistingueva aveva sempre fatto trasparire una indolente malinconia, una sorta di distacco dalla realtà, ma adesso era come se si fosse svegliata, come se avesse perso quell’aria trasognata, i suoi occhi sembravano più grandi, la sua risata più allegra, la sua pelle più brillante. A David tornò in mente la scena a cui aveva assistito involontariamente a St Brevin, Natalie e Gina a letto – ricordò l’atmosfera erotica che l’aveva investito sbirciando nella camera infuocata per il caldo soffocante. Conosceva bene le due ragazze da tempo, e aveva subito intuito che per Gina era stato solo un gioco, ma per Natalie doveva essere stata un’esperienza molto importante. «E tu, cosa pensi?» chiese Natalie. «A quanto sei bella» rispose. Natalie spalancò gli occhi. Durante tutto il periodo scolastico al Saint Clare, la bella della compagnia era Gina; Natalie aveva sempre vissuto all’ombra della sua bellezza e a lei era sempre spettato il ruolo di quella più intelligente. Per la prima volta desiderò essere bella, molto bella, meravigliosamente bella. «E quanto sono bella?» ripeté quasi sottovoce. David rifletté un attimo e poi disse: «Sei bella come l’amore». Si sporse sul tavolo e la baciò con dolcezza. Con sua grande sorpresa, Natalie non provò alcun disgusto. Il giorno dopo era domenica e mentre Natalie e David facevano colazione al Trewarmett Farm, dove avevano passato la notte, Mary sedeva, da sola, davanti a un tavolo premurosamente apparecchiato nel suo appartamento di Londra. Cathy dormiva ancora e Peter era uscito per incontrarsi con gli amici e bere una birra insieme. Quasi in punta di piedi era andata in soggiorno avvolta nella vecchia vestaglia blu della madre e aveva preparato il tavolo con uova alla coque, caffè, succo d’arancia, toast, marmellata, formaggio e prosciutto e un barattolo di cetrioli. «Non vuoi prima fare almeno colazione, Peter? Non fa bene bere a stomaco vuoto...» «Dannazione!» esclamò Peter battendo un pugno sul tavolo. «Non mi sono sposato per avere sempre intorno un poliziotto che mi dice quello che posso e non posso fare! Che scemo sono stato quando ho deciso di dare a te e a quella bastarda il mio buon nome e...» «Peter, ti prego, non così forte!» Ma perché doveva sempre urlare? Le loro discussioni erano di dominio pubblico nel palazzo. Mary detestava il modo compassionevole con cui la guardavano tutti. Le sembrava di vivere un incubo. «Urlo quanto mi pare» continuò imperterrito Peter. «E bevo quanto voglio! E ti dirò un’altra cosa: la domenica preferisco divertirmi con i miei amici piuttosto che stare con una morta in piedi come te, che si lamenta al minimo tocco!» Se ne andò come una furia, sbattendo tutte le porte. Mary si buttò sul divano, lo sguardo vuoto, e poi, con gesti


meccanici, si versò una tazza di caffè. Fuori pioveva a dirotto. La forte afa stava provocando un afoso temporale tipicamente estivo. Non sapeva se sentirsi sollevata o triste. Quando Peter rimaneva a casa di domenica e non c’era nessuna partita di calcio alla televisione, aveva in mente solo di fare sesso, e quello era certamente peggio. Ma le domeniche solitarie la deprimevano lo stesso, in particolar modo poi se non poteva uscire con Cathy a causa della pioggia. Erano le nove, l’ora del notiziario radiofonico. Un treno passò con fragore proprio mentre il cronista stava cominciando a parlare. Mary non riuscì a cogliere l’inizio della notizia ma poi il resto attirò la sua attenzione. «...brancola nel buio. Il delitto è avvenuto la scorsa notte, e secondo le testimonianze dei sopravvissuti al massacro, a opera di almeno cinque uomini, tutti mascherati. A quanto pare, i malviventi sono entrati nella casa da una finestra aperta della cantina; dormivano tutti tranquillamente. E poi la casa è diventata il teatro di un delitto di immane efferatezza. Un portavoce della polizia ha dichiarato di non aver mai visto tanto sangue in vita sua. Non sono stati rubati né soldi né gioielli. Pertanto si pensa a un movente politico o religioso. La popolazione della Cornovaglia è stata invitata a muoversi con la massima prudenza.» «È terribile» mormorò Mary, «proprio come accadde a Sharon Tate tempo fa.» Fissò fuori la pioggia che batteva incessante sui vetri inanimati delle finestre incastonate nei muri di mattoni rossi. «Cornovaglia... speriamo che Nat e David stiano attenti...»

5 Quella domenica mattina di pioggia battente, David e Natalie si diressero verso la brughiera di Bodmin e intorno a mezzogiorno arrivarono alla Jamaica Inn. La pioggia sembrava un muro grigio per quanto cadeva fitta, e quando si infilarono di nuovo in macchina, curvi nel tentativo di ripararsi, erano bagnati fradici fino dentro le ossa e si sentivano uno schifo. In un piccolo paese che avevano attraversato, avevano comprato qualcosa da mangiare, del pane, formaggio, yogurt, e un paio di lattine di Coca-Cola. Tagliarono pane e formaggio con il coltellino di David, e mangiarono tutto fino all’ultima briciola. Si sentivano già molto meglio. Aveva smesso di piovere e aveva cominciato a soffiare un vento caldo che stava spazzando via le nuvole. D’un tratto comparve il sole. Natalie disse che per quel giorno non aveva più voglia di lavorare e che voleva andare in un piccolo paese romantico sul mare e magari passare il resto della giornata in spiaggia a godersi il sole. «Okay» rispose David e partirono. «Cerchiamoci un paesino sul mare.»


Crantock era il posto più idilliaco che avessero mai visitato. Sembravano esserci solo piccole casette fuori dal tempo, giardini incantati, muri invasi dal muschio e siepi rigogliose. Nel centro del paese c’erano un vecchio negozio che vendeva di tutto, una cabina telefonica rossa fiammante e un’enorme aiuola circolare piena di fiori. Il paese si ergeva su colline verdi affacciate sul mare. L’alta stagione non era ancora cominciata e fino a quel momento Natalie e David non avevano avuto alcuna difficoltà a trovare una sistemazione – con camere separate. Lì a Crantock, però, per la prima volta si trovarono davanti a un problema: tutte le stanze singole erano già occupate. E solo dopo quasi un’ora di ricerche, riuscirono a trovare una casa, la cui proprietaria disse loro che aveva una camera libera. La casa era sulla collina e si affacciava sul mare, la proprietaria era una giovane donna esile con i capelli in disordine. Disse di chiamarsi Maxine Winter. Suo marito Duncan sembrava un uomo serio, di poche parole, ma non scortese. Il problema però era che c’era una stanza soltanto. «L’altra che abbiamo è affittata» dichiarò Maxine. Sembrava un po’ sorpresa da quei due ragazzi così indecisi. Evidentemente non dovevano essere innamorati se condividere una stanza rappresentava un problema così grande. David guardò Natalie. «Decidi tu. Possiamo prendere questa stanza, o continuare a cercare.» Più tardi, Natalie si chiese spesso perché, in quel momento, non aveva voluto dare ascolto alla vocina del buonsenso dentro di sé che cercava di avvisarla. Vedeva solo la piccola casa incantevole con le rose rampicanti intorno alla porta di ingresso, la collina, le dune di sabbia, il brillante mare blu; tutto combaciava con quello che aveva sentito dire delle spiagge dorate della costa occidentale della Cornovaglia. «Restiamo qui. È quasi sera, e non siamo ancora andati in spiaggia. Va bene così.» La camera era al pianterreno, e dalla finestra si vedeva il mare. Il letto sembrava cigolare solo a guardarlo, e dal rubinetto scorreva un misero getto d’acqua calda, ma in compenso la camera era dotata di un fornellino per il tè e la biancheria e gli asciugami profumavano di fiori. «L’uso del bagno è a parte» disse Maxine, appoggiata alla porta, «e la colazione è alle nove. Cercate di essere puntuali, per cortesia.» «Certamente» rispose David con gentilezza. Maxine fece per andarsene, ma poi si voltò ancora una volta. «Le chiavi di casa sono sulla mensola all’ingresso. Potete prenderle, perché l’anziana maestra di Seven Seas, che sta nell’altra stanza, ha le sue. Per favore chiudete la porta se tornate tardi.» «Certamente» ripeté David. Senza disfare le valigie, tirarono fuori solo un paio di teli, l’olio abbronzante e il costume, si infilarono pantaloncini e T-shirt e se ne andarono in spiaggia. Bisognava percorrere un pezzo di strada asfaltato, senza case intorno, costeggiare un campo di grano, che ondeggiava come


il mare al leggero soffio del vento, e infine, passando attraverso dune dolcemente scolpite punteggiate da erba e cespugli, si giungeva al mare. «Crantock è un posto idilliaco» disse David. «Quasi troppo» aggiunse Natalie. Si avvicinava la sera. Il sole aveva colorato il cielo di rosso a occidente e gettava una luce ramata sulle colline. «Troppo fuori dalla realtà. In posti come questo, la bellezza e la pace sono surreali, ti fanno quasi paura.» Tuttavia, mise da parte quella cupa sensazione, quasi un brutto presentimento. «Vieni, andiamo a sentire quanto è fredda l’acqua.» Rimasero in spiaggia due ore, fecero il bagno nelle fredde onde dell’Atlantico e si stesero un po’ sulla sabbia calda. C’erano tante altre persone, ma la spiaggia molto lunga faceva sì che sembrassero molto poche. Presto, poi, la maggior parte di quelle se ne tornò a casa. In lontananza, un paio di case bianche si stagliavano contro il cielo blu scuro. «Come in Italia» disse Natalie, con aria sognante. «Dovremmo andare da qualche parte a mangiare» disse David. «Ho una fame da lupi.» Tornarono a casa, fecero la doccia e si cambiarono. Natalie scelse un abitino leggero a fiori verdi, che non aveva mai indossato prima, e si truccò un po’ più del solito. Guardandosi allo specchio, notò che aveva già preso un colorito sul caramello. Si rese conto che la sua era una vita bella; durante tutta l’infanzia e l’adolescenza non aveva mai pensato alla sua vita in quel modo, e ora quel pensiero la rendeva molto felice. Quando, al tramonto, si misero in macchina – volevano andare nella più grande città vicina – David disse: «Speriamo che domani il tempo sia così bello, perché vorrei fare un paio di fotografie carine. Dalla spiaggia, dalle case e dal giardino». «Che io inserirò nel mio pezzo dal titolo Cornovaglia, il paradiso delle vacanze aggiunse Natalie. «Paradiso, la parola giusta anche per Crantock.» Tornarono poco dopo mezzanotte. Era una notte calda, non soffiava un alito di vento. Alla luna mancava ancora solo un piccolo spicchio per diventare piena, e gettava una luce argentea sulla spiaggia. L’aria era pregna del profumo di gelsomino e rose. Quando David e Natalie aprirono la porta ed entrarono, la casa era immersa nel buio e nel silenzio. Avevano cenato in un locale italiano con una bella porzione di lasagne, un piatto di insalata e cassata come dolce, il tutto accompagnato da una grande caraffa di vino rosso. Erano sazi, stanchi ma contenti. Natalie si spogliò con molto imbarazzo. Rimase in slip e reggiseno, si infilò dalla testa la camicia da notte più lunga che aveva e cercò di sganciare il reggiseno come una contorsionista. Tenne gli slip. Si lavò i denti, si spazzolò velocemente due volte i capelli e si infilò nel letto, coprendosi fino sopra il mento con la coperta. David dormiva nudo, come


lei poté vedere con una occhiata furtiva. Quando lui scivolò nel letto accanto a lei, la vecchia paura riaffiorò improvvisamente. Per tutta la giornata, c’era stato molto affiatamento tra loro, come e quando avrebbe potuto fraintendere? David spense la luce. «Natalie?» chiamò sottovoce. Lei era immobile. «Sì?» «Non ti ho ancora detto che in autunno lascerò Southampton e mi trasferirò a New York. Andreas vuole che finisca i miei studi alla Columbia University.» «Sei contento?» «Non so... è una grande fortuna, no?» «Tutta la tua vita è stata molto fortunata, David. Questa gigantesca eredità ti è piovuta dal cielo in un certo senso. Una cosa del genere succede a una persona su un milione.» «Lo so» disse titubante. «Sembrava che ne fossi contento» disse Natalie. «Al Saint Clare non facevi altro che parlare del tuo fantastico futuro. Non se ne poteva più!» «Mi avrete considerato uno spaccone, vero?» «Qualche volta» rispose sinceramente. «Ogni tanto ci dava sui nervi.» David fece una pausa. Natalie pensò che si fosse addormentato. Ma poi d’un tratto disse: «la cosa assurda è che io non so più se voglio ancora tutto questo. Le Bredow Industries, New York, la ricchezza... Per tutta la vita ho pensato di volerlo, mi capisci, avrei fatto di tutto...» Già, pensò Natalie, anche tradire Steve e abbandonare Mary. Per l’amore del cielo, nessun rischio, mai! «Ma adesso è tutto così difficile... voi non sapete...» «Cosa non sappiamo?» «Non sapete niente di come sono cresciuto. Mia madre non si è mai ripresa dopo la morte di suo padre. Fu ucciso sotto il nazismo.» «Oh...» «In soggiorno, nella nostra casa, c’era un altarino con una sua fotografia, fiori, candele... e tutta la nostra vita è stata votata al suo ricordo. Mi raccontava cose terribili, e io avevo incubi spaventosi. Ha sempre voluto che condividessi le sue pene, voleva che io fossi suo confidente e amico, e mi ha amato e adorato. Poi è arrivato Andreas, che si è attaccato a me proprio come lei, mi vorrebbe giorno e notte al suo fianco e questo mi soffoca; qualche volta penso di impazzire. Mi ripetono in continuazione quanto hanno bisogno di me, e io credo che non la finiranno mai. Ma io non voglio tutto questo!» Alzò la voce, e in preda all’agitazione disse: «Non so se mi capisci, Natalie, ma ho la sensazione di non sapere chi sono. Cosa c’è nel mio futuro? Mi hanno riempito la testa con i loro desideri e le loro aspettative su di me al punto che non so più cosa io voglio veramente!» Natalie si allungò nella sua parte di letto e gli prese la mano. «David, perché non ce ne hai mai parlato prima?» «Perché...» Fece una risatina ingenua e indisponente a un tempo.


«Perché non avevo ancora capito qual era il mio problema! Allora sentivo solo una pressione enorme, avevo profondissimi sensi di colpa, perché loro erano così buoni con me e io invece avrei voluto urlare!» «Ascolta» disse Natalie con calma. «Io credo che tu sappia cosa vuoi. È solo che non hai il coraggio di farlo. Cosa dicevi sempre? ‘Diventerò talmente ricco che potrò fregarmene di tutto e tutti.’ Ecco! Non è proprio questo ciò che vuoi?» «Già!» Sembrò sollevato dal fatto che lei non cercava di indorare la pillola. «Già! Avrò soldi! Una vita meravigliosa! Auto e yacht e un jet personale, e quel fantastico attico su Central Park. Viaggerò intorno al mondo; non voglio che il fatto di avere i soldi diventi un problema. Sarà facile! E non voglio più pensare a quello che è stato, perché non posso farci niente! Non ho conosciuto mio nonno, e non posso più neanche essere la spalla su cui mia madre piange per il suo destino avverso. Non è stata colpa mia!» «Certo che non è stata colpa tua, David. È tutto okay adesso. Puoi desiderare qualunque cosa!» Lui trasse un profondo respiro. «Lo stavo maturando già da qualche tempo, e poi sei arrivata tu. Sei intelligente, Natalie, sei indipendente, una persona assolutamente vera. Con te è tutto naturale, nulla è artefatto.» Timidamente la avvicinò a sé. «Nat, ti prego, stammi vicino. Lascia che ti tenga tra le mie braccia. Ti prego!» «David, non posso. Con te non posso farlo...» «Non farò niente, Natalie. Voglio solo sentirti vicino.» Titubante glielo lasciò fare. Era sorprendentemente piacevole sentire sulla propria pelle il calore di un altro corpo. La sua testa era appoggiata sulla spalla di David, e lui la cingeva con un braccio. Parlarono ancora un po’, sottovoce, tenendosi stretti. Natalie era tranquilla e rilassata. Il suo respiro era regolare, e a un certo punto doveva essersi addormentata, perché più tardi ebbe come la sensazione di aver sentito un rumore e di essersi svegliata da un sogno confuso. Fuori la luna splendeva in un cielo stellato; sulle tende scolorite erano disegnate le ombre delle foglie che si muovevano leggermente al vento dell’albero di ciliegio che occupava il giardino davanti alla casa. Poi, vide passare un’ombra più grande, più scura, che scomparve subito. Natalie si drizzò ancora mezza addormentata e si allungò sopra David, che dormiva, per prendere il suo orologio sul comodino. Il quadrante illuminato segnava le due e qualcosa. Dormivano da un bel po’. «David!» Sentì che respirava tranquillamente. Lo scosse con calma dalle spalle. «David! Svegliati!» Bofonchiò qualcosa nel sonno. «Cosa c’è?» «David, hai chiuso la porta d’ingresso, vero?» «Cosa?» «La porta d’ingresso, l’hai chiusa?» «La porta d’ingresso?» Non era ancora pienamente sveglio.


«Sì, la porta d’ingresso! L’hai chiusa?» «No. Sì. Non lo so...» «Cosa vuol dire, non lo so? Ero convinta che la chiudessi tu!» In quel momento, Natalie fu certa di aver visto un’ombra davanti alla finestra. «David, mi stai dicendo che la porta d’ingresso potrebbe essere ancora aperta?» David voleva solo dormire. «Ti prego, Nat, non fare tutto questo casino! Siamo in campagna, è normale non chiudere le porte.» «Ma fuori c’è qualcuno!» «Hai fatto un brutto sogno» disse David e sbadigliò. Natalie si alzò e si infilò un accappatoio. «Vado a chiudere. Ho una brutta sensazione.» La luna splendeva luminosa, così non dovette accendere la luce. Percorse il piccolo corridoio, raggiunse la porta d’ingresso e armeggiò con la maniglia. Non si abbassava. Allora David l’aveva già chiusa. E forse io ho davvero sognato, pensò stancamente. La porta dell’altra stanza al pianterreno si aprì, e sulla soglia comparve la vecchia e magra insegnante con una pila tascabile in mano. Era avvolta in una vestaglia lunga fino ai piedi, e aveva i capelli sciolti sulle spalle. «C’è qualcuno?» Parlava con una voce stridula, quasi in falsetto. «Soltanto io.» Il fascio di luce della pila abbagliò Natalie, che alzò le mani in segno di difesa. «Sono Natalie Quint. Siamo qui da ieri pomeriggio. Sono venuta solo a controllare che la porta fosse chiusa.» «Anche lei ha sentito quello strano rumore in casa?» «No, quale rumore?» «Credo che si sia rotto il vetro di una finestra. Mi è sembrato lo stridio di un vetro in frantumi.» «Non ho sentito nulla» disse Natalie «ho solo creduto di aver visto un’ombra fuori.» Fece un risolino. «Forse ci siamo fatte suggestionare un po’ tutte e due.» Alla fine l’insegnante pensò bene di abbassare la pila in modo da non abbagliare più Natalie. Le due donne indugiarono un attimo non sapendo cosa fare, poi l’insegnante disse: «È solo a causa di quella storia di cui hanno parlato oggi alla radio...» Si interruppe. In modo assolutamente inaspettato, come venuta fuori dal nulla, una vaga figura comparve alle sue spalle. Più stupita che sconvolta, come se stesse vedendo la scena di un film, Natalie notò che l’uomo, ora lo vedeva bene, stava trafiggendo la donna all’addome con un coltello. La donna cacciò un urlo gutturale e si accasciò sulle ginocchia. La pila rotolò a terra con uno schianto e si spense. A Natalie servì qualche attimo per abituarsi di nuovo al buio. E anche la figura scura alla fine del corridoio non poté fare altrimenti. Per un attimo, rimasero entrambi lì fermi senza sapersi orientare. Poi Natalie capì che l’altro si stava muovendo verso di lei. Urlò, urlò come un animale in trappola, e solo alla fine riuscì a vedere qualcosa. Salì le scale più


velocemente possibile, senza sapere in realtà perché avesse scelto proprio quelle. Il suo accappatoio era troppo lungo, e sull’ultimo gradino inciampò nell’orlo e cadde. D’un tratto la luce fu accesa, forse l’uomo aveva trovato l’interruttore. Con la coda dell’occhio, Natalie riuscì a vedere altri due uomini vestiti di nero nel corridoio, e che il terzo si era lanciato sulle scale al suo inseguimento. Si trascinò carponi in bagno, sbatté la porta alle sue spalle e la chiuse a chiave. Da fuori qualcuno cercava di buttare giù la porta, il legno sottile scricchiolava fortemente. Natalie scivolò sul pavimento con tutto il corpo che tremava come una foglia. Pian piano cominciò a realizzare quello a cui aveva appena assistito: una anziana signora era stata uccisa davanti ai suoi occhi, uomini sconosciuti erano entrati in casa, uno di loro aveva cercato di fermarla, e Dio solo sa, cosa le avrebbe fatto se non fosse riuscita a raggiungere il bagno. Le piastrelle su cui giaceva erano fredde e umide. Natalie si tirò su con molta fatica, si aggrappò alla maniglia della porta e raggiunse l’interruttore della luce. La accese. Fu assalita dal panico quando sentì che qualcosa la tratteneva, ma poi capì che era solo la cintura dell’accappatoio che era rimasta incastrata nella porta. Sfilò la cintura per liberarsi, la lasciò cadere e barcollò contro la parete. Allo specchio di fronte sul lavandino, vide il riflesso del suo viso bianco come quello di un cadavere che, con occhi sbarrati, la guardava sconvolto. «Oddio, è un incubo» mormorò con disperazione. «Non può essere vero. Santo cielo, non è vero.» Si gettò un po’ d’acqua sul viso, per svegliarsi da quell’incubo, pensò. Non poteva essere vero, non poteva trovarsi in un bagno nel cuore della notte con la porta chiusa a chiave, mentre degli uomini vestiti di nero, che non sapeva cosa volessero, si aggiravano per la casa, avevano già ucciso una persona e probabilmente non si sarebbero fatti alcuno scrupolo di uccidere ancora. Si guardò intorno. Nel bagno c’era una finestra, ma si trovava al primo piano, e se fosse saltata giù in giardino, si sarebbe potuta far male e magari non si sarebbe più potuta muovere da dove fosse atterrata diventando così una facile preda per quei farabutti. La casa era talmente isolata che non avrebbe potuto sperare di chiamare aiuto e allarmare i vicini. Salì sul bordo della vasca e guardò fuori dalla finestra. Con sua grande sorpresa, scoprì che il balcone che si trovava alle spalle della casa arrivava fin sotto quella finestra. Con un po’ di agilità, avrebbe potuto raggiungerlo. Proprio in quel momento, giunse il botto di uno sparo. Natalie stava quasi per cadere dalla vasca, ma si aggrappò fortemente alla maniglia della finestra. Allo sparo seguì un profondo silenzio e d’un tratto pensò: David! Si portò la mano alla bocca per non urlare. Avevano sparato a David, ne era certa, avevano appena sparato a David. Scivolò sul bancone, abbassando la testa per non farsi vedere. Ogni muscolo del suo corpo era teso, ogni fibra all’erta. Il bagno era un posto sicuro, forse era stato un errore uscire da lì, ma aveva avuto la


sensazione di essere in una gabbia da cui non sarebbe potuta fuggire se qualcuno avesse buttato giù la porta. Doveva andarsene, magari verso il mare, o nascondersi tra le dune. Non aveva ancora idea di come scendere da quel dannato balcone. Si sporse dallo spigolo – il balcone correva lungo due lati della casa, a sud e ovest – e indietreggiò sussultando. Una finestra era illuminata. L’istinto l’avrebbe fatta tornare indietro. Si sarebbe rannicchiata in un angolo buio come una bambina e pianto senza speranze, tuttavia Natalie strinse i denti e rifletté, d’un tratto le era tornato in mente quello che Gina le aveva sempre detto: «Devi affrontare le cose che ti fanno paura. È come con gli squali. Loro si allontanano quando tu vai loro incontro.» Fece un passo in avanti e sbirciò nella finestra illuminata. Davanti a quella scena, cominciò a sudare freddo, si sentì soffocare e quasi le venne da vomitare. Stavano violentando Maxine. Quella doveva essere la camera di Maxine e Duncan perché era quasi tutta occupata da un grande letto matrimoniale. Le lenzuola erano state strappate via, le coperte erano scivolate giù, una sedia, su cui probabilmente erano stati appoggiati dei vestiti, era stata rovesciata spargendoli per terra. Maxine giaceva sul letto supina, con la camicia da notte tirata su fino alla vita. Uno degli uomini mascherati era inginocchiato sul letto e teneva la testa di Maxine tra le gambe mentre le puntava un coltello alla gola. Un altro le stava addosso e si muoveva in modo brutale. Maxine sembrava esanime e non emetteva alcun suono. Era paralizzata, gli occhi sbarrati. Natalie si chiese se stessero violentando un cadavere, ma poi si accorse che le dita della mano destra di Maxine si contraevano mostrando le punte delle nocche bianche. Natalie non ce la faceva più a guardare. Voltandosi, i suoi occhi vagarono nel resto della stanza, e sotto il lavandino scorse Duncan, a pancia in giù, con le braccia e le gambe divaricate e contorte in un modo assurdo. Intorno alla sua testa si allargava una pozza di sangue; era sicuramente morto. In tutto quell’orrore, sentì nascere dentro di lei una piccola speranza. Aveva sentito solo uno sparo, e se era stato quello destinato a uccidere Duncan, forse David era ancora vivo. Doveva scendere da quel maledetto balcone. Poteva toccarle la stessa sorte di Maxine. La guardò ancora una volta, e mai come in quel momento le fu chiaro che la vita si trascina sempre dietro le sue ombre con l’intento di toglierti in ogni momento la luce del giorno. Fece per voltarsi mentre uno degli stupratori si allontanava da Maxine, e poi tutto successe così rapidamente che lei quasi non riuscì a capire: un attimo dopo che l’uomo si era allontanato da Maxine, quando ancora le stava accanto ansimante, l’altro alzò la testa della donna prendendola per il mento e con un colpo secco le tagliò la gola. Natalie si aggrappò al muro e vomitò tutta la cena, poi si arrampicò sulla ringhiera del balcone e saltò giù. Atterrò sul terreno erboso umido


e rastrellato da poco. Doveva vomitare un’altra volta. Quando si alzò, vide tutto nero, ma cercò con tutte le forze di non svenire. Nonostante il terrore, quel po’ di forza che le rimaneva le ordinò di mantenersi in piedi e correre per mettersi in salvo. Si trascinò barcollando nel cortile davanti alla casa, e stava quasi per scoppiare in lacrime per il sollievo di essere arrivata fin lì quando vide David che usciva dalla porta. Sembrava ubriaco (in seguito venne a sapere che lo avevano colpito con un cazzotto sulla tempia). Nella lunga lettera che le scrisse qualche tempo dopo, in cui le spiegava quel che era successo cercando di giustificare il suo comportamento, le disse che in quel momento era semicosciente e non aveva capito chi gli stava andando incontro sbucando dall’oscurità. Aveva pensato fosse un altro del branco. Ma Natalie, ricostruendo ogni secondo di quella notte, era certa che David era in sé quando l’aveva guardata e l’aveva riconosciuta. Lo vide aprire la portiera dell’auto con le mani tremanti e scivolare sul sedile del guidatore. Senza preoccuparsi di essere vista dalla casa, Natalie si mise a correre verso l’auto. Avrebbe voluto strappare la portiera del passeggero che era ancora chiusa. Diede dei pugni al finestrino urlando: «David! Apri, David! Fammi entrare sbrigati!» Nel suo volto, illuminato dalla luna, vide due occhi allucinati che la guardavano. Era cadaverico. «David!» Era la sua quella voce isterica e strozzata che squarciava la notte? «David, in nome di Dio, apri questa dannata portiera!» Altri pugni contro il finestrino, ma ora avvertiva un dolore pungente che dalla mano arrivava fino al braccio. Si era rotta il mignolo, ma in quel momento era talmente sopraffatta dalla paura che non poteva soffermarsi sul dolore neanche un attimo. Urlò il nome di David ancora e ancora con tutte le forze, mentre, esterrefatta, lo guardava mettere in moto e sfrecciare via. Quando girò l’angolo a tutta velocità, si sentirono le ruote sgommare. In quel momento, qualcuno alle sue spalle le mise una mano davanti alla bocca e la trascinò in casa. Natalie aveva sempre pensato che non sarebbe sopravvissuta se fosse stata violentata. Al Saint Clare, lei, Gina e Mary avevano parlato spesso di cosa immaginavano fosse la cosa peggiore che potesse capitare loro nella vita. In quel periodo Gina aveva un incubo ricorrente in cui moriva soffocata a causa di un grosso oggetto misterioso conficcato nella sua bocca, e quando si svegliava le mancava il respiro. Aveva dichiarato che la cosa peggiore che potesse capitarle era di essere sepolta viva e mangiare la terra che le avrebbe pian piano tolto l’aria. Mary invece, che non aveva mai imparato a nuotare, aveva il terrore dell’acqua, e il pensiero più atroce per lei era annegare. Natalie era l’unica a pensare che la morte non fosse la cosa peggiore che le potesse capitare. «Meglio morire che essere violentata. Qualunque altra cosa, ma non questo!» Nel soggiorno c’erano tre uomini; la violentarono a turno. Natalie


giaceva sul tappeto, uno le teneva le mani strette sulla testa, un altro le schiacciava le gambe divaricate sul pavimento, e il terzo la stuprava. Era un dolore atroce, ma Natalie riusciva sempre a ricacciare le urla in gola. Ogni volta pensava: Adesso urlo, adesso urlo, adesso urlo! Ma non urlava mai; era paralizzata a terra, muta come Maxine. Sulla parete che le stava di fronte, vedeva una fotografia in cornice che ritraeva Maxine e Duncan nel giorno del loro matrimonio. Duncan indossava un completo un po’ troppo stretto e rideva imbarazzato, e Maxine aveva i capelli raccolti in uno chignon molto alto e portava un lungo e svolazzante velo in tulle. Sembrava molto felice e innamorata. L’immagine rimase così impressa nella memoria di Natalie che anche dopo tanti anni era ancora capace di descriverla in ogni minimo particolare. Perché erano dovuti morire? Perché erano nella loro camera al piano di sopra in un lago di sangue? Cosa era successo? Non aveva senso! Perché lei doveva sopportare una tale mostruosità? D’un tratto si chiese se anche Gina e Mary avrebbero visto realizzare i propri incubi. Forse un giorno Mary sarebbe annegata, e Gina sarebbe stata sepolta viva. La ferocia dell’uomo non ha limiti. Al suono delle sirene delle auto della polizia, il branco si staccò dalla preda. Natalie andò subito a rincantucciarsi in un angolo tra due sedie guardandosi intorno come un animale braccato. Non aveva idea di essersi morsa le labbra che ora le sanguinavano facendo scorrere il sangue fin sotto il mento. In seguito, le dissero che aveva uno sguardo disumano quando gli agenti di polizia l’avevano trovata, e che aveva anche opposto resistenza urlando a squarciagola quando avevano cercato di metterla in piedi. Non si rese conto che ci fu un conflitto a fuoco tra i poliziotti e i criminali nel quale morì uno della banda. Più tardi uno degli agenti spiegò a Natalie: «Questi uomini appartengono a un gruppo di fanatici dediti a riti satanici e messe nere. Sicuramente ha già sentito parlare di strani rituali celebrati nelle notti di luna piena in qualche vecchia chiesa in rovina... durante i quali, i cuori di pecore insanguinati vengono appesi alle porte, o le budella ancora calde degli animali offerti in sacrificio vengono mangiate insieme a un tremendo intruglio di erbe. Secondo le loro dichiarazioni, hanno ricevuto l’ordine di epurare il mondo dai peccati, e sono convinti che la personificazione del peccato sia la donna. Sono ossessionati dal pensiero che le donne debbano essere violentate e ammazzate.» «Perché» chiese Natalie stancamente, «hanno ucciso Duncan?» «Perché ha cercato di impedirglielo. Ma gli hanno semplicemente sparato. A una donna non sparerebbero mai perché una donna deve essere ammazzata con la massima crudeltà nel massimo rispetto della loro macabra fede.» La guardò con insistenza. «Mi ha capito?» ripeté. «Sì» rispose, ma le sue parole le giungevano come attutite attraverso uno spesso velo. Visse come in un sogno anche l’udienza in tribunale, a cui fu chiamata a testimoniare. Uno degli stupratori le sputò in faccia quando gli passò davanti, ma lei se ne accorse appena. Erano passate


quattro settimane da quella notte a Crantock, e quel giorno, davanti al tribunale, rivide David per la prima volta da allora. Aveva rimandato indietro tutte le sue lettere, tranne una, senza neanche aprirle perché non voleva più leggere delle sue spiegazioni, le sue scuse, i suoi sensi di colpa. Ogni volta che lui le aveva telefonato, lei aveva riagganciato. Era anche andato da lei a King’s Lynn per vederla ma lei non gli aveva aperto la porta. Lì, in tribunale, l’aveva presa per un braccio. «Natalie! Ti prego, lasciami spiegare...» Lei si era divincolata. Per un attimo, aveva avuto la sensazione di essere pronta a parlargli e forse perdonarlo, ma poi d’un tratto la nebbia che l’aveva avvolta soffocandola per tutto quel tempo sembrò diradarsi, e immagine dopo immagine il ricordo di quella notte riaffiorò nella sua mente, rinnovando la paura e il dolore. Non poteva perdonarlo, non ancora; e forse non avrebbe potuto farlo mai. Lasciò l’aula del tribunale; gli ultimi passi li fece quasi correndo e non si voltò indietro neanche una volta.

6 Natalie pregò di non spegnere la luce. Non era sicura di poter sopportare il buio. Non è ancora buio fitto, si disse, si vedono ancora la consolle delle luci e il proiettore. Faceva caldissimo nel capannone. Una fabbrica dismessa nella periferia di Norwich, in cui si erano riunite migliaia di persone. Mentre fuori una giornata di settembre stava volgendo al termine in un tramonto incandescente, lì dentro la temperatura era salita a quaranta gradi. Le persone, per lo più giovani, erano ammassate come le sardine e sentivano il sudore l’una dell’altra sulla propria pelle. Il luogo era illuminato dai neon montati sul soffitto. Ma quando fossero stati spenti, i fasci di luce degli occhi di bue sarebbero stati diretti sul palco dove sarebbe comparso Billie Crime, la nuova rockstar americana, idolo dei giovani di tutto il mondo. Natalie diede un’occhiata alle ragazzine; erano in visibilio, i volti carichi di entusiasmo impaziente. Senza dubbio aspettavano quella serata da settimane. E senza dubbio, pensò Natalie, sono qui perché lo hanno scelto loro. Lei invece era lì su incarico del signor Bush per scrivere un articolo sul concerto da pubblicare su Limelight. Poiché dopo Crantock aveva paura quasi di tutto – per esempio del buio, delle folle e degli spazi chiusi – l’idea di dover andare in quel posto era stato il suo incubo per giorni. Aveva fatto training autogeno, ascoltato ogni giorno le sue nuove cassette in cui una voce maschile profonda e dolce cercava di convincerla del fatto che lei era una persona calma, forte e ottimista. Quando era arrivata a Norwich, per poco non aveva causato un incidente perché era così nervosa che a un incrocio era passata col rosso. In albergo aveva


fatto un bagno caldo, ma ciononostante le era venuto un attacco di emicrania. Non aveva mai sofferto di mal di testa! Era uscita dalla vasca, si era asciugata i capelli e infilata i jeans. Aveva indossato una camicia bianca di taglio maschile, una cintura in pelle color argento e un paio di catenine d’argento. La sera si sentiva così male che aveva deciso di non andare al concerto e di scrivere un pezzo inventato; conosceva la musica di Billie Crime, e i suoi spettacoli erano più o meno sempre gli stessi. Quell’idea l’aveva fatta sentire un po’ meglio, ma poi aveva ricevuto la telefonata del signor Bush. Non lo aveva riconosciuto subito perché aveva una voce molto eccitata. «Abbiamo ottenuto un’intervista con Billie Crime! Natalie, sono riuscito a organizzare il tutto. Subito dopo lo spettacolo, deve andare nel suo camerino. Ma mi raccomando, sia puntuale; se fa anche solo trenta secondi di ritardo, Billie Crime potrebbe cambiare idea!» Il signore Bush aveva riso nervosamente. «Se manda tutto all’aria, Natalie, per lei saranno guai, mi ha capito?» Natalie aveva risposto con un risolino a denti stretti, ed era scoppiata in lacrime subito dopo aver riagganciato. Doveva andare per forza, era chiaro; non poteva rischiare di perdersi la fine del concerto e mancare l’appuntamento. Prese due aspirine, si lavò via le lacrime nere a causa del mascara colato e si incamminò su due gambe pesanti come il piombo. Successe proprio quel che temeva: non appena spensero la luce e gli occhi di bue, sistemati da qualche parte nel buio, furono orientati sul palco, prese a girarle la testa e il suo unico pensiero fu: la fuga! Quando poi il frastuono della musica cominciò e Billie Crime, vestito d’argento scintillante, si precipitò sul palco, Natalie pensò che la sua testa sarebbe scoppiata in mille pezzi. Le tremava la vista. Nel capannone si levò un lungo urlo delirante da migliaia di gole, talmente assordante da rompere i timpani. Il pubblico era fuori di sé, si vedevano solo braccia alzate che applaudivano e contemporaneamente si sentivano battere i piedi per terra. Natalie ebbe l’impressione che in meno di un secondo la temperatura fosse salita ancora di altri dieci gradi. Era in un bagno di sudore. La sua claustrofobia andava a nozze in un posto come quello; disperata, anche se inutilmente, cercò di scacciare via la consapevolezza che non sarebbe potuta uscire di lì. Persino scalare il monte Everest sarebbe stato più facile che riuscire ad attraversare quella folla. Natalie notò il viso stravolto di una ragazzina che le stava accanto. Indossava una T-shirt di Billie Crime, una minigonna decorata con dei bottoni di Billie Crime, e portava una collana da cui pendevano delle lettere argentate che formavano la frase: «Io amo Billie». Guardò Natalie con occhi raggianti e le sorrise mostrando disinvolta i suoi denti da cavallo. «Non è fantastico?» urlò. Natalie annuì debolmente, desiderando trovare qualcosa su cui potersi aggrappare. Stava per avere un attacco di panico. Era la stessa brutta sensazione che la assaliva quando doveva attraversare in macchina una galleria buia, o si sentiva bloccata nella calca di un mercato di sera


mentre calava il buio, o se rimaneva imbottigliata nel traffico. Di solito scoppiava a piangere e quasi collassava. Ma non poteva succedere ora, doveva assolutamente resistere fino all’intervista. Si concentrò su una ragazzina che le stava davanti, in un certo senso si aggrappò visivamente a lei in modo da non sentire che le mancava il terreno sotto i piedi. Cercò di descriverla nella sua testa per mettere un po’ di ordine in quel vortice di pensieri. La ragazzina ha i capelli biondo scuro, è molto magra, indossa un abitino in maglia con una cintura larga... i capelli le arrivano fino al sedere... ho sempre desiderato dei capelli così lunghi... e poi i suoi pensieri vagarono in un’altra direzione senza che lei riuscisse a trattenerli. È notte a Crantock, quelli tagliano la gola a Maxine, David fugge, e poi la violentano... Prese a respirare affannosamente. Al diavolo Billie Crime, non sarebbe rimasta lì un secondo di più. Diede un colpetto sulla spalla alla ragazzina con i denti da cavallo. «Mi fai passare per favore?» «Cosa?» «Non mi sento bene... lasciami passare per favore...» Doveva gridare per farsi capire. Il sorriso con i denti da cavallo la guardò come se stesse parlando in cinese. Natalie si avvinghiò al suo polso senza rendersi conto che contemporaneamente le affondò le unghie nella mano. «Ti prego... devo uscire...» La sua voce era diventata stridula. La ragazza strabuzzò gli occhi azzurro chiaro. Ma se anche al sorriso con i denti da cavallo si fosse accesa la lampadina e avesse capito le parole di Natalie, non sarebbe comunque riuscita a fare un passo. Era bloccata anche lei. Quando Natalie capì che non aveva via d’uscita, cominciò a urlare. Urlò, e urlò, ma nessuno se ne accorgeva nella confusione generale. Solo quando ebbe la sensazione di non sentire più tutta quella gente intorno e tutto quel frastuono nelle orecchie, le paillette del costume di Billie Crime diventarono stelle nel cielo e lei si accasciò sulle ginocchia, solo allora qualcuno si accorse che non stava bene, e tra la musica e le grida assordanti si levò una voce che urlava: «Serve un infermiere! Veloci, un infermiere!» Il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi fu che il signor Bush l’avrebbe licenziata.


Gina

1 Gina era sulla portafinestra della sua camera da letto e guardava fuori in giardino. La balaustra in marmo bianco del terrazzo luccicava, l’aria calda profumava di rose e glicini in fiore e un po’ anche di salvia selvatica. Da qualche parte giungeva lo squillante cinguettio di un uccellino. Sulle pareti della stanza andava in scena una danza di ombre. I raggi del sole illuminavano dolcemente i piccoli alberi d’arancio nei vasi d’ottone davanti alle colonne della veranda. John si era tolto la cravatta, e stava steso sul letto con le mani incrociate sotto la testa. Era stata una lunga giornata, ed era molto stanco. Gina osservò il suo viso: gli zigomi spigolosi molto pronunciati, la mandibola squadrata, le labbra strette. Era un viso talmente regolare che Gina al suo fianco sembrava assolutamente fuori posto. Ogni parte in lui era in armonia con il resto: il naso, il mento, la fronte, tutto era perfettamente in proporzione. Portava i capelli neri pettinati all’indietro e con la riga di lato. Sopra gli occhi castano scuro profondamente cerchiati, le sopracciglia erano due linee dritte. Le occhiaie si vedevano chiaramente al mattino, perdevano un po’ d’intensità durante la giornata e riapparivano più profonde a sera, quando John si sentiva molto stanco; erano l’unica cosa che, insieme alle rughe a destra e a sinistra della bocca, interrompeva l’armonia di quel viso. Gina era convinta che John portasse meglio i suoi anni adesso che ne aveva quaranta, di quando era più giovane. Distolse lo sguardo da lui e diede un’occhiata intorno nella stanza. Inizialmente, quel posto era stato la sua oasi felice. La carta da parati in seta giallo pallido, le comode poltrone in velluto color guscio d’uovo, il soffice tappeto bianco crema, e le tende in velluto color champagne sulla grande portafinestra che dava in giardino creavano un ambiente accogliente e luminoso. Sui lampadari di cristallo c’erano candele dorate. I posacenere, i vasi, le fruttiere erano d’oro massiccio. Era il trionfo del lusso, della bellezza e della sfarzosa opulenza. E fuori, lo splendido paradiso della California, un giardino a Beverly Hills lontano da smog e caos, curato, profumato e colorato. «Sembri avvilita» disse John dal letto, «c’è qualcosa che non va, amore?» Le salirono le lacrime agli occhi perché l’aveva chiamata «amore». La


sua dolcezza la sconvolgeva. Dall’inizio della loro relazione, John aveva sempre trovato curioso il fatto che Gina si commuovesse per qualunque cosa considerasse bella e romantica, quando, al contrario, non versava neanche una lacrima se qualcuno la attaccava. Quando litigava sapeva essere assolutamente fredda e cinica, ed esprimeva il giusto grado di sarcasmo, causticità, aggressività a seconda della situazione; si poteva infierire su di lei nei modi peggiori senza che lei si levasse dalla bocca un sorriso beffardo. Ma davanti a un magnifico tramonto ammantato di rosso, blu e viola sulle acque del Pacifico rimaneva letteralmente senza fiato. «Consumerai un oceano di lacrime» le diceva spesso John, «se piangi ogni volta che vedi una cosa bella.» Si alzò dal letto, le si avvicinò e l’abbracciò appoggiando il capo sulle sue spalle. «Cosa c’è che non va, Gina?» «Nulla, John, davvero. È che non mi sento bene, tutto qui.» Si passò una mano sulla fronte. Non riusciva a scacciare quell’immagine... David che, illuminato dal sole, rideva: c’era qualcosa in quella risata, qualcosa di sinistro... che l’aveva riempita di un folle terrore che non la lasciava in pace. «Scendo giù a preparare un drink» disse John, «vieni anche tu?» Fece cenno di sì col capo, e lo seguì con lo sguardo mentre usciva dalla stanza. John aveva una voce calda, e lei pensò: Ti amo troppo, e questo non va bene.

2 Gina Loret veniva da una famiglia originaria di Marsiglia, sulla costa meridionale francese. «Gina non sarà la figlia di un commerciante di seta, ma è destinata a una vita grandiosa» le aveva sempre detto suo padre. Nel diciottesimo secolo, al culmine del terrore giacobino, un rampollo della famiglia, il giovane Jacques Loret, si era salvato dalla ghigliottina perché era riuscito a scappare, emigrando in Inghilterra. Lì aveva dato origine al ramo inglese della famiglia e gettato le fondamenta per una fama e una ricchezza che sarebbero durate per generazioni: comprò un piccolo emporio nella zona sud di Londra e lo amministrò con estrema abilità, tanto da farlo diventare un grande magazzino. Gli affari prosperarono e alla fine in tutta l’Inghilterra c’erano ben quattro negozi che portavano il nome Loret: tra questi una famosa pasticceria. Tuttavia, il nonno di Gina, Brian Loret, era un malfamato giocatore d’azzardo che, fino alla morte, dilapidò tutti i soldi che aveva e anche quelli che non aveva sotto gli occhi indifferenti dei croupier. Quando il padre di Gina ereditò i negozi, avevano già i conti in rosso. Come spesso accade quando una famiglia molto ricca cade in disgrazia, Andrew Loret, sua moglie Jennifer e l’unica figlia Gina continuarono


comunque a vivere in modo molto agiato, mantenendo, in un certo senso, un alto tenore che in realtà non potevano permettersi. Andrew era un uomo silenzioso, malinconico, che indossava solo biancheria di seta, si faceva il bagno tre volte al giorno, soffriva di misteriosi disturbi gastrici e si nutriva principalmente di caviale e cuori di carciofo. Jennifer aveva un temperamento esuberante, e viveva fuori dalla realtà; era capace di andare al mercato del pesce con indosso gioielli dal valore inestimabile, solo perché la sera prima aveva dimenticato di toglierli di ritorno dal party di turno. Amava un po’ troppo l’alcol. Come Andrew adorava la piccola Gina, la loro splendida bambina con i capelli castano scuro e gli occhi color topazio. Durante l’anno, tutti e tre insieme facevano viaggi straordinari. Nizza, Monaco, Marbella, Acapulco, Rio de Janeiro, l’Australia con le sue bellezze naturalistiche, l’Africa e la sua steppa, Melbourne, Tokyo, Parigi, New York, San Francisco – non c’era posto del pianeta che Gina non avesse già visitato. Tuttavia, della maggior parte dei luoghi ricordava poco o niente, perché era ancora una bambina nel passeggino quando c’era stata. Ricordava invece che ogni anno a luglio trascorrevano tre settimane in una casetta nel Nord dell’Inghilterra, vicino al confine con la Scozia, insieme al fratello di Andrew, Robert, la sua insopportabile moglie Margaret, le loro quattro figlie e, naturalmente, la nonna Loret. La casa apparteneva alla nonna, ed era lei quella che teneva alla tradizione di riunire lì tutta la famiglia. Stranamente, accondiscendevano tutti a quel desiderio, anche se poi lì pioveva quasi per tutta la vacanza o era una lite continua. Ciononostante, e sebbene odiasse il freddo, la pioggia e le cugine, quando ripensava a quelle estati in famiglia, Gina provava ancora un senso di sicurezza e calore. La nonna Loret apparteneva a quel genere di vecchie signore tenaci che montavano ancora a cavallo a ottant’anni suonati, lasciando che la polvere coprisse trucchi e gioielli. Se ne andava in giro per la casa in jeans e pullover, con i capelli bianchi legati con un semplice fiocco di seta nera. Beveva latte di mucca appena munto e mangiava solo il pesce che aveva pescato lei stessa nel lago vicino; quando alla televisione trasmettevano le sfilate di moda faceva osservazioni sprezzanti sulle «donne in ghingheri», e fumava come una ciminiera. Gina, che rischiava di diventare una bambolina viziata e snob (sua madre si era adoperata esattamente in quella direzione), aveva ricevuto da sua nonna qualcosa che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Anche in seguito, quando andò a vivere con John in California contornata da tutto quello che una persona poteva desiderare, non dipese mai dal lusso. Certo, le faceva piacere viverci in mezzo, ma riuscì sempre a non farsi travolgere. Nella piccola casa nel Nord dell’Inghilterra c’era soltanto un bagno per tutti, riscaldato da una grande stufa in ferro, in cui ogni mattina la nonna accendeva il fuoco. Gina adorava sentir crepitare i ciocchi di legno. Nella vecchia vasca da bagno con i piedini, c’erano sempre ombrelli aperti


lasciati ad asciugare, e nel corridoio si poteva facilmente inciampare in stivali in gomma, racchette da ping-pong e libri sui cavalli. Era il tipico quadretto della «grande famiglia felice», peccato però che si litigava per tutto il tempo, con Jennifer a brontolare che la cognata Margaret era una stupida boriosa imborghesita. Gina aveva sei anni quando l’incanto si spezzò. Era luglio e pioveva; le vacanze nel Nord dell’Inghilterra erano finite. Jennifer sognava di andare ai Caraibi, e Andrew le aveva promesso che ce l’avrebbe portata in agosto. Stavano tornando a casa con la loro grande e vecchia Bentley. Come sempre guidava Andrew, data la sua passione per la guida. Né lui né Jennifer avevano allacciato la cintura di sicurezza. Gina era seduta sul sedile posteriore, incastrata tra valigie, soprabiti e un cestino da picnic. Sfogliava un libro illustrato. La pioggia battente era talmente fitta da sembrare una cortina grigia che scendeva sulla strada nera fiancheggiata dagli alberi, le cui verdi fronde erano bagnate fradice. Ogni tanto, si vedeva qualche pecorella smarrita saltar fuori qua e là dalla nebbia davanti alle automobili in corsa. Jennifer si guardò nel suo specchietto da borsetta. «Sono terribilmente pallida. Non c’è da stupirsi se non ho preso neanche un po’ di colore con questo tempo; semmai passare le vacanze lassù mi ha reso ancora più bianca di quanto non sia già. Non lo trovi anche tu, Andrew?» Andrew le diede una occhiata. La guardò con dolcezza e amore. Ma un po’ troppo a lungo. E un po’ troppo tardi, quando non poteva più azzardare alcuna manovra per evitarla, vide l’auto sportiva americana bianca, piena di ragazzi scatenati, che gli sbucava d’un tratto davanti. Entrambe le auto procedevano a una velocità molto elevata, ed entrambe tagliarono la curva; purtroppo però la loro corsa terminò a metà di quella curva con un orribile schianto frontale. Le due auto erano quasi irriconoscibili, sembravano un enorme ammasso informe di lamiera. Quando giunsero sul posto la polizia e l’eliambulanza, la pioggia cadeva ancora incessante. Delle otto persone coinvolte nel tragico incidente riuscirono a estrarne viva soltanto una: Gina. Oltre a un grave shock, Gina riportò una frattura della colonna vertebrale e rimase un mese ricoverata in ospedale. Quando fu dimessa, era magra come uno stecchino, e bianca come un lenzuolo, ma, per fortuna, aveva ancora l’uso delle gambe, e non avrebbe dovuto passare il resto della vita su una sedia a rotelle come avevano temuto i medici. Il fratello di Andrew, Robert, aveva dichiarato che non poteva fare nulla per Gina, così fu la nonna Loret che andò a prendere la nipotina in clinica. «Se sei d’accordo» le disse, «d’ora in poi vivrai con me.» Vissero insieme due anni circondate dalla natura incontaminata, e pian piano e con molta difficoltà le ferite dell’anima di Gina cominciarono a guarire. Gli affari già compromessi del padre defunto fallirono del tutto. Nel giro di una notte, i negozi Loret non esistevano più; una società americana li


rilevò per quattro soldi. Quando la vecchia e indistruttibile signora Loret morì inaspettatamente a causa di un ictus, la piccola Gina, che nel frattempo aveva compiuto otto anni, rimase sola al mondo; con un fondo fiduciario che la nonna aveva salvato dal fallimento e che aveva depositato presso uno studio legale londinese. Nessuno poteva mettere le mani su quei soldi eccetto l’avvocato che doveva amministrarli per la migliore istruzione possibile per una bambina in Inghilterra. Furono appena sufficienti. Joyce Hamilton era una cugina della defunta Jennifer, ma le due donne non erano mai state neanche minimamente legate. Da ragazze erano andate a scuola insieme, ma si erano sempre odiate. Joyce cercava di copiare il modo elegante in cui vestiva Jennifer, ma poiché era più piccola e più cicciottella, non era mai riuscita ad assomigliare alla cugina. Viveva con suo marito Fred in un piccolo paese nel Kent. Ogni giorno se ne andava in giro per le strade del paese per spettegolare sugli usci di casa con le altre donne. Nella sua piccola casupola, anche se aveva cucinato qualcos’altro, per motivi imperscrutabili c’era sempre puzza di cavolfiore. (Che si mangiassero solo cavolfiori in casa Hamilton?) Si affannava a tenere tutto in ordine e pulito, ma i suoi camicioni a fiori grandi e le sue scarpe consunte avevano sempre un’aria trasandata e sporca. Ogni sabato puliva il giardino per ore, poi si lavava i capelli e metteva grossi bigodini. La domenica indossava una camicetta bianca con le ruche e una gonna nera molto stretta – tanto stretta da lasciare intravedere i segni della biancheria – toglieva i bigodini che le lasciavano splendidi riccioli corti e biondini e se ne andava in chiesa. Durante la settimana, fino al venerdì, i suoi capelli si sgonfiavano tornando inevitabilmente lisci come spaghetti e le si attaccavano sul cuoio capelluto. La gente diceva che erano i capelli della moglie a spingere Fred Hamilton così spesso in birreria. A Joyce piaceva essere considerata da tutti ‘una buon samaritana’. Per di più aveva uno spiccato bisogno di potere, e il fatto di sapere che qualcuno dipendeva da lei la rendeva felice. Per quel motivo, e forse chissà anche per un desiderio di rivalsa nei confronti di Jennifer, decise di accogliere in casa Gina, la piccola orfanella. La vita nel gretto nido perbenista della zia era molto diversa da quella che Gina aveva conosciuto, e forse una bambina un po’ meno forte non avrebbe retto. Ma Gina doveva aver ereditato la stessa indole tenace di nonna Loret, e che si rivelò di vitale importanza. I suoi genitori le avevano fatto conoscere il lusso, la bellezza, paesi lontani, le avevano dato la possibilità di ampliare gli orizzonti mentali; la nonna le aveva insegnato l’autoironia, l’indipendenza e il dinamismo. Ora, da zia Joyce Gina prese una lingua tagliente e la capacità di difendersi. Insomma, diventò una ragazza interessante, che tutti pensavano sarebbe andata dritta per la sua strada senza farsi scalfire da niente e nessuno. Forse il povero Charles Artany, suo corteggiatore per anni e poi marito, fu


l’unica persona a conoscenza della sua anima ferita e del fatto che la sua passione per i paesi caldi dove splende sempre il sole era la conseguenza del suo animo freddo e cupo. Una sera, subito dopo gli esami finali al Saint Clare, la invitò a un concerto a Londra. Lei si presentò con un abito di pizzo bianco, senza gioielli, e con i lunghissimi capelli castani sciolti; aveva un’aria così fragile e delicata che gli venne un nodo in gola. Lui sapeva che la musica la faceva commuovere, ma fu serena per tutta la serata finché alla fine sul palco giunse una cantante tedesca che interpretò Mignon di Goethe. «Conosci il paese dove i limoni fioriscono, tra le foglie scure le arance splendono...» Gli occhi di Gina si riempirono di lacrime mentre stritolava con le mani la borsetta. La cantante aveva una calda voce profonda. «...marmoree statue ti volgono lo sguardo: oh povera fanciulla, cosa ti hanno fatto?» Gina balzò in piedi e lasciò la sala. Charles le andò dietro, naturalmente, e senza rendersene conto la seguì nel bagno delle signore, dove la trovò seduta su una sedia scossa dai singhiozzi, con la signora delle pulizie che cercava invano di consolarla. «Ma signorina, non vale la pena piangere per un uomo!» Poi notando Charles, stravolto, aggiunse: «E lei cosa ci fa qui? Se ne vada! Non vede che questo è il bagno delle signore?» Charles non si preoccupò affatto della signora. «Gina, cosa c’è? Perché stai piangendo? Non stai bene?» «Oh, dannato di un Charles Artany!» Alzò lo sguardo. «Non hai ancora capito che piango sempre davanti a uno spettacolo meraviglioso?» Charles fu pervaso dall’impulso prepotente di abbracciarla, rassicurarla e prometterle che si sarebbe preso cura di lei per tutta la vita. Ma non lo fece perché in cuor suo sapeva che lei non lo voleva. Lui era il buon amico, quello con cui andare al cinema o a un concerto. Nulla più. Tutto sommato, Gina riuscì abbastanza a evitare la zia Joyce. Visse nella sua casa orribile per due anni, poi – per esaudire le volontà della nonna – fu mandata nell’esclusivo collegio Saint Clare, dove ritrovò il mondo che aveva perso. Col tempo, preferì trascorrere sempre di più le vacanze estive in Somerset da Natalie, oppure con Mary e suo padre in collegio. Tuttavia un paio di volte, la zia Joyce insisté energicamente per rivedere la sua protetta. E Gina, per vendicarsi, si presentò in minigonna e tacchi a spillo, e con due labbra rosse come quelle di Brigitte Bardot. Portò lo zio Fred in giro per locali, e gli offrì la spalla per piangere quando, in preda ai fumi dell’alcol, crollò sotto il peso del dolore cosmico. Lo zio le piaceva, lo considerava un poveretto noioso che non faceva male a una mosca. Invece zia Joyce, credendo la figlia di Jennifer capace di chissà quale malizia, pensò subito che tra i due ci fosse qualcosa di più. Poi zia Joyce ebbe una brutta colica biliare, che la confinò sei settimane a letto, costringendo una furente Gina a passare tutte le vacanze estive al suo capezzale a farle da infermiera. La zia


Joyce non tollerava né la finestra aperta né le tende tirate nella sua stanza. E si lamentava in continuazione lì stesa nel letto in quella soffocante aria viziata e in eterna penombra. Ogni giorno, Gina doveva spalmarle su tutto il corpo una tremenda lozione dal profumo dolcissimo che le faceva venire la nausea. Quanto odiava quel puzzolente corpo grassoccio e pieno di rughe! Quanto odiava quella donna! Naturalmente Joyce avvertiva quella repulsione. «Non troverai mai nessuno che ti ami» le diceva con malignità. «Chiunque ti conoscerà davvero, non ti amerà mai. Mi fai male! Sei come tua madre, superficiale, vuoi solo divertirti e non sai cosa siano i veri sentimenti! I tuoi unici pensieri sono i bei vestiti e come far impazzire gli uomini! Ma le donne come te non vanno lontano.» Faceva cenno di sì col capo soddisfatta e poi aggiungeva velenosa: «Un giorno, quando mangerai la polvere, ti ricorderai delle mie parole!»

3 Gina guardò Natalie, che, con un asciugamano avvolto intorno al corpo nudo, lasciò la stanza e andò in bagno. Quella mansarda era un forno. Ci si appiccicava alle lenzuola. Gina dondolò ancora un po’ sul letto, e poi si alzò. Andò alla finestra aperta e sbirciò tra i rami dell’albero di melo. Il vento più fresco della sera taceva, e sul piccolo paese della costa francese indugiava ancora una cappa di afa opprimente. Dalla cucina, che si trovava proprio sotto di lei, giungevano le voci allegre di David e Steve. Sto passando davvero delle splendide vacanze qui! E che meraviglia di amici che ho! Il tempo è bello e tutto va a meraviglia! Quel che le era appena accaduto con Natalie, non l’aveva né sconvolta né spaventata. Le era piaciuto; era stato dolce, eccitante, ma sapeva che non sarebbe più successo, o quantomeno a lei non sarebbe più successo. Per Natalie era stato diverso, ne era certa. Ripensò a come l’amica si era stesa sul suo letto, all’erotismo con cui si era comportata, alla sua pelle d’oca. Era stata lei a prendere l’iniziativa, e per tutto il tempo aveva sentito il suo corpo caldo e fremente di emozione. Natalie era lesbica. Di scatto si distolse dalla finestra. Un senso di colpa risvegliò dentro di lei la paura di chi ripone in qualcuno delle speranze che poi rimangono deluse. L’unica cosa che per un attimo la fece sorridere fu l’immagine di zia Tante che lo scopriva e che si faceva venire un’altra colica per lo spavento. Siccome in quel momento non voleva vedere Natalie, si infilò svelta l’accappatoio, si spazzolò i capelli, si mise un po’ di rossetto e lasciò la stanza. Ai piedi della scala si imbatté in David. La fissava. «Ciao, David» gli disse allegra, «mi stai guardando come se non mi


avessi mai visto prima. È tutto okay?» «Sì, è tutto a posto» rispose David in tono un po’ soffocato. Lei gli passò davanti e andò in cucina. «Cosa avete comprato? Oh, spaghetti, pomodori, formaggio, cipolle! Bravi! Allora su, diamoci da fare a cucinare!» «Okay» replicò David. La fissava ancora. Poi ci fu la vicenda di Steve e suo fratello, gli eventi precipitarono e il sole delle vacanze a St Brevin fu ingoiato da una nebbia che avviluppò il passato portandosi via definitivamente il tempo della spensieratezza. Niente più tè con gli amici intorno a un tavolo a lume di candela, niente più nottate passate a chiacchierare fino all’alba, niente più feste con annessi spinelli. Erano tutti vittime di uno strano maleficio; non si erano mai sentiti così uniti, e non sarebbero mai più stati così uniti. Il vento li separò, il gruppo si disgregò; d’un tratto si ritrovarono da soli ad affrontare la vita e cominciarono a capire quanto quella potesse essere inaspettatamente crudele. Il problema più grande per Gina era la penuria di soldi. Tutto ciò che la nonna Loret le aveva lasciato era stato destinato alla scuola, le lezioni di tennis, le lezioni di guida, vestiti alla moda, biglietti per concerti e vacanze. Lo stile di vita di Gina si era adeguato al Saint Clare, cioè arrivava a spendere fino a mille sterline al mese. E ora, sul conto le erano rimaste poco più di cinquecento sterline, come le aveva comunicato l’avvocato. «Nella migliore delle ipotesi diventerai segretaria» le disse zia Joyce. «Ho già parlato con il signor Richard.» Il signor Richard era il titolare di un emporio nel paese. «Ha bisogno di qualcuno che si occupi delle scartoffie per lui. Ha già detto che ti assumerà e ti insegnerà tutto quello che non sai. Non è male in fin dei conti. Il signor Richard è un uomo molto generoso.» Zia Joyce fece una faccia come a dire che era tutto merito suo. E spinta dalla sua grande magnanimità aggiunse: «Puoi tornare a vivere da noi se mi dai una mano». Per un attimo Gina fissò allibita la zia, poi scoppiò a ridere fragorosamente: «Davvero zia Joyce? Brava, sei proprio un genio! E secondo te io avrei studiato tutti questi anni in una scuola come il Saint Clare e superato tutti quegli esami solo per finire a fare la muffa nell’emporio di questo signor Richard?» «Sai bene che non puoi permetterti l’università!» «Forse no. Ma il mondo è grande. E a ogni modo non intendo rimanere in questo posto orribile.» Zia Joyce era diventata gialla come ormai le accadeva sempre, quando si agitava, dal giorno di quella colica biliare. «Sei la persona più ingrata che abbia mai conosciuto in vita mia, Gina. Dopo tutto quello...» «Che hai fatto per me?» Gina fece una smorfia di scherno. «Ho vissuto con i soldi di mia nonna. E il tempo che ho vissuto nella tua casa l’ho passato a farti da sguattera e da infermiera. Ecco come stanno le cose!»


Joyce fece una pausa pensando a una risposta a tono. Alla fine chiese con calma: «E dove crede di andare a cercare fortuna la giovane fanciulla?» In quel preciso istante Gina non ebbe più dubbi: doveva realizzare il progetto che già da un po’ di tempo le frullava in testa. «Me ne vado a New York» rispose tranquilla. Ora era Joyce che faceva una smorfia di scherno. «Proprio a New York! Ma lo sai, che laggiù una cosetta inesperta come te non ha nessuna possibilità di sopravvivere? Te lo posso assicurare!» E poi aggiunse ciò che le ripeteva più volentieri: «E non credere che sarò lì ad aiutarti quando ti troverai nei casini!» «Non l’ho mai pensato» replicò Gina, e quelle furono le ultime parole che lei e la zia Joyce si scambiarono; quando Gina molti anni più tardi tornò dall’America, Joyce era morta di appendicite e lo zio Fred era in una clinica per alcolisti a cercare di disintossicarsi per la terza volta. Gina prelevò le ultime cinquecento sterline, comprò un biglietto aereo e conservò il resto nella borsetta. Prima di partire, chiamò Charles per metterlo a parte dei suoi piani, e naturalmente lui ne rimase sconvolto: «Gina, Manhattan è il posto più pericoloso al mondo! Non immagini nemmeno quel che ti aspetta!» «Io ci sono già stata quando avevo un anno» rispose di rimando Gina pensando a una foto le la ritraeva in braccio a Jennifer davanti all’Empire State Building. La voce di Charles era calma e disperata al contempo. «Ho paura per te, Gina. Parti, senza un lavoro, senza conoscere nessuno, con solo trecento sterline in tasca. E se ti ammali, cosa farai? Se ti deruba qualcuno?» «Charles, di certo l’assicuratore non sarebbe il tuo mestiere! Può succedermi qualunque cosa anche qui. Se cado mi rialzerò, e poi si vedrà!» «Se tu cadessi qui» disse Charles, «ci sarei io a darti una mano a rialzarti.» Lei avrebbe voluto rispondere: «Sei tu quello che ha bisogno di qualcuno per rialzarsi, Charles» ma si trattenne. Invece disse: «Lo so. E anche quando sarò lì, mi aiuterà sapere che qui ho un caro amico». «Vorrei essere più che un amico per te, Gina. Ti aspetterò per sempre.» Quando riagganciò, Gina avvertì per qualche secondo una brutta sensazione, ma poi si disse che dopo tutto non aveva mai incoraggiato Charles e non poteva farci niente se non ricambiava i suoi sentimenti. Si scrollò di dosso ogni pensiero per Charles Artany e si concentrò sul suo prossimo futuro. Come una piovra gigante, New York allargò i suoi lunghi e possenti tentacoli intorno a Gina, l’avviluppò ben stretta e quasi la fece morire soffocata già il primo mese. I senzatetto, che vedeva per strada e in metropolitana mentre rovistavano nei cassonetti della spazzatura e che


venivano scansati dai passanti, non erano poi così lontani da lei. Si era sistemata in un albergo economico sulla Ventiduesima Strada, e nella prima settimana frequentò locali di Soho e Chinatown, dove con un dollaro poteva mangiare un pasto quasi decente. La sua battaglia in quei primi sette giorni consistette nel cercare di nutrirsi nel modo più regolare possibile e nell’abituarsi a quella sensazione di abbandono totale, che la sopraffaceva inevitabilmente ogni mattina non appena apriva gli occhi e svaniva solo a sera, quando andava di nuovo a dormire, tardi e con lo stomaco semivuoto. Corse su e giù per la Fifth Avenue con la testa che le girava in mezzo a quelle centinaia di persone e assordata dal coro di clacson delle macchine imbottigliate nel traffico. Le sembrò di morire schiacciata dalla calca nella metropolitana, e a Chinatown vomitò per la puzza dei ristoranti. Se ne andò in giro per tutta Manhattan fin in cima al Rockefeller Center ripensando all’Europa, vagò in solitudine lungo il fiume Hudson pensando al sogno americano e chiedendosi dove poterlo realizzare. Salì sopra il World Trade Center, e nonostante i tanti turisti muniti di macchine fotografiche si sentì tremendamente sola; guardando giù verso Manhattan disse a denti stretti: «Ti odio! Ti odio!» In due settimane, New York la mise pian piano fuori gioco. Ma Gina continuò a rialzarsi tutte le mattine, finché un giorno la città smise di mordere e aprì le braccia per accoglierla. Stava camminando per Central Park all’imbrunire, non faceva ancora freddo, era stanca e affamata e per qualche ragione chiunque la vedesse sembrava sorriderle. C’era chi faceva jogging, chi giocava a baseball, chi a calcio con una lattina di Coca-Cola, chi guardava lo spettacolo di un giocoliere, e in sottofondo si sentivano cani abbaiare festosi. Alzando lo sguardo, lo skyline si stagliava imponente contro il cielo blu della sera. L’aria era satura di würstel e patatine fritte. Gina stava costeggiando il campo da football su due piedi doloranti, quando si imbatté in un’anziana donna di colore corpulenta che le disse: «Salve». Gina si fermò di botto, poi ricordò dove aveva già visto la donna. Tre giorni prima, erano state sedute allo stesso tavolo in un ristorante molto affollato nel Village, e l’anziana signora aveva fatto cadere la bottiglietta del ketchup. Gina l’aveva aiutata a pulirsi con qualche fazzoletto, e avevano cominciato a parlare. L’anziana signora si chiamava Peggy, aveva un figlio e lavorava come donna delle pulizie. Era rimasta affascinata dal fatto che Gina venisse dall’Inghilterra. Che grandiosa coincidenza incontrarsi di nuovo in quella grande città! Ma per Gina se possibile era anche qualcosa di più. L’amichevole viso nero di Peg fu come un balsamo per il suo animo provato dalla nostalgia di casa; per un attimo dimenticò l’immagine brutale che si era fatta di New York, con i suoi contorni netti, e scorse distintamente il cielo limpido, le persone, i grattacieli, e percepì l’entusiasmo della città. Sono in America, pensò, dove ho sempre desiderato vivere! Peggy, a cui non sfuggì la luce negli occhi di Gina, disse: «Che bella


giornata, vero?» «Già» rispose Gina, e decise di invitare Peggy a mangiare insieme a lei delle patatine fritte. Peggy era una donna semplice, non poteva certo essere definita l’amica del cuore di Gina, ma per alcuni aspetti le fu molto d’aiuto. Poco dopo San Silvestro – gli anni ottanta erano cominciati e Gina era sopravvissuta ai giorni di festa meglio di quanto avesse sperato – le presentò una vecchia coppia che viveva sulla Trentaduesima Strada est e che subaffittava una camera a un prezzo più conveniente di quello della camera d’albergo. E Gina in febbraio trovò un lavoro, che se pure solo saltuario, le metteva in tasca almeno qualche dollaro: aiutava un pittore a vendere i grandi quadri kitsch che dipingeva in quattro e quattr’otto, raffiguranti vecchi castelli e tramonti, e guadagnava una percentuale del quindici per cento per ogni affare andato in porto. Stranamente, riusciva sempre a trovare degli acquirenti che non disdegnavano né la cornice dorata piena di ghirigori e svolazzi né i putti ai quattro angoli della tela, e con quel poco che racimolava pagava l’affitto e poteva nutrirsi in modo dignitoso. Nel frattempo, Peggy aveva trovato un lavoro da McDonald’s e così di tanto in tanto Gina riusciva a rimediare anche un cheeseburger e qualche patatina fritta gratis. Nella nuova sistemazione, sebbene tutt’altro che lussuosa, Gina si sentiva più a casa che in quella squallida camera d’albergo. Ed e Rosy, i suoi padroni di casa, non avevano avuto niente per tutta la vita, e ora che erano diventati vecchi avevano ancora meno ed erano così ciechi da non rendersi conto che vivevano nello sporco e insieme agli scarafaggi. Gina sapeva che tutta New York era infestata dagli scarafaggi, ma era convinta che le altre famiglie affrontassero il problema in modo più incisivo. Si era impegnata a chiudere ogni fessura, ogni buchino nella sua stanza, ma non poteva lasciar cadere una briciola di pane che in un baleno vi brulicavano intorno insetti di ogni tipo sbucati dal nulla. Tuttavia, dal momento che si trattava solo di una piccola stanza poco illuminata, la cui finestra si affacciava su un pozzo pieno di acqua che rifletteva un pezzetto di cielo brillante, si rassegnò anche agli sgradevoli coinquilini. Come tutti coloro che sono nati ricchi, la povertà era per lei qualcosa di irreale, la considerava come una malattia temporanea, un raffreddore. In cuor suo confidava nella sua buona stella e aveva la sensazione di aver vinto una piccola battaglia contro il suo nuovo mondo.

4 John Eastley veniva da San Francisco, da una famiglia che risaliva ai primi pionieri stabilitisi in quelle terre. I suoi antenati erano arrivati sulla costa occidentale dopo aver attraversato le Montagne Rocciose e il deserto in groppa a cavalli e con carretti, e al padre di John, che aveva


tentato la carriera politica, non aveva mai mancato di far notare come, in un certo senso, fossero stati proprio i suoi antenati a rendere coltivabile la California. Negli USA, in particolare nella parte occidentale, era un dettaglio di non poca importanza. Il padre di John aveva cercato di farsi strada nel partito dei Repubblicani, ma un ictus poco dopo il suo trentesimo compleanno aveva messo fine ai suoi sogni, prima ancora che potesse anche solo iniziare a realizzarli. Tuttavia trasformò la sua profonda tristezza, la sua frustrazione, i dolori lancinanti che quotidianamente si aggiungevano alla consapevolezza della sua sconfitta in speranza. Speranza che suo figlio potesse arrivare un giorno dove lui non aveva potuto. In ogni cosa, sempre e comunque John doveva essere il primo, il migliore, il più grande. Frequentò solo le scuole migliori del paese, dove brillò in tutte le materie, fu rappresentante della classe, capitano della squadra di football e un tennista eccellente. Agli esami ebbe il massimo dei voti, e gli fu offerto un posto alla Sorbona di Parigi e più tardi anche a Tokyo. Studiò politologia, storia e diritto e terminò i suoi studi alla Columbia University, a New York. Ogni volta, che tornava a casa con la notizia di un nuovo trionfo, sembrava che il vecchio Eastley fosse colpito da una scarica elettrica che gli faceva ritrovare la forza per sopportare la sua vita, fatta di cliniche e ricoveri. Era diventato un uomo forte, orgoglioso; avrebbe preferito di gran lunga essere l’eterno seduttore della sua bella moglie piuttosto che farla diventare anzitempo la sua infermiera. «Ma tu» diceva al figlio, «tu ce la farai. Farai tutto quello avrei voluto fare io e che non ho potuto fare. Un giorno, mi renderai fiero di te!» Un altro bambino sarebbe crollato sotto un tale peso, ma John aveva ereditato da sua madre, che veniva da Savannah ed era una autentica donna del Sud, un carattere di ferro: non solo restio ai lamenti ma era capace di tirare fuori il meglio anche dalle situazioni più difficili. Suo padre voleva che lui fosse un uomo vincente, e lui capì i vantaggi che avrebbe potuto trarre dal diventarlo davvero. A ventisette anni conobbe Veronique Lasalle, figlia di una famiglia francese della Louisiana. Prima di lei John aveva già avuto un paio di storie; nulla di serio, ma il vecchio Eastley pensava che suo figlio dovesse assolutamente sposarsi per non essere considerato un playboy. «Ho conosciuto una ragazza» disse John timidamente. «Si chiama Veronique. Veronique Lasalle.» «Invitala qui da noi il prossimo fine settimana. Le darò un’occhiata, John, non perché tu non sia in grado di discernere, ma perché la scelta di una moglie è cruciale per la tua carriera. Tua moglie deve essere bella ma non sexy. Deve essere elegante ma non deve vestire in modo troppo costoso e stravagante da fare invidia alle altre. Non deve essere troppo intelligente, deve avere compassione per tutti i poveri del mondo ma non avere idee troppo rivoluzionarie. E deve sostenerti sempre e comunque.»


Sembrava che Veronique rispondesse a tutti questi requisiti. E siccome lei e John si amavano anche molto, fu celebrato il matrimonio perfetto. L’unione durò dieci anni, fu un martirio per entrambi e fu proprio Veronique a porvi fine, quando a trentatré anni, si tolse la vita con una overdose di sonniferi. Aveva tentato il suicidio già due volte, era allo stadio iniziale di cirrosi epatica e il giorno seguente sarebbe dovuta entrare per la settima volta in una clinica per disintossicarsi dall’alcol. Nella sua lettera di addio pregava John di capire che non voleva più vivere. Non aveva sopportato il peso della sua famiglia. Il vecchio Eastley l’aveva talmente ossessionata con le sue chiacchiere che lei aveva il terrore di sbagliare, e puntualmente a ogni festa o ricevimento infilava una gaffe dopo l’altra, come rovesciare un bicchiere di vino sulla tavola o scambiare la moglie di un senatore per una cameriera a cui metteva in mano il posacenere stracolmo. Ogni brutta figura faceva crescere la sua insicurezza, finché, alla fine, l’unico modo per dissimulare il suo nervosismo fu, prima di ogni uscita ufficiale, scolarsi una piccola bottiglia di champagne a cui man mano seguirono più bottiglie, e alcolici più forti. Quando aveva bevuto abbastanza, ma non così tanto da farsi ridere alle spalle perché ubriaca, riusciva anche a essere gentile e simpatica. Ma si muoveva al limite, e alla fine passò il segno quando alla festa di compleanno del governatore della California si presentò completamente ubriaca ed ebbe una odiosa e imbarazzante discussione con John. Non ci fu giornale che il giorno seguente non raccontasse con ironia la memorabile uscita della signora Eastley. Il vecchio Eastley era fuori di sé. «Quella donna è la tua rovina!» urlò a suo figlio. «Devi fare in modo che non tocchi più una goccia di whisky! E poi, perché, dannazione, non rimane incinta?» «Il dottore ha detto che sta bene» replicò John, «ma, papà, non è che le donne rimangono incinte a comando.» Non gli disse la verità; lui e Veronique dormivano in camere separate ormai già da tempo e praticamente lui non le faceva più visite notturne. Prima di sposarsi facevano volentieri l’amore, ma da quando Veronique era sotto pressione perché cercavano una gravidanza, si bloccava e i loro rapporti erano sempre un fiasco. E alla fine, John aveva rinunciato. La sera prima del suo suicidio, erano stati a una festa in giardino a Santa Monica; volevano passare la notte in un albergo per poi ripartire il giorno dopo per San Francisco. Veronique aveva bevuto poco, era pallida, apatica, e aveva gli occhi lucidi di febbre. L’albergo era al completo, e dovettero prendere una camera matrimoniale. Veronique sprofondò subito in una poltrona e si strinse le gambe al petto cingendole con le braccia. Indossava un abito di pizzo bianco, solo una sottile catenina d’oro al collo e sui capelli una rosa bianca a destra e una a sinistra del viso. Sembrava una ventenne se non ci si accorgeva della malinconia nei suoi occhi, una malinconia a cui John si era quasi abituato ma che quel giorno lo ferì intimamente. Le si inginocchiò accanto e le accarezzò con dolcezza le gambe nude. Lei si scansò subito trasalendo e


lo fissò. «Veronique» le disse in un sussurro, «mi dispiace.» «Di cosa?» chiese lei senza partecipazione. Di averti rovinato la vita, voleva risponderle, ma non lo disse. Le sue parole furono invece: «Vorrei fare l’amore con te, Veronique». «Oh, John...» «Una volta lo volevi anche tu, ricordi?» «È stato tanto tempo fa.» Il suo sguardo si perse da qualche parte sul muro dove probabilmente doveva aver rivisto un’immagine di quel tempo: una giovane donna di New Orleans, innamorata di un uomo della California, che credeva di aver trovato la felicità. Quella sera doveva aver capito che era stato tutto un grande inganno, e adesso vedeva davanti a sé solo una serie interminabile di anni grigi e freddi che avrebbe passato a entrare e uscire da cliniche per disintossicarsi e nel terrore continuo di suo suocero. La sera successiva, nella sua camera nella casa di San Francisco pose fine alla sua vita. Il vecchio Eastley riuscì a nascondere le vere circostanze della morte della nuora dichiarando che non era sopravvissuta a un aborto spontaneo. Tuttavia, si scatenarono pettegolezzi e qualche giornalista si avvicinò pericolosamente alla verità. «Questa storia ti ha penalizzato, John» gli disse pieno di astio, «penalizzato, ma non sconfitto. Adesso però non puoi più permetterti di sbagliare. Hai trentasette anni, non sei più un ragazzino. Quando ti sposerai una seconda volta, come si conviene, si intende, dopo un adeguato periodo di tempo, dovrà essere con quella giusta.»

