Castelli nel Chianti tra archeologia, storia e arte

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“CLANTE” - CENTRO DI STUDI CHIANTIGIANI

CASTELLI NEL CHIANTI TRA ARCHEOLOGIA, STORIA E ARTE (a cura di Nicoletta Matteuzzi)

Atti del Convegno tenuto il 26 Settembre 2015 presso il Castello di Gabbiano

CENTRO DI STUDI CHIANTIGIANI “CLANTE”


Con la collaborazione di

COMUNE DI SAN CASCIANO VAL DI PESA

Con il contributo di


PRESENTAZIONE

Nella sua lunga storia di popolamento il Chianti ha visto sorgere nel Medioevo numerosi “castelli” di piccole o medie dimensioni, che hanno caratterizzato la sua organizzazione territoriale e hanno contribuito a conferirgli il suo aspetto peculiare. Alcuni di questi centri fortificati hanno attraversato i secoli e, al di là delle modifiche subite, sono tuttora riconoscibili e vivi come importanti presenze del territorio. Uno di questi è certamente il Castello di Gabbiano, antico possedimento dei Bardi, che domina la valle della Greve e ha ospitato la giornata di studi di cui questo volume raccoglie gli atti, che si aprono con l’intervento dedicato a questo luogo da Renato Stopani. Diversa sorte è toccata invece al vicino “castello” di Vico, di cui si era praticamente persa memoria a causa del suo antico declino nel XIII-XIV secolo e della conseguente rovina delle sue strutture, sulle quali Teresa Ulivelli ha il merito di aver riportato l’attenzione grazie allo studio condotto sotto la guida del Prof. Guido Vannini. La definitiva identificazione dei ruderi da lei analizzati con il “castrum” di Vico citato in numerosi documenti della Badia Fiorentina ha fornito una nuova chiave di lettura per quest’area posta al confine del territorio comunale di San Casciano Val di Pesa con quello di Greve in Chianti. Di questa riconsiderazione si giova anche la chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, prossima al sito del “castello” e con esso citata nelle carte del monastero benedettino di Firenze. Da qui provengono due delle opere principali conservate nel Museo Giuliano Ghelli di San Casciano: la tavola duecentesca con San Michele Arcangelo e storie della sua leggenda attribuita a Coppo di Marcovaldo e quella con la Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti datata 1319. Della prima ci parla Emma Matteuzzi, che da una parte ricostruisce accuratamente l’articolata vicenda conservativa dell’opera nel corso del Novecento e dall’altra prende in considerazione la complessa iconografia delle scene narrative suggerendone una meditata proposta di lettura. Per la seconda Elisa Tagliaferri, oltre ad offrire una rilettura dei dettagli pittorici e decorativi, è stata in grado di rintracciare in un documento conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze i nomi dei personaggi ricordati nell’iscrizione alla base della tavola. Sebbene le condizioni della chiesa di Sant’Angelo siano ad oggi precarie, la posizione preminente e l’ampiezza della struttura testimoniano


l’importanza del luogo, che consente di motivare la provenienza dalla chiesa di Vico l’Abate di dipinti di tale importanza per la storia dell’arte toscana, al di là del presunto legame con la Badia di Passignano, che sembra peraltro dover essere definitivamente sconfessato. Del resto la rilevanza di quest’area è emersa con chiarezza nel corso dell’intervento di Paolo Pirillo, “Castelli in vendita. Insediamenti fortificati chiantigiani tra signori e proprietari (secc. XIII-XV)”, le cui riflessioni non hanno potuto essere inserite in questo volume ma saranno rese note in una prossima pubblicazione sulla rivista “Archivio Storico Italiano”. Al termine della giornata di studi è stato inoltre possibile, grazie alla disponibilità dell’Ufficio Diocesano per il Sostentamento del Clero, visitare l’interno della chiesa e i locali annessi e avere così l’opportunità di osservare le poche ma significative strutture riferibili alla redazione primo-duecentesca dell’edificio sacro e le pitture del XVII secolo ancora conservate in loco. Di conseguenza è stata avviata una ricerca collaterale al convegno, ma ad esso strettamente connessa, tanto da trovare posto all’interno di questo stesso volume, che ha consentito ad Emma Matteuzzi di rintracciare un numero notevole di documenti riferiti alla chiesa e alle opere d’arte (secoli XVI-XIX), in gran parte conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Firenze, e di riflettere con Guido Tigler sugli elementi architettonici più antichi. L’intervento di quest’ultimo invece ripercorre con puntualità le fasi più antiche della storia della Badia Fiorentina, caratterizzata da importanti donazioni di terre e borghi fortificati – tra cui appunto Vico – da parte dei Marchesi di Toscana, a cui si lega una digressione dedicata al marchese Ugo. In appendice Alberto Cavallini affronta infine il tema della diffusione attraverso l’Italia e l’Europa del culto di San Michele Arcangelo e della Legenda Garganica, raffigurata anche nella tavola ora al Museo Ghelli di San Casciano. Il convegno è stato dunque l’occasione per muovere alcuni importanti passi verso una più profonda conoscenza di questa zona della Val di Greve e dei suoi castelli e in particolare dell’area riferibile al “castrum” di Vico, grazie allo studio integrato di diversi aspetti imprescindibili: la storia, l’archeologia, l’arte. Valorizzare il territorio promuovendo la conoscenza delle sue caratteristiche particolari rappresenta uno dei principali obiettivi di un sistema museale territoriale come quello del Chianti e Valdarno fiorentino e aver avuto la possibilità di riunire simili competenze e così di fornire un punto di partenza per ulteriori approfondimenti non può che essere motivo di grande soddisfazione. Nicoletta Matteuzzi Coordinatore scientifico del Sistema Museale del Chianti e del Valdarno fiorentino


IL “CASTELLO DI GABBIANO. EVOLUZIONE DI UNA TURRITA “CASA DA PADRONE” DEL MEDIOEVO

Per la continuità insediativa che in genere ha caratterizzato la regione chiantigiana, è assai probabile che nell’alto medioevo si siano conservate senza rilevanti alterazioni le forme insediative della tarda antichità, contemplanti una popolazione rurale distribuita sul territorio per piccoli agglomerati: i villaggi (le “villae”). Il fenomeno è particolarmente rilevabile nelle basse colline che fungono da spartiacque tra la val di Greve e la val di Pesa, dove sorge il “castello” di Gabbiano, come attesta la toponomastica con tutti quei nomi di luogo di matrice latina che denunziano la loro origine prediale, collegata alla pratica fiscale-amministrativa di età imperiale di imporre ai fondi il nome aggettivato del proprietario, donde i vari Poppiano, Galliano, Luciano e lo stesso Gabbiano, da rapportare quest’ultimo al personale latino “Gavius” e alla conseguente formazione di di quel “fundus Gavianus”, che ha portato all’attuale toponimo1. Nel XIII secolo, epoca alla quale risalgono le prime fonti scritte seriali, troviamo il territorio che circonda il “castello” di Gabbiano organizzato in due circoscrizioni amministrative di base (“popoli”), entrambe dotate di chiesa parrocchiale: Sant’Andrea a Novoli e San Niccolò a Vicchio2. Al primo corrisponde attualmente un piccolo agglomerato rurale stretto attorno alla sua chiesetta d’impianto romanico, posto immediatamente a nord-ovest di Gabbiano. Il secondo è scomparso come insediamento, essendo rimasto abbandonato, probabilmente al tempo della micidiale


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Renato Stopani

peste che seguì le ricorrenti carestie della metà del Trecento, come testimonia il toponimo “Vicchiaccio” che contraddistingue oggi una casa colonica3. La prima memoria dei due “popoli” risale al 1260: si trova nel cosiddetto “Libro di Montaperti”, dove entrambi sono ricordati negli elenchi dei contribuenti del contado che s’impegnarono a fornire di grano l’esercito fiorentino che si recava a prestare aiuto a Montalcino assediata e che verrà assalito e sbaragliato dai senesi a Montaperti4. Nel documento vengono menzionati e rettori dei due “popoli”, tali “Bernardus quondam Giunte, rector populi Sancti Andree de Nuovole”, che promise di fornire 6 staia di grano, e “Filippus quondam Bontalenti, rector populi Sancti Nicholai de Vichio”, che s’impegnò per 2 staia5. Per avere delle indicazioni sulla consistenza demografica dei due popoli (e quindi sul popolamento della campagna attorno a Gabbiano) bisogna risalire al Catasto fiorentino del 1427, da cui veniamo a sapere che a tale data il “popolo” di Sant’Andrea a Novoli constava di 14 nuclei familiari, per un totale di 74 abitanti, e che il “popolo” di San Niccolò a Vicchio (che era già stato unito a quello confinante di Sant’Angiolo a Vicchio) era composto da 12 nuclei familiari, anch’esso per complessivi 74 abitanti6. All’epoca la popolazione, oltre che “per villaggi”, doveva già presentarsi distribuita sul territorio con insediamenti isolati, sorti in corrispondenza delle unità poderili venutesi a formare con l’affermazione in atto della struttura agraria basata sulla mezzadria. Sempre dal Catasto fiorentino del 1427 (e da quelli immediatamente successivi dello stesso secolo) risulta infatti che i nostri due “popoli” avevano un indice di appoderamento delle terre (e quindi una presumibile conduzione mezzadrile delle stesse) superiore al 60%7. È quindi assai probabile che a Gabbiano fosse sorta una di quelle dimore padronali che venivano chiamate “case da padrone” o “case da signore”, come ancor oggi è verificabile da un’attenta lettura delle strutture murarie dell’attuale resede “castello di Gabbiano”, organizzato a partire da un corpo di fabbrica turrito, cronologicamente attribuibile al primo Trecento. Del resto già nel luglio 1347 è documentata nel “popolo” di San Niccolò a Vicchio, in località Gabbiano, “unum podere cum domo et resedio et giardino et vinea”, di pertinenza della famiglia fiorentina Tolosini, abitante del “popolo” di San Simone8. La succinta descrizione lascia chiaramente capire che con l’espressione “domo et resedio et giardino” ci si intendeva riferire a una di quelle dimore padronali che, almeno dal Duecento, erano andate costellando, dapprima la campagna periurbana, poi le aree più lontane dalla città, in conseguenza del formarsi di cospicui patrimoni fondiari frutto degli investimenti terrieri dei capitali accumulati con la mercatura dalla borghesia cittadina.


Il “castello di Gabbiano. Evoluzione di una turrita “casa da padrone” del medioevo

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Dopo essere stato per alcuni decenni di proprietà dei Bardi, a metà del Quattrocento Gabbiano passò a una prestigiosa famiglia fiorentina alla quale rimarrà legato per oltre tre secoli: i Soderini, il cui più illustre esponente fu quel Pier Soderini eletto nel 1502 “gonfaloniere” a vita della Repubblica fiorentina, che si trovò a contrastare i Medici, che in quegli stessi anni intendevano instaurare in modo definitivo la loro signoria sulla città9. Come si sa, la “resistenza” repubblicana a Firenze si protrasse sin quasi alla fine del terzo decennio del XVI secolo ed ebbe termine con l’assedio della città nel 1527 da parte della coalizione anti-repubblicana capeggiata dagli imperiali, evento che segnò la fine della libertà fiorentina. Le conseguenti persecuzioni medicee portarono al fenomeno del fuoriuscitismo patriottico, per cui anche i Soderini, dichiarati ribelli, furono costretti ad andarsene in esilio. Per molti anni la casa padronale di Gabbiano restò quindi abbandonata e solo nel Seicento, col rientro in patria dei Soderini, venne restituita a nuova vita, come ci informa l’iscrizione riportata nella lapide in pietra serena che sormonta la porta di accesso alla Fattoria dove, sotto lo stemma della famiglia Soderini, si legge : “FRANC. SODERINUS SENAT. GASP. F. / RURIS HUIUS IN FAMILIA RESTITUTOR / SUB. A MDCLII” Mentre sopra gli stemmi è riportato il motto dettato da Pier Soderini in occasione della sua elezione di gonfaloniere a vita : “IUS(tus) UT PALMA FLO(rebit)” Con ogni probabilità è da imputare alla “gestione” Soderini l’evoluzione della primitiva “casa da padrone” dei Tolosini in Fattoria, cioè in centro direzionale dell’attività dei poderi ad essa facenti capo e luogo ove venivano concentrate le derrate di parte padronale prodotte dai poderi. Certo è che nella denuncia catastale presentata nel 1480 dal padre di Pier Soderini, Tommaso, agli “Uffiziali” del Catasto, tra i beni patrimoniali elencati (le “sustanzie”), subito dopo la “chasa per mio abitare posta nel popolo di Santo Friano (Frediano)” a Firenze, viene indicata la proprietà di Gabbiano, evidentemente considerata il “gioiello di famiglia”, “Possessione con chasa da signore e orto e con chase dallavoratori posta in val di Grieve nel luogho detto aGhabbiano”: così viene descritta la Fattoria di Gabbiano che constava di tre unità poderali, ciascuna con la propria casa colonica (le ricordate “chase dallavoratori”). Oltre al grano e


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Renato Stopani

alle biade. Necessarie per il sostentamento, rispettivamente, dei mezzadri e degli animali da lavoro, nei poderi erano coltivati viti e olivi. Vino e olio risultano infatti le derrate di maggior pregio prodotte, alle quali si aggiungeva la “charne da salare” ricavata dall’allevamento di uno o più maiali di cui ciascun podere doveva essere dotato10. Da quanto descritto nella denunnzia catastale si può quin di affermare che nel tardo Quattrocento si era ormai compiuta la trasformazione della turrita casa padronale in Fattoria, il che dovette comportare la crescita del resede, con l’aggiunta in più tempi di altri corpi di fabbrica, come si desume dalla muratura, che denunzia diverse fasi di accrescimento. Il complesso si trasformò così in un’ampia costruzione quadrilatera che costituì anche una sorta di fortilizio privato, poiché venne dotato anche di quattro torrette cilindriche che ne rinforzarono gli angoli. Il fenomeno non fu inusuale nel Quattrocento, un secolo che, per l’insicurezza regnante nelle campagne, vide tante case padronali dotarsi di strutture di difesa, così da porsi “a latere” dei castelli e delle “terre murate” del contado. Dai Soderini, che lo possedettero sino all’Ottocento, Gabbiano passò, nell’ordine, ai Ridolfi, agli Uguccioni e ai del Turco11, per divenire infine “di proprietà del signor Adriano Lemmi”, come ci ricorda il Carocci12. Al Lemmi si devono i restauri e le ristrutturazioni che portarono la Fattoria di Gabbiano ad assumere l’aspetto con cui essa attualmente si presenta. Sul finire dell’Ottocento, su progetto dell’architetto Micheli si operò in due direzioni: da una parte si rinnovò l’interno della Fattoria riorganizzandone la distribuzione degli ambienti; dall’altra vennero accentuati all’esterno i caratteri “castellani” del resede, mediante la merlatura delle pareti perimetrali e la “regolarizzazione” delle stesse13. Ciò contribuì a far sì che Gabbiano evocasse l’immagine del castello medievale, nel quadro di una ricosruzione-restauro attenta anche alle finiture di corredo del complesso, che ebbe esternamente le murature coperte da uno strato di intonaco nel quale venne disegnato un finto filaretto, di cui rimangono tracce, specie sotto la gronda del tetto14. Come avvenne per diverse altre Fattorie, a iniziare dallo stesso castello di Brolio, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo si attuò nel Chianti una sorta di nuovo “incastellamento”, e Gabbiano ne è appunto un esempio, che portò al fenomeno che è stato definito il “medioevo reinventato”15. Renato Stopani


13 NOTE 1 Cfr. S. PIERI, Toponomastica della valle dell’Arno, Regia Accademia dei Lincei, Roma

1919. Nella zona in questione sono rilevabili due altri “prediali” rapportabile alla stratificazione linguistica latina: Montignana e Luciana, frutto dell’aggettivazione di personali concordata però con il sostantativo “praedia”. 2 Cfr. P. GUIDI (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia I, La Decima degli anni 1274-1285, Città del Vaticano 1932 e M. GIUSTI, P.GUIDI (a cura di), Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia II, La Decima degli anni 1295-1304, Città del Vaticano 1942 3 La residua popolazione facente capo alla chiesa di San Niccolò a Vicchio già nel Quattrocento risulta essere stata unita a quella del villaggio di Sant’Angiolo a Vicchio, con cui andò a formare un unico “popolo”: San Niccolò e Sant’Angiolo a Vicchio. Come scrive G. CAROCCI (“Il Comune di San Casciano val di Pesa: Guida illustrazione storico-artistica”, Firenze 1892, p.135), ancora alla fine dell’Ottocento si vedevano le rovine della chiesa parrocchiale di San Niccolò. 4 Cfr. R. STOPANI, L’ “aguato” di Montaperti, Editoriale Gli Arcipressi, Firenze 2001 5 Cfr. C. PAOLI (a cura di), Il Libro di Montaperti (anno 1260), Documenti di Storia Italiana, Firenze 1889 6 Cfr. Ch. KLAPISCH-ZUBER, Una carta del popolamento toscano degli anni 14271430, Milano 1983 7 Cfr. E. CONTI, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, vol. III, Parte II, Monografie e tavole statistiche, Roma 1965 8 I proprietari erano i minori Tegghia di Guido e Caterina di Giovanni, rappresentati dallo zio Luca di Tegghia di Guido Tolosini (Archivio di Stato di Firenze, Notarile 195, 11081110). Citato da P. PIRILLO, Forme e strutture del popolamento nel contado fiorentino, II, Gli insediamenti nell’organizzazione dei popoli ( prima metà del XIV secolo), Olschki, Firenze 2005) 9 Ai primi del XV secolo Gabbiano risulta di proprietà di Andrea di Larione di Lippaccio Bardi, poi rimase al solo Larione, capostipite della famiglia Larioni, e da lui pervenne a Tommaso Soderini, intorno alla metà dello stesso secolo. Anche Tommaso fu un personaggio di spicco della vita politica fiorentina del Quattrocento cavaliere dello Sperone d’oro, fu eletto Gonfaloniere di Giustizia per ben cinque volte (cfr. G. CAROCCI, Il Comune di San Casciano cit., p.126). 10 Archivo di Stato di Firenze, Catasto 1001, c. 351r 11 Ai Rosselli Del Turco si deve la costruzione di una cappellina privata dai caratteri vagamente neoclassici, che fa parte degli edifici annessi alla Fattoria. 12 Cfr. G. CAROCCI, Il Comune di San Casciano val di Pesa cit., p.127 13 Quella che abbiamo definito “regolarizzazione” delle murature dovette tra l’altro implicare anche l’eliminazione di una serie di mensoloni alla sommità delle pareti (me rimangono tracce), che originariamente dovevano servire per sostenere i ballatoi di difese estemporanee. 14 Tracce dell’intonacatura sono rimaste anche nelle torrette cilindriche e in altre parti del complesso, dove ancora sono visibili i riquadri del finto filaretto che copriva l’originale muratura a sasso accapezzato, tipicamente quattrocentesca, ora tornata alla luce. 15 Cfr. AA.VV. Il medioevo reinventato. L’immaginme del Chianti tra Otto e Novecento, Centro di Studi Storici Chiantigiani, Radda in Chianti 1990