5 Giorno dopo giorno, Gina continuava a trascinarsi dietro per Central Park i quadri kitsch di Billie Hawkins; allestiva piccole esposizioni in qualche angolo del parco e li offriva ai passanti. Cambiava posto ogni tre ore. Per fortuna i quadri, avendo cornici in legno leggero, non erano pesanti, ma erano grandi e ingombranti e non era comunque semplice trasportarli. Gina diventò così molto magra, ma in compenso le vennero i muscoli alle braccia. Era a New York da oltre un anno e pensò che era ora che qualcosa nella sua vita cambiasse. La domenica prima di Natale, senza quasi volerlo, finì in una chiesa. La predica era circa a metà, e lei si sedette su uno dei banchi più indietro per ascoltare le parole del sacerdote. Faceva freddissimo fuori, dall’East River soffiava un vento gelido in città, e Gina, che sin dal mattino presto si era data un gran da fare a vendere i suoi quadri, in realtà voleva solo riposarsi e riscaldarsi un po’. In seguito, ripensando a quella domenica, realizzò che doveva essere stato il destino a portarla


proprio in quella chiesa proprio in quel momento. Quel giorno conobbe John. Attirò la sua attenzione per due motivi: sembrava nervoso, il libretto dei canti tremava lievemente nelle sue mani e muoveva continuamente i piedi. E poi la affascinò il suo viso. Aveva uno dei profili più regolari che avesse mai visto. Non recitava le preghiere in coro, e siccome non lo faceva neanche Gina, i loro sguardi si incrociarono subito. Deve avere circa quarant’anni, pensò lei. Più tardi, John le disse che aveva pensato: Sicuramente è europea. Solo in Europa ci sono donne così belle. Dopo la messa, lo seguì. Non lo perse mai di vista, neanche per un attimo, era come se lui l’attirasse magicamente a sé. Indossava un pesante cappotto di lana grigio antracite e una sciarpa dello stesso colore intorno al collo. Si dirigeva con passo deciso verso Park Avenue e Gina, con la pila di quadri sotto il braccio, gli camminava dietro a qualche metro di distanza. Fortunatamente non indossava i soliti jeans logori e il vecchio parka, ma un aderente abito in maglia verde scuro, un paio di stivali verdi in pelle scamosciata e il giubbetto marrone sempre di camoscio. Erano abiti che, pur risalendo ai tempi del Saint Clare, avevano conservato tutta la loro eleganza. Peccato però che moriva di freddo. L’uomo si diresse verso una piccola caffetteria sulla Novantacinquesima Strada: una saletta, in cui la carta da parati, le tende, il soffitto e i cuscini riportavano lo stesso motivo a fiori; le sedie e i tavoli erano marroni o bianchi, e tutto era deliziosamente in stile retrò e carico di svolazzi vari. I camerieri, due bellissimi ragazzi vestiti di bianco volteggiavano con spiccata eleganza qua e là, portando cestini di baguette fumanti. L’uomo si sedette in modo da avere sott’occhio la porta, e Gina si sedette in modo da avere sott’occhio lui. Lei ordinò pancake e caffè, molto più di quanto le permettesse il suo budget quotidiano certo, ma era anche un’eccezione molto più che gradita rispetto a quel che mangiava solitamente nei fast food. Rovesciò un bel po’ di sciroppo sui pancake e cominciò a mangiare con appetito. Lo sconosciuto sembrava essersi tranquillizzato, e di tanto in tanto posava il suo sguardo su Gina. Alla fine si alzò e si avvicinò al suo tavolo. «Mi scusi» disse, «forse penserà che il mio non sia un pretesto originale, ma è da quando eravamo in chiesa che mi domando cosa c’è in quel pacco che si porta dietro.» Fece cenno ai quadri. Gina ascoltò affascinata la sua voce: era calda e profonda come quella di un gatto che fa le fusa, e lei ne rimase subito ammaliata. «Quadri» rispose senza accorgersi che in quel preciso attimo i suoi occhi cominciarono a brillare carichi di speranza. «Quadri? Lei è una pittrice?» «Oh, no. Non ho mai tenuto in mano un pennello in vita mia. Io li vendo soltanto.» «Ah, allora è una commerciante!» «Una commerciante di strada. Li vendo a Central Park e vivo con le


provvigioni. Non è moltissimo, ma è sempre qualcosa.» Dalla sua pronuncia capì subito che lei era inglese, e le sue maniere gli diedero la certezza che non aveva davanti a sé una sempliciotta. Forse è una studentessa, pensò, che lavora e studia. «Posso vederli?» chiese. «Chissà magari potrei comprarne uno.» Gina lo squadrò con aria di sufficienza spostando lo sguardo dal suo abito elegante ai capelli ben tagliati e percependo il profumo del dopobarba, senza dubbio molto costoso, che si spandeva intorno. «Non credo» rispose, «lei ha buongusto.» Tirò fuori il primo quadro che raffigurava una fortezza in rovina su una montagna ricoperta di boschi in autunno. In lontananza, dietro la cima della montagna, il sole rosso stava tramontando e sulla torre svolazzava un uccello nero. John Eastley trattenne il fiato. «Mmm...» sussurrò poi, senza aggiungere altro. Entrambi fissarono la scena e d’un tratto Gina scoppiò nella sua tipica risata contagiosa alla quale si unì alla fine anche John. «Chi è l’artista?» «Billie Hawkins. Non credo che esporrà mai al Metropolitan Museum, ma tira su qualche soldo con le sue opere. Questa, venti dollari.» John la guardò strizzando gli occhi come per analizzarla a fondo, poi aprì il portafoglio e ne estrasse, sventolandole, un paio di banconote. «La compro. Come ricordo di una freddissima mattina di dicembre e di una giovane donna molto bella.» Gina prese i soldi e gli passò il quadro, gli occhi dorati sfavillanti nella bianca luce di quel mezzogiorno. «Le dispiace se mi siedo con lei? Potrei offrirle qualcosa?» disse, «oh... già, sono John Eastley.» «Io Gina Loret.» E io potrei innamorarmi di te, aggiunse tra sé. Quando si dice il caso... L’amore tra John e Gina sbocciò per caso uno dei giorni più freddi dell’anno, in una piccola caffetteria persa nel labirinto di strade di Manhattan. John non seppe mai dire di preciso quando fosse scattato il colpo di fulmine. Forse già in chiesa, quando i loro sguardi si erano incrociati? Nella caffetteria, quando Gina affamatissima aveva divorato i suoi pancake impiastricciandosi le dita con lo sciroppo? Quando gli aveva mostrato il quadro di Billie Hawkins ed era scoppiata in quella risata incontenibile? Era successo e basta. E John, che dopo Veronique non si era più lasciato andare e in fatto di cuore ci andava con i piedi di piombo, dovette arrendersi all’evidenza: Gina era l’amore della sua vita. Le mostrò la sua New York. Era a New York per affari e sarebbe dovuto tornare a Los Angeles, dove viveva in quel momento, ma decise di rimanere lì con lei e non pensò più alla California. La sera andarono nella famosa Rainbow Room del Rockefeller Center a ballare sulla musica di Frank Sinatra. Andarono al Winter Garden Theatre a Broadway a vedere il musical Cats. E poi al bar del Plaza ad ascoltare la musica dal vivo e a bere vino. Furono ospiti di Donald Trump a un pranzo fantastico a base di caviale, astice e insalata con crema di mandorle, il tutto accompagnato da un pregiatissimo champagne, così buono che Gina


sarebbe voluta saltare giù dalla Trump Tower perché si era convinta di poter volare. Ogni mattina, il postino le consegnava un pacchetto da parte di John: un fazzoletto di seta ricamato, una sciarpa bianca in lana mohair, un orologio d’oro, orecchini con piccoli rubini a forma di cuore. Il Natale e il Capodanno lui dovette trascorrerli con la sua famiglia in California, e siccome non vedeva le due feste come il momento più adatto per fare le presentazioni, Gina rimase a New York. Lei temeva di sentirsi sola, ma poi la mattina di Natale ricevette cento rose rosse da parte di John e la notte di Capodanno stettero al telefono per quasi tutto il tempo. A mezzanotte, ora di New York, ciascuno dal suo capo del telefono, bevve un bicchiere di champagne. «Tesoro, spenderai una fortuna» disse Gina dopo tre ore, ma John le rispose: «Non mi interessa. Amore, ascolta, appena torno a New York la sera del 2 gennaio vengo subito da te, d’accordo?» La prima sera dopo il suo rientro, Gina e John andarono a mangiare al Nirvana, un ristorante in Central Park South con una veranda a vetri che si affacciava sul parco e sulla Fifth Avenue da cui si godeva di una vista mozzafiato. I due giorni di separazione avevano fatto capire loro quanto fosse difficile stare lontani e che tra di loro stava nascendo un sentimento molto forte; probabilmente quello sarebbe stato il sentimento più forte che avrebbero mai provato nella vita. La neve che ricopriva Central Park era illuminata dai lampioni, le luci accese negli appartamenti sulla Fifth Avenue punteggiavano la notte blu. Il traffico andava avanti nel suo concerto senza fine. John indossava un abito scuro, e Gina notò per la prima volta che aveva delle ciocche brizzolate sulla fronte. Si perse nel suo viso, nei suoi occhi, quando le raccontò della California, il paese delle meraviglie, le cui storie ascoltava sempre con tanta curiosità e senza mai stancarsi. Bevve tanto vino sulle note della musica orientale in sottofondo nella sala. Forse stanotte verrò a letto con te, pensò lei. Si conoscevano da due settimane e avevano passato molto tempo insieme, ma non erano ancora andati a letto insieme. Entrambi avevano un po’ paura di farlo: John perché era più grande di Gina di vent’anni, e Gina perché si considerava assolutamente inesperta al confronto con un uomo navigato come lui. Ai tempi del Saint Clare si era divertita con diversi ragazzi, ma non era mai andata a letto con nessuno. Desiderò aver fatto un po’ di pratica almeno con Charles Artany, ma non era accaduto e ora non poteva farci nulla. John la accompagnò a casa con la macchina che aveva preso a noleggio. Gina canticchiava sommessamente insieme a Barbra Streisand alla radio. Le girava un po’ la testa. Quando la macchina si fermò davanti alla casa sulla Trentaduesima Strada, chiese in tono neutro: «Vuoi salire?» Il cuore le martellava nel petto, poteva sentirlo nel collo, ma aveva la


sensazione di apparire molto tranquilla. John la guardò. «Sei sicura?» «Naturalmente.» Scese dalla macchina, aprì la porta di casa e accese la luce. Le lampadine nude, appese al soffitto chiazzato di muffa, si illuminarono. Mentre Gina saliva le scale scricchiolanti, ben consapevole che John era alle sue spalle, si chiese con angoscia, come avrebbe reagito lui alla povertà in cui lei viveva. Era la ragione per cui aveva posticipato finora quel momento. Siccome aveva ancora qualche abito abbastanza prezioso ed elegante, non era stato un problema uscire con lui per andare a teatro, al museo o in ristoranti raffinati. John sapeva che lei non aveva un soldo, ma dubitava che lui avesse mai conosciuto qualcuno davvero povero. Sperava che non ci fossero quei dannati scarafaggi in giro. Per fortuna Ed e Rosy andavano a letto sempre alle sei, e sordi com’erano non si sarebbero nemmeno accorti del visitatore notturno. Trasse un profondo respiro prima di aprire la porta dell’appartamento. «Ssst!» sussurrò. «Ed e Rosy...» Lui fece cenno di sì col capo ed entrò nella sua stanza. Gina accese soltanto la piccola lampada sul comodino, che però illuminò subito un paio di insetti dietro il lavabo. John li guardò un po’ irritato, e di rimando lei sbottò di rabbia. «Già, vivo in un buco.» Disse a denti stretti. «Piccolo e buio, e insieme agli insetti. Posso solo dirti che mio padre era un uomo molto ricco, e da bambina ho dormito negli alberghi più belli del mondo, ma purtroppo è morto molto giovane e insieme a lui se ne è andata anche la sua ricchezza, e con quella miseria che guadagno con i quadri di Billie non posso permettermi nient’altro!» «Gina, io non ho detto nulla!» «Ma la tua faccia è stata molto eloquente!» John si sedette sul letto e attirò a sé Gina. «Amore, stai facendo tutto da sola. A me non interessa affatto se siamo in ripostiglio, alla Casa Bianca o sulla luna!» Nei suoi occhi c’era una luce che non aveva mai visto prima. Pensò: Sembra sincero. D’un tratto si sentì a disagio e si alzò. «Vado a prendere qualcosa da bere.» John sorrise. «Okay.» Scese di sotto in cucina, e constatò stizzita che Rosy aveva di nuovo fatto razzia delle sue cose. Nel frigorifero non trovò altro che latte andato a male. «Merda» bofonchiò. Quando ritornò in camera, vedendo John che guardava fuori dalla finestra nel pozzo buio, pensò: Non ti perderò mai, per nessuna ragione! Disse: «Non c’è niente da bere. Posso fare solo un tè». Lui si voltò. «E allora non berremo niente. Perché sei così nervosa?» «Perché...» Gesticolò. «Perché non so cosa succederà adesso.» John le andò incontro e la cinse con le braccia proprio come le era sempre piaciuto: non troppo stretta ma con una delicata pressione. Lei si lasciò inebriare dal suo profumo e si accorse che gli batteva forte il cuore.


«Vorrei che tu venissi con me in California, Gina» le disse. «A Los Angeles.» Le accarezzò dolcemente le spalle fin giù sui fianchi, e una sensazione di calore la pervase man mano che lui muoveva le sue mani sul suo corpo. John le sfilò il vestito dalla testa, e lei rimase in biancheria intima color bianco crema davanti a lui. Mentre lui si spogliava, lei tremava leggermente. Alla fine si stesero l’uno accanto all’altra sul letto. La camera era tutta buia, eccetto per il fioco chiarore della luna che attraverso il pozzo si rifletteva nella stanza e disegnava i contorni della finestra sulla parete di fronte. La pelle di John era molto calda. Gina era stesa sulla pancia e la sua spalla era nascosta dai lunghi capelli sciolti. Era assolutamente rilassata e si lasciò accarezzare ancora da lui, che era appoggiato su un fianco e si sosteneva con un braccio. Le disse in un sussurro: «Sei la donna più bella che abbia mai conosciuto». Lei sollevò il capo e lo guardò. I suoi occhi non si erano abituati al buio, ma riuscì comunque a scorgere nel suo viso un’espressione di profonda dolcezza che la sopraffece. Rotolò sulla schiena e lo tirò su di sé. I suoi capezzoli toccarono la pelle di lui e lei sentì che per la prima volta nella vita si stava aprendo completamente a un uomo. Come sarà? Come sarà? continuava a chiedersi. John le sussurrò: «Amore mio...» ma lei non rispose, perché voleva assaporare ogni istante della sensazione che avrebbe provato accogliendolo dentro di lei. Al diavolo il romanticismo, si disse sarcasticamente, e d’un tratto fu travolta da un sentimento di amore così forte che le salirono le lacrime agli occhi. Quando iniziò a singhiozzare, il viso di John fu subito sopra il suo. «Non piangere, ti prego, non piangere...» Ma lei pianse come quando ascoltava una musica che le piaceva, o quando ammirava qualcosa di bello, e quello fu l’attimo in cui capì che avrebbe amato John per sempre. Fino a che avrò vita, pensò, desidererò soltanto te e non dimenticherò mai tutta questa bellezza.

6 «È molto bella» disse il vecchio Eastley al figlio. Era seduto sulla sua sedia a rotelle vicino alla finestra del suo studio. John gli aveva presentato una Gina nervosa e innamoratissima, che l’aveva subito conquistato. «È molto più bella della mia Maybelle alla sua età, e lei era la migliore degli Stati Uniti.» Eastley accennò verso la porta da cui era uscita Gina. Probabilmente immaginava che i due uomini parlassero di lei, ma non se ne preoccupò perché sapeva che poteva farcela. Che gambe lunghe, pensò Eastley. Gli piaceva chi camminava a passi lunghi, e detestava invece quelle gatte morte che zampettavano e sbattevano le ciglia. Gina non faceva la civetta, la sua era un’eleganza composta, austera. «Ti ama profondamente, figliolo. Farebbe qualunque cosa per te.


Tuttavia...» «Cosa?» «Cosa sai del suo passato?» «Nessuna storia. E comunque nulla di importante, se è a questo che alludi, papà.» «Ma questo non vuol dire nulla. È eccentrica, direi complicata. Non è affatto la donna semplice che vuole dare a vedere. È proprio il tipo di persona con qualche ombra nel passato.» «Papà...» «Stai attento, John. Non puoi permetterti un secondo errore. Vuoi diventare o no governatore della California?» «Sì.» «Allora...» Eastley rifletté, sembrava stesse ascoltando una vocina dentro di sé. Poi, istintivamente disse: «Non sposarla ancora, John. Aspetta un annetto, poi vi fidanzate e vi sposate dopo un altro anno. Non fare niente di avventato. L’ambizione e l’incoscienza si escludono a vicenda.» Con le sue dita artritiche si avvinghiò ai braccioli della sedia a rotelle, e John capì che stava ricordando l’ardente ambizione che lo aveva animato negli anni passati. La sua vecchia voce roca, un tempo raffinata dai corsi di arte oratoria, suonò profonda e travolgente: «Voglio vederlo, John, voglio vederlo il giorno in cui in piedi davanti al Campidoglio a Washington reciterai il giuramento che ti renderà l’uomo più potente del mondo occidentale. Quando sarai nominato presidente degli Stati Uniti d’America.» Rimasero tre giorni a casa di John a San Francisco, e con John come cicerone, Gina scoprì «la città delle colline dorate». Percorsero in macchina il lunghissimo Golden Gate Bridge verso Sausalito, ammirarono il panorama della città da Twin Peaks, visitarono la City Hall, la Louise M. Davis Hall e il Museum of Modern Art. Si inoltrarono nella confusione della frenetica Grand Street in China Town, il più grande quartiere cinese del pianeta fuori dalla Cina e la sera mangiarono al ventesimo piano al Top of the Mark, da cui si poteva godere una vista meravigliosa sulla città illuminata. Gina non riusciva a credere che quella enorme città potesse essere stata distrutta da un terremoto e dall’incendio che ne era seguito nel 1906, ma John le disse che ci si aspettava persino altre catastrofi simili fino alla fine del secolo. Fu divertente scorrazzare con una cable car per Nob Hill fino al Fischerman’s Wharf, e lì bighellonare tra le bancarelle degli irriducibili figli dei fiori che esponevano gioielli e oggetti in pelle. «Non ti innamorare troppo di San Francisco» disse John quando vide il volto entusiasta di Gina, «lo sai che viviamo a Los Angeles!» Sarebbero potuti andare in aereo a Los Angeles, ma dato che Gina non era mai stata in California, John aveva pensato di affittare una macchina e di andarci percorrendo l’autostrada costeggiando il Pacifico verso sud. La prima sosta la fecero a Monterey; Gina aveva sempre amato Steinbeck e


voleva assolutamente vedere la famosa «Strada delle sardine», il Cannery Row. Visitarono l’Hearst Castle, l’enorme castello elegante quanto un tempio greco fatto edificare dal magnate della stampa e che aveva ispirato Orson Welles per il suo Quarto potere. E pernottarono nel Madonna Inn che superava ogni fantasia. Il kitsch raffazzonato di quel posto era talmente privo di gusto che sembrava essere il risultato di un’operazione studiata ad arte. «Assurdo!» disse Gina sedendosi su una sedia con la spalliera a forma di cuore. «Si sentono dire tante cose sull’America, ma uno non crede mai che siano vere!» John sorrise. «Aspetta di vedere Disneyland! Non ti deluderà.» La prese per le mani e la tirò a sé dalla sedia con la spalliera a forma di cuore. «E io nemmeno» aggiunse in un sussurro. «Ti giuro Gina che non soffrirai mai a causa mia.»

7 Si appoggiò alla porta della veranda e ascoltò i passi di John che si smorzavano mentre scendeva. Da fuori la calda luce della sera, intrisa di oro e rosso fuoco, inondava la stanza di un chiarore rossastro. D’un tratto tutto sembrava più acceso e intenso: i colori, i rumori, gli odori. Gli uccelli fuori trillavano trionfanti, il profumo delle rose era più dolce e prepotente. Gina intravedeva lo scintillio delle goccioline d’acqua dell’irrigatore che disegnavano un arco nell’aria. Un anno. Un anno con John in California. Durante il quale era riuscita a rimuovere i brutti ricordi: l’incidente; la morte della nonna; zia Joyce e la sua casa che puzzava sempre di cavolo; le nottate passate con lo zio Fred nelle birrerie dove lui si ubriacava per sopportare le sue pene. Apparteneva tutto a un’altra vita; il sole aveva illuminato i giorni bui, ma quelli erano comunque sempre lì. La salutavano da lontano; erano dei fantasmi che sarebbero sopravvissuti anche a lei. Le ritornò alla mente un pensiero che l’aveva già riempita di angoscia una fredda notte di gennaio a New York: non dovrò mai perdere John! Fissò il letto. Quella mattina si era svegliata spensierata e felice come tutti i giorni da quando era con lui. Lei e John si svegliavano sempre insieme, come se l’uno percepisse nel sonno quando il ritmo del respiro dell’altra cambiava e viceversa. Il viso di John appariva pallido e indifeso quando apriva gli occhi, e Gina adorava quando la mano di lui scivolava sotto la coperta e si posava sul suo corpo. Non può succedermi più niente, mai più, pensava. Che stupida che sono! È impossibile, siamo tutti vulnerabili. Pescò una sigaretta dalla tasca della gonna e l’accese, pensando a quella mattina, una mattina come tante. Avevano fatto colazione in giardino e parlato del film che volevano andare a vedere al cinema, e


poi John era andato in studio. Gina aveva indossato un paio di pantaloncini e una T-shirt ed era uscita a fare una lunga passeggiata con Lord, l’husky color grigio ghiaccio di John che aveva gli occhi più azzurri che avesse mai visto a un cane. Mentre passeggiava per le strade di Beverly Hills fiancheggiate da giardini fioriti, chiusi da alti muretti, che rappresentavano, ognuno a suo modo, un piccolo paradiso, aveva pensato a quanto fosse cambiata la sua vita. Le sembrava che fosse passata un’eternità da quando, con le mani semicongelate, allestiva banchetti a Central Park per vendere gli orribili quadri di Billie Hawkins; o da quando, sera dopo sera, tornava nella sua misera stanza dove trovava quegli insetti che non riusciva a debellare. E ora viveva a Beverly Hills! Aveva scritto a zia Joyce, ma non aveva ricevuto risposta. Probabilmente moriva di invidia. Quando era tornata a casa, aveva deciso di sedersi alla scrivania e scrivere una storia. Scriveva regolarmente per diversi giornali racconti brevi e rubriche, talvolta anche qualche poliziesco. L’idea le era venuta perché si era ricordata che ai tempi della scuola Natalie si guadagnava qualche soldino in quel modo, e aveva pensato che non avrebbe fatto male a nessuno se ci avesse provato anche lei. Con sua grande sorpresa, la cosa funzionava. Si era fatta la doccia, infilata un comodo abitino di cotone e stava per mettersi a caccia della sua penna a sfera d’argento, che Lord le faceva sempre sparire, quando era squillato il telefono. «Pronto, chi parla?» «Gina? Sono David, David Bellino, ricordi?» Come dimenticare! Era rimasta a bocca aperta. «David? Dove sei? Ti sento vicinissimo!» «Già, tesoro.» Era sembrato di buon umore. «Non solo sono in America, e per di più in California, ma sono persino a Los Angeles. Più precisamente nell’hotel Bel Air. Lo conosci?» «Sì.» «Gina, prendo subito un taxi e vengo da te. Ti va bene?» No, che non mi va bene, avrebbe voluto tanto rispondere lei. La sua prima reazione istintiva era stata quella della difesa. Non ti voglio David. Tu appartieni a un’altra vita e poi non mi sei mai piaciuto. Sei un avvoltoio, e non ti importa di nessuno. Hai messo nei guai Steve, sei responsabile in qualche modo del destino di Mary, e quanto a Natalie, non potrai mai rimediare per quello che le hanno fatto. Dovrei mandarti al diavolo! Tuttavia, per cortesia o per curiosità non seppe mai dirlo, aveva risposto: «Certo, David. Se sei qui, non possiamo non vederci». «Sono subito da te» aveva detto lui e riagganciato. Imprecando Gina aveva messo da parte i suoi appunti, fumato tre sigarette per il nervoso e misurato a grandi passi la stanza, in attesa. «Hai idea di quanti milioni di dollari faccia girare l’impero delle Bredow Industries?» aveva chiesto David. Aveva davvero un bell’aspetto, con i capelli più corti, i jeans e la camicia bianchi, e il Rolex al polso. E


sembrava anche almeno due volte più sicuro di un tempo. Cosa fanno i soldi, aveva pensato Gina, hanno davvero il potere di cambiare le persone. «Andreas possiede un patrimonio enorme. E cosa fa? Mi nomina suo erede universale. Quando ci penso, ancora non ci credo. Mi sembra di sognare!» «Di cosa si occupa esattamente Andreas Bredow?» «Di tutto ciò che muove soldi. Alberghi, negozi, possiede quote in società editoriali, in emittenti televisive, in compagnie aeree... Quasi non riesco a farmene un quadro completo. Per ora sono un po’ come i suoi occhi e le sue orecchie, e mi manda in giro per il mondo a fare le sue veci, in modo da essere sempre informato. Credo sia una sorta di prova.» Aveva riso un po’ nervoso. «Posso avere un’altra sigaretta?» Gina gli aveva passato il pacchetto sopra il tavolo. Erano seduti in veranda, all’ombra dei grandi alberi di limone. Kate, la domestica, aveva portato un vodka Martini a lui e un succo d’arancia a lei. Faceva molto caldo. «E cosa sei venuto a fare a Los Angeles?» gli aveva chiesto Gina. «Rimango solo fino a stasera, e poi riparto subito per New York. Andreas vuole far costruire un villaggio vacanze sul mare. Ho partecipato alle varie riunioni in modo da fargli un resoconto. L’ultima si terrà oggi pomeriggio, per fortuna. È tutto così frenetico che mi gira già la testa!» Aveva riso di nuovo. «E la vera follia è che c’è un mucchio di soldi in ballo!» «È una follia a cui ti dovrai abituare. Quando erediterai tutto per davvero, girerai il mondo nel tuo jet privato e controllerai tutto il tuo patrimonio da lì.» «Sai una cosa? Avevo una tale paura, pensavo di non essere all’altezza di una vita del genere. Poi Natalie...» Si era interrotto mordendosi le labbra. Gina aveva alzato lo sguardo. «Stai sconfinando, attento a quello che dici.» «Non prenderla male.» «Ne avrei motivo?» «Non lo so... sì, probabilmente sì. Un anno fa non ho abbandonato Natalie volutamente, ma...» «Sei sempre stato un vigliacco» aveva detto Gina senza pietà. David aveva sussultato. «Se alludi alla faccenda con Steve...» «Alla faccenda con Steve. Alla faccenda con Mary. E soprattutto alla faccenda con Natalie, dove hai dato il meglio di te. Hai fatto quasi bingo, ti manco solo io. Sai cosa ho pensato quando mi hai telefonato?» Lo aveva guardato con occhi fiammeggianti. «Ho pensato: Devo mandarlo al diavolo! Come hai fatto a sapere che vivo qui?» «Da Mary. Almeno lei non si nega al telefono quando la chiamo. E al contrario di tutti voi, risponde anche alle mie lettere.» «E cosa ti aspettavi? Steve avrà di certo perso la voglia di scrivere in


prigione, e Natalie, a quanto ne so, ha perso il lavoro e passa da un neurologo all’altro.» «E tu?» «Io?» Aveva fatto un bel tiro dalla sigaretta. «Dopo tutto quello che è successo non voglio più avere nulla a che fare con te, se proprio devo essere sincera.» Non aveva capito se quelle parole lo avevano offeso, perché David non lo aveva dato a vedere. «La sincerità è stata sempre il tuo forte, Gina. Io ho sempre creduto che fossimo amici.» Lei aveva fatto la sua solita risata sarcastica capace di ferire più delle cattiverie. «Non siamo mai stati amici, David, questo è certo.» «Peccato. Penso sia un vero peccato che tu pensi questo. Credevo che...» «Cosa?» «Guardaci, Gina. Siamo gli unici due vincitori del gruppo. Viviamo in America, abbiamo successo, soldi...» «Forse tu» aveva detto lei, «forse i soldi li hai tu. Non io. Tutto quello che vedi qui appartiene a John.» «Oddio, non stare a sottilizzare. Tu o John, cosa significa? Prima o poi vi sposerete e diventerai la signora Eastley, e per tutto il resto della vita potrai contare su un sostanzioso conto in banca. Magari un giorno sarai persino la first Lady e abiterai alla Casa Bianca. In giro si dice che John Eastley potrebbe prendere il posto di Ronald Reagan!» «Non correre. Tra Ronald Reagan presidente e John Eastley presidente potrebbero passare anni. Per ora, forse è più vicino il giorno in cui potrebbe diventare governatore della California, e naturalmente io farò il possibile per sostenerlo. Ma io lo amavo già prima di sapere chi era e cosa faceva. Se tutto questo» aveva accennato quasi con sdegno alla casa, «tutto questo è solo un bel sogno e un giorno svanirà, non cambierà nulla. Mai.» «Che paroloni. Okay, questa ricchezza ti è capitata per caso, come del resto anche a me. Ma tu credi al caso?» «Credo al destino» aveva risposto lei. Era seguita una lunga pausa da parte di entrambi. David aveva bevuto, piegato la testa all’indietro e strizzato gli occhi guardando il sole, che si intravedeva tra i rami. «Destino» aveva mormorato, «già forse la vita è solo questione di destino.» Si era accorto che Gina era nervosa e si era alzato. «Vuoi che me ne vada, vero? È da quando sono arrivato che sei sulle spine. Forse vedi come un tradimento verso i nostri amici il fatto che io sia qui a chiacchierare con te in giardino.» «Certo che no» aveva ribattuto Gina a disagio. David aveva sorriso, ma Gina, confusa, aveva riconosciuto nei suoi occhi un’espressione che tradiva tristezza e solitudine. «Che tu ci creda o no, io volevo essere vostro amico con tutto me stesso. Ho sempre desiderato avere amici veri. Volevo disperatamente essere amato. Ma


purtroppo» aveva scrollato le spalle, «non si può tornare indietro, non si possono cambiare le cose, no?» «Forse avresti potuto comportarti in modo diverso.» «Molto saggio. Comunque, per quanto possa essere sgradevole, noi due potremmo incontrarci ancora d’ora in poi. I politici in carriera devono stare vicini al mondo finanziario. Le Bredow Industries potrebbero tornare utili al tuo John. Chissà, potrebbe aver bisogno di fondi per la sua campagna elettorale.» «Se questa è un’offerta» aveva detto lei «glielo comunicherò volentieri.» David aveva annuito e si era avviato sull’ampio vialetto ricoperto di ciottoli che conduceva al cancello del giardino. Gina lo aveva seguito. Era quasi mezzogiorno e il sole splendeva alto. Lord saltellava abbaiando sul prato. La fontana gorgogliava il suo benvenuto all’inizio del vialetto. L’idillio perfetto... in una scena assolutamente normale: una giovane donna accompagnava al cancello di casa un amico che aveva rivisto dopo tanto tempo. Avevano bevuto qualcosa insieme chiacchierando dei vecchi tempi e dei nuovi. Eppure sulla scena aleggiava ancora come una minaccia. Qualcosa nell’aria. Gina era in guardia. David si era voltato verso di lei, e il sole aveva illuminato il suo bel viso abbronzato. Nei suoi occhi c’era un misto di voglia di vivere e cattiveria. «Il destino» aveva esordito, «ha le sue regole. E spesso accade tutto il contrario di quel che pensiamo. C’è stato un tempo in cui avrei pensato che la tua vita si sarebbe intrecciata a quella di Natalie.» Aveva fatto una pausa subito riempita dal forte stridio di un uccello nell’aria. Con una voce bassa e pungente Gina aveva chiesto: «Cosa intendi?» David aveva distolto i suoi occhi da quelli di lei, e guardato verso il giardino con una espressione indifferente e tranquilla. «St Brevin... ricordi?» «Sì, cosa dovrei ricordare?» «Ascoltami, Gina, non avrei dovuto cominciare. Non so nemmeno perché... forse perché abbiamo parlato di destino e tutto il resto. Dimentica quello che ho detto!» «Tu non hai dimenticato. Cosa è successo a St Brevin?» «Ti ho vista con Natalie. Quella sera che faceva molto caldo, quando io e Steve tornammo dalla spesa. Voi eravate su in camera e... santo cielo, non mi avete visto! Non volevo spiarvi, ero solo salito a dirvi che eravamo arrivati. Naturalmente ho bussato, ma voi non avete sentito, e io sono entrato non pensando di trovarvi in atteggiamenti compromettenti. Voi non ve ne siete neppure accorte.» Che avesse parlato di St Brevin solo per cattiveria, lo aveva capito, pentendosene, quando il danno ormai era fatto. La sua voce era suonata davvero preoccupata quando alla fine aveva aggiunto: «Maledizione, non


avrei dovuto dirtelo Gina. Ho parlato senza riflettere. Gina, ti prego, non avercela con me per questo!» I conniventi, pensò furiosa, non hanno la simpatia di nessuno. Appoggiata ancora alla finestra, guardò fuori nella sera luminosa. «C’è qualcosa che non va, tesoro?» le aveva chiesto John. Avrebbe voluto tanto rispondergli. Ma non ci era riuscita, non era riuscita a dirgli nulla. Cosa era successo dopo tutto? Solo due ragazze alle prese con la tentazione di un attimo. Che significato aveva? Per me nulla. Per me assolutamente nulla. Ma gli altri la pensavano diversamente: lo chiamavano amore lesbico e molti conoscevano solo in teoria la parola tolleranza. Soprattutto in America! La moglie di un politico doveva essere senza macchia, nel nuovo mondo più che ovunque altrove! La moglie perfetta per John Eastley... con un passato da lesbica... impossibile! David, l’ombra del suo passato. D’un tratto, i fiori e il loro profumo le fecero venire un senso di nausea. Con un colpo di coda, la vecchia vita aveva rimesso tutto in discussione. Ripensò a quel che John le aveva detto la sera prima, e che le ripeteva spesso da un po’ di tempo. «Vorrei che ci sposassimo presto, Gina.» Non ancora, non ancora; non riusciva a togliersi dalla testa quelle due parole. Potresti pentirtene, John. Chiuse la portafinestra – cosa insolita, in estate non lo faceva mai, preferiva lasciarla sempre aperta di notte – e tornò in camera. Quando passò davanti allo specchio, si spaventò guardandovi dentro il suo riflesso: una piccola Gina Loret la fissava con occhi sgranati, terrorizzati.


New York, 29.12.1989

Era ormai sera, e non smetteva di nevicare. L’ispettore Kelly era tornato nello studio del defunto David Bellino e aveva posato la cartellina con quella sorta di diario sul tavolo davanti a sé. Aveva scoperto un paio di cosette interessanti e anche Gina, Nat e gli altri, anche se controvoglia, gli avevano fornito qualche informazione. L’ispettore Kelly non conosceva né i pensieri né i sentimenti delle persone coinvolte in quelle storie, di cui ovviamente non conosceva neanche i più intimi dettagli, ma poteva fare affidamento su una intera serie di fatti che insieme tracciavano un quadro piuttosto chiaro. Fece un piccolo riepilogo nella sua mente. La povera, piccola Mary Brown con il viso spigoloso e l’atteggiamento timoroso. Aveva avuto una infanzia difficile prima di perdere la madre, e poi era cresciuta con un padre tiranno e bigotto. Quando David Bellino l’aveva abbandonata al Paradise Lost, non aveva naturalmente idea delle possibili conseguenze di quel gesto, ma la catena degli eventi che ne scaturirono portò Mary a una situazione senza via di uscita. A diciassette anni era rimasta incinta di un uomo affascinante e sconsiderato, e aveva dovuto accettare un matrimonio combinato da suo padre, rinunciando di fatto a qualunque speranza che la sua vita potesse cambiare in meglio. Sfortunatamente era proprio il tipo di persona che rimaneva intrappolata in situazioni del genere. La storia del night club non avrebbe avuto alcuna ripercussione negativa nella vita di centinaia di altre donne, ma non nella sua. Mary, la ragazzina che sognava un giardino pieno di fiori... Kelly sospirò. Steve Marlowe. Il fallito. Figlio di genitori ricchi; bambino viziato da una bella mamma elegante; una carriera promettente in una delle banche più rinomate di Londra. Peccato che avesse un fratello che ammazzava per conto dell’IRA e che avesse acconsentito a coprirlo fornendogli un alibi per quel 5 luglio 1979, quando Alan Marlowe lo aveva raggiunto a Nantes. E poi, come se la questione non fosse già abbastanza delicata, ecco spuntare di nuovo David Bellino che diceva di voler confermare l’alibi; peccato che poi si accorge del rischio che corre solo sul banco dei testimoni, dove in preda al terrore crolla provocando una catastrofe: Steve Marlowe viene accusato di falsa testimonianza, confessa e viene condannato a due anni di prigione. In modo impietoso, quando negli appunti si parla di lui, il tema ricorrente è la fine della sua carriera. E così, il giovane Steve Marlowe debole e sensibile, non


esattamente il tipo di persona che combatte contro il destino, soccombe. Natalie Quint. A Kelly piaceva il suo viso. Intelligente, attento, concentrato. Senza dubbio una donna di talento, molto interessante. Ma con il valium (aveva ammesso di prenderne in quantità) si era rovinata da sola. Dal bagno di sangue a Crantock, non era più stata capace di tenere sotto controllo i suoi nervi e solo con l’aiuto dei farmaci riusciva a vincere le sue fobie. Se la immaginò da bambina: già matura e sempre pronta a tenere testa a una madre vanesia e superficiale. Di certo, un buon rapporto con il padre, che però doveva condividere con cani e cavalli, sua unica e vera passione. Una ragazza di eccezionali capacità in un’isolata tenuta di campagna con le stanze dai soffitti alti e piene di spifferi, camini spenti e una serie interminabile di quadri di antenati alle pareti. Che si fosse sentita sola, incompresa? No, Natalie Quint non si lascia scalfire da niente e da nessuno, e va avanti per la sua strada a testa alta, con convinzione. Fin quando non prova l’inferno sul suo stesso corpo. E crolla. Si rialza, ma soltanto con l’aiuto di quel veleno che ingurgita presumibilmente in quantità sempre maggiori. Chissà cosa ha provato quella sera, quando David l’ha lasciata in balia di quell’orrore! Una donna come lei era capace di perdonare? E poi Gina Loret, oggi Lady Artany. La più bella di tutte, una donna orgogliosa, audace, determinata. Ciononostante la paura si era insinuata nella sua vita. Amava un uomo ambizioso che aveva pianificato la sua carriera, e lei sapeva che doveva fare la sua parte. John Eastley aspirava alla massima carica degli Stati Uniti; l’affascinante avvocato di Los Angeles che aveva conoscenze negli ambienti più influenti della finanza di tutto il mondo voleva la Casa Bianca. Senza dubbio aveva amato Gina. Ma Gina non poteva essere sicura di quello che lui avrebbe sacrificato se ce ne fosse stata la necessità. La sua carriera o il suo amore? «Poi David Bellino deve averle messo paura» mormorò Kelly, «lei sapeva che se lui non avesse tenuto la bocca chiusa sull’episodio di St Brevin, il vecchio Eastley avrebbe fatto di tutto per separarli. D’altra parte era troppo orgogliosa per dirglielo lei. Così ha preferito rinunciare volontariamente al matrimonio per non dover essere travolta, nel caso fosse scoppiato uno scandalo, dal penoso vortice di una separazione. Tipico di queste donne indipendenti.» Le immagini della vita di Gina gli scorsero davanti agli occhi come in una girandola: la piccola dai capelli castano scuro che con genitori ricchi ed esaltati fa il giro del mondo passando da un salotto all’altro dell’alta società. L’adolescente ribelle nella casa della gretta zia Joyce. La giovane bellissima nel prestigioso collegio tra lezioni di tennis, concerti e il corteggiatore non corrisposto Charles Artany. L’ostinata giovane donna piena di voglia di vivere che una volta giunta a New York abita in un tugurio e vende quadri di un pittore di quarta categoria. Gina a Los Angeles – ricchezza e lusso. Una vita variamente passata tra alti e bassi. Chissà, magari un giorno sarebbe anche finita alla Casa Bianca. Una


donna del genere poteva fare qualunque cosa! Qualcuno bussò alla porta, e quando l’ispettore Kelly disse a voce alta: «Avanti», Laura Hart entrò nella stanza. Si era cambiata, nell’abito da casa lungo fino alle caviglie in velluto color vinaccia, con quella impressionante quantità di rubini al collo e ai polsi, aveva un’aria molto lussuosa – mentre, fino a quel momento era apparsa una ragazza assolutamente normale nei vecchi jeans, con i capelli in disordine e il viso senza trucco. Sembra mascherata, pensò Kelly tra sé. «Perché non è insieme agli altri?» le chiese. Laura fece una smorfia. «Quelli non sono amici miei, io non appartengo al loro gruppo. E poi è stata servita la cena, e io non ho per niente fame.» Si avvicinò al bar e si versò un goccio di grappa. «Ne vuole, signor ispettore?» Kelly scrollò il capo. «No, grazie. Perché è venuta qui da me, signorina Hart?» «Ho trovato tutto molto interessante. Tipi strani, gli amici di David. Cioè, non c’entrano proprio con lui. Cosa pensa, chi di loro può averlo ucciso?» «È così sicura che sia stato uno di loro?» Bevve la sua grappa in un sorso, in piedi al centro della stanza. «Lei no?» «Finora non ho nessuna prova certa. Lei ha forse scoperto qualcosa?» Notò che Laura aveva una espressione di attesa. Si sedette di fronte a lui dall’altro lato della scrivania, e incrociò le gambe l’una sull’altra. I suoi gioielli brillarono alla luce della lampada. Probabilmente ha addosso circa centomila dollari, pensò Kelly. «Cosa pensa degli amici di David?» le chiese. Laura rispose svelta e senza esitazione. «Quella Mary Gordon è la classica donna insignificante senza un minimo di slancio, senza coraggio. Una che nella vita si lascia sottomettere dagli altri e poi piagnucola se le cose vanno diversamente da come se le immaginava. Subire un tale trattamento per anni può facilmente portare questi individui a commettere un omicidio.» Arguta, la ragazzina! Parla come se avesse già capito tutto, pensò Kelly divertito. «Steve Marlowe è uno smidollato» proseguì lei, «assolutamente incapace di prendere in mano la sua vita. E l’espressione sul suo viso... cielo, sembra un cane bastonato, sempre. Povero me! Quanto è stata ingiusta la vita con me! Che destino infame! Sguazza nell’autocommiserazione, lo trovo insopportabile.» «È piuttosto dura, signorina Hart.» «Non reggo gli uomini che si lamentano in continuazione. Lei sa che vengo dal Bronx, e se le raccontassi la mia infanzia, capirebbe che anch’io ne avrei eccome di motivi per lamentarmi. Se possibile addirittura molti di più di quei quattro messi insieme. Ma probabilmente sarei ancora in quello schifo, se avessi sprecato il mio tempo a piagnucolare. Invece...» Rise, ma la sua fu una risata strana che tradiva


fragilità, e strideva con lo scintillio dei gioielli. Kelly annuì. «Capisco, vada avanti.» «Natalie Quint è una donna intelligente. Veramente, veramente intelligente. La ammiro, ho sempre ammirato l’intelligenza più di qualunque altra cosa. Prende quella robaccia però, quei calmanti fortissimi; la sua sembra una dipendenza vera e propria. È un peccato. Ma almeno non si lagna.» «E cosa ne pensa di Gina Artany?» «È una bella donna. Forte. Non è intellettuale... come Natalie, ma ha una mente acuta, e anche un sano senso della realtà. Appartiene a quella schiera di persone che cade sempre in piedi.» Poi aggiunse pensierosa: «In effetti mi piace molto. Si impegna a fondo e rischia grosso. Non si lascia piegare». Kelly annuì lentamente. «Dunque questa è l’idea che si è fatta della faccenda. Mi dica ancora una cosa: secondo lei chi ha ucciso David Bellino?» Laura si alzò, e si versò dell’altra grappa. Quando si risedette, aveva una espressione assolutamente perplessa. «Non so. Davvero, non so. Eppure una di una cosa sono certa: ognuno di loro ne sarebbe capace.» «Ma c’è sempre la possibilità che siano stati i ladri a sparare a Bellino, non crede?» «No!» replicò Laura brusca. Kelly alzò gli occhi castani. «No? Come fa a escluderlo con tanta sicurezza?» «No... è che... perché avrebbero dovuto farlo? Quale sarebbe il movente?» «Semplice: Bellino li ha sorpresi.» «Erano ragazzini» disse Laura. «Gli ho aperto io la porta. Ragazzini, non assassini.» «Quei ragazzini, come li definisce lei, l’hanno aggredita e legata in un baleno. E per di più con una abilità tale – presumibilmente non era la prima volta che lo facevano – che lei non è riuscita a urlare neanche una volta. Dei maestri, questi ragazzini, non trova?» «Credo...» «Lei viene dal Bronx, signorina Hart. Conosce i lati peggiori di Manhattan. E sa bene quanto me che oggi i ragazzini di dodici anni sono capaci di ammazzare.» «Ma...» mormorò lei. Sembrava a disagio. Si scolò il bicchierino e prese a gesticolare nervosamente con le dita. Kelly la osservò attentamente. Si alzò. «Oltre all’analisi psicologica di ciascuno dei nostri quattro sospettati, che ha appena delineato egregiamente, vorrei sentire anche quella di un’altra persona ancora» disse. «Chi era David Bellino? Chi era?» Laura fece una leggera smorfia. «Era un uomo insensibile ed egocentrico.» «Tutto qui? Voglio dire, non ha più nulla da dire su di lui?»


«Credo che questa sia la sua vera essenza.» «Tuttavia» la guardò in modo penetrante, «io credo che lei sappia molto di più, signorina Hart. Non mi sembra una donna superficiale, ha vissuto con lui per due anni, dovrebbe conoscerlo bene, no? Per esempio, come si comportava con lei?» «Mi amava.» «Ne è sicura?» «Sì. Certo, a modo suo David Bellino mi amava. Ma ha sbagliato tutto. Non ha fatto altro che allontanarmi.» «Cosa ha fatto di preciso?» Laura sospirò appoggiandosi alla spalliera della sedia. «Temo, ispettore, che sia tutto piuttosto complicato. Vede, David Bellino, per tutta la vita ha desiderato essere amato. Ma non desiderava quel tipo di amore folle, insano, nevrotico con cui sua madre e Andreas Bredow lo soffocavano. Lui voleva essere amato per quello che era, il ragazzo snob con la passione per le auto sportive, abiti firmati e il lusso sfrenato. Quando era piccolo, quei due lo hanno talmente sovraccaricato con le loro aspettative, che lui è diventato un uomo insicuro e assillato dai dubbi, e secondo me anche dall’odio verso se stesso.» «Odio verso se stesso?» «Sì. Si odiava perché non era come loro volevano. Odiava tutte le sue debolezze. E più le odiava, più disperatamente vi si aggrappava. Desiderava solo essere se stesso.» Kelly annuì. «E l’amore gli serviva per affermare se stesso.» «Già. Ma non ha funzionato. Prima di conoscere me, cambiava una donna alla settimana.» «Perché?» «Una donna per David non era una compagna, una persona con una propria personalità che aveva deciso liberamente di stargli accanto. Era una sua proprietà. Punto e basta. E si comportava di conseguenza: le faceva toccare il cielo con un dito, ma il prezzo da pagare era essere la sua schiava. E quelle non glielo consentivano.» «E con lei, come è stato?» «Mi ha vista come la soluzione ai suoi problemi. Ero quello che aveva sempre cercato: una ragazzina confusa, timida e insicura, con alle spalle una vita fatta di paure, povertà e una famiglia sgangherata. Non appartenevo alle donne eleganti, risolute che aveva sempre avuto, che non si sognavano neanche di gettarsi ai piedi di un uomo. Io agognavo protezione, affetto, qualcuno che si prendesse cura di me, che potesse essere il mio punto di riferimento. Ho succhiato il suo calore come un vampiro, e lui ha cominciato ad amarmi pazzamente solo perché io non mi ribellavo a lui. Credeva di non essere capace di avere accanto a sé una donna emancipata. Ma alla fine...» «Alla fine?» «Non ho mai frequentato buone scuole, ispettore, e vengo dai bassifondi, ma mi ritengo una persona abbastanza intelligente. Non


poteva continuare così. Alla fine neanche a me è andato a genio il ruolo della donna sottomessa.» Kelly annuì. Quella donna non solo era abbastanza intelligente, era molto intelligente. Era giovanissima, ma già molto matura, e lui era rimasto affascinato fin da subito dai suoi occhi acuti, svegli. «Alla fine» continuò lei, «il nostro rapporto è diventato insostenibile. Aveva capito che prima o poi mi sarei affrancata da lui, ma conosceva il mio punto debole: la paura della povertà. Diceva che senza di lui sarei tornata da dove ero venuta, e con quella minaccia mi tormentava e mi teneva sul filo. Io tremavo per il terrore e stavo zitta. Lui mi tiranneggiava per amore, e io glielo lasciavo fare per paura. Era tutto così ingarbugliato.» «Lo odiava?» Lo guardò con aria molto sincera. «Sì, ma mi faceva anche una gran pena.» «E lui? La odiava?» «Oh, certo. Ha cominciato a odiarmi quando ha capito che prima o poi me ne sarei andata. E anche se può sembrare una follia, il suo amore non è cambiato.» Fece una pausa e poi disse pensierosa: «Non capiva proprio nulla della sua vita». Adesso tacquero entrambi, ciascuno assorto nelle proprie riflessioni. Kelly guardò verso la finestra. La neve aveva ammantato la città di uno strano silenzio. «Ebbene» disse lui alla fine, «dobbiamo ritornare dagli altri. Forse c’è ancora qualcosa da mangiare, e lei potrebbe avere un po’ di appetito. E poi, la storia continua.» Lei si alzò dalla sedia e raggiunse la porta passando davanti all’ispettore con un fruscio e lasciando una scia di Chanel n. 5. Laura prese la cartellina... «Davvero» chiese con aria imbronciata, «dobbiamo continuare con queste storie?» Kelly fece cenno di sì col capo. «La faccenda si è appena complicata» disse.


LIBRO III


Agosto 1981

«Sa» disse il dottor Parker, mentre fissava Natalie, «sarebbe molto meglio se lei riuscisse a risolvere i suoi problemi, piuttosto che imbottirsi di farmaci.» Aveva occhi amichevoli in quel viso maturo, segnato dalle rughe, che infondeva tanta fiducia. Natalie, in un sobrio tailleur bianco e con un trucco leggero, rise nervosamente cercando invano di tenere le mani ferme. «A essere sinceri dottore, lei è il terzo terapeuta a cui mi rivolgo, e anche gli altri mi hanno detto che... ci vorrà molto tempo... prima che io ritorni di nuovo normale...» «Lei è normale, Natalie. Al momento è solo malata; quando uno ha un raffreddore mica dice di essere anormale, giusto?» «Ma dottore, sappiamo bene entrambi che questo non si può paragonare a un raffreddore. Prima di tutto dura di più e io non ho tempo. Devo lavorare, non posso permettermi di crollare ancora quando lavoro. Sono già stata licenziata da due giornali perché ho fallito nel momento decisivo, o meglio perché i miei nervi hanno ceduto. Una volta ero a un concerto di una rockstar, che avrei dovuto intervistare subito dopo lo spettacolo ma ho perso i sensi e mi sono ritrovata sul lettino di un dottore. L’altra ero nella hall dell’hotel Savoy con Joan Collins per un’intervista, ma mentre l’aspettavo, è arrivato un gruppo di turisti giapponesi esagitati, gesticolanti e urlanti, e devo essermi sentita in pericolo. Mi è venuto di nuovo il panico... un senso di claustrofobia, mi capisce... e sono fuggita dall’hotel, mi sono precipitata per strada correndo come se la terra si sgretolasse alle mie spalle, e ho continuato a correre e correre finché sono finita in una caffetteria su una sedia, e solo là mi sono resa conto di quel che era successo. In entrambi i casi, i giornali hanno perso un sacco di soldi. Il problema è...» Natalie frugò nella sua borsetta alla ricerca di una sigaretta. Il dottore gliela fece accendere, e poi lei fece un bel tiro appoggiandosi alla spalliera della sedia. «Il problema è che in quei momenti io non ho più il controllo su di me. Non sono più padrona delle mie azioni.» «Questo è intrinseco alle fobie, Natalie.» «Sicuramente. Ma è qualcosa che non avevo mai provato prima. Ho sempre saputo controllarmi nella vita. Sempre.» Lui annuì osservando il suo visetto distaccato e dagli occhi vispi. Certo. Una donna come Natalie Quint non perdeva mai il controllo. «Non riesco a far smettere di tremare le mie mani» proseguì lei.


«Tutto d’un tratto mi ritrovo in un bagno di sudore, vedo nero. Le gambe mi diventano molli, e perdo i sensi. Non riesco a evitarlo.» Il dottor Parker, che aveva percepito la punta di disperazione nella voce di Natalie, senza mezzi termini disse: «Dopo quello che ha subito, Natalie, tutto questo non è insolito. Non deve preoccuparsi tanto, e soprattutto non deve farsene una colpa. Lei è...» «Dottore lo so. So tutto. E so anche che col tempo lei potrebbe aiutarmi. Ma questo non mi serve a niente adesso. Vede» fece un altro tiro dalla sigaretta, «mi hanno offerto un lavoro alla televisione. La BBC mi vuole come moderatrice di un talk show. È una grossa opportunità per me, forse l’ultima. Non posso fallire!» Il dottor Parker rispose serio: «Uno studio televisivo non è di certo il posto più adatto a lei, e questo lo sa. È caldo, piccolo, affollato. Deve rifletterci bene prima di...» «Il mio lavoro era tutta la mia vita, dottore. Voglio dire, lo è ancora. Vivo per la mia carriera di giornalista. L’ho sempre sognato. Non posso e non voglio mollare solo perché ho avuto la sfortuna di capitare nelle mani di pazzi, seguaci di una setta. Dottor Parker» proseguì con voce cristallina, «se lei non mi prescrive il valium, mi rivolgerò ad altri, finché troverò chi lo farà.» «Non si tratta di questo, e lei lo sa. Da un anno le lascio già prendere dieci milligrammi di valium al giorno. Non voglio aumentarle la dose perché c’è il rischio di dipendenza.» «A me non basta.» «Accidenti! Lo sa che poi sarà molto difficile prenderne meno?» disse il dottore passandosi nervosamente la mano tra i capelli. Guardò il viso duro e deciso dall’altra parte della scrivania e capì che Natalie non era disposta a cedere. «Okay, okay, ha vinto. Aggiungo qualcosina ma senza esagerare, e non cerchi di farmi cambiare idea. E in più deve venire tre ore alla settimana qui da me!» «Due ore. Non ho molto tempo.» Si guardarono. Con uno scatto impulsivo, il dottore strappò un foglio dal suo ricettario. «Va bene. Due ore. E cerchi di essere costante.» «Naturalmente» disse Natalie. Ficcò la ricetta nella borsetta e si alzò. «Grazie dottore. Credo che così potrò farcela.» Si congedarono con una stretta di mano, e il dottor Parker pensò: ce la farà, ma a un caro prezzo. Steve era uscito di prigione con la sensazione di essere più vecchio di dieci anni, e si meravigliò di constatare che Londra non era cambiata affatto, e che il cielo, i fiori, gli alberi c’erano ancora. Nei parchi le rose erano sbocciate, ed era piena estate. Era diretto alla banca Wentworth & Davidson in Fleet Street. Indossava l’abito migliore che aveva, una cravatta blu scuro, e il giorno prima era stato a tagliare i capelli. Aveva un’aria così pulita, che un paio di skinhead che incrociò per strada, lo urtarono e lo ricoprirono di insulti.


La reazione fu un subitaneo bagno di sudore. Si allentò il nodo della cravatta, e con un fazzoletto si tamponò la fronte. Quella maledetta insicurezza lo avrebbe tormentato per sempre. Subito dopo il suo rilascio, era andato in un albergo dove aveva consumato tutti i bagnoschiuma facendosi la doccia, e aveva frizionato il corpo con essenze profumate. Non era servito a niente. Si sentiva sporco come prima, sulla lingua aveva ancora il gusto delle schifezze scotte e bruciate che gli davano da mangiare in prigione, davanti agli occhi aveva ancora gli scarabocchi osceni che decoravano i muri del bagno, e di notte sentiva ancora i versi dei vicini di cella: due uomini che abusavano l’uno dell’altro. Pensò disperato: me lo porterò dentro per sempre. La segretaria di Jack Wentworth gli aveva concesso un appuntamento per un colloquio di lavoro solo per sfinimento. Steve l’aveva letteralmente elemosinato; ma aveva una certa pratica in materia poiché in prigione aveva dovuto farlo per ogni minima cosa. «Ero stato praticamente assunto già... due anni fa. Con un contratto di formazione. La prego, mi dia una possibilità. Per me... non è cambiato niente.» «Signor Marlowe...» Con molto tatto quella segretaria preferì sorvolare su quello che era cambiato nella sua vita, ma ce l’aveva senza dubbio sulla punta della lingua. Era chiaramente molto in imbarazzo, e fu solo per tirarsi fuori da quell’impiccio che alla fine gli concesse un appuntamento. Era l’unico modo per chiudere la questione. «Va bene, va bene. Il signor Wentworth ha un buco libero domani alle 16.00.» La banca Wentworth & Davidson era un luogo sacro. Quando si oltrepassavano le porte girevoli con le maniglie color oro, si veniva subito investiti da un profumo di vecchio ma di sostanza, che ispirava estrema fiducia e, al contempo, esigeva estremo rispetto. Wentworth & Davidson erano come la Gran Bretagna: conservatori, fieri, tradizionalisti e incorruttibili. Steve si sentiva come un hippy che entri a Buckingham Palace; assolutamente fuori posto. La segretaria del signor Wentworth, una energica signora non più molto giovane dai capelli biondi e in un abito di cotone turchese, gli sorrise in modo affabile quando Steve si presentò, e lo invitò ad accomodarsi un attimo. Lui aveva un nodo in gola. Con discrezione si allungò le maniche della giacca fin sopra metà mano. Nessuno doveva accorgersi delle cicatrici sui suoi polsi. Dalla stanza accanto giungeva il ticchettio di una macchina da scrivere, nel corridoio si parlava a bassa voce. La sintesi perfetta tra forma e sostanza... in passato una tale atmosfera non l’avrebbe spaventato. Forse non l’avrebbe neanche notata. Ma ora, quello non era più il suo mondo, e si chiese, se mai vi sarebbe rientrato. Dopo un’ora comparve la segretaria, e con freddezza gli annunciò che il signor Wentworth era pronto per riceverlo. Steve si sentiva la fronte imperlata di sudore, ma preferì non tirare fuori il fazzoletto. Non gli era mai capitato di non sapere dove mettere le mani, ma quando entrò nel santuario di Jack Wentworth fu come se avesse avuto solo braccia e


gambe. Aveva l’impressione di muoversi come una goffa marionetta guidata da un marionettista imbranato. I suoi occhi furono subito attirati da un quadro a grandezza naturale di Benjamin Wentworth, bisnonno di Jack Wentworth e fondatore della banca. La sua espressione diceva: sono più duro di una roccia. Abbassando lo sguardo, i suoi occhi vagarono sui suoi discendenti che occupavano lo spazio sotto il quadro, e capì subito: il signor Jack Wentworth si circondava solo di gente vincente, non di perdenti. Il fatto che lo avesse ricevuto era solo un ultimo atto di gentilezza che doveva allo Steve di un tempo e a suo padre. Si alzò, ma non strinse la mano al suo visitatore. «Prego, si accomodi, signor Marlowe. Non ho molto tempo, ma...» La frase rimase nell’aria. Mentre si sedeva, Steve si accorse che aveva preso a respirare affannosamente e pensò che quel comportamento non doveva fare una buona impressione. «Signor Wentworth non le ruberò molto tempo...» Si soffocava là dentro! Sul viso del signor Wentworth non c’era l’ombra di un sorriso. «Signor Marlowe devo dirle che purtroppo non posso fare nulla per lei.» Con mani tremanti, Steve tirò fuori un fazzoletto e si tamponò la fronte sudata. La conversazione era finita prima ancora di cominciare. Peter Gordon aveva due passioni: seguire il football e le corse di cavalli in televisione e andare nella sua birreria preferita, a due passi da casa, dove passava ore con gli amici a bere una birra dopo l’altra e a inveire contro i politici. La sua terza passione, andare a letto con Mary, si era un po’ spenta. Per lo più, era troppo pigro o ubriaco, oltre a non trovarla attraente. A lui piacevano volgari bionde prosperose, e la piccola e fragile Mary dai capelli rossi non era assolutamente il suo tipo. Così comprava le sue riviste porno preferite e si chiudeva in bagno. E comunque Mary non era mai contenta, gli rinfacciava sempre di non essere né affettuoso né dolce e di non avere nessuna premura nei suoi confronti. Lei pretendeva essere toccata con i guanti bianchi, e non la sfiorava nemmeno il pensiero che gli uomini avessero delle esigenze. Quanto a Mary, all’inizio si era sentita sollevata del cambiamento. Non era mai stato un piacere andare a letto con Peter. Ma poi era giunta l’estate, l’estate in cui la piccola Cathy aveva due anni e voleva uscire sempre di più all’aria aperta; la situazione era diventata più triste e sconsolata che mai. Era una estate calda, molto più calda e secca del solito in Inghilterra, e d’un tratto tutto le sembrò intollerabile. Nel piccolo appartamento si soffocava; il treno rimbombò e smosse la polvere che attraverso la finestra obliqua del soggiorno si andò a posare sul tappeto scolorito. Le tazze nella credenza tintinnarono. Mary si premette le mani contro le orecchie. Non ce la faccio più, pensò esaurita, non ce la faccio più! Aveva implorato Peter di trasferirsi in un altro appartamento. Da qualche tempo lui lavorava in una scuola come bidello, e Mary come cameriera in uno snack bar quattro sere a


settimana. I soldi non erano tanti, ma sarebbero bastati per una sistemazione un po’ più dignitosa. «Almeno un balcone, Peter. E con del verde vicino, in modo che Cathy non debba giocare in quello sporco cortile. E forse anche...» dovette urlare perché stava passando un altro treno. «Un posto dove non ci sia tutto questo frastuono!» «Non se ne parla. Solo qui l’affitto è così basso. In altri quartieri chiedono il doppio!» «Ma potremmo permettercelo. Per cosa vuoi risparmiare? Sempre per quelle scommesse sui cavalli...» Mary stava per scoppiare in lacrime. Lui spendeva tutto all’ippodromo, e non vinceva mai nulla. Non gliene importava niente che Cathy giocasse tra i bidoni di immondizia e vecchi pneumatici. Ma del resto Cathy non era sua figlia. Non aveva nessun motivo per interessarsi a lei. E così le era venuta un’idea: fare un secondo bambino. Un bambino di Peter. Sarebbe stato un modo per legarlo alla famiglia, forse gli avrebbe fatto venire quel senso di responsabilità finora dolorosamente latitante. Niente più scommesse sui cavalli, niente più serate in birreria. E un bell’appartamento, forse persino al pianterreno con un piccolo giardino davanti, dove piantare i suoi fiori preferiti. Un bambino, ecco. Convinse Peter a fare una vacanza al mare per due settimane, solo loro tre. «Troviamo un posticino economico, magari un bed & breakfast, e poi ce ne stiamo tutto il giorno in spiaggia. Ci farebbe molto bene, Peter. Cambiare aria è utile a tutti. Sono certa che piacerebbe anche a te!» Inizialmente Peter non fu d’accordo. Perché cambiare aria? Perché partire? Lì aveva tutto quello che gli occorreva: la sua birreria, i suoi amici, il suo televisore. Viaggiare era scomodo e noioso. Tuttavia, alla fine cedette, soprattutto perché Mary non sembrava disposta a mollare e lo stava esasperando con la sua azione di martellamento continuo. Tra l’altro, sarebbe partito anche qualche suo amico, e da solo non avrebbe avuto voglia di andare in birreria. Tra un brontolio e l’altro, fece la sua valigia controvoglia. Mary aveva affittato due camere, una piccola per Cathy e una più grande per loro due, presso una famiglia a Wells-next-the-Sea, una piccola località turistica nel Norfolk. «Che spreco» ringhiò Peter, quando, una volta arrivati, la padrona di casa mostrò loro le camere, «avremmo potuto benissimo far aggiungere un letto per Cathy nella nostra stanza, per pagare meno. Ma a quanto pare tu non vuoi capire che non abbiamo soldi!» «Peter, pensavo che noi...» Si voltò verso di lui. La luce del sole al tramonto fece brillare i suoi capelli rosso scuro. «Pensavo che questa vacanza potesse essere un’occasione per prenderci un po’ di tempo per noi.» Fece cenno al letto, e le sue guance pallide arrossirono. Peter sorrise. «Oh! Questa è nuova! Ho sempre pensato che non ti piacesse quando ti tocco!»


«Ero così giovane quando ci siamo sposati, Peter. E avevo una brutta esperienza alle spalle...» Gli parlò con molta dolcezza. In realtà avrebbe tanto voluto gridargli: sì, proprio così, non mi piace quando mi tocchi! Che dico, non mi piace: mi fa schifo! Ti muovi come un animale in calore, e non te ne frega niente di quello che sento io. Le donne per te sono solo un mezzo per raggiungere il tuo piacere – un po’ come mangiare, bere e le scommesse sui cavalli. Niente di più. «Mi manca fare l’amore con te, Peter.» Si avvicinò al letto, si sfilò l’abito dalla testa. Indossava della nuova biancheria intima di pizzo. Peter fissò il punto dove finivano le calze e cominciava la pelle. «È nuovo?» chiese. Lei sorrise, ma dentro soffriva per il desiderio spudorato con cui la guardava. Porco schifoso, pensò piena di odio. «Sì. Nuovo. Per te.» Faceva caldo, il viaggio in treno era stato lungo, e Peter non aveva voglia. Appena arrivati, aveva scoperto un televisore in una sala di sotto; avrebbe potuto vedere se trasmettevano la corsa da Ascot... ma Mary era così carina con quelle giarrettiere... e aveva anche un buon profumo, notò. «Spendere così tanti soldi per delle mutande» bofonchiò lui, ma in realtà non era irritato. La voglia di Mary aumentava pian piano. Era passato esattamente un anno dall’ultima volta che avevano fatto sesso. Che poi, era anche stata l’ultima volta che lui aveva avuto una donna. Sorrise di nuovo. «Potrebbe arrivare la piccola...» «L’ho messa a dormire, era stanchissima. Dormirà almeno per un’ora.» Mary si sfilò gli slip. Oddio, quanto odio dovermi spogliare davanti a quegli occhi! Ma devo riuscirci. Ormai è quasi fatta. In fretta e furia, senza il minimo romanticismo, Peter si tolse i pantaloni e la camicia e si buttò su Mary come un gorilla affamato su una banana. Puzzava di sudore e birra, aveva la pelle umida, ma il suo corpo era sempre forte, muscoloso, tonico. Forse, pensò Mary, qualcuna lo trova anche attraente. Come sempre lui si comportò in modo rozzo, grossolano ed egoista più che brutale; ma quantomeno durò pochissimo. Mentre lui gemeva, Mary strinse le sue gambe intorno alle anche di lui, lo tirò forte dentro di sé e pensò disperatamente: fa’ che rimanga incinta! Ti prego Signore, fa’ che rimanga incinta! Avvertì un certo appagamento. Lui non immaginava nulla di quello che sarebbe potuto succedere. Era più che sicuro che lei prendesse la pillola. Ma da dieci settimane non lo faceva più. Oh, sì! Mi sono preparata per bene, pensò lei. Scivolò fuori da lei e rotolò dall’altro lato del letto. Si addormentò dopo un secondo. Dormiva sempre subito dopo, ma solo per cinque minuti, poi si svegliava con la sete. «Puoi andare a prendermi una birra?» le mormorava. E per lei, era sempre stata un’umiliazione andare in cucina a prendergli una birra dal frigorifero e un bicchiere pulito. Qualche volta si chiedeva cosa sarebbe successo se si fosse opposta al


volere del padre. Me ne sarei andata in giro per le montagne della California a piedi nudi e la chitarra a tracolla... Rideva sempre a quell’idea. Non le si addiceva per niente. Peter aprì gli occhi. «Cielo, ho una sete. Puoi andare a prendermi una birra?» Mary si alzò e si infilò l’accappatoio. Forse era già successo. Forse davvero sarebbe arrivato un bimbo... Scese la scala bianca ed entrò in cucina. La padrona di casa era davanti al tavolo e impastava un dolce. Era una donna dall’aria materna con le guance rosa, gentili occhi blu e un grande grembiule bianco intorno ai fianchi rotondi. «Si trova bene qui da noi?» chiese sorridente. Mary arrossì e rispose: «Sì... ho appena fatta la doccia...» Aveva bisogno di giustificare il fatto che girasse in accappatoio; non voleva assolutamente far capire il vero motivo. «Già, è la cosa migliore in una giornata così calda» rispose la donna. Aggiunse i pezzi di mela all’impasto. Dal giardino giunse l’allegro vociare di bambini. Mary pensò: Che bella vita tranquilla e semplice. Bambini, una casa accogliente, un giardino. Chissà, magari ha anche piantato erba cipollina e fagioli, e la domenica vanno tutti insieme in chiesa... «Posso avere una bottiglia di birra?» chiese. «E un bicchiere?» «Certo. La trova nel frigorifero. Prenda nota, che la mettiamo sul conto dopo.» Mary ritornò di sopra con la birra. Peter era già in piedi e rivestito. «Bene» disse prendendole la birra dalla mano, «proprio quello che ci voleva!» Bevve metà bottiglia a grossi sorsi, e poi la posò sul tavolo. «Vado giù a vedere la televisione. Forse trasmettono qualcosa della corsa di Ascot.» Mary gli prese la mano. «Ti è piaciuto?» gli chiese in un sussurro. Dopo tutti quegli anni, e nonostante i calcoli per portarlo a letto quel giorno, non si era ancora liberata di quel profondo e ardente bisogno di affetto e tenerezza. Lo guardò con occhi imploranti. Peter si rimboccò le maniche della camicia. «Certo, che è stato bello!» E le accarezzò i capelli tanto energicamente da tirarglieli e farle male. «Una bella novità da ripetere ogni tanto, non trovi?» «Sì» rispose accennando un sorriso. Peter si chiuse la porta alle spalle. Mary scivolò nel letto, e si raggomitolò su se stessa. Era sul punto di piangere ma cercò di concentrarsi su qualcos’altro: un bambino. Era convinta che un bambino avrebbe cambiato tutto.


Dicembre 1981

1 In ottobre, il dottore le aveva confermato che era incinta. In preda a un improvviso terrore o che Peter potesse non esserne entusiasta come lei, lasciò che arrivasse l’inizio di dicembre prima di riuscire a dirglielo. Preparò con cura il momento della verità, decisa prima a sorprendere Peter con una cenetta coi fiocchi, per poi comunicargli la notizia con cautela. Andò al negozio di gastronomia e comprò costolette di agnello, fagioli e patate e insalata Waldorf come antipasto. Peter l’aveva assaggiata una volta a casa della famiglia dove lavorava come giardiniere, e gli era piaciuta molto. Poi comprò anche un profumato ananas, ciliegie da cocktail, kiwi e una bottiglia di spumante. Tornata a casa, passò l’aspirapolvere nel soggiorno, apparecchiò il tavolo con una tovaglia bianca, il servizio di piatti col bordino in oro che Peter aveva ereditato dalla madre, e una candela giallo miele al centro. La stanza era illuminata dalla luce rossastra della sera. Soddisfatta, ammirò il suo lavoro. Andò in cucina e mise l’insalata in due grandi ciotole. Come aperitivo avrebbe offerto a Peter un bicchiere di sherry; con le patate avrebbe preparato le crocchette; avrebbe svuotato l’ananas della polpa, l’avrebbe sminuzzata, marinata nel Porto e poi rimessa nel suo guscio, con ciliegie da cocktail e fettine di kiwi, il tutto guarnito con della panna e qualche biscotto. Man mano che montava la panna, sentiva montare sempre di più anche l’emozione. Aveva la nausea. Sussultò, quando Cathy entrò in cucina. «Che fai? Una festa, mamma?» «Io e papà abbiamo qualcosa da festeggiare, tesoro. Ti dispiace stasera cenare da sola in camera tua? Solo per oggi, si intende! Sai, devo dirgli una cosa importante.» «Cosa?» «Dopo, tesoro, dopo lo dirò anche a te. Te lo prometto!» Cathy mugugnò un po’, ma alla fine dichiarò di essere disposta a rimanere in camera sua. Il cuore di Mary batteva all’impazzata; le mani erano umidicce. Si fece la doccia, lavò i capelli e indossò un abito verde che stava benissimo con il colore dei suoi capelli, secondo il giudizio della commessa, e poi si concesse un generoso spruzzo di profumo sulla scollatura e i polsi. Quando sentì Peter all’ingresso, fu assalita da vampate di calore alternate a sudori freddi. Gli andò incontro. «Buonasera, Peter.»


Aveva bevuto. Un’ondata di puzza di birra la investì mentre gli si avvicinava. Voleva salutarlo con un bacio, ma lui non la guardò nemmeno. «Sera» ribatté scorbutico. «Sei stanco?» «Certo. Non lo saresti anche tu dopo una lunga giornata?» «Già. Su, andiamo, ti ho preparato tante cose buone per cena.» Ringhiò qualcosa e andò in soggiorno passandole davanti. Rimase impalato sulla porta. «Cosa diavolo significa?» I piatti e le posate riflettevano il tremolio della luce della candela. Gli occhi di Peter erano pieni di collera. «Cosa significa?» ripeté lui con un tono che non prometteva niente di buono. «Abbiamo qualcosa da festeggiare, Peter. Così ho pensato di preparare una cena speciale. Devo dirti una cosa molto bella.» «Festeggiare? Hai detto festeggiare?» Si gettò sul divano, e osservò disgustato i bicchieri di spumante. «Non c’è della birra?» Mary volò in cucina, e prese una birra. Sarebbe andato tutto storto, tutto storto. Era di cattivissimo umore, se possibile ancora più del solito, e aveva anche bevuto. Era sempre molto aggressivo quando beveva. Ma quando ha bevuto? si chiese. Secondo l’orario, è venuto direttamente a casa dal lavoro. Quando tornò in soggiorno, il televisore era acceso su una puntata di una soap opera senza fine che parlava di due famiglie che vivevano sulla stessa strada. Peter seguiva assiduamente quel genere di programmi. «Vuoi assaggiare un po’ di insalata?» chiese lei timidamente. «Non ho fame.» Ora aveva davvero paura. E se Peter si fosse sentito ingannato? Era convinto che lei prendesse la pillola. In silenzio, si servì di un po’ di insalata, ma non l’assaggiò; aveva la gola serrata e lo stomaco in subbuglio. Non vedeva l’ora che quella stupida soap opera finisse; le rimbombavano le orecchie tanto era alto il volume. «Bella» mormorò Peter, «davvero molto bella, tutta questa messinscena.» Mary lo guardò da sopra l’insalata. «Cosa vuoi dire?» «Festeggiare! Guarda caso proprio oggi! Proprio oggi ti viene in mente che abbiamo qualcosa da festeggiare! Questa è proprio buona!» «Non capisco...» «No, la signora non capisce! Certo! Pensi» la guardò torvo, «pensi che sia venuto a casa direttamente dal lavoro?» «Sì, pensavo...» «E da quando in qua pensi? Non hai notato che sono ubriaco? Allora devo essere andato in birreria, giusto?» Siccome lei non rispose, lui urlò: «Giusto?» «Sì, giusto.» «E sai perché? Te lo dico subito. Ti dico io cosa dobbiamo festeggiare oggi. Qualcosa di fantastico, meraviglioso!» Piegò la testa all’indietro e rise sguaiatamente. «La mia libertà! La libertà di Peter Gordon! Cosa ne


pensi del fatto che tuo marito è un uomo libero?» «Un uomo libero?» Lei lo guardò confusa e agitata. Con un tonfo posò il bicchiere di birra. «Proprio così. Sono un uomo libero. Da oggi pomeriggio. Mi hanno licenziato.» «Peter!» «Peter!» la scimmiottò. «La signora non l’aveva considerato! Suo marito è disoccupato, signora. I bei tempi sono finiti!» Quali bei tempi? si chiese lei, semicosciente per la paura. Da fuori giunse il fragore di un treno che sovrastò il volume del televisore. «Niente più gamberetti e niente più spumante» si affrettò ad aggiungere Peter compiaciuto, «e naturalmente niente più vacanze. L’assegno di disoccupazione è una miseria. Dovremo stringere la cinghia d’ora in poi!» Ovviamente non fece alcun riferimento ai soldi che riceveva ogni mese dal padre di Mary. Si divertiva a spaventarla. Lei era ammutolita. Peter si stiracchiò sul divano. «Dai, su, adesso tocca a te. Cosa volevi festeggiare tu in questo giorno di merda?» Mary aveva i riflessi come rallentati, appesantiti. Devo dirglielo, pensò, non posso più rimandare. «Cosa volevo festeggiare? Io... piuttosto noi...» «Non ti capisco.» «Peter, aspettiamo un bambino.» Adesso era lui quello ammutolito. Rimase senza parole per qualche minuto. Poi alla fine, assolutamente esterrefatto, disse: «Non può essere vero!» «L’ho scoperto oggi, ne sono più che sicura.» «Ma tu prendi la pillola! È impossibile, non puoi essere incinta!» «Io...» pensò bene di non guardarlo. «Io non l’ho più presa per un po’ di tempo.» «Cosa?» «Ti prego, Peter. Non essere arrabbiato con me. Desideravo tanto un figlio tuo. Davvero. E lo voglio ancora. Cerca di capire...» Peter balzò in piedi e spense il televisore. Poi si voltò verso Mary. Non lo aveva mai visto così furioso. «Non è il caso» disse calmo, «di andare avanti con questo scherzo.» Lei non rispose, nei suoi occhi si leggeva chiaramente che aveva capito che lei non scherzava. E poi, tutto d’un tratto, cominciò a urlare: «Vacca! Sei una autentica vacca! Mi hai fregato! Per questo tutta quella sceneggiata, la biancheria nuova, il profumo e la stanza tutta per noi! Avevi pianificato tutto solo per strapparmi un figlio! E io, stupido che non sono altro, ci sono caduto pensando che l’aria di mare facesse miracoli perché d’un tratto mia moglie voleva fare di nuovo l’amore con me! Come no! Ti serviva un toro, nient’altro, hai...» «Peter, ti prego! Ci sentono tutti!» «Che ci sentano! Non me ne frega niente! Tanto, se ne accorgeranno subito quando sentiranno un bambino strillare, no?» «Non pensavo che tu...»


«Cosa? Davvero pensavi che mi avrebbe fatto piacere? Mi prendi in giro? Se ne fossi stata sicura, non avresti agito alle mie spalle come hai fatto! No, volevi mettermi davanti al fatto compiuto, perché pensavi che non avrei più potuto fare niente, e magari alla fine ti avrei anche abbracciata, felice. Ma, è qui che ti sbagli! Sai che ti dico, questo bambino io non lo voglio. Per nulla al mondo e a ogni costo!» Sulle guance di Mary ora scorrevano le lacrime che aveva trattenuto per tutto il tempo. «Come puoi dire una cosa del genere? Come puoi...» «Dico quello che voglio, capito? E ti dico anche un’altra cosa: vai da un dottore e ti fai dire cosa devi... dannazione, cosa puoi fare per non avere più questo bambino, chiaro?» Lei lo fissò quasi accecata dalle lacrime e dalla disperazione. «Stai parlando anche di tuo figlio, lo sai vero? È tuo figlio quello che vuoi condannare a morte!» Peter era fuori di sé, non riusciva più a contenere la rabbia. «Che vuol dire condannare a morte? Non l’ho mai neanche voluto! Non immaginavo neanche quello che hai fatto! Neanche nei miei incubi peggiori, sarei arrivato a pensare che tu fossi così stupida, così dannatamente stupida! In questo buco di casa vorresti mettere un altro bambino? E dove, dimmi, dove? Ci stiamo a malapena noi, ma la signora voleva assolutamente un altro figlio, per stare ancora più stretti! Che fantastica idea, davvero! Soprattutto adesso che dovremo vivere solo con la mia disoccupazione. Non ti ha proprio sfiorato il pensiero che forse non potevi assumerti una tale responsabilità? No, devi soddisfare ogni tuo capriccio. Ma con me non funziona così. Questo bambino non nascerà.» Scaraventò via la bottiglia di birra sul tavolo e si alzò. «Me ne torno in birreria» borbottò «sono stufo!» Se ne andò sbattendo la porta. Cathy uscì intimidita dalla sua camera. «Mamma, perché piangi?» Mary cercò di asciugarsi le lacrime. «È tutto a posto, Cathy. Non è successo niente. Torna in camera, vengo subito da te. Devo fare prima una telefonata.» Le mani le tremavano al punto che non riusciva a tenere ferma la cornetta. Dovette comporre il numero tre volte perché continuava a sbagliarsi. Alla fine, dopo qualche squillo, sentì partire una voce: «Risponde la segreteria telefonica di Natalie Quint...» Natalie era seduta nella sala trucco dello studio televisivo e cercava di calmarsi. Mancavano ancora trenta minuti all’inizio del suo talk show. Due interviste a due ospiti di spicco. La prima, Claudine Combe, era una giovane attrice francese fino a qualche settimana prima sconosciuta che all’Old Vic recitava nel ruolo di Ofelia: la sua interpretazione, molto apprezzata dal pubblico e dalla critica, l’aveva fatta salire alla ribalta come la più grande rivelazione della storia del teatro inglese degli ultimi vent’anni. La seconda ospite, Liza Minnelli, era di passaggio a Londra, e la BBC era molto orgogliosa che avesse concesso loro quella


intervista. In sala trucco, la maggior parte dei colleghi di Natalie leggeva e rileggeva i propri appunti o ripeteva tra sé e sé le battute della presentazione. Natalie non lo faceva mai. Lei cercava di rilassarsi, mentre una spugnetta le accarezzava il viso, mani esperte le applicavano cipria e fard, le coloravano le labbra dopo averne delineato il contorno e le applicavano il mascara sulle ciglia, in sottofondo il costante, rassicurante ronzio del phon. Nancy, la truccatrice le aveva spruzzato la lacca sui capelli e adesso li stava modellando ciocca per ciocca, anche con l’aiuto del phon, affinché mantenessero al meglio la piega. «Ora bando ai nervi, Natalie. La troveranno tutti bellissima.» Natalie aprì gli occhi. Il trucco, cipria e fard compresi, le conferivano un’aria sana ed energica. Indossava un elegante tailleur di lino color ruggine con sotto una camicia in seta color crema, come sempre un po’ severo per la sua età, ma molto in tono col suo viso. «Non sono affatto nervosa, Nancy» rispose lei. Non era vero e lei lo sapeva. Era nervosa eccome! E senza il valium se ne sarebbe scappata via volentieri. Quella era la sua terza trasmissione come moderatrice. «L’inizio è sempre la parte più difficile» le aveva detto il produttore per consolarla, quando, entrata in studio per la sua prima trasmissione, si era rannicchiata sulla sedia come un condannato a morte e aveva guardato in telecamera con un’espressione da panico. «Ma poi si abituerà, mi creda, fino a quando non se ne accorgerà neanche più.» Non se ne accorgerà più! Qualche volta pensava furiosa: Cosa ne sa lui dei miei problemi! Aveva l’impressione che le cose invece di migliorare, peggiorassero. Il valium era un veleno, e più ne aveva bisogno, più lo odiava. La calmava in superficie, la intontiva, l’anestetizzava, era un cubetto di ghiaccio posato sui suoi nervi; una sorta di corazza che proteggeva un’anima in continuo fermento, con la paura sempre pronta a prendere il sopravvento, il desiderio di urlare sempre pronto a scoppiare. «Non serve essere nervosi» disse Nancy, mentre applicava dell’altro rossetto sulle labbra di Natalie. «Io dico sempre: bisogna affrontare il problema, agitarsi serve solo a rendersi la vita difficile.» Nancy aveva sempre la sua piccola perla di saggezza per ogni cosa. Non avrebbe avuto alcun senso spiegarle che esistevano persone più complesse di lei. Le tolse la mantellina di seta che le aveva adagiato per precauzione sulle spalle e le spazzolò rapidamente l’abito ancora una volta. «Perfetto. Adesso è pronta, Natalie!» «Grazie, Nancy. Sei stata bravissima, come sempre.» Natalie si alzò. Stai calma, si disse con tono di supplica, non succederà niente, hai le tue pillole nella borsa, e se non ti senti bene puoi sempre prenderne una. Mentre si dirigeva verso lo studio, si aggrappò alla sua borsetta come un naufrago al suo salvagente. Claudine Combe, una dolce giovane donna dai capelli biondi, era


ancora più nervosa di lei. Natalie si sentì leggermente meglio; non aveva davanti una star di calibro internazionale che richiedeva una performance magistrale solo per il fatto che finiva su ogni notiziario o giornale, qualunque cosa dicesse; no, quella dolce donna di talento, molto sensibile non sarebbe sopravvissuta ai successivi quaranta minuti senza un po’ di aiuto. Natalie cominciò a parlare in modo amichevole e affabile. Claudine, inizialmente ancora molto rigida, si sciolse visibilmente e divenne man mano più spigliata. E anche la sicurezza di Natalie ne giovò. Stava andando bene. Ci sarebbe stato da ridere, se avessi preso poco valium, pensò, mentre Claudine raccontava perché aveva sempre amato Shakespeare. Doveva togliersi dalla testa la parola valium. Doveva concentrarsi solo su Claudine che aveva bisogno del suo sostegno. Claudine terminò la sua risposta, e Natalie si accorse che per un attimo si era distratta, si era lasciata un po’ andare. In una frazione di secondo fu assalita dalla paura. D’un tratto si manifestarono tutti i noti sintomi: sudore, dita tremanti, ginocchia molli, battito accelerato, gola secca. Le orecchie cominciarono a rimbombarle, la voce di Claudine si allontanava sempre più. In preda alla disperazione, guardò il grande orologio nello studio. Ancora un paio di minuti e il primo round sarebbe finito. Prima di trovarsi davanti la Minnelli, ci sarebbe stato uno stacco di sette minuti durante il quale una jazz band di New Orleans avrebbe suonato musica dal vivo. Sette minuti... un tempo sufficiente per correre in bagno e prendere un’altra pillola. Una pillola l’avrebbe rimessa subito in piedi, ne era certa. Ma adesso bastava anche solo... un bicchiere d’acqua. Era troppo rischioso però; se la telecamera l’avesse inquadrata in quel momento, l’indomani tutti i giornali avrebbero raccontato che la moderatrice di Weekly Adventure prendeva stimolanti o che soffriva di una grave malattia. Guardò di nuovo l’orologio. Ancora un minuto. Aveva la sensazione che le pareti le crollassero addosso. Quella era la sensazione peggiore che avvertiva qualche volta nei luoghi chiusi, e che le faceva perdere il senso dell’orientamento. L’aria era irrespirabile... stava per andare in iperventilazione. Maledizione! Perché non aveva indossato un abito un po’ scollato? La camicia con il fiocco la strozzava, e non poteva neanche scioglierlo. Era tutta sudata in viso. Di sicuro mi sta anche colando tutto il trucco, pensò, peccato per tutto il lavoro di Nancy! Nonostante la nebbia che l’avvolgeva, capì che Claudine aveva smesso di parlare. Toccava a lei dire qualcosa adesso. Come aveva concluso Claudine? Natalie sorrise, ma non posso sorridere per gli ultimi quarantacinque secondi, pensò. «Grazie molte, signorina Claudine» disse con una voce che suonò strana persino a lei, «la ringrazio molto per le sue parole.» Ancora altri quaranta secondi! Il produttore la guardava arrabbiato e si


sbracciava per farle cenno di andare avanti. Aveva capito che non sapeva più cosa dire. La jazz band non era ancora pronta, e per un paio di secondi nessuno seppe cosa fare. Il cameraman inquadrò prima Claudine e poi Natalie, ma poiché entrambe erano rimaste ammutolite, non erano un bello spettacolo. Alla fine la piccola orchestra attaccò di botto con la prima nota, e la luce rossa della telecamera diretta sui musicisti si illuminò. Natalie scattò in piedi e si incamminò con passi incerti verso la porta dello studio. Il produttore le si precipitò incontro. «Cosa è successo?» l’apostrofò sottovoce. «Non si è accorta che mancavano ancora quaranta secondi?» «Mi dispiace.» «Questo non deve succedere. Non sembrava neanche attenta a quello che Claudine Combe stava dicendo. Ho avuto l’impressione che alla fine non ascoltasse neanche più.» Senza rispondergli – non ne aveva la forza – aprì la porta e imboccò il corridoio. «Signorina Quint!» la chiamò a voce alta. Uno dei cameraman si voltò e gli fece segno di non parlare portandosi un dito davanti alla bocca. Natalie non se ne curò. Barcollò per tutto il tragitto fino alla porta che recava la targhetta BAGNO DELLE SIGNORE. Una volta entrata, si appoggiò alle fredde piastrelle della parete. Dallo specchio la guardava il viso pallido di un cadavere che, nonostante il trucco, aveva profondi cerchi gialli intorno agli occhi; aveva un’aria sfinita, da k.o. Nelle orecchie le risuonarono le parole del dottore: «Quel veleno può portare dipendenza!» Quasi non riusciva a controllare le mani mentre cercava le sue pillole nella borsetta. E siccome non trovò subito la scatola, andò nel panico. Senza un’altra pillola non ce l’avrebbe fatta con la Minnelli. Buttò a terra tutto quello che le venne tra le mani, chiavi dell’auto, portamonete, rossetto, gomme da masticare, pettine, fazzoletti... e alla fine le trovò. Natalie fece scorrere un po’ d’acqua nelle mani unite a forma di coppa, ingoiò una pillola e respirò profondamente. Presto si sarebbe sentita meglio. Le orecchie avrebbero smesso di rimbombarle, e le pareti sarebbero tornate dritte. Sarebbe rientrata in studio pronta per terminare la trasmissione, e le sarebbe stata perdonata la gaffe di prima. Fondamentalmente, l’intervista con Claudine Combe era andata bene, era stata briosa e anche profonda. «Sto bene» disse al suo viso, serio e con gli occhi sgranati, allo specchio, e pian piano riacquistò un po’ di colore. «Devo solo riuscire a non dipendere da quella robaccia.» La porta si aprì, ed entrò Claudine Combe. Con un’espressione sorpresa osservò Natalie che si guardava allo specchio e il contenuto della sua borsa sparso per terra. «È tutto a posto, signorina Quint?» Natalie trasalì. «Oh, Claudine... sì... è tutto a posto...» Si accorse che lo sguardo di Claudine indugiava sulla scatola di pillole e la infilò subito


nella tasca della giacca. «Mi sono preoccupata per lei» disse Claudine, «durante gli ultimi minuti dell’intervista non sembrava stare affatto bene.» «Mi dispiace se non sono stata attenta» replicò Natalie, piccata. «In effetti ho avuto un cedimento per un attimo. Ho perso il filo.» «È stata meravigliosa» le disse Claudine con calore. «Mi ha fatto sentire a mio agio. Per questo mi è dispiaciuto vedere che lei non stava bene. Va meglio adesso?» «Certo» la rassicurò Natalie. Guardò l’orologio. «Devo tornare in studio, tra due minuti arriverà la Minnelli.» Entrambe si chinarono a terra per raccogliere gli oggetti sparsi. Natalie alzò gli occhi. «Non deve aiutarmi, Claudine.» I suoi occhi incontrarono quelli dell’altra. Prima non aveva notato che aveva gli occhi verdi come il prato, con piccole macchie dorate. Che bella che è, pensò. Si alzò. «C’è tutto, credo» disse. «Molte grazie, Claudine. Si trattiene fino alla fine della trasmissione?» «Naturalmente.» «Allora, potremmo andare a bere qualcosa subito dopo, se le va...» Claudine le lanciò una lunga occhiata. «Mi farebbe molto piacere, Natalie.» «Perfetto. Adesso però mi devo sbrigare.» Natalie era già alla porta. La pillola stava facendo effetto. Mentre percorreva il corridoio si sentiva magnificamente e piena di energia.

2 Il viso di Mary era così pallido e smunto che Natalie temette che l’amica fosse sul punto di perdere i sensi. Si aggrappava alla borsetta con una forza tale che le nocche della mano sporgevano appuntite. Aveva un’aria stremata e quasi in preda al panico. Le due donne erano sedute in un taxi imbottigliato nel traffico londinese, che sembrava non andare né avanti né indietro. Natalie si sporse e aprì il finestrino che separava i passeggeri dal taxista. «Ce la facciamo ad arrivare in Marylebone Road per le cinque?» «E chi può dirlo, signora? Spero di sì.» «Avremmo dovuto prendere l’autobus» squittì Mary. Lo aveva detto sin dall’inizio, soprattutto perché non aveva i soldi del taxi. Ma Natalie era stata irremovibile. «Assolutamente no! Hai bisogno di tutte le tue forze per quello che stai per fare, non se ne parla proprio di prendere l’autobus.» «Ma...» «Pagherò io il taxi. Non preoccuparti per questo!» «Se arriviamo in ritardo» aggiunse Mary adesso, «la signora LeCastell cambierà idea.»


«Con tutti i soldi che si mette in tasca» ribatté Natalie con convinzione, «non cambierà proprio un bel niente, ci scommetto!» Per il resto del tragitto rimasero in silenzio. Era un pomeriggio di dicembre limpido e asciutto, le prime luci del tramonto cominciavano a colorare le case, e le finestre, accendendosi, si riflettevano man mano sulle acque del Tamigi, sulle cui rive le foglie frusciavano sotto i piedi della gente. È già di nuovo inverno, pensò Natalie, Regent’s Street era addobbata con alberi di Natale sfavillanti, e Harrod’s sembrava ricoperto di uno strato di glassa. Che città meravigliosa è Londra! Quel giorno, dopo la serata passata con Claudine, Natalie era tornata a casa a notte inoltrata, verso l’una e mezza. Più per abitudine che perché le interessasse davvero, aveva ascoltato la segreteria telefonica. Il primo messaggio era di David. «Natalie, sono David. Chiamo da New York. La prossima settimana sarò a Londra per lavoro. Mi farebbe piacere vederci per un pranzo o una cena insieme. Richiamami...» Seguiva un numero. «Te lo puoi scordare» aveva commentato Natalie a gran voce. «Piantala, David!» Il secondo massaggio era di Mary; era in preda al panico e la sua voce era insolitamente alta. «Nat, per favore richiamami prima possibile! Ho assoluto bisogno di parlarti. Ecco il mio numero...» Natalie aveva pensato bene di non chiamare la povera Mary in piena notte, perché avrebbe potuto scatenare le ire del suo temibile marito, ma l’indomani mattina, appena subito dopo colazione, aveva composto il suo numero. «Natalie, devo trovare qualcuno che mi faccia abortire...» La faccenda si era rivelata molto più difficile del previsto, per quanto cercassero sembrava impossibile trovare un medico disponibile a eseguire l’intervento. A causa del suo tipico comportamento avulso dalla realtà, Mary aveva fatto passare già troppo tempo; era all’inizio della quindicesima settimana di gravidanza, e non avevano trovato nessuno che si prendesse una tale responsabilità. Anche Natalie disapprovava e aveva cercato di dissuaderla, ma Mary aveva cominciato a piangere ed era apparsa così disperata che Natalie aveva capito quanto fosse grave la situazione. Alla fine erano riuscite a scovare una tale signora LeCastell che organizzava aborti per donne come Mary, o per chi le dava la sicurezza assoluta che non ne avrebbe fatto parola con nessuno. Natalie si era offerta di accompagnarla e pagare l’intervento. «Prima o poi me li ridarai, Mary. Ora non fare storie e accetta i soldi!» Ma era molto preoccupata per lei. Quando, alle cinque e sette minuti, scesero in Marylebone Road, le chiese: «Mary, lo vuoi davvero? Fai sempre in tempo a cambiare idea, lo sai!» Mary si voltò, gli occhi insolitamente brillanti. «Non posso! Peter non vuole il bambino, gli renderebbe la vita un inferno. E non posso neanche lasciarlo con due bambini e senza un lavoro!»


Furiosa, Natalie guardò il viso stravolto dell’amica e pensò: Oggi una donna non dovrebbe più parlare in questo modo. I tempi sono cambiati. La nostra felicità dipende da noi adesso, e questo vale anche per te, cara Mary! La signora LeCastell viveva in una bella casa antica, con tre piccole stanze dal soffitto molto alto che un tempo dovevano essere state adibite ad alloggi per la servitù. Il tetto era talmente spiovente che solo al centro si poteva stare in piedi senza picchiare la testa. C’erano ovunque piccole strane sculture di argilla, sfere di vetro e conchiglie; dal soffitto pendevano lampadine dipinte di rosso, e le poltrone e le sedie erano tutte rivestite con foulard di seta colorati. Non c’erano cuscini né tende né tantomeno coperte che non fossero impreziositi con voluminosi pompon o nappe. Le pareti erano tappezzate di fotografie in cornice che ritraevano la signora LeCastell in ogni situazione e paese possibile, tra indiani accovacciati con le gambe incrociate, con un casco coloniale in testa nella giungla in Nuova Guinea, tra cinesi con gli occhi a mandorla nelle strade affollate di Hong Kong e – il massimo del grottesco – in groppa a un cammello davanti alle piramidi egizie. La signora LeCastell pesava circa cento chili, e neanche le vesti in seta svolazzante che l’avvolgevano potevano nasconderlo. Portava una parrucca di ricci rosso Tiziano e intorno al collo una collana d’argento tanto stretta che sembrava la strozzasse. Era molto contrariata per il loro ritardo. «Il mio tempo è prezioso» urlò. «Avevamo stabilito le cinque in punto, e quando arrivano loro? Quando il dottore sta per andarsene!» Come invece si rivelò, il dottore non era ancora nemmeno arrivato. Mary e Natalie furono fatte accomodare in una delle piccole stanze – Qui non entra aria da anni, pensò Natalie – e sedendosi sul divano, sprofondarono fino a terra, smuovendo la polvere dai cuscini puzzolenti di muffa. Mary sembrava così triste che Natalie si sforzò di trovare un argomento di conversazione per distrarla. E se le avesse raccontato di Claudine? No, meglio di no, Mary non era di certo la persona più adatta, e Natalie non voleva metterla in imbarazzo. «David è in Inghilterra» disse, «mi ha chiesto di vederci, ma io gli ho risposto di no, naturalmente.» «Naturalmente» ripeté Mary, e Natalie si stupì del tono della sua voce. Quanto lo odia, pensò meravigliata. Alle sei meno un quarto, comparve il dottore, e la signora LeCastell lo pregò di occuparsi delle sue clienti. Avrebbe intascato due terzi dell’onorario che la vecchia signora aveva richiesto. «Venga con me» disse la signora LeCastell a Mary. «Si spogli e si stenda sul letto.» Mary si alzò, tremava come una foglia. Quando anche Natalie accennò ad alzarsi, la signora LeCastell le disse: «Lei rimane qui». «Sono venuta per stare accanto alla mia amica. Vorrei stare con lei durante l’intervento.» «Il dottore non lavora in questo modo. Non vuole assolutamente


parenti o amici in giro. Ci sarò io ad assisterlo, e questo è sufficiente!» «Allora, la signora si decide o no?» si levò la voce spazientita del dottore. «Lascia stare Natalie. Aspettami qui.» Mary sembrava un morto in piedi mentre andava nella stanza accanto. Dovette spogliarsi dietro un paravento, e poi si arrampicò sopra un letto alto. Mentre si stendeva, pensò, che non si era mai sentita così male in vita sua. La signora LeCastell le infilò i piedi in due passanti di cuoio e strinse la cinghia. Mary si drizzò spaventata. «La prego non... non mi leghi così stretto». «Nessun trattamento speciale, piccola. Quando sentite dolore cominciate a muovere le gambe, e succede un altro guaio. Mi dispiace ma è il dottore a insistere che siate legate.» Era stesa sulla schiena con le gambe divaricate, e il ventre indifeso esposto ai freddi strumenti luccicanti del dottore. Il pensiero che quegli attrezzi sarebbero penetrati dentro di lei per raschiare via dal caldo nido dell’utero il suo bambino, quel bambino che aveva tanto desiderato, le fece salire le lacrime agli occhi. E in più era terrorizzata. «Farà molto male signora LeCastell?» le chiese in un sussurro. «Non proprio una passeggiata, ma le ragazze prima di lei sono sempre sopravvissute, sopravvivrà anche lei.» Il dottore si era lavato le mani con cura e si avvicinò al letto. «Quanti anni ha?» chiese brusco. «Ho appena compiuto vent’anni.» «Ha già partorito?» «Sì, una volta due anni fa.» «Mmm...» È un bene o un male, avrebbe voluto chiedere Mary, ma non osò farlo. Sentì il freddo metallo tra le gambe e avvertì il suo corpo contrarsi. «Non si irrigidisca!» ordinò il dottore. «Così complica le cose sia a me sia a lei.» «Ci provo» rispose Mary in preda all’agitazione. Ci provò davvero. Si sforzò di pensare a qualcosa di innocente, di bello: l’estate, le vacanze al mare, la casetta graziosa in cui avevano alloggiato. Era stato divertente andare in spiaggia con Cathy tutte le mattine, fare castelli di sabbia e tenerla per mano quando correva verso l’acqua e strillava quando le onde le si infrangevano addosso... «Oh, no...» gemette forte. Un dolore le si riverberò per tutto il corpo in modo così violento e improvviso che non riuscì a trattenersi dall’urlare. Sentiva gocce di sudore a destra e sinistra del suo naso. «Ssst...» la zittì la signora LeCastell. Dalle vacanze, i pensieri di Mary scivolarono indietro ai tempi del Saint Clare. Anche lì era stato bello, qualche volta si era sentita persino spensierata. Fino a quella sera a Londra. Erano passati anni, decenni, una vita intera! Ricordò il momento terribile in cui si accorse che David era sparito. Aveva avuto paura, tanta paura! Forse adesso si stava


compiendo il destino che gli eventi di quella sera avevano messo in moto! Si accorse che dentro aveva accumulato tanta rabbia che minacciava di esplodere prima o poi. Lo odio, lo odio, pensò, e mai, neanche per un attimo, si meravigliò del fatto che l’oggetto del suo odio non fosse né Peter né suo padre, ma David. Solo David. Forse in quel momento ce l’avrebbe fatta solo se lo avesse odiato con tutte le forze di cui era ancora capace. I dolori erano diventati insopportabili. Si irradiavano fin sotto la punta dei piedi e fin sopra la punta dei capelli. L’attrezzo di metallo nel corpo di Mary sembrava enorme e affilatissimo, ed era freddo, freddissimo! Come in lontananza, sentì il dottore che diceva: «Adesso comincio il raschiamento». Solo in quel momento si accorse che aveva pianto, il viso era umido e persino i capelli si erano appiccicati alle tempie. Sentiva il gusto del sangue. Si era morsa le labbra? Le ondate di dolore aumentavano di intensità, ma Mary giaceva immobile, troppo stremata per opporre una qualunque resistenza, convinta, che il dolore non si sarebbe mai placato, e che dopo ci sarebbe stato solo il nulla. «Fatto» disse il dottore. Fece molto male ancora un’altra volta quando ritrasse gli strumenti, e poi il dolore tornò a essere quasi sopportabile. Mary riuscì a vedere che la signora LeCastell portava via un mucchio di panni sporchi di sangue, e che si dava un gran da fare a sistemare. «Arrivederci» disse il dottore con aria truce. Mary, ora per niente ben disposta nei suoi confronti, non rispose e si voltò dall’altro lato. Arrivederci! A mai più, piuttosto! La signora LeCastell avvolse Mary in una coperta di lana e le disse: «Deve rimanere qui una mezz’ora, poi può andare. Non dovrebbero esserci complicazioni. Quando torna a casa, cerchi di stare a letto almeno per una settimana». D’un tratto Mary si accorse che stava sudando freddo, stava congelando. Neanche due minuti più tardi era scossa da tremiti, e le battevano i denti. «Forse un po’ di febbre» diagnosticò la signora LeCastell. «Non è insolito. Deve calmarsi.» Dalla strada il frastuono del traffico giungeva attutito. L’oscurità fuori divenne spettrale. Mary scivolò in uno stato di stordimento, in cui non riusciva più a distinguere nulla: era a casa? Al Saint Clare? No, era a casa, ma non sentiva più dalla finestra il treno sferragliare! Le salirono di nuovo le lacrime agli occhi perché non capiva dove si trovava. Poi un’ombra si chinò su di lei: «Mary sei sopravvissuta! Sono io, Natalie. Sono qui con te!» Natalie... allora era al Saint Clare. Allora era tutto okay. Afferrò la mano di Natalie, lasciò cadere la testa di lato e si addormentò. Sognò un coltello argentato che le scavava un profondo buco nelle budella. Nel frattempo, Steve Marlowe era seduto in un ufficio arredato in modo


sobrio nei pressi di Hyde Park e ascoltava le parole di una signora magra dai capelli grigi che lo stava squadrando con occhi severi. «Dovrebbe aver capito tutto» disse, «spero che si meriti la fiducia che la signora Gray ha riposto in lei!» «Mi impegnerò a fondo» rispose Steve con quel tono gentile e educato che gli avrebbe garantito una brillante carriera in banca, «la ringrazio per la sua disponibilità.» «La signora Gray considera suo dovere dare una possibilità a chi altrimenti non ne avrebbe» disse la magra signora, e impettita si allisciò la semplice camicetta bianca, per altro già impeccabile. Allineò un paio di matite sulla scrivania, dispose il vaso con il ramo d’abete sulla finestra e si alzò. «Dunque signor Marlowe, da oggi in poi questo è il suo ufficio. Quando ha delle domande, non esiti a rivolgersi a me.» «Molte grazie» disse Steve, anche lui in piedi. Pensò: Maledizione vecchia strega! Tu e la tua santa signora Gray credete di essere le più grandi benefattrici sulla faccia della terra, ma l’unica cosa che vi importa davvero è di dominare gli altri e umiliarli. La signora Gray era una vecchia ricca vedova, che da ragazza doveva essere stata abbastanza bella da far interessare a sé un uomo che poteva consentirle una vita agiata. Nicolas Gray era un mercante d’arte di Londra che aveva fatto una barca di soldi in modo misterioso e col tempo aveva messo le mani su ogni genere di affari. Si era innamorato di Patricia dai riccioli d’oro e gli occhi blu, una donna che aveva subito capito che era il caso di sorridergli in modo ammiccante e di guardarlo come se fosse un dio; e lui, dal canto suo, non fu mai preso dal dubbio, nemmeno in punto di morte, che il vero interesse della moglie non fosse lui ma i suoi soldi. Le lasciò un patrimonio di circa dieci milioni di sterline. All’epoca Patricia aveva cinquantadue anni. Più che un dono della natura, la bellezza di Patricia era stato il risultato di una rigida disciplina e di un uso costante di tutti i possibili ausili cosmetici. Lei passava la maggior parte del suo tempo dall’estetista, dal parrucchiere, nelle palestre, nei centri di bellezza e sotto le mani del suo massaggiatore. Ma soprattutto non mangiava. Secondo la sua predisposizione genetica, o per qualunque altra dannata causa, lei era una donna corpulenta, pesante, che assimilava qualunque cosa ingurgitasse. Tuttavia, Patricia si era messa in testa di diventare magra come una gazzella. E digiunando, digiunando, le dimagrì anche il cervello; per un decennio non riuscì più a dormire se non prendendo sempre più sonniferi, perché altrimenti, inevitabilmente, rimaneva sveglia tutta la notte in preda ad allucinazioni in cui le fluttuavano davanti pasta fredda e maionese, e budino alla vaniglia con panna montata. Talvolta si riprometteva: Quando rimarrò vedova comincerò a mangiare tutto ciò che mi piace! E lo fece davvero. Nicolas non era ancora sotto terra, che lei si era già tuffata nei piaceri della tavola, gustandone tutte le delizie, come aveva


sempre sognato; in meno di sei mesi pesava già trenta chili in più, regalò tutti i suoi preziosi abiti aderenti che mettevano in risalto la figura, e prese ad avvolgersi in abiti larghi e svolazzanti. In breve era diventata una morbida signora allegra, felice come mai in vita sua. Viveva in una tenuta che le aveva lasciato Nicolas insieme a un branco di cani e all’arcigna signorina Hunter, che lavorava per lei come segretaria e le era totalmente devota. Ora che la sua vita non era più riempita dalla cura della sua bellezza, Pat Gray doveva trovare qualcosa a cui dedicare le sue energie e scoprì di avere una particolare sensibilità per il sociale. Decise di destinare il suo ingente patrimonio a chi ne aveva più bisogno. I bambini. Aveva rinunciato ad avere figli perché una gravidanza avrebbe potuto compromettere la sua figura, e a posteriori se ne pentì amaramente. «Che stupida che sono stata!» disse alla signorina Hunter. «Ma almeno adesso farò qualcosa per i bambini degli altri!» Si mise in contatto con una fondazione inglese che si occupava della tutela dei bambini, e una volta accettato a denti stretti che non voleva solo donare soldi, ma lavorare attivamente con la fondazione, fu eletta nel consiglio di amministrazione e da quel momento in poi partecipò a tutte le decisioni in modo determinante. Allestì un ufficio esclusivo a Londra e cominciò a lavorare. Fece delle battaglie contro gli orfanotrofi sovraffollati inglesi, e si impegnò anche per i bambini del Terzo Mondo. Andò personalmente a Calcutta dove poté vedere con i suoi occhi quello che facevano Madre Teresa e le sue sorelle, e da quel viaggio tornò profondamente colpita. «Dobbiamo mandare lì medicine e cibo» disse, «ci servono soldi, soldi, soldi!» Che si trattasse dell’India, dell’Africa, delle favelas di Rio o di Hong Kong, Pat Gray era sempre in prima linea. E contemporaneamente contribuiva a finanziare gli asili per animali nei paesi del Sud, perché le si stringeva il cuore al pensiero dei tanti cani e gatti randagi affamati e malati. La si poteva ascoltare mentre faceva il suo intervento a una manifestazione contro l’uccisione delle balene o contro gli esperimenti sugli animali, o la si poteva vedere, vestita da Babbo Natale in un orfanotrofio inglese, a distribuire montagne di regali con un’espressione talmente raggiante e felice che sembrava essere lei a ricevere il regalo più bello e più grande. «È un angelo» diceva la gente di lei, e la stampa rosa la esaltava definendola: «Una fatina moderna!» Quanto a Steve, lui non condivideva quella stima, e se avesse avuto anche la più piccola possibilità, sarebbe uscito di corsa da quell’ufficio senza degnare neanche di uno sguardo quella boriosa signorina Hunter. Purtroppo però, in quel dannato paese sembrava non ci fosse nessuno disposto a offrirgli un lavoro decente, e l’unica persona che lo aveva accolto a braccia aperte era proprio Pat Gray. Probabilmente mi considera un orfanello o un cane randagio, pensò amareggiato, qualcuno su cui poter sfogare la sua mania da crocerossina.


Evidentemente, nella sua collezione di trofei mancava ancora un ex galeotto bisognoso di aiuto. La signora Gray gli aveva affidato le donazioni, cioè Steve doveva tenere la loro contabilità, emettere le ricevute e scrivere i biglietti di ringraziamento. «Non ha detto che in passato voleva andare a lavorare in banca?» aveva detto Pat, «dunque questo è l’incarico più giusto per lei, non crede?» Certo, proprio l’incarico più giusto! Cosa si aspettava? Che scalpitasse e nitrisse di gratitudine come un cavallo che ha appena ricevuto il suo zuccherino? Era il colmo: era finito a fare un lavoro neanche minimamente paragonabile a una promettente carriera in banca, e sedeva in un ufficio accanto a una bigotta con l’aureola, di cui doveva registrare accuratamente i fondi; e magari sarebbe stato anche pagato con i soldi di quelle donazioni! Una vera barzelletta, peccato però che lui non la trovasse divertente! Un caso umano, ma almeno non poteva cadere ancora più in basso. «Bene...» disse la signorina Hunter con un tono cantilenante che significava: può andare. Steve fece il suo bell’inchino, prese il cappotto e lasciò la stanza. Quando uscì in strada, rabbrividì; che fredda serata di dicembre! Le macchine sfilavano veloci nel traffico. Probabilmente tutti avevano qualcuno o qualcosa di bello che li aspettava; una casa accogliente, una bella cenetta, una famiglia, degli amici... E lui, chi lo aspettava? La piccola stanza in subaffitto a Trafalgar Square che aveva pareti tanto sottili che riusciva a sentire il televisore della sua padrona di casa e il marito russare. C’era ancora qualcosa da mangiare nel frigorifero? Forse un mezzo barattolo di cetrioli, e un’anguilla affumicata avanzati dal giorno prima. Attraversò la strada, e proseguì senza sapere dove andare. Si lasciava superare dai passanti, e uno lo colpì pure alla pancia con la punta dell’ombrello. Non si scusò nemmeno. Probabilmente, pensò Steve, sembrava indegno di ricevere delle scuse. Comprò una copia del Daily Mail da un ambulante e continuò a vagare senza meta. Dopo un po’, si ritrovò sul Tamigi. L’acqua nera non lasciava vedere il fondo. Doveva essere piuttosto alta in quel punto. Chissà se buttandosi da lì si aveva la certezza di morire! Forse no. Forse l’acqua era profonda abbastanza da non farsi male e poi si poteva nuotare. In ogni caso, era troppo vigliacco per tentare anche solo una volta una cosa del genere. Chi lo aveva sempre chiamato vigliacco? Gina, certo! La Gina dalla lingua affilata, che aveva un talento naturale per dire sempre la verità nuda e cruda senza farsi scrupolo alcuno. Ma anche Gina sbagliava. Non era stata proprio lei a profetizzare che lui avrebbe fatto carriera furbescamente? Cara vecchia e scaltra Gina, hai visto che alle volte le cose vanno diversamente da come uno se le immagina? Quel furbetto è finito in riva al Tamigi in una fredda sera di dicembre e sta meditando se non sia meglio farla finita con la sua vita di merda


buttandosi nelle acque buie. Ma vigliacco com’è, non lo farà. Domattina alle otto si presenterà puntuale dalla signorina Hunter e servirà con zelo due donne egocentriche che vogliono migliorare il mondo. Anche se lì in riva al fiume soffiava un vento abbastanza freddo, e lui gelava nel suo cappotto sottile, cominciò a sfogliare il giornale alla luce di un lampione. Non era successo nulla di particolare. Poi un trafiletto sulla penultima pagina attirò la sua attenzione. «New York City. Ieri sera Andreas Bredow, il noto magnate dell’impero Bredow, è stato vittima di un attentato. Ancora non è chiaro cosa possa aver spinto il kileer a un simile gesto. L’uomo ha esploso tre colpi di pistola contro Bredow, quando, in compagnia di David Bellino, suo erede e vicepresidente delle Bredow Industries, stava lasciando l’hotel Plaza dove aveva partecipato a una cena con i membri del consiglio di amministrazione delle compagnie aeree americane Pan Am e American Airlines. Il tiratore ha sparato da una notevole distanza; uno dei tre proiettili ha ferito la sua vittima alla tempia destra. I medici stanno facendo il possibile per salvare la vita del plurimilionario.» Seguiva una dettagliata biografia di Bredow: la favola di un orfano tedesco che era diventato uno degli uomini più ricchi d’America. Steve si voltò e guardò l’acqua. «...i medici stanno facendo il possibile per salvare la vita del plurimilionario...» Se Bredow muore, David erediterà un patrimonio. David, l’egoista. Non mi stupirebbe se avesse architettato lui l’attentato solo per ereditare, pensò Steve pieno d’odio. Ma in cuor suo sapeva che non era possibile. Quel pensiero era scaturito solo dalla profonda rabbia che nutriva verso di lui. Siccome voleva odiarlo, voleva riconoscerne solo i difetti. In realtà, sapeva che non era capace di comportamenti subdoli, che non avrebbe mai pianificato qualcosa che potesse danneggiare qualcuno. Eventualmente, sarebbe semplicemente rimasto a guardare. Che è più o meno la stessa cosa, pensò Steve ostile. David aveva fatto per lui, più di quanto egli stesso avesse mai tentato di capirlo. Lui aveva solo una minima idea della lacerazione interiore di David, del baratro, del suo senso di abbandono rispetto alla vita; insomma, non lo aveva mai voluto conoscere più a fondo. Odiava David, e lo avrebbe odiato per sempre. Steve appallottolò il giornale e lo gettò in un cestino della carta. Poi si sollevò il bavero del cappotto, affondò le mani nelle tasche e si incamminò di nuovo. Si fermò da Excalibur, la prima birreria che gli capitò davanti. In vita sua, non era mai andato volentieri da solo in una birreria; alcol, schiamazzi, lo disgustava anche solo pensare a un gruppo di così tanti uomini tutti insieme. Entrò, si sedette a un tavolo e si affrettò a chiedere un whisky doppio. Bevve per quasi tutta la notte. A mezzanotte era così ubriaco che non si ricordava più nemmeno il suo nome. «Per oggi credo sia il caso di smettere» gli disse il barista in tono affabile, dopo l’ennesima ordinazione balbettante di Steve, «hai bevuto


davvero troppo. Vuoi che ti chiami un taxi?» «Un... un whi... un whisky doppio...» biascicò Steve. «Domani starai malissimo, giovanotto, dai retta a me. È meglio se ti fermi. Almeno hai un motivo per ubriacarti così?» Steve lo guardò con occhi persi. «Tutto... merda» bofonchiò. «Chiaro» concordò il barista, «è tutto una merda. Ma così non risolvi niente!» disse accennando al bicchiere di whisky che Steve teneva in mano. Steve guardò nel bicchiere come a cercare là dentro la verità. «M... mi faccia compagnia» disse al barista, «beva qualcosa c... con me!» «Perché?» «P... perché... presto qualcuno pianterà un pro... proiettile nella dann... dannata testa di quel maledetto di D... David B... B... Bellino» disse e bevve l’ultimo sorso. «E va bene, l’ultimo bicchiere» il barista acconsentì e prese la bottiglia. Ogni volta la stessa storia: i giovani, quando erano ubriachi fradici, farneticavano sempre di fucilare, impiccare o fare a pezzi qualcuno. Meno male che in quei momenti non potevano farlo davvero. Dopo si calmavano sempre.


Settembre 1982

1 Gina aveva deciso di andare a prendere John al suo studio. Era una calda serata di settembre e l’aria era intrisa del profumo aspro e pungente della salvia. Quanto è bella questa terra, pensò, mentre si avvicinava alla macchina. Aveva spesso pensieri come quello, quasi tutti i giorni e sapeva che non avrebbe mai smesso di averli, grata com’era di vivere lì. Quando aprì la portiera, colse il riflesso del suo viso nel finestrino. La felicità rende belli, si dice, e Gina col tempo se ne era convinta. Capelli lucidi come la seta, occhi brillanti, la pelle chiara e sana, a volte si sarebbe abbracciata da sola. Quel giorno poi era particolarmente bella nel suo nuovo tailleur verde scuro e con il lungo foulard di seta color kaki intorno al collo. Voleva andare con John a bere un drink in un bar e poi a cena in un bel ristorante. Era da un po’ che non si concedevano una serata tutta per loro; di recente avevano sempre dovuto fare gli onori di casa o erano stati invitati da qualche parte. Una volta rientrati a casa, gli avrebbe preparato il suo popcorn preferito – aveva fatto una bella scorta di mais – e lo avrebbero mangiato insieme davanti a un film di Gregory Peck. John adorava i film western. «No, Lord, adesso non puoi venire con me, ma dopo potrai stare con noi mentre guardiamo la televisione.» Salì in macchina e percorse il vialetto. Quando imboccò la strada, si chiese se la sera prima John non ci fosse rimasto troppo male. Erano stati a una festa a Santa Monica – un amico di John faceva il compleanno – e quando, a mezzanotte, erano usciti tutti in giardino per ammirare i fuochi d’artificio, immancabile momento clou della festa, John l’aveva presa tra le braccia e le aveva chiesto in un sussurro: «È così difficile accettare di sposarmi?» All’inizio aveva trovato scorretto che approfittasse di quella situazione romantica, ma poi si era detta che le proposte di matrimonio vengono fatte sempre in situazioni romantiche. Sarebbe stato così facile, così bello rispondere sì. Stringersi a lui e, guardando il cielo buio illuminato da quei colori sfavillanti, sognare un futuro meraviglioso. Perché non lo aveva fatto? Perché prendeva ancora tempo? Perché lasciava che lui si rendesse conto dei suoi tentennamenti? Lo amo, pensò, mentre passava davanti a ville e giardini silenziosi, e


non riesco neanche a immaginare la mia vita senza di lui. Eppure, non riusciva a placare quel leggero senso di disagio, di vaga paura. Quando l’aveva avvertito per la prima volta? Quando David le aveva fatto visita lì a Beverly Hills e tra un sorrisetto e l’altro le aveva detto che l’aveva vista insieme a Natalie quel giorno d’estate a St Brevin. Aveva pensato al serpente dell’Eden, quando nel suo splendido giardino in fiore aveva riconosciuto in David un potenziale pericolo. Un pericolo imponderabile, misterioso, in agguato. Un serpente che se ne stava tranquillo sul prato sempre pronto a mordere la sua preda. David avrebbe potuto distruggerle la vita. E lei doveva continuamente difendersi dall’ossessione che lo facesse per davvero. Si ripeteva che era un po’ esagerata, ossessionata, isterica, ma la paura era sempre lì e non svaniva. Al diavolo i presentimenti! Li aveva sempre avuti, sin da bambina. La nonna Loret le aveva raccontato che era stata molto irrequieta nelle settimane precedenti la morte dei suoi genitori, aveva dormito tutte le notti con loro e li aveva pregati di non lasciarla mai sola. «Mamma, papà non ve ne andate...» John non andartene! Schiacciò a fondo il pedale del freno, perché d’un tratto una lepre era sbucata saltellando sulla strada. L’auto inchiodò, e Gina fu trattenuta dalla cintura di sicurezza. «Maledetta bestia» borbottò. La lepre sparì tra i cespugli dall’altro lato della carreggiata. Gina proseguì. Non devo pensarci più, si disse. L’ufficio di John era nell’attico di un grattacielo in Century City. Mentre saliva con l’ascensore, si passò ancora una volta il rossetto sulle labbra, e il pettine tra i capelli. Sorrise, felice per la serata. L’ascensore si fermò al diciottesimo piano e Gina uscì. Fece ancora un paio di gradini e arrivò. Entrando nell’anticamera constatò che Carol, la segretaria di John, era già andata via. La spia rossa sul telefono della sua scrivania era accesa, il che significava che John era impegnato in una conversazione. Gina esitò. Meglio aspettare un attimo; John detestava essere interrotto durante telefonate importanti. Si sedette su una delle grandi poltrone nella sala d’attesa, e si accese una sigaretta. La porta dello studio di John era accostata. Probabilmente stava ascoltando il suo interlocutore, perché Gina non lo aveva ancora sentito parlare. D’un tratto la sua voce risuonò concitata ma allo stesso tempo contenuta. «Sei pazzo, Gipsy!» Gipsy, pensò Gina, gitano, che strano nome! «Non voglio più stare a sentire simili follie. Negli ultimi due anni ti ho dato più soldi di quanti ne avresti potuti guadagnare normalmente in tutta la tua vita!» Seguì una pausa di qualche secondo. E poi John ricominciò: «Un milione di dollari! Ma pensi che io li trovi per strada? Eri già pazzo, Gipsy, ma ora hai superato te stesso. Solo la malattia può farti delirare in questo modo».


Gina aggrottò la fronte. La cenere della sigaretta cadde sul tappeto, ma non se ne accorse. Di cosa stava parlando? Altra lunga pausa, e poi John riattaccò a parlare ma con una voce ragionevole e calma. «E se tu lo rendessi pubblico? Non credi che potrei spiegare a tutti come sono andate le cose allora? Il Vietnam è stata una esperienza sconvolgente, per ognuno di noi. E la gente lo sa!» Gina si alzò. Fissò il telefono sulla scrivania di Carol. Chissà se da lì si poteva sentire la conversazione! Come attratta da un incantesimo, si avvicinò all’apparecchio, e piano, senza far rumore sollevò la cornetta. Esitante, premette il tasto del telefono che lo metteva in comunicazione con quello di John. Era entrata nella conversazione! La voce di quel Gipsy sembrava cattiva. Roca, quasi un rantolo. Ogni respiro era accompagnato da un sonoro ansito. «Se vuoi rischiare, John, accomodati pure. Mi rivolgerò a qualche giornale della California, che, ne sono certo, mi strapperà la storia dalle mani. Alla gente piacciono le avventure in Vietnam vissute dai politici!» Rise forte e a lungo, e terminò con un lungo colpo di tosse. Quando fu di nuovo in grado di parlare, proseguì: «Un colpo da maestro, non credi? L’avvocato John Eastley aiuta il popolo per puro senso di giustizia. Il futuro governatore promette di impegnarsi per tutti coloro che non hanno ancora ricevuto la loro parte di sogno americano. E da giovane, il nobile Eastley ha per giunta combattuto per la sua terra nella giungla verde del Vietnam insieme a migliaia di altri giovani americani. Peccato però per quella sporca storiella, giusto?» Rise di nuovo. «Gipsy eravamo commilitoni allora. Lo sai che...» «Adesso non fare il sentimentale, John. Non cominciare con il cameratismo e tutte quelle stronzate. Sono passati tanti anni e ognuno di noi ha fatto la sua vita. Ma tu ti sei dimenticato di me, non te n’è mai fregato nulla di come stavo.» «Parliamone Gipsy. Parliamone.» Ancora quella cattiva risata asmatica. «Ora vuole parlare... Bene, parliamo. Ma alla fine voglio il mio milione, John, prendere o lasciare. Spero che tu abbia capito.» «Vengo a New York da te e...» «No. Questa volta vengo io da te. Voglio proprio vederlo questo paese delle meraviglie. Il volo me lo paghi tu, in nome della vecchia amicizia.» «Preferirei davvero...» «Le regole le stabilisco io, okay?» «Va bene. Ti richiamo.» I due uomini riattaccarono. Contemporaneamente, Gina avvertì un leggero dolore: la sigaretta si era consumata quasi tutta ed era arrivata alle dita. La lasciò cadere sulla scrivania perfettamente pulita e in ordine di Carol. John uscì dalla sua stanza, estremamente pallido in volto, e fissò Gina stupito. «Tu qui? Che...» Poi guardandole il telefono ancora in mano, capì tutto, e divenne ancora più pallido. «Hai origliato!»


Lei non negò. «Sì, mi dispiace, John, ho sbagliato. Sono venuta perché volevo che andassimo a mangiare qualcosa, ma quando mi sono resa conto che parlavi al telefono, non ti ho voluto disturbare e mi sono seduta per aspettarti: però era impossibile non ascoltare quello che dicevi. Sembravi sconvolto, spaventato, così alla fine sono andata al telefono di Carol e ho origliato. Ti prego perdonami.» John sprofondò in una poltrona, e stancamente si passò una mano tra i capelli. «Così sai tutto adesso.» «Non so niente! Proprio niente!» Si precipitò verso di lui e gli prese la mano. «Non ci ho capito un bel niente! Chi è questo Gipsy? E perché vuole dei soldi da te? Ti sta ricattando, vero? Di quale sporca storiella parlava?» «È una cosa che appartiene a tanto tempo fa» disse piano. «Amore, non voglio caricartene.» «Ma io voglio saperlo. Ho il diritto di saperlo. Vivo con te, John!» «Già...» Sembrava stordito. Senza esitare, Gina prese la sua borsa. «Su, andiamo John. Andiamo a mangiare qualcosa e mi racconti tutto per bene. Poi cercheremo una soluzione.» «Io e Gipsy» disse John, «eravamo amici. Nel ’67 in Vietnam. Ci volevamo bene e facevamo affidamento l’uno sull’altro.» Erano seduti in un ristorante messicano in Pacific Palisades, in una nicchia vicina alla finestra, con vista sul Pacifico. Il sole stava tramontando nel mare e tingeva l’orizzonte di colori accesi. Una musica suonava dolce in sottofondo; i bicchieri tintinnavano, i camerieri andavano da un tavolo all’altro in silenzio, anche loro illuminati dalla luce rossastra irradiata dal magnifico spettacolo della natura che andava in scena fuori, sulle onde. Gina e John sorseggiavano vino in attesa della cena. «Non mi avevi mai raccontato che sei stato in Vietnam» disse. «No. Ma sapevo che prima o poi lo avresti scoperto perché lo userei in campagna elettorale dal momento che varrebbe qualcosa essere stati lì. E comunque ho pensato che non avresti visto la cosa come un’azione gloriosa.» «Va’ avanti.» «Avevo ventisei anni, ero tenente colonnello, e come tutti ero finito in quella guerra senza sapere perché. Gipsy era tenente nella stessa compagnia. Il suo vero nome è George, ma tutti lo chiamavano Gipsy, per via dei suoi capelli neri, gli occhi neri, e soprattutto per via dei suoi modi bruschi, ma io penso che non fosse affatto brusco e scontroso. Era un giovane sensibile, appena uscito da West Point.» «West Point?» Gina sospirò. «Quest’uomo è stato a West Point?» John guardò il mare fuori dalla finestra. «L’uomo che hai sentito al telefono non è il Gipsy di allora» disse. «Quello è l’uomo che sta morendo a causa del Vietnam.» «Oh...»


«Ora, per farla breve, eravamo lì da tempo, e ne avevamo già viste così tante che nessuno di noi sarebbe più stato lo stesso. Eravamo provati anche nel fisico... il morale si deprime quando hai fame e sete, quando le zanzare ti divorano e il cielo ti sembra una cappa di rame incandescente. Faceva caldo, dannatamente caldo e noi ci trascinavamo attraverso la giungla, sentivamo letteralmente la puzza della febbre, della putrefazione, la respiravamo, e ci sentivamo male, allo stremo delle forze. Oltre a me e Gipsy, c’erano altri cinque uomini. Un giro di perlustrazione, un’operazione di routine solo un po’ più pericolosa del solito, perché ci erano rimasti solo due fucili: non avevamo ancora ricevuto le nuove armi, che dovevano arrivare quella mattina. Il nostro comandante ci aveva comunque dato l’ordine di andare. Io avevo uno dei due fucili, ed ero il primo della fila, Gipsy aveva l’altro e chiudeva la fila. Avevamo portato dei machete per aprirci dei varchi tra la vegetazione. Felci enormi, piante rampicanti, tronchi d’alberi... grondavamo sudore. A un certo punto uno disse – credo fosse Fred, un ragazzone altissimo che aveva una tremenda nostalgia della sua famiglia in Alabama – insomma, Fred disse che voleva fermarsi un attimo per riprendere fiato, e fummo tutti d’accordo. Proprio in quel momento a destra e sinistra qualcuno aprì il fuoco. Eravamo caduti in un’imboscata dei Viet Cong. Erano più che in sovrannumero, credo fossero una trentina e noi solo sette.» John fece una pausa; stava tornando indietro con la mente a un pomeriggio caldissimo di tanti anni prima, dall’altro lato del Pacifico, a un dramma che aveva avuto luogo nella giungla verde e impenetrabile. Gina bevve un sorso di vino. John le lanciò una occhiata. «Non avevamo alcuna possibilità. O meglio, io e Gipsy ne avevamo una minuscola, perché avevamo i fucili. Gli altri combattevano solo con coltelli e pugni, ed era soltanto una questione di tempo, ci avrebbero ammazzati tutti. Io e Gipsy riuscimmo ad aprirci una via di fuga sparando, fu una vera fortuna non essere raggiunti dai proiettili e poi...» si interruppe. Gina disse: «E poi siete fuggiti.» John sussultò. «Sì. Mentre i nostri compagni venivano massacrati io e Gipsy siamo tornati all’accampamento.» Un cameriere cambiò con discrezione il posacenere. Gina chiese: «Sarebbe cambiato qualcosa se tu e Gipsy foste rimasti?» «Cambiato? Credo proprio che non sarei qui adesso. E Gipsy non sarebbe a New York. Saremmo morti lì nella giungla insieme agli altri. Non avremmo potuto né mettere in fuga il nemico né tantomeno resistere altri cinque minuti. Ne sono certo.» «Quindi non siete responsabili della morte dei vostri commilitoni. Perché avreste dovuto morire con loro per amicizia? A chi sarebbe servito?» «A nessuno, ovvio. Ma voglio essere sincero con te: mi sono salvato la pelle, e in quel momento non ho affatto pensato se potevo aiutarli o no.


E poi io e Gipsy abbiamo stupidamente deciso...» Si interruppe perché un cameriere stava servendo la zuppa fumante. Quando quello se ne fu andato, John proseguì: «Insomma, abbiamo deciso di raccontare un’altra versione della storia per evitare domande scomode del comandante. Dichiarammo che i fucili li avevano due dei nostri compagni che erano stati colpiti dai Viet Cong, così le armi erano finite nelle loro mani. E noi eravamo gli unici sopravvissuti dopo una feroce battaglia... Sotterrammo i fucili sotto i rami di una felce, e tornammo all’accampamento. Nessuno dubitò del fatto che dicessimo la verità. Io e Gipsy ci giurammo a vicenda che quello sarebbe rimasto il nostro segreto, e la cosa finì nel dimenticatoio... fino a ora...» Fuori il sole era stato ingoiato dal mare. Il viso di John sembrava stravolto. Delicatamente, Gina gli accarezzò il braccio. «Se ti fa male andare avanti a raccontare...» «No, al contrario, mi fa stare meglio. Sei la prima persona con cui ne parlo.» «Hai detto che Gipsy sta morendo a causa del Vietnam.» «Lui tornò in America e cominciò a bere. Abbandonò la carriera di ufficiale e passò da un lavoro all’altro, ma non funzionava da nessuna parte perché era sempre ubriaco. All’inizio tentai di restare in contatto con lui, ma lui si comportava in modo scostante, ostile, così alla fine smisi di cercarlo. Per anni non ho saputo più nulla di lui. Poi, poco prima che io e te ci conoscessimo, una sera mi telefonò. Aveva quella strana voce roca che hai sentito anche tu. E venni a sapere che stava per morire: cancro ai polmoni. Le metastasi si erano già diffuse in tutto il corpo. Ero sconvolto, gli chiesi se avesse trovato dei bravi medici, se avesse bisogno di aiuto, se potevo fare qualcosa. Per tutta risposta, lui si fece una risata. ‘Voglio soldi, John, mi disse, tantissimi soldi, voglio vivere quello che mi resta come un re. Voglio farmi il bagno nello champagne, colazione con il caviale, e voglio andare a fare la radioterapia in Rolls-Royce.’ Pensai, che fosse ubriaco anche in quel momento, ma era del tutto sobrio. E poi mi disse cosa avrebbe fatto se non gli avessi dato quello che voleva. ‘Ho sentito che vuoi fare carriera in politica, John. Chissà cosa penserebbe la gente se venisse a sapere di una certa bastardata fatta in Vietnam?’ Ebbi paura e presi il primo volo per New York.» «A dicembre quando io e te ci siamo conosciuti?» «Sì, quando ci incontrammo in quella chiesa per la prima volta, ero appena stato lì. Gipsy viveva in un buco di appartamento nella zona del porto con vista sulla statua della Libertà. È più giovane di me, ma sembra più vecchio di me di vent’anni. Un relitto distrutto dall’alcol, e consumato dal cancro. Finito, assolutamente. Sia nello spirito sia nell’anima. Un uomo senza morale, un vegetale pieno d’odio e di sete di vendetta. Non era più l’uomo di un tempo, e capii che era inutile cercare di farlo ragionare. Gli compilai un assegno, e me ne andai, e poi mi ritrovai in quella chiesa... sembra agghiacciante, in un certo senso, è


stato Gipsy a farci incontrare!» Lei ripensò a quello che aveva sempre pensato: Che strani giri imperscrutabili fa il destino... «Naturalmente» disse John, «ero convinto che Gipsy... pensavo che gli restassero ancora due mesi forse, non di più, sembrava già morto. Invece... è ancora vivo. È un miracolo, un uomo dato per spacciato... probabilmente lo tiene in vita tutto quell’odio verso il mondo... non so.» «Può essere davvero pericoloso per te?» «Certo. Al solo pensiero di come un qualunque avversario potrebbe approfittare di quella storia in campagna elettorale mi gira la testa. Sarei bollato come vigliacco per sempre, a dispetto di qualunque cosa io dica. È chiarissimo, Gina: se Gipsy parla, posso scordarmi la carriera politica.» Mangiarono la zuppa in silenzio. «Vi porto la lista dei dolci?» chiese il cameriere, quando ebbero finito. John guardò Gina. Entrambi scossero il capo. Lei si sporse in avanti e gli disse sottovoce: «Potrei fare il popcorn a casa, e ci beviamo su del vino mentre ci guardiamo un film western!» «Ti amo, Gina» disse lui in un sussurro. Sottobraccio lasciarono il ristorante. All’ingresso trovarono un reporter di People che alzò subito la macchina fotografica e scattò loro una fotografia. «Signor Eastley, è vero che alle prossime elezioni si candiderà a governatore della California?» «Non ho ancora deciso.» Il reporter si rivolse a Gina. «Signorina Loret, quando diventerà la signora Eastley?» «Quando succederà, voi di People sarete i primi a saperlo.» «È vero che lei non ha ancora la cittadinanza americana?» «La farò a breve.» John la trascinò via. «Andiamocene, altrimenti questo non ci molla più!» Quando salirono in macchina, lui disse: «Lo vedi, tutto quello che facciamo gli interessa. E quando mi candiderò davvero, se possibile si interesseranno ancora di più a noi. Una storia come quella di Gipsy sarebbe musica per le loro orecchie.» Nel numero successivo di People una immagine dei due campeggiava sotto un titolo che recitava: John Eastley: «sono già in corsa per la Casa Bianca!»

2 Steve arrivò in ufficio un po’ in ritardo, non tanto, quasi dieci minuti. La sera prima era uscito a cena con una ragazza molto carina che aveva conosciuto la settimana prima alla festa di compleanno della signora Gray, a cui la signora aveva invitato chiunque lavorasse con lei o per lei.


A Steve era stato riservato un posto in fondo al tavolo, e la cosa lo aveva inizialmente irritato, ma poi il suo umore era notevolmente migliorato quando aveva notato la bellezza della ragazza sedutagli accanto. Sheila Willard, diciannove anni, e impegnata in un comitato che si occupava dei bambini malati di cancro. Aveva soffici capelli castani e dolci occhi neri. Steve la trovava molto attraente. Il giorno prima l’aveva invitata a cena, perché, per nessun motivo, avrebbe trascorso la serata da solo. A mezzogiorno aveva telefonato ai suoi genitori ad Atlanta – una pura follia, quelle telefonate intercontinentali costavano una fortuna – ma siccome i suoi genitori non gli telefonavano mai, doveva farlo lui, voleva comunque parlare con loro. «Mamma, sono Steve!» Qualche secondo di silenzio, poi: «Oh... Steve...» La sua voce era dolce e cantilenante come sempre, quasi sonnacchiosa. Sembrava il miagolio di un gatto che si stiracchia. «Mamma, state bene?» «Sì... sì grazie. Stiamo bene.» Di nuovo quel groppo in gola. Ogni volta che chiamava ad Atlanta, doveva mettere giù di colpo perché gli salivano le lacrime agli occhi. Perché sua madre non gli chiedeva mai come stava lui? Proprio lei, che in passato non si sarebbe data pace se lui fosse tornato a casa da scuola con un graffio sul braccio. Allora lo chiamava «figliolo», «angioletto». «Di’ alla mamma cosa è successo! Chi è stato? Ti va un po’ di cioccolata? Su vieni andiamo a comprare qualcosa di carino, da Harrod’s ho visto un bel pullover in cachemire, bianco...» Mamma, le avrebbe volentieri urlato adesso, quello che ho fatto è davvero così brutto? Anche se lei non glielo aveva chiesto, lui le aveva detto al telefono: «Anch’io sto bene, mamma. Guadagno più soldi.» «Bene.» Non le importa nulla, aveva pensato, gli occhi gonfi di lacrime. «Avete... avete notizie di Alan?» «Cosa?» «Alan! Avete notizie di Alan?» «No.» Sembrava quasi meravigliata. Dovremmo avere notizie di Alan? Chi è Alan? «Va bene, mamma, ti lascio o spendo troppo. Salutami papà, ok? Ci sentiamo.» Le ultime parole le aveva pronunciate con voce strozzata, e aveva riattaccato. Poi aveva cominciato ad andare su e giù per la stanza cercando di soffocare le lacrime, aveva sistemato un paio di oggetti a caso e alla fine si era fermato davanti a un foglio incorniciato, appeso alla parete. Era l’articolo di giornale, solo un trafiletto, in cui si diceva che Andreas Bredow era sopravvissuto all’attentato, ma era tuttavia rimasto cieco. Steve aveva esultato. Che sfortuna, David! Ancora niente eredità. Speravi che il vecchio ci lasciasse le penne, eh? Ma quella è una generazione forte. Il vecchio tedesco camperà ancora a lungo. Si era voltato ed era andato di nuovo al telefono con passi decisi.


Accanto all’apparecchio c’era un biglietto, su cui l’incantevole Sheila Willard aveva scritto il suo numero. Erano andati al Cembalo, un ristorante elegante nella zona ovest di Londra. Musica in sottofondo, candele, camerieri che si muovevano in punta di piedi, in frac nero, naturalmente. Steve aveva indossato il migliore abito che aveva conservato dai tempi buoni – lo aveva fatto rimodernare da un sarto da due soldi che abitava nel cortile – e Sheila portava un vestito longuette a fiori di Laura Ashley che la faceva sembrare una dolce bambola di porcellana. Steve aveva ordinato il vino più costoso, e poi avevano gustato una cena da cinque portate. Il cameriere aveva ricevuto una lauta mancia, e poi Steve si era alzato, aveva preso Sheila per mano e le aveva chiesto: «Andiamo a ballare adesso?» Nel night club avevano bevuto un’intera bottiglia di champagne, e aveva comprato dal ragazzo delle rose in sala tre mazzi che aveva donato a Sheila. Aveva goduto del suo sguardo sorpreso, ma nello stesso tempo, fortemente a disagio aveva pensato: Steve non ti riconosco! Non è da te pavoneggiarti, far finta di essere un grande uomo! Ti stai comportando in modo davvero disgustoso! All’una erano di nuovo in strada, Sheila con il suo mazzo di rose su un braccio, e Steve nel suo vecchio abito, e mentre ancora rifletteva indeciso se baciarla semplicemente o se fosse meglio proporle in modo disinvolto di andare da lui, Sheila gli aveva detto: «È stata una bella serata, Steve, ti ringrazio. Devo... confessarti una cosa... che adesso potrà sembrare strana...» Aveva riso per prendere tempo. «Dimmi» le aveva detto Steve con dolcezza. E poi la bacio, aveva pensato. «Sono fidanzata, Steve. Credo che tu debba saperlo. Il mio fidanzato è a Parigi alla Sorbona con una borsa di studio, ma a Natale tornerà a casa e ci sposeremo.» Fine. Il sogno era finito. Troppo presto. Steve non poteva permettersi di sognare o sarebbe diventato un uomo pronto a lottare per affermarsi nella vita. Il destino riusciva sempre a mettersi di traverso, e lo faceva anche in modo egregio. «È molto in ritardo» puntualizzò in tono acido la signorina Hunter accennando alla scrivania. «Deve ancora smaltire tutta quella corrispondenza.» Serpente velenoso, pensò lui. Lo scrutava in un modo strano, penetrante. Che presunzione! Che mi tenga sotto controllo? Non mi avrà mica scoperto? Impossibile, non avrebbe perso tempo, sarebbe corsa subito dalla vecchia Gray per accusarmi. Da sei mesi sottraeva regolarmente i soldi delle donazioni. All’inizio si era trattato solo di piccole somme. Sulla sua scrivania non finivano sempre soltanto assegni: a volte ricevevano anche lettere commoventi, che contenevano banconote sfuse, di vecchie signore che avevano letto


sui giornali dell’encomiabile lavoro della signora Gray, e avevano deciso di contribuire. Lettere di bambini, che avevano risparmiato qualcosa della mancetta. O di casalinghe, che avevano organizzato un mercatino o una tombolata, e che devolvevano i proventi alla fondazione della signora Gray. Qualche volta erano cinque sterline, altre volte dieci, alle volte persino cento. Steve scriveva quindi il bigliettino di ringraziamento – una frase molto toccante che andava bene per ogni tipo di donazione ricevuta, scritta dalla stessa signora Gray – poi doveva aggiungervi data, destinatario, importo, e infine firmarlo lui stesso su incarico della signora Gray. Di solito, venivano fatte delle copie delle lettere, di cui una andava nella posta e l’altra nell’archivio. E dopo, al donatore veniva spedita una ricevuta per le tasse. Quella era la parte rischiosa: quando Steve teneva per sé i soldi, la somma non andava sul conto della fondazione, ma spariva nelle sue tasche. Se ci fosse stato un accertamento fiscale, sarebbero state scoperte irregolarità perché i donatori denunciavano delle somme che non erano state registrate da nessuna parte. Naturalmente, ogni volta che Steve sottraeva dei soldi, non si preoccupava di fare una copia della relativa lettera di ringraziamento. L’aveva fatto per la prima volta a marzo. Era una fredda giornata ventosa, lo stridio di gabbiani affamati in volo sul Tamigi riempiva l’aria e Steve si sentiva così depresso che tra una lettera e l’altra fissava fuori dalla finestra con in testa un turbinio di pensieri tristi. Aprendo la lettera di una vecchia signora si era ritrovato nelle mani una banconota da cinque sterline e di riflesso aveva pensato astioso: Anch’io sono un bisognoso. Ho bisogno di aiuto anch’io! Il destino è stato ingiusto anche con me. Aveva infilato la banconota nella tasca interna della sua giacca. Cinque sterline! Di cui non importa a nessuno. Non faccio male a nessuno! Ancora non sapeva che in quel momento aveva innescato la miccia di una bomba che presto gli sarebbe scoppiata in mano. Naturalmente si muoveva con cautela: se l’arcigna signorina Hunter avesse infilato il suo lungo naso tra le sue carte, non avrebbe dovuto scoprire che d’un tratto registrava solo le somme grosse e non più quelle piccole. Così faceva sparire qualcosa solo ogni tanto. Oggi una lettera con due sterline, domani una con dieci sterline. Poi niente per tre giorni di fila, e poi di nuovo sei sterline. Il denaro finiva in una cassetta di acciaio che si chiudeva a chiave, comprata apposta e che teneva conservata nel suo armadietto. La chiave la portava giorno e notte appesa al collo. In estate era diventato più avido. La signorina Hunter era stata in ferie per tre settimane, e lui, sentendosi tranquillo, era passato agli assegni con importi più alti. Cinquanta sterline, cento sterline... Sapeva che stava rischiando grosso. Con gli assegni doveva andare in banca e depositare le somme sul suo conto; il denaro rubato nascosto nei suoi pantaloni e nella cassetta d’acciaio usciva allo scoperto. La probabilità


che tutta la faccenda venisse a galla aumentava. Architettò un piano: avrebbe lasciato l’Inghilterra, il paese in cui non aveva più nessuna possibilità, dove sarebbe rimasto per sempre un perdente. Quando avesse raccolto abbastanza soldi, sarebbe partito per l’Australia. Destinazione Sydney. Forse lì avrebbe lavorato in una banca, tutto quello che gli serviva era denaro sufficiente per consentirgli di cavarsela nel frattempo e di comportarsi nel modo migliore possibile per non destare sospetti. Uscite come quelle della sera prima con Sheila intaccavano i suoi risparmi. Che stupido che era stato! Attese che la signorina Hunter lasciasse il suo ufficio – cosa voleva quella brutta strega sempre intorno! – poi cominciò ad aprire la posta. Donazioni, donazioni, donazioni, molte lettere di richieste d’aiuto – di cui non si occupava lui – lettere di lode, pagine e pagine di complimenti per le buone azioni della signora Gray... oh, quanto era stufo! Ancora un’altra lettera... ma quando finivano? Indugiò con una busta in mano, grigio chiaro, molto stretta, molto sottile e molto pesante. Frusciò come la seta quando la aprì. Dentro c’era un assegno da mille sterline! Steve fissò la carta grigia, che era stata scritta a macchina. La firma era di un tale Sir Charles Aylesborough. Mille sterline, una donazione simile capitava molto di rado. Ogni due mesi forse. In quei casi, era la stessa Pat Gray a firmare il biglietto di ringraziamento, e invitava persino il donatore nella sua tenuta, dove gli parlava per ore e ore del suo lavoro e del suo successo. Finora Steve non aveva mai messo le mani su quelle somme. Era molto rischioso, non doveva tirare troppo la corda. Ma quella mattina, stanco per la notte insonne, frustrato e amareggiato com’era, pensò che non poteva rinunciare. Sapeva di essere ormai al limite. Se non fosse riuscito a dare presto una svolta alla sua vita, sarebbe caduto e forse non si sarebbe più rialzato. Ma per una nuova vita servivano soldi. Infilò l’assegno nella tasca interna della giacca.

3 Stessa mattina, zona est di Londra. Mary tornò a casa dopo la spesa. Faceva sempre la spesa in anticipo per tutta la settimana; certo, i soldi finivano subito, ma almeno erano al sicuro dalle grinfie di Peter che così non poteva più spenderli in birreria. E in più, lei aveva la possibilità di cucinare qualcosa di decente sette giorni su sette. In realtà era uscita convinta di avere un appuntamento dal dentista. Ma quando era arrivata tutta trafelata allo studio, era venuto fuori che l’appuntamento era per l’indomani. Tipico, pensò. Le succedeva sempre più spesso di confondere le cose, presentarsi al posto sbagliato all’ora sbagliata, mettere lo zucchero al posto del sale nella minestra, lavare i


pullover di Cathy in acqua così calda che poi andavano bene alle sue bambole, prendere il dentifricio quando aveva intenzione di pettinarsi i capelli. Insieme al bambino, mi hanno raschiato via anche il cervello, pensava spesso. Da quel giorno non era più la stessa, lo sapeva. Era come se vivesse sotto una campana di vetro. Tutto le sembrava attutito, lontano. Aveva la sensazione di vivere a metà. Il calore, la vitalità, la giovinezza, o cosa diavolo fosse, non c’era più. Le sembrava che il sangue scorresse più lentamente, che il cuore battesse più lentamente. Tutto aveva perso vigore, consistenza. Come i colori di una vecchia fotografia che sbiadiscono piano piano. Solo che io non sono vecchia! Lentamente salì le scale verso il suo appartamento con le pesanti borse della spesa che già dalla fermata dell’autobus aveva trascinato a fatica fino alla porta d’ingresso. Nella cassetta della posta c’era una lettera di Natalie. Non vedeva l’ora di leggerla. Sperava che Peter – ancora senza un lavoro – fosse in birreria, in modo da poterlo fare in santa pace. Si sarebbe seduta comoda in cucina con una tazza di caffè forte appena preparato, e l’avrebbe letta. Quando aprì la porta dell’appartamento, notò subito che la giacca di Peter era appesa all’attaccapanni. Maledizione, pensò stremata, è ancora qui! Addio pace e tranquillità. Portò le borse in cucina e le sembrò strano che Cathy non fosse corsa subito da lei a salutarla come faceva sempre. «Cathy?» chiamò nel corridoio. «Dove sei tesoro?» Nessuna risposta. Uscì dalla cucina e si diresse verso la stanza della bambina. Era chiusa, con la chiave infilata. Sorpresa, la girò nella serratura e la aprì. Cathy era seduta sul letto con le gambe piegate, strette tra le braccia e la testa appoggiata sulle ginocchia, con i lunghi capelli neri che le ricadevano in avanti come un velo. Tremava tra i singhiozzi. Mary si precipitò dalla bambina e la prese in braccio. «Cathy, cosa c’è? Cosa è successo? Chi ti ha chiuso in camera?» Cathy sollevò il capo, gli occhi rossi gonfi di pianto. «Papà» disse tra le lacrime, «è stato papà!» «Papà? Perché lo ha fatto?» «È venuta ancora quella donna che non conosco, e allora lui ha detto che doveva chiudermi di nuovo qui, e che mi avrebbe ammazzato di botte se te lo avessi raccontato.» «Una donna che non conosci?» Mary avvertì una sensazione di freddo; era scioccata ma allo stesso tempo furiosa. Accarezzò Cathy sui capelli. «Non aver paura, non aver paura. Papà non ti ammazzerà di botte. Ci sono qua io con te!» Le tremavano le ginocchia quando uscì dalla stanza per andare in camera da letto. Un’altra donna! Si portava a casa quelle donnacce della birreria pur sapendo che c’era la bambina! Aprì la porta con uno scatto. Peter era al centro della stanza e si stava infilando la vestaglia. Aveva i capelli spettinati – erano mesi che non andava dal barbiere perché tutto d’un tratto aveva deciso che l’aria da «selvaggio» gli donava di più – e


sul collo aveva una grossa macchia rossa. Vedendola sulla porta, rimase a bocca aperta come se gli fosse comparso davanti un fantasma. Sul letto c’era una donna con i capelli biondi, la pelle chiara, le ciglia finte, la boccuccia truccata con un rossetto rosso scuro e le guance seppellite dal fard. Era stesa nuda sulla pancia, e la prima cosa che pensò Mary fu: Santo cielo, ha il sedere più grosso che abbia mai visto! Aveva piedi piccoli e tozzi, che strabordavano negli stretti sandali argentati con il tacco a spillo da dieci centimetri. La bionda fu la prima a parlare. Disse: «Ehi... è questa tua moglie, Peter?» Aveva un accento rozzo, sembrava venire dal paese più a est dell’East Anglia. «Mary, maledizione!» disse Peter. Si passò una mano tra i capelli, persino a lui era chiaro che non era un bello spettacolo. «Pensavo che fossi dal dentista.» «No, come vedi sono qui. L’appuntamento è per domani.» Si voltò, e uscì dalla stanza sbattendo la porta. Fuori in corridoio si lasciò cadere su una sedia e scoppiò a piangere. Nella camera, la bionda si alzò a fatica dal letto, e quasi zoppicando si rimise in piedi sulle sue scarpe troppo piccole e troppo alte. «Che figura di merda» disse. Si infilò gli slip rossi e pescò il suo reggiseno rosso. «Non mi piacciono affatto queste sorpresine!» «Aveva detto che andava dal dentista. Sul serio, Lue, ha detto così!» Lue sbuffò. «Gli uomini che credono a tutto quello che raccontano loro le donne sono i più stupidi. Pensavo che tu avessi un po’ più di cervello. Ma sei come tutti gli altri!» Indossò la sua aderente gonna di maglia nera e la tirò sui fianchi per fissare le calze alle giarrettiere. Era molto seccata. Quel Peter l’avrebbe subito catapultata fuori di casa, gli toccava una grossa lite con la moglie adesso. Arricciò le labbra, abbassò la gonna sui fianchi forti e infilò un pullover di lana verde che la fasciava a tal punto da minacciare di esplodere a ogni respiro. Peter aveva ovviamente drizzato le orecchie. «Che intendi, Lue? Che non valgo niente?» «Prova a indovinare? Dov’è la mia borsetta?» «Ma anche a te è piaciuto! Avevi appena detto, che...» Lo guardò con sdegno soffiando via una ciocca di capelli che le ricadeva davanti agli occhi. «Peter, tesoro, ti ho appena detto di non credere a tutto quello che ti dicono le donne. Ah, eccola!» Aveva ritrovato la borsetta: pelle di coccodrillo, un ricco ammiratore gliela aveva regalata diversi anni prima, e lei in cambio aveva dovuto fare sesso con lui solo una volta. Aprì la porta della stanza, e sgambettando sui suoi tacchi a spillo passò davanti a una Mary singhiozzante – Piagnona, pensò sprezzante, io non piagnucolerei, gli mollerei un bel ceffone allo stronzo – e scese le scale. Clac, clac, clac. Quando uscì, di sopra giunsero i fischi con cui la salutarono i ragazzi che in cortile ciondolavano in sella alle motociclette. Peter uscì dalla camera. «Maledizione!» disse furente. «Come ti


permetti di entrare senza bussare?» Mary sollevò il capo, gli occhi rigonfi di lacrime. «In pieno giorno» disse urlando, «dovrei poter entrare nella mia camera da letto senza bussare! O dovevo immaginare che eri a letto con un’altra?» Aveva la voce strozzata. «Nella nostra casa! Nel mio letto!» «Questa è ancora anche casa mia, capito?» tuonò Peter. Lue l’aveva profondamente umiliato, doveva sfogare la rabbia su qualcuno. «E in casa mia posso fare quello che voglio! Con chi voglio! Tu non puoi dirmi nulla!» «Io sono tua moglie! Non mi lascio trattare così!» «Ah, no? Vuoi separarti per caso?» Peter si mostrava sicuro, ma in realtà aveva posto la domanda con un po’ di timore. Se Mary avesse davvero voluto separarsi, non avrebbe più ricevuto i soldi dal suo vecchio. «Non lo so... non ci ho ancora pensato...» «Dove credi di andare con la bambina?» la incalzò Peter. «Sei fortunata che ti abbia offerto un tetto sulla testa!» «La bambina! Mio Dio, Peter, non ti vergogni neanche un po’ di aver portato quella donnaccia qui, pur sapendo che c’era la bambina?» «Lue non è una donnaccia! Non ti permettere più di dire una cosa del genere! Lue è una brava ragazza che sa come rendere felice un uomo! Non una strega frigida come te! Lei almeno mi soddisfa, mentre con te non mi sono mai divertito! E poi, tu sei pelle e ossa, mi fa schifo anche solo guardarti!» «Non urlare! Non puoi...» «Posso fare tutto quello che voglio!» urlò lui. «Tutto! Capito? Tutto! Ne ho abbastanza di te!» Si fissarono, e Mary pensò: Devo andarmene da qui. Non ce la faccio più! «La prossima volta che mi tradisci» disse alla fine, «fallo almeno altrove per favore. Porta queste sgualdrine in qualche albergaccio, o...» la voce era colma di disgusto, «o nel loro stesso bordello dove saranno più a loro agio in mezzo ad altri clienti come te!» A queste parole, Peter le mollò uno schiaffo che la lasciò di pietra. Sulle prime Mary pensò di esserselo immaginato. Ma la guancia le bruciava, e notò che Peter era impallidito. «Se ti azzardi a parlarmi ancora in questo modo, non stupirti poi se volano le mani!» «Stupirmi? Stupirmi? Lo sai quello che hai fatto?» Era inorridita. Era caduta più in basso di quanto avesse mai creduto possibile. Aveva toccato il fondo: la vita grama e miserabile che suo padre le aveva prospettato con le sue terribili profezie era diventata realtà. C’era un mondo intero tra quella condizione e il suo sogno... la piccola casa, un giardino fiorito, una famiglia felice... Un miraggio ormai. Si alzò e barcollando si trascinò in soggiorno; si sedette su una poltrona con le gambe piegate, schiacciate contro il petto, e si avvolse


con una coperta raggomitolandosi su se stessa e intimamente, come aveva sempre fatto da bambina. Solo che allora piangeva nella speranza di un futuro migliore – quando crescerò... Non poteva più pensare al futuro adesso. Non poteva più pensare a nulla. Rimase lì seduta per ore, e solo quando calò il buio nella stanza, le ritornò in mente la lettera di Natalie. Si alzò dolorante a causa delle molte ore seduta in quella posizione senza muoversi, e andò in cucina. L’aprì. Natalie le comunicava che avrebbe lasciato l’Inghilterra per trasferirsi in America.