La quattrocentesca “portata� catastale del padre di Pier Soderini, Tommaso


La torre quadrangolare del castello, primitiva “casa da padrone�


Veduta del castello di Gabbiano

Particolare delle mura turrite del castello


Lo stemma Soderini con le iscrizioni che lo accompagnano

Tracce del finto filaretto disegnato sull’intonaco che, sul finire dell’Ottecento, coprÏ la muratura del castello



VICO L’ABATE, UN CASTELLO RITROVATO NEL CHIANTI: DALLE FONTI SCRITTE AI DATI ARCHEOLOGICI

Questo intervento è frutto del lavoro effettuato dalla scrivente per la tesi triennale in Archeologia Medievale1. La ricerca si poneva l’obbiettivo di ricostruire la storia di un’area rurale tra X e XII secolo, indagando soprattutto le modalità attraverso le quali le famiglie dell’aristocrazia, gli episcòpi e i monasteri riescono ad affermarsi sul territorio. La ricerca è stata circoscritta all’area afferente alla pieve di Santo Stefano a Campoli, zona appartenente alla diocesi di Firenze e confinante con quella fiesolana. A pochi chilometri di distanza si trova, inoltre, il monastero di San Michele a Passignano. Si tratta dunque di un’area interessante da indagare in relazione agli equilibri politici e di potere che dovevano sussistere tra le varie entità religiose e aristocratiche, tra X e XII secolo. Partendo da una ricerca bibliografica si è tentato di individuare topograficamente, tramite ricognizione archeologica, gli insediamenti presumibilmente presenti a quella quota cronologica, in particolare i centri definiti dalle fonti come castelli e le chiese appartenenti alla pieve di Santo Stefano a Campoli. Le emergenze individuate sono state documentate archeologicamente, inquadrandone le caratteristiche in termini di posizione geografica, rapporti con la viabilità, tipo di insediamento e architettura, con l’obbiettivo di delineare gli scopi e le modalità con cui le famiglie aristocratiche, i monasteri e i vescovi, possessori di questi centri, esercitavano il proprio potere, nel


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controllo e nella gestione del territorio e delle risorse. Il caso studio di Vico l’Abate acquista una particolare valenza nell’ambito di questa ricerca perché rappresenta un dato archeologico inedito. La zona del Chianti presa in esame è sempre stata piuttosto ben documentata dal punto di vista storico e artistico, grazie ad un discreto numero di studi di storia locale, susseguitesi a partire dal XVIII secolo. Il castello di Vico l’Abate è stato, invece, poco preso in considerazione dalla ricerca documentaria e materiale e per questo è rimasto pressoché sconosciuto, complice anche l’abbandono del luogo, di cui si era persa la memoria. La lettura dei resti archeologici affioranti dal terreno, l’attribuzione e lo studio bibliografico e archeologico che sono seguiti hanno permesso di avere un quadro più completo della zona e del castello tra X e XII secolo. Dalla fine del X e per tutto l’XI secolo si rileva la presenza sul territorio di alcune famiglie della piccola e media aristocrazia, spesso vicine al vescovo fiorentino e al monastero di S.Michele a Passignano. Oltre a queste famiglie troviamo anche la casata comitale degli Aldobrandeschi, presenti nel castello di Fabbrica, del quale possedevano alcune quote, che sarebbero state acquisite nel XII secolo dal vescovo fiorentino. Si rileva anche la presenza di un ente ecclesiastico cittadino, ovvero il monastero di Santa Maria in Firenze, detto Badia Fiorentina, attivo sul territorio con le proprietà di Bibbione e Vicchio (o Vico l’Abate)2. I castelli e le curtes, attestate dalle fonti scritte per il X e XI secolo, si collocano nella maggior parte dei casi a mezza costa, lungo i crinali prospicienti il fiume Pesa e il fiume Greve. Nel XII secolo gran parte di queste famiglie alienano il proprio patrimonio a favore soprattutto di Badia a Passignano e del vescovo di Firenze. La Badia Fiorentina riesce invece a tenere saldo il possesso del castello di Vico fino al XIII secolo. Vico l’Abate nelle fonti scritte e la sua identificazione sul territorio Il castello, denominato “Vicchio” o “Vico” e la chiesa di Sant’Angelo sono state a lungo messe in relazione con il vicino monastero di San Michele a Passignano. Per molto tempo si è sostenuto infatti che il suffisso “l’Abate” fosse riferito all’abate di Passignano, vista la vicinanza dei due centri. Questa teoria è sostenuta da Emanuele Repetti, che verso la metà del XIX secolo ha associato alcuni documenti alla chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate: in particolare una carta del luglio 10943 attestante una donazione all’abate di Passignano di beni e terre, tra cui un


Vico l’Abate, un castello ritrovato nel Chianti: dalle fonti scritte ai dati archeologici

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luogo detto “Viclo”, che però risulta parte del piviere di San Cresci a Monteficalle (poi Montefioralle) e che andrà dunque identificato col vicino Vicchiomaggio o Vico de’ Lambardi, posto proprio in questo piviere. Guido Carocci, riferendosi a Sant’Angelo a Vico l’Abate, propende per credere che il toponimo derivi invece dalla famiglia Abati di Firenze.4 Il legame con il monastero di Santa Maria in Firenze, o Badia Fiorentina, appare invece molto più solido e suffragato dagli studi condotti nella seconda metà del Novecento da Elio Conti5, Riccardo Francovich6 e Renzo Ninci7 analizzando i documenti provenienti dal fondo archivistico del monastero fiorentino8. Le carte della Badia Fiorentina, studiate e pubblicate da Luigi Schiaparelli e da Anna Maria Enriques Agnoletti per i secoli che vanno dal X al XII9, presentano al loro interno una grandissima mole di dati toponomastici, riferiti ai vari possedimenti che il monastero fiorentino aveva acquisito dalla sua fondazione, tra i quali troviamo il castello di “Vico” o “Vicchio”10. L’identificazione del toponimo citato nelle carte della Badia Fiorentina con Vico dell’Abate è possibile grazie soprattutto a tre documenti presenti nel fondo del monastero suddetto. In una carta del 1031 l’abate Pietro dota di alcuni beni e privilegi l’ospedale della Badia appena fondato11. Tra questi privilegi vi è la riscossione della decima parte delle rendite di 61 appezzamenti di terra posti nella corte di “Viclo”. Il testo prosegue con il toponimo di ciascun appezzamento e con il nome dell’affidatario del terreno. Elio Conti ha preso in esame questo documento ed è riuscito a ritrovare in una quindicina di questi toponimi i nomi di altrettanti poderi disposti nelle vicinanze della chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate (tra cui Tolano), apportando un contributo decisivo per la localizzazione del castello e della corte di Vico, di cui questi terreni facevano parte12. I possedimenti elencati non dovevano esaurire le proprietà del castello ma rappresentano solo quanto era dovuto all’ospizio della Badia Fiorentina. Si tratta di un’areale piuttosto vasto, compreso nel territorio delle pievi di Santo Stefano a Campoli e di San Pietro a Sillano. A causa della frammentazione agraria, all’interno di questo raggio di proprietà potevano però esserci delle parcelle appartenenti ad altri proprietari. Nella seconda metà dell’XI secolo la Badia Fiorentina possedeva dunque un discreto complesso di beni, circoscritti al territorio compreso tra il fiume Greve e il fiume Pesa. Da un documento del 5 marzo 1074 risulta che le decime della corte e del castello di Vico spettavano alla Badia Fiorentina ad eccezione di sei appezzamenti di terra che erano destinati invece alla pieve di Santo


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Stefano a Campoli13, dato che avvalora il riferimento al castello di Vico l’Abate, posto appunto nel plebato di Campoli. L’altro documento utile per identificare il castello di Vico l’ Abate sul territorio è un arbitrato del 1149, anche questo conservato tra le Carte di Badia14. In quell’anno è documentata una lite tra i monaci della Badia Fiorentina e il pievano di Santo Stefano a Campoli riguardo a due cappelle pertinenti al castello di Vico. Questa confusione di competenze si risolve con un arbitrato grazie al quale alla Badia sarebbero spettate le nomine dei rettori di entrambe le cappelle e al pievano di Campoli l’investitura ad “ius parrocchiale”. Questo documento ci dà una preziosa indicazione sull’esistenza di due chiese15 e sulla loro intitolazione. Secondo la carta la chiesa dedicata a San Niccolò doveva trovarsi all’interno del castello mentre la chiesa di San Michele deve essere identificata con buone probabilità con quella ancora esistente di Sant’Angelo a Vico l’Abate. Non è raro infatti ritrovare nei documenti di X e XI secolo contrazioni di questo tipo, per cui la “ecclesia di S. Angeli de Vicchio” deve essere interpretata come “S. Michaelis Archangeli de Vichio seu de Vico Abbatis”16 . Il suffisso “dell’abate” che completa il toponimo va dunque riferito a quello della Badia benedettina di Firenze e non a quello della vallombrosana Badia di Passignano. Il castello di Vico apparteneva dunque al monastero di Santa Maria in Firenze, donato dalla casata dei Marchesi di Toscana nell’ambito di una precisa politica di alienazioni dei beni sotto forma di donazioni ad enti ecclesiastici come l’abbazia di San Michele a Marturi presso Poggibonsi o, appunto, la Badia Fiorentina17. La Badia Fiorentina stessa fu dichiarata nel 1002 abbazia imperiale18. Con la Carta di Offersione, datata 31 maggio 97819 e rogata a Pisa, la contessa Willa dona alla chiesa e al monastero di Santa Maria a Firenze una serie di proprietà di vario tipo nei contadi di Firenze e Fiesole. Nella zona di Campoli i Marchesi di Tuscia dovevano possedere alcuni beni fondiari perché nella suddetta carta compare la località di “Bibione”, da identificare con l’odierno Bibbione, posto al confine nord del plebato di Santo Stefano a Campoli20. L’acquisizione del castello di Vico e delle sue pertinenze da parte della Badia Fiorentina è una questione che è stata dibattuta durante lo studio e la pubblicazione delle pergamene del monastero di Santa Maria in Firenze. Il 27 Aprile 995, con uno specifico atto, il Marchese Ugo di Toscana dona alla chiesa e al monastero di Santa Maria in Firenze la propria casa e corte in Luco. La particolarità di questa carta risiede nel fatto che in alcuni punti questa risulta rasata e corretta. Le parole che sono state riscritte sono il


Vico l’Abate, un castello ritrovato nel Chianti: dalle fonti scritte ai dati archeologici

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nome del castello (da “Uicclo” a “Lucho”), il nome della chiesa (da “Sancti Michael” a “Sancti Clementi”) e il numero di edifici pertinenti al castello (da “septuaginta” a “due centi et octo”). Queste correzioni, fa notare Luigi Schiaparelli, furono eseguite quando la carta era già compiuta e mostrano nei tratti corretti un inchiostro di colore più scuro. Schiaparelli ipotizza che per la donazione del castello di Luco si sia utilizzato come modello la carta di donazione del castello di Vico, ricopiandola in ogni sua parte e solo successivamente correggendola nei punti necessari, lasciando invariate le formule standard21. Se giusta, questa interpretazione condurrebbe all’ipotesi che il castello di Vico fosse stato donato alla Badia Fiorentina prima del 995. Precedente a questa data sarebbe anche la dedicazione della chiesa a San Michele. Del resto la prima menzione ufficiale di Vico tra i possessi della Badia Fiorentina si ha pochi anni dopo, in una carta dell’8 gennaio 1002 in cui l’Imperatore Ottone III conferma i possessi del monastero di Santa Maria in Firenze, tra cui compaiono entrambi i castelli di “Uicclo” e “Luco”, segno che anche Vico doveva già essere entrato nelle casse della Badia22. Con una Carta di Offersione del 12 agosto 1009 il marchese Bonifacio dona “curte et castello cum omnes suarum pertinentia qui est posito in loco Uicclo”23 , riconfermando dunque la donazione del castello da parte dei Marchesi di Toscana. Anche Riccardo Francovich, nel suo studio sui castelli del contado fiorentino tra XII e XIII secolo, identifica il castello di “Uicclo” con Vico l’Abate e offre un tentativo di localizzazione, ma afferma che “una chiesa con edifici annessi occupa il luogo del castello”24, riferendosi alla chiesa di Sant’Angelo che però, come risulta dal documento del 1149, doveva essere posta fuori dalle mura. Il castello vero e proprio doveva quindi trovarsi nelle vicinanze della chiesa, ma non al posto di essa. Già nel 1892 Guido Carocci, in relazione alla chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, parla di alcune rovine poste su una collina boscosa in località Vicchiaccio ad est di Gabbiano in cui sono secondo lui da identificare i resti della chiesetta di San Niccolò a Vico e forse quelli di un castelletto. L’intervento di Carocci, oltre a costituire probabilmente la più antica identificazione del sito, mostra come alla fine del XIX secolo resti di qualche edificio dovevano essere ancora visibili25. Consultando il Catasto Storico Regionale Toscano26 si può in effetti osservare il toponimo Vicchiaccio ad ovest della chiesa di Sant’Angelo. Il suffisso -accio associato ai nomi comuni che indicano edifici è spesso il risultato della defunzionalizzazione e dell’abbandono del luogo stesso27. Mettendo quindi insieme alcuni documenti significativi della Badia


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Fiorentina alla conoscenza, soprattutto toponomastica, del territorio, sembra abbastanza certa la localizzazione del castello di Vico, appartenente al monastero di Santa Maria a Firenze, nella zona di Vico l’Abate e la sua posizione presso il poggio adiacente la chiesa, denominato Vicchiaccio. Vicchiaccio: letture archeologiche Il poggio che nel Catasto Storico Regionale Toscano viene indicato con il toponimo Vicchiaccio si trova in un’area limitrofa al fiume Greve, posto sul versante sinistro della valle. Questa zona è attraversata da una fitta rete di strade e sentieri utilizzati fin dall’antichità per il passaggio del bestiame dalle alture alla pianura maremmana. I percorsi delle periodiche migrazioni del bestiame erano gli stessi utilizzati per lo smercio di prodotti di vario tipo28. A sud della Greve, la salita alla dorsale di Mercatale avveniva in due modi, uno dei quali dalla località “Ponte a Gabbiano” salendo lungo la strada che fiancheggia la chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, indicata con il nome di Strada dei Pecorai29. Il sito si configura come un poggio di piccole dimensioni, circondato da due corsi d’acqua denominati Borro Sant’Angelo e Borro Vicchiaccio. L’altitudine del poggio oscilla dai 180 ai 225 metri nel punto più alto, ponendosi dunque più in basso rispetto alla valle circostante, ma con una visibilità che comunque si estende a 360 gradi. In particolare dalla sommità del poggio sono visibili la chiesa di Sant’Angelo e il podere Corte, posti a circa 200 metri in linea d’aria. La collina è di forma approssimativamente ellittica ed è caratterizzata da un piccolo pianoro i cui versanti hanno un dislivello disomogeneo. I versanti nord e sud, infatti, sono contraddistinti da un medio dislivello e da alcuni terrazzamenti ancora visibili; i versanti est e ovest, invece, hanno maggior ripidità (fig. 1). Il versante sud del poggio ospita appunto due terrazzamenti, supportati in alcuni tratti da alcuni setti murari a secco. Il pianoro di forma ellittica è stato denominato UT1, mentre i versanti sono stati indicati con UT2 (fig. 1)30. Entrambi i versanti (UT2) sono ricoperti da pietre di medie e grandi dimensioni e formano degli avvallamenti che potrebbero far ipotizzare la presenza di strutture edilizie sottostanti in stato di crollo. Anche sul pianoro (UT1) sono presenti avvallamenti e crolli di pietre, sommersi dalla vegetazione (figg. 2, 3). Lungo i limiti nord e ovest, ad una quota indicativa di 216-220 m s.l.m (quindi più in basso rispetto alla sommità) sono presenti alcuni resti di strutture murarie a retta31 (figg. 1, 4). Si tratta di un quattro costruzioni in