4 «Stiamo sorvolando New York, tra mezz’ora circa atterreremo al JFK» disse il comandante. Natalie, immersa nei suoi pensieri, sussultò. Guardò fuori dal finestrino. Nuvole, nuvole ovunque. Stava ricordando il fine settimana precedente; era andata a trovare i suoi genitori per salutarli. Sebbene non avesse alcun bisogno di vedere sua madre, quel sabato, in serata, si era sentita in dovere di fare un salto nel Somerset in macchina. Se mamma non avesse indugiato in chiacchiere inutili, avrebbe avuto la possibilità di fare anche una passeggiata nella tenuta. Desiderava tanto ammirare per un’ultima volta il giardino di rose, il recinto per i cavalli, il bosco, il piccolo stagno in cui guizzavano i pesciolini argentati. Non vedeva l’ora. Nonostante tutto, in cuor suo sapeva di essere molto legata alla casa della sua infanzia. Per tutto il viaggio in macchina aveva canticchiato tra sé e sé. Ma poi, alla vista di tutte quelle macchine parcheggiate nel cortile, aveva avuto un brutto presentimento. Rolls-Royce, Bentley, Mercedes, un macchinone dopo l’altro. Che avesse riunito tutta l’alta società della contea? L’oscurità era rischiarata dalle finestre, tutte illuminate. Oh, no mamma! aveva pensato Natalie. Sua madre le era andata incontro all’ingresso, indossava un abito lungo di pizzo nero, il collier con i zaffiri intorno al collo, e teneva in mano un calice di champagne. «Tesoro, finalmente! Ci hai messo tanto! Ti stiamo aspettando tutti! Vogliono vederti tutti. Sono così fiera!» Aveva abbracciato la figlia, e a Natalie era venuta subito la nausea a causa dell’ondata di profumo dolcissimo che la madre spandeva intorno a sé. «Mamma, cosa succede?» «Ho organizzato una piccola festa per te, tesoro. Quando al telefono mi hai raccontato che una emittente americana ti vuole come moderatrice in un talk show, non potevo non raccontarlo anche ai nostri amici.» Ma naturalmente! aveva pensato Natalie. «Per una mamma è un tale orgoglio quando sua figlia ha successo!» Adesso ti va bene, eh? Finora non mi era sembrato proprio. «Siamo tutti così eccitati. Incontrerai di certo le persone più famose del


mondo! Forse intervisterai persino la principessa Diana, non credi?» «Non so, mamma.» Si era sentita avvilita. Perché doveva rovinare il loro saluto tranquillo, riservato? Sua madre l’aveva presa per mano e l’aveva trascinata nel grande salone che risuonava di risate, tintinnio di bicchieri, musica. Proprio una piccola festa, come no! C’erano almeno cinquanta persone, in frac e abiti da sera, i cui profumi costosi impregnavano la sala. Quando Natalie aveva fatto la sua entrata in camicia verde oliva, jeans e scarpe da ginnastica, aveva focalizzato l’attenzione di tutti in un attimo. «Oh» aveva detto a gran voce un signore anziano. «Ecco la star della televisione americana.» Applauso generale. Orgoglio materno alle stelle. Si era guardata intorno e aveva scorto suo padre, che si era ritirato accanto al camino con un paio di altri signori, a cui probabilmente stava raccontando tutto contento della sua nuova giumenta. Povero papà, aveva pensato Natalie. Lui detestava le feste, e la sua unica speranza in quelle occasioni era trovare qualcuno con cui poter parlare di cani e cavalli. Aveva attraversato la sala, si era avvicinata a suo padre e lo aveva salutato con un bacio. «Papà! Sono felice di vederti!» Lo era davvero. In passato, il suo naso paonazzo per via della grappa, la sua rudezza, il suo perenne parlare di animali le aveva sempre dato sui nervi, ma ora lo trovava adorabile e lo vedeva per quello che era: un vecchietto bonaccione che amava farsi un goccetto con gli agricoltori della zona, e che idolatrava ogni filo d’erba della sua tenuta. Le aveva accarezzato con dolcezza i capelli. «Natalie! Come sei bella!» e poi aveva aggiunto: «Non ho potuto evitarlo. Sai la mamma...» e si erano scambiati un muto sorrisetto d’intesa. La festa era andata avanti fino all’una di notte. Natalie era stremata, quando alla fine era andata a letto. Tutti avevano voluto brindare con lei, e tutti le avevano garantito che sarebbe stata una fantastica esperienza, il primo passo per una brillante carriera. «E poi dicono che solo le belle donne arrivano in alto» aveva cinguettato Lady Crawl, la migliore amica della signora Quint. E un secondo dopo, rendendosi conto che quella osservazione poteva non essere presa da tutti come un complimento, aveva aggiunto: «Non che lei non sia bella Natalie, ma...» «So di non essere una bellezza straordinaria» le aveva risposto Natalie con un bel sorriso. Ma per fortuna sono molto più intelligente di tutti voi messi insieme, aveva pensato. «Natalie meritava un glorioso destino» aveva dichiarato un’altra signora. «Dopo tutto il male che ha subito!» «Ne hanno parlato tutti i giornali...» aveva aggiunto un’altra suscitando sui presenti una strana sensazione a metà tra il piacere e l’orrore. Era stata un festa ben riuscita. La signora Quint poteva esserne fiera. La vera bomba era stata mollata il lunedì successivo: un reporter del Sun


aveva rivelato che la giovane attrice Claudine Combe, in Inghilterra molto acclamata come rivelazione degli ultimi vent’anni, aveva rotto il suo sodalizio con Londra in favore dell’America dove era in procinto di trasferirsi con la famosa giornalista televisiva Natalie Quint che lì avrebbe condotto un talk show della ABC. Astuto come tutti i reporter del Sun, il giornalista aveva aggiunto anche un dettaglio, di cui molti erano già a conoscenza, come fosse lo scoop del secolo: la Combe e la Quint vivevano insieme. Ovviamente il giornale non aveva trattato la vicenda con discrezione. Era stato il titolone di inizio settimana. In un profluvio di lacrime la signora Quint aveva telefonato alla figlia. «Che figuraccia. Come hai potuto farmi questo? Tutti quelli che sono venuti alla festa hanno letto il giornale, e non puoi neanche immaginare con quale finta compassione mi abbiano telefonato. Nat, devi smentire assolutamente! Questa è diffamazione! Dobbiamo querelare il Sun, dovranno pubblicare una rettifica, e...» «Mamma, tutto quello che hanno scritto è vero» aveva detto Natalie placida. Pausa di qualche secondo. E poi dall’altra parte del filo erano cominciati i rantoli. Natalie li aveva ascoltati impassibile nella cornetta. Per quanto potesse ricordare, ogni volta che a sua madre non era andato giù qualcosa, aveva sempre attaccato con quella recita degli attacchi di asma. E poi tra un ansito e l’altro, se n’era uscita dicendo: «Io e tuo padre non potremo più farci vedere in certi ambienti!» Papà ne sarà ben felice, aveva pensato Natalie. Poi alzando un po’ la voce, le aveva detto: «Mamma ascolta, voi dovete vivere la vostra vita, e io la mia. Mi dispiace per quello che è successo. Neanche a me piace che la mia vita privata sia di dominio pubblico. Ma i giornali come il Sun vivono di questi pettegolezzi, non ci si può fare niente. Dopo tutto» aveva aggiunto calcando la mano, «tu e le tue amiche amate questo tipo di giornaletti e trovate normale che i giornalisti scrivano cose di cui fondamentalmente non frega a nessuno.» «Scusa se ti interrompo» aveva detto la signora Quint ansimando, «ma non mi sento bene... devo andare a sdraiarmi un po’.» Natalie avrebbe tanto voluto salutare sua madre in pace, ma non era possibile. Come sempre, avevano litigato anche ora. L’assistente di volo invitò i passeggeri ad allacciare la cintura di sicurezza. Natalie dette un colpetto a Claudine. «Claudine svegliati. Stiamo per atterrare!» Le piaceva quando Claudine si svegliava. Adorava il suo viso ancora mezzo addormentato, sotto i capelli spettinati; la pelle diafana, i piccoli occhi verdissimi. «Su, dai allaccia la cintura.» Claudine afferrò la cintura. Natalie non conosceva nessun altro che avesse dita più delicate, più sottili. Portava anelli in oro, sobri e preziosi


al contempo, che aveva scelto con cura. Quel giorno era molto bella ed elegante nei suoi pantaloni alla zuava di seta nera, la camicetta di seta verde chiaro, il rossetto rosa chiaro sulle labbra, i capelli biondi pettinati all’indietro e raccolti con un fiocco di velluto verde in una coda bassa e morbida sulla nuca. Mentre dormiva, una ciocca si era sciolta e le era caduta sulla fronte; aveva un’aria così tenera, quasi infantile. Natalie ricordò le accese discussioni che avevano avuto. «Non puoi smettere di recitare al London Theater, Claudine. Sei un astro nascente!» «Posso recitare anche in America!» «Ma lì non sei ancora conosciuta. Fai tre passi indietro così. Quando in Europa diventerai la Combe, allora potrai andare in America. Adesso è ancora troppo presto.» «Io vado dove vai tu.» «Non puoi buttare via il tuo talento. Per favore, Claudine, fallo per me.» «Vengo con te.» «Allora rinuncio all’America, e rimango in Inghilterra.» «Non lo farai. Tra l’altro mi sono già licenziata. Non si torna indietro.» E avanti così per un po’. Poi, alla fine Natalie aveva ceduto; sotto sotto sapeva che era ciò che voleva. Non avrebbe rinunciato all’America, a quell’opportunità, con o senza Claudine. Per lei la carriera sarebbe sempre venuta prima di tutto. Per Claudine, l’amore. L’aereo toccò la pista senza scossoni. «I passeggeri sono pregati di rimanere seduti ai propri posti senza slacciare le cinture di sicurezza fino al completo arresto del velivolo e allo spegnimento dei motori.» Claudine cercò il suo passaporto. «Quando saremo al Waldorf, come prima cosa faccio un bel bagno. E poi mi riposo un po’. Devi incontrare quelli della ABC già oggi?» «No, domani. Oggi devo riprendermi dal fuso orario. Voglio solo... chiamare un vecchio amico.» Claudine le lanciò una occhiata curiosa, ma Natalie si chiuse nel silenzio. Nella mano, infilata nella borsa, teneva stretto un foglietto. Il dottor Harper vi aveva scritto sopra il nome di un collega di New York. «Il dottor Brian è un ottimo terapeuta, spero non sarà troppo indulgente con lei, Natalie. Visto che già io le ho aumentato ulteriormente la dose giornaliera... santo cielo!» Harper rimpiangeva ancora il fatto di aver ceduto. Natalie sorrise. Per nessun motivo ne avrebbe parlato con Claudine, ma avrebbe chiesto al dottor Brian di aumentargliela ancora. Ne aveva bisogno, ne andava della sua crescita professionale. Questa, pensò con un po’ di amarezza, è la prima cosa che farò io a New York. La Porsche blu scuro metallizzato con sedili neri nuova fiammante di David si fermò con stridore di freni davanti al Waldorf Astoria, e lui, molto elegante nell’abito nero, scese dall’auto, e affidò le chiavi al ragazzo dell’albergo che l’avrebbe parcheggiata al suo posto.


Fu investito da una raffica di flash. I giornalisti lo avevano circondato e lui sorrise compiaciuto alle macchine fotografiche. Adorava quelle entrate da star. Per quel motivo era arrivato in Porsche e aveva lasciato che Andreas lo precedesse da solo con la Limousine. A lui non serviva un autista. «Signor Bellino» chiese una giovane e bella giornalista, che era rimasta ammirata dal suo arrivo in Porsche, «Bredow comprerà le Morgan Industries?» «Se Morgan chiede un prezzo ragionevole, potremmo metterci d’accordo alla cena di stasera qui al Waldorf.» David rispose con distacco, ma il suo cuore traboccava d’orgoglio. Le Morgan Industries erano state un affare tutto suo. Lui aveva scoperto che la società versava in cattive acque e che difficilmente sarebbe restata a galla. Aveva convinto Andreas a concedere loro crediti sempre più alti fino al punto che, in un certo senso, le Morgan Industries appartenevano ormai per tre quarti alle Bredow Industries. Il resto sarebbe stato un gioco da ragazzi. Una cena luculliana al Waldorf Astoria di New York, i convenevoli di rito, e poi la domanda diretta: Morgan, che fa, vende di sua spontanea volontà, o dobbiamo metterla con le spalle al muro? David concesse ancora qualche risposta e poi entrò nella hall. Alla reception trovò Natalie, appena tornata dall’incontro con il dottor Brian, che chiedeva la chiave della sua camera. Si voltò e vide subito David. Era la prima volta che si incontravano dopo Crantock. Natalie si riprese per prima dalla sorpresa, e a testa alta si avviò verso l’ascensore. David la seguì. «Natalie!» Lei non rispose. Quando la raggiunse, la prese per un braccio. Lei si divincolò. «Mi tolga le mani di dosso signor Bellino» disse a voce alta e in modo piuttosto perentorio. I presenti si voltarono curiosi. David fece un passo indietro. «Volevo solo salutarti Natalie. Dopo così tanti anni...» D’un tratto non era più l’uomo d’affari consapevole, sicuro di sé, che era appena sceso dalla Porsche e aveva parlato con i giornalisti assiepati davanti all’albergo. D’un tratto era solo un ragazzo che guardava Natalie con occhi imploranti. «Nat, ti prego, ascoltami...» «Non abbiamo nulla da dirci.» Voleva scomparire all’istante, ma quel dannato ascensore non arrivava. Non poteva fare altro che rimanere lì impalata a fissare come ipnotizzata le porte in legno. «Ti trattieni molto a New York, Nat? Ti prego, guardami!» Dipendeva molto da quello sguardo; solo una possibilità, non voleva nient’altro! D’un tratto la Cornovaglia era di nuovo lì, e tutto quello che le aveva detto allora le risuonava nelle orecchie. Lei lo aveva capito allora, e lo capiva anche adesso; il suo profondo desiderio di amicizia e apprezzamento, il suo continuo cercare la benevolenza degli altri erano ancora forti... ma su tutto aleggiava l’ombra di Crantock! Il branco, Maxine sgozzata, Duncan ucciso, lo stupro che lei stessa aveva subito. Avvertì di nuovo quella paura opprimente, quel terrore infernale, l’incredulità con cui aveva visto David fuggire abbandonandola a quel


destino funesto. Quella notte aveva distrutto la sua vita; non sarebbe mai più riuscita a guarire le sue ferite dell’anima. E non avrebbe perdonato David, né ora e né mai. Non voleva! Non poteva! «Perché non ceniamo insieme una volta, Nat?» Dio del cielo, fa’ che arrivi questo ascensore! «O magari potremmo andare a bere un drink da qualche parte? Così, solo per passare un po’ di tempo insieme! Posso chiamarti qui domani?» L’ascensore si arrestò al piano, e le porte si aprirono senza il minimo rumore. Natalie vi entrò, ma prima che si richiudessero, disse a David in un sibilo: «Una volta per tutte, David, lasciami stare! Lascia che io ritrovi la mia pace, e non farti mai più vedere!» Prima di allora, non aveva mai visto un uomo guardarla in quel modo: così ferito, così addolorato, così disperato.

5 Il volo per Los Angeles fu annunciato. Gli ultimi passeggeri confluirono verso il gate corrispondente. Aeroporto La Guardia, New York, venerdì mattina, servizio regolare, nessun episodio particolare. I viaggiatori in attesa del proprio volo per Los Angeles con la Delta Airlines osservarono curiosi l’uomo basso in abito grigio dal taglio scadente con la borsa da viaggio blu a tracolla. Camminava ricurvo come fosse dolorante, e aveva il viso contratto in una smorfia di cattiveria. A ogni passo, le vene sulla sua fronte si gonfiavano; aveva la pelle cosparsa di un brutto eczema e puzzava di sudore. Una signora, accanto alla quale era andato a sedersi, cambiò posto. «È inaudito» mormorò. Una hostess compassionevole si avvicinò all’uomo. «Posso aiutarla? Magari potrei portarle la borsa sull’aereo...» «No!» ringhiò e le lanciò una tale occhiataccia traboccante di odio che la poveretta indietreggiò per lo spavento e per schivare l’alito fetido... ma un uomo poteva puzzare così tanto? Gipsy le fece un sorriso maligno. Da quando aveva iniziato a bere, quindi da dieci anni, non si lavava più i denti e non si faceva neanche più la doccia. E perché mai avrebbe dovuto? Che se ne andassero tutti a farsi fottere; tutti, sia i caproni come quella che si era spostata prima sia i buoni samaritani, come quella lì che si era offerta di portargli la borsa. Stava per morire, che se ne andassero tutti al diavolo, nessuno poteva farci più niente. Ma sarebbero rimasti tutti a bocca aperta vedendolo prendere posto in prima classe. Già, che avesse un biglietto in prima classe non se lo aspettava nessuno. Maledetti... lasciano crepare le persone mentre loro se ne stanno seduti tranquilli con la coscienza a posto. Per chi aveva rischiato la pelle in Vietnam? Per quelli lì, per tutta quella dannata boriosa nazione! Americani! Stelle e strisce per sempre... Certo, il presidente Reagan si stava dando un gran da fare a cercare di


rinsaldare l’orgoglio nazionale. Dal suo trono nella Casa Bianca predicava la gloria e lo splendore dell’America... Facile fare proclami quando non sai cosa significa la sofferenza. Gipsy odiava il presidente Reagan. E più ancora aveva odiato il presidente Johnson, che aveva fatto scoppiare la guerra in Vietnam. Infilò freneticamente la mano nella tasca della giacca, tirò fuori una scatola, prese una pillola e la ingoiò senza acqua. Fece un lungo respiro profondo. Quei dannati dolori... gli attacchi venivano sempre più di frequente, sempre più forti. Nelle ultime settimane, aveva drasticamente aumentato il consumo di medicine. Se avesse continuato in quel modo, presto avrebbe mandato giù una scatola al giorno. Tanto alla fine sarebbe morto comunque. Sperava solo che accadesse il più tardi possibile! Da quando aveva conosciuto il Vietnam, Gipsy non pregava più, ma negli ultimi tempi, si era sorpreso di se stesso quelle poche volte che aveva sentito il bisogno di raccomandarsi a Dio. Signore, dammi ancora un po’ di tempo, concedi al mio corpo marcio di respirare ancora un po’... L’indomani sarebbe stato milionario. John Eastley gli avrebbe dato i soldi, ne era certo... Eastley... pensò, il bel Eastley. L’eccellente studente della Columbia, il brillante giurista, Eastley sempre il più veloce, il più grande, il migliore. Spinto da una smisurata, insaziabile ambizione. Avrebbe sacrificato tutto per la sua ambizione, Gipsy ne era convinto, anche un milione di dollari. Non gli era sfuggito che tutti gli altri lo guardavano di sottecchi. Che lo facessero, gli era indifferente, presto sarebbe diventato ricco. Se la California gli fosse piaciuta, chissà, magari vi sarebbe rimasto e avrebbe affittato un bell’appartamento sul mare. Avrebbe bevuto champagne e i vini migliori, mangiato caviale, astice e salmone. Quando fosse arrivata la fine, quando non fosse più stato in grado di stare in piedi e avesse avuto bisogno di morfina ogni giorno, allora non sarebbe dovuto andare in un misero ospedale avrebbe potuto permettersi una infermiera personale, che si sarebbe occupato di lui ventiquattr’ore su ventiquattro. I suoi ultimi giorni sarebbero stati meravigliosi. E tutto perché, sono a conoscenza di una brutta storia della vita dell’uomo che forse voterete come vostro presidente, pensò vagando con lo sguardo su quei visi in attesa, che gli sembravano tutti vuoti e scialbi. Poveri disgraziati! La hostess annunciò l’imbarco, e Gipsy si mise in fila zoppicando. Intorno a lui si creò il vuoto. Quella puzza di sudore e marciume era insopportabile. Gipsy sorrise di nuovo. Vediamo se vi allontanate, quando divento milionario! John aveva pensato fosse troppo rischioso ospitare Gipsy a casa sua. La posta in gioco era troppo alta, se uno dei domestici avesse sentito qualcosa per caso, lo avrebbe di certo ricattato anche lui. Doveva trovare un posto neutro.


Gina, che non aveva mai visto John così nervoso, aveva pensato: Santo cielo, quest’uomo di New York con un piede nella fossa deve proprio terrorizzarti! Alla fine, dopo averci riflettuto a lungo, John decise che il luogo dell’incontro sarebbe stato la fattoria di un suo amico, Paul, in collina. John pensò che poteva chiedergli di lasciargli la casa per una settimana. «Gli diciamo che abbiamo bisogno di un po’ di riposo e di starcene un po’ per conto nostro. Capirà. Sono sicuro che non ci saranno problemi.» E in effetti non ce ne furono, Paul fu molto contento di fare un piacere a un vecchio amico. «Potete restare su quanto volete. Là nessuno vi disturberà. Max e sua moglie vengono mattina e sera per occuparsi dei cavalli, ma non vi saranno di alcun impiccio.» «Mattina e sera» disse John a Gina. «Dobbiamo sistemare le cose con Gipsy in questo lasso di tempo!» John aveva prelevato i soldi da diverse banche dichiarando che ne aveva urgentemente bisogno per motivi personali, per una questione di famiglia. E dal momento che godeva di una grande reputazione e tutti gli credevano sulla parola, nessuno aveva fatto domande. Alla fine aveva messo insieme un milione di dollari, che aveva nascosto in una valigetta portadocumenti nera. Gina, che lo vedeva aggirarsi in casa con il malloppo, si sentiva come in una scena di un film di gangster americani. Nei telefilm come Le strade di San Francisco, Il tenente Kojak c’erano innumerevoli scene in cui avvenivano scambi di valigette piene di denaro in luoghi segreti. Perché gli uomini prendo così sul serio quello che propina loro la televisione? Il giorno prima dell’incontro con Gipsy, Gina e John partirono in macchina per la fattoria, con Lord sistemato sul sedile posteriore. Era una bellissima giornata tersa. Gina non riusciva a staccare gli occhi dal coloratissimo panorama. L’autunno in California poteva essere davvero magnifico! Le rose selvatiche erano sbocciate, le bacche rosse luccicavano tra i rami delle siepi. E su tutto si stendeva un cielo azzurro limpidissimo. Il sole splendente spandeva il suo calore, e Gina indossava solo un paio di pantaloncini corti, una maglietta e un paio di sandali. La libertà e la bellezza della natura le facevano sempre un effetto positivo, rilassante, e si sarebbe sentita ancora più contenta se il suo sguardo non si fosse posato su un John dall’aria costantemente rigida e tesa. Procedevano su una solitaria strada provinciale, ma lui appariva concentrato come se stesse guidando nel traffico congestionato di Los Angeles all’ora di punta. Gli accarezzò il braccio con dolcezza. «Andrà bene!» Lui la guardò sfinito. Giunsero a destinazione nel tardo pomeriggio. La fattoria era grandissima, e si sviluppava su una vasta zona circondata da boschi e prati. Lord saltò subito fuori dalla macchina e cominciò a gironzolare abbaiando. I cavalli, Gina ne contò dodici, saltellavano eccitati in un recinto dove si erano raccolti dopo essere stati lasciati liberi al pascolo,


e sembravano in attesa di ricevere la loro razione di biada. Dopo poco comparvero anche Max e sua moglie Clarissa, due simpatici vecchietti che mandavano avanti la fattoria durante l’assenza di Paul. «Vi occupate da soli di tutti e dodici i cavalli?» chiese Gina incredula. Max annuì con orgoglio. «Certo. Mattina e sera. I cavalli sono la mia passione, signora. E questi qui sono particolarmente belli, animali davvero straordinari. Quello nero lì» disse accennando a un grande morello con una stella bianca sulla fronte, «è un autentico purosangue. Ma un tantino pericoloso. Deve fare attenzione, signora. Le consiglio di non entrare nel recinto, se non ci sono io con lei. Se esce quello nero, poi lo seguono anche gli altri, e...» Max fece una espressione pensierosa. «Non entro, non entro» lo rassicurò Gina. «Qualche volta ho avuto paura persino io dei miei cavalli. A ogni modo c’è un allarme collegato con casa mia, non lontano da qui, e se qualcuno cercasse di entrare nella stalla o nel paddock, da me si attiverebbe così forte da svegliare anche i morti; sarei qui in un lampo. Ma se non funziona... mi chiedo quanto possiamo fare affidamento sulla tecnologia...» Max si grattò la testa. John sorrise sulle spine: «Già, già». Non vedeva l’ora che quella conversazione su cavalli e sistema d’allarme finisse. Clarissa aveva portato loro un pollo e un cesto pieno zeppo di verdura per la cena. Dopo che lei e il marito se ne furono andati, Gina cucinò il pollo arrosto e fece una insalata di cetrioli e pomodori. Lord ricevette una scatoletta di cibo per cani. Cenarono in veranda al chiarore della lampada a petrolio, con in sottofondo le migliaia di fruscii, ronzii, stridori del bosco e delle colline. Da qualche parte gorgogliava una sorgente. «Buono il tuo pollo» disse John. Sembrava un po’ più tranquillo. Dopo un paio di bicchieri di birra, il suo umore sembrava migliorato. Alla fine si accese persino una sigaretta, si appoggiò più comodamente allo schienale della sedia e fumò rilassato. L’aria si era rinfrescata, dal prato si stava alzando l’umidità. Gina entrò in casa per indossare un paio di pantaloni lunghi e un pullover. In camera, la borsa da viaggio di John era adagiata ancora chiusa sul letto. D’un tratto le venne il desiderio di indossare uno dei suoi pullover. Adorava lasciarsi avvolgere dai suoi golf, di qualche misura più grande, e dal familiare profumo del suo dopobarba. Frugò nella borsa alla ricerca di quello di lana grigio chiaro... e rimase sbalordita ritrovandosi in mano una pistola. La fissò per un attimo, come se non avesse mai visto un oggetto del genere, e poi, così com’era, in jeans e reggiseno, si precipitò in veranda e mise la lucida arma nera sotto il naso di John. «Perché l’hai portata qui?» gli chiese bruscamente. John non si scompose. «Ho pensato fosse opportuno dal momento che staremo qualche giorno in una fattoria isolata tra le colline» replicò, «soprattutto considerando che abbiamo con noi un milione di dollari in contanti!»


«Non penserai mica di farti trovare con questo aggeggio in mano domani, quando arriva Gipsy, vero?» «Santo cielo, credi davvero che possa sparargli?» Gina posò la pistola sul tavolo davanti a lui, e d’improvviso si sentì molto stanca. «Vorrei solo che domani andasse tutto liscio. Che Gipsy prenda i soldi e sparisca dalla nostra vita per sempre.» John rise, ma senza allegria; la sua fu piuttosto una risata cinica. «Temo che questo non succederà. I ricattatori non la smettono mai. Tornano a mungere la vacca finché possono. Posso solo sperare che, come hanno già detto da tempo i dottori, il Signore lo chiami a sé molto presto.» Entrambi dormirono male quella notte. Si alzarono all’alba e fecero colazione. Il sole si levò da dietro le colline in tutto il suo splendore, riaccendendo i colori autunnali dei boschi e facendo brillare le gocce di rugiada sull’erba. Gina decise di uscire a fare una passeggiata con Lord. Camminare all’aria fresca e limpida, che si riscaldava pian piano, le fece bene. Quella strana tensione si sciolse leggermente. Si fermò e osservò Lord che lappava avidamente acqua da una sorgente. Il comportamento di John l’aveva turbata. Lo aveva sempre considerato un uomo equilibrato, e ora d’un tratto le sembrava di non conoscerlo. Non le piaceva il modo in cui si comportava se sentiva che qualcosa minacciava la sua carriera. Era sempre teso, scattava come una molla, sembrava pronto a tutto. «Lord!» chiamò e si voltò. Certi pensieri non portavano a nulla. Quando tornò alla fattoria, trovò John in agitazione. «Sono venuti Max e Clarissa» la informò, «e non se ne volevano più andare. Max ha attaccato con una dissertazione senza fine sui cavalli, e Clarissa voleva fare le pulizie in casa. Le ho detto che non era necessario, e credo si sia offesa. Ci ha preparato un enorme dolce alla frutta, è in cucina. I due sono carini, ma...» Si passò le mani tra i capelli. «Spero di non essere stato troppo scortese con loro» mormorò. Proprio quello che Gina temeva. Entrò in casa e chiamò Clarissa per ringraziarla e scambiare due parole gentili con lei, così per sistemare le cose. Quando entrò in cucina, trovò John che armeggiava con l’allarme. «Cosa fai?» «Scollego l’allarme. Ti immagini se Gipsy tocca per sbaglio il recinto dei cavalli? Entro cinque minuti ci ritroviamo qui Max con fucile spianato pronto a difendere i suoi destrieri.» Contemporaneamente squillò il telefono. Era Max, che da casa sua si accorgeva quando veniva scollegato l’allarme. Con un tono di voce diffidente, si accertò di quello che era successo. E con molta pazienza, John si giustificò dicendo che finché lui e Gina erano nella casa, non c’era ragione di tenere l’allarme in funzione. «Il nostro cane sta sempre intorno al recinto. Non voglio che attivi l’impianto per sbaglio...» «Certo. Mi ero preoccupato solo che vi foste avvicinati troppo ai cavalli. Quello nero non è così docile...»


«Già, ce lo ha già detto» replicò John cercando faticosamente di mantenere un tono compassato. «Molte grazie, Max. Arrivederci.» Riattaccò e si voltò verso Gina. «Perché siamo capitati nell’era della tecnologia? Tutto è sorvegliato. Non era meglio il tempo del Far West? Io...» Si interruppe e tese l’orecchio. «Una macchina! La senti? Deve essere un taxi!» Sbiancò. «È Gipsy» disse.

6 «E lei quindi è la donna con cui vive John» disse Gipsy con un sorriso e squadrando Gina da capo a piedi. «Davvero molto bella! John è un ragazzo fortunato, l’ho sempre detto.» Gina cercò di respirare con la bocca per non dover subire la puzza di quell’uomo. Nonostante il caldo della giornata, aveva la pelle d’oca sulle gambe e le braccia. D’un tratto capì perché John era terrorizzato da Gipsy. Quel piccolo viso consumato dall’odio. Quel ghigno. L’assurda cattiveria, la puzza. Non lo si poteva definire neanche uomo, semmai... Controllati Gina, ordinò a se stessa. Sta per morire, la vita lo ha ridotto in quello stato. Smettila di disprezzarlo. «Si accomodi, signor...» Qual era il suo vero nome? Non ricordava se John lo avesse mai detto. «Gipsy. Mi chiami pure Gipsy. Dove ci accomodiamo? Lì?» Accennò alla veranda, all’ombra e si avviò. Gina si voltò verso John, che stava ancora prendendo accordi con il tassista. Avevano deciso di mandarlo nella trattoria del paese più vicino dove doveva mangiare e bere in attesa di essere richiamato per tornare a prendere Gipsy e riportarlo in aeroporto. Gipsy si lasciò cadere su una sedia di vimini e allungò le gambe davanti a sé. «Mi offre qualcosa da bere, signorina?» «Naturalmente. Cosa preferisce? Acqua? Un succo?» «Se possibile, una bella birra fresca.» Voleva accarezzare Lord, che gli si era avvicinato guardingo, ma il cane ringhiò e indietreggiò. Gipsy andò subito su tutte le furie. «I cani che mordono andrebbero soppressi!» apostrofò Gina. «Ma non le ha dato un morso!» E tra sé e sé aggiunse: La povera bestia ha solo un naso molto sensibile. Quando Gina tornò sulla veranda con la birra e tre bicchieri, il tassista era andato via, e John stava salendo i gradini con passo lento e strascicato. Per un attimo la luce brillante della sera disegnò un’ombra scura a terra dietro di lui. Lei gli lanciò un’occhiata come a dire: ci sono io con te, John. Ce la faremo! Sperò che lui avesse notato quello sguardo. Gipsy bevve mezzo bicchiere in un sorso solo, e poi gli venne il singhiozzo, ma non si diede la pena di reprimerlo. «Il mio stomaco è


andato» dichiarò, «non ci si può fare niente.» John e Gina rimasero entrambi in silenzio. Gipsy cercò le sue pillole contro il dolore, e ne ingoiò una. «Questi dolori sono atroci. Sono un povero diavolo! Deve essere bello per voi sapere che con i vostri soldi avrete reso più dolci gli ultimi giorni di un pover’uomo in fin di vita!» Anche se con la bocca sorrideva, sembrava volersi mangiare John con gli occhi. «In aereo mi hanno dato champagne, e del cibo molto buono. Ma non ho digerito. Ho lo stomaco ancora sottosopra!» Finì il bicchiere e ruppe gli indugi. «Dunque, John, eravamo entrambi giovani e sani allora in Vietnam, ricordi?» Nessuna risposta. Alla fine, dopo una breve pausa, con voce bassa e strozzata John disse: «Gipsy, ti ho portato i soldi. Prendili e sparisci». «Perché sei così ostile, John? Tanti anni fa, in quel dannato inferno eravamo amici.» «Hai detto bene, Gipsy, era tanti anni fa. Appartiene al passato ormai. Dimentica tutto, e che ognuno vada per la propria strada!» Gipsy sorrise. I denti tra i due canini superiori erano tutti monconi più che ingialliti, e quella, pensò Gina, era la ragione del suo sorriso così sgradevole. Avrebbe tanto voluto prendere per mano John, ma pensando che il gesto lo avrebbe fatto sembrare un debole agli occhi di Gipsy, si trattenne dal farlo. «Ti piacerebbe che io dimenticassi tutto, eh?» disse Gipsy. «Ma ti devo deludere; la mia testa funziona ancora bene. Sto per tirare le cuoia, è vero, ma la memoria non mi ha ancora abbandonato. Ricordo tutto come fosse ieri quando siamo fuggiti nella giungla e abbiamo seppellito i fucili sotto le felci. Chissà se sono ancora lì?» John arricciò le labbra. Gipsy continuò: «Riesco ancora a sentire le urla dei nostri compagni nelle orecchie. Qualcuno non è stato nemmeno raggiunto dai colpi, ricordi? Li hanno uccisi con il calcio del fucile. Erano urla strazianti, come quelle dei conigli quando vengono ammazzati. Talvolta, quando di notte non riesco a dormire a causa dei miei dolori, mi sembra di sentirle ancora quelle urla.» Fece una pausa, e si guardò intorno nel cortile soleggiato. I cavalli erano tornati dal pascolo e si stavano spingendo nel recinto antistante; la presenza di persone diverse dal solito Max li aveva disorientati, e aspettavano che qualcuno portasse loro da mangiare. «Che bei cavalli che avete qui. Sono tutti tuoi, John?» «Di un amico. Tutta la tenuta appartiene a un amico» rispose John, le mani serrate l’una dentro l’altra. E poi, con la massima calma possibile aggiunse: «Ascolta, Gipsy, basta con le chiacchiere. Chiamo alla trattoria e faccio dire al tassista di venire tra mezz’ora. Dovrebbe aver mangiato qualcosa nel frattempo. Tu prendi i soldi e te ne torni all’aeroporto. Fai ancora in tempo a prendere il prossimo volo per New York!» «Ma io non torno a New York» dichiarò Gipsy tranquillo. John lo fissò. «Cosa vuol dire? Io ti avevo inviato anche un biglietto di ritorno.»


«Certo, lo so. Ma ho pensato che qui è molto più bello che a New York. Soprattutto adesso, che lì è inverno. L’inverno a est è terribilmente rigido! No, mi troverò un bell’appartamentino qui, magari con un balcone dove poter prendere il sole. E poi rimarrò nei paraggi, nel caso dovessi stare male e avessi bisogno di un buon amico su cui poter contare!» Gli occhi di John si erano ridotti a due fessure. «Scordatelo, Gipsy! Con questo milione siamo pari. Non ci rivedremo mai più, finché vivrai!» «E tu abbandoneresti un vecchio amico che ha ancora una buona memoria?» chiese Gipsy con aria furba. «Se fosse necessario lo denuncerei per estorsione» ribatté John freddamente. «E pensi davvero che questo possa farmi qualcosa? Io sono un morto che cammina. Non ho più paura di niente e nessuno. In tutti questi anni, l’alcol ha attenuato il mio tormento e le mie paure; ora sono libero. Sì, John. Non temo niente. Non più.» La cattiveria, la devastazione dipinte sul suo viso avevano assunto un che di dignitoso mentre pronunciava quelle parole. Gina pensò meravigliata: Non lo posso odiare. No, mi fa pena. Pena e un po’ paura. John si alzò. «Chiamo l’autista. Ti porterà dove vuoi.» «I soldi» ricordò Gipsy. Il volto di John tradiva furia e disprezzo. «Naturalmente. Te li porto.» Scomparve nella casa. Gipsy si stiracchiò per mettersi più comodo. Lord, che sonnecchiava sotto il tavolo, si alzò e si allontanò. Evidentemente non ne poteva più della puzza. «Un giorno diventerà governatore della California» disse Gipsy, «e forse un giorno vivrà anche alla Casa Bianca. La sua ambizione è come una fiamma che brucia, brucia e ha bisogno sempre di nutrimento nuovo. Peccato, che non potrò più seguire la sua ascesa trionfale.» «Già» concordò Gina. «Oppure, vedrò in televisione il suo giuramento davanti al Campidoglio e penserò: Eccolo il nuovo presidente che vi siete scelti; è lì solo perché il buon vecchio Gipsy ha tenuto la bocca chiusa.» «La faccia finita, Gipsy. Non può dire che alla fine non le sia stato conveniente.» La guardò brevemente con occhi furbi. «Lo so. Ha sacrificato un milione per la sua carriera. Ma sacrificherebbe tutto, tutto! Persino lei, Gina. Sarebbe un errore madornale per lui, ma lo farebbe lo stesso.» «Lei non sa di cosa parla.» «Lo so eccome. E tutti e due sappiamo che ho ragione. Lei è una donna troppo intelligente per inseguire chimere o cedere alle illusioni. Lei ha una bella testa.» «Questo non la riguarda, Gipsy.» «Già» rispose in tono pacifico. Poi si alzò e si diresse verso il recinto, dietro il quale erano accalcati i cavalli. Lei lo seguì con lo sguardo, ma era totalmente immersa nei suoi pensieri.


Gipsy aveva ragione. Quello sporco, pazzo ricattatore con un piede nella fossa aveva ragione. Maledizione, pensò lei, e d’un tratto si sentì stremata. Sussultò quando John tornò in veranda, la valigetta con i soldi in mano. «Il tassista sarà qui tra venti minuti» disse. Si guardò intorno. «Dov’è Gipsy?» «È andato...» Gina si alzò di scatto. «È dai cavalli! John, è entrato nel recinto! Max ha detto che è pericoloso. Dobbiamo...» John la trattenne con una mano. «Lascia. Ci sa fare con i cavalli.» Lei lo guardò esterrefatta. «Ma lui non sa che è pericoloso, John!» Scese i gradini e si precipitò verso il recinto. Non voleva urlare per paura di spaventare i cavalli già nervosi. A metà strada udì uno sparo. Istintivamente pensò, non può essere, mi sono sbagliata. Ma poi vide i cavalli. Il grande purosangue nero si impennò e nitrì istericamente. Gli altri fecero lo stesso. In un baleno nel recinto si scatenò il panico. Un uomo in mezzo a un branco di cavalli imbizzarriti. «Gipsy!» urlò con quanto fiato aveva in gola. «Gipsy!» Anche Gipsy aveva sentito lo sparo, e aveva subito pensato che fosse stato colpito. Ma non sentiva altro che i suoi soliti dolori, quindi realizzò che si era sbagliato. Contemporaneamente i cavalli cominciarono ad avvicinarglisi e lui capì il perché dello sparo. Se non fosse riuscito a raggiungere il cancello, sarebbe morto schiacciato da quei dannati animali. Cercò di farli calmare. «Pss! Calma! È tutto a posto! Calma!» Ma i cavalli erano fuori controllo. Quello nero non aspettava altro. Imbizzarrito com’era, e annoiato a morte dalla tranquillità della fattoria, sarebbe potuto esplodere al minimo fruscio. Continuava a impennarsi e a scalpitare. Indietreggiando per schivare gli zoccoli della bestia che fendevano l’aria, Gipsy finì addosso a un altro cavallo. Si portò le mani davanti al viso per proteggersi, e uno zoccolo gli colpì una mano. Urlò di dolore. L’altro gli diede una zampata sulla schiena e gli ridusse la camicia in brandelli. Cercò di montare sul cavallo che gli stava alle spalle, ma anche quello si impennò e lui era troppo lento con l’unica mano ancora sana. Scivolò giù, allo stremo delle forze. Il purosangue nero si era voltato e aveva preso a scalciare. Sfracellò il ginocchio sinistro di Gipsy e poi gli diede una zampata nel bassoventre che lo fece cadere a terra in avanti semicosciente. Mentre cadeva, fu assalito da una terribile paura di morire. Se ne meravigliò, perché il suo destino era segnato ormai da tempo, e non capiva perché fosse ancora aggrappato a una vita piena di dolore, finita e consumata dal cancro. Perché non riusciva a staccarsi? Tra i singhiozzi rivide nella sua mente tutta la follia degli ultimi anni, e soprattutto avvertì il rimpianto di averli buttati via, di averli lasciati passare tra alcol e odio. Un rivolo di sangue caldo gli uscì dal naso, e contemporaneamente lo sentì salirgli in gola, riempirgli la bocca e alla fine zampillò fuori dalle labbra.


In lontananza sentiva chiamare il suo nome; sapeva che era la voce della donna dai capelli scuri. Quella meravigliosa giovane donna, e John l’avrebbe mandata al diavolo. Così come aveva fatto con lui. Uno zoccolo lo colpì in testa. E venne inghiottito dal buio eterno. «Avena!» urlò John. «Mettiamo dell’avena nel trogolo, presto! Li distrarrà!» «Dov’è l’avena?» «Oddio, non lo so. Forse nella stalla. Vai a vedere!» Lei corse nella stalla, imprecando cercò l’interruttore, e quando lo trovò accese la debole luce. Freneticamente si guardò intorno e alla fine scorse un grande sacco che recava la scritta AVENA. Acchiappò un secchio, lo riempì con l’avena fino a metà e ritornò di corsa nel cortile. Il secchio era pesante. Strinse i denti. O Signore, lascia che Gipsy viva! I cavalli erano ancora imbizzarriti e recalcitranti. Gipsy non si vedeva più, doveva essere riverso a terra da qualche parte lì in mezzo. John strappò il secchio dalle mani di Gina e si precipitò verso il recinto nel punto in cui si trovava il canaletto per il mangime. «Ehi!» urlò a squarciagola. «Ehi, dannate bestiacce, eccovi qualcosa da mangiare!» I cavalli capirono subito e gli si avvicinarono velocemente. In un baleno tornò a regnare la calma, e loro cominciarono a mangiare l’uno accanto all’altro. Gina corse dentro il recinto. Gipsy giaceva a terra dilaniato e insanguinato. Con le lacrime agli occhi, si chinò sull’uomo e cercò di sciogliere l’intrico di braccia e gambe. «Gipsy! Gipsy, mi senti?» Nonostante fosse malato e privo di forze, il suo corpo era ancora piuttosto pesante. Gina riuscì a fatica a spostarlo da lì. John comparve al suo fianco. Insieme lo trascinarono, prendendolo per le braccia, fuori dal recinto fin dentro il cortile, lasciandosi dietro una sottile traccia di sangue. Poi lo adagiarono al suolo. «È morto» dichiarò John, dopo aver provato a sentire se respirava ancora. Gina lo fissò esterrefatta. «Ne sei sicuro?» «Sì, a meno che tu non conosca altri esseri viventi che continuano a vivere nonostante gli si sia fermato il cuore» sibilò a denti stretti. Osservò la traccia di sangue a terra e disse: «Speriamo di trovare da qualche parte una pompa per spruzzarci un po’ d’acqua sopra!» «Dobbiamo chiamare un medico» lo incalzò Gina, «deve...» «Ma sei impazzita? Così poi avverte anche la polizia?» «Sì, cos’altro vuoi fare? Gipsy è morto, non vorrai mica nascondere la sua morte?» «Dovrei comunicarlo ai giornali?» «Non crederai di poterlo semplicemente nascondere da qualche parte nel bosco?» urlò Gina fuori di sé. Tacquero entrambi. La fattoria era di nuovo piombata nella calda


calma di un mezzogiorno qualsiasi. Ronzio di moscerini nell’aria, in sottofondo soltanto il ruminare dei cavalli e in lontananza lo sciabordio della sorgente, ma l’incanto era stato spezzato da uno sparo, lo sapevano bene tutti e due. Lord correva loro intorno senza osare avvicinarsi al puzzolente Gipsy. «Il tassista potrebbe arrivare da un momento all’altro» disse John nervoso. «Allora gli chiediamo di andare a chiamare un medico» disse Gina con un tono di voce che suonò stranamente calmo e determinato persino alle sue stesse orecchie. «John quello che è successo è stato un incidente. Gipsy è andato nel recinto di sua spontanea volontà. Max può confermare a tutti quanto fosse pericoloso.» «Se l’allarme non fosse stato staccato...» «Siamo in vacanza qui. È più che normale che l’allarme sia staccato di giorno. Siamo in una fattoria, non a Fort Knox.» «Oddio!» come sempre, quando John si agitava, cominciava a passarsi entrambe le mani tra i capelli. «Cosa dico, se vogliono sapere perché Gipsy si trovava qui?» «È un tuo vecchio amico di guerra. Hai saputo che era malato e lo hai invitato a passare un paio di giorni qui con noi.» Gli prese le mani, e si rese dolorosamente conto di quanto fosse grottesca la situazione. Si inginocchiarono per terra sotto il sole cocente continuando a tenersi le mani come in una sorta di ponte sopra l’uomo morto. «John, nessuno lo troverà strano. Credimi. Nessuno sa che in veranda c’è una valigetta con dentro un milione di dollari, e nessuno lo scoprirà. Mai!» Lui sollevò lo sguardo da Gipsy senza vita; dai suoi occhi traspariva la sorpresa per il comportamento di Gina. Sembrava già piuttosto calma, lo aveva aiutato senza esitare e aveva anche avuto la delicatezza di non fare parola dello sparo. «Se lo fai semplicemente... sparire» aggiunse lei, «ti esponi a un pericolo anche più grande. Non dimenticare che c’è almeno una persona, il tassista, che sa della sua presenza qui.» «Non si ricorderà nemmeno di quel passeggero.» «Non ne sarei così sicura. Magari nessuno reclamerà la scomparsa di Gipsy, va bene, ma ne sai davvero abbastanza della sua vita da poterlo escludere? Non puoi correre rischi.» Era d’accordo con lei. «Sì» disse, «hai ragione. Dobbiamo...» L’allegro suono di un clacson giunse dal vialetto del cortile. Il taxi spuntò dall’angolo. John era bianco come un lenzuolo. «Gina...» Se va tutto liscio, sarai contento della sua morte, pensò lei amaramente, e poi disse ad alta voce: «Allora, tutto come abbiamo stabilito. Va bene?» Lo disse con un tono di voce così stridulo che lui sussultò. Nel frattempo lei si era già rialzata e stava andando incontro al tassista. Quello osservò il cadavere con un misto di curiosità e orrore, e non si preoccupò di celare il fatto di essere stato contento che quell’uomo fosse salito proprio sulla sua macchina in aeroporto. Inizialmente era quasi svenuto per la sua puzza nauseabonda che non era svanita neanche


abbassando tutti i finestrini e aprendo il tettuccio. Ma poi, era stata una lunga corsa fin sulle colline, e significava tanti soldi. E riportarlo indietro significava ancora altri soldi. Per di più tra una corsa e l’altra gli era stato offerto un pranzo decente – e ora l’uomo era anche morto! La bella giovane donna lo pregò, tutta agitata, di andare a chiamare un dottore, e lui guardandola negli occhi trepidi color ambra si chiese perché lui non avesse mai incontrato una donna come quella. «Certo» rispose lui. «Vado a cercare un dottore e avverto la polizia. Poveretto! Da non credere! Essere calpestato a morte da un branco di cavalli imbizzarriti!» Rabbrividì. Gina fece finta di essere sconvolta, e recitò la parte in modo così convincente che John la fissò meravigliato. Quando fosse arrivata la polizia, avrebbe calcato ancora un po’ la mano al punto che gli agenti alla fine si sarebbero dispiaciuti più per lei che per il morto. Pensò al panico che lo aveva colto e si rese conto che sarebbe stato solo merito di Gina se tutto si fosse risolto senza intoppi. Ho bisogno di lei, continuava a ripetersi, ho bisogno di lei per tutta la vita. «Vado a chiamare Max» disse lei. Attraverso la finestra aperta, giunse la sua voce agitata. «Max, sono Gina Loret. È successa una cosa terribile. Dovete venire subito qui...» Nel turbinio degli eventi, la giornata passò, e a sera, quando sembrò regnare nuovamente la calma, Gina pensò che le sarebbe scoppiata la testa da un momento all’altro. Immagini confuse mulinavano nella sua mente insieme a suoni concitati: Clarissa che, sconcertata, se ne stava prima impalata in lacrime in mezzo al cortile, e un attimo dopo mandava giù un paio di bicchierini di grappa per non svenire. Max, che continuava a ripetere: «Io vi avevo avvisati di fare attenzione al purosangue!» Finché John ne aveva avuto abbastanza di sentirlo e aveva tuonato: «Sì, maledizione, lo aveva detto, ma è successo lo stesso, quindi la faccia finita!» I due agenti, di cui uno impassibile si atteneva al protocollo, chiedeva come erano andate le cose e sembrava non meravigliarsi di nulla. E l’altro si era messo in testa che doveva consolare Gina. Le stava sempre accanto, tenendole la mano con un po’ troppa insistenza e le diceva: «Andrà tutto bene, signorina, andrà tutto bene!» E poi c’era anche il tassista, che John aveva pagato molto prima e che aveva detto: «Arrivederci» almeno tre volte ma sembrava non volersene più andare. Un medico che con sguardo disgustato aveva accertato la morte del defunto. Aveva poi accettato volentieri un bicchierino di grappa, che Gina gli aveva offerto, svuotando poi mezza bottiglia e quindi se ne era andato via barcollando. Un reporter che era giunto subito sul posto; un uomo basso, mingherlino, che parlava con foga a causa di un difetto di pronuncia e


aveva lunghi capelli biondi. Gina aveva pensato che lo avesse chiamato il tassista. Aveva un piccolo registratore, il cui meccanismo di riavvolgimento non funzionava, così aveva armeggiato a quell’aggeggio per tutto il tempo, cercando di riavvolgere la cassetta egli stesso con le dita. Stava sui nervi a tutti che lo riempivano di rimbrotti per levarselo di torno, e aveva trovato nella povera Clarissa l’unica vittima; peccato però che non fosse proprio la persona più giusta da intervistare: non era riuscita a pronunciare neanche una parola, scossa com’era dai tremiti e dai singhiozzi. E infine John. Era pallidissimo. Il pensiero fisso di Gina era stato che ce la facesse. A un certo punto era stato persino sul punto di cacciare via in malo modo quel giornalista ficcanaso, ma per fortuna riuscì a controllarsi. Dovevano sforzarsi di comportarsi in modo disinvolto dando comunque l’impressione di essere stravolti per aver perso un buon amico così tragicamente, e nessuno doveva sospettare che loro temessero la polizia o la stampa. L’ultima cosa che serviva a John era screditare la sua reputazione per essere venuto alle mani con un giornalista. Ma dov’era finito John? Gina si era buttata, sfinita, su una sedia in vimini in veranda, facendo attenzione a non sedersi sulla stessa sedia che aveva occupato Gipsy. Si alzò ed entrò in casa con le orecchie tese. Se l’era immaginato? Sentì il tintinnio familiare di cubetti di ghiaccio che cadono in un bicchiere. Dunque, John si stava preparando l’ennesimo drink? Andò in soggiorno. John era vicino al bar e stava posando la bottiglia di vodka sul ripiano. Il posacenere sul tavolo era stracolmo. Il suo viso era grigio come quello di un fantasma. «Avrai fame» gli disse Gina con dolcezza. «Preparo qualcosa?» John trasalì, non l’aveva sentita arrivare. «No» rispose, «non riesco a mandare giù niente.» «Però quella robaccia riesci a mandarla giù eccome!» Si pentì subito di aver pronunciato quelle parole. Non voleva essere cinica. «Scusami, hai avuto una giornataccia. Perché non vieni un po’ in veranda con me? Potremmo... parlarne un po’!» Bevve un paio di sorsi. «Non serve a niente.» «E non serve neanche bere.» «Al contrario, mi aiuta a non pensare a quello che è successo.» A non pensare che hai ucciso un uomo! Seguì una pausa. Il silenzio fu rotto dallo squillo del telefono. Voleva rispondere Gina, ma John fu più veloce. Notò che aveva assunto una espressione molto tirata in viso. «Come ha fatto a saperlo?» chiese lui. Poi, dopo una breve pausa, disse bruscamente: «Sì, giusto. E adesso mi lasci in pace. Non si vergogna a telefonare a quest’ora?» e riagganciò sbattendo la cornetta sull’apparecchio. «Quello scribacchino di oggi pomeriggio. Voleva sapere se io sono lo stesso Eastley che i repubblicani probabilmente indicheranno come loro primo candidato a governatore della California alle prossime elezioni. Non potevo evitare di dirgli di sì. Maledizione!»


Si passò di nuovo le mani nei capelli, già piuttosto spettinati, che gli davano un’aria da bambino triste. «Adesso tutta la storia finirà in pasto alla stampa!» Si scolò il bicchiere, e si andò a sedere su una poltrona; sembrava che anche le ultime forze lo avessero abbandonato. Gina gli si avvicinò e gli accarezzò i capelli con dolcezza. «Ne uscirai, John. È una brutta faccenda, certo, ma nessuno può incolparti di nulla. Hai avvertito subito la polizia. E Max ha raccontato a tutti quanto è pericoloso quel cavallo. E nessuno sa che...» si interruppe. John la guardò. «Dillo pure, Gina. Nessuno sa che sono stato io, sparando quel colpo di pistola, a far imbizzarrire i cavalli; era questo che stavi per dire, giusto?» Lei annuì. Dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non gridargli dietro: «Sì, proprio quello, John; e vuoi dirmi, maledizione, perché lo hai fatto? Perché, perché?» Ma tacque e sentì John che mormorava: «Non so cosa mi abbia preso. Non lo so...» Lo sai eccome, pensò lei duramente, sei stato assalito dalla tua eterna paura di rovinarti la carriera, per la quale saresti disposto ad ammazzare... «Nessuno» affermò lei, «scoprirà mai quello che è successo davvero qui. Mai.» «Gina, io...» La cinse intorno alla vita e schiacciò il viso contro il suo petto, e lei si rese sempre più conto di quanto lo amasse, nonostante tutto. «Vado a preparare qualcosa da mangiare» gli disse, ma John si alzò e le prese le mani. «No, andiamo a letto.» Ah, eccolo, il rimedio universale di tutti gli uomini nelle situazioni difficili! Salirono in camera da letto, e si spogliarono ciascuno per conto proprio, l’una alle spalle dell’altro, concentrati solo su se stessi. Gina andò in bagno a lavarsi i denti. Osservò il suo riflesso allo specchio. Sul naso erano comparse un paio di lentiggini molto chiare. John aveva ucciso un uomo oggi, lei glielo aveva lasciato fare e lo aveva aiutato a nascondere la verità. Come appare una donna che fa una cosa del genere? Proprio come prima, constatò. Si spruzzò qualche goccia di profumo sul collo e i polsi, si spazzolò i capelli e tornò in camera. John era già steso sul letto, vulnerabile e indifeso. Lei gli scivolò accanto sotto la coperta come se fosse una sorta di loro rifugio; dopo tutto toccava a lei adesso farlo sentire al sicuro e protetto. Lo abbracciò. «Ti amo con tutta me stessa, John» gli disse in un soffio, «e ti amerò per sempre.» Non si erano mai amati così a lungo, così dolcemente, così profondamente. Giacquero lì nel letto abbracciati stretti, accarezzandosi l’un l’altra, e sussurrandosi paroline dolci. Si baciarono, si strusciarono come gattini, rotolarono l’uno sull’altra come bambini, risero e


ritornarono seri. Stavano conoscendo l’estasi, un piacere mai provato prima. Si studiarono l’un l’altro, la voglia aumentò e fu di nuovo placata con le mani, le labbra. E poi, d’un tratto quella voglia si trasformò in una passione irresistibile. Sdraiati l’uno abbracciato all’altra, dormirono, come dei cuccioli che si addormentano nel bel mezzo di un gioco. Si svegliarono e ripresero a stringersi l’una nell’altro. Era come se il loro battito andasse all’unisono. Il loro fosse un unico respiro. Si assopirono, sognarono... John pensò: Mi ama come prima, sono al sicuro. Gina pensò: Che strano, non è cambiato nulla, e in più adesso non siamo solo amanti, siamo anche complici. Alla fine, si addormentarono cullati da quei pensieri.


Aprile 1983

Era una sera d’aprile fredda e piovosa. Tra le strade di Londra soffiava un vento fastidioso. Altro che primavera, pensò Steve, avvolto nel cappotto con il bavero alzato e le mani affondate nelle tasche, mentre si affrettava lungo Regent Street, è giunto il momento di andare in un paese più caldo. Aveva già comprato il biglietto aereo! Londra-Sydney. Venerdì 15 aprile. Il giorno dopo. Ah, se quella vecchia strega della Hunter avesse saputo che oggi era stato il suo ultimo giorno di lavoro in quello schifoso ufficio! Mai più frasi tipo: «Sì, signorina Hunter»; «No, signorina Hunter». Le aveva sorriso in modo molto amichevole mentre se ne andava. «Arrivederci, signorina Hunter. A domani!» Se l’era solo immaginato o lei lo aveva davvero guardato in modo circospetto? Sin dall’inizio aveva avuto l’impressione che lei gli desse sempre la caccia, come fa un gatto col topo. Forse quello era il suo modo di fare. Per un attimo, gli dispiacque per il poveretto che avrebbe preso il suo posto. Mentre percorreva Regent Street, si immaginò la mattina seguente in ufficio. Negli ultimi tempi arrivava sempre più in ritardo, quindi non sarebbe stata una grossa sorpresa per la signorina Hunter non trovarlo seduto alla sua scrivania alle otto in punto. Lo avrebbe rimproverato e probabilmente avrebbe deciso di andare dalla signora Gray per convincerla a licenziare quel tipo inaffidabile. Ma non sarebbe potuta andare a spifferare tutto alla polizia! Per qualche ragione, aveva sempre una vaga paura che quella donna potesse tendergli una trappola. Poteva sentirsi al sicuro solo una volta decollato, o meglio quando avesse superato senza difficoltà il controllo documenti una volta atterrato a Sydney. Il volo era alle otto. La Hunter avrebbe cominciato a sospettare che qualcosa non quadrava solo dopo un bel po’, quando lui sarebbe stato già abbastanza lontano. Per prima cosa avrebbe chiamato a casa, dove probabilmente avrebbe risposto la sua padrona di casa. «No, signorina Hunter, il signor Marlowe non è qui. Non è venuto al lavoro?» Naturalmente, avrebbe dovuto fare in modo che la padrona di casa non si accorgesse che lui aveva lasciato la casa molto presto, e soprattutto che portava con sé una valigia. Ma era un dettaglio trascurabile: la padrona di casa dormiva beata fino a tardi la mattina. Aveva racimolato circa cinquemila sterline. Certo non un gran patrimonio, ma sufficiente a cavarsela per un po’. Se lo avesse assunto


una banca! Naturalmente, anche in Australia avrebbero notato l’appunto sui suoi documenti relativo al periodo in carcere, ma era convinto che lì non sarebbero stati così rigidi. Pensò al modo in cui le prime popolazioni bianche nel Continente Nuovo avevano reclutato gente nel Pacifico meridionale: galeotti britannici che nel diciannovesimo secolo erano sbarcati su quelle terre lontane, e vi si erano stabiliti a lavorare. Molti di quelli, che oggi vivevano lì, erano discendenti di ladri, ricettatori, assassini. Era buffo che adesso lui pensasse di fare parte di quelle schiere. Ma il ruolo gli calzava a pennello. Se solo fosse stato già là! L’istinto gli aveva suggerito che quello era il momento giusto per andarsene. Non doveva rimanere una settimana di più. La fortuna gli arrideva già da tempo con ogni centesimo su cui riusciva a mettere le mani. Ogni settimana la somma cresceva, ma insieme a quella cresceva anche il pericolo. Non doveva fare passi falsi, non poteva rischiare. Cinquemila sterline sarebbero bastate per cominciare una vita dignitosa. Non vedeva l’ora. Una vita civile in una società civile, rispettato e stimato al pari di chiunque altro. Era quello che aveva sempre desiderato, nient’altro. In un negozio di abiti da uomo comprò un soprabito bianco leggero. Era importante fare una bella impressione. Indugiò davanti agli orologi esposti nella vetrina di un gioielliere. Almeno uno nuovo con il cinturino in pelle... Scosse il capo. Era tutto troppo costoso. Doveva farne a meno. Più si avvicinava a casa sua, più diventava nervoso; non sapeva dire il motivo di quella strana irrequietezza. Aveva pianificato tutto nei minimi dettagli, ora era giunto il momento dell’azione. Poco prima di Trafalgar Square tornò indietro e decise di andare a mangiare qualcosa. In una piccola pizzeria, di cui ormai conosceva il proprietario poiché era un cliente assiduo, mangiò una pizza con tonno, carciofi, cipolla e olive, inaffiata da un quartino di vino rosso. Fumò con calma un paio di sigarette con in sottofondo una canzone d’amore del jukebox. Il vino lo fece sentire meglio. Erano passate da poco le dieci. L’oste si avvicinò al suo tavolo. «Le porto un caffè?» «Sì, volentieri.» Di solito non prendeva il caffè di sera perché lo faceva stare sveglio tutto la notte. Ma quella sera – non sapeva davvero il perché – era uno strappo alla regola dopo l’altro. Alla fine se ne andò via dal locale poco prima delle undici. La casa era silenziosa e tranquilla; le luci erano tutte spente. Bene, la padrona di casa dormiva. Non lo avrebbe più rivisto, perché l’indomani avrebbe lasciato la casa alle sei. Prese la chiave e la stava infilando nella serratura quando dalla Forsythia sbucarono due ombre che si fermarono a destra e sinistra della porta. «Steve Marlowe?» Erano due uomini in impermeabile chiaro, l’uno indossava anche un cappello e l’altro portava un ombrello appeso al braccio. «È lei Steve Marlowe?» Istintivamente avrebbe risposto: «No», ma gli fu subito chiaro quanto sarebbe stato assurdo, e disse: «Sì». Mentre pronunciava quel sì ebbe la


sensazione di avere ricevuto un pugno nello stomaco. «Polizia» disse quello col cappello mostrando il distintivo. «Signor Marlowe, lei è stato denunciato per appropriazione indebita. Purtroppo dobbiamo chiederle di venire con noi.» «Non può essere» dichiarò Steve meccanicamente come se non fosse lui stesso a parlare ma un robot. Aveva i palmi delle mani sudati. «Una certa signorina Lydia Hunter afferma che lei avrebbe sottratto circa quindicimila sterline.» «Come fa a dirlo?» Oddio, la Hunter! Quella falsa, vecchia megera! Lui si era sentito spiato, aveva notato che gli stava sempre intorno e lo guardava come se sapesse tutto di lui. Perché non aveva dato ascolto al suo istinto? «La signorina Hunter ha le prove. Ma di questo parleremo in una sede più opportuna. Adesso se non le dispiace, l’accompagniamo nel suo appartamento in modo che possa prendere le sue cose.» Questo no, pensò nel panico, troveranno il biglietto aereo. E anche la valigia pronta in camera! «Non ho bisogno di portare niente con me» disse, «anche perché sono convinto che tornerò presto a casa. Sarà sicuramente un errore.» «Come vuole. Andiamo.» Mentre seguiva i due agenti lungo la strada, cominciò a piovere. Il chiarore dei lampioni si rifletteva sull’asfalto. Qua e là le finestre delle case erano illuminate da una luce calda e rassicurante. Le gocce di pioggia bagnavano il viso di Steve. Perché, pensò disperato, non sono partito stamattina presto? Pensò agli avvertimenti del suo subconscio, a come aveva posticipato il ritorno a casa per tutta la sera. Stupido! Dannatissimo stupido! Raggiunsero l’auto parcheggiata in una strada laterale. Ovvio, quelli non erano certo dei principianti, un’auto davanti alla casa avrebbe destato i suoi sospetti. Lo fecero sedere sul sedile posteriore, uno dei due agenti prese posto accanto a lui, e l’altro si mise alla guida. I tergicristalli oscillavano sul parabrezza. Incontrarono solo poche macchine. Londra era quasi deserta in quella notte di pioggia. Steve fissò le sue mani serrate, strette l’una dentro l’altra in grembo. Se finisco di nuovo in carcere, mi uccido! Non si accorse che le lacrime gli rigavano il viso.


Agosto 1983

1 Natalie pensò a come avrebbe reagito il pubblico americano se lei avesse sfruttato l’occasione per raccontare tutta la verità. «Riesco ad arrivare a sera solo se prendo trenta milligrammi di valium. Sto bene solo se sono strafatta di quella robaccia. Volete sapere cosa succederebbe se la smettessi? Temo che non mi riconoscereste...» Che strano, pensò, essere io stessa l’ospite di un talk show. Era quasi un anno che intervistava personalità famose alla televisione americana, e così anche lei ormai poteva definirsi tale. Faceva il trenta per cento di ascolti. «Neanche Ronald Reagan fa di più» le aveva detto una volta il suo produttore. Natalie considerava un onore essere invitata da importanti conduttori televisivi, ma ovviamente doveva prima vincere l’insita paura angosciante. «Conosce già molto bene uno studio televisivo» le aveva detto Carson, quando si erano sentiti al telefono prima della trasmissione. «Non serve che le spieghi molto, sono sicuro che si sentirà a suo agio!» «Ma certo!» disse e si sforzò di ridere. «Non è mica un interrogatorio!» In realtà si sentiva peggio di quanto volesse ammettere. Nelle sue trasmissioni, era sempre contornata dagli stessi collaboratori, che conoscevano le sue debolezze e avevano imparato come prenderle. Non appena iniziava lo stacchetto musicale, la truccatrice saltava subito in piedi con il piumino per la cipria sempre pronto in mano, qualcuno le portava un bicchiere d’acqua, il produttore – un bel ragazzo gay di trentacinque anni – le metteva un braccio sulle spalle e diceva: «Calma, Nat. Un bel respiro profondo. Sta andando tutto alla grande!» Non aveva raccontato a nessuno che prendeva le pillole, ma immaginava che qualcuno nel suo più stretto entourage lo avesse capito. Una volta, per caso, aveva sentito un paio di persone alla consolle. «È bravissima l’inglesina qui. Peccato che...» Il resto si era perso in un sussurro. Natalie si era convinta che stessero parlando di droghe. Lì da Johnny Carson si muoveva su un terreno sconosciuto. Lì non avrebbe ricevuto alcun aiuto. Indossava un abito aderente di Valentino in seta verde, completato da un’alta cintura colorata stretta intorno alla vita. I capelli le erano cresciuti, e le ricadevano lisci e lucenti sulle spalle. La consapevolezza di stare bene la fece sentire un po’ più sicura.


Ascoltò con attenzione la domanda seguente di Johnny Carson. «Finora c’è mai stato un momento che potrebbe definire come quello che ha dato una svolta alla sua vita?» «No. No, per quello che riguarda il mio lavoro, la mia professione ho sempre saputo molto bene quello che volevo e dove volevo arrivare. Credo di essere andata dritta per la mia strada.» «E cosa mi dice della sua vita privata?» Lei lo fissò. «Anche rispetto a quella posso dire che nulla abbia mai rappresentato una svolta per me.» «Natalie» disse Johnny. «Quando ha lasciato l’Inghilterra, lei è finita su tutti i giornali perché non partì da sola ma in compagnia di una giovane attrice, che per lei aveva rinunciato a una brillante carriera a Londra. Claudine Combe. Si dice che quello che ha con la signorina Combe sia un rapporto molto intimo.» La guardò in attesa, e lei ricambiò lo sguardo senza dire una parola. Non era stata una vera e propria domanda, così lei non rispose. «Non le è pesato» aggiunse Johnny Carson, «essere definita lesbica da tutta la stampa?» Doveva negare? Eludere la domanda? Aggirare l’ostacolo? Le tornò in mente la sera prima: per non lasciare da sola Natalie, nervosa e agitata, Claudine era tornata a New York da Philadelphia, dove stava girando un film. «Usciamo a mangiare qualcosa. Non ti fa bene stare sempre chiusa qui dentro. Hai bisogno di distrarti un po’!» «Non posso. Non stasera. Mi sento male e...» «Forse ti senti male proprio perché non mangi da ore. Su, andiamo!» Alla fine Natalie si era lasciata convincere. Vivevano insieme in un piccolo appartamento sulla Settantaduesima Strada Est. Ma negli ultimi tempi, Claudine era spesso via per lavoro. Nel loro rapporto era cambiato qualcosa. All’inizio, a Londra, era stata lei quella che esprimeva di più il suo amore e che aveva un continuo bisogno di ricevere conferme e coccole dall’altra. Era lei quella che aveva nostalgia della famiglia e di Parigi, mentre Natalie era quella pratica, con i piedi per terra. In America, le cose erano cambiate. Claudine si era abituata a vivere lontano dai suoi genitori, e all’improvviso aveva capito che la sua nuova vita indipendente le piaceva. Natalie, dal canto suo, si imbottiva sempre più di valium, non andava d’accordo con il suo terapeuta e vedeva Manhattan come una babele opprimente. Il tutto condito da accese discussioni tra lei e Claudine ogni volta che quella faceva le valigie per raggiungere il set di un nuovo film. «Mi lasci sempre sola! Inizio a chiedermi perché mai tu sia venuta in America con me!» Erano finite in un ristorante cinese molto rinomato fin nel Big Apple Corner per la sua squisita anatra alla pechinese. Avevano bevuto sakè caldo e Claudine era riuscita a farla rilassare un po’ durante tutta la serata raccontandole del suo nuovo film. Sottobraccio erano poi tornate a casa a piedi gustandosi la calda serata


di agosto. Central Park era tutto illuminato, e nelle strade c’era un viavai di gente. Claudine si era guardata intorno per tutto il tempo come se si aspettasse che succedesse qualcosa a ogni angolo e Natalie aveva notato che aveva i nervi a fior di pelle. Per la prima volta aveva dovuto ammettere a se stessa che l’America non faceva per lei. Troppo chiassosa, troppo grande, troppo frenetica. Se fosse stata bene, avrebbe accettato e vinto la sfida con coraggio, ma nelle sue condizioni quel paese l’avrebbe messa sempre al tappeto. Forse solo in Europa avrebbe potuto trovare un po’ di pace. Seguendo con lo sguardo la movimentata Fifth Avenue, il vecchio panico l’aveva di nuovo assalita. Via, veloce, via! Quella notte si era stretta forte a Claudine, come se volesse aggrapparsi a lei. L’infinita tenerezza dei primi tempi era riaffiorata ed era rimasta lì tra di loro per ore. Alla fine si erano addormentate, l’una nelle braccia dell’altra, la pelle madida di sudore; col calare del buio l’aria non si era rinfrescata e il caldo della giornata indugiava ancora nella stanza. Johnny Carson la guardava ancora in attesa. «Non le è pesato essere definita lesbica da tutta la stampa?» La sua voce suonò stranamente chiara e forte, quando, rivolta verso la telecamera accesa, rispose: «Non mi è pesato, no. Perché vede, è la verità!» Quando tornò a casa, Claudine le corse incontro eccitata. «Sei stata grande» urlò mentre abbracciava la compagna. «Ma... non pensi che...» «Lo so» la interruppe Natalie, «sono stata troppo schietta.» «Ci sono ancora troppi pregiudizi in giro» disse Claudine cauta. «E se uno vuole costruirsi una carriera...» Il telefono squillò. Natalie andò a rispondere. Era il produttore della sua trasmissione. «Nat, sei uscita fuori di senno?» urlò. «Perché non hai tenuto la bocca chiusa?» «È mezzanotte» replicò lei, «possiamo parlarne domani?» «I telefoni scottano qui! Tutte le tue fan – le tue ex fan – tutte quelle che consideravano Natalie Quint una donna riservata, elegante...» «Sì una creatura senza sesso, lo so.» «Mio Dio, Nat, qui è in gioco la tua immagine. Hai sempre avuto il fascino della donna distaccata, quella che tutti credono incapace di sentimenti dalla vita in giù. So che sono solo sciocchezze, ma è così che ti vede il pubblico e non ti perdonerà se gli porti via le sue illusioni. Scusa la brutalità, ma stasera l’hai combinata davvero grossa.» «Ho detto solo la verità.» «La verità! Ma a chi importa della verità? Ascoltami, Nat, a me non interessa se ti porti a letto uomini o donne, anch’io vado con chi capita, ma non devi sbatterlo in faccia a tutti. E soprattutto non in America! Non puoi nemmeno immaginare quanto siano tutti retrivi e puritani qui, persino più conservatori degli inglesi! Accidenti!»


Il produttore era suo amico, Natalie ne era consapevole, forse era per quello che se la prendeva tanto a cuore. «Faresti meglio ad abituartici, Nat, davvero!» «Non c’è problema» rispose Natalie con calma. «Me ne torno in Europa.» «Cosa?» dissero increduli, il produttore al telefono e contemporaneamente Claudine nella stanza. «Inghilterra o Francia, ancora non ho deciso.» Ora avrebbe dovuto fare la stessa opera di persuasione su due fronti diversi, ma Natalie riuscì a dire solo: «Sono stanca. Vado a dormire». Si congedò dal produttore con un semplice «Buonanotte» e riagganciò. «Non parlavi sul serio, vero?» le chiese Claudine scioccata. «Certo che sì.» Natalie diede una rapida occhiata alla busta che Claudine aveva lasciato sul tavolo in soggiorno. «Oh, è una lettera di Mary!» «Nat, ci stai pensando davvero?» Natalie non le rispose, ma aprì la lettera e cominciò a leggerla. Emise un gemito. «Oh, no! Steve è di nuovo in carcere! Un anno e mezzo senza condizionale. Per appropriazione indebita!» «Il fratello dell’attentatore, giusto?» «Sì... mio Dio! Ha rubato diverse migliaia di sterline da una fondazione caritatevole, dove a quanto pare un superiore lo teneva sotto controllo. Lo hanno arrestato proprio la sera prima che scappasse in Australia. Povero Steve!» Alzò gli occhi, e fissò il buio fuori dalla finestra. «Che ne è stato di tutti noi? Avevamo tanti sogni, volevamo fare tante cose, ed eravamo certi che niente e nessuno potesse intralciare i nostri progetti. Ma ora...» «Sei ancora giovane» le rammentò Claudine con dolcezza. Natalie si voltò e perdendo l’autocontrollo per un attimo urlò: «Non sono più giovane! Guardami! Ho assistito all’omicidio di una donna. Sono stata violentata, non una, ma quattro volte! Da anni vado dallo strizzacervelli e non posso neanche uscire di casa se prima non mi imbottisco di valium. Inseguo una carriera che non potrò mai realizzare pienamente perché i miei nervi me lo impediscono. Non sono più giovane, Claudine, sono diventata una vecchia pazza!»

2 Un anno prima, subito dopo la sua morte, nessuno si era interessato a Gipsy più di tanto, e nessuno aveva mai dubitato della versione che John e Gina avevano dato dei fatti: quello che era accaduto lì tra le colline californiane era stato solo un tragico incidente. Nessun amico o parente aveva avanzato richieste per eventuali indagini. Il nome di John era finito ovviamente sui giornali, ma la sua buona reputazione non ne era


stata compromessa. Al contrario, erano stati tutti concordi nel definire encomiabile il suo comportamento. Il suo passato in Vietnam era stato tirato in ballo ancora una volta conferendogli il ruolo dell’eroe della patria che, nei bui anni sessanta insieme a tanti altri giovani coraggiosi, aveva rischiato la pelle per l’America; e il fatto che fosse amico del vecchio e malato Gipsy lo aveva reso ancora più simpatico. Insomma, per lui la faccenda aveva avuto solo risvolti positivi. Superato lo shock iniziale, con un certo sangue freddo John era passato a sfruttare la situazione. Organizzò un funerale in pompa magna per Gipsy, con tanto di lapide in marmo e bara in legno di quercia. Circolarono fotografie che lo ritraevano sulla tomba dell’amico di un tempo, afflitto da un «profondo dolore» e da «tristi ricordi». John leggeva i giornali, li appallottolava e poi li buttava nel cestino. «Anch’io trovo tutto questo disgustoso» disse a Gina, sebbene lei non si fosse mai espressa al riguardo. «Ma se non altro è andato tutto liscio. Quanto avrei voluto evitarlo! Bastava che Gipsy non si ripresentasse da me per tirare fuori quella stupida storia!» Dovevi proprio ucciderlo? pensò Gina. Quella morte aleggiava tra loro come una grande ombra funesta. Inizialmente Gina aveva pensato che quella complicità li avrebbe legati ancora di più. Ma c’era una differenza tra loro due: era John quello che aveva sparato, non lei. Era lui quello che dipendeva dal suo silenzio, non lei. La situazione che si era venuta a creare lo rendeva insicuro. Insisteva sul matrimonio come non mai facendole delle vere e proprie pressioni. «Non vuoi sposarmi per quello che è successo. Ora mi consideri un assassino.» «È stato un incidente» ribatté lei, e ripensò a quel tranquillo e caldo giorno in collina, quando uno sparo turbò la quiete. «È stato un riflesso condizionato.» Era la verità? Qualche volta lo credeva possibile, altre volte no. Ma lo amava con tutta se stessa, da star male, ed era terrorizzata all’idea che il loro amore potesse finire prima o poi. Di giorno era allegra e raggiante, rideva di gusto come al suo solito e sprizzava energia e voglia di vivere. Solo John conosceva le sue notti buie però, quando si stringeva a lui come una bambina. Spesso, quando si svegliava alle prime luci dell’alba e si sentiva pervadere dalla sensazione di solitudine, gli si avvicinava, si stringeva a lui e si riaddormentava tranquilla. Una di quelle notti, cedette. Si erano amati, erano rimasti per un po’ abbracciati, e lui aveva ricominciato a parlare di matrimonio. «Ti prego, Gina. Desidero sposarti più di ogni altra cosa al mondo!» «John...» La paura era di nuovo lì. «Ma perché tutta questa resistenza? Non hai fiducia in me, o in noi? Ha qualcosa a che fare con Gipsy?» «No, te lo giuro. No!» Si era stretto ancora più forte a lei. Lei si era rilassata di nuovo assaporando il suo profumo e aveva avuto come la sensazione che quella


resistenza fosse svanita. Quando lei gli aveva risposto di sì, lui l’aveva baciata, e poi era rimasto sveglio tutta la notte a fare progetti. Lei era rimasta in silenzio a guardare nel buio, e a chiedersi di cosa avesse paura. Avevano deciso di sposarsi in agosto. John doveva andare in Europa per due settimane, e voleva che Gina lo accompagnasse. Si stava occupando di un caso interessante che coinvolgeva l’OPEC e doveva incontrare alcuni membri dell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio a Vienna. Siccome al suo ritorno sarebbe dovuto andare a Seul per un’altra faccenda, pensava che sposarsi a Vienna fosse la cosa migliore. «Dopo tutto è anche una città molto romantica» disse. «Non sei d’accordo, Gina?» «Certo. Ma come la mettiamo con i nostri amici e conoscenti? Non pensi che se la prenderanno se facciamo tutto senza di loro?» «Potremmo dare una grande festa di fidanzamento poco prima di partire. Così nessuno potrà lamentarsi.» «Va bene.» Gina girò il cucchiaino nella tazza di caffè con aria pensierosa. Stavano facendo colazione in veranda con pane tostato e marmellata. Il giardino spandeva un inebriante profumo di fiori. «I giornali non fanno altro che parlare della tua amica Natalie» disse John, spingendo il Sun sul tavolo verso di lei. «Pare che ieri sia stata ospite da Johnny Carson. E ha dichiarato al mondo intero di avere una relazione omosessuale.» Gina diede un’occhiata al giornale. «La anchorman più amata d’America confessa pubblicamente di essere lesbica.» Il titolone le saltò subito agli occhi. E sotto l’articolo diceva: «Natalie Quint, la giornalista apparsa sempre come una donna fredda e distaccata, conosciuta e amata per la sua trasmissione Famous Faces , ha svelato per la prima volta qualche dettaglio della sua vita privata. Ebbene, la giornalista, ospite ieri sera del talk show di Johnny Carson, ha dichiarato che le dicerie su una sua presunta relazione sessuale con l’attrice francese Claudine Combe corrispondono alla verità. Certo non immaginava il clamore che avrebbe suscitato una tale notizia. Centinaia di spettatrici indignate hanno intasato le linee telefoniche della ABC per tutta la notte. Sono arrivate persino minacce di morte. Nel frattempo la Quint ha annunciato che lascerà l’America e tornerà in Europa». «Mio Dio» disse Gina, «davvero non capisco perché tutti si scaldino tanto. La vita privata di Nat non è affar loro.» «I personaggi pubblici non hanno una vera vita privata» dichiarò John. «Neanche Veronique lo ha mai voluto capire.» Era la prima volta che le nominava la sua defunta moglie. Gina corrugò la fronte. «Forse lo capiva» disse, «ma non era in grado di conviverci.» «Ma è fondamentale imparare a conviverci» insisté John. «Per la


gente, la vita dei personaggi pubblici non è una sorta di spettacolo che va in scena su un palco e a cui si può assistere solo seduti in prima fila in platea, no, la gente vuole stare dietro le quinte. Che si tratti di un politico, un attore, o un pezzo grosso della finanza, la gente vuole identificarsi con quello, e per farlo deve poter aver accesso alla sua vita privata. E per di più vuole anche che quella corrisponda alle sue aspettative. Guai se ne rimane delusa!» «E Natalie l’ha delusa?» «Anche troppo. Natalie aveva una precisa immagine che adesso è stata ribaltata. Era la fredda intellettuale, attraente, elegante e riservata. Una donna affascinante ma asessuata.» «Non esistono persone asessuate. E se andasse a letto con gli uomini? Allora il pubblico accetterebbe, giusto?» «Sarebbe normale. Non ci sarebbe nulla di sconveniente.» «Cosa c’è di sconveniente nel fatto che le donne vadano a letto con altre donne?» rispose Gina stizzita, a gran voce. «Ma in che secolo viviamo?» «Amore, concordo pienamente con te, la gente è molto stupida. Ma le cose stanno così, e noi non possiamo farci nulla. La tua amica avrebbe dovuto fare più attenzione a quello che diceva!» La voce di Gina suonò piuttosto aspra. «Già, fare sempre attenzione a quello che si dice! Compiacere la massa! Adattarsi ai gusti di tutti, ma accidenti! Nessuna stranezza, e soprattutto non sia mai che uno appaia per quello che è! Non immagini neanche quanto tutto questo mi faccia vomitare. Non potrò mai accettarlo!» «Dovrai sforzarti di farlo!» John fece una risatina un po’ tirata. «Quando diventerai la moglie del futuro governatore... a proposito» fu chiaramente felice di cambiare argomento, «che ne pensi se invitiamo il tuo amico David Bellino alla nostra festa?» «David? Perché mai?» «Le Bredow Industries sono tra le società americane più di successo, oltre a essere tra le più solide dal punto di vista finanziario. Vorrei sfruttare il fatto che tu conosci David. In campagna elettorale avrò bisogno di finanziatori.» «Allora invito il vecchio. Andreas Bredow, o come si chiama. Dopo tutto appartiene ancora tutto a lui.» «So di sembrare cinico, ma il vecchio cieco non mi serve un granché. Si dice che sia molto malato di cuore, e comunque gli affari li segue già il suo erede. No, mi serve David.» John mise da parte di giornale e si alzò. «Devo andare, tesoro. Non fare quella faccia preoccupata! So che questa festa è uno stress, ma pensa come sarà bello poi quando saremo a Vienna!» Scomparve tra ibisco e buganvillea. Lei lo seguì con lo sguardo e pensò: David... non volevo rivederlo mai più. Il giorno del fidanzamento faceva troppo caldo per fare una festa. «Temo ci sarà un temporale» disse l’uomo del catering quando arrivò al mattino


per allestire il buffet freddo. «Deve prepararsi all’eventualità che d’un tratto dobbiate correre a ripararvi in casa!» «Non c’è una nuvola in cielo!» protestò Gina. «Ma non sente l’afa? Tra l’altro, sembra anche che lei non stia bene.» Dunque si vedeva. Si era sentita male per tutto il giorno prima, e inizialmente aveva pensato che stesse covando un raffreddore. Fece un sorriso stanco. «Forse è per via del tempo.» Verso mezzogiorno, le venne mal di testa e, nonostante due aspirine, continuò a martellare fino a sera. John la scrutò preoccupato. «Sei molto pallida, Gina. Come se oggi, invece del tuo fidanzamento fosse il tuo funerale.» «Mi sento la febbre, sarà l’agitazione per la festa; per qualche ragione non mi va giù. Avrei preferito annullare tutto e starcene per conto nostro tutta la sera.» «Non è possibile.» John si sentiva un po’ a disagio. Non aveva mai visto Gina in quello stato. Erano in camera da letto e si stavano cambiando, Gina aveva ancora indosso una sottoveste in seta bianca e si stava spruzzando della lacca sui capelli. «Forse è a causa di David» disse, «non volevo che venisse.» «Ma devi capire che...» «Sì» disse, una punta di nervosismo nella voce. «Capisco quanto sia importante per la tua carriera!» Si sentì subito mortificata per aver usato un tono così aspro. Si infilò l’abito da cocktail corto in seta blu notte, sistemò le maniche a sbuffo, e si precipitò da John. Lo abbracciò. «Mi dispiace, John. Oggi mi sento nervosa, ma non devo scaricare il mio nervosismo su di te. Scusami!» «Va bene. Nessun problema, tesoro. Prima o poi tutti abbiamo una cattiva giornata.» Qualcuno bussò alla porta. Era una delle domestiche. «Sono arrivati i primi ospiti. Il signor Bellino e la sua accompagnatrice.» «David? Ma è mezz’ora in anticipo?» La domestica scrollò le spalle inebetita. «E va bene» disse Gina, «cominciamo con gli onori di casa. John, tu finisci di prepararti con calma, scendo io.» David era all’ingresso, indossava un abito color oro – che cattivo gusto, pensò Gina – e in mano aveva un mazzo di magnifiche rose. Accanto a lui c’era una donna altissima e molto magra con un viso ingenuo e le braccia e le mani ricoperte di gioielli. David sorrise. «Ciao, Gina!» biascicò. Gina non ricambiò il sorriso. Lo guardò e pensò: Oddio, il ragazzo è sbronzo come un vecchio marinaio!

3


Ci sarebbe rimasto male, se non fosse stato invitato alla festa di fidanzamento, ma ora che l’evento stava per svolgersi, David si sentiva molto a disagio. Quando erano ancora nella camera d’albergo, la sua accompagnatrice, quella stupida Lorraine, aveva preso a tormentarlo per tutti i bicchierini che lui aveva buttato giù uno dopo l’altro – un comportamento, anche piuttosto insolito per lui. E poi aveva cominciato a girargli intorno nervosamente come una ragazzina che tutta contrita, con gli occhietti dolci e il broncio, chiede se ha fatto qualcosa di male. «Sei arrabbiato con me, David? Lorraine non ti piace più?» Aveva detto sbattendo languidamente le ciglia perfettamente truccate. David detestava quando assumeva quell’atteggiamento. Negli ultimi tempi gli dava sempre più sui nervi, e cominciava a convincersi che le interessassero solo i suoi soldi. «È tutto okay» aveva replicato lui, una punta di irritazione nella voce. «Solo un paio di sorsi.» E poi si era ubriacato sotto gli occhi preoccupati di Lorraine. David non avrebbe saputo dire con esattezza quale fosse il problema. In qualche modo, quando pensava alla festa avvertiva una brutta sensazione. Aveva a che fare con Gina. Temeva che lei potesse istigarlo a comportarsi in modo sconveniente, che potesse portarlo a fare qualcosa di cui poi si sarebbe potuto pentire. Voleva fare le cose perbene, la parte dell’amico perfetto, e anche di quello che aveva fatto il regalo più bello e prezioso, cosa che gli sarebbe senz’altro riuscita con l’autentico Picasso, che aveva fatto arrivare a Los Angeles da New York. Davanti a una tale generosità, Gina sarebbe rimasta senza parole; e poi a fine serata, aveva anche intenzione di rinnovare al suo futuro marito la sua offerta di sostegno in un’eventuale campagna elettorale. Dopo il democratico Edmund Gerald Brown, governatore della California eletto nel 1975, a novembre dell’anno prima il seggio era andato di nuovo a un repubblicano, George Deukmejian. Perché non John Eastley il candidato del partito repubblicano alle elezioni del 1986? Lo avrebbe detto a John. E John lo avrebbe raccontato a Gina. «David considera possibile la mia elezione a prossimo governatore della California, Gina. Mi ha garantito il suo appoggio.» E Gina avrebbe pensato: David è proprio un buon amico! Ma per quanto avesse voluto che tutto fosse perfetto, era di se stesso che non si fidava. Gina era capace di tirare fuori il peggio da lui, quando se la ritrovava davanti. Probabilmente era dovuto all’ammirazione che provava per lei. Tra tutti gli amici era quella la cui opinione contava di più e quella che più di tutti lo disprezzava. Era addolorato per il fatto di aver perso Steve, Mary e l’intelligente Nat, ma il freddo disprezzo e la distanza della bella Gina, forte e sicura di sé, erano, se possibile, una vera tortura. Quando era andato a farle visita per la prima volta a Los Angeles, aveva notato con piacere che il ricordo della vecchia storia di St Brevin l’aveva terrorizzata e aveva fatto vacillare per qualche secondo quel suo senso di superiorità. Se l’era gustato quel velo di insicurezza sul


suo viso, ma poi se n’era pentito amaramente. Nel frattempo però quel piacere era tornato a stuzzicarlo; voleva ferirla e angustiarla profondamente in modo che non si dimenticasse mai più di lui. No, non lo voleva. Lui ne era innamorato, ecco, ne era sempre stato innamorato. Non si fa del male a chi si ama. Aveva la mente annebbiata dall’alcol, i pensieri in subbuglio, non sapeva più cosa voleva e cosa non voleva; che ironia, era così che aveva sempre vissuto. Aveva buttato giù un altro bicchierino; se fosse stato ubriaco forse non avrebbe fatto nulla di cui dopo si sarebbe potuto pentire, sarebbe stato troppo stanco e lento e avrebbe tenuto la bocca chiusa. Aveva preso Lorraine sottobraccio. «Andiamo, Lorraine. N... noi dobbiamo andare.» L’aveva spinta alla porta e aveva pensato, me ne devo liberare. Subito. Inspiegabilmente, nonostante l’aria soffocante, la festa stava andando alla grande. Ma forse anche perché tutti gli ospiti bevevano abbondantemente per il caldo, e l’alcol fece subito il suo effetto. Tutto l’olimpo di Los Angeles era lì riunito: attori, produttori televisivi, scrittori, principi del foro, politici, giornalisti, un popolare parrucchiere, un cuoco rinomato, persino un tizio noto per aver rapinato una banca la cui presenza faceva molto chic. La luce dei lampioncini illuminava il giardino, calici di champagne troneggiavano su vassoi in argento che giravano tra gli ospiti allietati dalla musica in sottofondo. Più l’atmosfera si faceva ilare, più qualcuno dei presenti si sentiva in dovere di dire qualcosa sulla coppia felice. Sostanzialmente si ripetevano sempre le stesse parole, e si facevano sempre le stesse battute sugli stessi argomenti. «L’hai scampata a lungo, John, ma adesso sei in trappola!» Risate. «Lasciatelo dire da noi mariti esperti: ti aspetta un vero martirio!» Risate, ancora. Ma perché devono sempre fare come se fossimo noi donne quelle che vogliono sposarsi, pensò Gina, era John quello che lo voleva a tutti i costi, non io! Cercò di unirsi al coro delle risate, anche perché le macchine fotografiche erano puntate su di lei e non voleva venire immortalata con un’aria troppo seria. Il suo sguardo si posò su David, che stava bevendo l’ennesimo bicchiere di vino. Le era stato attaccato per tutta la sera alternando atteggiamenti dolci e gentili ad atteggiamenti aggressivi. «Ti ricordi di quando...» cominciava per poi aggiungere con un tono aggressivo: «Brava, davvero! Brava! Vedo che non hai perso tempo, sei arrivata dritta in vetta, Gina! Attenzione tutti! Questo bicchierino lo dedico a te, e al tuo successo!» «Non dovresti più bere, David! Basta. E finiscila con queste allusioni, non sai proprio un bel niente di me e della mia vita!» Non si allontanò più da John per non dare a David altre possibilità di parlare con lei. Si intrattenne con la moglie di un senatore a conversare degli abiti di Nancy Reagan, con un agente di borsa dei suoi ultimi


racconti gialli, con un giudice della difesa dell’ambiente. Come sempre, la sua partecipazione alla conversazione fu molto allegra e spigliata, ma per tutto il tempo ebbe come la sensazione di stare recitando una parte. Quell’aria soffocante! Tutte quelle facce! Quella cupa paura sempre pronta a riaffiorare nella sua testa tormentata da quella forte emicrania... All’improvviso un lampo guizzò nel cielo, e fu subito seguito dallo scoppio di un tuono. Tutti urlarono scioccati quando, nello stesso istante, il cielo si aprì e rovesciò sulla terra un vero torrente di pioggia. In un batter d’occhio, furono tutti bagnati fradici. «Dentro!» gridò John. «Presto! Tutti dentro!» La maggior parte corse in casa così com’era senza portare nulla con sé, qualcuno prese il proprio bicchiere, e un paio di persone presero persino qualche piatto al volo dal buffet. I lampioncini di carta appesi ai rami dondolavano e grondavano inzuppati. Sulla superficie dell’acqua in piscina le gocce di pioggia rimbalzavano violentemente descrivendo brevi zampilli. In casa, i bagni erano stati subito presi tutti d’assalto perché tutti cercavano di asciugarsi con gli asciugamani. La moglie di un deputato di Washington comparve persino con indosso l’accappatoio di Gina. «Meglio qualcosa di non propriamente convenzionale che un bel raffreddore» dichiarò in modo disinvolto. «Se qualcuno si sente in imbarazzo, che guardi dall’altra parte!» Il clima della festa ne risentì notevolmente; sarebbe passato un bel po’ prima che si ristabilisse l’atmosfera. Innanzi tutto, ci si doveva ricollocare per formare nuovi gruppetti di conversazione. Gina prese una terza aspirina senza farsi notare. Nel silenzio generale, la signorina Brown, avvocatessa di Santa Monica, chiese: «Avete letto dello scandalo? Quello che ha coinvolto Natalie Quint...» «Non solo ho letto tutto sul giornale» giunse la voce di un uomo basso e tarchiato, a cui Gina in quel momento non seppe dare nome e titolo, «ma ho seguito persino tutto il dramma in televisione. Una faccenda piuttosto sgradevole!» «Anch’io l’ho visto» disse Lucia Drake, controfigura e fotomodella che aveva relazioni piccanti a Washington. «E ho trovato che la Quint abbia dimostrato molto coraggio. Perché doveva tacere sulla sua natura? Ognuno ha il diritto di amare chi vuole e come vuole!» «Ma è di cattivo gusto dichiararlo in televisione.» «Di cattivo gusto è stata la domanda che le ha posto Johnny. Cos’altro poteva fare? Mentire? Forse le pesava di più dover negare.» «Io penso che l’amore tra due donne sia rivoltante» aggiunse l’uomo basso e tarchiato, e Gina di riflesso pensò che l’amore con lui fosse rivoltante. «Non voglio neanche immaginarlo... che schifo!» «A molti uomini piace immaginarselo» disse la signorina Brown, «lo trovano bello.» «Ma come fanno a raggiungere il piacere?» Lucia Drake rise. «Lo raggiungono, eccome. Non ci vuole per forza un


pene. Per le donne lesbiche il pene non fa provare piacere, per niente. È solo un arnese goffo e grezzo.» «Ma senti, senti!» Era David. Si fece avanti, gli occhi spiritati. «Perché tutto questo perorare la causa delle lesbiche, signora Drake? E con che fervore, poi! Esperienze personali?» «Naturalmente no.» Ora era Lucia a disagio. «Voglio dire, ho provato davvero tante cose nella vita, ma con una donna mai. Le donne non mi piacciono!» La sua risposta fu sufficiente per tirarsi fuori dall’imbarazzo. Gli occhi di David vagarono sui presenti e poi si posarono su Gina. «Cosa hai provato, tu? Quella volta con Natalie?» Nella sala calò un silenzio totale che fu spezzato qualche secondo dopo dall’accompagnatrice di David: «Hai bevuto troppo stasera, David, è meglio se ce ne andiamo.» «E perché? A Gina non do alcun fastidio!» Seguì la risata stridula di Lucia Drake. «I giornali scandalistici di domani avranno almeno qualcosa di cui parlare.» John, che era rimasto come pietrificato, sembrò riscuotersi. «Signor Bellino» disse nel modo più cortese possibile, «credo che la sua compagna abbia ragione. Forse è meglio che togliate il disturbo!» L’uomo basso e tarchiato era rimasto a bocca aperta e guardava Gina. «Cosa voleva dire signor Bellino?» Quel nanetto grasso, la scarica di tuoni fuori e la risata stridula di Lucia Drake sarebbero stati per sempre i protagonisti del peggiore incubo di Gina. Un po’ smorzata, come se venisse da lontano, sentì la sua voce dire: «David, io e Natalie ci conosciamo da quando eravamo molto giovani. Andavamo insieme a scuola. Ma le sue inclinazioni sessuali non le conosceva nessuno di noi.» «Davvero?» David prese un altro bicchiere, ma la sua compagna glielo strappò di mano. «Andiamocene, dai!» disse sottovoce. «Ma perché non ricordare un paio di aneddoti di gioventù? Io e Gina ne abbiamo fatte così tante insieme! Pensi ancora al Saint Clare, Gina?» «Sì!» Dio del cielo, fa’ un miracolo, ti prego. Fa’ che David la smetta di farneticare! Nessuno proferì parola. Tutti fissavano prima Gina poi David, e viceversa. John aveva l’aria di essere stato folgorato da un fulmine. Sembrava incapace di una qualunque reazione. «Dopo gli esami di maturità abbiamo fatto una vacanza tutti insieme in Francia» continuò David, «tutti e cinque. No, un momento, la povera Mary non c’era. Dunque eravamo in quattro. Io, Steve, Natalie e Gina. Ti ricordi di St Brevin, Gina? Il caldo di quei giorni? Eravamo molto giovani, eravamo liberi. Straordinariamente liberi, in realtà. In particolar modo tu, Gina. E Natalie.» «Cosa aspetta a sbatterlo fuori, Gina» disse la signorina Brown. «Quest’uomo parla troppo.» «Esca subito da casa mia!» disse John perentorio. «All’istante!»


«Non è saggio da parte sua, signor Eastley!» «Se ne vada!» aggiunse con un tono più moderato. «E va bene.» David si avviò verso la porta con passo incerto. «Me ne vado, ma il fatto rimane, e lei signor Eastley non può semplicemente scacciarlo via, come sta facendo con me adesso. Quando era più giovane, la donna che ha intenzione di sposare ha avuto un rapporto con Natalie Quint, la famosa e, fino a poco tempo fa, rispettata giornalista. Chissà se è un bene per la sua carriera, ci pensi un po’ su?» «Queste sono solo sporche calunnie» replicò John, bianco come un lenzuolo. «Alleluia!» esclamò Lucia. Lorraine posò una mano sul braccio di Gina. «Mi dispiace, signorina Loret. Sarebbe così gentile da chiamarci un taxi?» L’indomani mattina pioveva ancora, ma soffiava un vento caldo. Alle sette in punto, squillò il telefono. Rispose John, che non aveva chiuso occhio tutta la notte. Era suo padre e per di più furioso. «Hai letto il giornale stamattina?» ruggì. John fece una smorfia. Aveva mal di testa e il ruggito di suo padre, tanto forte da sembrare fisicamente accanto a lui e non a San Francisco, non migliorava certo le cose. «No, papà, non ancora. Ma immagino cosa ci sia scritto.» «È uno scandalo!» John dovette allontanare il ricevitore dall’orecchio, perché adesso la voce del vecchio Eastley aveva raggiunto note acutissime. «Questa faccenda ti può rovinare, John! È la cosa peggiore che potessero scrivere su Gina. Devi lasciarla subito!» «Papà, per le calunnie di un uomo ubriaco...» «E le chiami calunnie? C’è sempre un fondo di verità, è questo che pensa la gente! Maledizione, lo sapevo, me lo sentivo, doveva esserci un neo nel suo passato! Te l’avevo detto, te l’avevo detto...» «Papà» lo interruppe John, «questa storia non cambia nulla. Io e Gina domani partiamo per l’Europa, come avevo programmato. E il 20 agosto ci sposiamo a Vienna.» Silenzio da San Francisco. Poi con voce gracchiante, il padre disse: «Cosa hai detto?» «Pensi che me ne importi qualcosa delle farneticazioni di un arrivista newyorchese o dei pettegolezzi su un giornale di uno scribacchino?» «Se vuoi arrivare in alto, deve importarti di quello che dice la gente!» urlò Eastley e riagganciò con fragore. Dieci minuti più tardi richiamò. «Non ti sposerai, te lo proibisco!» «Non puoi proibirmi proprio un bel niente, papà» ribatté John, e adesso fu il suo turno di riattaccare bruscamente. Ritornò in camera da letto dove Gina, stravolta per aver passato la notte insonne, se ne stava raggomitolata su una poltrona, le gambe strette al petto e una coperta adagiata sulle spalle. Con occhi stanchi, fissava fuori dalla finestra la pioggia che cadeva monotona. Le si


leggeva in faccia che aveva passato tutta la notte sveglia a parlare e parlare per ore con John. Il trucco era sbavato, i capelli spettinati. Stava cominciando il terzo pacchetto di sigarette. «Amore» le disse John con dolcezza, «adesso devo andare in studio. Dovresti farti una doccia o un bagno e poi fare colazione in tutta tranquillità. Preparati un bel caffè forte e poi cerca di far passare la giornata. Oppure metti qualcosa in valigia per il viaggio. E non rispondere al telefono.» Lei alzò gli occhi. «John, non possiamo fare come se nulla fosse.» «Non lo abbiamo fatto, infatti. Ne abbiamo parlato tutta la notte. Mi hai raccontato tutto quello che è successo allora, e io ti credo; per me non è nulla di grave. David Bellino ha solo scelto il momento meno opportuno per fare la sua sceneggiata, e tutto perché adesso non si parla d’altro che di Natalie Quint.» Dopo un attimo di pausa, John aggiunse: «È un farabutto». Il telefono squillò diverse volte. «Forse dovremmo...» disse Gina. «No. È solo papà che vuole sfogarsi. Possiamo farne a meno.» «John, non voglio che litighi con tuo padre per causa mia. E non voglio neanche che per causa mia...» «Tesoro, stai tranquilla. Cose come questa montano sempre all’inizio ma poi si sgonfiano e tutti se ne dimenticano presto. Dai, su, non essere così triste! Torno presto dallo studio, così poi avremo tutta la serata per noi!» Le diede un bacio e sorrise, ma appena uscito dalla stanza pensò: Maledizione! Alla fine Gina riuscì ad alzarsi, andò in bagno, fece una doccia e si vestì. Mentre cercava di ravvivare un po’ il viso, ripensò alla sera prima. David. Che strano, lei sapeva che sarebbe successo. Lo sapeva dal giorno in cui lui era andato a farle visita la prima volta. Possibile che il destino di David Bellino fosse quello di distruggere tutto ciò che toccava? Lei compresa? John si era comportato in modo formidabile. «Non è grave» le aveva ripetuto per tutta la notte per rassicurarla. «Ti amo, Gina. Un uomo come David Bellino non può rovinare il nostro amore. Quando torneremo dall’Europa come signore e signora Eastley, le acque si saranno calmate e tutto sarà stato dimenticato.» Uscì dal bagno con il fard sulle guance, il rossetto sulle labbra, i capelli fonati. Aveva di nuovo un aspetto quasi normale. In corridoio incontrò Emmy, la domestica. Sembrava imbarazzata e curiosa. Naturale, pensò Gina, anche lei avrà già letto il giornale. «Il signor Eastley ha detto che non dobbiamo rispondere al telefono» disse, «ma c’è da diventar matti con questo squillare continuo!» Evidentemente John temeva che potessero essere giornalisti che chiamavamo per farsi raccontare qualche indiscrezione dai domestici. Una donna come Emmy poteva dire qualunque cosa se poteva renderla importante.


«Stacchi l’apparecchio» disse Gina, «così dopo un po’ si stancheranno di insistere.» Dopo due tazze di tè e un uovo strapazzato si sentì meglio. Magari avrebbe lavorato al suo nuovo racconto giallo. Più tardi, decise. Prima avrebbe fatto una passeggiata con Lord. Pioveva ancora, ma l’aria fresca le avrebbe fatto bene. Mentre cercava la giacca a vento e gli stivaletti per la pioggia, il telefono riprese a squillare. Rinvigorita com’era, rispose. «Sì?» «Gina?» Era David. Lei fece un profondo respiro. «Sì, sono io.» «Mio Dio, sono ore che cerco di parlare con te! Dovrei essere all’aeroporto già da un pezzo. Il mio volo per New York parte tra meno di un’ora!» «Allora non ti trattengo.» «Gina!» Aveva un tono implorante. «Volevo scusarmi. Il mio comportamento di ieri sera è stato inqualificabile. Posso solo dire che ero ubriaco fradicio, e...» «David, sto uscendo» lo interruppe Gina. «Capisco che tu ce l’abbia con me. Non so perché... davvero è stata solo colpa dell’alcol. Ho avuto un sacco di problemi negli ultimi tempi. E la ragazza con cui sono venuto ieri sera da voi, devo assolutamente...» «Non mi interessa!» «È una sanguisuga, non fa altro che parlare di matrimonio, e io non so cosa...» «Rivolgiti all’ufficio reclami di Cosmopolitan» gli suggerì Gina con freddezza. «Io non posso aiutarti.» Riagganciò. Stupidamente rispose di nuovo, perché appena messo giù, il telefono squillò di nuovo. «Cosa c’è ancora?» chiese irritata. Ma non era David. Era il padre di John. «Oh, la signorina Loret in persona.» L’aveva sempre chiamata Gina. «Sono lieto di parlare proprio con lei. C’è John?» «È andato in studio.» «Allora possiamo scambiare due chiacchiere. Cosa c’è di vero in quello che dicono i giornali?» «Niente.» «Ah. Dunque David Bellino si è inventato tutto!» «Ha ingigantito un fatto senza significato di qualche anno fa. Era ubriaco e non sapeva quello che diceva.» «È tutto molto sgradevole. Per John può essere rischioso.» «Lui la vede diversamente.» Non ti agitare, Gina, mantieni la calma! La voce del vecchio Eastley suonava minacciosa. «Già, John è uno sconsiderato. Lo è sempre stato, fin dai tempi di Veronique. Non si rende conto di quanto è alta la posta in gioco. Stamattina mi ha detto che avete ancora intenzione di sposarvi il 20 agosto, è vero?» «Sì» cominciò a tremare. «Impossibile. Impossibile! Spero che lei mi capisca. John ha uno


splendido futuro davanti a sé. Noi tutti, tutta la sua famiglia, abbiamo investito molto su di lui. Non permetteremo che vada tutto in frantumi. Se avesse anche lei un minimo senso di responsabilità, lo capirebbe e lo lascerebbe andare!» Lasciarlo andare? Ma cosa sta dicendo? Gina si accorse che le stava montando la rabbia. «Solo io e John» disse, il massimo autocontrollo possibile, «possiamo decidere una cosa del genere. E abbiamo deciso. Ci sposeremo.» Lui rispose con calma. «Non crede che un giorno le costerà caro? Quando John avrà perso il suo futuro, la sua carriera, la riterrà responsabile. Non la perdonerà mai.» «Allora sarà un problema mio.» «Le dico una cosa, signorina Loret. Sarà certamente un suo problema. Quello che succede a lei non mi riguarda. Ma non lascerò che mio figlio si rovini a causa sua. Farò di tutto per impedire questo matrimonio.» «Faccia quello che vuole» disse Gina, e poi sentì riagganciare all’altro capo della linea. Idiota, pensò furiosa e ferita. Quando sentì nuovamente squillare, urlò nella cornetta. «Sì?» Era Natalie. Chiamava da New York e sembrava agitata. «Gina! Ho letto il giornale e volevo sentirti. Cosa ha combinato di nuovo quel pezzo di merda di David?» Gina le raccontò in breve quello che era successo la sera prima, e notò quanto suonava stanca e angosciata la sua voce mentre parlava. «Spero che tutto questo non abbia delle conseguenze per John. Vogliamo sposarci il 20 agosto. Ma non sono più tanto sicura che sia la cosa giusta.» «Ma come gli è saltato in mente di dire quelle cose?» Gina indugiò. «Ti ricordi St Brevin? Subito dopo gli esami?» Nella cornetta, lo stupore misto ad ansia di Natalie era palpabile. «Ti riferisci a...» «Ci ha viste. È da quando me lo ha detto che temevo potesse parlarne. Me lo sentivo che sarebbe successo.» «Prima o poi» disse Natalie, «qualcuno di noi dovrà torcergli il collo, e sai cosa ti dico spero proprio di essere io quel qualcuno.» «Se la caverebbe!» «Gina, ascolta, posso fare qualcosa? Rilasciare una smentita? Vorrei tanto aiutarti!» «No, Nat, meglio di no. Sarebbe solo un modo per continuare a rimestare tutta la faccenda, e suonerebbe come una difesa da parte mia. Lasciamo che le cose si calmino da sole. Dimmi un po’, invece, è vero che te ne torni in Europa?» «Sì. Qui non mi sento felice, e Johnny Carson ha fatto il resto. Ho ricevuto un’offerta dalla Francia. Me ne vado a Parigi.» «Buona fortuna, Nat!» «Grazie. Per qualunque cosa, non esitare a chiamarmi. Non appena troviamo una sistemazione, ti scriverò il mio nuovo indirizzo.» «Troviamo?»


«Io e Claudine. Viene con me. Arrivederci, Gina!» Le aveva fatto bene sentire la voce e le parole rassicuranti di Natalie, ma la paura era sempre lì in agguato. D’un tratto Gina non aveva più voglia di uscire. Si fece un bel bagno caldo, e sorseggiò un calice di champagne mentre era immersa nella bianca schiuma profumata. Lord le era seduto accanto e la guardava con il muso inclinato. All’improvviso scoppiò a piangere ed ebbe la sensazione di non riuscire più a smettere. Pianse, pianse, e quando alla fine non ebbe più lacrime, l’acqua si era raffreddata e lo champagne aveva perso tutto il suo gusto.

4 Fecero tutto quello che fanno i turisti a Vienna: il giro in carrozza, visitarono il duomo di Santo Stefano e salirono persino fino alla campana Pummerin, assistettero meravigliati allo spettacolo degli eleganti Lipizzani della scuola di equitazione spagnola e andarono nella pasticceria Demel dove Gina poté gustare per la prima volta la Sachertorte originale. Era deliziosa, come del resto i peperoni dal gusto dolciastro che avevano trovato al mercato Naschmarkt. Contemplarono le sontuose stanze della residenza imperiale di Hofburg, e rimasero molto incuriositi dall’orologio dell’Anker; nel locale Figlmüller non poterono non provare la cotoletta più grande del mondo (Gina dovette dare dieci dollari a John perché aveva scommesso che sarebbe riuscita a mangiarla tutta da sola, ma poi a qualche boccone dalla fine aveva dovuto deporre le armi). Tornarono a Hofburg, ammirarono la bellezza della sontuosa sala della Biblioteca Nazionale e parteciparono a una visita guidata alla Staatsoper, perché il teatro era chiuso per ferie e non c’era altra possibilità per vederlo dentro. Nessuno dei due parlò più dei fatti accaduti prima della partenza. Era tutto lontano. Dov’era l’America? Lontano da tutto, era come se fossero già in luna di miele. «Ti amo, Gina» le disse John a notte fonda, seduti al tavolo del ristorante Drei Husaren. Alla luce delle candele, il suo viso appariva più dolce. Gina alzò il calice e brindò. Pensò alla notte insieme a lui, come aveva già pensato alla notte precedente durante il giorno. I giorni lì a Vienna sarebbero rimasti per sempre nella sua memoria come quelli in cui lei e John si erano amati come non mai. «Ancora tre giorni» disse John, «e poi saremo sposati. Sei contenta?» «Non si vede?» Le prese la mano sul tavolo. «Sei felice, Gina?» «Sì» rispose e per un attimo fugace, quasi senza rendersene conto si chiese se non stesse mentendo.


La sera prima del matrimonio, all’ambasciata americana era in programma un ricevimento in onore degli ospiti dell’OPEC giunti a Vienna. Poiché John sarebbe stato impegnato per tutto il giorno in riunioni importanti, lasciò a Gina la macchina a noleggio in modo che lei potesse andarsene un po’ in giro per la città. «Ci incontriamo alle sei al caffè dell’albergo» propose, «così avremo tutto il tempo per prepararci con calma. Sta’ attenta, amore!» «Certo. Anche tu.» Lo accompagnò nella hall e lo salutò con un cenno della mano quando salì su un taxi davanti all’ingresso dell’albergo. La giornata era soleggiata e calda, nell’aria si sentiva già il profumo dell’autunno. Alla reception c’era un grande mazzo di crisantemi gialli. L’autunno è bello anche in Europa, pensò Gina, la vita è bella! Tutto il mondo è bello! Era raggiante; indossava un paio di jeans e una camicia blu di John. Si incamminò per la strada, gli occhiali da sole tirati su fra i capelli. Si addentrò in uno dei quartieri di periferia, passeggiando tra le stradine senza meta e poi entrò in un localino dove bevve del vino e mangiò qualche buchtel; era una specialità dolce che non conosceva, ma aveva tutta l’aria di essere deliziosa. Nel primo pomeriggio tornò in centro. Aveva intenzione di andarsene ancora un po’ a zonzo, senza comprare nulla, ma poi passò davanti a una boutique, nella cui vetrina erano esposti abiti da sera tra i quali uno attirò in particolar modo la sua attenzione. Era lungo fino ai piedi, aveva la gonna in pizzo nero e il corpetto in velluto verde muschio, una profonda scollatura sulla schiena e maniche lunghe leggermente a sbuffo fino al gomito e aderenti sull’avambraccio. Potrei provarlo, pensò ed entrò esitante nel negozio. Forse costa una fortuna, ma è meraviglioso. Le stava a pennello, e sia la commessa sia altre due clienti presenti in quel momento la ricoprirono di complimenti. «È il vestito perfetto per lei, signora! A nessun’altra starà così bene, ne sono certa!» Il prezzo era un salasso, ma era giusto per il tipo di abito, così Gina lo comprò senza batter ciglio. Sapeva che a John piaceva quando si vestiva di verde. Allegra e soddisfatta uscì dal negozio. Nelle strade soffiava un bel venticello caldo che portava con sé il profumo di fiori e fieno. Alle cinque entrò nel caffè dell’albergo, dopo aver posato l’abito in camera. Tutta contenta, ordinò un caffè, che sorseggiò gustandosi la danza dei vivaci abiti estivi dei passanti fuori in strada. Non si sentiva così felice dalla morte di Gipsy. John era molto sensibile al tono con cui gli altri gli parlavano, e si chiese se se lo fosse solo immaginato o se davvero qualche membro dell’ambasciata si fosse comportato con lui in modo scortese. Anche se tutti lo avevano salutato cordialmente, avvertiva comunque una certa distanza. Lo guardavano di sottecchi con curiosità? Facevano attenzione a quello che dicevano? Evitavano di fargli domande personali? Se sì,


perché? Stava per diventare uno fra gli uomini più importanti d’America che aveva contatti con l’OPEC. Il fatto di essere lì per incontrarne alcuni membri poteva essere considerato solo un successo straordinario. Si era aspettato che lo accogliessero con un tappeto rosso, e non con sguardi furtivi e sospettosi. È solo immaginazione, si disse. Controllò l’ora. Era il momento di tornare in albergo. Per l’imminente ricevimento, la sicurezza in ambasciata era stata rafforzata. C’erano molti più poliziotti e agenti del solito. Probabilmente l’orchestra provava da qualche parte perché giungeva della musica. Le ultime composizioni floreali furono consegnate. Due signori in smoking si aggiravano alla ricerca di un calice di spumante. C’era tensione nell’aria. John non vedeva l’ora della sua serata con Gina. Se ne stava andando via quando sentì chiamare il suo nome. Alle sue spalle c’era il tenente colonnello Munroe, uno dei consulenti militari dei diplomatici dell’ambasciata. Munroe era un repubblicano convinto, forse persino uno dei sostenitori più convinti di Ronald Reagan, ma non aveva avuto abbastanza carisma per fare strada in politica. Era un uomo corretto e leale, ma si immischiava continuamente nelle questioni altrui. Preoccuparsi che tutto fosse sempre in ordine era la sua missione. Certo agiva in buona fede e faceva del suo meglio, ma nessuno voleva avere a che fare con lui più dello stretto necessario. Così anche John lasciò intendere che aveva fretta. «Sì... tenente colonnello?» chiese con aria sbrigativa. «Posso parlarle un attimo, signor Eastley?» «Sto andando via. Ho un impegno alle sei.» «È molto importante.» John sospirò e si arrese. Anche perché sembrava che Munroe non avrebbe mollato. I due uomini si spostarono in una piccola stanzetta attigua, un ufficio, mai frequentato da nessuno, in cui l’aria condizionata era talmente fredda che John ebbe l’impressione di essere entrato in una cella frigorifera. «Ebbene» chiese, «di cosa si tratta?» Munroe si accese una sigaretta dopo aver offerto il pacchetto anche a John che però rifiutò ringraziandolo. «Noi siamo preoccupati per lei» disse. «Chi sarebbero questi ‘noi’?» si affrettò a chiedere John. Munroe si sedette, mentre John rimase in piedi; non aveva nessuna voglia di stare lì dentro più del dovuto. «Chi?» ripeté. «I suoi amici del partito repubblicano. Quelli che la vorrebbero governatore. Tutti quelli che credono che lei ce la possa fare.» «Ah. E perché si preoccupano per me?» «Dunque...» Munroe sembrava alla ricerca delle parole giuste. Evidentemente la considerava una missione delicata. «Una settimana fa c’è stato lo scandalo che ha coinvolto la sua fidanzata. Sa a cosa mi riferisco? Ne hanno parlato tutti i giornali.»


«So benissimo a cosa si riferisce. Alle chiacchiere di un ubriaco. Lei non si aspetterà davvero che io parli ancora di questa follia?» «Se ne parla, signor Eastley, è questo il punto. Non può ignorarlo. E, considerate le circostanze, io non posso nasconderle che lei non ha più molte speranze di essere presentato come candidato a governatore alle prossime elezioni.» «Come scusi?» Adesso anche John si sedette, l’aria frastornata e un po’ spaventata. La cosa peggiore era che bisognava dare credito a ogni singola parola che usciva dalla bocca del tenente colonnello Munroe. Non diceva mai nulla a caso. «Davvero non gradisce una sigaretta?» chiese. Adesso John ne prese una, l’accese e fece un lungo tiro profondo. «È un’assurdità» disse. «Io e la signorina Loret vogliamo sposarci domani. Qual è il problema?» Munroe era visibilmente in imbarazzo. «La sua... mmm... futura moglie ha... mmm, avuto un rapporto con quella giornalista televisiva che...» Si interruppe e poi aggiunse usando molto tatto: «Insomma lei sa come è andata, signor Eastley!» «Certo. Ma non capisco come si possano prendere sul serio le farneticazioni di un ubriaco che sono state gonfiate in modo a dir poco indecente dalla stampa. Di solito il nostro partito dimostra più carattere.» «La moglie di un governatore deve essere senza macchia.» «Nessuno è senza macchia.» «Sa cosa intendo. Tutti abbiamo un passato e all’attivo qualcosa di cui non andiamo fieri, ma con moderazione! La moglie di un governatore non deve abortire. Fare uso di droghe o...» Si interruppe di nuovo. John gli lanciò un’occhiata sarcastica. «Perché non lo dice? La moglie di un governatore non deve avere un passato da lesbica.» Munroe divenne paonazzo. «Sì» bofonchiò a disagio. «E infatti Gina non lo ha avuto.» «Va bene. Di questo non posso accusarla. Ma la stampa le ha messo questa etichetta ormai. Mi dispiace, Eastley, ma non possiamo rischiare di perdere il consenso per questo motivo.» «Gli elettori non sono così retrogradi come si vuol far credere!» «Per alcuni aspetti» ribatté Munroe in tono calmo, «sono anche peggio.» John si sentiva mancare il terreno sotto i piedi. «Credo di aver sentito abbastanza.» «No. Ma non cambierà le cose.» Munroe gli lanciò un’occhiata compassionevole. «Lei è un noto e illustre avvocato. Lo sarà sempre. Ha soldi e potere. Se si accontenta di questo, potrà considerarsi un uomo che ha fatto strada nella vita. Ma non potrà diventare governatore!» John lo fissò. «In pratica mi state obbligando a fare una scelta? Se voglio che il partito mi candidi a governatore alle elezioni, devo rompere con Gina?».


«È un’interpretazione un po’ drastica.» «Cosa vuol dire ‘interpretazione drastica’? È così o non è così?» «È così.» «E chi lo vuole?» «Lo vuole la gente. Non capisce? Si parla di lei e della signorina Loret. Si dice che con la signorina Loret al suo fianco, lei regalerà voti all’avversario.» «Mio Dio, come se le mogli degli altri politici fossero senza macchia! Se penso a Betty Ford e alla sua dipendenza da farmaci, o...» «Durante la campagna elettorale del marito» lo interruppe tranquillo, «Betty Ford non aveva ancora sviluppato nessuna dipendenza. È successo parecchio tempo dopo. Mi dispiace molto, davvero, Eastley, lei è considerato da tutti un uomo molto per bene, ma il suo legame con la signorina Loret rappresenta un problema. Sa com’è, la gente parla e viene fuori una opinione comune. Come è accaduto nel suo caso.» «Perché non me ne ha parlato nessuno a Los Angeles? Perché lo scopro solo ora qui a Vienna?» Munroe fece una risatina cinica. «Non c’era nessuno disposto a dirle una cosa così sgradevole. Neanche i suoi amici di partito degli altri stati. Vogliono rimanere in buoni rapporti con lei, Eastley!» «Che gentili!» «Sanno che io non ho parlato con lei per darmi delle arie. E neanche perché mi interessano i pettegolezzi. Ma perché qualcuno doveva pur farlo. E adesso che le ho detto come stanno le cose, sta a lei decidere cosa fare.» Munroe si alzò, la conversazione era finita. Anche John si alzò. «Date le circostanze» disse, «mi sembra ovvio che la mia presenza al ricevimento stasera non sia opportuna.» «In ogni caso sarebbe meglio se si presentasse senza accompagnatrice.» «È fuori questione» rispose John, una punta di stizza nella voce. «Date per scontato che così io mi senta sotto pressione?» «Io non do nulla per scontato» disse Munroe con aria distaccata. E poi stringendo la mano di John disse: «Arrivederci signor Eastley. Le auguro una buona permanenza qui a Vienna. A me personalmente» scrollò il capo disgustato, «questa città non piace. Troppo kitsch, troppo ipocrita. Ma è questione di gusti». Se ne andò, chiudendo la porta con uno scatto leggero. John si lasciò cadere su una sedia. Sarebbe dovuto andar via di corsa – erano quasi le cinque e mezzo – ma era privo di forze. Si sentiva troppo debole per uscire dall’ambasciata e chiamare un taxi. Era in un vicolo cieco. La sua prima reazione fu quella di non cedere: cosa si credevano quegli imbecilli? Cosa pensavano davvero di fare, fin dove potevano arrivare? Come potevano parlare di Gina in quel modo? Lei ha più carattere di tutti i capi del partito repubblicano messi insieme, e solo perché un pagliaccio ubriaco... Insieme alla collera gli tornò anche l’energia. Si alzò determinato. Un quarto alle sei. Gina lo stava aspettando. E lui la stava facendo aspettare


solo perché un paio di politici arroganti non la consideravano la donna giusta per lui. Al diavolo loro e la loro stupida festa! Fu pervaso da una sensazione di... sì, di sollievo. Fine della battaglia, avrebbe mollato tutto. Da ora in avanti, basta con le feste alle ambasciate. Basta convenevoli e complimenti finti alle mogli imbellettate di uomini importanti, e basta con la paura di comparire sulle pagine di un giornale in un articolo che poteva essere pericoloso per la sua carriera. Si rese conto della pressione a cui era stato sottoposto per tutti quegli anni. La paura di dire qualcosa di sbagliato. La paura di perdere il consenso popolare. La paura di mancare a una festa importante. La paura di non esserci. Ma perché si era lasciato imbrigliare in quelle costrizioni? Uscì dall’edificio al chiarore del sole caldo della sera. Il cielo blu, il profumo speziato nel vento annunciava l’autunno. La vita era bella. Sarebbero andati a cena in un bel ristorantino. Riusciva a immaginarsi i suoi occhi scintillanti alla luce delle candele, ma soprattutto il suo sorriso, quell’incantevole, caldo sorriso che gli trasmetteva calma ed energia al tempo stesso. Non avrebbe mai potuto vivere senza. Seduto nel taxi mentre attraversava la città, di colpo avvertì la presenza del padre, proprio come se fosse sempre stato lì, a dirigere la sua vita. «Un giorno» gli aveva detto il padre con voce chiara e forte, «un giorno, mio figlio diventerà presidente degli Stati Uniti d’America. E io ne sarò molto fiero.» Le immagini gli scorsero davanti come in un film. Da giovane, quando vinceva le gare sportive a scuola, e suo padre gli diceva: «Non mi deluderai mai, lo so»; «Questa volta deve essere la donna giusta. Deve! Devi lasciarla subito.» John si appoggiò allo schienale. L’iniziale sensazione di sollievo era svanita. Cominciò a lambiccarsi il cervello. Non appena lo vide, Gina si accorse che qualcosa non andava. Certo, John le sorrise quando, con qualche minuto di ritardo, entrò nel caffè dell’albergo, ma lei avvertì subito una nota stonata in quel sorriso. «Amore, mi dispiace moltissimo, sono stato trattenuto. Scusami.» Si sedette. «Non preoccuparti, nell’attesa mi sono consolata ben bene» disse Gina in tono allegro, «solo che probabilmente la mia linea ne farà le spese. Qui ci sono dei dolci deliziosi, John! Non riesco a smettere di mangiarne!» Lui si chinò e le diede un bacio leggero sulla guancia, le labbra fredde. «Sono contento che ti piacciano. Vuoi ancora un pezzo di torta?» «È ora di andarci a cambiare, non credi?» Lui indugiò, lo sguardo altrove. Lei gli prese la mano. «Cosa c’è che non va? È successo qualcosa. Sei così pallido e nervoso!» «Gina... c’è un piccolo problema.» Una cameriera si avvicinò al tavolo. «Il signore desidera qualcosa?» «Sì, grazie, un tè. Gina?»


«Caffè. Cosa è successo?» «Stasera non andremo al ricevimento.» «No?» «No. Mi hanno suggerito di... lasciarti.» Stranamente non ci fu alcuna esplosione, alcun terremoto, alcuna tempesta. Rimasero seduti sulle loro morbide sedie imbottite nel piccolo caffè accogliente, che ora era avvolto dalla dolce luce del crepuscolo. La cameriera si muoveva in punta di piedi tra i tavoli. In sala c’era solo un’altra coppia molto giovane. Gina li aveva osservati a lungo. Sembravano aver perso la cognizione del tempo e dello spazio, si tenevano mano nella mano e l’uno aveva lo sguardo perso in quello dell’altra. Erano come bambini che fanno un’esperienza nuova, meravigliosa. Gina aveva pensato: Anch’io e John siamo così. Sempre. Tutto è unico e meraviglioso. D’un tratto ebbe l’impressione che quella sensazione morisse, che il suo corpo si svuotasse, si raffreddasse. La cameriera portò il tè e il caffè. Anche se non vi aveva versato latte o messo zucchero, John girò il cucchiaino nella tazza, la mente altrove. «È stato un colloquio odioso» disse. Sotto il naso le solite due rughette che gli spuntavano quando era preoccupato. «Con chi hai parlato?» «Il tenente colonnello Munroe. Un vecchio fossile, la quintessenza dell’onestà e della lealtà. Uno di quelli che giura fedeltà al partito per sempre e comunque. E quel che è peggio, un uomo degno della massima credibilità.» «Cosa ti ha detto di preciso?» chiese Gina, stupita del suo stesso tono calmo. Bevve un sorso di caffè e si bruciò la gola, ma quasi non se ne accorse. «Ha detto che la nostra relazione è vista con preoccupazione e che io potrei perdere voti a causa del polverone che ha sollevato questa storia di te e Natalie Quint insieme.» «Nel ventesimo secolo? In America?» John fece una risata stanca. «Pensa ai primi coloni di questo grande paese. Ai puritani che sono sbarcati dal Mayflower. Sotto certi aspetti, i loro discendenti non sono affatto cambiati.» «Capisco. Dunque noi... dobbiamo separarci.» «Gina...» «È tutto molto chiaro. Se rimaniamo insieme, non sarai candidato alle elezioni a governatore. Perché, per quanto tempo possa passare, i tuoi avversari tirerebbero sempre fuori questa storia e la userebbero contro di te. E saresti spacciato.» «Non essere così cinica.» «Io?» Cosa ti aspettavi? si chiese. Che ti prendesse per mano e dicesse: Ma naturalmente a me non interessa niente. Noi restiamo insieme, accada quel che accada. Senza di te al mio fianco nulla ha più valore nella vita, neanche diventare governatore!


Si sporse e le prese la mano. «Non so cosa dire, cosa pensare, cosa fare. Fin da piccolo ho sognato una grande carriera. Ho investito così tanto...» E lei disse con amarezza: «Invece io ho avuto la sfortuna di vivere per te! Che idiota che sono stata!» «Gina...» pensò se fosse il caso di raccontarle della prima sensazione di sollievo che aveva avvertito prima di lasciare l’ambasciata, ma poi pensò che fosse meglio non farlo. La sua mente era in subbuglio... era confuso, sottosopra... gli serviva del tempo. Sì, ecco, gli serviva del tempo. Doveva avere la possibilità di pensare, magari di parlare con qualcuno dei suoi amici a Los Angeles. «Gina, capiresti se ti chiedessi di rimandare il matrimonio? Devo chiarire un paio di cose, e sarebbe più facile se non ci sposassimo domani. È...» Si rese conto di come dovevano suonare quelle parole alle orecchie di Gina. «Maledizione, mi dispiace tantissimo.» «Perché? Sono io che ho una macchia nel passato, non tu!» Io sono un vigliacco, pensò lui. «Dammi un po’ di tempo» la pregò. Nonostante dai suoi occhi trasparissero collera e tristezza, gli parlò con un tono di voce freddo e distaccato. «Non credi di chiedere un po’ troppo? Come pensi che sarà questa attesa per me, mentre tu pensi e ripensi a come salvare la tua carriera? Cosa pretendi da me?» aveva alzato la voce, e la cameriera si girò curiosa verso di loro. «Abbassa la voce» la esortò John. Gina si ricompose. «L’uomo che amo mi sta chiedendo di aspettare mentre lui riflette su cosa sacrificare tra me e la sua carriera. Dimmi, come dovrei sopportare una cosa del genere!» Con orrore, si accorse che le stavano salendo le lacrime agli occhi. Cercò disperatamente di ricacciarle indietro. Tutto, ma le lacrime no. Prese la sua borsa. «Mi scuserai, ma date le circostanze, sono io che ho bisogno di separarmi fisicamente da te adesso. Non posso più restare qui.» John, il viso nascosto tra le mani, aprì gli occhi. «Dove vai?» chiese preoccupato. «È irrilevante, giusto? Hai bisogno di tempo e di calma per pensare. Temo solo di sapere già cosa deciderai!» «No, non puoi saperlo.» «Lo so, eccome. Sceglierai la tua carriera. Perché non dovresti? Dopo tutta la fatica, dopo tutto quello che hai fatto in questi anni. E sai una cosa, non so come ma l’ho sempre saputo. Nella vita si hanno sempre presentimenti, e io me lo immaginavo che prima o poi David mi avrebbe distrutto la vita e che tu mi avresti lasciata. Anche Gipsy...» si interruppe notando lo sguardo di John. «Mi chiedevo» disse lui, «quando avresti messo anche questo nel conto.» All’inizio lei non capì. Ma poi le fu chiaro cosa voleva dire e impallidì. «John Eastley, tu hai già una cattiva opinione di me» disse, «e forse ne


hai motivo: non devi sposare una donna che credi capace di tradirti!» Raggiunse la porta inciampando tra i tavoli e le sedie. Una volta fuori, non si fermò neanche un secondo ma si affrettò verso l’ingresso del garage di fronte all’albergo. Mentre camminava, cercò nella borsa le chiavi della macchina. Che ne affittasse un’altra se gli serviva! Quando avviò il motore, non aveva idea di dove andare ma in ogni caso le era indifferente. L’importante era andarsene via da lì. Il più lontano possibile. Si infilò rapidamente nel traffico scorrevole, ripensando al suo bellissimo abito da sera, steso sul letto nella camera d’albergo. Oddio, quanto odiava quella città! Vide il cartello con la scritta EISENSTADT; il nome non le diceva niente, ma decise di andarci comunque.

5 Verso le nove giunse in un piccolo paese – non aveva idea di dove fosse – e sfoderando quel po’ di tedesco che ricordava dai tempi della scuola chiese a un uomo anziano, che camminava lungo quell’anonima strada, dove potesse trovare un albergo. «Un buon albergo» aggiunse. L’uomo osservò la grossa auto e il pesante bracciale d’oro che Gina indossava. Dal suo tedesco era chiaramente una straniera, e senza dubbio anche ricca. «Allora è meglio che vada a Rust» disse, «al Seehotel. È il migliore della zona!» «E come ci arrivo?» «Prosegua lungo questa strada. Dopo un po’ troverà l’indicazione.» E poi curioso aggiunse: «Viene dall’America?» «Sì.» «Da dove esattamente?» «Los Angeles.» «Ho uno zio in America. A Green Swallows. Lo conosce?» «No, mi dispiace.» Gina, che aveva capito che l’uomo aveva voglia di chiacchierare, si affrettò ad alzare il finestrino. «Molte grazie!» E proseguì. Destinazione Rust. Probabilmente si era spinta quasi al confine con l’Ungheria. Che zona isolata e deserta! Nonostante il buio riusciva ancora a intravedere la vasta pianura tutt’intorno. O si trovava già nella puszta, la steppa ungherese? Si affacciò alla sua mente l’immagine di un prato, circondato da un lago salato, e di un cavaliere solitario al galoppo, con una struggente musica zigana in sottofondo. E quell’immagine portò con sé tanta malinconia. Perché era finita proprio lì? È un posto da suicidio, pensò con un fremito. Trovò Rust e poi anche l’albergo piuttosto velocemente. Un grande edificio moderno con molti balconi chiusi con finestre e torrette. Lo


spiazzo adibito al parcheggio era tutto occupato, dovette lasciare l’auto altrove e fare un pezzo a piedi. Sperava ci fosse una camera ancora libera. Era stanca e infreddolita. Le temperature scendevano abbastanza di sera. Quando entrò nella hall, si chiese che senso avesse il fatto di trovarsi lì e anche che senso avesse la vita in generale. «Sì, abbiamo ancora una camera libera» disse la ragazza alla reception. «Mi dia pure le chiavi della sua auto, ci occuperemo noi dei bagagli.» Bagagli! Solo ora Gina si rese conto che non aveva portato nulla con sé. Fantastico. Che bella figura! «Non ne ho» dichiarò, «e non so neanche per quanto mi fermerò.» La ragazza la guardò con aria sospettosa. Gina tirò fuori dalla borsa i suoi documenti e le carte di credito, e posò il tutto sul bancone. «Ecco a lei. Così potrà constatare che non sono una ricercata. E ora per cortesia mi dia la chiave, sono molto stanca.» «Naturalmente. La stanza è la 217. Lì in fondo c’è l’ascensore.» Mentre saliva pensò se aveva fame, ma si rese conto che non avrebbe potuto mandare giù assolutamente niente. Lo stomaco vuoto era solo una sensazione. Aprì la porta 217 e accese la luce. La camera era piuttosto spartana, ma accogliente, con un letto matrimoniale, due poltrone, una cassettiera, un televisore, e un armadio a muro. In bagno c’erano dentifricio, shampoo, sapone, bagnoschiuma, batuffoli di cotone e salviettine multiuso. Buttò la borsa sul letto e uscì sul balcone. Tutt’intorno c’era la natura selvaggia; non la vedeva, ma la percepiva. Respirò a pieni polmoni la fresca aria autunnale, che presto sarebbe stata satura del profumo di foglie secche, bacche e nebbia. Morirò, pensò, gli occhi pieni di lacrime. Morirò. Rabbrividì per il freddo, e rientrò in camera. Indossava ancora la camicia blu leggera di John. Era impregnata del suo profumo, la costosa lozione da barba di Oscar de la Renta, che gli aveva regalato il Natale precedente. Sono sola. Terribilmente sola! Nella camera accanto, dei bambini stavano facendo il bagnetto; attraverso le pareti poteva sentire l’acqua schizzare, le risate, i gridolini allegri. Probabilmente avevano una paperella di gomma gialla con il becco rosso che facevano galleggiare sulla schiuma. D’un tratto un ricordo molto lontano riaffiorò nella sua memoria: il bagno rivestito in legno della nonna Loret, con la grande stufa di ferro sempre accesa e crepitante e la piccola finestra sopra la vecchia vasca che si reggeva ancora su quei quattro piedini pieni di svolazzi. La finestra dava sul bosco, e quando era aperta lasciava entrare il profumo di corteccia d’alberi e muschio. Alla piccola Gina piaceva fare il bagnetto con il suo adorato pesciolino di gomma rosso. Che strano, che quel ricordo le venisse in mente solo adesso, per tutti quegli anni lo aveva dimenticato. Dov’era finito? Non era più una bambina da tanti anni ormai! La dolcezza, e la spensieratezza non le appartenevano più già da un pezzo.


Si ricordò con orrore i lunghi giorni bui della sua giovinezza. Le sembravano offuscati da una coltre di nebbia – Saint Clare, zia Joyce, Charles Artany – la guardavano tutti come attraverso una parete grigia. E poi John era entrato nella sua vita e aveva riportato il calore. Come poteva andare avanti senza di lui? Aprì il frigobar, mise un paio di cubetti di ghiaccio in un bicchiere e vi versò dell’acqua minerale. Alla televisione trasmettevano un film, ma il suo tedesco era pessimo e non capiva quel che dicevano. Spense il televisore e si rannicchiò sul letto, le gambe strette al petto. Sentiva il bicchiere freddo in mano. Nella camera accanto i bambini andavano avanti a strillare divertiti. Dal corridoio giunse la risata di qualcuno che stava passando davanti alla sua porta. Non chiuderò occhio tutta la notte, pensò. Chiamò la reception e chiese qualche pillola per dormire. Poco dopo, un giovane gliene portò due. «Molte grazie.» Gli diede una mancia, ingoiò le pillole e andò in bagno per prepararsi per andare a letto. Non aveva nulla con sé per togliersi il trucco, così si pulì il viso semplicemente con acqua e sapone, si lavò i denti, si spogliò e scivolò sotto la coperta. Sperava che le pillole facessero effetto subito. Invece era sveglia, sveglissima, altro che! Come se avesse preso un eccitante e non delle pillole per dormire. Guardava il buio con occhi sbarrati. Le mancavano le mani di John che le accarezzavano dolcemente il corpo. Avevano dormito sempre l’una nelle braccia dell’altro, le spalle di lei contro la pancia di lui, il respiro di lui sul collo di lei. E poi quelle sue parole sussurrate nella notte: «Ti amo così tanto, Gina». Si accorse che aveva il viso bagnato di lacrime. Aveva fatto bene a seguire il suo primo impulso, ad andarsene via senza pensarci su due volte? Sì. Era l’unica cosa da fare. Se fosse rimasta, avrebbe cercato di indurre John a scegliere lei, e lui avrebbe vacillato, sarebbe stato come un filo d’erba in balia del vento, e il protrarsi del tormento avrebbe portato solo altro dolore. Lei aveva bisogno di chiarezza. Lui doveva sapere subito cosa significava stare senza di lei. Solo così avrebbe potuto prendere una decisione. Ma il rischio era tangibile. E lei era terrorizzata. Disperata prese a dondolarsi in avanti e indietro. Alla fine si addormentò poco dopo la mezzanotte, il cuscino stretto tra le braccia. Quando l’indomani Gina si svegliò, il paesaggio era ancora avvolto dalla nebbia. Attraverso la foschia bianca luccicava appena il canneto del lago di Neusiedl, e il cielo era punteggiato degli uccelli che vi si libravano trillando. Gina era alla finestra, un asciugamano avvolto intorno al corpo; alla luce fioca e smorta di quella mattina il dolore era, se possibile, ancora più forte. Guardandosi allo specchio aveva realizzato che aveva un aspetto orribile, era pallida e sembrava malaticcia. Nella sua borsa trovò una matita per gli occhi, un po’ di fard e un rossetto.


Riuscì a darsi una sistemata, cercando di non pensare agli eventi del giorno prima. Le serviva assolutamente della biancheria pulita, se decideva di rimanere lì più a lungo. La tentazione di prendere il telefono e comporre il numero dell’albergo Sacher di Vienna per parlare con John era sempre lì. «John, amore. Sono a Rust. In una landa desolata dimenticata da Dio, e non so neanche perché mi trovo qui. Voglio tornare da te. Non posso vivere senza di te.» Ma sapeva che non avrebbe avuto senso. Se lei avesse ceduto ora, forse si sarebbero riappacificati ma poi lui avrebbe subito ripreso a chiedersi se avesse fatto bene o no. Si morse le labbra e uscì dalla camera. Dopo la colazione si informò presso la reception su dove potesse fare alcuni acquisti. «Ci sono dei problemi con le mie valigie, e mi servono alcune cose per cambiarmi.» «Allora è meglio che vada a Eisenstadt.» Di nuovo quello sguardo curioso, indagatore. Ringraziò e si diresse alla macchina. La nebbia si era un po’ diradata nel frattempo, e nel cielo sgombro di nuvole splendeva un bel sole caldo estivo. Gina si sentì un po’ meglio, mentre si avvicinava a Eisenstadt. Il suo ottimismo cresceva con il calore del sole. Un amore come quello tra lei e John poteva finire così facilmente? Giunta in città, comprò come prima cosa della biancheria, e poi un paio di caldi pullover per le sere più fresche. Qualche maglietta, pantaloncini, sandali e un costume, una gonna nera aderente, una camicia di seta gialla, scarpe décolleté, collant e trucchi. Un paio di giorni poteva resistere. Era il 20 agosto 1983, il giorno in cui avrebbe dovuto aver luogo il suo matrimonio. Il 31 agosto 1983 John chiamò per la terza volta nello stesso giorno all’albergo Sacher di Vienna. «Notizie della signorina Loret?» «No, signor Eastley. Mi dispiace.» Riagganciò, esausto. Era nel suo studio di Los Angeles e si chiedeva dove potesse essere Gina. Ancora a Vienna? In un altro posto in Austria? In Germania, in Svizzera? O era tornata in Inghilterra? Cosa avrebbe dato per un’indicazione, un indizio! Lui stesso era partito l’indomani per Los Angeles con l’intenzione di parlare con i suoi amici di partito più stretti. Come aveva immaginato, i vaticini più cupi di Munroe erano fondati: senza mezzi termini gli fu detto che nel caso avesse sposato Gina Loret poteva dimenticarsi la candidatura a governatore alle elezioni successive. Clay Anderson, il migliore amico di John, gli aveva detto: «Nessuno lo dice con cattiveria, John. A tutti noi piace Gina. Ma questa cosa con la Quint è dannatamente spiacevole. Hai seguito quello che è successo la notte dopo il talk show di Carson? Gli spettatori hanno intasato le linee telefoniche dell’ABC. L’indignazione è salita alle stelle. Natalie Quint se n’è persino andata via dagli Stati Uniti. Pensa cosa succederebbe in campagna elettorale con


Gina al tuo fianco! Il partito non può rischiare!» «Capisco.» «John!» Clay lo aveva fissato a lungo. «Devi decidere se ne vale la pena; sacrificare Gina per la tua carriera politica. Io ti rimarrò amico comunque.» Sacrificare Gina... Ed ecco di nuovo le immagini che rivedeva ogni volta che pensava a lei: il giorno in cui l’aveva conosciuta; la bella donna dai capelli castani, lunghi fino alla vita che se ne andava in giro per Manhattan con i terribili quadri kitsch di un vecchio pittore, e che mangiava in quel piccolo caffè con l’aria affamata. In un’epoca in cui quasi tutte le donne si preoccupano della linea e si nutrono solo di insalata e cereali, era stato un piacere vederla mangiare qualunque cosa si trovasse sul tavolo con tutto quell’appetito. Aveva ripensato alla loro prima notte insieme. Si era accorta di come si aggrappava forte a lui? E tutte le notti seguenti, in cui si erano abbracciati lasciando fuori tutto ciò che di brutto, ostile e freddo c’era nel mondo. La rivedeva al mattino quando si svegliava, l’aria ancora assonnata. Avrebbe potuto continuare ad arrivare in ufficio fischiettando se lei non avesse più fatto colazione insieme a lui? Qualche volta lo guardava distratta, e lui la stuzzicava dicendole: «Agatha Christie, sei qui con me?» e lei, gli occhi scintillanti, diceva: «John, dopo quanto tempo agisce il cianuro?» «John ho comprato un abito da sogno, devi vederlo subito!» «John, ti amo da impazzire!» «John? Tutto bene?» Era Clay. John si era ricomposto. «Tutto okay. Ascoltami, Clay: io amo Gina. La amo più di ogni altra cosa al mondo. Se credete di non potermi candidare a governatore perché sposerò Gina, allora il problema è vostro perché perdete un buon candidato, ma io non per questo rinuncerò alla persona che è la vera linfa della mia vita. Gina è tutto per me, ma io, idiota che non sono altro, non l’ho capito subito.» «Sei sicuro, John?» «Assolutamente. E ora telefonerò al mondo intero perché da qualche parte deve pur essere andata.» Subito dopo il colloquio con Clay, John aveva chiamato a Vienna per sapere se Gina si era fatta viva. Nessuno sapeva niente. Fu assalito dall’agitazione: che l’avesse fatta finita? Ma poi si disse che lei era una donna forte, una combattente nata, non una che si toglie la vita. Alla fine smise di chiamare a Vienna; del resto, gli impiegati dell’albergo non potevano far saltare fuori Gina dal nulla. Rifletté per qualche attimo e dopo un altro paio di telefonate, stabilì un piano. Invece di partire per Seul a metà settembre, doveva partire subito, il prima possibile. Così sarebbe potuto tornare nel giro di tre o quattro giorni, e nel frattempo Gina sarebbe potuta ricomparire. Si sarebbero sposati e poi sarebbero partiti per il viaggio di nozze in Messico o in Brasile. O


dovunque Gina avesse voluto. Dopo qualche esitazione, alla fine i suoi interlocutori di Seul avevano accettato di anticipare gli incontri. Anche Brent Cooper, l’avvocato di New York, che doveva consultare prima, dette il suo consenso. Un posto per New York sul volo di mezzogiorno lo aveva già. Gli serviva solo un volo per l’indomani da New York a Seul. Telefonò al servizio informazioni. «Il prima possibile.» «Un attimo.» La ragazza all’altro capo del telefono armeggiò alla tastiera del suo computer. Poi giunse di nuovo la voce affaccendata. «È ancora lì? Avrei ancora un posto su un jumbo della Korean Airlines, con decollo da New York alle 9.00 e scalo ad Anchorage. Le andrebbe bene?» «Perfetto.» Andava tutto liscio. Telefonò ancora una volta al Sacher di Vienna. «Se la signorina Loret dovesse chiamare, potrebbe riferirle per cortesia che io sono già partito per Seul e che vorrei lei tornasse a Los Angeles. L’aspetterò lì al mio ritorno.» Dio, ti prego, dammi un’altra possibilità! Guardò l’ora. Non aveva molto tempo, doveva fare le valigie. Uscendo dall’ufficio, il suo sguardo si posò sulla fotografia in cornice di suo padre. Mi dispiace papà, pensò. Non sarà facile per te, ma neanche per me. Gina tornò da un’escursione sul lago. Aveva trascorso la giornata facendo il bagno e prendendo il sole. Adesso era stanca e affamata. Si diresse verso l’albergo nel caldo sole della sera. I suoi capelli profumavano dell’acqua del lago, e la sua pelle di olio abbronzante. Un paio di uomini le avevano rivolto la parola, ma lei aveva distolto lo sguardo. Si chiese se da fuori non si vedesse che lei si stava struggendo per la nostalgia di John. Giunta in albergo, ordinò un paio di sandwich in camera e bevve un bicchiere di vino. E poi prese il telefono e compose il numero dell’albergo Sacher di Vienna. «Sono Gina Loret. Il signor Eastley è ancora lì da voi?» All’altro capo del telefono, la voce sembrò terribilmente sollevata al sentirla. «Finalmente! Il signor Eastley ha telefonato già diverse volte! È tornato a Los Angeles una settimana fa e adesso sta andando in Corea. Ha chiesto di dirle...» Lesse il testo che John aveva dettato. «Grazie» rispose Gina, «molte grazie.» Andò in bagno e si guardò allo specchio. Dopo l’intera giornata in acqua, aveva preso un po’ di colore e appariva più in salute e più forte. «Mi aspetta a Los Angeles» disse ad alta voce, «ed è partito due settimane prima del previsto per Seul. Per tornare prima e stare con me?» Non voleva illudersi, ma suonava come se John avesse preso una decisione. «L’aspetterò a Los Angeles.» «E io tornerò a Los Angeles.» Si sentiva elettrizzata, era un’altra persona. Fuori la puszta era avvolta dal chiarore dorato del sole della sera. Nelle orecchie di Gina risuonarono i malinconici canti zigani, ma


non sentì lacrime scorrerle sul viso. Tirò fuori dall’armadio tutte le sue cose e le gettò sul letto, si precipitò in bagno per farsi una doccia e vestirsi, tornò in camera per prendere biancheria e calze e poi le venne in mente che non aveva una valigia. Non aveva neanche un biglietto aereo. Erano le sette. Stasera non sarebbe potuta partire.


1 settembre 1983

Il Boeing 747 della Korean Airlines fendeva rombando il cielo blu. Stava sorvolando il Pacifico, dopo esser ripartito da Anchorage circa sei ore prime. Le hostess avevano servito caffè, tè e biscotti e la maggior parte dei passeggeri sonnecchiava. L’aria condizionata era accesa e i passeggeri, sentendo un po’ fresco, avevano tirato fuori dalle cappelliere giacche e soprabiti, o avevano chiesto i plaid. Il tempo non passava mai. John aveva un posto vicino al finestrino, ma la cosa non aiutava un granché dal momento che tutt’intorno c’erano soltanto nuvole. Sul volo di New York aveva studiato ancora una volta il fascicolo del caso e si era scritto qualche altro appunto. Aveva ben chiaro come doveva affrontare la controparte coreana. Brent Cooper era rimasto meravigliato quando, durante la cena a New York, lui gli aveva spiegato la sua strategia. «Sei un giurista eccezionale, John» gli aveva detto, «e la gente comincia a notarlo. Sei brillante e acuto. Avrai uno splendido futuro. La faccenda OPEC e Corea è solo l’inizio. Un giorno diventerai l’avvocato più rinomato degli Stati Uniti.» «Non esagerare Brent.» «Non esagero. E, se continui così, succederà presto, vedrai.» Già. Perché no? si chiese. Sono un giurista. I miei professori mi hanno sempre detto che sono molto dotato. Perché non dovrei perseguire questa carriera? Il suo ottimismo lo ritemprò. La sensazione di liberazione, la stessa che aveva provato dopo il colloquio con Munroe a Vienna, era riaffiorata. Aveva sempre odiato dover pensare quale fosse la cosa più giusta da fare... Libertà. Lui e Gina avrebbero assaporato una libertà a lui ancora sconosciuta. Non avrebbe più dovuto preoccuparsi di piacere alla gente della California; e neanche delle sue chiacchiere. Oppure del suo cruccio più evidente degli ultimi anni: tingersi i capelli bianchi che cominciavano a intravedersi sulle tempie perché un politico deve apparire il più possibile giovane e dinamico, o lasciarli così perché gli davano un’aria più matura che magari infondeva più fiducia? Aveva chiesto a chiunque ma mai a se stesso, non soffermandosi mai su quello che lui pensava davvero del suo aspetto. Come mi vogliono gli altri, invece di come io voglio essere. Fin da ragazzo, suo padre gli aveva sempre ripetuto che per essere pronto a una grande carriera, avrebbe dovuto rinunciare a una parte


della sua libertà. E lui aveva dovuto accettarlo, anche se malvolentieri. Ma nel caso di Gina non avrebbe rinunciato solo a una parte della sua libertà: avrebbe dovuto rinunciare a tutto se stesso. Era un prezzo troppo alto. Pieno di intima e profonda felicità, aveva l’impressione di stare per iniziare una nuova vita. L’aereo esplose all’improvviso, senza neanche dare ai passeggeri il tempo di capire quel che stava accadendo. D’un tratto ci fu una luce abbagliante e uno scoppio assordante squarciò la quiete. I resti della fusoliera erano una palla di fuoco, i passeggeri già morti finirono in mare insieme a quelli che stavano per morire. «Obiettivo centrato» comunicò il pilota di un caccia intercettatore sovietico al controllo da terra. Poco più tardi, tutto il mondo urlò di dolore apprendendo la notizia della sciagura aerea da tutti i notiziari: il jumbo jet sudcoreano con 269 passeggeri a bordo, in volo da New York a Seul, era uscito dalla rotta violando di fatto lo spazio aereo sovietico. Quando i caccia avevano ricevuto l’ordine di abbattere l’aereo, stava sorvolando l’isola Sakhalin dove si trovava una delle aree militari più sensibili al mondo. Contro il jumbo erano stati lanciati due missili. Gli aerei e le navi vedetta giapponesi subito accorsi in quel tratto di mare alla ricerca dei sopravvissuti non ebbero alcun successo. I 269 passeggeri dell’aereo erano tutti morti.