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muratura (CF1-CF4)32, allineate lungo il limite ovest del pianoro per circa 55 m e appartenenti presumibilmente ad un unico complesso edilizio (CA1)33 che circonda un lato del pianoro. Tre strutture (CF1, CF2, CF3) hanno conservato un’altezza di circa 2,50 m. Alcune parti conservano ancora il paramento murario esterno mentre in altre porzioni questo è evidentemente crollato o è stato forse spoliato. La prima struttura (CF1) (figg. 5, 6) è ubicato a nord, nel punto in cui i limiti del pianoro effettuano una curva netta verso est. La struttura è composta da un paramento esterno di conci in pietra sbozzati a squadro. L’andamento del muro non è rettilineo ma forma un’angolata poligonale. Il sacco murario, ben visibile, si presenta composto da pietre di grandi dimensioni, apparecchiate in corsi regolari con uso di malta dalla consistenza particolarmente tenace, nonostante la continua esposizione di questa agli agenti atmosferici. A pochi metri di distanza in direzione sud e allineato con CF1, emerge una struttura denominata CF2 (fig.7) che presenta le medesime caratteristiche di CF1, in termini di materiali e di tecnica costruttiva. A differenza di CF1, CF2 sembra presentare un paramento murario interno, visibile nella sezione laterale del setto murario (fig. 8). Un’ipotesi possibile, data dalle caratteristiche assunte da questi corpi di fabbrica, è che si possa trattare di una sorta di avancorpo o di torretta aperta situata lungo la cortina muraria (fig. 9). Ancora più a sud, allineata con i corpi di fabbrica precedenti, emerge un’ulteriore struttura (CF3) (fig. 10) che si configura come una costruzione rettangolare con larghezza di circa 1,5 m e un’altezza di circa 2 m. Questa struttura conserva ancora il paramento murario, che però è scarsamente visibile a causa della fitta vegetazione e dei rampicanti che vi sono nati attorno. A un metro circa in direzione sud si sviluppa con asse nordest-sudovest un setto murario (CF4) (figg. 11, 12) di circa 14 m di lunghezza, per un’altezza di circa 1,5 m. Lo zoccolo di fondazione non è visibile e i vari crolli che si sono presumibilmente susseguiti nel tempo, insieme al dilavamento del terreno soprastante, potrebbero aver rialzato il piano di calpestio. Il paramento murario è formato da conci di calcare di grandi dimensioni (larghezza media 0,40 m) e forma rettangolare, sbozzati a squadro e regolarizzati sulla faccia a vista (fig. 12). La disposizione delle pietre è in corsi orizzontali e paralleli, con giunti e i letti di posa che fanno uso abbondante di malta. Rara è invece la presenza di zeppe litiche. I paramenti murari di queste strutture sono caratterizzati da una notevole accuratezza nella lavorazione dei pezzi e nella loro disposizione. Il sacco murario interno, visibile perché parte del paramento è crollato, risul-


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ta inoltre di notevole spessore ed è composto da un’apparecchiatura in corsi orizzontali di pietre di grandi dimensioni, messe in opera con l’uso di una malta caratterizzata da ottima aderenza alle superfici murarie. Queste caratteristiche tecniche rappresentano dei fattori significativi per definire la tipologia muraria e ipotizzare la funzione della struttura. In questo caso la qualità della tecnica muraria è molto alta (con muri di notevole spessore e conci molto grandi) e anche i materiali utilizzati risultano di buona qualità. La posizione e la conformazione stessa delle strutture, che si sviluppano attorno al pianoro per circa 55 m (figg. 4, 12) sembrerebbero condurre all’ipotesi che si possa trattare di una cinta muraria pertinente al cassero del castello, ovvero ad un recinto sommitale particolarmente fortificato che generalmente racchiude l’area privilegiata. Un documento del 1 gennaio 1219 (1220 stile comune) è utile per apprendere quali elementi dovesse possedere il castello a quella quota cronologica e per confrontare le fonti scritte con le evidenze materiali del sito34. Si tratta della testimonianza di un processo intentato dall’abate del monastero contro quelli che riteneva essere due suoi coloni, Rinuccino e il figlio Benivieni. Quali testimoni troviamo quattro personaggi che giurano di aver visto i due uomini prestare vari servizi in favore dell’abate della Badia Fiorentina, che, a detta dei testimoni, i due consideravano loro signore. Oltre ai vari obblighi ai quali i due uomini dovevano sottostare (pagare il dazio ai funzionari della Badia, offrire loro dei pasti e dei doni in natura), troviamo anche dei riferimenti puntuali al castello: Benivieni era stato visto lavorare per due anni al muro del castello di Vico e fare la guardia, sorvegliandolo, per un anno. Inoltre per un anno avrebbe lavorato ad una calcinaia e svolto alcune mansioni ad un mulino. Avrebbe inoltre fornito alcuni servizi e beni in natura al portinario del castello35. Questo documento ci fornisce senza dubbio un termine cronologico per l’esistenza, nel castello di Vico, di un sistema difensivo in muratura. Per murare, infatti, si intende un’opera che fa uso di pietra, a differenza del termine steccata, utilizzato quando si tratta di recinti in legno (questa differenziazione è tendenzialmente chiara nella documentazione di questo periodo36). Benivieni avrebbe quindi contribuito a costruire le mura oppure ad eseguire lavori di manutenzione come prestazioni d’opera per conto dell’abate della Badia Fiorentina. Nonostante il documento offra un valido terminus ante quem per la costruzione di un sistema difensivo sarebbe errato identificare la cinta muraria citata nella carta del 1219 con i lacerti murari visibili sul poggio. Le informazioni presenti nel documento non offrono indicazioni precise sulla cinta muraria per cui non è possibile sapere se nel documento si faccia riferimento ad un’ulteriore cinta mura-


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ria, che poteva essere presente nella parte inferiore del poggio, o ad una diversa fase edilizia della struttura. Il documento ci fornisce in ogni caso anche informazioni circa la difesa del castello, che doveva essere sorvegliato da un portinaio e prevedere turni di guardia effettuati dalla popolazione dipendente. Nella seconda metà del XII e soprattutto nel XIII secolo il quadro politico e la situazione economico-sociale cominciano a cambiare. Alla metà del Duecento la Badia Fiorentina appare indebolita; i suoi possessi in Valdelsa vengono attaccati dalla spinta espansionistica del comune di San Gimignano in via di formazione (che avrebbe distrutto il castello di Fosci e sequestrato delle quantità di grano). Anche il castello di Signa viene infine venduto dal monastero perché divenuto difficile da gestire a causa della volontà di autonomia da parte degli uomini del castello stesso. Le ragioni che portarono, nella seconda metà del XIII secolo, a tutte queste alienazioni sono forse da ritrovare nella necessità di ripagare i debiti che la Badia aveva progressivamente accumulato37. Per lo stesso motivo la Badia decise di disfarsi di un altro possedimento cardine, cioè il castello di Vico. Il 12 luglio 1246 fu siglato a Firenze il compromesso di vendita del castello di Vico l’Abate con tutte le sue pertinenze a favore dei fratelli Ritegno, Belfredi e Tebaldino, figli del fu Folcardino da Montefolchi per il prezzo di lire 2800 di denari pisani da pagarsi a rate38. Successivamente, il 5 settembre 1254, l’abate Bartolomeo ricomprò alcuni possessi legati a Vico l’Abate ed ottenne: “un resedio posto in Burgo de Vicchio”, “unam plateam et casolare posita in cassero castri de Vicchio predicto, quae fuit olim Ricordato f. Gherardini, fines cuius hii sunt: I via, II murus castellanus, III e IV dictorum venditiorum reservata et omne ius eis pertinens in dicto muro quantum tangit et tenet casolare predictum et ipsi casolari tantum”; detto casolare è “cum tecto, trabis et lignamine” e risulta “amplum per testam 5 pedes et dimidium et 8 pedes longum, ad rectum pedem corde”39. Anche questo documento ci offre delle indicazioni archeologicamente significative. Si può dedurre che doveva esistere un insieme di edifici (si cita infatti un “resedio”) posti nel castello o al di sotto di esso. Nello stesso documento si fa riferimento anche ad un’area aperta (“plateam”) e ad un casolare posto all’interno del cassero e confinante con la via da un lato e con le mura castellane dall’altro. Era un edificio di piccole dimensioni edificato con tetto di travi e legno. Questa descrizione ci conferma ancora nel 1254 l’esistenza di un cassero (al cui interno doveva trovarsi almeno un edificio), di una via (che passava probabilmente all’interno del castello) e di una cinta muraria.


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Data la presenza sul pianoro di avvallamenti e allineamenti murari è possibile ipotizzare che l’area della sommità fosse quella dove era ubicato l’edificio descritto dalle fonti. Nella parte est del pianoro è presente inoltre un’ulteriore struttura muraria che potrebbe essere identificata con questo tipo di edificio descritto dai documenti (fig. 13). Sul versante est è possibile infatti osservare i lacerti di una costruzione, denominata CA2, costituita da un setto murario (CF2) posto a retta del pianoro (fig. 14). Il punto in cui si innesta il muro è infatti in forte pendenza e il piano di calpestio è formato da pietre in crollo. Il muro si estende per circa 7 m in lunghezza con un’altezza minima di 2,60 m40 (fig. 15). Appoggiati al paramento murario sono presenti due blocchi di muratura (CF1, CF3) formati da malta e pietrame di medie e piccole dimensioni. Queste strutture presentano un’altezza quasi pari a quella del muro e vi si appoggiano contro (figg. 14, 15). Il paramento murario (CF2) è formato da lastre e bozzette spaccate, di diversi litotipi (soprattutto calcari e arenarie), disposti in corsi irregolari. Le pietre di dimensioni medio grandi sono spaccate nella faccia a vista senza alcun tipo di lavorazione superficiale. Per la messa in posa si è fatto uso di malta che si presenta in gran parte dilavata, anche se in una piccola porzione di muratura compare dell’intonaco e della malta residuale41. Si tratta dunque in un paramento murario edificato con una tecnica da muratore, che potrebbe, per le caratteristiche assunte, appartenere ad un edificio di XIII secolo, che sappiamo doveva essere presente sul pianoro. Tipologie di murature simili a quella appena documentata, appartenenti ad abitazioni in contesti castrensi di XIII e XIV secolo, sono già stati documentati in alcuni scavi archeologici in area toscana. Un caso è quello di Rocca Sillana (Pisa), dove nel borgo sono stati scavati dei corpi di fabbrica appartenenti ad edifici trecenteschi. Queste strutture sono costituite da uno o due vani interni, spesso seminterrati per seguire il declivio della collina. Le murature sono formate da pietre spaccate e il tetto era presumibilmente costituito da un’intelaiatura lignea di travi e travicelli42. Un altro esempio di edilizia civile in un contesto castrense si ritrova nel castello di Montecchio Vesponi, a Castiglion Fiorentino (Arezzo)43, dove sono state scavate alcune case di inizio Trecento con muri perimetrali costituiti da elementi litici non lavorati o grossolanamente sbozzati, legati con terra o con malta molto friabile. Le misure di questi edifici, che risultano appoggiate direttamente alla cinta del castello, si attestano attorno ai 7x4 m . Una tipologia muraria, quindi, molto simile per conformazione, tipo di lavorazione e di malta, al lacerto murario presente a Vicchiaccio. Sulla superficie del poggio, soprattutto lungo i versanti (UT2), sono


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stati inoltre osservati alcuni frammenti di ceramica tra cui due di maiolica arcaica (probabilmente forme chiuse) oltre a frammenti di coppi e mattoni, indice forse dell’esistenza di un sistema di copertura in laterizi. La situazione economica del castello nella seconda metà del XIII secolo, forse già in declino, viene peggiorata ulteriormente con il passaggio dei ghibellini al ritorno dalla battaglia di Montaperti. Nel 1269 risulteranno danneggiati due palatia e una casa confinanti col muro del castello e con la chiesa44. La presenza di due palazzi potrebbe indicare la coesistenza nel castello di più proprietari. Le due chiesi pertinenti al castello diventeranno entrambe parrocchie, tanto che nelle Rationes Decimarum Italiae saranno entrambe presenti, anche se la chiesa di San Niccolò non dovette mai contribuire, probabilmente a causa della povertà del proprio patrimonio45. Della chiesa di San Niccolò, che doveva trovarsi all’interno delle mura del castello, non rimane più traccia materiale. La chiesa di Sant’Angelo, invece, ha continuato ad esercitare la funzione parrocchiale fino ad alcuni decenni fa; attualmente è chiusa e priva di parroco. Il castello di Vicchio viene di nuovo citato in un documento dell’11 ottobre 1322 come sede di una casa “in burgo castri castelli Vichi”46. In una carta del 29 ottobre 1361 Vico compare ancora come “castello”; nel suddetto documento si legge “unum castrum sive casserum quasi destructum quod vulgariter appellatur Vicchio dell’Abate”. Il castello faceva parte di alcuni beni che Alessio di Gugliemetto, del popolo di Santa Maria Novella in Firenze, aveva lasciato alla confraternita di Orsanmichele47. È possibile ipotizzare che successivamente la zona sia stata utilizzata esclusivamente come terreno agricolo e le strutture spoliate per utilizzarne il materiale nelle aree circostanti. Lungo i versanti del poggio sono infatti visibili dei terrazzamenti, alcuni dei quali sostenuti da alcuni corsi di pietre, altri intuibili solo dalla morfologia del terreno. Inoltre il pianoro stesso potrebbe essere stato livellato in periodo postmedievale per far spazio a coltivazioni (fig. 16). L’individuazione delle evidenze archeologiche del castello di Vicchio e il loro studio, eseguito contestualmente al recupero delle fonti storiche edite, ha permesso di aggiungere un tassello importante nell’indagine sul territorio di Santo Stefano a Campoli tra X e XII secolo. Il castello di Vico, probabilmente donato nel 995 dai Marchesi di Toscana al Monastero di Santa Maria in Firenze, assume ragionevolmente il ruolo di centro cardine dei possedimenti fondiari di questo ente nella Val di Pesa. Da notare anche la posizione favorevole del sito, in prossimità del fiume Greve e di


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una via di transumanza che collegava la Val di Pesa con la Val di Greve. Il poggio di Vicchiaccio, di dimensione ridotta, doveva ospitare alcune strutture nella parte sommitale. I documenti scritti attestano infatti la presenza di una cinta muraria48, di almeno un edificio di piccole dimensioni49 e di palatia all’interno di un cassero50. Le ricognizioni archeologiche di superficie mostrano l’esistenza di un pianoro sommitale attorno al quale sono state documentate delle strutture murarie, oltre alla presenza di terrazzamenti, avvallamenti del terreno e crolli di pietre lungo le pendici. Le strutture murarie documentate e analizzate potrebbero essere ipoteticamente ricondotte ad una cinta muraria di piccole dimensioni ma di elevata qualità tecnica e costruttiva (UT1, CA1) (figg. 4, 12) e a lacerti di setti murari di un edificio di XIV secolo (UT1, CA2) (figg. 14, 15). Sebbene nel documento del 125451 si faccia riferimento ad un “burgo”, le evidenze materiali documentate fino ad ora sul sito sembrano non dare indicazioni in merito ad altre possibili strutture edilizie attorno al pianoro sommitale. Nel 136152 il castello, dopo essere stato sottoposto ad alcune compravendite risulta presumibilmente già in una fase di declino e distruzione. La carta del 121953 risulta tuttavia esplicita di come la Badia Fiorentina, fosse riuscita, tramite questo centro, a mantenere sul territorio e sugli uomini una presa non indifferente. Degno di interesse risulterebbe l’approfondimento dal punto di vista archeologico, con tecniche di indagine non invasive, ad esempio mediante prospezioni geofisiche, in grado di rilevare anomalie del terreno e presenza di strutture sotto il livello del suolo. Una prospettiva di studio ulteriore potrebbe riguardare l’analisi approfondita delle strutture murarie, dal momento che la tipologia di tessitura muraria pertinente alla cinta (CA1), non ha attualmente trovato confronti nell’edilizia della zona; l’edilizia ecclesiastica del plebato di Campoli, infatti, seppur di qualità (in particolare la pieve di Santo Stefano e la chiesa di Santa Maria a Montemacerata) utilizza un litotipo differente e una dimensione delle pietre nettamente inferiore. Un prospettiva di studio potrebbe essere proprio il confronto di queste murature con il contesto cittadino fiorentino, per indagare legami e influenze urbane nella zona chiantigiana in ambito tecnologico, politico e sociale. Teresa Ulivelli


31 NOTE 1 L’incastellamento nel plebato di S. Stefano a Campoli. Archeologia di un territorio tra

X e XII secolo, tesi di Laurea Triennale in Storia e Tutela dei Beni Archeologici, Università degli Studi di Firenze, Scuola di Studi Umanistici e della Formazione, Dipartimento SAGAS, A.A. 2012-2013. Relatore Prof. G. Vannini; Correlatore Dott.ssa C. Molducci. 2 M.E. CORTESE, Signori, castelli, città. L’aristocrazia del territorio fiorentino tra X e XII secolo, Firenze 2007, pp. 31-32, 167, 270. 3 E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, V, 1843, p. 754. 4 G. CAROCCI, Il comune di San Casciano in Val di Pesa, Firenze 1892, pp. 133-135. 5 E. CONTI, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, Roma 1965, pp. 17-30. 6 R. FRANCOVICH, I castelli del contado fiorentino nei secoli XII e XIII, Firenze 1973, p. 143. 7 R. NINCI, Le proprietà della Badia Fiorentina: problemi di identificazione in Le carte del monastero di Santa Maria in Firenze (Badia). II . Sec. XII, a cura di A.M. Enriques, (Regesta Chartarum Italiae, 42) , Roma 1990, pp. 318-348. 8 In seguito anche Italo Moretti e Vieri Favini accoglieranno questa interpretazione, in I. MORETTI , V. FAVINI, A. FAVINI, San Casciano, Firenze 1994, pp. 84-87. 9 Le carte del monastero di Santa Maria in Firenze (Badia). I. Secc. X-XI, a cura di L. Schiaparelli, ristampa anastatica (Regesta Chartarum Italiae, 41), Roma 1913. Le carte cit., II. 10 Ma anche “Viclo”, “Uiclo”, “Uicclo”, “Vickio”, “Uiclum”. 11 Le carte cit., I, doc. 35, pp. 86-92. 12 CONTI, La formazione cit., pp. 17-30 13 Le carte cit., I, doc. 100, pp. 253-255. “[…] integram decimationem de curte et castello qui dicitur Uicclo. Quod est de iam dicto monasterio […] de sex sortis, qui pertinet del plebe Sancti Stefano sito Campauli”. 14 Le carte cit., II, doc. 176, pp. 53-55. 15 Tuttavia non si tratta del primo documento che attesta la presenza di più chiese nella zona del castello di Vico perché in una carta del 1107, anch’essa conservata nel fondo della Badia Fiorentina, si cita il “castrum Uiclum cum curte et ecclesiis et omnibus pertinentiis”: cfr. Le carte cit., II, p. 14; trattasi di una bolla papale di Paquale II che conferma a Giovanni, abate del monastero di Santa Maria in Firenze, tutti i possessi finora venuti in suo potere e gli concede alcuni privilegi: tra questi beni compare appunto anche il castello di Vico, secondo la citazione riportata. 16 NINCI, Le proprietà cit., p. 334 17 Si veda in questo volume il saggio di Guido Tigler. 18 Il monastero di Santa Maria in Firenze fu fondato infatti nel 978 dalla contessa Willa, madre del marchese Ugo di Toscana. Il territorio di pertinenza dei marchesi di Tuscia si distribuiva in una zona ampia che comprendeva sia i dintorni della città di Firenze che