LIBRO IV


New York, 29.12.1989

«Sì» disse Gina, «andò così. Un maledetto caccia intercettatore sovietico ha distrutto tutto.» L’ispettore Kelly la guardò attentamente. «È da allora che pensa che in realtà sia stato David Bellino a rovinare tutto? Che sia stato lui a mettere in moto la catena degli eventi che hanno portato John Eastley a sedere proprio quel giorno su quel sedile d’aereo? Lo ha odiato molto?» Nel frattempo era calata la notte. Un domestico aveva aggiunto altra legna nel camino, e i ciocchi crepitavano tra le fiamme che riflettevano una danza di ombre sulle pareti, poiché nella stanza era accesa la sola lampada colorata di Tiffany vicino alla porta. Nessuno aveva voluto mangiare niente; erano stati serviti solo un paio di cocktail e il maggiordomo aveva portato una ciotola di noccioline. Nonostante il dolce profumo di Natale nell’aria, nessuno riusciva a vincere un’intima sensazione di freddo. Fuori continuava a nevicare. Da qualche parte nell’appartamento, un orologio a pendolo suonò le undici. «Avrei potuto ucciderlo» fu la risposta di Gina alla domanda dell’ispettore Kelly. «Allora sì, avrei potuto. Se non fosse stato per lui, quell’1 settembre 1983 John non sarebbe salito su quell’aereo per Seul, e io non lo avrei perso senza sapere quale decisione avesse preso. Ma... santo cielo, David non lo ha ucciso materialmente. E non poteva immaginare cosa sarebbe successo.» Kelly annuì. I suoi occhi vagarono sui visi dei presenti. Natalie Quint sembrava chiusa in se stessa, quasi apatica. Se ne stava rannicchiata sul divano, lo sguardo perso nel camino. Era strabiliante come tutto quello che le stava accadendo intorno le fosse indifferente. Steve stava sgranocchiando una nocciolina dopo l’altra. Sembrava allo stremo delle forze, il nervosismo aveva ceduto alla stanchezza. Quest’uomo ha troppi problemi suoi, pensò Kelly, per preoccuparsi dell’assassinio di David Bellino. Il suo scopo era potergli spillare dei soldi, ma le cose non sono andate come si aspettava. Starà disperatamente pensando a un’altra strada. Quanto a Mary, Kelly notò che nelle ultime ore il suo atteggiamento era cambiato. Non appariva più intimorita: dai suoi occhi adesso traspariva una certa determinazione. Forse si sta preparando per affrontare al meglio il marito, al suo rientro, pensò Kelly. Gina andò di nuovo al bar e si versò un bicchierino di grappa. Ma


quanti ne aveva bevuti finora? Il ricordo di John Eastley l’aveva sconvolta, glielo si leggeva negli occhi stralunati. Laura si comportava in modo strano. Era stata piuttosto fredda e distaccata quasi per tutta la giornata, ora invece sembrava man mano più nervosa. Il rintocco dell’orologio a pendolo l’aveva fatta sussultare. Teneva le mani serrate l’una dentro l’altra. Che cosa la preoccupava così tanto? «Mi interesserebbe sapere» proseguì l’ispettore, «cosa stavate facendo quando avete ricevuto l’invito di David Bellino.» «Intende dire se eravamo seduti sul water quando il postino ha suonato alla porta o se stavamo facendo i nostri esercizi di ginnastica quotidiani?» chiese Gina con sarcasmo. Kelly non vi trovò nulla di divertente. «Naturalmente non così nel dettaglio» rispose spazientito. «Mi riferisco a quello che facevate nella vita. In quale condizione vi trovavate quando lo avete ricevuto. E ovviamente mi interessa sapere anche il motivo che vi ha spinti ad accettarlo.» Si guardò intorno. «Lady Artany, continuiamo con lei. Dopo la morte di John Eastley nel 1983, lei ha sposato il suo devoto corteggiatore Lord Charles Artany.» «Sì, nel 1984» dichiarò Gina, «a febbraio.» Chiesetta in pietra al limitare del parco. Maniero degli Artany, ettari ed ettari di terra intorno una casa padronale grigia con le pareti ricoperte di edera, stalle e boschi; il tutto immerso in un’atmosfera un po’ incantata, un po’ selvaggia – ma affogato nei debiti. «In realtà appartiene tutto alla banca» aveva confidato Gina a uno degli ospiti del matrimonio, una donna robusta vestita di seta. «Allora non fa un buon matrimonio con Charles!» Le immagini del matrimonio le scorsero davanti come delle ombre. Charles in frac scuro, che sprizzava felicità da tutti i pori, sempre alla ricerca della sua mano, dolce, timido, le guance rosse per l’imbarazzo. I parenti che dicevano commossi: «Alla fine il buon Charles ha trovato la donna della sua vita». Il pastore, che doveva avere almeno cent’anni, e che durante la cerimonia religiosa sputò per tutto il tempo e tossicchiò alla fine di ogni frase, e alla comunione per un pelo non fece cadere il calice d’argento. L’abito verde completato dai gioielli tempestati di smeraldi che conferiva a Gina un’aria più benestante di quanto non fosse in realtà. Gli abiti e i gioielli erano le uniche cose che le erano rimaste. Inizialmente non aveva capito quando Clay, l’amico di John, le aveva spiegato con delicatezza che John non aveva lasciato alcun testamento. «Tipico di John. La possibilità di morire non lo ha mai sfiorato. Se almeno vi foste sposati, avrebbe avuto diritto al suo patrimonio, ma così...» Lei lo aveva fissato, gli occhi straziati dal dolore, e aveva pensato: Crede che mi interessino i suoi soldi? «Per di più temo che la famiglia non le dimostrerà alcuna generosità»


aveva aggiunto Clay preoccupato. «Il vecchio Eastley ha infatti minacciato di trascinarla in tribunale se avanzerà qualunque pretesa.» «Che si tenga i suoi soldi. Non li voglio. Io volevo John, nient’altro.» «Mi occuperei del suo caso, Gina. Ma ho poche speranze.» «No» aveva detto di rimando in tono secco, «non litigo con la famiglia Eastley per i soldi di John.» Era riuscita a sentire soltanto dolore; nessuna preoccupazione per il suo futuro né amarezza per il fatto di non essere mai stata accettata dalla sua famiglia come la compagna di John. Non le interessava nessuna eredità. La sua tristezza era diventata la sua corazza. Tornata in Inghilterra aveva saputo che la zia Joyce era morta per una grave appendicite e zio Fred aveva venduto la casa e si trovava in una clinica per alcolisti. Quando era andata a fargli visita lì, si era trovata davanti un vecchietto abbattuto, malato, seduto in una stanza satura di muffa, con lo sguardo perso nel vuoto. «Gina, che bello» aveva biascicato. «Dove sei stata tutto questo tempo? Quand’è che siamo andati in un locale insieme l’ultima volta?» «Tanto tempo fa, zio Fred. Tanto tempo fa.» «Già... però ci siamo divertiti, vero? Era uno spasso uscire per andare a prendere una birra, vero?» aveva chiesto, gli occhi cupi accesi da un bagliore di speranza. Non ti sei mai fermato a una birra sola, pensò Gina, e non eri mai in grado di tornare a casa senza che qualcuno ti sorreggesse. Piangevi quando ti ubriacavi e poi vomitavi, ed ero fortunata se riuscivamo ad arrivare al bagno, il più delle volte vomitavi sulle scale. E poi le aveva detto con dolcezza: «Certo, zio, ci siamo divertiti.» «Dove sei stata tutto questo tempo?» aveva chiesto ancora, e senza aspettare una risposta aveva poi aggiunto: «Povera Joyce. Se n’è andata troppo presto». E aveva rivolto lo sguardo verso la piccola finestra con l’inferriata, che dava sullo squallido cortile interno, punteggiato di pozzanghere. I suoi occhi celesti erano lucidi per via delle lacrime. Con stupore, Gina aveva riconosciuto che lo zio doveva aver amato molto quella donna dalla mentalità antiquata e del tutto priva di senso dell’umorismo con cui aveva condiviso trent’anni della sua vita. E poi le era stato chiaro che dallo zio non avrebbe potuto aspettarsi alcun aiuto. Era stata una vana illusione pensare che lui avrebbe potuto darle qualche soldo per tirare avanti. Quello che aveva, serviva a lui, e probabilmente non era neanche abbastanza per arrivare al giorno in cui avrebbe chiuso gli occhi. Si era chinata verso di lui e gli aveva dato un bacio. «Torno presto a trovarti, zio Fred. E ti farò anche sapere appena possibile dove trovarmi per qualsiasi evenienza.» «Va bene» aveva detto lui, lo sguardo perso nel vuoto. Quando se n’era andata, lo aveva sentito bofonchiare qualcosa. Forse aveva già dimenticato che lei era stata lì. Charles Artany era l’unico a cui potesse rivolgersi in quel momento.


Non aveva soldi e nessun posto dove stare; aveva soltanto tre valigie di vestiti e gioielli, ma non aveva intenzione di vendere nulla che le avesse regalato John. Era rimasta con un pugno di mosche, il cuore spezzato, pietrificata dal dolore, incapace di rialzarsi e affrontare il resto che la vita aveva in serbo per lei. Quando quel giorno di febbraio freddo e spazzato dal vento, si era sposata con Charles in quella chiesetta nella tenuta degli Artany, si era chiesta, stupita e frastornata a un tempo, come fosse stato possibile arrivare a quel punto. Avrebbe voluto sposare John Eastley, e invece era diventata la moglie di un uomo che non amava. Il buono e fedele Charles! Probabilmente, alla fine aveva ceduto alle sue continue pressioni per convenienza. Le era stato vicino quando ne aveva avuto bisogno; si era preoccupato per lei; l’aveva accolta nella sua casa, e aveva dormito sul divano per lasciare a lei la sua camera da letto. Non aveva mai protestato quando Gina, nei momenti di depressione, si era rifugiata in bagno per ore senza rispondere al suo timido bussare alla porta. Va bene, oggi niente doccia, pensava lui, e se ne andava a fare le sue prove d’orchestra. Aveva smesso di opporre resistenza a Natale; triste e sola se n’era stata tutto il giorno in giro per St James Park sotto una pioggerellina che scioglieva pian piano il tappeto di neve, e poi, a sera, tutta infreddolita, era tornata a casa di Charles e si era seduta accanto al camino. Lui aveva fatto un piccolo albero di Natale con tanto di lucine e decorazioni, un disco suonava canti natalizi in sottofondo, e da ore se ne stava in cucina perché voleva stupirla con un menu di cinque portate. Più tardi, seduti a tavola a lume di candela l’una di fronte all’altro, rimestando la sua insalata di avocado, Gina aveva pensato con stanchezza: Ha preparato tutto questo e per di più in modo impeccabile... mi toccherà sposarlo. E a mezzanotte, quando per l’ennesima volta le aveva chiesto se voleva diventare sua moglie, lei gli aveva risposto di «sì» ed era scoppiata in lacrime. Il matrimonio era stato un incubo, ma ancora peggio era stata la sera, quando erano rimasti soli dopo che tutti gli ospiti se n’erano andati. Gina aveva subito detestato la camera da letto: una stanza poco accogliente, dai soffitti alti, piena di spifferi, con al centro un letto alto alla francese con un baldacchino in seta. Ma ancora di più aveva detestato l’idea di dormire insieme a Charles. Aveva avuto solo John, e non voleva avere altri uomini. Le notti insieme a John erano ancora vivide nella sua memoria; non doveva lasciare che qualcosa distruggesse quel ricordo. Quando Charles le si era steso accanto e aveva allungato timidamente la mano verso il suo corpo, lei aveva sussultato e aveva detto con voce soffocata: «Io... non mi sento bene. Forse mi sono presa un raffreddore». E Charles aveva reagito subito con apprensione. «Il tuo abito era troppo leggero per un giorno così freddo. Avrei dovuto immaginarlo. E poi i camini non riscaldano molto.» «Ho temuto di congelare per tutto il tempo...» Via quelle mani! O mi metto a urlare!


«Perché non hai detto niente? Poveretta! Stai male?» «Ho bisogno di dormire un po’. Mi farà sicuramente bene.» Si era rincantucciata al bordo del letto e aveva aspettato, le orecchie tese, finché Charles non aveva cominciato a russare lievemente. Solo allora si era rilassata, e poiché era stata una giornata estenuante, alla fine era riuscita a addormentarsi. L’indomani Charles si era alzato di buon mattino ed era uscito con Lord – l’unica eredità di John che Gina aveva portato con sé da Los Angeles – nei freddi campi avvolti dalla bruma. Adorava talmente tanto la sua terra che non gli dava alcun fastidio camminare sulla neve mista a fango sotto quella coltre di nebbiolina umida. Gina aveva aspettato che se ne fosse andato, prima di alzarsi; poi in accappatoio era scesa in cucina dove era già stato acceso il fuoco nella stufa. Viola, la governante, aveva posato un bicchiere di cioccolata calda sul tavolo. «Lord Artany ha detto che si è raffreddata. Beva questo. Le farà bene.» «Grazie.» Gina ne aveva bevuto un sorso. Era squisita. D’un tratto, era scoppiato un forte temporale che scuoteva con violenza le finestre mentre il vento ululava nella canna fumaria del camino. «Le temperature si abbasseranno ancora» aveva profetizzato Viola con malinconia, «magari si sta preparando una tempesta. Qui c’è sempre un tale tempaccio...» e poi aveva aggiunto: «Ha scelto un posto non propriamente caldo. E per di più questa casa cade a pezzi». «Lo so. La tenuta è anche afflitta dai debiti, vero?» «Afflitta dai debiti è un eufemismo. È schiacciata dai debiti. Arriveranno tempi duri.» «Di cosa viveva con Lord Artany?» chiese l’ispettore Kelly. «Lui aveva già lasciato il lavoro nell’orchestra di Londra?» «Sì. Per quel motivo ne aveva trovato uno a Edimburgo. Molto mal pagato però. Io invece cercavo di vendere i miei racconti gialli, ma ci riuscivo saltuariamente e quando accadeva neanch’io guadagnavo un granché. In ogni caso, non abbastanza per mantenere quella dannata sterminata tenuta. Soldi, soldi, soldi; non parlavamo d’altro. Ma forse era un bene, perché non avremmo avuto altri argomenti e così almeno ci risparmiavamo la recita della coppietta felice.» «Non ha mai amato Lord Artany?» Gina si scostò indietro i capelli. «No, non l’ho mai amato. Ma lo rispetto profondamente. È davvero una brava persona.» Kelly annuì. «Allora era una donna piuttosto infelice?» «Molto infelice, e non fui di grande aiuto per il povero Charles. In particolare neanche quando ebbe la sciagurata idea di affittare la casa come una sorta di albergo.» «La cosa la disturbò?» «Mi ha dato sui nervi! Un’orda di spacconi ingordi, pieni di soldi sempre tra i piedi. Una massa di americani che trovavano bello trascorrere le vacanze in un’autentica vecchia casa padronale inglese.


Neanche la pioggia era capace di cacciarli via. Entravano e uscivano disinvolti da ogni camera e non la smettevano di fare domande. Io e Charles ci eravamo trasferiti in un’ala laterale della casa, che quantomeno aveva il vantaggio di avere camere più piccole che quindi si potevano riscaldare meglio. Ma Charles voleva che tutte le sere partecipassimo alla cena nella sala grande insieme agli ospiti, che gradivano anch’essi la cosa, e forse era anche giusto così, ma io lo detestavo. La maggior parte delle volte, non ho voluto accompagnarlo e lui ci è dovuto andare da solo.» «E ciononostante Lord Artany ha continuato ad amarla?» «Credo che nessuno mi abbia mai amato di più» rispose Gina. Kelly annuì. Per un paio di secondi nella stanza calò un silenzio assoluto. Tutti gli sguardi erano rivolti verso Gina, bellissima, appoggiata al bar, un velo di tristezza negli occhi. Il silenzio fu poi spezzato da Natalie che, riscossa dai suoi pensieri, disse con voce allegra e squillante: «Sapete cosa ci lega tutti quanti? Un sentimento di profonda, intima solitudine. Abbiamo avuto tutti una infanzia infelice». «E tanta sfortuna nella vita» aggiunse Steve. «Sbagliato» replicò Gina, «non è stata sfortuna. Siamo tutti inciampati in David.» «Quando si inciampa, di solito ci si rialza.» Natalie si accese una sigaretta e gettò il fiammifero non spento nel camino. «Solo che ci è sembrato più facile lamentarci.» «Cosa avrei dovuto fare io, per esempio?» chiese Gina in tono aggressivo. «Buttarmi nel Pacifico per scoprire se John era sopravvissuto?» «Naturalmente no. Ma credo che noi tutti abbiamo fatto un errore: cerchiamo sempre qualcuno a cui dare la colpa. Chi è il colpevole? A chi dobbiamo le nostre sventure? Insomma qualcuno con cui prendercela. Forse, per una volta dovremmo parlare più di noi.» «David ha...» attaccò Gina, ma Natalie la interruppe subito: «David non ha ucciso John, lo hai ammesso anche tu. Lo sai, quando hai detto che senza lo zampino di David, John non sarebbe mai salito su quell’aereo proprio quel giorno, ho pensato a un famoso romanzo di Thornton Wilder Il ponte di San Luis Rey. Un ponte crolla, e cinque persone, che non hanno nulla a che fare l’una con l’altra e che si trovano per caso in quello stesso momento sul ponte, muoiono. Scavando nelle loro vite, si capisce chiaramente perché dovessero morire tutti e cinque quel giorno e in quel preciso istante su quel ponte. Nel romanzo la parola più ricorrente è la colpa, perché nella vita dei cinque, c’è sempre qualcuno che li accusa di qualcosa, che crede che ciascuno di loro sia morto per qualcosa che ha detto o fatto, come se dovessero morire per colpa della loro condotta. Ma la conclusione del libro lascia intendere che la domanda non è di chi è la colpa. Le domande possiamo porle solo al destino, e probabilmente non riceveremmo alcuna risposta. No, anzi, sicuramente. Dobbiamo farcene una ragione. Anche tu Gina.»


Gina rimase in silenzio, ma Natalie lesse nei suoi occhi che aveva capito, che lo aveva capito già da tempo ma che, ciononostante, non avrebbe saputo dire perché tutto quel dolore non accennava a sopirsi. «Gina» proseguì Natalie, «si è rifugiata in un matrimonio e si è convinta che David abbia la colpa di tutto; è la soluzione più comoda quando uno non vuole vedere i propri errori. Proprio come abbiamo fatto tutti noi. Prendete me: invece di andare in una clinica per disintossicarmi, sono passata da un terapeuta all’altro, mi son fatta prescrivere dosi sempre più alte di farmaci e per questo ho odiato David con tutta me stessa. E Steve? Appena uscito di prigione, ruba dei soldi in grande stile, perché crede di non avere altra possibilità, e chi è il responsabile di tutto? Non lui, ma David. E Mary: se penso a come vive in quello squallido appartamento e a come si lascia maltrattare da quell’uomo! E lei cosa fa? Abbassa la testa, sopporta e si ripete che è la sua punizione per un errore che ha commesso a diciassette anni, che se vai indietro a guardare è stato causato da David. Capite cosa voglio dire? In un modo o nell’altro, tutti ci siamo rifiutati di prenderci le nostre responsabilità, e ci siamo accaniti contro un nemico immaginario, dietro al quale ci siamo nascosti per non affrontare la vita.» «È stata molto chiara, signorina Quint» osservò Kelly. «Dico solo la verità. Su tutti noi.» «Non su tutti.» D’un tratto Kelly sembrava molto attento e minuzioso. «Non ha parlato di David.» «Eccome, se ne ho parlato! Lui è il fulcro di tutto. Io...» «Non si è preoccupata neanche per un secondo di guardarlo da dentro. Ha scandagliato la sua anima e quella degli altri – e con quale accuratezza! – ma non si è mai chiesta come fosse la vita interiore di David Bellino. Non lo ha mai fatto. E men che meno lo hanno fatto i suoi amici.» Mary sgranò gli occhi. Gina abbassò il bicchiere che si stava portando alla bocca. L’ispettore Kelly ignorò lo stupore generale. «Avete frequentato tutti lo stesso collegio. Avete trascorso tanto tempo insieme. Vi scambiavate opinioni, idee, avete fatto vacanze insieme. Eravate in confidenza, e dicevate di essere amici. Tuttavia, nessuno di voi ha mai tentato di comprendere David Bellino.» «Adesso però è ingiusto» replicò Natalie, pungente. «La maggior parte delle cose le abbiamo sapute solo più tardi – troppo tardi. Prima di quella sera a Crantock, David non mi aveva mai parlato dei suoi problemi, non ne avevo idea. Al Saint Clare non sembrava uno in difficoltà. Non faceva che vantarsi dei milioni che avrebbe avuto un giorno; come potevamo renderci conto che cercava la nostra amicizia?» «Ma forse vantarsi era un modo per elemosinare la vostra simpatia. Comunque sia andata, non voglio che mi fraintendiate: non giudico le vostre azioni, anzi penso persino che il vostro sia stato un comportamento piuttosto normale. I ragazzi non sono particolarmente


sensibili, e voi non avete fatto eccezione. Ma, adesso che siamo tutti qui riuniti e ci sforziamo di considerare il tutto nel modo più obiettivo possibile, non possiamo trascurare questo aspetto della questione. Nessuno di voi ha mai cercato di capire questo giovane uomo – di scoprire quale peso lo opprimeva, cosa lo aveva portato a diventare la persona difficile che era, cosa lo aveva gettato nello sconforto in cui viveva.» Nessuno disse una parola. L’ispettore Kelly attese qualche secondo e poi proseguì, asciutto: «Ma dove eravamo rimasti? Signorina Quint, cosa stava facendo quando ha ricevuto l’invito di David Bellino? Era a Parigi?» «Sì, io...» Natalie scosse il capo come se volesse scrollarsi di dosso i pensieri che la angustiavano; le costava molta fatica concentrarsi per formulare una risposta sensata alla domanda dell’ispettore. «Sì. Stavo tornando da una seduta con il terapeuta. In taxi. Di solito non prendo la metropolitana a causa della mia fobia, e quel giorno ero particolarmente depressa...» Il terapeuta di Natalie riceveva nella sua casa in Avenue de Montaigne. Finita la seduta, quando uscì in strada, per poco non inciampò in un senza tetto, un uomo molto anziano, dal viso rugoso, che se ne stava accovacciato sul marciapiede. Le si aggrappò all’orlo del cappotto, e la strattonò per costringerla a fermarsi. Lei andò subito nel panico e cominciò a urlare istericamente. Un paio di passanti si fermarono e da qualche parte qualcuno aprì una finestra. All’uomo mancavano entrambi i canini superiori; quello che rivolse alla donna sconvolta fu il suo sorriso sdentato. «Mi lasci!» gridò. «Mi lasci subito!» Lui la lasciò andare, e lei proseguì quasi correndo; riprese a respirare solo quando si sedette nel taxi. Si fece portare al negozio di Chanel dove ritirò un tailleur nero e bianco che aveva provato una settimana prima, ma che necessitava di alcune modifiche. Le fu chiesto se voleva provarlo di nuovo, ma lei rispose di no. Meglio affrettarsi. Guai se proprio quel giorno fosse andato tutto storto. Aveva un appuntamento per cena con Isabelle Adjani, per un colloquio preliminare prima dell’intervista televisiva che le aveva concesso. Doveva essere in forma. Bella sveglia e concentrata. Se avesse pensato solo a come fuggire dal ristorante, non avrebbe sentito una parola di quel che la Adjani le avrebbe detto. Una volta a casa, trovò due lettere nella cassetta della posta. Una era dell’agenzia di Isabelle Adjani, e le comunicava, scusandosi, che la signora non era in condizione di fare l’intervista. Le rincresceva molto ma sperava che Natalie comprendesse la situazione. La seconda recava un francobollo di New York. Natalie pensò subito che il mittente potesse essere un amico dei tempi dell’America, e sfilò l’invito dalla busta. «David crede sul serio che io accetti un suo invito?» Claudine tornò a casa nel tardo pomeriggio, dopo aver fatto visita alla


sua famiglia. Per qualche motivo, i suoi genitori e i suoi innumerevoli zii e zie dovevano credere che lei morisse di fame, perché ogni volta che passava un po’ di tempo con qualcuno di loro, tornava nell’elegante appartamento in Avenue Foch carica di montagne di cibo. Naturalmente tutte cose deliziose. Dispose tutto quel bendidio sul tavolo in soggiorno davanti a Natalie. «Tarte aux six légumes , paté de Madame Bourgeois, poulet de Bresse, gamberoni alla griglia e salsa tartara... e ho comprato anche una baguette appena sfornata.» Claudine era raggiante. «Nel frigorifero c’è ancora una bottiglia di champagne. Sai una cosa? Adesso preparo un bel buffet a cinque stelle, solo per noi due!» Si interruppe. «Oh no, stasera hai la cena con la Adjani!» «Sbagliato» disse Natalie, fiacca. «La signora ha disdetto.» «Cosa? Che carogna! Proprio nel suo stile. Amore, mi dispiace. Immagino la tua delusione.» «Non fa niente, Claudine. Cosa ne diresti se accettassi un invito da parte di David Bellino, un invito ad andare a New York?» «David Bellino? Non volevi rivederlo più!» «Già. Ma c’è qualcosa in questo invito... non so dirti cosa... tra l’altro ci vanno anche tutti gli altri.» «Chi?» «I miei amici di allora. Steve, Mary e Gina, o almeno stando a quello che dice lui. Per qualche ragione, David ci vuole tutti a New York, e io voglio scoprire qual è questa ragione.» «Credi che sia saggio? Non pensi che metterebbe di nuovo tutto sottosopra? Finora sei sempre rimasta irremovibilmente ferma nel tuo proposito di non vederlo mai più!» «Non volevo nessun chiarimento. Non volevo ascoltare le spiegazioni e le giustificazioni per il suo comportamento di allora. Ma non potrà farlo in questa occasione, con tutti gli altri intorno...» «Natalie!» esclamò Claudine con tono allarmato. Natalie si alzò, andò alla finestra e guardò fuori nella sera di novembre. «Claudine non so perché, ma andrò a New York.» «Davvero non aveva nessun motivo?» chiese Kelly. Natalie lo guardò. «Non saprei dirle perché sono venuta, ispettore.» Per un attimo, ricambiò il suo sguardo altrettanto apertamente, poi annuì. «Capisco. Posso immaginarlo. È stata spinta da una sensazione... l’esatto contrario del signor Steve Marlowe.» Di colpo, aveva cambiato interlocutore. Steve sobbalzò. «Come fa a dirlo?» «Supposizioni. Non è stato per lo stesso motivo che lei, sotto gli occhi di due testimoni, ha fatto visita a Mary Gordon la notte dell’omicidio? Non cercava un complice che lo aiutasse a ottenere quello che voleva dal signor Bellino? Cosa gli avrebbe detto? ‘Mi hai rovinato la vita, e adesso è giunto il momento della resa dei conti: mi spettano diecimila dollari?


O centomila dollari?’ Lei è venuto per chiedere denaro, signor Marlowe, di questo ne sono certo.» Steve era impallidito, ma per la prima volta da tempo, il suo viso aveva un qualcosa di dignitoso. «Sì, mi trovo in una condizione piuttosto disperata. Come sa, sono stato due volte in prigione, e rischiavo di perdere il lavoro come cassiere in un parcheggio di Londra, che avevo trovato dopo il mio rilascio. Vivevo in subaffitto in un buco di stanza, e ogni giorno non sapevo se l’indomani avrei avuto ancora il lavoro. Ha idea di cosa significhi vivere così?» Vagò con lo sguardo sui volti degli amici disposti in cerchio intorno a lui, e poi disse con veemenza: «Lei sta cercando un movente per l’omicidio di David Bellino? Be’, le dirò una cosa, ognuno di noi ne avrebbe avuto uno. E le dirò anche un’altra cosa: tutti in questa stanza hanno pensato almeno una volta che sarebbe stato bello piantargli un proiettile in testa. Lo abbiamo odiato tutti». Quelle parole suscitarono emozioni contrastanti nei presenti. Rabbia, dolore, disappunto. Come per fuggire a una pressione interna, Natalie si alzò, il respiro affannoso. «Adesso basta. Siamo chiusi qui dentro da ore. Ho bisogno di uscire, prendere una boccata d’aria, sentire il profumo della neve e ammirare le stelle in questa gelida notte...» Pensò d’istinto alla casa di suo padre in inverno, la brina sul prato, e il fuoco scoppiettante in tutti i camini. Fu pervasa dal desiderio prepotente di tornare indietro nel tempo e di essere di nuovo quella bambina che si sentiva protetta sotto il tetto dell’enorme, vecchia casa e cullata dalla sua sicurezza e dal suo calore. Se solo fosse riuscita a liberarsi di tutti i dolorosi ricordi di quel che era avvenuto da allora... se solo fosse riuscita a non fuggire più dalle sue paure! «Ammirerà le stelle e sentirà il profumo della neve solo dopo aver contribuito a chiarire un omicidio» disse l’ispettore in tono brusco. «Voglio sapere chi ha sulla coscienza la morte di David Bellino, a costo di stare qui tutto l’anno!» «Che divertimento» mormorò Gina. «Signora Gordon» chiese l’ispettore rivolgendosi a Mary, «suppongo che suo marito non abbia preso molto bene la notizia del suo viaggio a New York, giusto?» «Sì. Non solo non l’ha presa bene, era furibondo. Ha perso la testa. Mi ha minacciata...» «E perché è partita comunque? Di solito obbedisce a tutti i suoi ordini. Cosa l’ha spinta a imporsi questa volta? Lo stesso fine del signor Marlowe? Anche lei voleva denaro?» Mary divenne paonazza. «No! Non volevo denaro. Mai. L’ho detto anche a Steve, quando mi ha proposto di andare da David insieme per chiederglielo. Non ho mai elemosinato denaro in vita mia.» «Perché è venuta allora?» Mary teneva stretta tra le mani la borsetta che portava sempre con sé. «Lei sa com’è la mia vita matrimoniale? Sì, certo che lo sa, ma non credo che possa immaginarla davvero. La cosa peggiore non è il fatto


che Peter mi tradisca, torni a casa sempre ubriaco, mi insulti e non gli vada mai bene niente. La cosa peggiore è lo squallore in cui vivo. Quell’orrendo appartamento. Quando sento un ennesimo treno passare, mi viene voglia di urlare. Per non parlare delle bestemmie, le grida, gli insulti perenni provenienti dagli altri appartamenti. E mai un raggio di sole, mi capisce? Vedo mia figlia giocare tra i bidoni della spazzatura; sta anche iniziando a parlare come gli altri ragazzini di strada del quartiere. Quando ho ricevuto la lettera di David, ho pensato solo che potesse essere una buona occasione per fuggire da tutto questo per un po’. Me ne volevo andare via, via!» Ricordò la terribile mattina in cui era andata in una boutique elegante con l’intenzione di comprare qualche vestito per il viaggio. Aveva saccheggiato il suo conto – quel po’ di soldi che aveva racimolato facendo le pulizie e la baby-sitter – e aveva per giunta chiesto un prestito, che l’impiegato di banca, lo sguardo tirato, le aveva concesso a fatica. Nonostante il freddo clima autunnale, la pioggia e la foschia, era andata di slancio al negozio, peccato però che tutto il coraggio le era venuto meno non appena aveva visto andarle incontro la commessa: una donna di quasi quaranta anni, perfettamente alla moda con indosso un pullover in mohair rosa, una gonna nera aderente e un trionfo di strass intorno al collo, ai polsi e alle dita. Il tutto completato da uno spesso strato di trucco, e da una lucida chioma tendente al viola. «Desidera?» le aveva subito chiesto. L’aria di sufficienza con cui la commessa la osservava era evidente. In uno dei tanti alti specchi che le stavano intorno nella sala, aveva potuto cogliere la sua immagine: faceva davvero una misera figura accanto all’altra donna. Il suo pallore le faceva risaltare le imperfezioni e le efelidi sul viso, e probabilmente si era mangiata tutto il rossetto già durante il colloquio nervoso con l’impiegato di banca. E che dire del cappotto stravecchio che indossava... sarebbe voluta scomparire. «Desidera?» aveva ripetuto la commessa. «Io... io...» Mary aveva fatto appello a tutto il coraggio che le era rimasto, «sto cercando un abito adatto a una lieta occasione, tipo una festa. Una cena importante...» si interruppe. «Ha già pensato a qualcosa?» «Magari qualcosa di nero?» «Abbiamo un abito molto bello color verde muschio. Dovrebbe andare bene col colore dei suoi capelli. Lo provi.» L’aveva accompagnata in un camerino e aveva preso il suo cappotto con la punta delle dita. Il camerino era illuminato da un lampadario di cristallo e in sottofondo si sentiva una musica soft. Mary aveva cominciato a spogliarsi, e ovviamente, la commessa aveva tirato la tenda per chiedere se avesse bisogno di aiuto, nell’istante esatto in cui lei indossava le sole mutandine non proprio presentabili. La commessa perfetta non aveva neanche fatto finta di nascondere il suo orrore. «Le serviranno anche delle scarpe da


abbinarci» si era affrettata a dire. E come per magia aveva tirato fuori dal cilindro un paio di scarpe décolleté con tacco alto, rivestite in velluto verde muschio. «E le calze giuste.» Erano velatissime con fini applicazioni in strass alla caviglia. «Ecco, adesso non le manca nulla.» Sembrava che l’abito le fosse stato cucito addosso, esaltava magnificamente la sua esile figura. E le scarpe... non aveva mai posseduto nulla di più elegante. Solo alla fine aveva pensato di chiedere quanto costava il tutto, e le era venuto un colpo nel sentire la cifra. Se avesse speso quella somma, sarebbe rimasta senza soldi, e le servivano ancora un cappotto e un paio di stivali invernali. A New York sarebbe nevicato di certo... ma se avesse detto che non aveva abbastanza soldi, sarebbe caduta definitivamente in basso, e poteva già immaginare l’occhiataccia che le avrebbe rivolto la commessa. No, non poteva subire una tale umiliazione. Aveva pagato con le lacrime agli occhi, e quando era uscita dal negozio con un meraviglioso sacchetto appeso al braccio, quelle lacrime erano diventate un fiume in piena che le aveva annebbiato la vista. Odiava quell’abito, odiava le scarpe. Odiava quel viaggio per andare da David, non apparteneva a quel mondo. Ma al contempo sapeva che sarebbe impazzita se fosse rimasta ancora in quell’appartamento. Era entrata con passo incerto in un caffè, si era accasciata su una sedia e aveva ordinato una tazza di tè. Le cose devono cambiare, aveva pensato disperata. Devono assolutamente cambiare. «È cambiato qualcosa?» chiese Kelly con delicatezza. Mary lo guardò fisso. «Sì» disse con calma. Il suo tono attirò l’attenzione di tutti. Steve si voltò verso di lei. Per un attimo tutti si guardarono. «Dunque, riassumiamo» disse l’ispettore. «Deciso a prendersi una sorta di risarcimento danni per gli anni passati al fresco, Steve Marlowe viene da David Bellino con l’intenzione di chiedergli denaro. Mary Gordon vola a New York perché vede in questo viaggio l’occasione per fuggire da suo marito e dallo squallore della sua esistenza. Teme la ricchezza di David Bellino, soprattutto l’ambiente lussuoso in cui vive, ma la sua situazione è diventata talmente intollerabile che farebbe qualunque cosa per un paio di giorni di libertà. «La signorina Quint, ancora oggi, non sa perché accetta di rivedere il tanto odiato David. C’è qualcosa nel suo invito che stimola la sua curiosità, forse la tipica curiosità dei giornalisti. Esserci a tutti i costi. A quanto pare, ne è valsa la pena.» «Mi pare» interloquì Natalie, «ci sia differenza tra vivere un omicidio con il distacco di un giornalista ed essere considerati uno dei sospettati. In qualità di giornalista potrei andarmene quando voglio.» Lanciò un’occhiata ostile all’ispettore, e aggiunse: «Ha dimenticato Gina!» «Gina non ha ancora rivelato il suo motivo» rispose l’ispettore, «ma è chiaro. Suppongo che sia lo stesso di Steve Marlowe, denaro.»


«Indovinato.» Gina si appoggiò al bar con le gambe incrociate. «Abbiamo l’acqua alla gola. Avete sentito del colossale fallimento di Charles? Un anno e mezzo fa ha investito tutti i suoi soldi – e purtroppo anche una parte di capitale che non gli appartiene – in un bruttissimo musical americano. Un suo amico ha composto la musica, e il buono e ingenuo Charles gli ha creduto quando quello gli ha assicurato che sarebbe stato un successone, e che Webber sarebbe rimasto di stucco. Ma è stato un disastro. Risultato: Charles è sommerso dai debiti. La tenuta è sotto ipoteca ormai, e i creditori ci sbattono la porta in faccia. Charles se ne sta con le mani in mano senza sapere cosa fare, e mi guarda come un bambino in attesa che qualcuno lo aiuti. Soffre come un cane. Per conto mio, non avrei chiesto a David neanche un centesimo, ma per Charles ho deciso che dovevo fare qualcosa. Vorrei vedere quel poveretto sorridere di nuovo.» «Ma non ha detto che non lo ama?» «Già, e non lo amerò mai. Ma l’ho sposato. Conosce la frase di SaintExupéry che dice, più o meno: nella vita si è sempre responsabili di ciò che si conosce? Così è con Charles. È come un bambino che si aggrappa a me, e io non posso fare altro che portarlo con me e preoccuparmi per lui. Che lo voglia o no.» Tacque, e Kelly pensò, è una donna forte, egoista e possessiva, ma leale e coraggiosa. Sarà sempre al fianco di Charles; non lo renderà felice, certo, ma lo terrà a galla lo stesso, per quanto la cosa non le faccia piacere. «Lo sa che il suo colloquio con David Bellino la notte dell’omicidio fa aumentare i sospetti su di lei?» chiese. Gina fece cenno di sì col capo. «Sì, temo di essere stata nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Per un attimo Kelly sembrò assorto nei suoi pensieri, come se avesse avuto una intuizione. Poi si voltò, d’un tratto sveglio, aggressivo. Il suo sguardo si posò su Laura. «E adesso passiamo alla mia sospettata numero uno, la signorina Laura Hart! Io credo che lei non sia così estranea ai fatti della scorsa notte come vuole farci credere. Vuole raccontarmi la verità?» L’attacco era stato sferrato così all’improvviso che tutti gli altri erano rimasti a bocca aperta. Alla fine Laura si riebbe e ribatté: «Come fa a dirlo?» «Ebbene, devo dire che inizialmente il racconto della sua aggressione in soggiorno è stato piuttosto convincente. Ma io non credo che le cose siano andate realmente così.» «Allora?» chiese, cercando di tenere ferme le mani mentre aveva gli occhi di tutti puntati su di lei. «Che idea si è fatto allora, signor Kelly?» «Lei è cresciuta nel Bronx, signorina Hart. E lì è sicuramente entrata in contatto con gente poco raccomandabile, lo ammetta.» «Ah, ecco! Stavo cominciando a chiedermi quando avrebbe tirato fuori


il mio passato. Io sono l’assassina ideale, ovviamente. Deve essere stata per forza la ragazza del Bronx.» «Non sto dicendo che sia stata lei a sparare a David Bellino» puntualizzò Kelly, «credo solo che lei sia complice dei ladri.» Mary si portò una mano alla bocca aperta. Gina sorrise. Anche lei aveva pensato subito la stessa cosa. «Non mi interessa nulla di quello che crede lei, ispettore.» «Se parla chiaro può solo migliorare la sua posizione.» «Che cosa dovrei dire?» Kelly la guardò come un padre. «Signorina Hart, la sto osservando da un bel po’. Sembra sempre più nervosa. Batte i piedi per terra, continua ad agitarsi sulla sedia; si capisce che vuole andarsene via. Perché? Dove? Da chi? Dai suoi amici?» «Io non ho amici!» «Signorina Hart, non la bevo la storia della presunta aggressione. Mi sembra... troppo banale. Le assicuro che scopriremo come sono andate davvero le cose, e allora la sua posizione sarà molto più precaria di quanto non sarebbe se mi dicesse la verità.» «Io non ho nulla da dirle.» Kelly sospirò. «Va bene. Allora faremo diversamente. Finora abbiamo ricostruito le vite di tutti gli altri. L’unica di cui non sappiamo ancora niente, è lei, signorina Hart. Vorrei sentire anche la sua storia.» «La versione lunga o quella breve? Come la preferisce? E da dove dovrei cominciare?» gli chiese in tono insolente. «Da dove vuole» rispose Kelly ignorando il suo atteggiamento. «Prima di tutto vorrei capire com’era il suo rapporto con il defunto David Bellino, che non mi è ancora chiaro, e suppongo che per questo dobbiamo fare un piccolo salto nel passato.» «Nella mia infanzia da favola? Posso solo dirle che se le piacciono i racconti dell’orrore, allora sta per ascoltarne uno. Non credo che possa interessare a nessuno, ma se insiste l’accontento. Vivevamo in quattro mura sopravvissute a un incendio, mamma, papà, mia sorella June e io. Senza luce e riscaldamento...»


Laura

1 «Mami! Mamiiii!» L’urlo squarciò la quiete della notte. Laura si svegliò di soprassalto, il cuore che le martellava nel petto e la camicia da notte bagnata di sudore. Era stata lei a urlare? Si mise in ascolto nel buio sperando di sentire il respiro di sua sorella June. La casa era immersa in un silenzio totale. Quando i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, si accorse che il letto di June era vuoto. Succedeva da circa sei mesi. La ragazzina di tredici anni tornava a casa raramente. Laura, di due anni più giovane, le aveva chiesto dove andasse, ma June le aveva risposto ridendo: «Sei ancora troppo piccola per saperlo, Baby!» June la chiamava spesso «Baby», ma non per sminuirla bensì per coccolarla, era un vezzeggiativo. June le faceva da madre. Prima, quando Laura si svegliava di notte dopo un brutto sogno, scendeva dal suo letto e a piedi nudi attraversava la stanza mezza assonnata per andare a infilarsi in quello della sorella. Che calduccio là sotto! June aveva una corporatura sana, robusta, ed era una vera stufa sotto quelle sottili coperte di lana dove di solito Laura congelava. All’inizio brontolava un po’ per il fatto di trovarsi Laura nel letto, ma poi: «Okay, rimani qui. Però non ti muovere, capito?» Laura si accucciava e dormiva serenamente fino alla mattina seguente. Ma quei tempi erano passati. Laura sentiva che June era cambiata. Portava i capelli ricci adesso, indossava un vestito di pelle corto e aderente, una giacca di pelle con le borchie e se ne andava in giro su un paio di vertiginosi tacchi a spillo. Metteva il rossetto rosso, e le unghie delle sue mani erano diventate dei veri artigli. Dalle sue gite notturne, June tornava a casa sempre con del denaro, e papà pretendeva che lo desse tutto a lui. Una volta era successa una cosa terribile: papà era tornato molto ubriaco, tanto per cambiare, e d’un tratto, urlando, aveva cominciato a dire che June aveva rubato i soldi. L’aveva trascinata in cucina, e le sue urla forsennate si erano sentite fino in strada. Alla fine, June si ritrovò con un occhio nero, e papà barcollando, mostrò trionfante il suo bottino: una banconota da dieci dollari. «Voleva fregarmi dieci dollari, la puttanella! Dieci dollari, ma io l’ho fiutato subito! A Jeff Hart non la si fa!» E subito dopo aveva vomitato la colazione sullo stipite della porta, e Laura aveva dovuto pulire tutto. Lo aveva fatto controvoglia, ma senza


fiatare; non voleva certo buscarsi un occhio nero pure lei. Ora, in piedi nella sua stanza buia, si rese conto di essere sola e indifesa contro il tormento del suo incubo ricorrente: si vedeva precipitare in una profonda voragine nera come la pece, sul cui fondo strisciava un intrico di serpenti, coccodrilli e altri rettili. Laura aveva il terrore delle lucertole. Da piccola, una volta a Chinatown, aveva avuto una crisi isterica nel vedere in un negozio un uomo che beveva da una bottiglia di grappa in cui galleggiava un geco morto. Doveva essere una squisitezza. L’incubo le era sembrato così reale; tremava ancora tutta. Cercò la porta a tentoni, e uscì sul corridoio. Dalla cucina giungeva un sonoro russare. Spiò. Il padre era accasciato come un sacco di farina su uno sgabello vicino al tavolo. Aveva l’aria di un imbecille con il mento invaso dalla barba trascurata e la bocca aperta. Con la mano destra teneva stretta una bottiglia di birra vuota. L’aria era satura di fumo. Laura fu assalita dalla paura: di solito quando mamma era a casa, papà riusciva a trascinarsi a letto; ma quando lei non rincasava, lui russava buttato su quello sgabello fino alla mattina seguente. Dunque mamma non era tornata. Laura si diresse subito in soggiorno, il cui vecchio e sfondato divano a fiori era in realtà un divano letto che i suoi genitori usavano per dormire. La sala era vuota. Di sera la madre vagava da una bettola all’altra, e non sempre riusciva a ritrovare la via di casa. Spesso collassava in qualche canaletto di scolo, dove si faceva passare la sbornia, e poi tornava a casa il giorno dopo. In estate poteva anche andare, ma d’inverno poteva essere pericoloso. Una volta, un vicino l’aveva riportata a casa quasi assiderata, e avevano dovuto portarla in ospedale per ipotermia. «Un giorno di questi non si sveglia più» aveva sentenziato il vicino. Laura non riusciva a togliersi quell’idea dalla testa. Davvero non si sarebbe più svegliata? Sarebbe morta assiderata per strada a causa della sua maledetta ubriachezza? Al solo pensiero, si sentiva invadere dal panico. Laura era molto attaccata a sua madre, nonostante fosse sempre di cattivo umore e si lamentasse delle sue emicranie. Se la madre era in casa, aveva anche meno paura di suo padre, e poi qualche volta lei le dava qualcosa di buono da mangiare o le accarezzava i capelli. Dal suo comportamento era persino riuscita a capire quando aveva intenzione di uscire la sera. Diventava più irrequieta; girava da una stanza all’altra come un animale in gabbia; diceva di avere fortissimi mal di testa; aveva occhi allucinati, e mandava giù un bicchierino dopo l’altro. E puntualmente alla fine prendeva il suo cappotto di pelliccia sfilacciato e diceva: «Solo un altro goccetto, bambine. Torno presto». E con le parole ancora nell’aria, si sentiva sbattere la porta. Laura andava in cucina a rimettere in ordine e preparare la cena, impaurita e con le orecchie tese verso il minimo rumore di passi sulle scale che potesse annunciare l’arrivo di suo padre. Il padre non aveva un lavoro regolare, ma di tanto in tanto riusciva a


rimediare lavoretti saltuari: come garzone al macello, come aiutante alla stazione di servizio, o in qualche locale dove c’era bisogno di qualcuno che rimettesse a posto tavoli e sedie. «Jeff Hart può fare qualunque cosa!» ripeteva spesso per vantarsi, e in realtà era piuttosto abile, e quando lavorava lo faceva bene, peccato però che fosse sempre ubriaco, e i giorni in cui riusciva a reggersi in piedi erano molto pochi. Com’era ovvio, la madre non tornava «presto». Laura si era abituata a rimanere sveglia per aspettarla. Eppure, qualche volta non ci riusciva, come quella notte, ed era proprio in quelle occasioni che si svegliava oppressa dagli incubi. Tornò in camera, si infilò i jeans e un pullover, mise gli stivali invernali, il cappotto e i guanti. Fuori dalla finestra, la limpida notte gelida e senza vento scorreva imperturbabile. Il giorno prima era nevicato, e ora, ammantato di bianco, persino quel brutto quartiere del Bronx sembrava più bello. Nel cielo nero si stagliava cupa la casa di fronte distrutta dalle fiamme. Laura batté i denti per il freddo; come se non bastasse era anche molto stanca perché era la terza notte di fila che usciva per strada a cercare sua madre. Quando uscì di casa, trasse un profondo respiro. Quello che stava per fare era pericoloso, lo sapeva, ma era sempre meglio che essere oppressa dall’angoscia che sua madre potesse morire assiderata. La famiglia Hart viveva nella zona est del Bronx, in una casa che cadeva a pezzi, in origine parte di un palazzo di cinque piani. Un incendio aveva divorato i tre piani più alti e lasciato malamente in piedi i due più in basso che erano stati dichiarati agibili, se pure al limite dei requisiti minimi. L’appartamento comprendeva una cucina arredata con una credenza piena di ammaccature e senza antine, un tavolo e due sedie, e, incollato alla parete un lavandino con un rubinetto arrugginito. Una stufa di ceramica spandeva un po’ di calore, e si cucinava su un piccolo fornelletto da campeggio. Poi c’era il soggiorno, un tetro buco con un divano letto, un tavolino basso, due sedie e un televisore appoggiato su una vecchia cassetta di arance. Sulla parete dietro il divano c’era un poster attaccato con le puntine, che ritraeva il castello di Neuschwanstein, immerso nella luce di un tramonto che avvolgeva le sue torri e illuminava il bosco circostante vestito dei colori autunnali. Le due bambine dormivano nella stessa stanza, esposta a nord e senza stufa, in cui d’inverno si moriva dal freddo; molto spesso, Laura passava le notti insonni a causa della tosse che non le dava tregua. E per di più, d’estate non vi faceva neanche caldo, succedeva solo se c’era una forte ondata di alte temperature. Per tutta la vita, Laura avrebbe associato la sua infanzia al freddo pungente. Nella casa non c’era un bagno, così dividevano un water in un cubicolo senza finestra sul pianerottolo con la famiglia che viveva al piano di sopra. Era il posto più sporco al mondo. Una volta in strada, Laura diede un’ultima rapida occhiata alle finestre per assicurarsi che il padre non si fosse svegliato. Era tutto spento.


L’edificio aveva un’aria spettrale con quei suoi tre piani le cui travi e pareti carbonizzate fendevano ancora l’aria. E in più, siccome un anno prima erano stati abbattuti anche i palazzi adiacenti, i muri portanti ancora in piedi erano rimasti senza intonaco e apparivano ancora più nudi e spogli. Il tutto suggeriva una cupa desolazione. Come spesso accadeva quando era fuori di lì, Laura pensò: Perché dovevo nascere proprio qui? Voltò a sinistra e si incamminò lungo la strada, le mani affondate nelle tasche del cappotto. Il freddo le bruciava il viso. Era la notte più fredda del 1980, e mancava poco a Natale. C’era un solo lampione acceso, una rarità nel Bronx, dove i lampioni in genere non funzionavano più di un’ora poiché venivano distrutti sistematicamente. Al chiarore di quell’unica fioca luce, la neve brillava, e si vedevano nettamente i contorni delle impronte delle sue scarpe. Procedette a passo spedito, nonostante il freddo tagliente. Ma perché si era addormentata? Sperava non fosse troppo tardi. Se proprio la madre doveva essere collassata da qualche che fosse almeno a bordo strada e non in qualche cortile interno dove sarebbe stato più difficile trovarla. Laura conosceva i locali che sua madre frequentava abitualmente. Il primo era tutto spento e la porta era chiusa. Nel secondo c’era ancora un paio di clienti al bancone, e il barista stava borbottando loro che non gli avrebbe servito più niente. «Ciao, Laura!» urlò quando vide la pallida bambina infreddolita sulla soglia. «Stai cercando di nuovo tua madre?» «Sì. È stata qui stasera?» «Certo che è stata qui, ma è andata via subito.» «Grazie.» Laura uscì in tutta fretta. La paura la spingeva ad andare avanti. Cercò dappertutto, spiò nei portoni dei palazzi, dietro i bidoni della spazzatura, sotto le scale. Non osava urlare, perché poteva imbattersi in altri ubriaconi, ma qualche volta sussurrava: «Mami? Sei qui?» Solo un cane le rispose a un certo punto; per il resto niente, nessun segno di sua madre. Alla fine la ritrovò nell’area antistante un’autofficina, tra carcasse di auto, pneumatici, pozze di olio e una pecora morta. A quanto pareva, in un ultimo attimo di lucidità, Sally Hart aveva cercato riparo dal freddo in una Ford blu di cui era rimasto solo il telaio, ma doveva essere collassata a pancia in giù aprendo la portiera. Solo la testa e le braccia erano all’interno dell’abitacolo, il resto del corpo sbucava da sotto ed era nella neve. Subito accanto ai suoi piedi giaceva una pecora morta, a cui qualcuno aveva tagliato la gola. Il muso della bestia morta era contratto in una smorfia di dolore, e nei suoi occhi era impressa la paura. Laura si inginocchiò vicino alla madre. «Mamma...» con cautela le diede qualche colpetto sulle spalle. «Mamma, svegliati!» Sally emise un leggero grugnito. Puzzava terribilmente di alcol, per non parlare del suo vecchissimo cappotto di pelliccia: era tutto


appiccicoso, sembrava caduto in un barile di birra oppure forse qualcuno ve ne aveva rovesciato sopra un po’. Povera mamma, siccome veniva considerata una tipa un po’ svitata, tutti si prendevano delle libertà con lei. La povera Sally Hart, sempre ubriaca, con i lunghi capelli mesciati e il viso una volta bello ma ora gonfio a causa dell’alcol, era così felice se qualcuno si preoccupava per lei che non se la prendeva mai, neanche se qualcuno le faceva un brutto scherzo. Quantomeno era ancora viva, a giudicare dal leggero mugolio. Laura cercò di metterla in piedi. «Mamma, su alzati, ti prego! Dobbiamo tornare a casa. Fa freddo qui!» Pian piano la donna cominciò a capire. Fece leva sugli avambracci e si mise quasi carponi. Con occhi assenti guardò la figlia. «Eh?» disse. «Sono Laura. Sono venuta per portarti a casa, mamma. Se rimani qui, ti ammalerai.» «Sono stanca» mormorò Sally, e si accasciò di nuovo a terra. Laura cercò disperatamente di tirarla su. «No, mamma, non ti addormentare! Dobbiamo tornare a casa!» Alla fine, sembrò che quelle parole le fossero entrate nella testa. Tra una imprecazione e un lamento si alzò. E poi si appoggiò alla figlia con tutto il peso, al punto che Laura pensò le sarebbero cedute le gambe. Ciononostante riuscirono a fare un paio di passi traballanti. «Merda» mormorò Sally, «è tutto una merda.» Fissò la pecora morta. «Anche quella è morta. Siamo tutti morti, Laura; morti stecchiti, tutti quanti. Crepati, già da tanto tempo come questa povera pecora qua!» Scoppiò a piangere. Laura quasi non se ne accorse, sapeva come si comportava sua madre quando aveva bevuto molto. Ora la cosa più importante era metterla subito a letto con una borsa dell’acqua calda e due spesse coperte di lana. Sperava che non si fosse presa ancora nulla. Per nessuna ragione doveva accasciarsi di nuovo a terra, sopraffatta dal sonno, perché chi poteva sapere se poi si sarebbe rialzata? Così Laura continuò a parlarle senza sosta, le raccontò storie senza capo né coda, mentre di tanto in tanto la scuoteva, le pizzicava le braccia e la trascinava persino per qualche tratto. «Ahi!» urlava Sally e poi scoppiava a piangere di nuovo con tanto di singhiozzi, tutti volevano farle solo del male. Laura era soddisfatta: la madre non doveva assolutamente addormentarsi. Poco prima di arrivare a casa, cominciò a nevicare. Mentre tremava per il gelo, Laura pensò che sua madre sarebbe stata velocemente inghiottita dalla neve e che probabilmente quella volta non ne sarebbe uscita viva. Era arrivata appena in tempo. Erano entrambe congelate quando entrarono in casa. Per paura di svegliare suo padre, Laura decise di fare a meno della borsa dell’acqua calda, ma al suo posto prese la coperta di June, perché la sorella non sarebbe di certo tornata a casa quella notte. «Mamma, vieni, devi spogliarti. Prima gli stivali. Dai, su!» Gemendo, la donna si prese la testa tra le mani. «Mi fa tanto male»


mormorò. «Starai meglio, se ti sdrai!» Laura le strappò il cappotto puzzolente dalle spalle, le sfilò i pantaloni, il pullover e la biancheria intima e poi le infilò la camicia da notte dalla testa. Poi aggiunse un cardigan di lana e le avvolse una sciarpa intorno al collo. «Così dovresti riscaldarti un po’. Sdraiati su!» Sally sprofondò nel letto e si addormentò nel giro di un secondo. In tutta la stanza risuonava il suo russare, e la puzza di alcol che emanava avrebbe tolto il fiato a chiunque. Ma per quella notte era al sicuro. Stanca morta, Laura si rannicchiò nel suo letto: per quella notte i suoi incubi non sarebbero tornati a tormentarla.

2 Nel Bronx i bambini crescevano in fretta; dovevano farlo, se volevano sopravvivere. Erano circondati da pericoli di ogni genere: alcol, droghe, prostituzione. Rapine, accoltellamenti, aggressioni erano all’ordine del giorno. O ci si difendeva, o si soccombeva, non c’era via di scampo. A dieci anni, i ragazzini erano già capaci di ucidere a sangue freddo, a otto anni si iniettavano la loro dose quotidiana di eroina. A dodici anni, le ragazzine già si prostituivano. Era meglio adattarsi alla legge della strada, quelli che tenevano duro e vi si opponevano erano davvero pochi. June aveva sedici anni quando sposò il suo protettore, il trentenne Sid Cellar, un uomo altissimo, che doveva avere tanti soldi perché se ne andava in giro in Mercedes, indossava camicie di seta e abiti su misura, e portava grossi anelli d’oro su tutte le dita e piccoli diamanti alle orecchie. Quel giorno era seduto nel soggiorno di casa Hart e faceva a gara con Jeff a chi beveva di più. June, minigonna in pelle, giacca di jeans, calze a rete e sandali argentati, era appollaiata sullo sgabello accanto a lui. In quel periodo si tingeva i capelli color rame. Le sue labbra truccate con un rossetto rosso sgargiante sorridevano a malapena; tutto il suo volto aveva un che di finto. Ciononostante, più tardi in cucina con la madre e Laura, dichiarò di essere pazzamente felice. «Mi cercano tutti!» disse, con una punta di provocazione nella voce. «Sid ha un sacco di soldi. Mi riempie di regali fantastici. Ce ne andremo di qui, chissà magari nel Greenwich Village.» «Che brutta fine!» mormorò Sally e si prese una birra dal frigorifero. Era agosto, a New York faceva molto caldo e Sally cominciava a ubriacarsi già dalla mattina. «Gli uomini... chi ci capisce niente. Criminali, tutti quanti. Meglio non averci nulla a che fare.» Bevve direttamente dalla bottiglia, senza accorgersi che la birra colava in gran parte di lato e finendole sulla gonna. Quella orribile gonna a quadri marroni e verdi, che tirava sui suoi fianchi larghi e la cui cerniera lampo restava sempre aperta a causa dei grossi maniglioni di


ciccia che assediavano la sua vita. Laura osservò la madre, il modo in cui era seduta sulla sedia, le cosce che strabordavano, e i suoi lunghi capelli neri, unti, a ciocche che le ricadevano sulla schiena. Li aveva pettinati all’indietro senza la minima cura facendoli passare dietro alle orecchie, e il suo pullover infeltrito blu scuro sembrava a pois bianchi per la forfora. Quando guardava la pelle gonfia, dai pori dilatati della donna ubriaca, o le pieghe del doppio mento, o quando veniva investita dalla puzza acida di sudore misto a birra non era disgusto ciò che Laura provava. Era piuttosto paura. Avrebbe fatto la sua stessa fine? In una foto che ritraeva Sally a diciotto anni, seppure modestamente vestita, era una ragazza molto bella, snella e magra, con un incarnato fresco e occhi luccicanti. Laura ci si riconosceva molto. Tra vent’anni, pensava ogni tanto con un brivido, tra vent’anni sarò anch’io così. «Tra me e Sid va tutto a meraviglia» disse June, «ve ne accorgerete presto.» Ma era nervosa, sembrava impaurita. Non vi era più traccia del suo atteggiamento indisponente con la risposta sempre pronta e della sua assoluta mancanza di rispetto. Ora aveva l’aria di un cagnolino intimorito e scaltro allo stesso tempo. Del resto, Laura l’avrebbe capita, se June avesse avuto paura di Sid; lei stessa lo trovava rivoltante. Rideva in modo sguaiato e si comportava in modo brutale. Quando camminavano insieme, lui le teneva stretto il braccio come un poliziotto che scorta un detenuto, e quando poi glielo liberava, sulla sua pelle rimanevano profonde impronte rosse lasciate dalle sue dita per la forte pressione. Spesso, quando June voleva intervenire in un discorso, lui le diceva: «Zitta!» oppure le lanciava un’occhiata che la ammutoliva all’istante. Laura sapeva bene che la maggior parte degli uomini trattava le donne in quel modo, ma spesso pensava che lei avrebbe voluto che le cose andassero diversamente. Aveva letto un romanzo d’amore di Barbara Cartland, un libro sbrindellato che le aveva prestato una amica, e sognava al suo fianco un uomo come l’eroe di quelle pagine: galante, amorevole, dolce, sempre presente. Quando di notte cercava sua madre; durante gli interminabili pomeriggi sconsolati in cui stava con le orecchie tese per la paura che suo padre tornasse a casa; quando guardava fuori nel sudicio cortile dove i teppistelli vestiti di pelle bulleggiavano i ragazzini più piccoli, il suo unico pensiero era: devo andare via di qui! Devo andare via di qui! Quel caldo giorno di agosto fece anche il suo primo incontro ravvicinato con il dubbio fascino di Sid. Sally l’aveva mandata a comprare le sigarette al distributore automatico, e quando tornò e aprì con una spinta il portone di casa con il vetro sporco e mezzo rotto, se lo ritrovò davanti all’improvviso. Era talmente alto e grosso che sembrava riempire tutto l’ingresso. Indossava un paio di jeans attillati e scoloriti, e una canottiera a rete. Su uno dei due grossi bicipiti aveva un tatuaggio: una spada dalla cui punta gocciolava sangue. I suoi anelli d’oro sfavillavano. «Ciao, Laura» disse, e sorrise. «Ciao, Sid» rispose Laura nervosa, affrettandosi a passargli di lato per


scansarlo e proseguire. Lui fece un passo dallo stesso lato e le bloccò la strada. «Dove vai?» «Di sopra. Mamma aspetta le sigarette.» Laura si sentiva minacciata, ma si sforzò di non far trasparire la sua ansia. «A tua madre non dispiacerà di certo se tardi un pochino» disse. Spinse Laura contro il muro. Fu investita dall’odore del nauseante dopobarba che col caldo della giornata era diventato ancora più stomachevole. «Sei dannatamente bella, Laura. Molto più bella di June. Lo sai?» «No» rispose, la voce strozzata. Sid si avvicinò di più. I braccialetti d’oro tintinnarono. «Ti piacerebbe avere anche tu tutte le belle cose che ha June? Scarpe argentate, gonne di pelle? E per l’inverno una pelliccia di leopardo?» «No. Non mi piacerebbe.» «Sei una ragazza intelligente, e tutte le ragazze intelligenti capiscono quando viene fatta loro una buona offerta. Non sarai così stupida da respingermi!» Il viso di Sid sfiorava ormai quello di Laura; le si appoggiò contro e col capo la schiacciò contro la parete. «Lasciami, Sid!» Lei cercò di divincolarsi, ma la bocca di lui era già su quella di lei, e la sua lingua si insinuava prepotente tra i suoi denti. «No, no...» Cercò disperatamente di opporre resistenza, ma lui era più forte, oltre che più esperto. La sua lingua si muoveva velocemente nella sua bocca, mentre il suo respiro caldo le soffiava sul viso. Soffocata com’era, non poteva neanche gridare. Alzò una gamba e con tutte le sue forze gli pestò i piedi. A causa del caldo, lui indossava solo sottili scarpe di tela e si sentirono le ossa scrocchiare. Lanciò un urlo, fece un salto di lato e cercò di colpire Laura con un pugno che però incontrò solo l’aria perché lei, agile come uno scoiattolo, lo schivò. «Ti ammazzo, puttana!» Cercò di afferrarla un’altra volta, ma lei corse su per le scale. Aveva perso il pacchetto di sigarette di sotto, ma mai e poi mai sarebbe tornata a prenderlo. Le veniva da vomitare; avrebbe sentito il gusto della sua lingua tra i suoi denti per sempre. Mai, pensò, non starò mai con un uomo. Si sentiva sola e smarrita. Fu assalita da una paura che non l’avrebbe mai più abbandonata e alla quale avrebbe subordinato le scelte più importanti della sua vita. Ken Stuart e Laura si incontrarono in metropolitana una nebbiosa mattina di novembre. Laura aveva trovato un impiego come cassiera in un supermercato; una occupazione che, sebbene l’annoiasse molto, quantomeno le dava la possibilità di stare lontano dallo squallore del Bronx per tutto il giorno. Il supermercato era situato in Chinatown e il suo turno cominciava alle sette del mattino. Si alzava alle cinque e mezza, e dal momento che aveva paura del buio, della metropolitana e dei perditempo che vi ciondolavano con gli occhi fissi sulle ragazze, d’inverno era particolarmente pesante. Erano passati sei mesi


dall’esperienza con Sid nell’ingresso, ma, ancora, il solo ricordo la faceva stare male. Evitava di vestirsi in modo appariscente; e comunque non ne avrebbe avuti i mezzi, poiché tutti i soldi che guadagnava era costretta a darli in casa. Ora, portava un liso cappotto di lana, una sciarpa rossa intorno al collo, e legava i capelli neri in una coda di cavallo. Camminava con passo sostenuto senza guardarsi a destra e sinistra. Per sentirsi più sicura, nel treno, cercava sempre un posto accanto a una donna. E se aveva tempo comprava il giornale, col duplice scopo di nascondersi dietro le sue pagine e di informarsi sui fatti del giorno relativi alla politica, all’economia e alla cultura americane. Nessuno le aveva insegnato a leggere, i suoi genitori non ne erano capaci e sapevano scrivere a malapena i loro nomi. Laura leggeva con avidità ogni notizia, che si trattasse del voto del senato per l’approvazione di una nuova legge, dell’ultimo discorso del presidente alla nazione, della ricerca nucleare, di scoperte della medicina e dell’inquinamento ambientale, delle guerre nel mondo e dei bambini nati nelle aristocratiche famiglie europee. Leggeva recensioni di libri, di rappresentazioni teatrali, di mostre d’arte. Era aggiornata tanto sulle oscillazioni delle quotazioni del dollaro quanto sul prezzo corrente della carne di manzo argentina. Leggeva il giornale dalla prima all’ultima pagina nella speranza che in quel momento a una donna immersa nella lettura del New York Times si rivolgesse la parola il meno possibile, e che in futuro, in eventuali eventi mondani, l’alta società della costa orientale si sarebbe meravigliata nel constatare che erano pochi gli argomenti su cui la giovane ragazza del Bronx non era informata. Tuttavia, quella mattina di novembre, un ammiratore piuttosto ostinato aveva cominciato a insidiarla con un tentativo di conversazione già nell’area dei tornelli, mentre lei frugava nelle tasche alla ricerca di monetine. Laura si era poi seduta accanto a una vecchia signora robusta, che a dir il vero puzzava di aglio, ma la schermava anche come un muro di protezione. Sfortunatamente però quella era scesa alla prima stazione, e l’uomo aveva subito preso il suo posto, sedendosi di proposito con tutto il peso del corpo sbilanciato dalla parte di Laura. «Che c’hai una sigaretta?» le chiese. Senza guardarlo in faccia, e pervasa da paura e disgusto, Laura rispose: «No». Cercò di andare avanti a leggere, ma le lettere le galleggiavano davanti agli occhi. Quell’uomo non mollava. Si accasciò su di lei. «Vattene!» ringhiò, ma quello le si aggrappò alle gambe. Che la volesse aggredire lì nella metropolitana? Laura si guardò intorno in cerca d’aiuto. Davanti a lei, solo un paio di donne stanche, sonnecchianti, e uomini indifferenti. Solo un ragazzo stava osservando la scena: era pallido come un lenzuolo, aveva profonde occhiaie nere, e labbra delicate serrate in un’espressione seria. Ora quell’uomo stava cercando di aprirle la cerniera dei jeans e respirava affannosamente. Laura non si nascondeva più dietro il giornale, ma si opponeva con forza, scossa


dall’orrore, urlando: «Lasciami, lasciami, maledizione!» Il ragazzo pallido si alzò in piedi e si avvicinò. Era molto più alto di quanto le fosse sembrato da seduto, e magro come uno stecchino. «Lasciala in pace» disse con calma. L’uomo lasciò perdere Laura, si voltò e fissò il ragazzo. «E tu che vuoi?» biascicò. «Vattene. Levati dalle palle! Lascia stare la ragazza!» Con grande stupore di Laura, il suo molestatore reagì a quella voce tranquilla, e bestemmiando e imprecando la lasciò stare e si diresse, barcollando, in fondo al vagone. Laura si allisciò il pullover, le dita tremanti, e si strinse il cappotto intorno a sé. «Molte grazie.» «Di niente. Mi chiamo Keneth. Ken.» «Laura.» Per la prima volta lo guardò bene in faccia. Aveva dolci occhi blu verde, e guance incavate. Indossava un pullover in lana grezza grigio scuro col collo alto e maniche troppo corte. Le ossa dei polsi sporgevano appuntite e aveva grandi mani scheletriche. Laura ne aveva visti di visi e di fisici di quel tipo; era certa che Ken si bucasse. Provò una ondata di compassione, senza rendersi conto che ora aveva uno sguardo più rilassato, più tranquillo, più dolce. «Prendo spesso la metropolitana la mattina» disse lui, «c’è caldo qui dentro.» «Io la prendo sempre a quest’ora» aggiunse lei. Da quel giorno, si incontrarono tutte le mattine. Laura faceva in modo di salire sempre sullo stesso vagone, dove trovava Ken seduto puntualmente al suo posto. Scoprì che lui era tre anni più grande di lei – diciotto anni – e che si faceva regolarmente di eroina da cinque anni. La sua vita era votata giorno e notte alla droga, a come procurarsi una nuova dose. La sua dipendenza lo costringeva a una disperata lotta a oltranza. Non si trattava di soddisfare i normali bisogni di un uomo: mangiare, vestirsi, avere una casa: no, tutto ruotava intorno alla sola polvere bianca. Soldi, soldi, soldi... Di quando in quando trovava un impiego, ma erano solo lavoretti saltuari, che lo facevano rimanere a galla per due o tre giorni per poi farlo ripiombare nella stessa situazione disperata di prima. Laura lo supplicava: «Devi smettere, Ken! Smettere!» e lui la guardava sconsolato come se avesse accettato passivamente il suo destino. «Non posso. Morirei, ma forse la morte è meglio di questa vita.» Si amarono nella cantina umida dove viveva. C’era un materasso sul pavimento senza piastrelle e una coperta di lana devastata dalle tarme. Laura e Ken passavano ore sotto quella coperta a baciarsi, accarezzarsi, dormire per poi risvegliarsi nel dolce caldo del tepore dei loro corpi vicini. Un giorno, mentre Ken cingeva Laura con le sue magre braccia bucherellate, le disse quanto era bella per lui. «Sei bella, Laura, meravigliosamente bella. Devi metterti al sicuro prima che il Bronx ti distrugga. Non fare i miei stessi errori, Laura!» «Non ti abbandono, Ken.»


«Ma devi farlo. Morirò presto, e di me non resterà nient’altro che un corpo marcio buono solo per i vermi. Ma tu, Laura, tu devi vivere. Sei troppo bella per marcire.» Gli si strinse forte e lo accarezzò con dolcezza. Non ti dimenticherò mai, pensò, profondamente addolorata per il fatto che prima o poi lo avrebbe perso davvero. Mai, finché vivrò.

3 Laura conobbe il fotografo Barry Johnson una gelida sera di gennaio del 1987. New York era sommersa dalla neve. Il sole stava affondando nella luccicante acqua blu del fiume Hudson, gettando per qualche istante una calda luce rossa sulla città gelata, per poi cedere il posto al buio che stava calando rapido; la neve si sarebbe trasformata in ghiaccio e nel limpido cielo notturno si sarebbero accese le stelle. Laura stava risalendo Park Avenue senza una meta precisa. Talvolta dopo il lavoro, se ne andava un po’ in giro per ritardare il più possibile il suo rientro a casa, dove subiva una madre lamentosa e un padre sempre ubriaco. Qualche volta vi trovava anche June e allora la cosa diventava ancora più triste. Il suo matrimonio non andava affatto bene. Aveva avuto due aborti spontanei ed era diventata una botte. I tempi delle aderenti minigonne in pelle e dei pullover con lo scollo profondo erano passati. Sid le ripeteva spesso in faccia che la trovava orribile, e che non pensava più, neanche lontanamente, di regalarle bei vestiti. Indossava per lo più pantaloni della tuta sformati e pullover macchiati; aveva i capelli sempre grassi e sporchi, e non usava più i trucchi. Fatalmente, cominciava a rassomigliare alla loro madre. Laura voleva bene a sua sorella, e proprio per quello non le piaceva vederla ingrassata e avvilita con la madre in cucina. Da un po’ di tempo aveva cominciato a rimandare anche gli incontri con Ken in quel cupo antro. Era troppo penoso vederlo ridotto a un vegetale, e il fatto che parlasse solo di eroina la snervava. «Ho bisogno della roba, aiutami, Laura ti prego, dammi un po’ di soldi, te li ridarò ma adesso aiutami, ne ho bisogno!» Una volta era scappata via con le mani premute sulle orecchie, e le capitava spesso di dover trarre un respiro profondo per fare appello a tutte le sue forze prima di scendere i gradini che portavano in quella voragine. E poi le venivano in mente le sue parole. «Sei così bella, Laura. Devi salvarti.» Sebbene ancora si affrettasse a passare a testa bassa davanti agli uomini, qualcosa nel tono di voce di quell’uomo che le rivolse la parola all’angolo della Settantatreesima, la fece fermare. L’uomo la guardò con distacco, le sue parole suonavano concrete. «Sono un fotografo. Vorrei farle un paio di scatti. È molto bella signorina.»


«Come scusi?» «Sono un fotografo» ripeté spazientito. «E me ne vado in giro per strada per scoprire volti nuovi, fotogenici. Allora?» Laura si sentì osservata; aveva la sensazione di essere il soggetto di un artista, non una donna davanti a un uomo. «Dove fa le sue fotografie?» «Nel mio studio. Ottantesima Strada angolo con la Avenue of the Americas. Se non vuole, me lo dica, non ho tempo da perdere.» «Non sono vestita in modo adatto. E poi i miei capelli...» «Non mi interessano né i suoi vestiti né i suoi capelli. Mi interessa il suo viso. Quando avrò scoperto se è realmente fotogenico, allora ci occuperemo dei fronzoli.» Accettò piuttosto controvoglia. Quando più avanti nel tempo ripensò al perché della sua scelta, capì che era stato solo per il desiderio di ritardare il suo incontro notturno con Ken e con la propria famiglia; l’idea che potesse diventare famosa grazie a Barry Johnson non l’aveva neanche sfiorata. Nello studio c’erano una sedia, due grandi lampade e la macchina fotografica, ma non il riscaldamento. Subito dopo aver tolto il cappotto, Laura cominciò letteralmente a battere i denti, ma Barry non sembrò curarsene, concentrato com’era a sistemare le luci mormorando tra sé e sé dettagli tecnici per assicurare la buona riuscita del servizio fotografico. Poi quando tutto fu pronto, disse: «Dunque. Possiamo cominciare.» «Devo sorridere?» chiese Laura timidamente. Barry sbuffò. «Dobbiamo fare la pubblicità per un dentifricio? Mi faccia l’espressione malinconica che aveva prima quando l’ho incontrata nella gelida Park Avenue.» Laura si scrollò di dosso tutto ciò che la faceva pensare al momento che stava vivendo; cercò di dimenticare le luci, la macchina fotografica, Barry Johnson e si abbandonò al suo cupo mondo solitario. Barry fece un sacco di scatti. Ogni volta che le dava istruzioni sulla nuova posizione da assumere – di profilo a destra, a sinistra, con il mento appoggiato sulle mani o con il capo libero – scattava prima una polaroid e la studiava nei minimi dettagli. «Laura, hai il viso di un angelo» disse, «un angelo con la tristezza negli occhi. Ispiri innocenza e purezza, e se anche camminassi su un paio di trampoli con le labbra volgarmente truccate in qualità di prima puttana bianca di un gangster nero di Harlem e ti vendessi per mezzo dollaro l’ora a ogni schifoso farabutto che incontri, sarebbe lo stesso. Capisci? Capisci perché il tuo viso mi fa impazzire?» Laura scoppiò in lacrime, per quelle crude parole e perché si sentiva confusa, e forse anche perché stava congelando nonostante le luci. Barry le porse il suo fazzoletto con un sospiro. «Brava! Adesso non possiamo più fare altri scatti con quegli occhi gonfi! Va’ in bagno e lavati il viso con un po’ di acqua fredda, e poi spogliati pure, vorrei farti un paio di


scatti di nudo.» Laura scivolò giù dalla sedia e andò in bagno. Al contrario dello studio, il bagno era arredato in modo lussuoso con un soffice tappeto, abbaglianti piastrelle bianche, e tante piccole lampadine che facevano da corona all’enorme specchio. Su una vecchia toletta nell’angolo – probabilmente un costoso pezzo d’antiquariato – erano sparpagliati tutti i cosmetici possibili: matite per le labbra e rossetti, cipria, ombretti, fard, matite per gli occhi, vari tipi di crema, lacche per capelli e mascara. A casa, Laura aveva solo un misero rossetto. Esitante, provò un paio di quegli oggetti ammalianti. Un po’ di cipria color bruno dorato sul viso, un po’ di fard rosa sulle guance, rossetto chiaro sulle labbra. E infine, uno strato di mascara sulle ciglia. D’un tratto il suo viso appariva diverso, più espressivo. La linea nera del mascara faceva risaltare oltremodo i suoi brillanti occhi azzurro chiaro. I capelli... spettinati e in disordine le ricadevano sulle spalle. Ma non aveva il tempo di lavarli adesso. Va be’ ... alzò le spalle. Si stava solo divertendo. Barry aveva detto che doveva spogliarsi. Un po’ impacciata si sfilò i jeans, e poi anche il pullover dalla testa. Almeno il bagno era riscaldato, in quello studio invece sarebbe morta di freddo. Da dietro la porta giunse la voce un po’ spazientita di Barry. «Ti ci vuole ancora molto? Non voglio aspettarti qui tutta la notte!» Uscì dal bagno con indosso soltanto mutandine, reggiseno e calzini bianchi. Barry la fissò. «Avevo detto spogliarsi, accidenti! Non sarai una moralista?» «No, ho solo pensato che...» «Spogliati!» Senza guardarlo in faccia, si tolse i calzini, si sfilò le mutandine e sganciò il reggiseno. Ora era tutta nuda. Barry la osservò con insistenza. «Ti lasciamo così come sei, criniera arruffata compresa. Va’ a sederti sulla sedia!» Laura si sedette e Barry riprese a scattare. Fuori dalla finestra si vedevano i fiocchi di neve che cadevano mollemente a terra. Dopo un’ora – o forse era passato più tempo? – si ribellò. «Ho freddo. E sono stanchissima!» «Ecco; quest’aria un po’ infreddolita e assonnata ti rende tremendamente sensuale.» «Posso avere almeno una tazza di caffè?» Barry sospirò. «Se vuoi diventare una fotomodella professionista, devi abituarti alla disciplina. Su, andiamo. Beviamoci un caffè.» Prese un suo accappatoio, che le stava troppo grande, e lo seguì in cucina. Mentre lui preparava il caffè, lei si accovacciò su una panca d’angolo e mangiò distrattamente tutti i biscotti contenuti in un vassoio sul tavolo. Aveva una fame da lupi, ma non osò dirlo. «Cosa ne sarà delle foto?» chiese. «Le proporrò a una rivista. Alla Penthouse forse. O Hustler. Per ora però non ti aspettare niente. Può essere che io veda nel tuo viso qualcosa


che gli altri non vedono, magari adesso la gente vuole le biondine tinte e non le donne acqua e sapone con i capelli arruffati.» Posò le tazze di caffè sul tavolo. «Vedremo.» Il caffè era bollente e dolce, insomma, schifoso. «Questa roba mi farà dormire» mormorò. Barry annuì. «Non devi. Su andiamo, riprendiamo.» A un certo punto – mentre era stesa in una posa seducente su un letto pieghevole – Laura su sopraffatta dalla stanchezza e si addormentò profondamente e senza sogni. Quando si svegliò, disorientata, si chiese per qualche secondo dove fosse. Tremava per il freddo nonostante la coperta di lana che l’avvolgeva. Le prime pallide luci del mattino filtravano nella stanza. C’erano una macchina fotografica e delle lampade spente. Adesso ricordava. Barry Johnson, il fotografo... Saltò sul letto, e si rese conto di essere nuda. Dov’erano i suoi vestiti? Sullo schienale di una sedia erano appesi mutandine, reggiseno e calze. Si infilò il tutto in fretta e furia, e si precipitò poi in bagno dove in un angolo trovò jeans e pullover appallottolati. E poi, passando davanti allo specchio, cercò di districare un po’ i nodi dei capelli. Era pallida, il trucco tutto sbavato. D’un tratto pensò sconvolta: Dovrei essere al lavoro già da un pezzo! Ma poi le venne in mente che era domenica, il suo giorno libero. Si infilò anche il cappotto e si avvolse la sciarpa intorno al collo. Quando se ne stava per andare via, si imbatté in Barry. «Dove vai così di corsa? Pensavo che avremmo fatto colazione insieme.» «Mi dispiace, Barry. Devo tornare subito a casa. Che ora è?» «Le nove.» «Le nove? Ho dormito una eternità. Arrivederci Barry!» Fece per andarsene ma lui la trattenne. «Nel caso diventasse una celebrità dove posso cercarla, signorina?» Gli disse il suo indirizzo, e lui alzò i castani occhi al cielo. «Una ragazza del Bronx con quel viso! Ma come ha fatto a conservare quell’espressione?» Lei alzò le spalle; non voleva ascoltare i commenti sul suo viso, voleva tornare a casa. Quando fu in strada, rabbrividì per il freddo. I piedi affondavano nella neve. Mentre si dirigeva verso la stazione della metropolitana più vicina, pensò per un attimo se andare prima a casa dai suoi genitori o da Ken, ma una intima vocina le diceva di andare a casa. Decise di darle ascolto. L’appartamento era freddo e silenzioso. Laura gettò un’occhiata nel soggiorno. Sul divano c’era il padre che dormiva, l’aria satura di alcol. In preda a un terrore improvviso, si precipitò correndo in cucina. «Mamma?» Ma la madre non c’era. E sul tavolo non c’erano neanche la bottiglia di whisky e il bicchiere con cui Sally Hart cominciava solitamente la giornata. Laura tornò in soggiorno. Scosse suo padre per le spalle. «Papà! Papà, svegliati! Dov’è mamma? Dov’è?»