32 una vasta area: Mugello, Val di Sieve, Valdelsa, Pratomagno, Casentino e Val di Pesa. Già alla fine del X secolo gran parte di questi possedimenti erano entrati a far parte delle casse di monasteri e mense vescovili. Cfr. CORTESE, Signori cit., pp. 3-4. 19 Le carte cit., I, doc.5, p. 10. 20 Nel 978 Bibbione viene definito ‘locus’. Con un diploma dell’Imperatore Ottone III , datato 8 gennaio 1002 la località compare non più come ‘locus’ ma come sede di un intera curtis (cfr. Le carte cit, I, doc. 15, p. 46). In una Carta di Promissione del 1113 “Bibione” figura già come castello (Le carte cit., II, doc. 158, p. 20). 21 “[…] id est casa et curte mea illa domnicata, quam abeo infra comitato et territurio Florentino locus qui dicitur Lucho cum castello illo qui ibi est edificatum et cum ecclesia Beati Sancti Clementi ibi constructa, una cum terris et vineis seo dominicato illo qui a ipsa curte pertinet et cum et due centi et octo inter casis et cassinis seo rebus massariciis qui ad suprascripta curte et ecclesia seo castello sunt pertinentibus et cum omnia suorum pertinentia seo integritate suarum” (Le carte cit., I, doc. 8, pp. 24-29). 22 Le carte cit., I, doc.15, p. 46. Questi i possedimenti citati: “castellum de Segna, Greue, Uiclo, Bibiano, Luco, Cedeca cum omnibus eorum pertinentiis, insuper curtes Montem Domini, Radda, in Fusci duas cortes, Bibione, Francilione, Monte Molinario, Fagise”. 23 Le carte cit., I, doc. 19, p. 52. 24 FRANCOVICH, I castelli cit., p. 143. 25 CAROCCI, Il Comune cit., pp. 133-135. 26 Identificativo n. 324_G022, anno 1936, scala 1:25000, ProgettoCASTORE-Regione Toscana. 27 Un esempio è il podere Castellaccia, situato a poche centinaia di metri di distanza da Vico: cfr. CONTI, La formazione cit., p. 17. 28 P. MARCACCINI, L. CALZOLAI, I percorsi di transumanza in Toscana, Firenze 2003, p. 56. 29 MARCACCINI-CALZOLAI, I percorsi cit., p. 116. 30 Le UT (Unità Topografiche) costituiscono l’elemento di base della ricognizione archeologica di superficie. Individuano cioè sul terreno le evidenze archeologiche di vario tipo, raggruppandole mediante un minimo comune denominatore. Rappresentano dunque degli insiemi complessi, al cui interno possono trovarsi molteplici elementi. Un’unità topografica può essere rappresentata da un’area in cui affiora materiale ceramico, così come da una zona specifica di un sito archeologico. Cfr. F. CAMBI, N. TERRENATO, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Roma 1994, p. 257. 31 Queste strutture, non essendo indicate nel Catasto Storico Regionale Toscano, dovevano già essere in stato di abbandono nel XX secolo. 32 Ogni struttura è stata denominata con un CF (Corpo di Fabbrica). Un Corpo di Fabbrica è definito come unità edilizia distinguibile per caratteristiche architettoniche. Si tratta dunque di un singolo edificio che può, aggregandosi con altri, formare un Complesso Architettonico. Allo stesso tempo un singolo Corpo di Fabbrica può scomporsi ulteriormente, individuando i vari prospetti interni ed esterni, i vani, le superfici orizzontali e gli elementi architettonici. Cfr. G.P. BROGIOLO, Archeologia dell’edilizia storica, Como 1988.


33 33 Un Complesso Architettonico è definito come organismo architettonico ben identifi-

cabile, costituito dall’aggregazione di più Corpi di Fabbrica. Un esempio di Complesso Architettonico può essere rappresentato dalle casa colonica toscana, formata molto spesso da più edifici affiancati, sorti per la progressiva aggregazione ad un corpo di fabbrica originario. Cfr. BROGIOLO, Archeologia cit. 34 P. SANTINI, Documenti dell’antica costituzione del comune di Firenze, Firenze 1895, pp. 240-244. 35 “dicit quod vidit dictum Benivieni facere quaitas de nocte custodiendo castrum per unum annum, et murare murum castri per duos annus, et facere calcinaiam et calcinam suis expensis per unum annum”: SANTINI, ibidem. 36 P. PIRILLO, Forme e strutture del popolamento nel contado fiorentino. II. Gli insediamenti fortificati (1280-1380), Firenze 2008, p. 32. 37 NINCI, Le proprietà cit., p. 342. 38 NINCI, Le proprietà cit., p. 346; FRANCOVICH, I castelli cit., p. 143. 39 FRANCOVICH, ibidem. 40 Il muro non presenta alcun elemento architettonico; al centro è però visibile un’apertura di circa 1m?, che ad una prima analisi non appare come antropica; è possibile che un crollo abbia provocato il distacco del paramento e di parte del sacco murario interno. 41 Il materiale da costruzione poteva essere facilmente reperibile nelle zone limitrofe, ricche di numerosi affioramenti di calcare. Sul pianoro stesso di Vicchiaccio è presente un affioramento di calcare che sembra recare tracce di taglio di natura antropica. 42 AA.VV., Guerrieri e artigiani. L’Alta Valle del Cecina dalla Preistoria al Rinascimento, in “Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana”, III, 2007, 2, pp. 816-838. 43 AA.VV., Castiglion Fiorentino(AR). Castello di Montecchio Vesponi; campagna di scavo 2008, in “Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana”, IV, 2008, 2, pp. 439-446. 44 Liber Extimationum. Il libro degli estimi (1269), a cura di O. Brattö, in Romanica Gotoburgensia, II, Göteborg 1956, par. 176. 45 Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Tuscia, a cura di P. Guido, M. Giusti, Roma 1973, par. 568, p. 24. 46 PIRILLO, Forme e strutture cit., p. 183. 47 PIRILLO, ibidem. 48 P. SANTINI, Documenti dell’antica costituzione del comune di Firenze, Firenze 1895, pp. 240-244. 49 FRANCOVICH, ibidem. 50 Liber Extimationum. Il libro degli estimi (1269), a cura di O. Brattö, in Romanica Gotoburgensia, II, Göteborg 1956, par. 176. 51 FRANCOVICH, ibidem. 52 PIRILLO, ibidem. 53 P. SANTINI, Documenti dell’antica costituzione del comune di Firenze, Firenze 1895, pp. 240-244.


Fig. 1. Eidotipo planimetro del poggio di Vicchiaccio (ImmaginiGoogle_Dati Cartografici2015)

Fig. 2. Avvallamenti e crolli di pietre sul pianoro (UT1)


Fig. 3. Avvallamenti e crolli di pietre sul pianoro (UT1)

Fig. 4. Eidotipo planimetrico di CA1 (UT1)


Fig. 5. CF1 (UT1, CA1)

Fig. 6. Paramento murario di CF1 (UT1, CA1)


Fig. 7. CF2 (UT1, CA1)

Fig. 8. Sezione laterale di CF2 (UT1, CA1)


Fig. 9. Le strutture CF1 e CF2 (UT1, CA1)

Fig. 10. CF3 (UT1, CA1)


Fig. 11. CF4 (UT1, CA1)

Fig. 12. Paramento murario esterno di CF4 (UT1, CA1)


Fig. 13. Eidotipo planimetro del poggio di Vicchiaccio (ImmaginiGoogle_Dati Cartografici2015)

Fig. 14. Eidotipo planimetrico di CA2 (UT1)


Fig. 15. CA2 (UT1)

Fig. 16. Terrazzamento con asse NE-SO lungo il versante sud del poggio di Vicchiaccio.



DOCUMENTI PER LA CHIESA DI SANT’ANGELO A VICO L’ABATE

La chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate nel piviere di Santo Stefano a Campoli è stata per secoli custode di due grandi capolavori dell’arte medievale toscana, la Madonna con Bambino di Ambrogio Lorenzetti e la tavola agiografica con San Michele Arcangelo di Coppo di Marcovaldo (figg. 1-2). Questa splendida suffraganea della pieve di Santo Stefano a Campoli non però mai stata oggetto di studi specifici, né architettonici né artistici né tantomeno storici. C’è stato un generale disinteresse per l’edificio1 è importante però ricostruire le sue vicende storiche per poter ridare lustro ad una chiesa ad oggi dimenticata e abbandonata. Lo stato di conservazione dell’edificio è piuttosto precario, la mancanza di una manutenzione ordinaria ha influito soprattutto sulle strutture murarie, per questo la situazione è assai critica2. Nonostante ciò la chiesa colpisce ancora per le sue notevoli dimensioni: si tratta infatti di un complesso molto grande, che comprende anche la canonica che si sviluppa tutto intorno all’edificio ecclesiastico (fig. 3). Sorprende anche di più la posizione di Sant’Angelo, situata sulla sommità di un poggio, vicino alla valle del fiume Greve, da cui domina tutto il territorio circostante (fig. 4). Le notizie storiche riguardanti le forme attuali di Sant’Angelo si possono ricostruire tramite il Campione3 della chiesa. Si tratta di un mano-


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scritto stilato a partire dal 1589 dai sacerdoti che nei secoli hanno amministrato il complesso e i suoi poderi. Nella parte introduttiva di questo fondamentale manoscritto, il prete Giuseppe Nozzolini dà “notizia della chiesa del suo fabricatore e della consecratione di lei”4, raccontando che l’originaria chiesa di Sant’Angelo era “piccola e vecchia poco proportionata”, motivo per il quale nel 15195 il prete Francesco del Grasso, al ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, decise di rendere la chiesa “cosi bella cosi grande” da fare invidia a tutte le altre chiese del contado fiorentino. “Sopravvisse egli poco a la fabbrica di detta chiesa lasciando a la partita sua diciotto moggia di grano perche si facessi la tavola a l altare maggiore […] ma furono poi convertite in altro uso da Prete Niccolo del grasso suo successore”6. Non vi sono notizie sui lavori eseguiti, ma Nozzolini ci informa che il nuovo edificio venne consacrato7 dal vescovo di Troia Mons. Ferdinando Pandolfini nel giorno della festa dell’Arcangelo Michele, il 29 settembre 15398. La chiesa ha una semplice pianta a croce latina con il presbiterio a terminazione rettangolare e un’unica ampia navata (14x7,70 m ca.), come possiamo vedere anche da un disegno di fine XIX secolo9 che comprende anche la sagrestia (fig. 9). Con la ricostruzione e la riconsacrazione, è possibile che la struttura della chiesa sia stata ampliata la sua struttura in pianta10, oltre che modernizzata. Potrebbero essere state aggiunte le due cappelle laterali voltate a botte (3,80x3,20 m), di cui abbiamo notizie solo a partire dal 1589, ma che ancora a quella data non avevano un’intitolazione11. Sicuramente entro la fine del XVI secolo vengono posti i grandi altari in pietra serena che ornano i due sacelli e il presbiterio. L’attuale facciata della chiesa presenta un’intonacatura moderna che non ci permette di leggere le murature sottostanti: anche la lunetta sopra il portale, con un rovinatissimo affresco rappresentante l’Arcangelo, risale sicuramente al XX secolo. Da alcune fotografie della chiesa di fine Ottocento (figg. 5-6) si può notare che al posto della lunetta sopra la porta vi siano tracce di una precedente struttura cuspidata, forse risalente al 1661 quando il parroco Mario Noti fece “restaurare la facciata dilla chiesa” e volle “ornarla di pitture a fresco […] e con un Bellissi(mo) S. Michele Arcangiolo sopra la porta della Chiesa ope(r)a di P. Onorio Marinari12 Pittore celeberrimo”13. Confrontando nuovamente le antiche fotografie dell’edificio con lo stato attuale, anche la torre campanaria risulta anch’essa diversa (figg. 56, 10). Un disegno datato 1943 ci illustra come si presentava il campanile in quella data e spiega anche il progetto di lavoro seguito per la sua ricostruzione proprio in quegli anni14 (fig. 11). Tutta la muratura al di sopra


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della cornice alla base della cella campanaria venne completamente rifatta riprendendo però la struttura precedente. Tuttavia è stata modificata l’apertura ad arco ed è stata inserita la cornice con mattoni a vista disposti a denti di sega, che riprende quella della facciata della chiesa. A completare il campanile in origine, sopra al tetto a padiglione, vi era “una piccola crocetta” e un San Michele “di piastra di ferro co(n) una spada in mano, alto un braccio e mezzo, che al vario soffiare de venti variamente rivolgendosi in torno”, posto a proteggere la chiesa da maligni spettri. Il progetto ci informa che la parte bassa del campanile è ancora quella originale che è stata soltanto “restaurata” e non rifatta a nuovo. Questa importante informazione suggerisce che con un’analisi di queste strutture murarie potrebbe consentire di datare questo elemento architettonico. La parte più interessante della torre campanaria15 è tuttavia la sua base, che si erge su un alto pilone cilindrico, realizzato con grandi conci piuttosto regolari, e sulla sovrapposta arcata ogivale (fig. 7), che creano uno stretto vano voltato a crociera. Confronti utili si ricavano da strutture riferibili all’inizio del XIII secolo, come il campanile del Duomo di Fiesole16, iniziato nel 1213, con la differenza che in questo caso il sostegno che regge il campanile, posto nel transetto Nord, è un pilastro parallelepipedo. Un’altra struttura analoga si ritrova nella pieve di Santa Maria ad Arezzo17, dove il campanile è sorretto da un pilastro sormontato da due archi, questa volta a pieno centro, creando un vano in cui è stato posto il fonte battesimale. In altre chiese coeve si ritrova l’idea della torre campanaria con un’apertura alla base: a San Lorenzo a Brancoli (fig. 8) e San Frediano a Lunata passa una strada sotto al campanile e così avveniva sotto al campanile del Duomo di Prato18. Nel caso di Sant’Angelo il vano che si crea al di sotto del campanile è molto angusto e a causa delle superfetazioni aggiunte nei secoli non è chiaro quale potesse essere la funzione. Quello che è certo è che si tratta di tutto quello che rimane dell’antica chiesa romanica di Vico l’Abate19. Ciò non basta evidentemente a comprendere l’esatta collocazione dei due capolavori che erano custoditi proprio nell’antica chiesa. Sia la tavola di Coppo che quella di Ambrogio sono documentate all’interno del nuovo complesso cinquecentesco di Sant’Angelo a partire dal 168120, ma mai all’interno della chiesa, sempre in sagrestia o in stanze annesse alla chiesa. Tornando ora alla descrizione della chiesa attuale vediamo come il suo interno si presenta molto spoglio (fig. 12). Le pareti della navata, interamente intonacate, sono intervallate da lesene ioniche neoclassiche; rimangono poi spoglie due piccole aperture che un tempo accoglievano i con-


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fessionali21. Sappiamo poi che “a mezza chiesa” a cornu espistolae c’era “l’uscio con paletto […] che va nel campo santo”22, ma non vi è più traccia della porta. Anche per il soffitto della navata ci affidiamo alle testimonianze scritte poiché al momento è coperto per motivi di sicurezza. Sappiamo che doveva essere “a tetto tinto di color d’aria”23 almeno intorno alla metà del XVIII secolo, ma non abbiamo indicazioni sul tipo di copertura. Rimangono invece tracce di affreschi sia in controfacciata sia nella zona presbiteriale. La porta di accesso della chiesa è infatti circondata da una pittura che simula un grande portale in pietra serena (fig. 13); sopra ad esso si trova una Crocifissione in affresco, molto rovinata, risalente alla fine del VXIII secolo (fig. 14). Si conservano anche le decorazioni ad affresco intorno alle porte di accesso alla sagrestia ed alla canonica e parte delle decorazione della cupola presbiteriale (figg. 15-16). Attualmente l’altare maggiore è privo di decorazione originale24, ma attraverso il Campione della chiesa sappiamo che il prete Giuseppe Nozzolini a partire da settembre del 1591 si impegnò a cercare la somma necessaria per far realizzare una splendida pala. Prima del 159625 questa tela è stata completata e posta sull’altare, ma per aver una descrizione del soggetto bisogna aspettare una visita pastorale del 1636 dove è citata come “Natività della Beata Vergine Maria”26. La titolazione dell’opera all’interno delle visite pastorali si alterna poi nei secoli fra la Natività della Vergine e la Natività di Cristo, senza ulteriori descrizioni. L’unica riproduzione dell’opera è una fotografia (fig. 17), in cui la si vede ancora nella sua collocazione sopra l’altare. Nonostante la difficile lettura la descrizione più aderente sembra un’Adorazione dei pastori, con la Vergine al centro e nella parte alta un tripudio di nuvole ed angeli con Dio Padre. Il 13 marzo 1963 l’opera viene portata al Gabinetto dei Restauri della Soprintendenza delle Belle Arti di Firenze e collocata in uno stanzone a piano terra. Nel 1966 colpite rimane danneggiata dall’alluvione del fiume Arno e attualmente risulta dispersa27. Nella scheda dell’opera al momento del suo trasferimento dalla chiesa al Gabinetto dei Restauri è segnalata come opera di Cosimo Dati (Firenze c.1550-Volterra 1630), allievo di Giovanbattista Naldini da Fiesole, pittore del quale conosciamo solo un’opera firmata e datata che si trova nella chiesa di San Michele a Cetica, una Madonna del Rosario28 del 1586. Nel testamento che il parroco Giovanni Nozzolini lascia all’interno del Campione nel 159629 si trovano interessanti informazioni anche sulle due tele che si trovano tuttora sui due altari laterali. Avendo egli “tanto travagliato e speso” per la chiesa di Sant’Angelo si augura che il sacerdote che


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lo seguirà, provvederà a far realizzare le tavole per i due altari come lui ha fatto per l’altare maggiore. Vorrebbe che “la tavola d’uno fosse la Nunziata co(n) molti angeli sopra e che in quel cerchio d’angeli ve ne fusse uno che facesse toccare la mano a due donne che una fusse la giustizia e l’altra la misericordia” e nell’altra cappella si immagina l’“adorazione dei magi piu piena di figure che fusse possibile ma distinte e supra ancora un bel coro d’Angeli”. Il Campione non fornisce ulteriori informazioni sulla realizzazione dell’opera, ma la visita pastorale di Mons. Angiolo Marzi Medici del 1626 conferma che “altare maius et alia due altaria in medio crux habens tabulas”30. Nell’inventario redatto il 24 dicembre 1705 dopo la morte del parroco Giovanni Bocci31 vengono descritti i due altari, quello a cornu Epistolae dedicato al Santissimo Rosario con una tavola dipinta con l’Adorazione dei Magi (fig. 19) e quello a cornu Evangelii dedicato alla “Ss. Nunziata” con una tavola rappresentante l’Annunciazione (fig. 20). L’Adorazione dei Magi (204x143 cm) schedata come scuola fiorentina dell’inizio del XVII secolo32 (fig. 23) riprende la famosa tela che Ludovico Cardi detto “Il Cigoli” eseguì nel 1605 per la chiesa di San Pier Maggiore a Firenze (345x233 cm), che dal 1790 si trova in Inghilterra a Stourhead, in collezione Hoare33 (fig. 24). Ne esiste un’altra copia di formato più piccolo (156x133 cm) in collezione Gronau a Fiesole, anch’essa autografa34 (fig. 25). Rispetto alle due opere del Cigoli la tela di Sant’Angelo presenta un’evidente semplificazione della parte alta del dipinto: mancano infatti i cherubini, proprio quelli che aveva desiderato il prete Nozzolini. Una particolarità interessante è il personaggio del tutto inedito che accompagna i Magi: si tratta di una figura maschile molto caratterizzata, che guarda dalla parte opposta rispetto al gruppo con Maria e Gesù – forse legata alla committenza? –, che potrebbe aiutare per proseguire gli studi sull’opera. Nell’altra cappella troviamo l’Annunciazione (204x143 cm) schedata come scuola fiorentina del XVII secolo35 (fig. 21), la quale riprende un’altra opera del Cigoli con lo stesso soggetto ora in collezione Molinari Pradelli a Bologna36 (98x74 cm) (fig. 22). La tela custodita a Vico l’Abate presenta, rispetto all’originale, un segno grafico più accentuato insieme ad una generale variazione cromatica. Manca anche in questo caso è il tripudio di angeli manca auspicato dal Nozzolini, così come le due figure della Misericordia e della Giustizia da lui richieste. Rimane da comprendere il legame fra le due opere e il rapporto con Cigoli che è evidentemente scelto come modello per entrambe le tele. Leggendo le visite pastorali e gli inventari relativi alla chiesa traspare come questa fosse un rettoria assai florida. È complesso ricostruire tutti gli


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oggetti che si trovavano al suo interno poiché la maggior parte di questi al momento non è più chiesa conservata in loco e non ne rimangono che vaghe descrizioni. Fortunatamente il Museo “Giuliano Ghelli” di San Casciano in Val di Pesa custodisce, oltre alle due tavole di Coppo di Marcovaldo e Ambrogio Lorenzetti, alcuni importanti arredi sacri37: una croce astile in bronzo38 e un calice del XVI secolo, ma anche un ostensorio e uno sportellino da ciborio in ottone argentato e dorato, entrambe databili alla prima metà del XVIII secolo; inoltre sono conservate nel museo anche due tonacelle e un pianeta del XVIII secolo e il bancone di noce della sagrestia databile invece all’inizio del XVII secolo. L’antico coro ligneo del presbiterio si trova invece dal 1980 nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio a Firenze; portato in quella sede come deposito a seguito di un restauro, non ha più fatto ritorno a Vico l’Abate. Dalle uniche due fotografie che riproducono l’interno della chiesa ancora in auge (figg. 17-18), si vede come la chiesa fosse ricca di paramenti di cui ad oggi non sappiamo niente; sono potrebbero essere stati oggetto di furti o abbandonati in qualche deposito museale. Sant’Angelo infatti non ha più un parroco dal 1965, ma il suo lento declino ebbe inizio nel 1933 quando le tavole di Coppo e Ambrogio sono state prestate per la Mostra del Tesoro di Firenze Sacra39 per non farvi più ritorno. In conclusione questo breve intervento vuole essere solo un punto di partenza per futuri studi che potranno fare chiarezza sulle vicende storiche e storico-artistiche che hanno accompagnato nei secoli Vico l’Abate. Emma Matteuzzi


49 NOTE Desidero ringraziare Andrea De Marchi, Teresa De Robertis, Serafino Del Bravo, Giovanni del Bravo, l’Archivio Arcivescovile Firenze nelle persone del direttore Don Gilberto Aranci e di Rossella Tarchi, l’Istituto Diocesano per il Sostentamento del clero e Nicoletta Matteuzzi. 1 Le principali pubblicazioni che trattano di Vico l’Abate dal punto di vista storico-archi-

tettonico sono: M. CHIOSTRINI MANNINI, I tesori del Chianti, Firenze 1977 e Le chiese del Chianti, a cura di P. Torriti, Firenze 1993. 2 In epoca moderna la chiesa ha subito alcuni restauri architettonici: abbiamo nota di uno eseguito a seguito del terremoto del 18 maggio 1895 che ha interessato la parte absidale e la cupola (Archivio Arcivescovile di Firenze [AAF], Relazione del parroco Lodovico Tossani in merito alla visita pastorale del 19-21 maggio 1911, VPD 59,56) e di un secondo (AAF, Miscellanea 3) a seguito del bombardamenti durante la seconda guerra mondiale nel luglio 1944, quando venne distrutto il tetto e la cupola sopra il presbiterio (compreso un crocifisso di cartapesta che stava 20 metri sopra altare). 3 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, 1589-1857, vidimato nel 17 maggio 1936 dal cardinale Dalla Costa e rilegato nel 1819. 4 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c.3v. 5 Un’iscrizione nel presbiterio riporta l’anno 1521. 6 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c.3v. 7 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c.3r. 8 AAF, VP 16, cc. 169v, 170r. La data è riportata anche nella visita pastorale del cardinale Alessandro de’ Medici del 1589. 9 AAF, Visita delle chiese della campagna dell’arcivescovo Mons. Eugenio Cecconi, 1881-1884, VP 81, c. 2838. 10 Si tratta di supposizioni che necessitano di verifiche del paramento murario. Si fa inoltre riferimento a quanto scritto nel Campione. 11 Così sono descritti (VP 16, c. 169v): “adsunt duo altaria decenter munita, que no(n) conferunt in titulum”. 12 Cfr. S. BENASSI, Onorio Marinari. Pittore nella Firenze degli ultimi Medici, Firenze 2011. 13 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c. 33v. 14 Il 17 dicembre 1943 la Commissione per l’Arte Sacra della Diocesi di Firenze approva il disegno per il restauro e la sistemazione del campanile della chiesa (AAF, Miscellanea 3.3). 15 Ringrazio il Prof. Guido Tigler per gli acuti suggerimenti in relazione alla struttura del campanile. 16 G. TIGLER, Toscana romanica, Milano 2006, pp. 167-172, in particolare p. 170. Inoltre P. MAZZONI, La torre campanaria del Duomo di Fiesole, in “Notizie di cantiere”, IV, 1992, pp.53-56. 17 A. TAFI, La Pieve di S. Maria in Arezzo, Cortona 1994, pp. 88-91. Il campanile è iniziato nel 1216 e terminato nel 1330 come riporta un’iscrizione sul pilastro. 18 Per San Lorenzo a Brancoli: A. MAZZAROSA, La terra di Brancoli, la sua pieve e le chiese monumentali del piviere, Lucca 1983, pp. 36-38; Lucca, a cura di M.T. Filieri, Milano 2000, pp. 175-176; C. Taddei, Lucca tra XI e XII secolo: territorio, architetture, città, Parma 2005, pp. 346-352. Per il Duomo di Prato, il cui campanile è ricordato nel 1221, e il costume di far passare una strada sotto il campanile, attestata soprattutto in Lucchesia: TIGLER, Toscana romanica cit., p. 289. 19 Per le più antiche citazioni documentarie della chiesa di Sant’Angelo, riferibili ai secoli X-XII, e la sua relazione col castello di Vico si vedano in questo volume i saggi di


50 Guido Tigler e Teresa Ulivelli. 20 Il 17 gennaio 1681 il parroco Giovanni Bocci elenca fra i beni della chiesa che si trovano in sagrestia un “quadro di San Michele usato” (IBE 27, c. 500v) mentre nell’inventario redatto il 13 settembre 1681 dall’economo Alessandro Casini (IBE 27, c. 415v) è elencato, sempre in sagrestia, un “un tavola antica dipintovi la B.V.”. Si vedano in questo volume il secondo intervento di Emma Matteuzzi e quello di Elisa Tagliaferri. 21 AAF, Visita delle chiese della campagna dell’arcivescovo Antonio Martini, 1793, VP 66, c. 358r. 22 AAF, Inventario redatto alla morte di Angiolo Mancini ,12, 18 e 19 aprile 1763, IBE 40, n. 86. 23 AAF, Inventario redatto alla morte di Angiolo Mancini ,12, 18 e 19 aprile 1763, IBE 40, n. 86. 24 Attualmente la mostra dell’altare è occupata da una riproduzione della Madonna di Ambrogio Lorenzetti, mentre sulla fronte della mensa troviamo un paliotto di scagliola di fine XVIII secolo con San Michele che sconfigge Satana (sicuramente anteriore al 1808 poiché compare nella VP 56). 25 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c. 22v. 26 La titolazione dell’altare è rimasta all’Arcangelo Michele (AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c. 3v). 27 Opificio delle Pietre Dure (OPD), Archivio Restauri, Relazione di restauro G.R. 3397. 28 All’interno della relazione di restauro viene indicata un’ulteriore scheda relativa all’opera (all. 385) che testimonia che l’opera è stata danneggiata dall’alluvione; purtroppo questa è l’ultima informazione esistente sull’opera. 29 M. PORCINAI, La chiesa di San Michele a Cetica, Fiesole 2015, pp. 91-92. 30 AAF, Campione della Chiesa di Sant’Angiolo a Vico l’Abate, c. 22v. 31 AAF, VP 22, c. 24v. 32 AAF, VP 56, cc. 382, 383. Fa parte dei documenti relativi alla visita pastorale del 27 Aprile 1747 dell’arcivescovo Gaetano Incontri. 33 Dalla scheda di catalogo OA n. 00160834 (Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato, Ufficio catalogo) e dalla relazione di restauro G.R. 3396 l’opera risulta preso in consegna dal Gabinetto dei restauri il 13 marzo 1963, restaurato fra luglio e ottobre del 1978 e consegnato in deposito alla chiesa di San Gervasio e Protasio a Firenze dal 1981 al 1990, quando fa ritorno nella chiesa di Sant’Angelo. 34 R. CONTINI, Il Cigoli, Soncino 1991, p. 80. 35 M. CHIARINI, in Ludovico Cigoli fra Manierismo e Barocco, catalogo della mostra (Firenze 1992), a cura di M. Chiarini, S. Padovani, A. Tartuferi, Firenze 1992, p. 103, cat. 20. 36 OPD, Archivio Restauri, Relazione di restauro G.R. 3395. L’opera risulta presa in consegna dal Gabinetto dei restauri il 13 marzo 1963, insieme alle altre due tele; come per la Natività esiste un’ulteriore schedatura (all. 568) relativa all’alluvione fiorentina, ma non esiste documentazione sul restauro dell’opera né sul suo ritorno alla chiesa di Sant’Angelo. 37 M. MEDICA, in La raccolta Molinari Pradelli. Dipinti del Sei e Settecento, catalogo della mostra (Bologna 1984), a cura di C. Volpe, Firenze 1984, p. 44, cat. 3; IDEM, in Barocco Italiano. due secoli di pittura nella collezione Molinari Pradelli, catalogo della mostra (Mantova 1995), Milano1995, pp. 30-31, cat. 2. 38 R.C. PROTO PISANI, Il Museo di Arte Sacra a San Casciano Val di Pesa, Firenze 1992, pp. 66, 71, 76-77. 39 Questa croce è stata esposta alla Mostra del Tesoro di Firenze Sacra tenutasi nel convento di San Marco a Firenze nel 1933, insieme alla Madonna di Lorenzetti e al San Michele Arcangelo di Coppo di Marcovaldo: Mostra del Tesoro di Firenze Sacra


Fig. 1. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato, ante 1965, n. 29808)

Fig. 2. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato, n. 29809, ante 1965)


Fig. 3. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 4. Veduta della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Giovanni Del Bravo)


Fig. 5. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano al di Pesa (Firenze, Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, neg. 1815, fine XIX secolo)

Fig. 6. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Firenze, Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, neg. 1814, fine XIX secolo)


Fig. 7. Strutture alla base del campanile della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Giovanni Del Bravo)


Fig. 8. San Lorenzo a Brancoli

Fig. 10. Campanile della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 9. Pianta della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Archivio Arcivescovile di Firenze, VP 81, c. 2838)

Fig. 11. Disegno del campanile della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Archivio Arcivescovile di Firenze, Miscellanea 3.3, 1943)


Fig. 12. Interno della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 13. Interno della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Giovanni Del Bravo)


Fig. 14. Crocifissione, controfacciata della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 15. Particolare della cupola presbiteriale della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa


Fig. 16. Porta di ingresso della sagrestia della chiesa di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 17. Presbiterio di Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (fotografia della metĂ del Novecento)

Fig. 18. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano in Val di Pesa (Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, neg. 1816, fine XIX secolo)


Fig. 19. Cappella a cornu Epistolae, Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Giovanni Del Bravo)

Fig. 20. Cappella a cornu Evangelii, Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa (Giovanni Del Bravo)

Fig. 21. Scuola fiorentina del XVII secolo, Annunciazione. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 22. Ludovico Cardi detto il Cigoli, Annunciazione. Bologna, collezione Molinari Pradelli


Fig. 23. Scuola fiorentina dell'inizio del XVII secolo, Adorazione dei Magi. Sant'Angelo a Vico l'Abate, San Casciano Val di Pesa

Fig. 24. Ludovico Cardi detto il Cigoli, Adorazione dei Magi. Stourton (Regno Unito), Stourhead House, collezione Hoare

Fig. 25. Ludovico Cardi detto il Cigoli, Adorazione dei Magi. Fiesole, collezione Gronau


LA TAVOLA COPPESCA DI SAN MICHELE ARCANGELO DA VICO L’ABATE. RESTAURI E ICONOGRAFIA

La tavola raffigurante San Michele Arcangelo e ai lati sei scene relative alla sua agiografia (fig. 1), è stata custodita per secoli nella chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, nel comune di San Casciano in Val di Pesa. Nella letteratura critica relativa all’opera non ci sono riferimenti approfonditi sulla collocazione della tavola all’interno della chiesa. Essa era verosimilmente destinata all’altare maggiore in onore del santo titolare della chiesa, ma nel corso dei secoli ha cambiato la sua collocazione originale. Nel 1681 è documentato all’interno della sagrestia1 e successivamente nel 1763 in una stanza nella canonica2. Alla fine del XX secolo è segnalata di nuovo all’interno della sacrestia3, mentre tre decenni dopo in una stanza annessa alla sacrestia4. Benché la collocazione sull’altare maggiore sia plausibile, è alquanto dubbia la funzione di questo dipinto. Essendo una tavola orizzontale, rettangolare con contenuto agiografico, e viste le sue dimensioni, ha un carattere pertinente sia ad un paliotto sia ad un retrotabulum, quindi sia come fronte dell’altare sia come pala posta dietro la mensa d’altare. La letteratura critica relativa alla tavola coppesca si limita a definire la tavola come paliotto5 o dossale6, spesso senza entrare nel merito. Hellmut Hager7, escludeva che si potesse trattare di un paliotto vista l’esistenza di un anello attaccato al retro della tavola, segno dell’antica posizione dietro


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all’altare (fig. 2). Hager riporta la presenza di un anello di forma allungata non regolare (3,6x2,5 cm) fissato al legno tramite un passante di metallo. Egli collega lo stato di forte usura della parte anteriore della pala, soprattutto nell’angolo sinistro e nella parte bassa, alla posizione in cui era posta sopra l’altare. Si suppone quindi che la tavola fosse inclinata in avanti tramite un tirante che passava per l’anello. La modalità di inclinazione della tavola si può capire dall’affresco di Giotto, nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, che raffigura il Presepe di Greccio, nonostante in questa scena sia rappresentata una croce posta sopra il tramezzo e non sopra l’altarem (fig. 3). Tuttavia i danni che la tavola riporta nella parte bassa, possono essere stati ugualmente causati dai piedi degli officianti; ipotesi questa che indicherebbe l’uso come paliotto e contestata da Hager. Purtroppo al momento del restauro non è stata documentata in nessun modo la presenza di questo anello, nemmeno fotograficamente, tanto che Hager nel suo libro riporta una fotografia fatta da lui stesso (fig. 2). Non è quindi possibile sapere se l’anello è coevo con la realizzazione dell’opera o se sia stato posto in un secondo momento, per esempio per appendere la tavola a parete. Miklós Boskovits8, sostenendo l’impossibilità di una classificazione certa, sembra convergere più verso l’idea che la tavola fosse destinata ad ornare il fronte dell’altare, viste le sue dimensioni, il formato e l’impaginazione compositiva. Marco Ciatti9, analizzando la struttura lignea della tavola, osserva che questa non presenta come supporto una trave trasversale che di norma si trova in altre pale del medesimo contesto. La funzione di controllo delle deformazioni e di supporto esercitata dalla trave, in questo caso è sostituita da una particolare costruzione della struttura della cornice che tiene insieme le tre assi orizzontali di pioppo. La cornice è stata creata a parte con quattro listelli di pioppo larghi cm 6 e spessi cm 1,5, con il lato interno inclinato a 45°, fissati con colla e chiodi sulle tre assi. L’unica motivazione plausibile, secondo Ciatti, per la modalità di costruzione del dossale coppesco è da trovare nella funzione dell’opera: l’assenza della traversa sul retro permetterebbe di posizionare la tavola sul fronte dell’altare senza interferenze. Le ipotesi rimangono aperte poiché non è possibile neppure individuare l’originaria posizione sulla mensa tramite l’altare della chiesa di Sant’Angelo, poiché quello medievale è stato distrutto e sostituito all’inizio del XVI secolo10.