Il padre aprì gli occhi e guardò la figlia con aria confusa. «Che c’è?» «Voglio sapere dov’è mamma! Ieri sera è uscita? Devi saperlo! È uscita?» Il padre sembrava tutt’altro che sveglio, ma Laura insisté. Continuò a scuoterlo. «Papà! È uscita ieri sera?» «Può darsi. Quella puttana! Se ne va in giro e non torna a casa. Non so dov’è!» Si accasciò di nuovo con la testa sui cuscini, la bocca aperta, e riprese a russare leggermente. Laura imprecò, le lacrime agli occhi. Merda, perché era rimasta proprio quella sera da quel Barry Johnson a fare le sue stupide fotografie? E si era addormentata per giunta! La madre era uscita in quella gelida notte di neve, e lei non l’aveva cercata. Aveva giocato a fare la fotomodella. Senza pensarci su due volte, uscì di casa. Nevicava ancora.

4 L’Old Tale era una lurida bettola fatiscente nel cuore del Bronx, dove si ritrovavano miserabili figuri solitari. Sally Hart lo frequentava solo di rado: la zona era piena di quel genere di postacci, di solito non era necessario spingersi fin così lontano. Quella domenica mattina, fu l’ultimo in cui Laura cercò. Aveva le guance arrossate per via del gelo, e le faceva male la milza perché aveva corso praticamente tutto il tempo. Le prime cose che vide furono l’auto della polizia e una autoambulanza parcheggiate nel cortile. Si fece largo tra un gruppetto di persone curiose pronte persino a sfidare quel freddo sferzante e pungente pur di assistere a un evento sensazionale. «Cosa è successo? Qualcuno è ferito?» Il titolare di colore dell’Old Tale, Mike Taylor, un uomo molto alto col viso malinconico le andò incontro. La guardò con i suoi tristi occhi neri. «Tua madre, Laura...» «Mamma? Cosa è successo a mamma?» La gente la fissò tirandosi da parte per farla passare. «Mamma!» esclamò con la voce impaurita di una bambina. Fissò la donna morta, il corpo grasso e gonfio con le braccia aperte e le gambe divaricate, e le sottili ciocche di capelli neri che si allargavano a raggiera sulla neve. Era riversa sulla pancia, avvolta nel suo cappotto macchiato lungo fino alle ginocchia che le lasciava impietosamente scoperti i grossi polpacci. Attraverso le calze smagliate, si distinguevano le vene varicose bluastre. Laura si chinò su di lei. «Mamma!» gemette. Uno degli agenti disse impassibile: «La vecchia è morta. Assiderata. Deve essersi addormentata qui ubriaca fradicia. È stata ricoperta dalla neve. L’hanno trovata dei bambini». «Dovevo immaginarlo!» Mike nel frattempo si era avvicinato. «Sally era qui nel cortile e io non lo sapevo. Povera Sally! Dovevo immaginare che sarebbe successo!» Laura le toccò le punte delle dita. Erano gelide. Era finita come aveva


sempre voluto... Per anni era corsa dietro alla morte nelle notti d’inverno, e per anni Laura aveva cercato di opporsi al destino... ma quel che è destinato prima o poi si compie... Per mamma, pensò Laura. E anche per me. Pensò che doveva piangere, ma le lacrime non volevano spuntare. Continuò a fissare la madre, svuotata e senza la minima emozione. Come un ferito sotto shock che ancora non si è reso conto di quel che gli è successo, era rimasta impietrita davanti alla desolazione di quella scena. Si congedò con un ultimo sguardo, ma non dalla madre morta nella neve, bensì dalla paura che l’aveva sempre tormentata. Le notti in cui, tremante e infreddolita, aveva vagato per il Bronx si erano impresse per sempre nella sua memoria lasciando ferite insanabili, e avevano aperto la strada a una nuova paura: se la sua vita fosse mai migliorata, quelle notti avrebbero popolato i suoi incubi, e a quelle avrebbe ripensato se avesse sentito la minaccia di un ritorno alla povertà. Si voltò e se andò camminando a fatica nella neve, le mani affondante nelle tasche nel cappotto. Mike le urlò qualcosa ma lei non sentì, i passi sempre più lunghi, sempre più veloci fino a correre. Se non avesse conosciuto Barry, forse la madre sarebbe stata ancora viva... Non pensarci, ordinò a se stessa, non pensarci. Mai più. Giunse davanti alla casa nella cui cantina viveva Ken. Nell’ingresso ciondolavano dei ragazzini rachitici. Laura aprì la porta della cantina e come sempre fu sopraffatta dal buio pesto e dal fetore immondo. Poi cercò l’interruttore e accese la lampadina nuda che pendeva dal soffitto. Scese i gradini. Ken! Aveva bisogno del suo abbraccio, del suo conforto... non voleva pensare; doveva tenerla stretta, starle il più vicino possibile. Era sdraiato sul suo sottile materasso, freddo e umido, che era stato il loro giaciglio d’amore così tante volte. La stanza era illuminata da qualche candela. Ken aveva occhi vitrei, allucinati. «Che bello» mormorò nel vederla, «che bello!» Dondolava leggermente come al ritmo di una musica che sentiva solo lui. Laura gli si avvicinò. «Ken, mamma è morta! Mi senti? Mia madre è morta!» «Che bello» sospirò lui, «Laura, il mondo è tutto colorato. La vita è tutta colorata!» Laura capì che si era fatto una dose. Dopo sarebbe stato male e avrebbe cercato riparo nelle sue braccia, ma ora era in pieno sballo. Ora volteggiava nel cielo e non capiva nulla di quel che gli diceva. Laura si stese lentamente accanto a lui sul materasso. Gli prese la mano e gli disse sottovoce: «Sì, Ken. Il mondo è colorato. La vita è... rosso sangue». Sapeva che lui aveva bisogno di lei più di quanto lei ne avesse di lui. Sarebbe sempre stato così. Non c’erano braccia forti a confortarla. Era sola.


5 «Coltello a destra, forchetta a sinistra, tesoro» disse David con calma, «proprio non ti rimane in testa, eh?» Laura invertì le posate, e replicò, piccata: «Me lo ricordo, ma così non so mangiare!» «Devi imparare. Quando sarai la signora Bellino e sarai seduta a una grande tavola... immagina quanti occhi avrai addosso se usi le posate al contrario!» Fissò il suo piatto e fece finta di concentrarsi sulla carne, ma intanto pensava con ostilità: a me non importa nulla di quel che pensa la gente! Erano passati sette mesi dalla morte di sua madre. Sei mesi prima le sue foto erano state pubblicate su Hustler. E ancora non si capacitava del perché la ragazza nuda con la criniera leonina e gli occhi mezzi addormentati avesse suscitato tanto clamore. Trovava di gran lunga più belle tutte le altre ragazze ritratte nella rivista, bionde, col nasino all’insù e le labbra carnose. «Puah!» aveva esclamato Barry, quando lei glielo aveva detto. «Quelle sono solo gattine scialbe. Vista una, viste tutte. Fanno a gara a chi ha l’espressione più languida. Oltre a un bel viso, Laura, tu hai anche un corpo perfetto.» Subito dopo, erano fioccate le prime offerte da altri fotografi e da altre riviste, e poi l’aveva contattata una agenzia di modelle e anche un produttore di film erotici, ma lei, presa dal forte stupore iniziale, aveva rifiutato. «Ci devo pensare... non so cosa fare...» Sembrava in balia di una nuova vita. D’un tratto qualcuno si occupava di lei, veniva invitata, riceveva regali, veniva introdotta in ambienti che sapeva esistere ma non per gente come lei. Un editore – Laura non sapeva se avesse a che fare con Hustler – la invitò a una festa, e quando vi si presentò con indosso un abito appartenuto a sua madre da giovane, avvertì gli occhi di tutti puntati su di lei. Non si era mai sentita così in imbarazzo in vita sua. Aveva l’impressione di aver addosso un sacco; l’abito era nero con una stampa a fiorellini, aveva la scollatura rettangolare, maniche corte a sbuffo e una cintura di vernice. Il tutto completato dalle sue dozzinali scarpe nere allacciate davanti. Le altre donne esibivano abiti e gioielli molto eleganti e costosi e lasciavano scie profumate. Per tutta la sera, Laura patì le pene dell’inferno e si attaccò al suo calice di spumante pensando che tutti sparlassero di lei. Aveva deciso di andarsene senza farsi notare, quando le si avvicinò un uomo basso, piuttosto grasso, che si tamponava continuamente il sudore sulla fronte con un fazzoletto e si serviva di un nuovo bicchiere senza prima aver finito quello che teneva ancora in mano. «Signorina Hart, ho visto le sue fotografie su Hustler» esordì senza giri di parole. «Lei è una donna molto bella. Ha solo bisogno di una aggiustatina per la sua nuova vita.» La squadrò dalla testa ai piedi, e


scosse il capo quando posò lo sguardo sulle scarpe. «Posso regalarle un paio di cosette?» «Non saprei... io...» «Taglia trentotto, giusto? Va bene. Dove posso mandarle in tutto?» Con esitazione, Laura gli diede l’indirizzo. Il ciccione scosse di nuovo la testa. «Non proprio il posto giusto per lei. Le affitterò una suite al Plaza.» «No, questo no» protestò Laura. Il ciccione sbuffò. «Mi ascolti signorina, è giunto il momento di fare un salto di qualità nel suo stile di vita. All’inizio avrà anche funzionato la storiella dell’ingenua e povera ragazza del Bronx, con nient’altro che lo sguardo affascinante e un corpo estremamente sensuale...» Corpo sensuale, pensò Laura sprezzante, questo qui non mi conosce affatto! «Ma adesso quel tempo è finito, e presentarsi qui stasera con questo abito più che una trovata originale, è stata una pura follia. Sarà relegata in un cantuccio e dimenticata in un battito di ciglia. Allora?» Gli avrebbe volentieri risposto che si sentiva assolutamente fuori posto ed estremamente a disagio in mezzo all’alta società di New York, ma per qualche imperscrutabile ragione non riuscì a proferire parola. E il suo silenzio fu preso come assenso dal suo interlocutore. «Domani sera, può trasferirsi al Plaza, signorina Hart. Una suite l’aspetta.» Deciderò domattina, pensò lei, e scomparve sollevata. Forse fu per curiosità che la sera successiva si spinse fino a Central Park South, o forse per sfuggire alla desolazione di casa sua, ancora peggio, da quando era morta la madre. Non ne poteva più del balbettio di suo padre, di quel suo borbottare incomprensibile. Per non parlare di quando russava: rimbombava tutto il soggiorno. Si tappò le orecchie con le mani e pensò: Ma perché non me ne vado al Plaza? Non ci rimarrò molto, ma almeno starò lontana da qui per un po’. Alla reception fu accolta con gentilezza e cortesia. «La signorina Hart? Il signor Baker ha già predisposto tutto. La faccio accompagnare subito nella sua suite.» La suite comprendeva un soggiorno, una camera da letto e un bagno lussuosissimo con una grande vasca di marmo incassata nel pavimento. Il letto – che poteva ospitare comodamente cinque persone – era invaso da pacchi e pacchettini, tutti avvolti in una carta scintillante e decorati con fiocchi colorati. Un grosso mazzo di fiori occupava quasi tutto il tavolo al centro della sala. C’era un biglietto: «Cara Laura, spero sia tutto di suo gradimento. Mi diverte l’idea di viziarla un po’, e sarei felice se accettasse i miei regali. Jason Baker». «Se solo sapessi chi è questo signor Baker» mormorò lei. Il ciccione doveva essere piuttosto ricco. La ragazza che l’aveva accompagnata strabuzzò gli occhi. «Lei non sa chi è il signor Baker? È uno degli uomini più ricchi della costa orientale. Possiede una catena di fast food.» «Oh...» Non immaginando che la ragazza stesse aspettando una


mancia, Laura si limitò a farle solo un cenno di cortesia col capo, e quella, dopo un istante, lasciò la stanza con malcelato disappunto. Laura cominciò ad aprire i pacchetti. Tirò fuori collant di seta, scarpe da sera col laccetto dorato e tacchi a spillo, biancheria intima in seta color crema, un négligé verde scuro di pizzo, un abitino nero da cocktail, uno lungo da sera in velluto blu notte, un paio di vestiti in seta per tutti i giorni e due tailleur chiari. Un portagioie con l’imbottitura di velluto conteneva un pesante collier d’oro. Laura buttò sul pavimento il suo cappotto logoro, si tolse i vestiti e si infilò il négligé, che le scivolò addosso come una carezza mai ricevuta prima. Lanciò un gridolino di sorpresa vedendosi allo specchio. La sua pelle risaltava rosea attraverso l’intarsio del magnifico pizzo... e anche il suo viso sembrava diverso, più fine. Indossò poi il collier con le mani tremanti. L’oro era davvero pesante e freddo! Adesso aveva l’aspetto di quelle donne alla festa. Inavvicinabili e austere. Si passò una mano tra i capelli. Avrebbe potuto fare un bagno con tanta schiuma, e poi avrebbe lavato i capelli. Qualcuno bussò alla porta. Laura pensò fosse di nuovo la ragazza di prima e aprì subito. Era Jason Baker. «Vedo con piacere che sta già prendendo confidenza con le bellezze e gli agi della sua nuova vita» disse e si tamponò il sudore sulla fronte. «Per lei» le porse una grande scatola bianca. Laura la aprì e ne tirò fuori un lucido visone marrone scuro. «Signor Baker...» «Jason.» «Jason, tutto questo... la pelliccia, il collier, i vestiti, le costerà una fortuna. E questa stanza...» «Non per me. E questo è solo l’inizio; presto avrà auto, case, e viaggerà in tutto il mondo. Esaudirò ogni suo desiderio.» «Jason, non posso accettare. Tutto questo...» Abbassò gli occhi sul velatissimo négligé, rendendosi conto solo in quel momento che era praticamente nuda davanti a uno sconosciuto. «È davvero troppo.» «Non è troppo. Non per una donna così bella. Non per una donna con questo corpo.» La cinse con le braccia e la tirò a sé. «Sono sposato, amore, ma mia moglie non significa più niente per me. Ti ho desiderato subito, dal primo momento che ti ho vista in quelle fotografie. Farei di tutto per te, qualunque cosa tu voglia. Potremmo avere una vita meravigliosa insieme. Io ho il denaro, tu la bellezza. Concedimi la tua bellezza e io ti ricoprirò di soldi. Io...» «No. No. Per favore Jason...» «Sono pazzo di te, Laura. Ho bisogno di te. Ti mostrerò il mondo, e...» «Mi lasci!» «Facciamo l’amore. Ti prego, non respingermi! Ho tanto bisogno di te! Tu...» Le sue mani si muovevano avide e impazienti, e le facevano male. Il respiro dell’uomo era diventato affannoso. Riuscì a liberarsi. «Non posso, Jason. Io amo un altro.» Lui si fermò, la fissò e poi scoppiò a ridere come se avesse sentito il


finale di una barzelletta. «Santo cielo! Sei anche una brava attrice! Quanta innocenza in quelle parole! Amo un altro! Solo e soltanto quell’altro!» «Sì.» Jason fece un passo indietro. «Era da tanto che non sentivo una cosa del genere. Sei un tantino fuori moda, lo sai?» «Non mi importa. E non mi importa neanche se si riprende tutto. Io non mi lascio comprare, signor Baker. E adesso se ne vada per favore. Vado a vestirmi e lascio subito l’albergo.» Baker la guardò pensieroso. «Io non ho detto che deve lasciare l’albergo. E può tenersi anche i vestiti. Lei mi piace, Laura.» Laura gli rivolse una occhiata stupita. Lui annuì. «Davvero. Lei è speciale. Spero rimanga sempre così incorruttibile. Chi è l’uomo di cui è innamorata?» «Un ragazzo del Bronx.» Pensò a Ken sul suo materasso nella cantina umida. Baker, notando il velo di paura e prostrazione nei suoi occhi, disse: «È un altro mondo, non è vero?» «Già. Ken è un eroinomane. La roba non basta più, gliene serve sempre di più, ogni giorno di più. Ormai il suo unico pensiero è come trovare soldi per procurarsela. Con tutto questo, qui» rise amaramente mentre accennava con la mano all’elegante suite, «con tutto questo, Ken potrebbe andare avanti settimane.» «Ma non è una soluzione, e questo lo sappiamo bene sia io sia lei. Quello che gli serve è un centro di disintossicazione.» «Ce ne sono pochissimi e comunque non accettano volentieri quelli del Bronx.» «Mi ascolti, non le prometto niente, ma vedrò cosa posso fare. I soldi aprono molte porte.» «Perché lo farebbe, signor Baker?» Sul suo pallido viso grassoccio calò un’ombra di tristezza. «Perché lei è dannatamente bella, Laura. E io mi sono innamorato di lei. No» alzò le mani in un gesto di difesa, «niente paura! Non tenterò un altro approccio! So che devo starle lontano. Possiamo rimanere amici?» «Tesoro, a cosa stai pensando?» chiese David, la voce calda e preoccupata. «Hai lo sguardo fisso nel vuoto, mangia prima che si raffreddi.» «Mi dispiace. Mi sono solo... ricordata di una cosa...» «Cosa? Riguardo a noi due e a come è cominciato tutto?» «Sì.» Mentì, ma sapeva che era quello che lui voleva sentirsi dire. Osservò il suo bel volto liscio. Cosa c’era dietro quel viso perfetto e imperscrutabile? Quando Laura cercava di capire cosa l’avesse legata a lui allora, quando si erano conosciuti a quella festa e poi lui l’aveva portata al Plaza, non riusciva a darsi una risposta. Doveva essere stata una banale «passione». Si era sentita misteriosamente e irresistibilmente attratta da David. E se fosse stata anche la


consapevolezza di essere sola in un mondo sconosciuto? Ken aveva cominciato la sua terapia disintossicante, era al sicuro e non aveva bisogno di lei. Si era chiesta se non avesse mai provato per lui niente altro che amore materno, un misto di preoccupazione e responsabilità. Invece David l’affascinava. Con lui, aveva scoperto che il suo corpo poteva esplodere di desiderio. Non aveva mai sentito il cuore batterle con quella intensità; al solo tocco di David, al solo sentire la sua voce, abbassava ogni difesa. Tuttavia, la vita con David aveva scatenato un conflitto nel suo intimo: si sentiva alla sua mercé e stare senza di lui la faceva stare male; ma nel contempo gli si ribellava come meglio poteva per rimanere fedele a se stessa e non perdersi tra feste, sfilate di moda, cocktail e abiti da sera. David la ricopriva di regali, ma talvolta, quando si ritrovava un nuovo giro di perle in mano o una nuova pelliccia sulle spalle, avrebbe voluto urlargli: «Basta! Basta! Mi stai soffocando! Sono la ragazza con il viso d’angelo e un corpo perfetto. Abito in un meraviglioso appartamento su Central Park, ho vestiti e gioielli, e partecipo a tutte le feste più esclusive della città: tutta apparenza; la verità è che mi sento sola e infelice. Se solo mi accarezzassi l’anima, invece di ricoprirmi d’oro!» «Ti sei di nuovo persa nei tuoi pensieri, amore» le disse David con dolcezza, «e hai sbagliato ancora con le posate!» Aveva invertito coltello e forchetta un’altra volta. Il suo silenzio fece capire a David che ci era rimasta male; era il suo modo di reagire alle critiche, così le accarezzò la mano. «Non voglio assillarti, Laura, ma un giorno diventerai mia moglie, e allora...» Lei non lo guardò, non voleva che si accorgesse dell’ostilità nei suoi occhi; lo detestava quando le parlava con quel tono. La trattava sempre come una bambina, come se volesse educarla. «Laura, se vuoi avere un portamento da vera signora, non devi mettere le scarpe da ginnastica.» «Laura, perché non ti pettini? Hai un’aria così trascurata.» «Laura, per amor del cielo, lava via quel rossetto, è così volgare!» «Laura, una vera signora ha sempre un fazzoletto nella borsa.» «Laura una brava padrona di casa deve sapere come intrattenere gli ospiti, non devono mai esserci pause nella conversazione a tavola!» E lo diceva sempre con dolcezza. Laura qualche volta avrebbe voluto urlare. Al mattino, non faceva in tempo a entrare in cucina per fare colazione che David, già seduto al suo posto con il giornale tra le mani, attaccava con la sua critica su come si era vestita. «Laura, non puoi uscire con quella maglietta oggi, fa troppo freddo!» «Ma io ho caldo.» «Tesoro, il sole è ingannevole. Non fa caldo fuori.» «Ma io non devo uscire.» «Anche qui non fa tanto caldo. Su, da brava, va’ a metterti qualcosa di più pesante. Non vorrai mica prenderti un raffreddore!»


Vaffanculo stronzo, pensava, spazientita e furiosa. Si chiedeva che diritto avesse. La trattava così perché veniva dalla strada? La piccola Cenerentola che aveva portato nel suo castello, e che voleva vestire da principessa? Proprio lui, poi! Nevrotico all’ennesima potenza, incapace di mantenere rapporti interpersonali, di farsi amici. Dopo la prima settimana di infatuazione, le era stato sempre più chiaro. Non era il ragazzo bello e perfetto che voleva far credere a tutti. Lei aveva imparato a conoscere i suoi continui incubi, le sue emicranie, la sua desolata solitudine. Aveva soltanto il vecchio Andreas Bredow e lei. Nessun altro. Quella consapevolezza le affiorava sempre quando pensava di impazzire a causa dei suoi continui ordini e rimproveri. Lui voleva controllarla solo perché aveva paura di perderla. Era una condizione insopportabile, ma l’aiutava a calmarsi quando la rabbia prendeva il sopravvento. Oscillava tra compassione e collera. E spesso trionfava la compassione. «Lo so» ribatté al suo rimprovero. «Quando diventerò tua moglie, nessuno deve capire che sono una sciattona del Bronx.» «Laura...» «E comunque non credo ci sposeremo mai. Il tuo caro Andreas è contrario, e siccome tu non vuoi rischiare di perdere la sua eredità, io vivrò per sempre mantenuta da te in un lussuoso appartamento dove aspetterò con ansia le tue visite.» «Non sapevo che non ti piacesse il tuo appartamento» disse lui risentito. «E comunque non mi aspetti mai. Ci vediamo tutti i giorni.» «Bene, David.» Finiscila, mi viene il mal di testa! «Non sarebbe saggio litigare adesso con Andreas» aggiunse; era chiaro che non voleva finirla, non prima di averla convinta. «Mi potrebbe costare davvero l’eredità. E non ci servirebbe a nulla. Laura, lui non vivrà in eterno. Il suo cuore è sempre più debole. Lui...» «David, dimentica quel che ho detto. So come stanno le cose e che non possono cambiare.» «Amore, io sono felice di averti nella mia vita» disse David, «e per dimostrartelo...» Come per magia, tirò fuori una scatolina rivestita di velluto dalla tasca della sua giacca e la porse a Laura. Lei la aprì. Conteneva un orologio d’oro bianco tempestato di piccoli zaffiri e diamanti. «Cartier» dichiarò lui, «è un pezzo esclusivo, ho fatto incidere le tue iniziali.» «David...» «Voglio che tu sappia quanto sei preziosa per me, piccola Laura. Ma, per favore, hai di nuovo invertito le posate. Potresti...» «Sì, David.» Oddio, voglio andar via!


New York, 29.12.1989

1 «Quando ha rivisto Ken?» chiese Gina. Laura si voltò. «Cosa le fa pensare che io...» «Molto semplice» intervenne Kelly, «dal momento che lei e Ken avete programmato il furto nell’appartamento, dovrete pur esservi incontrati.» «Ispettore, la sua è solo una insinuazione!» rispose Laura a denti stretti. «Io non intendevo questo» dichiarò Gina, «secondo quello che ha raccontato Laura, mi sembra chiaro che lei ama ancora Ken. E nonostante vivesse con David e per quanto lui potesse averla affascinata, non ha mai smesso di amarlo. Lei dipendeva da David, non è vero Laura? Non è mai stata davvero innamorata di lui!» Laura rivolse lo sguardo verso la finestra. «Non volevo fare la fine di mia madre e di June.» «E cosa la legava a Ken?» chiese Kelly. Laura non rispose. Era uno dei primi giorni di gennaio di quell’anno, e tra le strade di Manhattan soffiava un vento caldo che faceva sciogliere la neve. Solo due settimane prima avevano sepolto Andreas, che non era sopravvissuto a un infarto la notte di San Silvestro, e Laura si era trasferita, armi e bagagli, nel lussuoso attico sulla Fifth Avenue. Da allora aveva la sensazione di soffocare, perché al contrario del suo appartamento, dove avrebbe potuto continuare a vivere la sua vita senza dare conto a nessuno di niente, lì si sentiva braccata e controllata dai domestici. Prima sarebbe rimasta seduta volentieri sul divano a sentire musica, lì invece aveva l’impressione che le giovani domestiche sfacciate la guardassero con disprezzo se la sorprendevano occupata in una di quelle vane attività. Ma cosa doveva fare? David lavorava tutto il giorno! Quando gliene parlò, lui rise. «Sai cosa fanno le mogli degli altri uomini ricchi? Passano il loro tempo tra estetisti e parrucchieri, oppure si adoperano per qualche buona causa. Lo so, alla lunga non ti sentirai appagata, ma finché non avremo pensato a qualcosa, prova a fartelo andare bene. Lasciati coccolare un po’ dal lusso. Te lo sei meritato.» Non ne parlò più, ma col tempo la sensazione di essere chiusa in gabbia aumentò, e divenne particolarmente pesante quella mattina


quando ricevette la telefonata. Una domestica – una piccoletta col naso a punta, di nome Lily – le portò il telefono in bagno, dove lei, davanti allo specchio, era intenta a esaminare il suo bel viso. Che dovesse accettare una delle varie proposte di lavoro come fotomodella? Ne riceveva ancora tante. Ma David non era d’accordo. «Il tuo viso e il tuo corpo mi appartengono, Laura. È davvero così difficile capire che non voglio condividere con nessuno ciò che amo?» «Ma non devo fare per forza fotografie di nudo. Esistono anche quelle di moda...» «Non voglio.» «Una telefonata per lei, signora. Non si è presentato. Posso solo dirle che è un amico di Ken» disse Lily in tono allusivo. Non aveva mai fatto mistero del fatto che non trovava per niente rispettabile quella civetta del Bronx che era assurta a una dubbia fama perché aveva posato nuda per una rivista per soli uomini. «Va bene, Lily. Può andare.» La sua voce si fece più calda quando parlò al telefono. «Sì?» «Laura Hart?» La voce all’altro capo del filo era altrettanto calda. «Sono Joe, un amico di Ken. Lo conosce?» «Certo, naturalmente.» Joe... Joe... il nome non le diceva nulla. «Io e Ken ci siamo conosciuti nel centro di disintossicazione. Siamo amici.» «Come sta Ken?» Mentre poneva quella domanda si sentì pervadere da una strana sensazione, o meglio ebbe paura. «Male. Per non dire uno schifo.» Joe tossì forte, come se gli si stesse lacerando il petto. «Si buca di nuovo.» «No! Da quando?» «Tre mesi circa. Qualcuno deve avergli dato della roba. E adesso è ridotto di nuovo a un vegetale, e non ha i soldi per procurarsi altra roba.» «Merda!» «Mi può aiutare?» «Dov’è adesso?» «Dove è sempre stato. In quella orribile cantina.» «Non so se...» «Laura! Da quanto ne so, tra lei e Ken c’è stato qualcosa. Non può rimanere indifferente, deve aiutarlo, non ha nessun altro. Ha bisogno di soldi, e...» «Ma questo non è il modo giusto.» «Non sopravvivrebbe a una seconda terapia. Ha bisogno di soldi, e lei li ha.» «Ho una carta di credito. Non ho contanti.» «Laura!» La voce di Joe sembrava irritata e stanca. «Il suo compagno è uno degli uomini più ricchi del paese. Non credo che non riuscirà a trovare dei contanti nel suo appartamento!» «Al momento non so davvero come...»


Oh Ken, perché lo hai fatto? Volevo cominciare una nuova vita senza di te. Volevo dimenticare tutto. Non volevo più rivederti! «Ma Ken l’ha costretta a farlo» disse l’ispettore, «e naturalmente lei è andata da lui. Gli ha dato i soldi.» «Sì. Era sbagliato e lo sapevo, ma se conoscesse un tossico che ti implora per una dose, mi capirebbe. Non potevo sopportare di vedere Ken in ginocchio davanti a me che piangeva disperato. Mi faceva stare male. L’ho supplicato di ricoverarsi un’altra volta; gli ho detto che avrei provato di tutto per trovargli un posto, ma lui continuava a rispondere che non lo avrebbe fatto mai più, che avrebbe preferito morire. Non potevo costringerlo, no? Potevo solo rendergli meno pesante la situazione. Così gli ho dato dei soldi.» «Dove li aveva presi?» Laura guardò Kelly negli occhi. «Li ho rubati a David. Io avevo una carta di credito e potevo comprare tutto quello che volevo. Ma ovviamente non la roba per Ken; per quella ci volevano contanti. Ho preso quello che ho trovato.» «E il signor Bellino l’ha scoperto?» «No. Non ha mai tenuto il conto di quanti soldi ci fossero in casa. Aveva tanti difetti, ma non era avaro. Non gli è mai venuto in mente di controllare dove andasse a finire il suo denaro.» «È andata spesso da Ken?» «Sì, abbastanza spesso. Ero molto preoccupata per lui, perché alle volte aveva delle brutte crisi. Alla fine ci andavo quasi tutti i giorni.» «E neanche di questo si è accorto David Bellino?» chiese l’ispettore. Laura esitò. «All’inizio no, aveva tanto da fare. Era sempre in viaggio. Gli dicevo che me ne andavo in giro per la città, che andavo per negozi, a fare jogging in Central Park o a passeggiare sull’East River. Funzionava.» «Ma poi ci sono state tensioni fra voi due» incalzò Kelly. «Accidenti, ispettore! Sì, ci sono state tensioni! Abbiamo litigato. David aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Se n’era accorto dal mio comportamento. È stato un periodo terribile... avevo sentimenti talmente contrastanti nei suoi confronti. Dipendevo da David, ma contemporaneamente non riuscivo più a sopportare che mi stesse... vicino, mi capisce? E lui l’aveva notato. Di tutto il resto non aveva capito quasi niente, preso com’era da se stesso per tutto il giorno, aveva notato solo il mio comportamento distaccato.» Ovviamente. D’un tratto non riusciva più a fare l’amore con lui. In particolar modo se aveva visto Ken, e siccome accadeva ormai quasi ogni giorno, era diventato sempre più difficile. Non riusciva a non pensare a Ken, alla cantina umida, a quella pietosa situazione. Si preoccupava di lui al punto che sentiva il suo corpo come impietrito. Cominciò a soffrire di emicranie, ad avere attacchi di asma e scoppiava


spesso in lacrime senza motivo, e poi quei malesseri diventarono delle scuse per non fare l’amore con David. «Ho un tale mal di testa, David. Mi viene quasi da piangere per il dolore.» Una sera, quando per l’ennesima volta si coricò al suo fianco senza rivolgergli lo sguardo e non mostrò alcuna reazione al tocco delle sue mani, David si drizzò sul letto e accese la luce. Laura strizzò gli occhi, abbagliata dalla luce. «Cosa c’è?» «Cosa c’è? E me lo chiedi?» «David...» «Ascoltami, credi che io sia un idiota? Che non abbia notato che tra di noi è cambiato qualcosa? Ti dà fastidio se mi avvicino e ti aspetti che lo accetti senza dire nulla? Non credi di pretendere un po’ troppo?» «Ti ho già detto che ultimamente non mi sento bene.» «Vorrei sapere il perché allora. Sei malata? Hai bisogno di un medico? Basta che tu me lo dica, lo sai che ti cercherei subito il migliore sulla piazza. Ma non credo che le tue sofferenze siano di natura organica. Secondo me, c’è qualcosa di più profondo.» «Non è così.» «E perché sono settimane che non facciamo più l’amore?» «Io non sono un robot, una bambola pronta a soddisfarti tutte le notti. Ho una vita mia e...» «Già parliamo della tua vita. C’è qualcosa che ti preoccupa.» Laura rimase in silenzio per un attimo aggrappandosi alle lenzuola di seta. Di riflesso le tornò in mente la sua vecchia fredda camera solitaria. Il ricordo era ancora così vivido; la cosa la scioccò. Ecco, era quello il punto: quello il motivo per cui David la teneva in pugno. La paura della sua vecchia vita. Cominciò a piangere, e pensando a Ken pianse ancora più forte. David sospirò: «Con te non si possono mai fare discorsi seri» le disse irritato, «attacchi sempre con i piagnistei. Cosa c’è adesso?» «Non capiresti» disse Laura tra i singhiozzi. «La tua unica paura è che qualcosa possa allontanarmi da te. Io devo essere la tua schiava. Saresti capace di controllare persino i miei sogni.» «Ma che diavolo stai dicendo? Se faccio tutto per te! Non credo ci siano tante donne i cui desideri vengono esauditi con altrettanta rapidità e sollecitudine. Davvero, di cosa ti lamenti?» «Alle volte non so neanche io cosa pensare. Mi sento in gabbia. E tutto, il lusso sfrenato in cui vivi, i preziosi regali che mi fai... tutto mi opprime e mi fa paura.» David le lanciò una fredda occhiata, ma dietro quella maschera di ghiaccio fremeva di terrore. «Paura? Ma non mi dire! Proprio tu! Sai una cosa, sai di cosa hai davvero paura? Della povertà! È su quella che concentri tutte le tue energie. E sai anche molto bene che hai bisogno di me... giusto, sai cosa ne sarebbe di te, se ti lasciassi?» Laura smise di piangere. «Ma io non sono una tua proprietà» disse lei sottovoce.


David rise beffardo, e il suo viso si contrasse in una smorfia brutale; chi non lo conosceva non avrebbe mai pensato che la sua insicurezza stava per esplodere con tutta la forza possibile. «Ebbene, tesoro mio» disse, «io ti possiedo perché purtroppo ti sei lasciata comprare, e chi si lascia comprare non è libero. Tu sai quanto può essere difficile la vita, nessuno lo sa meglio di te. Se sei intelligente, non rischierai di mandare tutto all’aria.» La voce di Laura si era ridotta a un sussurro mentre raccontava, così tutti i presenti avevano fatto fatica a cogliere le sue parole. Per un attimo nessuno disse nulla, poi alla fine Gina interruppe il silenzio. «Lei non era per niente felice con David!» Laura rispose: «Ero molto infelice. E avevo paura. Sapevo che David sarebbe andato su tutte le furie se avesse scoperto che vedevo Ken, e che per giunta gli rubavo i soldi.» «Comprensibile» disse Kelly, «difficilmente un uomo ne sarebbe stato contento, non le pare?» «David se lo è meritato» sentenziò Laura. Kelly la fissò come un serpente fissa la sua preda. «Si è anche meritato una pallottola in testa?» Laura scoppiò a piangere. «Obiezione, vostro onore» disse Gina, «così intimorisce il teste!» Laura si asciugò le lacrime. «Non mi importa più nulla» disse lei, «mi faccia pure tutte le domande che vuole, ispettore. Le rispondo.» L’ispettore la guardò con l’espressione benevola di un padre. «Signorina Hart, perché non ci dice la verità? Lei ha fatto entrare Ken e i suoi amici nell’appartamento. Si è fatta legare, ha fatto finta di essere la loro vittima, ma in realtà è lei che ha orchestrato tutto. Confessi!» Laura trasse un profondo respiro, poi si alzò. Pur essendo minuta, aveva una certa presenza. I rubini, il prezioso abito erano troppo pesanti per lei, era come se soffocassero il suo dolce viso. Ma adesso le conferivano una dignità che neanche lei immaginava di possedere. «E va bene» disse in tono calmo, «va bene, ispettore. Bravo, aggiunga pure questo successo alla sua carriera. È vero, ho organizzato tutto io. Ho fatto entrare io i ladri travestiti da addetti del ristorante, e mi sono fatta legare da loro. Non mi è dispiaciuto, e non mi sono fatta scrupoli perché David era pieno di soldi, e un furto non lo avrebbe di certo mandato in malora. Solo che non l’ho fatto di mia iniziativa. Mi hanno costretto gli amici di Ken.» «Amici di Ken?» «Sì, dei tizi che fanno parte del giro, li chiami come le pare» dichiarò Laura spazientita. «Lo sa, nel Bronx anche tra questi cosiddetti amici le cose non vanno sempre bene come succede invece tra i cosiddetti amici nel vostro ambiente. Ognuno di questi tizi ha uno scopo, uno solo: i soldi per potersi procurare la prossima dose. Mi capisce? A loro non importa nient’altro. E sono capaci di toglierti di mezzo se fiutano una possibilità


per raggiungere il loro scopo. Questa gente non sa cosa siano la fiducia, l’amicizia, la lealtà, l’amore... se hanno bisogno di una dose, se ne sbattono di tutto e tutti.» «Gli amici di Ken avevano notato che lei gli portava regolarmente dei soldi?» «L’avevano notato eccome. C’era sempre qualcuno da lui, e lui non si preoccupava di tenere la bocca chiusa. Ero molto conosciuta.» «E non ha mai temuto che questo potesse comportare guai per lei?» «Temere? Ero terrorizzata! Mi ripetevo in continuazione: non devi tornarci mai più. Non devi rivedere mai più Ken. Non devi rischiare la pelle per nessuno. Ma poi ci tornavo sempre. Non potevo lasciarlo al suo destino. Ogni giorno pensavo che sarebbe stata l’ultima volta che lo vedevo. Stava sempre più male, mi capisce.» «Dopo tutto lo amava» disse Kelly asciutto. Laura non replicò a quelle parole, perché lo trovava inutile. Lo aveva amato più di ogni altra cosa al mondo, ma nessuno di loro lo avrebbe capito. Aveva amato tutto di lui, la sua battaglia quotidiana contro la morte, il suo struggente desiderio di pace eterna, le sue braccia magrissime, piene di buchi, la delicatezza delle sue dita scheletriche. Chi avrebbe capito che lei aveva odiato e maledetto la voragine che lo aveva inghiottito, che lei aveva desiderato e temuto al contempo che morisse? Poche persone avrebbero compreso quelle contraddizioni. Lei aveva amato Ken; aveva avuto la sensazione di dipendere da David; aveva temuto entrambi e da entrambi aveva tentato di liberarsi. Chi avrebbe capito la portata del conflitto interiore che l’aveva sconvolta? Si guardò intorno, e con stupore, negli occhi delle altre tre donne notò un’espressione che inizialmente non riuscì a definire, ma che poi capì essere solidarietà; quello era lo sguardo comprensivo di tre amiche. Loro sanno di cosa parlo e cosa ho provato, pensò profondamente colpita.

2 Fino a quel giorno, non aveva mai avuto il «dispiacere» di conoscere gli amici di Ken. Gli aveva portato cento dollari e lui era al settimo cielo. «Sei un tesoro, Laura. Non so cosa farei senza di te.» Stava un po’ meglio ultimamente, ma Laura aveva imparato a non farsi troppe illusioni, ché le cose potevano cambiare da un momento all’altro. Era accovacciato sul materasso, con indosso i vecchi e sudici jeans e il pullover nero a collo alto su cui spiccava il viso cadaverico, mentre rollava con dita esperte una sigaretta. «Mio Dio, Laura» disse, «quanto vorrei andare via da qui. Via, da tutto questo schifo. E andare in un bel posto dove non ci sono preoccupazioni. Come dove stai tu!» La fissò. «Come sei bella, Laura!» Indossava un completo in pelle scamosciata verde muschio sotto il


cappotto, guanti bianchi di pelle, piccoli diamanti alle orecchie. Lei stessa era consapevole del suo fascino. «Anch’io ho delle preoccupazioni, Ken. Più di quante tu non creda!» Dalla porta giunse una risatina sommessa. Laura si voltò e vide un giovane carino, con i capelli scuri, che aveva già incontrato lì un paio di volte. Era vestito di pelle nera e aveva un coltello infilato in uno stivale. Era con altri due tizi biondi e magri, brufolosi e con le labbra sottili: almeno uno dei due era di certo un tossico. Avevano l’aria di essere dei protettori. «Ma senti» disse quello con i capelli neri, «anche la signora è afflitta dalle preoccupazioni. Proprio come i poveri diavoli del Bronx. Ecco perché si fa scopare da un milionario! Lo sa fare meglio di noi?» «Chiudi il becco, Joe» disse Ken per nulla arrabbiato. Nelle cose che diceva o faceva, Ken non metteva mai alcuna energia, alcuna emozione. La droga lo aveva svuotato di tutto. Nulla lo agitava, nulla lo rallegrava. Viveva nella più totale apatia. Laura si alzò. «È meglio che me ne vada» disse glaciale. Ma quando stava per oltrepassare la porta, Joe la bloccò. «Non così di fretta, Laura!» Pronunciò il suo nome con una certa enfasi. «Prima dobbiamo parlare di un paio di cosette.» «Devo andare.» «Ti sta aspettando il tuo ricco amorino?» «Lasciami passare, Joe!» «Ti presento i miei amici, Ben e Jay» disse Joe indicando i due biondi che le fecero un sciocco sorrisetto allusivo. «Noi tre avremmo pensato una cosa.» Quelle parole la intimorirono. Quel Joe aveva un piano. «Ken...» disse Laura in tono implorante. Ken si sentiva a disagio. «Ascolta quel che ha da dirti, Laura.» «Dunque, tu sai già tutto. Fantastico, Ken, davvero. Avresti potuto parlarmene prima.» «Ascolta piccola» disse Joe, «il tuo uomo è maledettamente ricco. Naviga nell’oro. E vivete in un lussuosissimo appartamento sulla Fifth Avenue, giusto? Posate d’oro, gioielli, quadri, tappeti. Ce n’è a bizzeffe, vero? Ci vuole solo qualcuno che venga a prenderseli.» Laura tacque. Rimase all’erta, e rivolse a Joe uno sguardo sospettoso e in attesa. Jay tirò fuori un coltello a scatto, lo aprì e poi lo richiuse. «Non fare finta di non capire» aggiunse Joe, con un sorriso. «Cara piccola Laura, scommetto che al tuo uomo non farebbe per niente piacere sapere che la sua donna incontra quasi ogni giorno il suo ex in una cantina lurida, e che per giunta gli ruba dei soldi per darli a lui. Cosa ne dici?» Laura gli lanciò un’occhiata di fuoco. «Cosa vuoi Joe?» «Ken, la tua gattina qui capisce in fretta. È in gamba, non c’è che dire.» «Cosa vuoi Joe?»


Joe alzò le mani in un gesto di difesa. «Non essere così aggressiva, piccola. Ho solo pensato che potremmo diventare amici e fare qualcosa insieme.» «Cosa?» «Chissà perché ho la sensazione di non piacerti.» «Non mi piace essere ricattata.» «Ehi, vacci piano con le parole» ringhiò Joe. Jay fece scattare di nuovo il suo coltello. In quel momento Ken sembrò sintonizzarsi sulla scena. «Laura, ascolta. Quell’uomo ha così tanti soldi che non se ne accorgerà neanche se gli manca qualcosa.» Laura si voltò di scatto, la furia negli occhi. «E questo darebbe a tutti il diritto di rubarglieli? Lo pensate sul serio? Ken, io rubo a David solo per te, e per nessun altro!» «Molto toccante» la schernì Joe. Jay fece volteggiare in aria il coltello. I suoi talenti sembravano limitati all’attività di giocoliere e lanciatore di coltelli. «Joe, lasciaci soli» ordinò Ken. «Ci parlo io con lei.» Joe esitò. «Dille tutto però!» «Certo. Voi andatevene. Ci penso io.» «Sono proprio curiosa» aggiunse Laura. Dopo averci riflettuto su un attimo, Joe annunciò che avrebbe lasciato il campo libero per un po’. Ma Ben, che finora non aveva ancora aperto bocca, si ribellò. «Ricorda che questo è anche un nostro affare, Ken!» «Okay, okay. Se mi servirete, vi chiamerò. Ora lasciatemi solo con lei.» I tre se ne andarono. Laura si sedette. «Hai una sigaretta per me?» chiese. Ken scosse il capo. Lei sospirò. «Va bene. Ascoltami, Ken, a quanto ho capito, i tuoi cosiddetti amici vogliono ricattarmi, e io ho la netta impressione che tu faccia parte del gioco!» «No, Laura, è solo che non posso impedirlo.» Non c’era rammarico nei suoi piccoli occhi verdi e blu. «Impedire cosa?» chiese lei. «Cosa hanno in mente Joe e gli altri?» Una lieve paura cominciò a covare dentro di lei. «Abbiamo solo pensato a un paio di cose» rispose Ken evasivo, «come entrare nell’appartamento... prendere qualcosa...» «Rubare!» «Sì, rubare. Non è giusto: c’è chi ha tutto e chi niente.» «Parli come un bambino, Ken. Io non ci sto.» «Per forza! Tu hai tutto quello che ti serve. Non ti devi preoccupare per il domani. Trovi già tutto pronto.» «Tu credi?» La squadrò. «Ma guardati» disse stizzito. Laura rise amaramente, si sentiva molto ferita. «Tu non mi conosci affatto, Ken. Altrimenti non crederesti a questo travestimento. Abiti, gioielli, belle scarpe: credi sul serio che cambino le cose? Ti dirò una cosa: tutto questo non cambia nulla. È solo una maschera: sotto sono la


ragazza di sempre, quella che se ne andava in giro di notte alla ricerca di sua madre, che si sentiva sola e infreddolita. Ken tutto questo non cambierà mai. La paura non mi abbandonerà mai. La solitudine non mi abbandonerà mai. Niente e nessuno potrà cambiare le cose.» Ken le andò vicino e le prese entrambe le mani nelle sue. «Tu hai me, Laura.» Ho te, pensò lei senza speranze. Quel viso intelligente, sensibile. Le braccia bucherellate... Ken, che idiota che sei stato! Ce l’avresti fatta senza l’eroina, avresti avuto una possibilità! «Lo ami quest’altro uomo?» le chiese in un sussurro. Quei dolci puntini dorati nelle sue iridi... esprimevano vitalità, sentimento, partecipazione. Laura ricordò le parole che le aveva detto June una volta tanto tempo prima: «Nessuna donna dimentica mai il suo primo amore». Lì per lì le aveva bollate come sciocchi sentimentalismi, ma ora aveva un solo pensiero nella testa: non lo dimenticherò mai... In seguito non avrebbe saputo dire perché sentì un forte desiderio di stare con lui. La cupa cantina umida e fredda non era per niente allettante. Il materasso con la sottile coperta di lana devastata dalle tarme puzzava di birra. Forse fu solo il ricordo di quello che era successo lì per la prima volta tanto tempo prima. Laura non pensò più a niente. Tremava di freddo senza cappotto e abito, e le battevano i denti mentre si adagiò sul materasso; fissò le pareti spoglie e tese l’orecchio verso il leggero plin plin di gocce d’acqua che cadevano chissà dove sul pavimento in pietra. E poi tutto fu come allora: il freddo, il buio, Laura tra le sue braccia, quelle braccia bucherellate, e il suo alito pesante che annunciava la morte. Era di nuovo nel suo mondo, un mondo che non aveva mai lasciato, che non avrebbe mai lasciato. Si rialzarono senza dire una parola, proprio come senza dire una parola avevano capito di voler dare sfogo al loro desiderio di stare insieme. Mentre si rivestirono – Ken con i suoi vecchi jeans lerci, Laura con i suoi collant con il logo YSL in strass – Ken disse: «Laura, Joe intende farlo sul serio. Racconterà a David Bellino tutto su di noi, se tu non fai entrare lui e i suoi amici nell’attico. Io lo conosco. Lui ha una marcia in più rispetto a noi, è pulito. Quando si mette in testa una cosa, va fino in fondo.» «Non posso aiutarlo, e neanche voglio farlo.» «Allora tu ami quest’uomo?» Si alzò la gonna sui fianchi con un movimento brusco. «Mi serve Ken, dannazione, non lo capisci? Io non voglio più essere povera! Ho paura della povertà, più di qualsiasi altra cosa. Finché starò con David, potrò scacciarla. Non mi sveglio più di notte urlando e non ho più paura di addormentarmi la sera. Non è per i vestiti, i profumi, i gioielli; mi fanno schifo, se proprio lo vuoi sapere! Ma non posso rinunciare alla sicurezza. So che mangerò un pasto decente. Che non congelerò. Che posso avere dei bravi dottori se mi ammalo. Che io... che io...» Si interruppe, le lacrime che le rigavano le guance, e urlò: «Non farò la stessa fine di mia


madre! Un cadavere gonfio e seppellito dalla neve! Oh, Ken non posso rischiare di perdere le mie sicurezze, mai!» Proruppe in un pianto disperato. Ken la tirò a sé e le disse: «Amore mio, non capisci che ti senti più insicura di prima?» Il suo pianto si fece ancora più disperato, perché sapeva che aveva ragione, e sapeva anche che lui sarebbe morto come la madre; e in quel difficile mondo traballante e imperscrutabile le sarebbero rimasti solo i soldi di David Bellino – gli stessi soldi da cui dipendeva, per cui si era fatta comprare e che l’avevano resa ricattabile. Avrebbe dato l’anima per i soldi di David. In quel momento, in quella cantina tra le braccia di Ken, ne fu consapevole come non mai.

3 Mary compose il suo numero di telefono di Londra, e lo fece con insolita aggressività. Con una rapida occhiata all’orologio, vide che era quasi mezzanotte. Sapeva bene che rischiava di svegliare Peter. Alla fine, l’ispettore Kelly aveva dato loro il permesso di andare. Probabilmente, aveva capito che per quel giorno non sarebbe riuscito a scoprire altro. Lei aveva gli occhi rossi per il troppo fumo di sigaretta, le guance scavate per lo stress. Gina aveva dichiarato: «Non abbiamo avuto neanche il tempo di renderci conto dell’omicidio che lei ha cominciato a passare al setaccio le nostre vite. A quali conclusioni è arrivato? Adesso abbiamo bisogno di stare un po’ per conto nostro. Siamo sconvolti e abbiamo i nervi a pezzi». Kelly aveva ceduto; tutti si erano alzati e si erano sgranchiti le membra doloranti. In silenzio, ognuno era tornato nella propria camera. Solo Natalie aveva toccato lievemente il braccio di Mary: «Possiamo parlare un attimo, Mary?» «Certo, vieni in camera mia.» Risultato della conversazione fu che Mary avrebbe dovuto telefonare a Peter. Lasciò suonare molte volte, finché alla fine qualcuno sollevò la cornetta all’altro capo del filo. Tra gemiti e grugniti emerse la voce bassa e sforzata di Peter. «Sì?» «Peter? Sono Mary.» Per qualche secondo, Peter fissò incredulo l’apparecchio. Poi esplose: «Ma sei impazzita? Non hai ancora... dannazione, stavo dormendo! Sono le sei del mattino! Io...» Mary rimase calma e fredda. «Peter ascoltami bene. Qui è quasi mezzanotte, sono molto stanca e non voglio sentire le tue urla. Non mi importa se stavi dormendo.» Fece una piccola pausa, e si voltò verso Natalie che le stava alle spalle e la incoraggiava con un cenno del capo. Mary trasse un bel respiro profondo e proseguì: «Peter c’è stata una complicazione. Qualcuno ha sparato a David...» Mentre lo diceva, pensò: Crederà che sono andata fuori di testa! «... e probabilmente dobbiamo


rimanere qui più a lungo.» «Come scusa?» chiese lui, stupito. «David è morto. Nessuno di noi può lasciare New York per il momento.» «Non se ne parla nemmeno!» «Invece è così. E a questo proposito ti comunico che comunque non tornerò da te. Io e mia figlia ci trasferiamo da Natalie a Parigi. Si è offerta di ospitarci. E voglio il divorzio al più presto. Tu puoi andartene per la tua strada.» Peter pensò che stesse avendo un incubo. «Ma che follia è questa?» sbottò alla fine. «Considerala pure una follia, Peter, non mi importa. Non mi importa niente di quel che fai o pensi. Continua pure ad andartene da un locale all’altro, e a ubriacarti invece di cercare un lavoro...» «Cosa stai...» «Continua pure a portarti a casa tutte le sgualdrine che trovi per strada. Né io né mia figlia subiremo più tutto questo.» «Tu sei impazzita.» «No, Peter. Sono stata pazza in tutti questi anni in cui ho lasciato che tu mi umiliassi, in cui ho avuto paura di te e ho elemosinato un sorriso o una parola gentile da parte tua. Vivere con te è stato un inferno, e non voglio passare il resto della mia vita all’inferno. Mi hai rubato gli anni migliori della mia vita, la gioia di vivere e la fiducia in me stessa, e per questo non ti perdonerò mai! Non voglio più avere nulla a che fare con te, e non provare a farmi cambiare idea! Mi fai schifo!» Riattaccò con le lacrime agli occhi. «Mi dispiace, Natalie, non sto piangendo perché mi dispiace, è solo che tutto questo mi dà sui nervi. Sai... non ho mai parlato con nessuno in questo modo...» Natalie andò al frigobar, prese un bicchiere e lo riempì con della grappa. «Tieni. Bevici un po’ su! Era assolutamente necessario che ti difendessi. Così non poteva andare avanti.» Le lacrime di Mary scemarono velocemente così come erano apparse; svuotò il bicchiere in un sorso. «Mi sento forte, Natalie. E libera. Dimmi, perché ho aspettato così tanti anni a farlo?» «Non hai mai capito davvero quanto fosse ingiusto il comportamento di Peter. Spesso, da dentro un problema, non si ha la visione d’insieme, non ci si rende conto delle cose. Tutto sommato, quel che è successo qui ti ha fatto bene. Dovevi rivoltare il tuo passato per capire che il futuro deve essere diverso.» Natalie si accese una sigaretta e si sedette sul divano. «Io non sono affatto stanca. Buffo, no? Prima pensavo, adesso mi addormento. Ma ora...» Pensierosa, soffiò un paio di cerchi di fumo nell’aria. «Secondo te chi ha ucciso David?» Mary alzò le spalle. «I ladri.» Natalie scosse lentamente il capo. «No. Temo che la cosa non sia così facile.»


L’ispettore Kelly e il sergente Bride attraversavano in macchina la Manhattan notturna. Bride non faceva altro che sbadigliare, e non si curava affatto di nascondere la sua stanchezza. Sperava che Kelly non volesse continuare con l’interrogatorio troppo presto la mattina seguente, anche se c’era da aspettarselo. Come se potesse leggergli nel pensiero, in quel momento Kelly disse: «Domattina presto voglio recarmi subito da questo Ken, l’amico della signorina Hart. Sarebbe bene che lei venisse a prendermi a casa al più tardi alle sei e mezzo. Dopo di che torniamo sulla Fifth Avenue. D’accordo?» Bride mugugnò qualcosa. Non era affatto d’accordo, ma dubitava che Kelly avrebbe cambiato idea. La sua speranza era che quell’eroinomane potesse essere d’aiuto per aggiungere un tassello al mosaico. «Si fermi al supermercato» disse Kelly, «vorrei comprare del pane e del formaggio per colazione. Le porto qualcosa?» «No» bofonchiò Bride. Sua moglie era la perfetta casalinga che si preoccupava sempre di tenere il frigorifero bello pieno di provviste. Guardò l’ora al suo orologio da polso. Quasi mezzanotte! Ricordarsi di quel che gli serviva per colazione solo a quell’ora era consono allo stile di vita trascurato e disordinato dell’ispettore Kelly; probabilmente, non aveva più nulla in casa, al massimo un po’ di latte scaduto e biscotti stantii. Bride sapeva che esistono persone di quel tipo, ma proprio non le capiva. Cappotto aperto e sciarpa svolazzante, Kelly corse nel supermercato, prese un carrello e cominciò il suo giro tra le varie corsie. Un pacco di pane integrale – per mantenere la linea – una confezione di formaggio, una salsiccia da spalmare... e cosa ancora...? Ah, già il burro! Un uomo e una donna erano impegnati in un’accesa discussione davanti a uno scaffale, e ne ostruivano l’accesso a tutti gli altri clienti. «Non sai niente» disse l’uomo. «Le tue sono solo insinuazioni, non puoi provare niente! Chiedi ai miei amici, ti diranno tutti esattamente dov’ero!» «Oh, ne sono convinta dal momento che tu li hai preparati per bene!» ribatté la donna in tono beffardo. «Lo so come siete solidali in questi casi; me la immagino la perfetta strategia che avete messo a punto per imbrogliarmi. Non avrei dovuto lasciarvi da soli neanche per un secondo, dopo i primi sospetti.» Kelly la fissò. L’uomo se ne accorse, e in un modo un po’ troppo brusco afferrò il braccio della donna e la trascinò via. «Non siamo soli qui. Devi sempre dare spettacolo!» Si allontanarono sbraitando. Pensieroso, Kelly osservò la coppia litigiosa andare via. Gli si era come accesa una lampadina al sentire pronunciare quelle parole: «Lo so come siete solidali... Non avrei dovuto lasciarvi da soli neanche per un secondo...» Per tutto il giorno, durante l’interrogatorio qualcosa lo aveva irritato, e adesso aveva finalmente capito cos’era: il rapporto tra i sospettati, tra i quattro amici e Laura, era cambiato. Al mattino nessuno avrebbe fatto


da capro espiatorio per l’altro. Ma, man mano che le loro vite venivano rivoltate come un calzino, mentre rivivevano gli anni passati in cui il defunto David era ancora vivo, tra loro era affiorato uno spirito di squadra. Kelly comprese quello che aveva istintivamente sentito alla fine della giornata: era stato travolto da una piena e salda solidarietà. D’un tratto davanti a lui non c’erano più cinque individui, ciascuno spinto dai propri interessi, ma una sorta di cospirazione. Tutt’altra situazione... Senza burro, Kelly andò fino alla cassa, pagò e uscì dal negozio. Aveva la sensazione che non fosse stata una buona idea lasciare Natalie, Gina, Steve, Mary e Laura da soli; una vocina interiore gli diceva che doveva tornare lì. O doveva recarsi subito da quel Ken? Attraverso il finestrino del conducente della macchina parcheggiata si vedeva chiaramente il profilo di Bride. Aveva un’aria imbronciata. Sbadigliava ancora, e con maggiore insistenza. Se gli avesse detto che voleva tornare all’appartamento di David Bellino o che voleva andare subito dal quel tossico, avrebbe di certo scagliato la macchina contro il primo edificio a portata di tiro. Kelly sospirò, aprì la portiera del passeggero e si buttò sul sedile. «Il burro» disse rassegnato. «L’ho dimenticato.» Bride lo guardò come se volesse ucciderlo. «Okay, okay, non fa niente. Andiamo. Posso fare a meno del burro sul pane!» disse Kelly con un fiacco cenno della mano. Voleva stare da solo, nient’altro. Era stanco, il quadro della sua vita era lì davanti ai suoi occhi: un misto di caos, paura, vana speranza e sogni infranti. Se solo la sua vita avesse preso una piega diversa! Tutto sarebbe potuto essere migliore. Per la prima volta, quella sera Steve si chiese se fosse stato giusto vivere senza farsi scrupoli come aveva fatto a partire da quel giorno in tribunale. Che avesse vissuto sempre troppo bene, fosse stato viziato e coccolato? «Non avrai mai una spina dorsale» gli aveva sempre ripetuto Gina, la Gina d’acciaio che usciva sempre fortificata dalle difficoltà. L’aveva osservata mentre raccontava a Kelly le circostanze della morte di John. Nei suoi occhi era dipinto un dolore inestinguibile. Ma non aveva tradito alcuna debolezza. Quando aveva appreso la notizia della morte di John in quella sciagura aerea, era caduta certo, ma poi si era rialzata a denti stretti. Quand’è che io ho stretto i denti? si chiese. E quando mi sono rialzato? Si guardò nello specchio il pallido viso di galeotto. La cosa peggiore del suo viso di galeotto non era quel terribile pallore, quell’assenza di colore sulle guance. La cosa peggiore era la grandezza dei pori! Prima non aveva mai notato che la sua pelle avesse i pori, e ora vedeva il suo viso gonfio, sempre sudato, lucido. Steve era convinto che chiunque, guardandolo in faccia, avrebbe capito che era stato dietro le sbarre. Quella dannata bomba dell’IRA! Quante volte vi aveva pensato, quante volte l’aveva maledetta! Quella bomba gli aveva rovinato la vita. Lo


aveva fatto precipitare nel fango, e lui non si era più rialzato. Lui non aveva la forza di Gina né la tenacia di Natalie; lei andava accanitamente avanti nella vita, imbottendosi di valium pur sapendo che un giorno l’avrebbe uccisa, e ciononostante non smetteva di combattere ogni giorno la battaglia contro le sue paure. No, lui non aveva più forze. Distolse lo sguardo dallo specchio e fissò la finestra, dietro la quale, calma e silenziosa, la notte faceva il suo corso. Non nevicava più. Steve ricordò quando una volta da bambino, con i suoi genitori e Alan aveva trascorso l’inverno nella natura selvaggia del Canada, in una fattoria che suo padre aveva preso in affitto. Aveva nevicato per tutto il tempo, ma non era stato un problema, perché era stato meraviglioso vivere nella vecchia baita di legno. Di notte la temperatura scendeva sotto zero, e quando la mattina Steve si svegliava, non riusciva a guardare fuori perché tutte le finestre erano ricoperte da spessi arabeschi di ghiaccio. Trascorrevano la sera seduti tutti insieme intorno all’enorme camino di pietra in soggiorno, sullo sfondo il crepitio dei ciocchi di legno mangiati dalle fiamme, a bere tazzone di cioccolata calda accompagnata da dolci natalizi. E mentre fuori la neve fioccava... Steve si immaginava come doveva essere vivere tutta la vita in un posto così solitario, come doveva essere imparare a sentire e capire i suoni e i colori della natura, come doveva essere desiderare il mugolio del vento dopo il lungo inverno, quelle calde raffiche di vento che sferzavano i pini e facevano sciogliere la neve. Perché pensava a quei tempi così intensamente? Perché con la stessa malinconia nel cuore con cui, in carcere, aveva sempre ripensato alla casetta delle vacanze con le rose rampicanti nelle isole di Scilly? Perché gli tornavano sempre in mente le immagini delle rose, della neve, del cielo blu d’estate, dei cristalli di ghiaccio, del mare spumeggiante e di un caldo focolare? Una strana consapevolezza affiorò nel suo intimo: quella era la vita che aveva sempre segretamente sognato, solo che non lo aveva mai capito prima. Il ragazzo vanitoso che si crogiolava nei costosi dopobarba e negli eleganti pullover, che passava davanti alla piccola Mary Brown senza degnarla di uno sguardo e che sognava una fulgida carriera in banca, quel ragazzo non aveva mai capito quali erano i suoi desideri più intensi, più veri. Cosa ripeteva sempre? «Io voglio una Porsche. Voglio un appartamento lussuosissimo. Voglio un orologio di Cartier. Voglio essere socio del club londinese più esclusivo. Voglio indossare solo abiti di sartoria. Voglio, voglio...» Ora, d’un tratto gli si aprirono finalmente gli occhi: lui non aveva mai voluto davvero tutte quelle cose! Al diavolo la Porsche e gli abiti di sartoria! Gli erano del tutto indifferenti. La verità... la verità era che aveva desiderato solo e sempre calore e protezione. E una donna come Mary. Cosa aveva detto lei dei suoi sogni di bambina? Una casa con un giardino fiorito... Sperò che fosse ancora sveglia. Uscì dalla sua camera senza fare rumore. Gina si drizzò sul letto. Aveva la sensazione che nessuno avrebbe


dormito quella notte in quell’appartamento. Cinque minuti prima aveva sentito qualcuno scivolare in punta di piedi davanti alla porta della sua camera. E adesso dei passi nel corridoio. Si alzò con decisione e prese la vestaglia bianca. Passando davanti allo specchio si accorse che aveva dimenticato di struccarsi e che il mascara era colato; aveva un aspetto melodrammatico. Alla fioca luce dell’unica lampada accesa, il suo collo appariva bianco e i suoi capelli lucidi e più scuri. D’un tratto ebbe l’impressione di vedere John emergere dallo specchio, e nell’ombra della stanza chinarsi sulle sue spalle e cingerla con entrambe le braccia. Fuori dalla finestra, spirava l’aria calda dell’estate californiana. Era giovane e la sua vita un sogno. L’odore della salvia che si spandeva dalle montagne... il dolce profumo della buganvillea che di notte era ancora più forte che di giorno... il mugghiare dell’oceano... la luce rossa del sole al tramonto e il corpo di John sul suo. Sentiva l’essenza di menta piperita del suo dentifricio e la barbetta incolta sulle guance. Un’improvvisa fitta di dolore le si riverberò per tutto il corpo facendola ripiegare. Ricordò quel che aveva pensato in preda alla disperazione subito dopo la morte di John: niente sarà più bello come prima! In autunno i boschi non si coloreranno più, e il pelo di Lord non brillerà più al sole in modo così strabiliante. Non aspetterò più con ansia l’arrivo della primavera e non penserò più di poter morire per la troppa felicità. Non starò mai più seduta in un ristorante davanti a un uomo illuminato dal chiarore di una candela, con il desiderio di allungare la mano per seguire con le dita i lineamenti del suo viso. Da ora in poi vivrò a metà. In quel momento comprese che il dolore la paralizzava ancora, ma ciononostante si stupiva della forza che ancora sentiva viva dentro di sé e che la rendeva invulnerabile. Dopo tutto, era stato grazie a quella forza che il debole Charles si era aggrappato a lei. Per tutta la vita mi occuperò di lui, si era ripetuta spesso furiosa, per convincersi che lei doveva occuparsi di lui perché ne aveva la forza. Lei era troppo potente, troppo vitale, e il buon Dio non le avrebbe mai permesso di lamentarsi. «Alzati e va’ avanti» le aveva ordinato il destino, e lei, senza risparmiare furia e disappunto, si era rialzata. Si strinse la cinta della vestaglia. Non sarebbe riuscita a dormire quella notte, forse neanche gli altri ci sarebbero riusciti. Uscì in corridoio senza far rumore, e vi trovò Laura che, avvolta in un elegante négligé, se ne stava impalata senza sapere cosa fare. «Oh, Gina» disse, «stavo pensando se fosse il caso di prendere una pillola per dormire. Buffo, no? Prima volevo assolutamente starmene da sola, ero stanca morta, e adesso sono sveglissima e ho la sensazione di non poter rimanere da sola.» «Anch’io. E scommetto anche gli altri. Prima ho sentito dei passi.» «Era Steve. È andato nella camera di Mary.» Gina fischiettò. «Ma guarda! Non perdono tempo quei due, si sono fissati per tutta la giornata. Chissà, magari è un incontro romantico.» «Tanto romantico con credo» rispose Laura, «a quanto ho capito c’è


anche Natalie.» Gina rifletté qualche secondo. «Vado a vedere. Vuole venire con me, Laura?» «Non so...» «Venga. Neanche a lei fa bene stare da sola. Non vorrà lambiccarsi il cervello per tutta la notte!»


New York, 30.12.1989

1 Una volta seduti in cerchio nella camera di Mary, tacquero tutti per l’imbarazzo per qualche secondo. Mary aveva posato un bicchiere davanti a ciascuno e saccheggiato il suo frigobar; ognuno si era poi servito. La stanza era illuminata dalla sola lampada del comodino. Gina rise a gran voce. «Come al solito, non riusciamo proprio a staccarci! Se l’ispettore ci vedesse adesso, penserebbe che abbiamo ucciso il povero David tutti insieme. Niente unisce come il fatto di commettere insieme un crimine.» Rise di nuovo e colse lo sguardo di disapprovazione di Steve. «E va bene. Scuoti pure la testa, Steve. Lo hai sempre fatto con me, ricordi? Hai sempre pensato che io ridessi troppo forte, che portassi gonne troppo corte e che mi truccassi troppo pesantemente. Giusto?» «Non ci siamo mai potuti soffrire, Gina.» «Vero. Siamo troppo diversi. Lo siamo tutti. Fondamentalmente è un mistero perché eravamo amici.» «Eravamo?» chiese Natalie in tono calmo. Gina la guardò pensierosa. «Oggi siamo piuttosto complici.» «Ma è tutto come prima» disse Mary. «Siamo insieme anche di notte, proprio come tutte quelle notti al Saint Clare.» Natalie pensò: Già. Eravamo così giovani. Terribilmente più giovani. «E c’era anche David con noi» proseguì Mary. Laura sussultò. «E ora è morto» disse in tono duro. «Come sappiamo tutti» aggiunse Gina cinica. Mary scosse le spalle rabbrividendo. «Sono contenta che l’ispettore se ne sia andato. Voleva sapere tutto nei minimi dettagli, sembrava non sfuggirgli proprio nulla.» «È il suo lavoro» rispose Gina. «Un ispettore deve scavare nella vita privata della gente, e più a fondo va meglio è. Ma sono contenta anch’io che se ne sia andato!» Si sollevò i capelli sulla nuca e li lasciò ricadere lentamente. «Adesso che siamo tra noi, l’assassino può confessare. Non lo tradiremo; sarà una sorta di giuramento. Dunque chi è stato?» «Il tuo cattivo gusto non ti abbandonerà mai, Gina, neanche quando sarai vecchia» disse Steve. Si scambiarono un’occhiata. Le antiche ostilità che credevano cessate erano riprese.


Mary sembrò spaventata. «Non litigate adesso. Per favore!» Prese un candelabro a sei bracci, appoggiato su un tavolino, e lo mise al centro del pavimento. Una dopo l’altra accese tutte le candele, poi spense la lampada. «Adesso è proprio come allora. Avevamo sempre le candele.» «E ascoltavamo Bob Dylan.» «E fumavamo centinaia di sigarette.» «Oggi si fuma poco nelle scuole» disse Natalie, «i ragazzi sono più attenti alla salute. Non fumano, non bevono, mangiano insalata, germogli di soia, frullati. E fanno jogging tutti i giorni.» «Noi abbiamo sempre fatto uso di droghe» disse Steve incupito, «i frullati sarebbero stati acqua fresca.» «Non ci avrebbero soddisfatto. Credevamo piuttosto nella marijuana» disse Gina, «e anche se facciamo jogging adesso, siamo comunque invecchiati.» Natalie rise. «Già invecchiati. Solo che tra noi adesso c’è un assassino.» «Piantatela!» esclamò Mary rabbrividendo ancora. «Perché?» Gina si chinò per accendersi una sigaretta con la fiamma di una candela. «Perché non dovremmo parlarne? Prima o poi dovremo parlarci chiaro.» «Magari sei stata tu, Gina» disse Steve. «In fin dei conti sei stata tu l’ultima a vedere David vivo e sempre tu quella che gli hai parlato di soldi. Forse hai perso il controllo.» «Teoria interessante, Steve» ribatté Gina, gli occhi ridotti a due fessure. Laura fece una risatina isterica. «Perché non racconta ai suoi amici cosa è successo da David? Dopo tutto è stata una vera scena teatrale.» «Oh! Ci ha spiati, Laura?» «Ho notato il modo in cui stava andando nello studio di David, Gina. E l’ho seguita. Sembrava pronta per un’avventura, era vestita bene anche se poco. Ho pensato che fosse meglio tenerla d’occhio.» «E poi ha origliato alla porta?» «Me lo ha reso molto facile; ha chiuso solo la porta esterna, e non quella interna che è insonorizzata. Ho sentito tutto.» Le due donne si scambiarono un’occhiata indagatrice piuttosto che ostile. «Avrebbe usato qualunque mezzo pur di ottenere denaro da David» disse Laura. «Sarebbe capace di fare un patto col diavolo per denaro, e se fosse stato necessario lo avrebbe fatto anche con David Bellino.» «Forse dovremmo sapere anche noi cosa è successo» intervenne Natalie, «a quanto pare sono state dette cose interessanti.» «Gina» disse Laura, «indossava una camicia da notte di pizzo nero sotto la vestaglia che porta anche adesso. Era molto truccata; non avevo mai visto una donna così bella e risoluta. Si stava dirigendo senza esitazioni nello studio di David.» «Bella e risoluta» ripeté Gina. «Però non si è accorta di una cosa: ero


anche disperata. Ha mai avuto dei creditori alle calcagna? Sa com’è quando tutto ciò che hai ti viene pignorato? E hai anche un uomo che si aggrappa a te, che crolla tutti i giorni, che sai non sopporterà di perdere tutto quello che la sua famiglia possiede da generazioni? Oh, Laura, in una cosa ha ragione; avrei usato qualunque mezzo per i soldi di David. Qualunque. Sono andata da lui in una nuvola di costosissimo profumo, e ho pensato che se avessi potuto gli avrei cavato fuori i soldi minacciandolo con un coltello.» «Avanti» disse David con calma. Gina aprì la porta e scivolò nella stanza, si chiuse subito la porta alle spalle e vi si appoggiò contro. Rimase sorpresa nel vedersi puntare una pistola. David era seduto come impalato sulla poltrona dietro la sua scrivania e impugnava l’arma con mano tremante. «Oh, sei tu» disse. «Sì, sono solo io, Gina. Nessun boss della mafia o chiunque stessi aspettando con quel ferro nero in mano.» David abbassò la pistola. «La prudenza non è mai troppa.» «Già. Credi che qualcuno di noi voglia ucciderti.» Gina sorrise. «Dunque non io. Posso avvicinarmi?» «Prego» disse David accennando alla poltrona di fronte alla sua scrivania. «Siediti!» Gina si sedette. La vestaglia si aprì svolazzando e scoprì il pizzo nero che avvolgeva le sue gambe accavallate. David la guardò attentamente, poi chiese: «Cosa vuoi?» Gina rispose direttamente, senza esitazioni: «Denaro». «Vedo che vai dritta al punto.» «Inutile tergiversare. Noi due ci conosciamo bene.» «Giusto.» David sollevò la mano dalla pistola, ma sembrava ancora teso. «Io conosco la tua anima nera, e tu la mia. Non serve fare la commedia.» Solo che la tua anima è cento volte più nera della mia, pensò Gina, sempre che tu ne abbia una! Ma sorrise. «Hai un paio di bei peccati sulla coscienza, David. È il momento giusto per rimediare, non credi?» «Non capisco di cosa parli!» «Lo sai eccome. Per esempio di una sera che eri ubriaco e hai parlato troppo, ti ricordi?» «Santo cielo, se dovessi ricordarmi di tutte le sere che mi sono ubriacato... preferisco ricordarmi di quando sono sobrio. Gina, amore, hai degli occhi che farebbero impazzire ogni uomo sulla terra. Lo so che hai l’acqua alla gola, ma non ti dai mai per vinta, giusto? Mai! Proprio come me. Te l’ho già detto, di tutta la banda io e te siamo i vincitori. Cadiamo sempre in piedi, da qualunque altezza.» È sempre ubriaco, pensò Gina, non si smentisce mai. Si accorse che le stava montando la rabbia. David, maledetto idiota, per quanto ancora andrai avanti a fare lo spaccone? Per quanto ancora andrai avanti senza curarti delle macerie che lasci al tuo passaggio? E quando capirai che il


tuo denaro non ti serve a niente, perché non puoi comprarci né l’amicizia né l’amore? Non vedi cosa sei diventato? Un uomo solo che se ne va in giro a casa sua con una pistola in mano perché non si fida più di nessuno! E le cui mani tremano quando impugnano quell’arma! Ma sorrise di nuovo, nonostante i suoi torvi pensieri; era lo stesso sorriso che una volta John aveva definito uguale al sorriso dei bari a poker nel casinò di Sanremo. «Mi sento molto lusingata del fatto che ci metti entrambi sullo stesso piano. Perché per essere una persona vincente io non mi ritengo affatto brillante. Io e Charles siamo sull’orlo della bancarotta. Non ci è rimasto più niente! Charles ha contratto debiti esorbitanti per finanziare il suo maledetto musical e probabilmente non ci basterà tutto il resto della vita per ripagarli. Proprio tutto quello che ho sempre sognato!» «Lascialo» disse David impassibile. «Cosa c’entri tu con i debiti di Charles? Trasferisciti a New York, ti farò lavorare nelle Bredow Industries. Come addetta stampa, se vuoi. Santo cielo, Gina, non sarai così stupida da finire a picco col buon Lord Charles Artany! Non tu!» «E invece sì, David. Vedi, questa è la differenza tra me e te, che tu non hai mai capito. Non hai mai avuto un briciolo di senso di responsabilità, te ne sei sempre fregato di tutti. Prima tu, poi gli altri; è stato e sempre sarà così. È il segreto del tuo successo. Io invece mi porterò dietro sempre qualcuno, di cui mi occuperò e che non abbandonerò mai. Charles non può stare in piedi da solo, e io ho intenzione di stargli sempre vicino, per tutta la vita. Dio solo sa quanto non lo faccia volentieri, ma non posso fare diversamente. Dovranno pur arrivare tempi migliori.» «Che nobiltà d’animo!» «Non sono nobile. Le persone nobili amano le loro buone azioni. Io le odio. Se lo vuoi sapere, mi sento sola. Tutti si aggrappano a me, ma io non ho nessuno. Talvolta penso che la solitudine mi porterà alla pazzia. Un giorno chiamerò aiuto e non ci sarà nessuno. Come quando è morto John. C’era solo Charles. Charles, l’uomo bambino, che ha bisogno di me...» La sua voce si interruppe. David si alzò, girò intorno alla scrivania e si chinò su di lei. «Anch’io sono solo, Gina. Molto più solo di quanto tu immagini. Fondamentalmente non ho nessuno.» «Tu hai Laura!» rispose Gina d’istinto, ma la breve occhiata che gli lanciò, fece capire a David più di mille parole che lei comprendeva molto bene quello di cui lui parlava. «Laura» disse lui, «mio Dio, Laura! Mi tradisce.» «Ne sei sicuro?» Per la prima volta, la bocca di David si contrasse in una smorfia quasi brutale. «Un topo rimane sempre un topo. Lei appartiene alla fogna della città. Puoi metterla in una gabbia dorata, ma non cambierà niente, non sarà mai la sua casa. Così è con Laura. Viene dal Bronx e lì ci saranno sempre le sue radici. Non appartiene al nostro mondo.»