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In seguito alla prima pubblicazione specifica sull’opera degli anni venti del XX secolo, questa venne esposta per la prima volta al grande pubblico alla Mostra del Tesoro di Firenze Sacra del 1933 nel convento di San Marco Firenze11. Dopo l’Exposition de l’art italien de Cimabue à Tiepolo12 del 1935 a Parigi, torna di nuovo a Firenze per la Mostra giottesca del 193713. Ugo Procacci, direttore del Gabinetto Restauri della Soprintendenza di Firenze, presenta il primo restauro parziale a cura di Gaetano Lo Vullo, prima nel 1947 nei locali dell’Accademia e in seguito, nel 1972, alla mostra Firenze Restaura: il laboratorio nel suo quarantennio14, alla Fortezza da Basso di Firenze. Il restauro definitivo fu portato a termine da Ornella Casazza; il risultato di questo secondo lavoro fu proposto nella mostra fiorentina Metodi e scienza, operatività e ricerca nel restauro del 198215. La tavola era stata rimossa dalla chiesa di origine nel 1933 e successivamente al primo restauro, era rimasta all’interno dei depositi dell’Opificio delle Pietre Dure. Dopo il secondo restauro, a partire dal 1983, insieme alla Madonna con bambino di Ambrogio Lorenzetti, anch’essa proveniente da Vico l’Abate, l’opera venne spostata nella chiesa fiorentina di Santo Stefano al Ponte – deposito arcivescovile – in attesa di un’altra collocazione. Nonostante la creazione, nel 1989, del Museo di Arte Sacra a San Casciano Val di Pesa, comune di appartenenza della chiesa dell’originaria collocazione, la tavola rimase nel deposito fiorentino. Solo nel 1992, in seguito ai lavori di ampliamento e riallestimento del museo, l’opera ha trovato lì la sua sede definitiva. Nel 2004 è stata di nuovo esposta alla mostra L’arte a Firenze nell’età di Dante, alla Galleria dell’Accademia16. Prima dei restauri l’opera si presentava ancora in buono stato di conservazione (figg. 4, 8-9). Le dimensioni della tavola sono cm 97 in altezza e cm 123 in larghezza e comprendono il centimetro e mezzo della cornice fermata con colla e chiodi sulla parte anteriore del supporto lungo il margine perimetrale (fig. 10). La costruzione del supporto ligneo, come si è detto, è ottenuta con tre tavole orizzontali di legno di pioppo, rifilate e incollate; il controllo delle deformazioni del legno e il sostegno del supporto vengono svolti dalla cornice, poiché non vi sono traverse poste sul retro per rinforzare la costruzione17. La tavola è stata poi dipinta con tempera ad uovo ed argento. Nonostante lo strato di sporcizia superficiale accumulatosi nei secoli avesse formato una patina scura su tutta l’opera, era ancora possibile una lettura complessiva delle scene e della figura di San Michele. I fenomeni di degrado più evidenti riguardavano il supporto, attaccato dai tarli soprat-


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tutto negli angoli, e in tutta la parte bassa dove le lacune di colore erano tali che il supporto ligneo era a vista (figg. 11-12). L’azione dei tarli era evidente anche sul volto dell’Arcangelo, il quale manteneva comunque tutta la sua qualità ed integrità pittorica (fig. 19). A colpo d’occhio ciò che risultava più danneggiato, e purtroppo tutt’ora risulta, è il fondo della tavola, un tempo in argento, ora ossidato ed abraso. Il restauro dell’opera fu affidato al Gabinetto Restauri della Soprintendenza di Firenze, poi Opificio delle Pietre Dure, e venne svolto in tempi molto lunghi e a più riprese. Il restauratore Gaetano Lo Vullo iniziò a lavorare sulla tavola nel 1946, ma non sappiamo che tipo di intervento portò avanti poiché nella relazione di restauro relativa a questo primo intervento non ci sono annotazioni tecniche18. È riportato soltanto che la tavola, dopo l’intervento del 1946, fu data in consegna il 15 luglio 1955 a Vittorio Granchi, capo dell’equipe del Gabinetto Restauri, e sottoposta ad una nuova operazione restaurativa nel marzo del 1963. Ci viene però in aiuto la relazione di restauro relativa al secondo intervento19. Ornella Casazza, che l’ha redatta nel 1983, riporta di una pulitura precedente eseguita a bisturi con l’ausilio del microscopio da Lo Vullo. Questa pulitura probabilmente riguardò soltanto le tre scene laterali di destra, come si vede bene osservando la prima riproduzione fotografica presente nella seconda relazione di restauro (fig. 5). La documentazione fotografica, conservata nell’archivio dell’Opificio, purtroppo non è stata datata prima del gennaio 1977. A questa data sono riferite una serie di fotografie probabilmente fatte anni prima e catalogate solo in quel momento. Lo possiamo dimostrare osservando due riproduzioni fotografiche (figg. 5-6). Nella prima immagine la pulitura è stata iniziata solo nelle tre scene laterali di destra, nell’ala destra del San Michele, lasciata volutamente a metà per evidenziare la differenza fra lo stato precedente e quello successivo alla pulitura, e in un piccolo tassello nella manica destra della veste. Nella seconda riproduzione il restauro è decisamente progredito: le due scene in alto a sinistra sono quasi completamente riportate alla luce mentre quella in basso è in fase di pulitura. Della figura dell’Arcangelo è stata pulita parte della veste, tutto il volto e parte del trono; il globo è ripulito per metà, evidenziando ancora il contrasto con la zona su cui ancora non si era intervenuti. È proprio questa seconda immagine che ci fa vedere a che punto erano i restauri nel 1972, cioè quando l’opera fu esposta alla mostra Firenze restaura del 197220. Quindi le due fotografie non sono certo databili al 9 gennaio 1977, almeno non entrambe. Un’altra indicazione che non ha supporti documentari, sulla quale pos-


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siamo fare solo delle ipotesi, è quella riportata nella scheda di catalogo O.A.21. Nella sezione relativa ai restauri, quello del 1963 ed un altro datato 1972 sono attribuiti ad Ornella Casazza, sotto la direzione di Umberto Baldini. Il primo dei due restauri, secondo le relazioni dell’Opificio, sarebbe stato ad opera di Gaetano Lo Vullo. Del secondo non abbiamo alcun riscontro nelle relazioni di restauro né in altre fonti bibliografiche. Possiamo quindi supporre che la tavola, essendo rimasto nei depositi del Gabinetto fino agli anni ottanta, abbia subito numerosi interventi fatti da più persone diverse, di cui soltanto l’ultimo seriamente documentato. È infatti nel marzo 1977 che Lo Vullo riprese a lavorare sulla tavola per un restauro conclusivo fino alla sua morte. Il lavoro fu portato poi a compimento dalla restauratrice Ornella Casazza entro dicembre 1978. Nella relazione di restauro22 e nel catalogo della mostra del 198223, Baldini e Casazza riportano che questo intervento di pulitura è stato eseguito, sulla scia del precedente, a secco con bisturi e microscopio. Al termine di questa operazione è stato risistemato il supporto ligneo dall’operatore Giovanni Marussich (fig. 7), verosimilmente nel maggio 1977, data relativa alla riproduzione fotografica dove si documenta la stuccatura della cornice. In questa immagine si può notare come l’opera sia stata integralmente pulita, ma manchino ancora alcuni interventi pittorici. L’operazione sul supporto è consistita nel risanamento degli spacchi e dei deterioramenti con inserimenti a cuneo da tergo. La cornice è stata ricostruita nelle sue parti mancanti per risanare quelle parti che avrebbero potuto subire un ulteriore degrado, soprattutto in basso e negli angoli che erano stati mangiati dal tarlo. La fase conclusiva è consistita nell’intervento pittorico per permettere una lettura genuina dell’immagine. La cornice venne sottoposta ad un “atto di manutenzione”, così definito dai due restauratori. Tramite un’integrazione a tratteggio, creata con pennellate giustapposte differenziate da quelle originali, sono state ricostruite le decorazioni verdi e bianche (fig. 13). Un’integrazione cromatica è stata fatta anche per tutte le zone dove si era l’argento, ad esempio sulla veste e sulla lancia dell’Arcangelo24. Infine sono state ricreate le incorniciature rosse delle sei scene laterali e sono state integrate le zone che avevano subito i danni maggiori, come la scena in basso a destra (fig. 14). Dopo la conclusione dei restauri l’opera fu consegnata ai depositi della Vecchia Posta, agli Uffizi; lasciò definitivamente l’Opificio della Pietre Dure il 17 gennaio 1983. È necessario puntualizzare alcune incongruenze relative a questi restauri che inducono a nutrire qualche riserva sul rigore del metodo seguito.


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Allo stato attuale dell’opera, nella scena in basso a sinistra, la figura seduta in trono non ha il nimbo, simbolo di santità (fig. 15). Nella riproduzione fotografica datata 1977 (fig. 16), ma come abbiamo visto più antica, la testa di questa stessa figura è circondata in modo evidente dal nimbo. Osservando la riproduzione fotografica della tavola al momento della mostra Firenze restaura, si può notare che nella prima scena in alto a destra la figura di San Michele impugna chiaramente una verga fiorita, con una terminazione in alto a forma di giglio (fig. 17). Questa corrisponde alla verga che Dio Padre, nella prima scena a destra, consegna all’Arcangelo e la lancia-verga che la figura centrale di San Michele stringe. Attualmente l’immagine non è più così lampante e la lettura della verga non è più evidente, il giglio ha perso la sua forma (fig. 18). Anche il volto dell’Arcangelo sul trono sembra essere cambiato nel corso dei restauri. Ad oggi i tratti che un tempo marcavano il volto, sembrano essersi ingentiliti e sgrossati (figg. 19-20). Prima degli interventi di restauro era ancora in evidenza il ductus filamentoso delle pennellate e il volto presentava un chiaroscuro più marcato, soprattutto lungo la canna nasale, sotto il labbro inferiore e sotto l’occhio. Adesso il tutto sembra addolcito e stemperato da una sfumatura continua che omogeneizza l’incarnato donandogli un effetto quasi “smaltato”. Il dossale di Vico l’Abate ad oggi è ritenuto unanimemente un’opera di Coppo di Marcovaldo. L’iter che ha portato a questa attribuzione è stato lungo. Vista l’assenza di documenti, l’attribuzione definitiva si è potuta basare soltanto su confronti stilistici con altre opere, che a loro volta erano o sono tutt’ora di dubbia attribuzione. Il primo contributo dedicato all’opera e ad un “nuovo maestro del Duegento” fu scritto da Luigi Dami25 nel 1924-1925. Egli creò un “Maestro del San Michele” definendolo un “maestro ottimo” e “forse il migliore di quanti ne conosciamo a Firenze avanti Cimabue”. Dami pose la tavola in stretta affinità con la tavola con San Francesco e storie della sua vita della cappella Bardi nella chiesa di Santa Croce a Firenze26, una relazione che gli permetteva di collocare l’opera in un contesto artistico prettamente fiorentino. Nel corso del XX secolo l’opera è stata letta dalla critica come frutto di diverse tendenze figurative presenti in Toscana nel corso del Duecento, non solo quella fiorentina ma anche quella lucchese. L’idea che la tavola fosse uscita da una bottega di ambito lucchese fu proposta per prima da Evelyn Sandberg Vavalà27. Collegando alcune opere come la pala con San Francesco della cappella Bardi in Santa Croce, il Crocifisso n. 434 della Galleria degli Uffizi e la tavola con San Francesco e storie della sua agio-


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grafia di Pescia, quest’ultima firmata da Bonaventura Berlinghieri, Vavalà aveva creato un corpus di opere attribuibili a Barone Berlinghieri, figlio di Bonaventura. Mario Salmi28 accoglieva questa tesi, ipotizzando che l’“anonimo maestro lucchese”29 autore della tavola fosse appunto Barone, a cui collegava, oltre alle opere già citate, anche “i mosaici del bel San Giovanni”, cioè del Battistero fiorentino. Della stessa idea era Carlo Ludovico Ragghianti30, il quale sosteneva l’ambito lucchese e berlinghieresco, sottolineando però le comunità formali, non solo con la già citata opera di Santa Croce, ma anche con la Madonna col Bambino proveniente dalla Monastero di Santa Maria a Rosano e con il Maestro del Bigallo31. Sia Ragghianti sia Edward B. Garrison32, riprendendo Dami, ascrivevano l’opera ad un raffinato pittore, che prendeva il nome dalla tavola stessa, il Maestro di Vico l’Abate, “il più squisito artista di questo periodo”33. Garrison riteneva che questo nuovo maestro fosse stato, insieme al Maestro del San Francesco Bardi e al Maestro della Croce n. 434, il protagonista della tensione plastica a Firenze nella prima metà del Duecento, avendo assimilato perfettamente la maniera lucchese del Maestro del Bigallo. Tuttavia non tutta la critica era concorde con la matrice lucchese dell’opera. Questa è contestata prima da Carlo Gamba34, il quale sosteneva che l’opera seguisse gli schemi bizantini più che i dipinti di Berlinghiero, poi da Pietro Toesca35 e Roberto Longhi36, i quali attribuirono l’opera alla scuola fiorentina del XIII secolo. Una svolta decisiva per comprendere chi fosse il Maestro di Vico l’Abate, si deve a Richard Offner. In un suo primo contributo risalente al 192737, aveva sostenuto la paternità fiorentina dell’opera, avvicinando poi nel 193338 la tavola sia all’opera di Santa Croce, sia al Crocifisso degli Uffizi. Riconosceva in queste opere una comune tendenza plastica di stampo fiorentino culminante in Coppo di Marcovaldo, anche se stilisticamente queste opere seguivano ancora la tradizione lucchese di Bonaventura. Offner riteneva che il San Michele, in particolare, mostrasse una plastica, una chiarezza e una vivacità che precorrevano la Croce di San Gimignano. È dunque il primo a porre attenzione sull’affinità fra queste due opere, la cui relazione è la chiave di volta per l’attribuzione della tavola a Coppo. Nel 1977 Miklòs Boskovits39, sulla scia dei ragionamenti introdotti da Offner, ridefinì tutto il corpus di opere di Coppo di Marcovaldo, inserendoci anche il San Michele di Vico l’Abate. Partendo dall’unica opera firmata, la Madonna del Bordone della Chiesa dei Servi di Siena40, rese certa la paternità di Coppo per la Croce dipinta del Museo di San Gimignano.


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Quest’opera, a differenza di quella senese, era ben conservata e ricca di figurazione e quindi permetteva di farsi un’idea chiara di quale fosse lo stile di Coppo. Boskovits evidenziò lo stretto rapporto linguistico fra la croce e il dossale e attribuì con certezza entrambe le opere al grande maestro fiorentino. Secondo lo studioso ungherese la Madonna del Bordone, la Croce di San Gimignano e il San Michele sarebbero tappe strettamente collegate di un unico percorso che porta alla tarda attività di Coppo di Marcovaldo41. L’intuizione di Boskovits di assegnare la tavola tramite il confronto con la croce sangimignanese, è stata accolta da tutta la critica successiva. Prima Luiz C. Marques42, poi Angelo Tartuferi43 e Luciano Bellosi44, basandosi su alcuni confronti tipologici e stilistici, hanno assicurato la validità dell’attribuzione della tavola a Coppo di Marcovaldo. La non immediata attribuzione della tavola a Coppo di Marcovaldo e il problematico inserimento di essa nell’alquanto incerto corpus di opere a lui relativo hanno reso difficile la datazione del dipinto. L’opera è stata inizialmente inquadrata nel quindicennio fra il 1250 e il 1265. Questa datazione è tutt’ora ritenuta verosimile, nonostante siano stati ridefiniti i rapporti con altre opere che hanno permesso una collocazione temporale più ristretta. Prima Luigi Dami45 e poi Edward B. Garrison46 avevano determinato questo quindicennio come momento di attività dell’ancora anonimo Maestro di Vico l’Abate e quindi come quadro temporale di riferimento del San Michele. Luigi Serra47 se ne era discostato proponendo una datazione più tarda, al tempo di Cimabue, quindi negli anni settanta del XIII secolo, mentre Carlo Gamba48 all’opposto, sottolineando la matrice bizantina della tavola, proponeva una collocazione temporale ai primi decenni del Duecento. Miklós Boskovits49, ritenendola opera certa di Coppo, la riferisce al settimo decennio del XIII secolo, poco dopo il 1260. Luiz C. Marques50, in accordo con la paternità coppesca, accostava la tavola stilisticamente e cronologicamente alla Croce di San Gimignano, anticipando però la datazione di entrambe alla prima metà del sesto decennio. Boskovits, successivamente propose che l’opera fosse stata commissionata per la Badia di San Michele Passignano subito dopo l’incendio del 1255, ipotizzandone così una collocazione originaria alternativa 51. Tuttavia lo studioso ungherese si basava sull’erronea affermazione di Emanuele Repetti circa la pertinenza della chiesa di Sant’Angelo a quell’abbazia vallombrosana, smentita da Elio Conti, Riccardo Francovich e Renzo Ninci grazie a un’attenta analisi delle carte della Badia Fiorentina, la cui corretta rilettura, insieme a quella dei dati materiali, ha permesso di attribuire proprio a Vico l’Abate


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il comune toponimo “Vicclo” presente in questi documenti tra quelli dei vari possedimenti che il monastero fiorentino aveva acquisito dalla sua fondazione52. La datazione agli anni sessanta del XIII secolo è attualmente quella ritenuta più attendibile e condivisa dalla critica successiva53. Dopo aver inquadrato l’opera dal punto di vista storico-critico e tecnico, passiamo alla sua lettura. Il dipinto è strutturato con una tripartizione in verticale, la figura centrale e due fasce ai lati di tre episodi ciascuna. Le sei scene icasticamente riquadrate da una semplice cornice rossa, sono organizzate intorno alla figura dell’Arcangelo, il quale rientra perfettamente nella parte centrale della tavola senza interferire con esse; si sovrappone soltanto con la cornice nella parte alta dove la decorazione bianca e verde si interrompe per accogliere il nimbo del santo. Michele è rappresentato in trono come un alto dignitario della corte celeste (fig. 21)54. Indossa una tunica talare con sopra il loros, una striscia di stoffa ornata di pietre preziose che cinge le spalle e il petto per poi ricadere sul braccio sinistro. L’Arcangelo è rappresentato imberbe, con espressione solenne, ieraticamente statica, con i capelli raccolti che ricadono sulle spalle con delle ciocche composte. Ulteriori attributi di regalità sono l’infula e il diadema gemmato. Le ali, non perfettamente uguali, presentano un cromatismo splendido, con una gradazione di colori che va dal blu delle piume esterne al bianco puro dei quelle più interne. Con la mano sinistra sorregge un globo in cui è inscritta una croce a due traverse posta su due gradini che alludono al Calvario: è proprio della mentalità medioevale inscrivere la croce invece di porla al di sopra del globo, per rendere più efficace la rappresentazione e far risaltare la croce, che altrimenti si sarebbe confusa con la veste. Con la mano destra Michele impugna l’altro suo simbolo canonico, la verga fiorita. Questa immagine rientrerebbe appieno nel typus angelico del repertorio bizantino, se non che la verga in questo caso è contemporaneamente una lancia, a simboleggiare la funzione di archistratega dell’Arcangelo. Attorno alla monumentale figura di San Michele prende vita il ciclo narrativo molto vivace e ricco di particolari. Di non facile lettura, è stato riferito in passato anche all’agiografia di altri santi55. Questo perché è qui presentata una straordinaria sintesi di testi biblici, apocrifi e agiografici del tutto nuova, che si sposa con scelte iconografiche in parte completamente inedite. È giusto sottolineare che nel tentativo di recuperare dei precedenti iconografici e testuali, a cui riferire il ciclo in questione, si deve tener conto di tutto ciò che non ci è pervenuto perché scomparso nel corso dei secoli; non è detto quindi che questa tavola non abbia avuto un modello


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univoco di riferimento, letterario o figurativo. Il ciclo è in ogni caso una precisa ed inedita selezione di episodi dell’agiografia di San Michele. La prima parte, composta da tre episodi, fa riferimento a testi biblici ed apocrifi. Cristo consegna la verga fiorita all’Arcangelo Michele. Questa scena rappresenta il Redentore che consegna una verga al primo angelo di una schiera (fig. 22). La comprensione di questa raffigurazione non è immediata e non possiamo far riferimento ad alcun precedente figurativo. La verga fiorita56 è simbolo di tutte le creature angeliche ed è collegata al concetto di autorità ed elezione: “l’uomo che avrò scelto sarà quello il cui bastone fiorirà”57, così Dio parla a Mosè. È quindi un attributo di potere che Dio conferisce al primo angelo di questa schiera celeste,composta da quattro angeli, del tutto simili fra loro, distinti soltanto dal diverso colore delle vesti gemmate. Si può ipotizzare che siano quattro arcangeli, Michele, Gabriele, Raffaele ed Uriele. Nei testi apocrifi58 sono ricordati in tutto sette arcangeli, e sono definiti lictores di Dio, cioè portatori di verghe con le quali puniscono Satana. I primi tre arcangeli, Michele, Gabriele e Raffaele, sono i più importanti, i più rappresentati e anche gli unici nominati nella Bibbia. Il quarto è identificabile con Uriel. Questo arcangelo infatti ha una sua iconografia definita59 e trova largo spazio nelle scritture apocrifi, in particolare nel Quarto Libro di Edsra60 e nel Libro di Enoch61. Questa scena rappresenta quindi l’investitura di Michele62, come colui “che nella schiera degli angeli porta il vessillo di Cristo”63, quindi il primo fra gli angeli, colui che poi trionferà su Satana. I quattro arcangeli dovevano avere il nimbo disegnato sull’argento ora del tutto ossidato. Siamo certi della presenza di questo simbolo di santità poiché vi è uno spazio di forma circolare fra le ali, disegnate schematicamente, e le teste. Questo riflessione vale per tutte le altre scene dove i nimbi non sono più presenti, ma ne è rimasta traccia grazie all’impostazione degli elementi circostanti. L’unico nimbo ancora conservato è presente in questa scena nella figura di Cristo, la cui aureola, com’è usuale, ha una croce inscritta dipinta di rosso e rifinita con la biacca. L’Arcangelo soprintende alla preparazione di un trono in Paradiso. Questa è certamente la scena di più difficile lettura (fig. 23). Anche in


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questo caso non ci sono confronti figurativi e possiamo solo fare riferimento a testi letterari, in particolare apocalittici. San Michele è rappresentato con in mano la verga fiorita64 e indosso una veste azzurra riccamente decorata con sopra la clamide rossa ed in testa una corona, molto più imponente del diadema che porta nell’immagine centrale. Con il dito alzato della mano destra, indica quello che sembra essere un trono che un angelo sta ponendo sulla sommità della montagna di roccia. Un altro angelo, l’unico in tutta la tavola con le ali così riccamente descritte, si sporge verso l’alto tenendo in mano il pulvinare del trono. Si noti come il pulvinare sia identico a quello posto sul trono dell’Arcangelo nella raffigurazione centrale: rosso con le rifiniture nere alle due estremità. Il trono invece non sembra essere lo stesso; in questa scena è molto semplificato, quasi inconsistente, creato pressoché esclusivamente con puntini di biacca. Questa scena è stata variamente interpretata. Per primo Dami, facendo riferimento ad un passo della Legenda Aurea65, la spiega come San Michele che ordina la preparazione di un trono in Paradiso per una delle anime che lui accoglie in Paradiso66. Secondo George Kaftal67 si tratta invece dell’esposizione del trono di Lucifero abbattuto. Questa ipotesi non sembra essere la più corrispondente: la sconfitta dell’Angelo ribelle viene rappresentata nella scena successiva. Un’altra interpretazione che appare poco consistente è quella fornita da Ornella Casazza68. A suo parere, la scena rappresenterebbe la definizione della gerarchia angelica di San Michele: il terzo ordine degli angeli, quello dei troni69. In realtà secondo Dionigi l’Areopagita, autore del trattato angeologico De Coelesti Hierarchia, i troni sono il terzo ordine della prima gerarchia insieme a serafini e cherubini, mentre gli arcangeli sono il secondo ordine della terza gerarchia, insieme a principati ed angeli. L’interpretazione più vicina a quello che doveva essere il significato della scena, è quella presentata da Isabella Tasselli70. La studiosa propone che si tratti della rappresentazione dell’etimasia, simbolo iconografico del Giudizio Finale, partendo da un passo del Libro di Enoch71, (“Michele mi disse: questa alta montagna che tu vedi, la cui sommità è simile al trono del Signore, è il suo trono, sul quale […] il Signore della gloria si siederà, quando scenderà a visitare la terra ...”) e da uno dell’Apocalisse di Giovanni72. Il trono vuoto è quello che occuperà Cristo nel giorno del Giudizio.


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La battaglia celeste e la vittoria su Lucifero. Questa scena rappresenta l’episodio più noto relativo all’Arcangelo: la vittoria su Lucifero (Fig. 24). Troviamo la descrizione di questo trionfo nel capitolo 12 del libro dell’Apocalisse: “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”73. La rappresentazione della scena è costruita in due tempi. Nella parte alta è raffigurato l’inizio della battaglia: dal cielo, rappresentato come una porzione di sfera azzurra, scendono gli angeli ribelli, con volti arcigni, per combattere contro l’Arcangelo: uno di essi, armato di arco, ha già scoccato un freccia che rimane sospesa per aria. Nella parte bassa è rappresentata già la conclusione della battaglia: Michele, capo delle schiere angeliche, qui rappresentate da due arcangeli armati che lo seguono, è vestito con la clamide purpurea, lo scudo a mandorla e la pettorina, mentre trafigge Satana. Gli altri demoni, armati di lance, forconi ed archi, continuano a scagliare frecce verso la schiera angelica, nonostante siano già stati sconfitti. Nell’Apocalisse giovannea si nota che il diavolo è descritto come un drago, ed infatti l’iconografia più diffusa in relazione a questo episodio prevede un grande drago o serpente che Michele riesce a trafiggere. In questo caso il pittore sceglie invece un’iconografia diversa: il drago è presente solo come una piccola creatura, simile ad un serpente, che morde il dito di Lucifero rappresentato in forme antropomorfe, ancora nimbato e con le ali, riverso a terra, in una posizione scomposta, con le catene spezzate alla mani e ai piedi (fig. 28). L’immagine antropomorfa di Satana, nei testi sacri, è legata ad altri episodi, per esempio alla discesa di Dio all’Inferno, dove il diavolo viene rappresentato incatenato, o alle tentazioni di Cristo e di Giobbe. Questa rappresentazione non è un’assoluta novità poiché esiste almeno un modello figurativo precedente di matrice bizantina. La prima formella dell’anta sinistra delle porte bronzee del Santuario micaelico del Monte Gargano, fuse a Costantinopoli nel 1076, illustra lo stesso passo dell’Apocalisse74. Non è rappresentata una scena di battaglia ma l’Arcangelo stante e vittorioso, sospeso nel cielo al di sopra della figura rannicchiata di Lucifero in forme antropomorfe, con le catene spezzate. Ai lati di Michele cadono le figurine nude degli Angeli sconfitti75 (fig. 29).


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Un’altra particolarità iconografia iconografica di questa scena del dipinto è la scelta di raffigurare tutta la schiera demoniaca con la pelle scura, come Mori. Purtroppo l’ossidazione dell’argento del fondo adesso non permette di valutare perfettamente queste figure, che in origine spiccavano contrapponendosi al fondo luminoso. La seconda parte del ciclo, anch’essa composta da tre episodi, fa riferimento ai testi agiografici relativi ai miracoli e alle apparizioni di San Michele. Miracolo del toro sul Monte Gargano. In questa scena è rappresentato l’incipit della leggenda garganica: Gargano, ricco proprietario di greggi e di armenti, ritrova un toro, che non era rientrato con la mandria, davanti ad una grotta tra le balze selvagge di un monte (fig. 25). Gargano irato scaglia contro il toro una freccia avvelenata ma viene ferito lui stesso dal dardo, prodigiosamente respinto verso di lui. Qui Gargano, seguito da tre servitori armati, è rappresentato intento a scoccare una seconda freccia verso il toro mentre la prima freccia, miracolosamente tornata indietro, è già conficcata nella sua gamba. Il toro, con uno zoccolo alzato a rappresentare il movimento, si staglia sul fondo nero della grotta. L’imponente montagna che occupa quasi tutta la scena, è costruita da forme vigorosamente lumeggiate che alludono alle balze montane, da cui spuntano fiori e piccoli arbusti del tutto astratti. Il volto di Gargano risulta particolarmente danneggiato, soprattutto negli occhi, forse a causa di una damnatio per zelo devoto. Le immagini di questa vicenda sul Gargano dipendano principalmente a due testi: il Liber de Apparitione Sanctii Michaelis in Monte Gargano e la Vita Sancti Laurentii episcopi Sipontini. Queste agiografie sono state poi rielaborate nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze76, opera successiva alla realizzazione della tavola che può essere ugualmente utile per comprendere lo sviluppo del culto. Apparizione al Vescovo di Siponto. In questa scena è rappresentata un’apparizione di San Michele ad un alto prelato (Fig. 26). Il protagonista è qui raffigurato come l’arcangelo


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Gabriele, come un angelo annunziante con la dalmatica e il pallio; con una mano benedice il vescovo mentre nell’altra stringe una verga di cui ora rimangono solo dei frammenti della parte inferiore. L’apparizione non avviene alla maniera bizantina, con il vescovo disteso nella sua alcova mentre dorme, di cui un esempio si trova nella scena dell’apparizione al vescovo di Siponto riprodotta su una delle formelle della porta bronzea del Santuario del Gargano. Nella tavola di Vico l’Abate il vescovo è rivolto verso l’Arcangelo, con la mano coperta in segno di rispetto, inserito, in maniera un po’ incongrua, all’interno di un’architettura che sembra ricordare in effetti quella di un’alcova. Rimane da identificare quale delle tante apparizione dell’Arcangelo sia qui rappresentata. Certamente non quella a papa Gregorio Magno, poiché si narra sia avvenuta sulla sommità del Mausoleo di Adriano, mentre il papa stava guidando una processione. Le altre due apparizioni possibili sono quella al vescovo di Siponto o quella al vescovo di Avranches. Le opinioni della critica sono contrastanti. Richard Offner77 è incerto fra le due, Edward B. Garrison78 e Miklós Boskovits79 si limitano a definirla un’apparizione. Secondo Luigi Dami80 si tratta dell’apparizione al vescovo francese, interpretazione seguita da Franco Lumanchi81 e da Giulia Sinibaldi82, anche se con incertezza. Secondo George Kaftal83 si tratta invece dell’apparizione di Michele al vescovo di Siponto alla vigilia della battaglia fra i sipontini e i bizantini84, mentre ad un’apparizione generica al vescovo sipontino credono Isabella Tasselli85 e Rosanna Caterina Proto Pisani86. Un’ipotesi possibile è che l’episodio raffigurato in questa scena sia l’apparizione al vescovo sipontino, Lorenzo Maiorano, subito dopo il miracolo del toro dove Michele, come narrano le fonti, rivela di essere stato l’artefice del miracolo e che la grotta è stata da lui scelta come sede del suo culto. I sipontini al cospetto del proprio Vescovo. Questo riquadro presenta un altro prelato seduto su un trono ligneo mentre dialoga con un gruppo di personaggi in un ambiente urbano (fig. 27). La scena ha avuto interpretazioni molto diverse, tutte legate alle varie apparizioni dell’Arcangelo. Secondo Luigi Dami87, il prelato è identificabile con Papa Gregorio Magno, il quale avrebbe ordinato la costruzione di una chiesa dopo l’apparizione dell’Arcangelo sul Mausoleo di Adriano. Nella torretta nel mezzo degli edifici della parte sinistra vi riconosceva


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l’attuale Castel Sant’Angelo. La scena viene invece riferita all’apparizione a Mont Saint-Michel da Isabella Tasselli88. La proposta più persuasiva è che la scena sia riferita alla vicenda garganica e che il prelato sia identificabile con il vescovo di Siponto. A suggerirla è George Kaftal89, il quale suppone che la scena rappresenti l’incontro fra il vescovo e Gargano per spiegare il miracolo del toro e l’intervento di San Michele90. Questa tesi spiegherebbe l’impostazione dialettica della scena, infatti i personaggi laici al cospetto del vescovo sembrano colloquiare e non tanto ricevere un ordine. Questo gruppo di figure sembra navigare sulle architetture retrostanti: esclusi i due personaggi in primo piano, di tutte le altre figure è stata disegnata solo la testa e un accenno di busto, non hanno le gambe ed i piedi. È difficile però dimostrare che la prima figura di fronte al vescovo sia proprio Gargano. Rispetto alla scena con il miracolo del toro, il ricco sipontino presenta una veste completamente differente e non possiamo confrontare i volti viste le condizioni disastrose in cui versa la figura nella scena precedente. Per l’identificazione del prelato si possono fare dei confronti con quello della precedente scena dell’apparizione. Secondo la tesi qui proposta si tratta in entrambi i casi del vescovo di Siponto (figg. 3031). Confrontando le due figure si può notare come il typus sia il medesimo, anche se i personaggi presentano alcune differenze91, in particolare la mitra non è esattamente congruente in entrambi i vescovi, le bande ornamentali sono diverse. Nonostante ciò si può affermare che siano la stessa persona visto il gusto della variatio più volte espresso dal pittore nell’opera. Esempio principe di questa continua diversificazione è la figura dell’Arcangelo; mai proposta con la medesima iconografia ma sempre con vesti, pose ed attributi differenti. L’interpretazione fin’ora proposta si coniuga con una precisa ipotesi di lettura delle scene. Il ciclo sembra essere organizzato secondo un andamento bustrofedico92, impostazione di derivazione bizantina che fa riferimento all’antica modalità di scrittura. Partendo dall’alto, la narrazione procede da destra verso sinistra, scendendo con un andamento a nastro, prosegue da sinistra verso destra nel secondo registro e di nuovo da destra verso sinistra in basso. Quindi la prima scena del ciclo corrisponde all’investitura di San Michele, a cui viene consegnato una verga fiorita. Il risultato di questa attribuzione di potere si trasforma nella seconda scena nella nuova veste dell’Arcangelo, dotato di corona e verga, mentre soprintende alla costituzione di un trono. Nel riquadro successivo Michele è rappresentato come archistratega mentre guida alla vittoria le schiere celesti contro Lucifero.