«Ma non per questo ti deve tradire per forza!» «Esce sola e non dice mai dove va. Credo abbia un altro uomo. Farò le mie contromosse. Le sto preparando una bella sorpresa.» «Davvero?» «Domattina contatterò il mio avvocato. Voglio redigere un nuovo testamento. Laura verrà estromessa dall’eredità. Non avrà un centesimo.» «Pensi che lei stia con te solo per il tuo denaro?» «Ci puoi scommettere. Laura mi odia. Forse non lo sa nemmeno lei, ma sono certo che preferirebbe vedermi morto. La fa star male l’idea di dipendere da me. E dipende da me perché ha il terrore di rimanere senza soldi. Ha più paura della vecchia vita che dell’inferno!» Rise e Gina trovò la sua risata piuttosto cattiva. «Ma è lì che tornerà perché quello è il suo posto. La relazione con me è stata solo una breve parentesi nel bel mondo dell’alta società.» Rise di nuovo. Poi di colpo si fece serio. Prese le mani di Gina nelle sue e le disse d’un fiato: «Rimani qui con me, Gina! È da quando ci conosciamo che ti ammiro. Anche se non vuoi ammetterlo, io e te siamo uguali, ci comprendiamo, conosciamo l’uno i segreti dell’anima dell’altra. Rimani qui con me, e avremo una vita meravigliosa insieme...» La tirò su verso di lui e la strinse a sé talmente che le ciglia di lei gli sfiorarono la guancia. Le labbra di David erano calde e morbide, e le sue mani dolcemente posate sulle spalle di lei. «Ti prego» sussurrò, «rimani qui con me!» Gina non lo aveva calcolato. Era andata lì convinta di doverlo sedurre per ottenere il denaro che salvasse dalla bancarotta lei e Charles, e invece ora lui era lì e la baciava e la pregava di rimanere. D’istinto, gli si avvicinò di più col corpo e ricambiò le sue tenerezze, mentre rifletteva freneticamente. Le servivano centomila dollari, e lui poteva darglieli. «Non posso» gli disse, nella voce una punta di disperazione. «Che ne sarà di Charles?» «Charles, oh Charles» ribatté spazientito. «Gli darò i soldi che gli servono. Ma tu, amore, rimarrai qui, non è vero?» Gina pensò: Ti butterei giù da un precipizio senza farmi alcuno scrupolo. Possibile che non te ne renda conto? «Daresti i soldi a Charles, David? Lo faresti davvero?» David la fissò. «Sì. Ma non lo faccio per niente. Voglio te.» Gina ricambiò il suo sguardo, gli occhi accesi dalla sua straordinaria forza di volontà. Questa volta, pensò lei, sarò io a fregarti, David! «E lei ha ascoltato tutto, Laura?» chiese Mary. Illuminata dalla luce tremolante della candela, Laura appariva molto giovane e delicata. «Ogni parola. Ho sentito che voleva estromettermi dall’eredità e che il mio tempo con lui era finito. Come ha detto? Un topo rimane sempre un topo. Non avevo alcuna possibilità. Avevo perso David.»


«Cosa che sarebbe stata fatale anche per il suo amico Ken» aggiunse Gina. «Non ti capisco Gina, perché non hai raccontato questa storia all’ispettore?» esclamò Natalie. «Ti avrebbe esclusa dai sospettati. A questo punto non ti sarebbe convenuto che David morisse. Solo se ti avesse fatto un assegno, la sua morte e la tua posizione non esplicita riguardo la sua eredità sarebbero stati un problema per te.» «Già. Ma non capisco perché avrei dovuto facilitare le cose a quella lumaca di un Kelly. So di non essere io la colpevole, quindi posso tranquillamente aspettare e vedere quello che succede.» «L’ho sentito dire anche a qualche condannato innocente» disse Steve. «Ma qualcuno deve pur essere stato» intervenne Mary. «Sono d’accordo» disse Gina, «e penso anche che questo qualcuno potrebbe farsi avanti adesso; sono certa che nessuno di noi lo tradirebbe.» La guardarono tutti, e lei rimase seria e rilassata. «Sappiamo tutti chi era David Bellino, e sappiamo anche di aver commesso tutti degli errori, dunque, chiunque gli abbia sparato avrà la comprensione di tutti gli altri. Si deve rendere giustizia a David e al suo assassino; sembra una contraddizione, ma non lo è. Siamo onesti, nessuno di noi è a lutto per questa perdita!» «Dio solo sa quanto l’ho odiato» disse Natalie in tono calmo. «Tantissimo. Tutte le volte che ho ripensato alla situazione in cui mi abbandonò a Crantock, sono stata divorata dall’odio.» Le lacrime le rigarono le guance. «Non lo dimenticherò mai, mai, per tutta la vita. Ma oggi, non sono più tanto sicura che David mi abbia visto davvero. Voglio dire, che mi abbia riconosciuta. Forse è vero quello che ha sempre sostenuto, che era nel panico e non capiva più niente. David non era un angelo, ma neanche un diavolo, aveva le sue pene, e l’ispettore ha ragione quando dice che non siamo stati dei buoni amici per lui. Si era confidato con me, ma dopo quello che è successo, io non ho voluto e non ho potuto capirlo. Ero a pezzi, l’unica cosa a cui potevo aggrapparmi era il mio odio inestinguibile... ero avvelenata dall’odio...» Si rannicchiò e cominciò a singhiozzare; ancora una volta era tutto lì davanti ai suoi occhi, ma adesso stava dando finalmente sfogo a un pianto liberatorio. D’un tratto si misero tutti a parlare. Le voci si intrecciarono; preoccupazione e paura, speranze infrante, delusioni dolorose, odio covato a lungo: tutto quello che era riemerso durante quella lunga giornata stava rompendo gli argini fuori come un fiume in piena. «Forse avremmo dovuto cercare di cambiarlo!» «Non si può cambiare un uomo come David. Ma avremmo potuto aiutarlo.» «E forse avremmo aiutato anche noi.» «Mi siete mancati tantissimo. Davvero!» «Ci saremmo dovuti ritrovare prima.» «Allora risolvevamo insieme anche i nostri problemi, ricordate?»


«Le notti a lume di candela...» «Poi le cose sono andate diversamente da come pensavamo.» «Succede sempre così nella vita.» «A questo servono gli amici.» «Da ora in poi dobbiamo rimanere uniti. Laura, questo vale anche per lei. Ne ha passate così tante.» «Sì, Laura. Ed è stata più intelligente di noi. Ha capito David prima di noi.» Laura fece un sorriso stanco. «Solo che questo non è servito né a me né a lui.» «Non credo» insisté Gina, «che qualcuno di noi tradirebbe l’assassino. Comunque siano andate le cose, era destinato, non si poteva evitare. Nessuno di noi vuole dimostrare la colpevolezza di nessuno. Se anche inciampassimo nell’assassino, scavando nella scorsa notte, non cambierebbe niente per noi.» «Laura, quando il colloquio tra David e Gina è finito, immagino che lei sia tornata in camera» disse Natalie, con il tono distaccato e sicuro che usava nelle sue interviste. Laura annuì. «Sì, ero ferita, attonita... Stordita. Era chiaro che quelle cose non gli erano venute in mente tutto d’un tratto in quel momento; lui ne aveva abbastanza di me e mi avrebbe scaricato il prima possibile. Mi avrebbe liquidato con un paio di vestiti e i gioielli. Mi sedetti sul letto e cominciai a pensare e ripensare cosa fare. Potevo tentare la carriera da fotomodella? Ma David si era sempre opposto... forse avevo perso la mia occasione... poi mentre rimuginavo lì seduta squillò il telefono. Era il portiere che mi comunicava l’arrivo di quelli del ristorante per il ritiro.» «E lei sapeva che erano gli amici di Ken» aggiunse Natalie. «Già. Così era stato deciso. O meglio: tutto il piano era già saltato durante la cena. In realtà le cose sarebbero dovute andare così: verso le undici, io mi sarei dovuta alzare dalla tavola e invitarvi tutti a prendere un caffè in soggiorno. Poco dopo sarebbero dovuti arrivare Joe e gli altri, travestiti da fattorini del ristorante, per ritirare le stoviglie. Eravamo sicuri che non si sarebbero imbattuti nei veri fattorini perché quelli sarebbero venuti la mattina dopo. Ci avrebbero sorpresi in soggiorno e tenuti in scacco con una pistola, e mi avrebbero costretto a mostrare loro la cassaforte in biblioteca e ad aprirgliela. Io non avrei avuto altra scelta che assecondare le loro richieste perché loro mi avrebbero puntato contro un coltello o una pistola. Alla fine ci avrebbero legati tutti quanti, e loro se la sarebbero svignata in tutta calma.» «Niente male come piano» decretò Gina, «ma è stato stravolto quando lei ha lasciato la sala da pranzo dopo che David l’ha rimproverata. Non aveva più il pretesto per invitarci a prendere il caffè in soggiorno.» «Già, ho commesso un grosso errore. Ma non ne potevo più. Quando David mi ha rimproverato davanti a tutti, il dolore dentro di me è esploso. Una volta tornata in camera, il piano mi sembrava assurdo. Sarebbe andato tutto storto, e saremmo finiti tutti in prigione... e poi,


quando ho visto Gina andare da David, ho capito che la cena era terminata e mi sono sentita sollevata pensando che il piano era ormai definitivamente saltato. Ma poi il portiere ha chiamato per chiedermi se poteva mandare su quei tizi.» «Perché non ha detto di no?» «Avevo paura, soprattutto di Joe. Lui fa paura persino a Ken. Ho deciso di aprire la porta per spiegargli che le cose erano andate diversamente e che non si poteva più fare niente.» «Mentre andava ad aprire, ha incontrato Steve e poi Gina.» «Sì, Steve stava uscendo dalla camera di Mary, e Gina gli ha tirato una frecciatina.» Steve e Mary incrociarono i loro sguardi. Gina sospirò. «Che ora era quando ha fatto entrare i ladri nell’appartamento?» Laura esitò. «Non so... tra le undici e le undici e mezzo...» Dalla hall del palazzo l’ascensore portava direttamente all’attico, e dall’interno si poteva aprire solo con una chiave e con un codice numerico che bisognava digitare in un piccolo apparecchio installato sulla parete. Altrimenti, nel caso di visitatori, si veniva avvisati di andare ad aprire la porta. Ken, Joe, Jay e Ken indossavano jeans, pullover e giubbotti. Avevano il naso rosso per il freddo, e sui capelli una spolverata di neve che cominciava a sciogliersi. Non avevano un aspetto particolarmente pericoloso. Ken aveva occhi vitrei. «Buonasera, Laura» esordì Joe sottovoce con un sorriso a fior di labbra. Ma in un baleno quell’aria da bravo ragazzo svanì cedendo il posto alla più nera malvagità. Senza nemmeno salutarli, Laura disse: «È un miracolo che il portiere non vi abbia chiesto di mostrargli i documenti». «Glieli avremmo rotti in testa» rispose Joe senza fare una piega. Con passo molleggiato uscì dall’ascensore. «Okay, dunque...» «Non se ne fa più niente» disse Laura, «è andato tutto storto. Non c’è nessuno in soggiorno, nessun caffè. La compagnia si è sciolta.» «Dove sono tutti?» «Nelle rispettive camere, credo.» «Che vuol dire, credi?» sibilò Joe. Era nervoso. «Non ho mica la sfera di cristallo per vedere se sono o non sono tornati nelle loro camere, cavolo! È troppo pericoloso, è meglio se ve ne andate. Dite al portiere che mi sono sbagliata, che non siamo ancora pronti!» «Ma sei matta?» tuonò Joe, bianco in volto. «Se c’è ancora anche solo una possibilità per arrivare al denaro, non la sprecherò di certo. Dobbiamo cambiare programma. Dov’è Bellino?» «Nel suo studio. Ma, Joe, è una follia...» «Okay, tu ci mostri dov’è la cassaforte. E poi ti leghiamo. Ci hai aperto e sei stata costretta a darci i soldi, e poi per lo shock non sei stata


capace di urlare per chiedere aiuto o di muoverti in alcun modo. Forza!» «Joe...» La fulminò con lo sguardo e poi, senza fiatare, lei fece loro strada pensando: Tutto questo è un incubo, un terribile incubo. La biblioteca situata nel piano più alto dell’attico era l’orgoglio del vecchio Rudolf Bredow. Le sue librerie ospitavano libri molto antichi, alcuni risalenti persino al 1600. Il pezzo forte era una Bibbia, conservata in una teca, che recava la data 1601. Bredow era legato alla sua biblioteca più che a qualunque altra cosa, e, insieme a tutto il resto, Andreas aveva ereditato anche l’amore per quel luogo e il tesoro che vi era custodito. E ora David, spinto dal desiderio di conferire ancora più splendore a quella sala dagli alti soffitti che proteggevano i preziosissimi scaffali, aveva voluto imprimere il suo tocco comprando reggilibri dorati. Laura premette un interruttore nascosto e disattivò l’allarme. Poi passò la mano sul bordo superiore di un’enciclopedia costituita da dieci volumi rilegati in pelle. I libri si spostarono di lato – erano finti – e comparve lo sportellino di acciaio di un cassetto incassato nel muro. «Aprilo!» la incalzò Joe. Con cautela, Laura si accinse a digitare la sequenza numerica. Non che David gliel’avesse mai svelata, ma dato che era solito annotare su semplici foglietti le cose di quel genere, una volta lei aveva trovato la combinazione nel cassetto della sua scrivania. Non appena si aprì lo sportellino, i ragazzi spinsero Laura da parte. «Sbrigatevi» disse lei nervosa. «In casa c’è un sacco di gente. Non voglio che vi veda nessuno!» «Con calma, signora» rispose Joe, «prima ripuliamo tutto e poi ce la svigniamo, chiaro?» «Ho solo detto di fare presto!» Si guardò intorno preoccupata, e poi di colpo chiese: «Dov’è Ken?» Tutti rimasero impietriti. «Dannazione!» esclamò Joe. «L’avevo detto che non doveva venire!» «E infatti doveva essere così!» sibilò Laura. «Siete stati dei pazzi a portarlo!» «Ha fatto una scenata. E poi adesso è in pieno sballo, quindi anche prevedibile.» «E dov’è andato?» Si guardarono perplessi. Poi Laura si lasciò andare a una risata stridula, e contemporaneamente le salirono le lacrime agli occhi. «Fantastico! Lo sapete quello che ci succede se ci scoprono?» Joe la prese per le spalle e la scosse. «Ora non è il momento né di ridere né di piangere; cerca Ken e portalo qui il prima possibile. Vai, svelta!» Anche dai suoi occhi trapelava la paura. Laura si voltò e si precipitò nella camera da letto. «Ken?» Guardò nella cabina armadio, nei bagni. Regnava un silenzio assoluto. Col fiato sospeso, tese le orecchie nell’oscurità della sala da pranzo, del salone


che era l’ultimo posto in cui erano stati gli ospiti. Ancora silenzio assoluto. Maledizione, dov’era Ken? Non era in sé... che fosse andato nel posto più pericoloso per lui... Si diresse verso lo studio di David, per la seconda volta quella sera, e quando udì le voci al suo interno, drizzò le spalle ed entrò. Come attraverso una lente di ingrandimento, la scena le si parò davanti amplificata: David era vicino alla libreria, un dizionario in mano, bianco in volto. Ken, lo sguardo perso nel vuoto, era al centro della stanza, tra David e la sua scrivania. La pistola di David era ben visibile sulla scrivania, ma lui non poteva raggiungerla senza passargli davanti. «Oh» disse Laura. Senza guardarla, David le disse in tono calmo e minaccioso a un tempo: «Porta fuori di qui questo bastardo». «David!» David si voltò e la guardò con occhi fiammeggianti d’ira. «Dovresti conoscerlo, no? È uno dei tuoi simili. Portalo fuori di qui e vattene con lui! Non farti più vedere!» «Perché adesso hai Lady Artany?» «Ma guarda, la signora origlia anche alle porte?» I suoi occhi traboccavano di puro odio. «Vedi, Laura, a me non importa cosa pensi di me, probabilmente crederai persino che io sia un idiota perché mi sono accorto soltanto ora che sei una sgualdrina! Ti sei approfittata della mia bontà, del mio desiderio di rendere migliore la tua vita. Vi meritate a vicenda tu e il tuo bell’amico qui!» Lanciò a Ken un’occhiata beffarda. «Cosa vuole? Cosa ci fa questo tossico schifoso nella mia casa?» «David! Smettila!» «Non la smetto, chiaro? Non permetterti di dirmi cosa devo e cosa non devo dire. E non ti permetto neanche di portare in casa mia la feccia con cui sei cresciuta. Porta via di qui questo puzzolente degenerato...» «Adesso basta, signore!» disse Ken con un tono cantilenante. Nonostante facesse fatica a concentrarsi, fece un passo di lato e afferrò la pistola; la canna ondeggiò nell’aria come un filo d’erba in balia del vento. «Il suo tono non mi piace!» «Ken, abbassa subito la pistola!» gli ordinò Laura. «L’avverto. È carica!» disse David. «Laura, fagli capire quello che potrebbe succedere se spara! Lo arresteranno e butteranno via la chiave...» continuò, la fronte e il naso imperlati di sudore. Era l’immagine di un uomo davanti al suo incubo peggiore, un’arma carica... La paura era diventata reale. Il terrore che lo avviluppava da quando riceveva le lettere minatorie, aveva un volto. Un volto smunto, malato, segnato dalla morte. La morte... se morire lì, in quel momento era il suo destino, allora non sarebbe potuto fuggire, non avrebbe potuto evitarlo. Con le dita della mano sinistra si aggrappò all’anello d’oro che portava alla destra. Vi si aggrappò come a cercare aiuto, come se volesse evocare la presenza di Andreas, e per la prima volta ebbe un’epifania, capì quello che per lui aveva significato quell’uomo: lo aveva odiato,


amato, venerato, maledetto, avrebbe voluto ribellarvisi ma poi aveva desistito. Si rese conto di quanto si fosse sentito al sicuro, protetto dal suo amore e da quello di sua madre; avrebbe potuto vivere in assoluta tranquillità nel soffice e caldo nido che era stato preparato per lui. Di riflesso più che per difendersi, fece un passo verso Ken e cercò di strappargli l’arma. Nel tentativo di schivarlo, Ken inciampò, e cadde a terra dopo aver sbattuto con la testa all’indietro contro una libreria. Laura gli si precipitò accanto, gli prese la pistola di mano e nel rendersi conto che David le si stava avvicinando, premette il grilletto; lo fece senza pensarci, d’istinto, in preda a una violenta furia selvaggia. Vide lo sguardo di David, esterrefatto; non credeva a quel che stava accadendo, non avrebbe mai immaginato che potesse essere lei quella che un giorno avrebbe posto fine alla sua vita, e mentre la macchia rossa si allargava sempre di più sulla sua camicia, e David si accasciava, Laura pensò: Mi hai sempre sottovalutato, amore mio! Ed è stato un grosso errore! Laura non si accorse delle lacrime che le rigavano il viso, né sentì le urla di Ken mentre David sbatteva con la testa contro il pavimento con un tonfo sordo... «Allora è stata lei a sparargli» disse Steve. Laura era seduta tutta rannicchiata sulla sedia, le guance lucide. «Come prego?» chiese. Gina le andò vicino e le mise un braccio su una spalla. «Non pianga, Laura. È stato un errore. Un terribile errore. Voleva proteggere Ken, è successo tutto così in fretta.» Il chiarore delle candele avvolgeva tremolante i loro visi che apparivano seri e sgomenti. «Non so» disse Laura, «se è stato un riflesso. Non faccio altro che pensarci... perché gli ho sparato? Forse perché avevo sentito quello che si erano detti lui e Gina prima. Forse per gelosia... o per paura di tornare indietro alla mia vecchia vita... e fare la stessa fine di mia madre...» Tacque, e nessuno disse una parola. Nella stanza non c’era ostilità bensì sgomento. La dolce Laura dai capelli lunghi e gli occhi grandi aveva sparato a David. Era difficile capacitarsene. Laura guardò tutti, uno dopo l’altro, e pensò: Ci vorrà del tempo ma lo capirete. Si sentiva male, era distrutta. E sapeva di essere in pericolo. Veniva da un mondo in cui i delitti erano all’ordine del giorno, ed era consapevole del fatto che l’ispettore Kelly sospettava di lei e che non si sarebbe arreso finché non avesse risolto il caso. Era stato ingenuo da parte sua il tentativo di fare la commedia. Senza contare che Ken aveva visto, e di certo aveva già spifferato tutto ai suoi amici. Laura era entrata in possesso di una grossa eredità, e sarebbe presto diventata una donna molto ricca, ma non si faceva illusioni: poteva perdere tutto in un secondo.


L’arguta Natalie ruppe il silenzio e chiese: «Cosa è successo dopo? Perché nessuno ha sentito il colpo?» «La pistola aveva un silenziatore» spiegò Laura, con un’espressione tirata. «Non ricordo bene... devo aver guardato David senza capire bene quello che era successo, poi ho gettato a terra la pistola e, mentre stavo per uscire dalla stanza, Ken ha detto: ‘Ferma!’ Ha tirato fuori un fazzoletto e si è messo a pulire accuratamente l’arma.» «Piuttosto sveglio per essere fatto di eroina» osservò Gina. «Era lentissimo. Sembrava muoversi al rallentatore mentre io gli intimavo di sbrigarsi. Tremavo come una foglia. Quando alla fine si è rialzato, l’ho trascinato via. Non sapevo dove andare, l’unica cosa certa era uscire di lì il prima possibile. Vicino alla sala da pranzo abbiamo incontrato Joe, era furioso. ‘Dove diavolo vi eravate cacciati?’ sibilò, e Ken rispose: ‘Bellino è morto nel suo studio. Lo abbiamo appena trovato. Dobbiamo svignarcela!’ Naturalmente Joe ci ha guardato come se fossimo impazziti. ‘Gli avete sparato voi?’ chiese, e come se d’un tratto mi fossi riscossa da uno stato di torpore, in uno sprazzo di lucidità dissi: ‘Ma cosa ti salta in mente, sei fuori di testa? Non so chi gli ha sparato, ma è morto, e voi dovete sparire di qui più veloci della luce!’ Joe se ne sarebbe andato all’istante, ma gli ho ricordato del piano originale e del fatto che dovevano legarmi. Dio solo sa come ho fatto a mantenere i nervi saldi in quel momento... Joe mi ha trascinata in una stanza, mi ha scaraventata a terra e mi ha legata con la corda che aveva portato, e poi è scomparso e io sono rimasta lì con il cuore che mi martellava nel petto.» «Io ho avuto subito la sensazione che qualcosa non quadrava» disse Gina, «perché quando l’ho liberata, ho notato la facilità con cui è riuscita a slegarsi. Quel Joe non ha stretto neanche un nodo. Ho avuto subito il sospetto che lei avesse qualcosa a che fare con i ladri.» «Ma non l’ha detto all’ispettore!» «No. Non lavoro mica per lui.» «Neanche noi» disse Laura a bassa voce. L’alcol di cui ciascuno si era servito più volte cominciava a mostrare i suoi effetti. Si respirava uno strano clima: un sentimento di solidarietà, amicizia, fiducia. Quella giovane donna, pallidissima, che aveva appena ammesso di aver commesso un omicidio, aveva risvegliato compassione e comprensione. Alla fioca luce delle candele, nella strana frenesia di quella notte, tutto sembrò affievolirsi. Quello che era successo insieme a quello che sarebbe successo non sembravano appartenere alla loro realtà. «Davvero Laura», ripeté Gina, «non deve rimproverarsi nulla. Era stravolta.» «Nessuno di noi la tradirà» aggiunse Steve allungando la mano per la quarta volta verso la bottiglia di vodka. Mary si premette una mano contro la fronte. «Sto per crollare» disse. Tutti si sorrisero.


Soltanto Natalie, come sempre la più attenta, a un tratto chiese: «Quanto può fidarsi di Ken, Laura?» «Quanto ci si può fidare di un drogato» replicò Laura. L’alcol e le parole di conforto non erano stati sufficienti a placare le sue paure. Era bianca come un lenzuolo.

2 Plin plin... l’acqua gocciolava come al solito a terra in un angolo buio della cantina. Ken si agitava sul suo materasso. Aveva dormito poco e male, e aveva avuto brutti incubi in cui serpenti e vermi gli strisciavano sulle gambe. Ciononostante il sonno lo aveva quantomeno liberato per un po’ dalle sue sofferenze. Ma ora era di nuovo tutto là: la nausea, il freddo, il sudore ghiacciato sulla pelle, la sete ardente, i crampi allo stomaco. Aveva vomitato già due volte, ma non si sentiva meglio. La mandibola e i denti gli facevano male. Doveva assolutamente farsi, subito; aveva la sensazione di non resistere. «Laura» biascicò, la lingua attaccata al palato. Sentiva un dolore lancinante alla tempia. Strizzò gli occhi alla luce abbagliante che gli inondò il viso. D’un tratto la cantina non era più buia, vi si era insinuato un funesto essere luminoso, sconosciuto. «Laura» biascicò ancora una volta. «Laura non è qui» rispose una voce sopra di lui. Conosceva quella voce e cercò di concentrarsi. Se solo quella luce non ci fosse stata... e i dolori... fiaccamente si sforzò di tenere la mano sugli occhi, ma non ci riuscì. «Joe...» «Sì, sono Joe. E ci sono anche Ben e Jay. Stai uno schifo, Ken!» «Hai una dose per me, Joe?» Plin plin, l’acqua andava avanti a gocciolare nell’angolo. Un’altra dolorosa fitta allo stomaco; era come se un topo con i denti aguzzi, gli rosicchiasse le viscere. Gemendo, Ken si rotolò sul fianco, tirò a sé le gambe e le strinse forte contro il petto. Il tanfo di morte del materasso gli invase il naso. Le giunture e le ossa sembravano di gomma e gli dolevano terribilmente. Piagnucolando con un filo di voce ripeté: «Ti prego Joe, una dose!» Joe si chinò su di lui, e con una espressione dolce negli occhi, gli disse: «Ho qualcosa per te, Ken. Qualcosa di molto bello...» Sventolò la siringa, e Ken riuscì a vederla alla luce della pila tascabile di Jay. Prese ad ansimare, il naso lucido di sudore. «Joe... ti prego...» «Un po’ di bella e sana eroina» disse Joe lentamente. «Pensa quanto ti sentirai meglio dopo! La vuoi? Vuoi che te la inietti?» Ken cercò di alzarsi. «Joe...» disse, la bava alla bocca. Joe indietreggiò. «L’avrai Ken. Ma non così in fretta. Devi dirmi prima


la verità, capito? Prima la verità... chi ha sparato a David Bellino?» Le mani di Ken si avvinghiarono al materasso. «Joe...» La nausea stava crescendo, doveva vomitare, e quando si riaccasciò, inerme, giaceva nel suo stesso vomito. Gli salirono le lacrime agli occhi. Cosa voleva Joe? Se fosse riuscito a raccogliere i suoi pensieri, si sarebbe potuto concentrare su quel che era successo! «Chi ha ucciso David Bellino?» chiese Joe calmo. La siringa brillava alla luce. Ken aveva la gola secca, avrebbe voluto dell’acqua ma non era in grado di chiederla. «Io... io.» «Cosa stai dicendo, Ken?» «Le lettere» disse Ken in un sussurro appena percettibile, «le mie... lettere... io... mi aveva portato via Laura...» Joe non aveva idea delle lettere minatorie che aveva ricevuto David Bellino, e non gli interessavano neanche. «Chi lo ha ucciso?» Joe posò la siringa e afferrò il panno con cui Ken si legava di solito il braccio. Glielo allacciò e strinse forte. Le lacrime rigavano il viso di Ken. «Ti prego, Joe, ti prego...» In attesa della droga, il suo corpo prese a tremare, e i dolori erano diventati ancora più insopportabili. «Non me ne frega niente delle tue lettere, Ken. Chi ha sparato a David Bellino? Chi c’era quella notte?» Immagini confuse vorticarono nella memoria di Ken. Non riusciva a ricordare... Laura, la bella Laura, gli stava davanti con una pistola in pugno e premeva il grilletto... David Bellino collassava con un tonfo sul pavimento, le mani premute contro il petto, sangue ovunque... quel porco che gli aveva portato via la sua Laura... «Laura» disse a fatica, «Laura gli ha sparato.» «Proprio quel che pensavo» rispose Joe soddisfatto. Jay ridacchiò tutto contento. «Allora dovrà darci un bel po’ di soldi se vuole che teniamo chiuso il becco» disse, esprimendo un’idea senza dubbio di Joe e non sua. «Giusto, Joe? Perché non andiamo subito da lei e ci facciamo dare i soldi?» «Stai zitto» tuonò Joe. Si chinò sopra Ken e gli ficcò l’ago nella vena dell’avambraccio. Fece una smorfia di disgusto. Era ricoperto di buchi e cicatrici. Che schifo! Sotto le mani di Joe, il corpo fiacco di Ken si rilassò. Joe si rialzò. «Okay, Jay. Adesso andiamo via, Ken dormirà almeno per un paio d’ore e noi nel frattempo potremo riflettere sulla prossima mossa.» Pensava a Laura e ai soldi che avrebbe ricevuto; una fetta della torta spettava anche lui. Sin dall’inizio aveva sospettato che fosse stata lei quella che aveva mandato Bellino all’altro mondo. Dio solo sapeva se ne era valsa la pena! E ora doveva dividere il bottino. Guardò Ken, le cui palpebre sugli occhi chiusi incavati tremolavano. L’istinto gli diceva che era quasi al capolinea. Meglio così. Uno in meno a rivendicare la sua parte. Ancora non sapeva che gli aveva appena fatto


l’ultimo buco della sua vita. Nell’angolo, l’acqua continuava a gocciolare.

3 Steve si svegliò inondato da una luce accecante. Per un attimo si chiese dove fosse: sulle isole di Scilly? A Londra? In prigione? Poi ricordò tutto e si alzò. Manhattan era ammantata di una coltre di neve che riluceva abbagliante alla luce del sole tornato a splendere in un cielo blu, terso e sereno; l’esatto contrario della notte precedente, passata al chiarore delle candele, tra ombre, voci sussurrate e tenerezze segrete. Ci sono delle notti in cui si potrebbe credere che la vita sia solo un gioco. Ma non è così, la vita non è un gioco, mai. Anche se in alcuni momenti si ha la sensazione di poterla dominare. La notte precedente eravamo tutti un po’ fuori di testa, pensò Steve, mentre si faceva la barba in bagno. Aveva preso una bottiglia di champagne dal frigobar e ne aveva versato un po’ in un bicchiere e solo sorseggiava di gusto. Indossava un soffice accappatoio con le iniziali dorate di David ricamate sul davanti. Tutto ciò che lo circondava era bello, lussuoso, aristocratico. Accidenti, non sarebbe stato certo difficile abituarsi a una vita così, tra champagne, mobili eleganti e abiti raffinati. Questa Laura è fortunata, pensò. Finito di farsi la barba, si avvicinò alla finestra. La magnifica vista sulla città ammantata di neve gli tolse il fiato per la seconda volta. Doveva essere straordinario possedere un attico in quella città. A Laura bastava schioccare le dita e ogni suo desiderio sarebbe stato esaudito. Era incredibile quanti soldi avrebbe avuto quella ragazza dalle umili origini. Una vita intera non sarebbe bastata per spenderli tutti. Se avesse dato a ciascuno di loro un milione, non si sarebbe neanche accorta della differenza, pensò con disappunto. La luce splendente del giorno faceva vedere le cose da un’altra prospettiva; il profondo sentimento travolgente di amicizia e fiducia che aveva allietato la notte era svanito! Non c’era più nulla di sacro, di solenne! La notte precedente si era convinto: Con Mary al mio fianco, potrei vivere persino in estrema povertà. Ora, invece, tutti i suoi desideri materiali si erano risvegliati: un appartamento, un’auto, champagne a fiumi... E brava Laura, arriva, uccide un uomo e si prende tutti i soldi! E noi ce ne andiamo a mani vuote, con solo la rabbia per aver sprecato un’occasione! Distrattamente si infilò pantaloni e pullover, poi guardò l’orologio. Otto e dieci... un po’ presto, ma chissà, magari Laura non aveva dormito bene ed era già sveglia. Non volle parlarne con le altre. Senza far rumore uscì in corridoio. L’appartamento era immerso nel silenzio del mattino.


L’ispettore Kelly si chinò su Ken, ormai morto, e lo scrutò come se potesse carpirgli qualche segreto. «Povero ragazzo» mormorò. Plin plin... l’acqua gocciolava nell’angolo. Kelly si guardò intorno nella cantina buia. Attraverso la finestra, filtrava un vivace raggio di sole che illuminava una scia di sbuffi di polvere volanti nell’oscurità, e finiva in una chiazza dorata sul pavimento grezzo. L’aria era satura della puzza del corpo in putrefazione sul materasso. Dunque questa cantina, pensò Kelly, è stato il nido d’amore segreto di Laura. La scena che gli si parava davanti in quell’antro era in palese contrasto con i gioielli che lei indossava la sera prima, ma non se ne meravigliò. La vita riserva brutte sorprese, e Laura era proprio il genere di persona che può finire inghiottita da certi vortici e soccombere. «Overdose di eroina» disse il medico che Kelly aveva chiamato subito dopo aver scoperto il morto. «È tutto molto chiaro. Direi che la morte è avvenuta la scorsa notte, tra mezzanotte e le due.» «Segni di lotta?» chiese Kelly. «Voglio dire, è possibile che non si sia fatto da solo?» «Certamente non si è fatto da solo» rispose il medico, «la siringa è stata trovata dall’altra parte della stanza su una mensola. È molto improbabile che avesse ancora la forza per alzarsi e riporla là sopra. E poi, perché avrebbe dovuto farlo?» «Già, giusto» Kelly si mordicchiò le labbra. Avrebbe potuto pensarci anche lui. «Ma» proseguì il medico, «non credo ci sia stata una lotta, o almeno non ce n’erano i segni.» «Mmm» annuì Kelly. E poi rifletté ad alta voce: «Chi gli ha fatto l’iniezione? Non può essere stata Laura!» Il medico lo guardò con aria interrogativa. «Bene» tagliò corto Kelly, «mi sono venute in mente un paio di cose. Torno subito. Vado un attimo in macchina per fare una telefonata.» Salì le scale, e uscì nella neve, il cui magnifico candore faceva apparire più bello persino quell’orribile quartiere del Bronx con le sue case fatiscenti, i cartoni alle finestre e le macchine sgangherate ferme nei cortili. Kelly dovette strizzare gli occhi per quanto era abbagliante la luce. Si sedette nella sua macchina e compose il numero. Dopo qualche squillo, qualcuno rispose. «Pronto?» La voce suonava assonnata e calda, ma lui la riconobbe ugualmente. «Signorina Hart? Sono Kelly. Mi dispiace averla svegliata...» «Va bene, non mi ha svegliato. Non... mi sento molto bene. Ho preso una pillola per dormire stanotte, e oggi sarò intontita per tutto il giorno.» «Beva un po’ di caffè, magari aiuta.» «Già fatto. Ispettore...» Nella mente di Laura sembrò tornare un po’ di lucidità. «Cosa è successo? Perché mi chiama così presto?»


«Laura, sono qui da Ken...» «Da Ken? Mio Dio, come sta? È dall’altro giorno che non si fa, deve essere fuori di testa...» «Laura...» Del suo lavoro, quelle erano le situazioni che Kelly odiava di più. «Ispettore, Ken sta molto male?» «Laura... signorina Hart... Laura...» Kelly fece uno sforzo. «Ken è morto. Mi dispiace.» «Cosa?» «L’ho trovato morto nella cantina sul suo materasso.» «Non può essere vero!» «Mi dispiace, è così.» «E lei è sicuro che sia Ken?» «Le persone che abitano nel palazzo lo hanno confermato.» Qualche secondo di silenzio, poi Laura chiese senza giri di parole: «Come è morto?» «Overdose.» «Non può essere» ripeté, «non aveva soldi per l’eroina. Non aveva nessuna possibilità di comprare della roba. E senza soldi non te la dà nessuno!» «Lo so. E comunque non si è fatto da solo. Qualcun altro deve avergli fatto l’iniezione tra mezzanotte e le due di stanotte.» «Qualcuno che voleva ucciderlo?» «Non necessariamente. Il medico dice che era già in condizioni molto precarie e non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo, forse non più di un paio di giorni. Il suo corpo non aveva più la forza di reagire.» Tacque in attesa che Laura dicesse qualcosa, ma anche l’altro capo del filo taceva. Si chiarì la voce. «Laura?» «Sì?» «Vengo subito lì. Dobbiamo parlare ancora una volta di tutta la faccenda.» «Sì» rispose con il fiacco tono della resa. Kelly disse: «A fra poco, Laura!» E riattaccò. Doveva raggiungere di nuovo il medico in quell’inferno. E pensare che Laura e quel poveretto si erano amati lì dentro... Cosa aveva significato davvero quel ragazzo per Laura? Era uno dei tanti misteri irrisolti di quel caso. Sospirando uscì dall’auto. Gli occhi di Laura vagarono sullo skyline di Manhattan e poi andarono a posarsi sulle case più basse in mattoni rossi, sulle cui facciate si snodavano le scale antincendio in ferro. Casette delle bambole, macchinine giocattolo, pupazzi. Dalla camera da letto si poteva vedere l’East River che scorreva, blu luccicante, al sole d’inverno. Nel cielo sgombro di nuvole sopra il Queens si librava, elegante e sinuoso, un aereo dopo l’altro. Andavano da un continente all’altro, sorvolavano gli oceani, e atterravano in ogni angolo del pianeta. Era diventato tutto così


veloce; il Concorde era in grado di raggiungere l’Europa in meno di quattro ore. Era quello il sogno dell’uomo? Andare sempre più veloce, tendere alla perfezione assoluta? E man mano che saliva avvicinandosi al sole, lasciarsi la terra alle spalle? Le case avevano ormai conquistato il cielo, che appariva squarciato da grattacieli in vetro e acciaio, che alle volte apparivano come sgozzati dalla nebbia. Quei maestosi grattacieli... li si ammira col fiato sospeso, anelando la sensazione di leggerezza e libertà che sprigionano, per poi salire, piano dopo piano, fino in vetta con lo stesso desiderio con cui si sale, gradino dopo gradino, nella vita. E una volta giunti in alto, tra le nuvole, ci si accorge che l’aria è rarefatta, il respiro diventa affannoso... e finalmente si comprende che l’uomo è, e resterà sempre, un essere piccolo e imperfetto, effimero. Ken era morto. Laura si voltò, e osservò la stanza in cui aveva dormito con David per un anno. Ogni dettaglio appariva come amplificato: il grande armadio con le ante a specchio. Le lampade colorate a destra e sinistra del letto. Gli inestimabili dipinti alle pareti, scene di guerra dell’antica Bisanzio. Il finto pesco in fiore che David aveva portato dalla Cina – come se non potesse trovarlo a un buon prezzo anche lì da Bloomingdale’s – su cui lei solitamente appendeva le sue collane di perle, strass, giade, granati, turchesi e tutti i suoi gioielli meno preziosi. I rubini che aveva indossato la sera prima giacevano sparpagliati sul piccolo divano blu scuro con le stelle dorate e una falce di luna. Era stato un regalo di David. Laura lo aveva trovato un po’ kitsch, ma ne era stata comunque contenta perché aveva sentito quel gesto come una sorta di carezza per la sua anima. Mai più nessuno le avrebbe accarezzato l’anima adesso. Nessuno, mai più. Tutto intorno a lei era freddo e grigio. Lei stessa era fredda e grigia. Era morta anche lei con Ken, che giaceva senza vita sul suo sudicio materasso nella cantina. Doveva morire da solo, senza di lei. Lei indossava biancheria di seta, gioielli, bei vestiti, lui era morto nello squallore e nella solitudine. Non avrebbe mai dovuto abbandonarlo. Io l’ho amato, lo amo ancora, e lo amerò per sempre. «Ken!» urlò. Gli aveva raccontato tante cose: di David, che non lo amava ma le serviva perché i suoi soldi la facevano sentire al sicuro; altrimenti dove avrebbe potuto sentirsi altrettanto sicura? Si chiese cosa avesse pensato Ken di lei nei suoi ultimi attimi di vita. Che lo aveva tradito? Che era una persona corrotta? Che per i soldi di David Bellino non era stata fedele al suo amore verso di lui? Che si era fatta comprare per farsi ricoprire di velluto e seta? Perché avrebbe dovuto pensarla diversamente? Cosa significava per lui il fatto che lei gli portasse i soldi rubati a David? Elemosina al posto dell’amore; eppure lei lo aveva amato profondamente. Le dita scheletriche, le braccia bucherellate, il corpo morente, ridotto a un vegetale, e gli occhi che esprimevano la consapevolezza di essere a un passo dalla morte. Ken era la personificazione della realtà e della verità, le sue realtà e verità. Lui aveva avuto bisogno di lei, e lei lo aveva abbandonato. Il rimorso, il


dolore, l’impossibilità di accettare che non avrebbe più potuto sistemare le cose esplosero tutti con uguale violenza nel suo intimo. Quel senso di paralisi che si era impossessato di lei dopo aver appreso la notizia da Kelly era svanito. «Ken!» urlò, e come faceva da bambina, stava per andare a rannicchiarsi in un angolo per piangere, quando da fuori giunse una voce: «Sono Steve. Posso... posso entrare?» Non aveva sentito bussare. Istintivamente strinse la cintura della vestaglia e guardò il suo riflesso nello specchio; era pallidissima, persino le labbra avevano perso il loro colore. Non le importava, che Steve pensasse quello che voleva. «Sì. Entri pure Steve.» Entrò e chiuse la porta con un gesto deciso della mano. «Buongiorno, Laura. Disturbo?» «No. Cosa c’è?» «Posso sedermi un attimo?» «Prego» Lei rimase in piedi. Steve notò che la donna aveva la mente altrove e ne rimase disorientato; per di più non stava affatto bene, era pallidissima! Ma forse dipendeva dal bianco sole d’inverno che sembrava spegnere il volto di tutti. Steve decise di non preoccuparsene troppo. «Laura, riguardo la notte scorsa...» «Sì?» «È... è sembrato tutto così semplice, giusto?» La notte scorsa ... sembrava passata una eternità. La notte scorsa, Ken era morto. Laura si portò le mani alle tempie. «Cosa vuole dirmi, Steve?» «Io... la notte scorsa io ho pensato che tutti i miei problemi fossero risolti. Lo abbiamo pensato tutti. Sa, amo Mary, e la notte scorsa ero convinto che questo amore fosse l’unica cosa importante. Tutto il resto era irrilevante. Insignificante. Ma ora... la notte è passata, non è più buio...» Mi prenderà per un pazzo, pensò. «È come se la luce si fosse accesa di nuovo su tutto ciò che mi preoccupa. La mia paura del futuro... la sensazione di non aver più la terra sotto i piedi...» «Capisco» disse Laura in tono neutro, «lo stesso vale per me.» Se Steve fosse stato un po’ meno concentrato su se stesso, avrebbe visto il dolore negli occhi di lei. Ma lui, solo un po’ stupito, si chiese: Come fa a capirmi? Non mi sta nemmeno ascoltando! «Quando tornerò in Inghilterra, la mia vita riprenderà da dove si era interrotta» proseguì, «non ho un lavoro e non ho soldi. Per tutti sarò sempre un detenuto. Non ce la farò, nessuno mi darà mai una possibilità.» Quella strana apatia nello sguardo della donna. Era stanca, stanca morta. «Laura, lei può aiutarmi. Tutto ciò che era di David, è suo adesso. Ha più soldi di quanti ne potrebbe spendere in una vita intera. È da sola alla guida di un impero. Potrebbe fare qualcosa, qualunque cosa, per me.»


Per la prima volta dall’inizio del colloquio, Laura sembrò rianimarsi. Corrugò la fronte. «Cosa intende dire?» chiese scrutandolo. «Solo quello che ho detto» Steve si alzò. Lo irritava doverla guardare dal basso in alto. I suoi occhi si posarono sul sorriso di David, ritratto in una fotografia in cornice d’argento che campeggiava sul tavolino; era un freddo sorriso compiaciuto che diceva: attenti, ho ancora tutto sotto controllo! «Un lavoro alle Bredow Industries. Un bell’appartamento qui a Manhattan. Darebbe una svolta alla mia vita. Avrei la possibilità di ricominciare. E il suo conto non se ne accorgerebbe neanche!» «E lei pensa che per me un milione e mezzo di dollari per un ‘bell’appartamento’ a Manhattan siano noccioline?» «Lei possiede un miliardo!» «E dopo? Cosa vorrà dopo? Una casa per le vacanze in Costa Azzurra? Un ranch in California? Uno yacht? Un jet privato? Ah, non dimentichiamoci di una collezione di belle auto e una palestra! Qualcos’altro? Avanti, deve solo chiedere!» «Laura, mi ha frainteso. Io non voglio...» «Io l’ho capita benissimo, Steve. E in fondo, me lo aspettavo.» Adesso Laura parlava in tono deciso. L’intontimento di qualche attimo prima era svanito. «Lei e le sue amiche sapete che ho commesso un omicidio. Ho sparato a David Bellino, e ve l’ho anche confessato. Tutti i discorsi sull’amicizia, la coesione... lo champagne, il chiarore delle candele della scorsa notte... ma alla luce del giorno tutto appare più chiaro, giusto? Le cose appaiono in un’altra prospettiva. Come si dice? L’amicizia non si può comprare. Ma il silenzio sì, e a caro prezzo.» «Santo cielo, non era affatto questo quello che volevo dire... no, Laura, mi ha frainteso, davvero. Questo suona come un...» «...un ricatto, bravo. Lo dica pure. Che sciocca sono stata, avrei dovuto pensarci la notte scorsa. Avrei dovuto immaginarlo che le cose avrebbero potuto prendere questa piega. Ed ecco che, senza perdere tempo, lei bussa subito alla mia porta pronto a fare la prima mossa... non mi importa. Per il resto della mia vita sarò ricattabile. Quattro persone possono mettermi con le spalle al muro senza farsi alcuno scrupolo. Fantastico! Avete bisogno di soldi! La buona Gina ha urgente bisogno di soldi. Mary ha bisogno di soldi nel caso si separi da quel mostro di suo marito. E quanto a Natalie, una volta che il valium l’avrà messa definitivamente al tappeto, si ricorderà probabilmente di me. E io pagherò, pagherò, pagherò...» Rise. Era una risata disperata, stridula. «Tutto questo è assurdo!» «Laura, vorrei che mi capisse. Che ci capisse tutti quanti. Abbiamo odiato David, e in qualche modo ci sentiamo tutti coinvolti. Non ci sentiamo di giudicarla... Siamo dalla sua parte perché...» Gli occhi di Laura erano traboccanti d’ira. «La smetta con questa farsa! Non voglio ascoltare altre menzogne! Le dirà anche a un pubblico ministero? Certo che no! Se le cose si mettono male, sarò io l’unica


responsabile di tutto. Non lei, e neanche le sue preziose amiche. E adesso sparisca! Mi lasci sola, devo riflettere...» «La prego, io...» «Ho detto, sparisca! Se ne vada!» e siccome lui indugiava ancora, urlò: «Fuori!» Steve uscì in fretta e furia dalla stanza sbattendo la porta. Laura afferrò un vaso di cristallo e lo scagliò a terra. I frammenti volarono dappertutto sul pavimento in marmo e lei vi si accasciò in mezzo. Rimase immobile. Da sopra il tavolo, David le sorrideva beffardo. In corridoio, davanti alla camera di Laura, Steve incontrò Gina e Natalie. Erano vestite, ben pettinate e truccate; sembravano essersi riprese dalla notte precedente. Natalie doveva aver già preso la sua dose mattutina di valium perché aveva un’aria tranquilla. «Buongiorno, Steve» disse. Gina invece emise un lieve gridolino. «Oh, guarda! È Steve! Se non sbaglio viene dalla stanza della cara Laura! Cosa volevi da lei, Steve?» Steve impallidì, una chiara espressione di fastidio. «Cosa ci fate voi qui?» chiese di rimando in tono aggressivo. «Stiamo andando in sala da pranzo nella speranza che qualcuno ci faccia fare colazione» disse Gina scrutandolo con insistenza. «Su, forza, cosa volevi da Laura? Soldi?» Adesso invece divenne paonazzo. «Macché!» si affrettò a rispondere. «E comunque non devo rendere conto di certo a te, Gina!» «Ma noi siamo buoni amici! Ci fidiamo l’uno dell’altra e possiamo dirci tutto.» Gina fece un sorriso ironico. «Su dai, ammettilo. Ci hai provato!» «Abbassa la voce!» le intimò Natalie. «Chi è che ha provato a spillare soldi a David proprio prima che morisse?» sibilò Steve. «La nostra umile Gina, bella e intelligente! Sei andata dritta da lui, pronta persino a venderti l’anima pur di levarti di torno gli ufficiali giudiziari!» «È per questo che sono venuta a New York!» «Anch’io!» Si fissarono per un attimo, poi Gina disse in tono freddo: «Ma io non ho ricattato nessuno!» «Cosa vuoi insinuare?» «Cosa voglio insinuare? Che quello della scorsa notte è stato davvero un bello spettacolo, no? Libertà, uguaglianza, fratellanza. David è morto. In un certo senso, ci sentiamo tutti sollevati; la colpa è stata espiata. E noi abbiamo celebrato solennemente l’evento. Eravamo un tutt’uno noi e Laura. Sarebbe potuto essere un lieto fine. Un meraviglioso lieto fine.» Natalie e Steve tacquero. Alla fine Natalie disse sottovoce: «Il lieto fine non esiste!» «No, appunto» disse Gina. «La vita non finisce mai. Il mondo continua a girare inesorabile. A ogni notte, segue inevitabilmente un nuovo giorno, e alla luce del sole le cose appaiono completamente diverse.»


Strano, rifletté Steve, è proprio quello che ho pensato io stamattina. E anche Laura ha detto qualcosa del genere. Abbiamo tutti gettato la maschera? «Alla luce del sole» proseguì Gina, «il piccolo caro Steve pensa: adesso so tanti segreti di Laura Hart che sarebbero molto interessanti per alcune persone. Quanto sarebbe disposta a mettere sul piatto la ricca Laura Hart, se io con discrezione le facessi capire che potrei spifferare tutto?» «Non sai quello che dici!» «Ma dobbiamo continuare a discutere proprio qui nel corridoio?» chiese Natalie. «Qui ci sono orecchie dappertutto!» Steve decise di passare al contrattacco. «Dopo quanto tempo saresti andata tu da Laura, Gina? E Mary? Prima o poi, persino la nostra nobile Natalie avrebbe capito che forse qui c’era qualcosa da prendere! Era solo questione di tempo!» Una domestica passò loro davanti, osservò timidamente il gruppetto e accennò un saluto. Non appena fu scomparsa, Gina mormorò: «Un tempo eravamo diversi, avremmo tenuto duro, ci metterei le mani sul fuoco». «La vita logora la legalità» disse Natalie. «Tornereste indietro?» «No» risposero Steve e Gina in coro, ed entrambi pensarono nostalgici: Sì. Sì. Sì. Un raggio di sole danzò attraverso una plafoniera ovale e illuminò una statua di bronzo sul tavolo di vetro. Raffigurava un atleta muscoloso e snello nell’attimo in cui scagliava un giavellotto con la mano in alto sopra la testa. In tutto l’appartamento c’erano molti quadri e sculture con soggetti simili. David adorava quel genere di arte con motivi bellici. Almeno, pensò Gina, non ha appeso orribili scene di caccia con cervi abbattuti al tramonto con un branco di cani abbaianti intorno. Chi era davvero David Bellino? Stanca e sfinita Gina rinunciò a cercare di risolvere quell’enigma. Due sole cose le occupavano la mente e il cuore adesso: da un lato la delusione per essersi resa conto che l’amicizia poteva essere cancellata con un rapido e netto colpo di spugna come le stelle al mattino – non rimaneva nulla, se si illuminava il lato in ombra della vita, il suo rovescio, si vedeva solo puro egoismo. E poi pensava a Charles. Da quando lo conosceva non aveva mai provato nostalgia per lui, ma adesso all’improvviso le mancavano il suo sguardo pieno di fiducia, la sua dolce voce, la sua risata timida che chiedeva tenerezza. Pensò a lui con quel misto di irritazione e amore con cui una madre pensa al suo bambino lagnoso, difficile ma amatissimo. Voglio tornare a casa. Da Charles. Voglio andare via da New York, dall’omicidio di David, dall’ispettore, dai sospetti, dagli intrighi, dagli spudorati tentativi di ricatto. Ne ho abbastanza di tutto! Con la sua tipica durezza, scacciò i pensieri e disse in tono vivace: «Potrei fare qualche altra cinica osservazione sull’amicizia, ma...» «Ne siamo convinti!» intervenne Natalie.


«...stavamo andando a fare colazione, e vorrei portare a compimento il piano. Ho molta fame. Allora, venite con me?» «Non dovremmo chiedere a Laura se vuole fare colazione con noi?» disse Natalie titubante. «Meglio di no. Penserebbe che vogliamo ingraziarcela o che vogliamo farle capire con discrezione cosa intendiamo fare se non ci sgancia un paio di dollari.» Gina sorrise. «È difficile comportarsi in modo normale e spontaneo con certa gente, tipo con chi è molto ricco o chi ha commesso un omicidio. E sfortunatamente, la nostra amata Laura ne è la perfetta sintesi!»

4 «Cara Gina, cara Natalie, cara Mary e caro Steve. La scorsa notte Ken è morto. L’ispettore Kelly mi ha appena telefonato per dirmelo. La causa della morte è stata un’overdose. Ho pensato e ripensato a come sia riuscito a procurarsi la roba, non aveva né soldi né un lavoro, e dato che il suo corpo era ormai alla fine non credo abbia potuto farlo neanche con la forza. Gliel’ha data qualcuno, però niente è gratis dove sono cresciuta io. Gli unici a cui posso pensare sono quindi i suoi amici, Joe, Ben e Jay, che in cambio avranno ottenuto le informazioni che volevano. Probabilmente sanno già chi è l’assassino di David Bellino. Ken non si è portato di certo il suo segreto nella tomba. Io lo conosco, so com’era quando era in crisi di astinenza, quando si contorceva per i dolori, quando era buttato sul pavimento davanti a me e mi supplicava per una dose. In quei momenti, avrebbe venduto la madre. Dunque, probabilmente abbiamo altri tre testimoni: otto persone al corrente di un omicidio sono un po’ troppe, non credete? Tuttavia, voi vi sentirete sicuramente meno minacciati di me, perché in fondo avete le mani pulite. Le cose per me invece si sono complicate. Finché avrò vita, dipenderò dalla benevolenza di sette persone. Steve, stamattina lei voleva un impiego alle Bredow Industries e un appartamento a Manhattan. Sa bene che non ho altra scelta che esaudire la sua richiesta. Cosa vogliono le altre? Sono sicura che me lo comunicheranno discretamente e amichevolmente anche loro, anche se magari non così in fretta come ha fatto Steve. E non dimentichiamoci di Joe, Ben e Jay. Avranno senz’altro tantissimi desideri insoddisfatti. Credo che Jay e Ben siano anch’essi drogati e quindi saranno un pozzo senza fondo. Quanto a Joe, sono certa che punti molto più in alto. Sapete, mi sento così terribilmente infelice. E non perché sono circondata da un esercito di ricattatori. No, mi sento proprio come quando mi svegliavo di notte, al freddo e al buio, e chiamavo mia madre. O come quando vagavo per le strade per cercarla. Ogni notte pensavo: Questa volta è morta! Questa volta è quella buona! Quando poi


alla fine è successo, non riuscivo a credere che la vecchia donna gonfia che giaceva nella neve davanti a me fosse davvero mia madre. Non riesco a credere che Ken sia morto. Non riuscivo a crederci neanche quando David, sporco del suo stesso sangue, è crollato a terra nel suo studio. Del resto, ancora adesso non saprei dire perché gli ho sparato. So solo che vorrei non averlo fatto. Avevo paura. Cosa aveva detto David a proposito dei ratti che devono tornare nelle fogne? Avevo il terrore di tornare lì da dove ero venuta! Una volta in un libro ho letto: la paura la assalì. Ho trovato questa frase perfettamente azzeccata. È proprio così. C’è la paura che si sveglia pian piano, da qualche parte nello stomaco e poi striscia, allargandosi sempre più come la nebbia o il fumo fino a penetrare ogni recesso più intimo, paralizzando di fatto il corpo. E poi c’è questa paura che ti assale all’improvviso e inaspettatamente, con gli artigli aguzzi e i denti affilati. Non paralizza il corpo ma lo fa sussultare, lo fa impazzire. Da questa paura sono stata assalita quando ho origliato il colloquio tra David e Gina. Non so se mi sono spiegata bene, ma mi sento così infelice. Questo attico è così freddo, così eccessivo. Mi è sembrato particolarmente inospitale al sole abbagliante di questa mattina d’inverno. Nonostante il riscaldamento, avevo tanto freddo. Ma il freddo è dentro di me, da sempre. Nella nostra casa nel Bronx, in inverno faceva talmente freddo che ancora oggi mi chiedo come non siamo morti assiderati, eppure quel che ricordo non sono le sofferenze per i geloni alle dita, ma per la sensazione di solitudine che aveva invaso il mio cuore. Mentre vi scrivo, sto bevendo un bicchiere di nocino dopo l’altro. David lo ha fatto arrivare dall’Europa. Penso che sia qualcosa di molto esclusivo, molto difficile da trovare. David ha sempre avuto una passione per le cose di questo tipo. Mi sento già un po’ brilla. Forse ho esagerato. La mia testa si gira. No... si dice mi gira la testa. Sono molto stanca, stanca della vita probabilmente. Non saprei dire quanto sia grande il mio dolore per Ken. Quand’è stata l’ultima volta che gli ho detto che l’amavo? Mi avrà creduto? Avrei dovuto dargli ben altro che i soldi. Adesso mi vergogno se penso che effetto devo avergli fatto in quella cantina dove gocciolava l’acqua, cresceva il muschio sulle pareti e gli scarafaggi strisciavano sul pavimento – che effetto devo avergli fatto con indosso i miei dannati vestiti firmati che spandevano il profumo di «Giorgio», e le scarpe costose! Io ho rotto con il nostro mondo e l’ho lasciato lì. Perché l’uomo non sa mai davvero cosa vuole? Avrei dovuto mollare David insieme alle sue chiacchiere e ai suoi soldi schifosi con un semplice sorriso freddo e andarmene via per la mia strada per fare la mia vita. Sarei rimasta fedele a me stessa, questa è l’unica fedeltà che conta, e sarei rimasta una persona libera. Ma sono consapevole che, se mi succedesse di nuovo, rifarei lo stesso errore, avrei le stesse paure. L’esperienza insegna, ma alle volte non ci è data la possibilità di scegliere.


Che ne sarà di me adesso? Qualcuno mi tradirà, questo è certo. Perderò tutto e starò per vent’anni dietro le sbarre, e quando uscirò non sarò più giovane. Forse troverò un derelitto che mi sposerà, un vedovo, crescerò i suoi figli, sopporterò i suoi umori, gli porgerò una birra la sera e mi dormirà addosso russando di notte. O forse no. Magari finirò dietro la cassa di un supermercato. O forse pulirò i gabinetti in un ospedale. Qualunque cosa sarebbe comunque vuota e vana senza Ken. Non ci sarebbe niente per cui ridere, niente per cui essere triste. Il vuoto sarebbe incolmabile. Non sono pronta a sopportare una tale tristezza, e non lo sarò mai. Se Ken fosse ancora vivo ci sarebbe ancora una speranza, ma non è così. Sono ubriaca adesso. Siccome non so più cosa fare, farò qualcosa di drastico. David, il potenziale suicida, ha sempre tenuto del cianuro in casa. Non gli serve più, quindi lo userò io. Muoio in una bella e luminosa giornata di dicembre a New York. Avvolta nella seta, almeno quello. Consegnate questa lettera al nostro amico ispettore Kelly. È una confessione; così vi lascerà tornare finalmente alle vostre case. Mi dispiace di avervi creato tutti questi problemi. Addio! Vostra Laura.


New York, 3.1.1990

«Ultima chiamata per il volo 707 Air France destinazione Parigi!» «Merda» disse Natalie. «Questo saluto è difficile solo per me, o lo è anche per voi?» «Forse è colpa di questi odiosi aeroporti» mormorò Gina, «e il JFK in questo non è secondo a nessuno.» «Ma davvero non c’è un bar migliore di questo?» chiese Natalie. Un paio di tavolini appiccicosi e panche dure, più o meno in mezzo a un corridoio. E si poteva andare a prendere qualcosa da mangiare o da bere su un bancone. Gina aveva proposto patate al forno con un contorno di funghi, e tutti erano stati inizialmente d’accordo, ma poi, dopo il primo boccone, tutti avevano allontanato i piatti. «Questi non sono funghi, ma una salsa!» «Una salsa disgustosa.» «Un pastone di funghi, ecco cos’è!» Sul tavolino impiastricciato di Coca-Cola c’erano quattro piatti colmi di patate, un bicchiere di spumante di Gina e tre di acqua minerale. Una plafoniera al neon illuminava la triste scena. Natalie e Gina non erano in tono con l’ambiente; erano vestite in modo troppo elegante. Gina ricordò che lei e Natalie già da ragazze erano convinte che per viaggiare ci si dovesse preparare sempre come se si dovesse incontrare l’uomo dei sogni. «Immagina se ti ritrovi seduto a fianco Jean Paul Belmondo, e tu indossi un vecchio jeans e una maglietta scolorita» diceva Nat. «Di’ un po’, si è mai seduto davvero Jean Paul Belmondo accanto a te in aereo?» chiese Gina adesso. Natalie rimase un attimo perplessa, e poi sorrise. «No. E a te?» «No.» Risero entrambe. «Non perdiamo la speranza.» Natalie si alzò. Era molto bella nel suo completo di velluto verde scuro. I capelli biondi splendevano alla luce della plafoniera. Per la prima volta, gli altri notarono le rughette intorno ai suoi occhi. Più che matura, la facevano ancora più bella. Quei sottili segni del tempo le si addicevano di più del viso liscio di una ragazza. Natalie apparteneva a quel genere di donne che diventano sempre più attraenti col passare degli anni. Adesso frugava nella borsa alla ricerca del biglietto. «Dov’è finito? Santo cielo, non l’avrò lasciato in camera? Non ci torno in quell’appartamento... ah, eccolo qui!» Lo tirò fuori.


Contemporaneamente volò una scatola sul tavolo. Erano le sue pillole. Tutti fissarono la scatola e poi Steve la prese e gliela porse. «Se non la smetto con questa roba, diventerò ospite fissa di tutte le case di cura» mormorò, mentre riponeva la scatola nella borsa. «Sarà complicato ormai farcela senza l’aiuto di un medico» disse Gina, «ma prima cominci, più facile sarà.» «Okay.» Natalie chiuse a scatto la sua borsa di Chanel, e dopo quell’attimo di debolezza, si trasformò di nuovo nella bionda fredda e sicura, che non permetteva a nessuno di guardarla dentro. «Ascolta, Mary, vai a Londra solo a prendere tua figlia. Poi vieni subito a Parigi. Non farti abbindolare dalle chiacchiere di quel farabutto di Peter. Quando gli uomini vengono lasciati, tirano fuori tutto il repertorio delle romanticherie, e purtroppo alcune donne ci cascano.» «Non io» la rassicurò Mary, il visino a forma di cuore apparentemente non del tutto convinto; solo chi la conosceva bene avrebbe colto la fiamma della determinazione che ardeva nei suoi occhi. «Al più tardi tra una settimana, ti raggiungerò a Parigi, Nat!» Come suonava bene! Parigi! Da New York a Parigi passando per Londra! Era l’inizio di una nuova vita. «Io e Claudine ti aspetteremo con gioia» disse Natalie. Si chinò e baciò tutti sulla guancia. «Arrivederci. Non dobbiamo più far passare tanto tempo senza vederci, okay? Datemi vostre notizie.» D’un tratto il dolore per l’addio, che avevano tanto cercato di evitare, si fece tangibile. Nessuno ne fece parola, ma tutti ne furono travolti. Erano di nuovo vicini come un tempo, quando ciascuno conosceva i segreti dell’anima dell’altro, e tutti si sentivano uniti da un indissolubile legame di incondizionata solidarietà. Quando Natalie si allontanò, gli altri tre avrebbero pianto volentieri. Quella sera al JFK c’era moltissima gente, ma ciononostante a ciascuno di loro sembrò di essere su un’isola deserta. «Il nostro volo parte tra un’ora» disse Gina. Lo disse più per vedere se aveva ancora la voce, perché gli altri lo sapevano benissimo. «Già» disse Mary. «Già» disse Steve. Gina prese il cucchiaio e diede un’ultima possibilità alla salsa nelle sue patate, ma come si aspettava le cose non erano migliorate. E poi per un pelo non le finì una goccia sulla corta gonna nera. Imprecò a bassa voce e spinse il piatto in fondo al tavolo. «Credo che berrò un altro po’ di spumante» disse. Come se la tristezza non fosse abbastanza, Mary chiese con la sua vocina cinguettante: «Perché Laura si è uccisa? Non riesco ancora a capirlo». Aveva rotto il tacito accordo di non nominarla più. D’un tratto, rivissero tutta la terribile scena: la sala da pranzo nell’appartamento di David col tavolo preparato per la colazione, caffè, pane, marmellata, formaggio e prosciutto, cereali... la solita routine di tutti i giorni,


proprio come quando David era vivo. Stavano mangiando con appetito, quando Helen, la giovane domestica apatica dai capelli biondo spento, era entrata nella stanza. «La signorina Hart è a terra nella sua camera. Credo sia morta.» Il viso di Laura era contratto; la bocca, dalle labbra bluastre, aperta. Natalie si era chinata su di lei e aveva percepito l’odore di mandorla amara che emanava la sua bocca. «Cianuro, credo» aveva detto con un filo di voce. Il dottore aveva confermato la diagnosi. «Deve aver ingerito una capsula. Il cianuro blocca la respirazione. È morta nel giro di pochi minuti.» Sbalorditi avevano assistito alla scena: la giovane donna morta sul pavimento e il medico dai capelli grigi in ginocchio accanto a lei. «Da quanto tempo è morta?» aveva chiesto Gina. «Deve essere successo poco dopo la visita di Steve.» «Forse un quarto d’ora» aveva risposto il medico. «Non di più.» L’ispettore Kelly era arrivato quando stavano portando fuori Laura su una barella. «Cosa è successo?» aveva urlato sconvolto. «Si sposti!» gli aveva intimato uno dei barellieri. Il sergente Bride, che gli stava alle spalle, aveva pensato con ira repressa: Accidenti, questa faccenda si fa ancora più complicata! Si era sbagliato. Mezz’ora più tardi, una Natalie bianca in viso aveva consegnato all’ispettore una lunga lettera. «Dunque» disse, una volta finito di leggerla, «Laura gli ha sparato. Ammesso che questa lettera sia autentica.» «Certo che no» gli aveva risposto Natalie con sarcasmo. «Sa, ispettore Kelly, noi quattro abbiamo somministrato il cianuro a Laura con la forza, e poi abbiamo scritto la lettera per assolverci da ogni sospetto. Un piano perfetto, ma avremmo dovuto immaginare che un uomo arguto come lei lo avrebbe intuito subito.» Le aveva gettato un’occhiata fulminante e poi aveva affondato lo sguardo di nuovo nella lettera. Nella camera da letto di Laura si sentiva ancora il suo profumo, sulla spalliera di una poltrona erano stesi i suoi abiti del giorno prima. Ovunque i frammenti del vaso di cristallo che doveva aver scagliato per terra in preda alla disperazione qualche attimo prima di morire. L’ispettore Kelly era sembrato di colpo invecchiato quando aveva detto: «Non appena ho riagganciato ho capito che avrei fatto meglio a darle di persona la notizia della morte di Ken». Subito dopo mezzogiorno, Nat, Gina, Mary e Steve avevano discusso su dove seppellire Laura. Era stato un modo per cercare di esorcizzare quell’orrore. Steve, tradizionalista com’era, aveva proposto la tomba di David. «Hanno vissuto insieme. Quindi devono essere seppelliti insieme.» «E tutti e due ti lapiderebbero se ti potessero sentire adesso» aveva ribattuto Natalie. «Non lo avrebbe voluto nessuno dei due.»


«Deve essere seppellita vicino a Ken» aveva detto la romantica Mary, e tutti erano stati subito d’accordo, ma poi Gina, come sempre sorprendentemente acuta, aveva detto: «No, deve essere seppellita vicino a sua madre. Le era così affezionata». «In un povero camposanto?» «In un povero camposanto o in una tomba da re non farebbe nessuna differenza, la cosa importante è che stia vicino a sua madre! Ne sono certa, lei avrebbe voluto così!» Il 2 gennaio, una giornata gelida e col cielo terso, parteciparono tutti e quattro alla sepoltura nel Bronx, in un povero camposanto ricoperto di neve. Nel vento pungente che soffiava sulla terra desolata da cui spuntavano poche lapidi, vorticavano piccoli fiocchi di neve. Nessun altro, oltre all’ispettore Kelly, Gina, Nat, Steve e Mary e a un prete, era venuto a porgere l’estremo saluto a Laura. La semplice bara era silenziosamente e velocemente scomparsa nello scavo realizzato a fatica poiché il freddo aveva reso la terra molto dura. Che strano era stato pensare che Laura fosse lì dentro; intorno a quella tomba, infreddoliti e col bavero del cappotto alzato, avevano avuto tutti la sensazione di aver perso una buona amica. Lei era entrata inaspettatamente nelle loro vite, vi si era fermata un paio di giorni e poi, altrettanto inaspettatamente, così come vi era entrata ne era uscita. Laura Hart in un abito di seta di Valentino in un povero camposanto di New York. Persino nella tomba l’aveva seguita il conflitto interiore di tutta la sua vita. «Perché lo ha fatto?» chiese Mary ancora una volta, al tavolo appiccicoso dell’affollatissimo e chiassoso aeroporto. Il tavolo accanto era stato occupato da un gruppo di uomini d’affari con l’accento del Sud, forse del Kentucky. Forti corpi muscolosi strizzati in abiti gessati troppo stretti. Stavano bevendo birra facendo commenti ad alta voce sulle donnette con cui si sarebbero volentieri intrattenuti nella peccaminosa New York, invece di dover tornare dalle loro mogli che non avrebbero riservato loro di certo la stessa calda accoglienza. Un’anziana donna di colore, avvolta in un abito lungo fino ai piedi e con un turbante in testa, camminava nel corridoio. Non aveva valigie, ma innumerevoli buste di plastica. Da sotto la veste spuntavano i suoi enormi piedi nudi infilati in sandali di pelle. Si udiva un bambino urlare; probabilmente la madre era andata in bagno, e lui, dopo essere rimasto calmo per un po’ guardandosi intorno con i grandi occhi curiosi, doveva essersi accorto di colpo di essere stato abbandonato e ora strillava come un cucciolo spaventato. Quanta paura abbiamo quando ci viene portato via ciò che amiamo, pensò Gina. E poi disse ad alta voce: «Laura deve aver semplicemente pensato di non riuscire più a vivere». Era tutto quel che si poteva dire; gli altri due annuirono perché sapevano che si può arrivare a un punto di non ritorno. Gli uomini al tavolo accanto facevano ancora più baccano, e Gina propose di avvicinarsi al gate perché mancavano ormai solo quaranta


minuti al decollo. Si stavano alzando e d’un tratto Steve disse: «Non vengo a Londra». Le due donne si guardarono. Mary disse con un filo di voce: «Steve...» Negli ultimi giorni, sembrava essere diventato più maturo. Adesso nel suo vecchissimo abito, col cappotto liso sul braccio, la sciarpa avvolta intorno al collo come un tempo, aveva un’aria convincente che non aveva mai avuto prima. «Mary, prima di tutto chiedi il divorzio. Prendi Cathy e andate a Parigi. Non so come andrà, ma io adesso vado dai miei genitori. Che gli piaccia o no, mi presenterò alla loro porta. Non hanno il diritto di cancellarmi dalle loro vite. Ho pagato per Alan, e Alan è figlio loro; non possono lasciarmi solo. Insisterò finché non cederanno.» «Attento, Steve» disse Gina e gli fece un sorriso, un sorriso da amica. Baciò le due donne in tutta fretta. «Vado a vedere se oggi c’è un volo per Atlanta. Mary ti chiamo da Nat!» E in un baleno scomparve nella folla. «Sorprendente» disse Gina. Ancora perplesse, le due donne si fecero largo per raggiungere il gate. D’un tratto Mary si fermò. «Ho la sensazione che tutto abbia avuto un senso.» «Cosa intendi?» «David doveva invitarci. L’ispettore doveva frugare nelle nostre vite. Qualcosa è cambiato, non credi?» «Forse» rispose Gina titubante, «siamo diventati un po’ più consapevoli.» «Certo» replicò Mary. «Siamo più consapevoli. Di noi, di David. Abbiamo aperto gli occhi, adesso sappiamo quello che vogliamo. Siamo meno presuntuosi e abbiamo ripreso in mano la nostra vita. Guarda Steve...» «Non sappiamo cosa farà Steve. I suoi genitori potrebbero sbatterlo subito fuori. E tu... siamo sicuri che ti separerai da tuo marito? Nat si libererà delle sue pillole? E cosa farò io con i debiti di Charles? Non lo sappiamo, Mary. Non sappiamo niente!» «Già, ma qualcosa si è messo in moto» insisté Mary. «Faremo tutti un tentativo. Quando poco fa hai detto che Laura ha pensato fosse tutto finito, io ho riflettuto che è stato lo stesso per noi. Ci sentivamo alla fine e in una situazione senza uscita. Anche per David deve essere stato lo stesso, e mi dispiace molto di non aver cercato di aiutarlo. Ci rimane solo questo: aiutarci a vicenda. Dobbiamo pensare sempre che... voglio dire» parlava con gli occhi verdi spalancati mentre teneva stretta la sua borsa come una scolaretta, «voglio dire, mi è venuto in mente il modo in cui una volta tanto tempo fa, eravamo ancora al Saint Clare, ho raccolto le ultime rose dal giardino e le ho sistemate in un vaso in una mattina di novembre. Le rose erano già sfiorite, sembravano stanche e sfinite. Mentre le infilavo nel vaso, ero triste perché sapevo che quella era l’ultima volta dell’anno che lo facevo. Ma poi mi sono detta, lo rifarò l’anno prossimo, e l’anno dopo ancora, e per tutta la mia vita, perché


fioriranno sempre nuove rose. Anche adesso è così... no?» Sul tabellone elettronico erano indicate le varie destinazioni: Philadelphia, Detroit, Katmandu, Johannesburg, Hong Kong, Il Cairo. Le sale brulicavano di passeggeri. Poliziotti armati fino ai denti presidiavano i metal detector. Nell’aria echeggiavano gli annunci degli altoparlanti. Fuori le luci della pista spiccavano nel buio. Dal JFK ogni minuto, decollavano e atterravano senza sosta aerei per tutto il mondo e da tutto il mondo. Era uno spettacolo perfettamente organizzato, grandioso, strabiliante. Viviamo in un’epoca meravigliosa, pensò Gina, e come sempre quando si trovava in un aeroporto si sentiva elettrizzata. D’un tratto fece la sua cinica e sonora risata. «Quando sono arrivata in questo aeroporto la settimana scorsa non avevo un soldo, e ora riparto senza un soldo. Pensare che per questo mi sono presentata da David con indosso solo un négligé nero... la vita può essere davvero grottesca! Che dici, Mary, avrà riso di noi?» Mary alzò le spalle. «Chi ha mai saputo cosa gli passava per la testa?» Tacquero entrambe, ricordando ancora un attimo il defunto David. Poi Mary aggiunse: «Ci rivedremo?» Le due donne si guardarono. Gina annuì. «Certo. Al più tardi il prossimo Natale. Magari da te e Nat.» Mary sorrise. «Non vedo l’ora!» «È meglio andare al gate adesso» disse Gina asciutta, perché aveva l’impressione che Mary sarebbe scoppiata in lacrime per la commozione da un momento all’altro. Presero le carte d’imbarco dalla borsa. «Allora Mary, siamo d’accordo: Natale a Parigi!»


Indice

Presentazione Frontespizio Pagina di copyright New York, notte di San Silvestro 1988-89 LIBRO I New York, novembre 1989 New York, 28.12.1989 1 2 3 New York, 29.12.1989 LIBRO II Mary 1 2 3 4 5 Steve 1 2 3 4 Natalie 1


2 3 4 5 6 Gina 1 2 3 4 5 6 7 New York, 29.12.1989 LIBRO III Agosto 1981 Dicembre 1981 1 2 Settembre 1982 1 2 3 4 5 6 Aprile 1983 Agosto 1983 1 2 3 4 5 1 settembre 1983


LIBRO IV New York, 29.12.1989 Laura 1 2 3 4 5 New York, 29.12.1989 1 2 3 New York, 30.12.1989 1 2 3 4 New York, 3.1.1990 Seguici su IlLibraio


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