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Il ciclo prosegue con la leggenda del Monte Gargano: prima il miracolo del toro, poi l’apparizione al vescovo di Siponto ed infine lo stesso vescovo che dialoga con i sipontini dopo i miracolosi fatti accaduti. L’ipotesi di lettura bustrofedica del ciclo è una risposta all’idea di Luigi Dami93, che “le scene, di significato vago, se non proprio incerto sono disposte, almeno sembra, in ordine casuale”. Inoltre viene rispettata la continuità narrativa e la sequenza cronologica delle scene e vengono messe in luce alcune particolarità del ciclo. Innanzitutto è interessante notare come in quest’opera sia presentata solo una delle tante leggende legate a San Michele, quella del Monte Gargano. Le apparizioni dell’Arcangelo, come riportano gli scritti agiografici, sono state molteplici; le più famose sono l’apparizione a Colossae Chonae in Frigia, a Roma sul Mausoleo di Adriano, a Mont Saint-Michel in Normandia e a San Michele della Susa in Val d’Aosta. L’ipotesi che i tre episodi finali del ciclo coppesco siano tutti legati alla leggenda garganica si basa sull’idea di una continuità narrativa fra le scene, ma anche sulla grande diffusione che ebbe la vicenda pugliese in Toscana94. L’apparizione a Colossae Chonae, la più antica in assoluto, era precedente a quella garganica ma aveva avuto una diffusione molto circoscritta all’ambito bizantino. Invece la vicenda romana, successiva a quella pugliese, ebbe molto successo in Toscana e in Italia più in generale, ma in un momento successivo alla realizzazione del dossale; altre leggende come quella della Susa ed alcune minori non ebbero una fortuna molto vasta e neppure un apparato iconografico ben definito. La leggenda francese, che oggi probabilmente rappresenta il simbolo per eccellenza del culto dell’Arcangelo non aveva avuto ancora margini di diffusione a livello iconografico nella Toscana nel XIII secolo. Questo nonostante che il pellegrinaggio micaelico, da Mont Saint-Michel con tappa a San Michele della Susa fino al Monte Gargano, fosse già stato definito. Oltre ad una lettura strettamente iconografica, è possibile individuare nel ciclo alcune rispondenza fra le scene (fig. 32). Gli episodi possono essere messi in relazione a due a due. Le due scene nel registro superiore sono di ispirazione sacro-angelogica: l’Arcangelo prima riceve il potere direttamente da Dio, successivamente appare incoronato già ad esercitare il mandato divino. Sono scene che preparano ai due episodi più famosi ed importanti dell’agiografia dell’Arcangelo, la vittoria su Lucifero ed il miracolo del toro, che si trovano in corrispondenza nel registro centrale della tavola. In esse è definita l’azione e il potere del grande miles caelestis con due episodi celeberrimi già nel XIII secolo che infatti sono collocati in una posizione prestigiosa, andando immaginariamente a formare una croce con la figura centrale del San Michele. Le scene del registro


La tavola coppesca di San Michele Arcangelo da Vico l’Abate. Restauri e iconografia

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inferiore invece riguardano entrambe la vicenda sipontina e sono accomunate dalla presenza del vescovo Lorenzo. Queste due scene sono inoltre le uniche in cui l’ambientazione non è di tipo naturalistico ma sono presenti delle architetture. Infatti nelle quattro scene superiori, l’unico elemento che contestualizzi e inquadri la narrazione è la roccia. Si può notare una corrispondenza chiastica fra queste quattro scene per quanto riguarda la modulazione e la composizione delle scene. Infatti la scena con la preparazione del trono e quella con il miracolo del toro, presentano delle vere e proprie montagne di roccia che occupano metà del riquadro; nella vittoria su Lucifero e nella scena con la consegna della verga invece la roccia è più contenuta e non è più funzionale al racconto, ma serve solo come quinta scenica: nella prima scena come seduta di Dio e nella scena successiva invece sembra sia posta quasi a proteggere l’Arcangelo, offrendogli anche un piano di posa. In conclusione questa opera appare come il frutto di un culto micaelico così radicato da produrre un ciclo agiografico che è un vero e proprio unicum. Ciclo che è ancora da confrontare con la produzione artistica coeva e successiva, nella speranza di poter ricostruire le fonti dirette di questa incredibile sintesi e dare risposta alle ipotesi di interpretazione qui proposte. Emma Matteuzzi


78 NOTE 1 Il 17 gennaio 1681 il parroco Giovanni Bocci elenca fra i beni della chiesa che si tro-

vano in sagrestia un “quadro di San Michele usato”: Archivio Arcivescovile di Firenze (AAF), Campione della Chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, 1589-1857, vidimato nel 17 maggio 1936 dal cardinale Dalla Costa e rilegato nel 1819. 2 AAF, Inventario redatto alla morte di Angiolo Mancini 12, 18, 19 aprile 1763 (IBE 40 n. 86): nello “stanzone a sopra di capo scala” si trova “l’antico quadro dell’altare in tavola rappresentante rozzamente S. Michele A.”. 3 G. CAROCCI, Il Comune di San Casciano in Val di Pesa , Firenze 1892, pp. 133-135. 4 G. DE NICOLA, Il soggiorno fiorentino di Ambrogio Lorenzetti in “Bollettino d’arte” 1922-1923 pp. 49-58.

5 P. TOESCA, Il Medioevo, Torino 1927, p. 1037 nota 46. 6 E.B. GARRISON, Italian Romanesque panel painting: an illustrated index, Firenze

1949, pp. 33, 144; A. TARTUFERI, La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze 1990, pp. 27-30; L. BELLOSI, Precisazioni su Coppo di Marcovaldo, in Tra metodo e ricerca, contributi di storia dell’arte, atti del Seminario di studio in ricordo di Maria Luisa Ferreri (Lecce 1991), a cura di R. Poso, L. Galante, Galatina 1991, pp. 37-74. 7 H. HAGER, Die Anfange des italienischen Altarbildes: Unterschungen zur Entstehungsgeschichte der toskanischen Hochaltarettabels, Bonn 1959, p. 155. 8 M. BOSKOVITS, Appunti per una storia della tavola di altare: le origini, in “Arte Cristiana”, LXXX, 1992, pp. 422-438. 9 M. CIATTI, The typology, meaning, and use of some panel paintings from the Duecento and Trecento, in Italian panel painting of the Duecento and Trecento, a cura di V. M. Schmidt, Washington 2002, pp. 15-17. 10 Si veda in questo volume il primo saggio della stessa autrice. 11 L. SERRA, Mostra del tesoro di Firenze Sacra, in “Bollettino dell’Arte”, XXVII, 1933, 1, pp. 37-48. 12 Exposition de l’art italien de Cimabue à Tiepolo, catalogo della mostra (Parigi 1935), a cura di F. Barbe, C. Ravanelli Guidotti, Paris 1935, p. 75. 13 Mostra giottesca, catalogo della mostra (Firenze 1937), Bergamo 1937, p. 28. 14 Firenze restaura, catalogo della mostra (Firenze 1972), a cura di U. Baldini, P. Dal Poggetto, Firenze 1972, p. 31. 15 U. BALDINI, O. CASAZZA, A. MOLES, M. MATTEINI, in Metodo e Scienza:operatività e ricerca nel restauro, catalogo della mostra (Firenze 1982), a cura di U. Baldini, Firenze 1982, pp. 35-45. 16 O. CASAZZA, in L’arte a Firenze nell’età di Dante (1250-1300), catalogo della mostra (Firenze 2004), a cura di A. Tartuferi, M. Scalini, Firenze 2004, pp. 86–87. 17 C. CASTELLI, Tecniche di costruzione dei supporti lignei dipinti, in M. CIATTI, C. CASTELLI, A. SANTACESATIA, Dipinti su tavola, La tecnica e la conservazione dei supporti, Firenze 1999, pp. 59-98. 18 Opificio delle Pietre Dure (OPD), Archivio Restauri, Relazione di restauro G.R. 1348. 19 OPD, Archivio Restauri, Relazione di restauro G.R. 7104. 20 Firenze restaura cit., p. 31. 21 Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato, Ufficio catalogo, Scheda di catalogo per opere ed oggetti d’arte dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, n. 00187593. 22 OPD, Archivio Restauri, Relazione di restauro G.R. 7104. 23 BALDINI-CASAZZA-MOLES-MATTEINI, in Metodo e Scienza cit., pp. 35-45. 24 U. BALDINI, Il restauro del San Michele di Vico l’Abate, in “Storia dell’Arte”, XXXVIII/IL, 1980, pp. 131-135. 25 L. DAMI, Un nuovo maestro del Duegento fiorentino, in “Dedalo”, V, 1924-1925, pp. 490-500.


79 26 Secondo Dami le due opere sono stilisticamente molto vicine, ma non frutto dello stes-

so artista.

27 E. SANDBERG VAVALÀ, La Croce dipinta italiana e l’iconografia della passione,

Verona 1929, pp. 726-729.

28 M. SALMI, I mosaici del “bel San Giovanni” e la pittura del secolo XIII a Firenze,

in “Dedalo”, III, 1930-1931, pp. 543-570. 29 Anche Sergio Ortolani sostiene la provenienza della tavola dall’ambito lucchese, sottolineando il forte calligrafismo di stampo berlinghiano (S. ORTOLANI, La crocifissione di San Domenico Maggiore in Napoli, in “Bollettino d’Arte”, XXV, 1931-1932, pp. 62-63). 30 C.L. RAGGHIANTI, Pittura del Dugento a Firenze, Firenze 1955, pp. 40-41. 31 Quest’ultimo accostamento è sostenuto anche da Luigi Coletti, il quale però giudica l’autore di ambito fiorentino (L. COLETTI, La Mostra Giottesca, in “Bollettino d’Arte”, XXXI, 1937-1938, pp. 49-72). 32 GARRISON, ibidem. 33 RAGGHIANTI, ibidem. 34 C. GAMBA, La Mostra del Tesoro di Firenze Sacra. La Pittura, in “Bollettino d’arte”, s. III, XXVII, 1933-1934, pp. 145-163. 35 Toesca per primo associa la tavola alla Croce di San Gimignano, sottolineando che l’autore della prima è sicuramente anteriore ed estraneo a Cimabue (TOESCA, ibidem). 36 R. LONGHI, Giudizio sul duecento, in “Proporzioni”, II, 1948, pp. 5-54. Lo studioso collega l’opera al San Francesco della cappella Bardi e alla tavola raffigurante San Francesco che riceve le Stimmate conservata alla Galleria degli Uffizi. 37 R. OFFNER, Italian Primitives at Yale University, New Haven 1927, p. 12. 38 R. OFFNER, The Mostra del Tesoro di Firenze Sacra, in “The Burlington Magazine”, LXIII, 1933, p. 79. 39 M. BOSKOVITS, Intorno Coppo di Marcovaldo, in Scritti di storia dell’arte in onore di Ugo Procacci, a cura di M.G. Ciardi Duprè, P. Dal Poggetto, Milano 1977, pp. 94-105. 40 Opera firmata e datata 1261, che ha subito però delle importanti ridipinture sui volti e sugli incarnati agli inizi del Trecento. 41Boskovits è incerto sulla tavola della cappella Bardi: l’autore, a suo parere, è forse un “precursore di Coppo”, mentre Coppo vi lavora solo come aiuto. 42L.C. MARQUES, La peinture du Duecento en Italie centrale, Paris 1987, pp. 70-77. 43A. TARTUFERI, La pittura a Firenze nel Duecento, Firenze 1990, pp. 27-30, dove sottolinea come Coppo in questo suo lavoro abbia aderito all’influenza pisana delle tarda attività di Giunta Pisano. 44 BELLOSI, ibidem. 45 DAMI, ibidem. 46 GARRISON, ibidem. 47 SERRA, Mostra del tesoro cit., p. 44. 48 GAMBA, La Mostra del Tesoro cit, p. 146. 49 M. BOSKOVITS, s. v. Coppo di Marcovaldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, p. 634. 50 MARQUES, ibidem. 51 M. BOSKOVITS, A critical and historical corpus of Florentine painting. The origins of Florentine painting 1100-1270, I, I, Firenze 1994, pp. 123, 538; inoltre pp. 98, 122, 124, 134, 547-549. 52 Si veda in questo volume il saggio di Teresa Ulivelli e inoltre quello di Guido Tigler. Repetti associa a Sant’Angelo tre documenti del 1094, 1096 e 1100: i primi due sono da riferire a Vicchiomaggio, mentre l’ultimo, pur riferendosi a Vico l’Abate, non è utile per sciogliere la questione identificativa che qui interessa ed è in ogni caso frainteso da Repetti (E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, V, 1843, p. 754). 53 BELLOSI, ibidem; TARTUFERI, La pittura cit., p. 28.


80 54 L’unico studio dedicato all’iconografia di quest’opera si deve a Isabella Tasselli: I. TASSELLI, Contributo per la lettura iconografica della tavola del Maestro di Vico l’Abate, in “Studi Medievali”, I, 1991, pp. 309-325. 55 Secondo Guido Carocci le scene in basso erano attribuibili alla vita di san Pietro (CAROCCI, Il Comune cit., p. 134). 56 “Blossoming rod” per verga fiorita in GARRISON, Italian Romanesque cit., p. 144. 57 Num. 17, 20. 58 In particolare nelle apocalissi dei Enoch ed Esdra e nel Vangelo di Bartolomeo. 59 È rappresentato con una fiammella in mano. Ne troviamo un esempio figurativo lo nella Maestà di Simone Martini del Palazzo Pubblico di Siena (A. BAGNOLI, La Maestà di Simone Martini, Milano 1999, p. 106). 60 L’Apocalisse di Esdra, è un testo greco del V sec. a.C. 61 Libro di Enoch, cap. IX. Si tratta di un testo apocrifo del I sec. a.C. scritto in lingua etiope. 62 Luciano Bellosi descrive la scena come l’Eterno che ordina ai tre arcangeli di combattere Lucifero (BELLOSI, Precisazioni cit., p. 45). 63 Iacopo da Varazze, Legenda aurea (1298), a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino 2007, p. 793. 64 Attualmente la individuazione del giglio non è immediata, ma prima dei restauri lo era (vedi supra). 65 “[…] è lui ad accogliere le anime dei Santi e a condurle in Paradiso”, Iacopo da Varazze, Legenda aurea cit., p. 793. 66 Ritroviamo la stessa idea in: GARRISON, Italian Romanesque cit., p. 144; G. SINIBALDI, G. BRUNETTI, Pittura italiana del Duecento e Trecento, catalogo della Mostra Giottesca di Firenze del 1937, Firenze 1943, p. 183; F. LUMACHI, Guida di Sancasciano Val di Pesa, Milano 1959, pp. 88-90. 67 G. KAFTAL, Iconography of the Saints in Tuscan painting, Firenze 1952, pp. 737742. 68 O. CASAZZA, Scrutinio dei ritmi, San Michele Arcangelo di Vico l’Abate, in “Critica d’arte”, III, 1984, pp. 66-71. 69 “Preparazione di un trono in paradiso che nella gerarchia celeste rappresenta il terzo ordine degli angeli, quella appunto dei troni. Questo terzo ordine comprende i Principati, gli Arcangeli e gli Angeli” (CASAZZA, Scrutinio cit., p. 67). 70 TASSELLI, Contributo cit., pp. 320-322. 71 Cap. XXV. 72 Ap. 4,2-3. 73 Ap. 12,7-9. 74 G. BERTELLI, La porta di S. Michele a Monte Sant’Angelo. Aspetti e problemi, in Le porte in bronzo dall’antichità al secolo XIII, a cura di S. Salomi, I, Roma 1990, pp. 293306. 75 La diffusione del tema iconografico di matrice bizantina è riconducibile ai rapporti fra la Toscana e il sud d’Italia favorito dai pellegrinaggi, rapporti posti in relazione con l’espansione dei Benedettini Pulsanesi. Cfr. F. PANARELLI, Dal Gargano alla Toscana. Il monachesimo riformato latino dei Pulsanesi (secoli XII-XIV), Roma 1997. 76 Iacopo da Varazze, Legenda aurea cit., pp. 793-804, cap. CXL. 77 OFFNER, The Mostra del Tesoro cit., p. 79. 78 GARRISON, ibidem. 79 BOSKOVITS, Corpus cit. I, I, cit., p. 538. 80 DAMI, ibidem. 81 LUMACHI, ibidem. 82 SINIBALDI-BRUNETTI, ibidem. 83 KAFTAL, ibidem. 84 La battaglia fu vinta grazie all’intervento dell’angelo, in seguito ad una seconda apparizione al vescovo.


81 85 TASSELLI, Contributo cit., p. 324. 86 R.C. PROTO PISANI, Il museo di arte sacra a San Casciano Val di Pesa, Firenze

1992, p. 11. 87 DAMI, ibidem; seguito da Ornella Casazza, Franco Lumachi, Giulia Sinibaldi, Edward B. Garrison e Cristina Proto Pisani. 88 TASSELLI, ibidem. 89 KAFTAL, ibidem. 90 Idea condivisa da BOSKOVITS, Corpus cit., I, I, p. 538 e BELLOSI, Precisazioni cit., pp. 37-74. 91 Non è da considerare una differenza la mancanza del nimbo sulla testa del vescovo nell’ultima scena, poiché prima degli interventi di restauro era presente (vedi supra). 92 Ipotesa già proposta da Ornella Casazza e Isabella Tasselli (CASAZZA, Scrutinio cit., pp. 66-71; TASSELLI, Contributo cit., pp. 309-325). 93 DAMI, ibidem, il quale interpreta erroneamente le ultime due scene in basso, scambiandole di posto. 94 Sul culto micaelico: M.G. MARA, s.v. Michele, in Biblioteca Sanctorum, IX, Roma 1961, pp. 410-446; M. FRANCA VENTURA, San Casciano.

Fig. 1. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 2. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare del tergo. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 3. Giotto, Il presepe di Greccio. Assisi, Basilica Superiore di San Francesco


Fig. 4. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare. Fotografia precedente ai restauri (Firenze, Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, neg. 1817)

Fig. 5. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita. Fotografia durante il restauro, gennaio 1977 (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. 212)


Fig. 6. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita. Fotografia durante il restauro, gennaio 1977. (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. 2435)

Fig. 7. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita. Fotografia durante il restauro, maggio 1977 (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. 1868)


Fig. 8. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare. Fotografia precedente ai restauri. (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. GF12201)

Fig. 9. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare. Fotografia precedente ai restauri (Firenze, Gabinetto Fotografico del Polo Museale Fiorentino, neg. 1817)

Fig. 10. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della cornice. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 11. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare dell'angolo in basso a sinistra. Fotografia precedente ai restauri. (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. GF12201)

Fig. 13. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della cornice. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 12. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare dell'angolo in alto a sinistra. Fotografia precedente ai restauri (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. GF12201)

Fig. 14. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena in basso a destra. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 15. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare del vescovo nella scena in basso a sinistra. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 16. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena in basso a sinistra. Fotografia durante il restauro, gennaio 1977 (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. 1555)


Fig. 17. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare di San Michele nella prima scena in alto a sinistra. Fotografia durante il restauro, gennaio 1977 (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. 2438)

Fig. 18. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare di San Michele nella prima scena in alto a sinistra. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 19. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della volto. Fotografia precedente ai restauri (Firenze, Opificio delle Pietre Dure, Archivio Restauri, neg. GF12201)

Fig. 20. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della volto. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 21. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare dell'arcangelo. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 22. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena in alto a destra. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 23. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena della in alto a sinistra. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 24. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena con la Vittoria su Lucifero. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 25. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare di Gargano. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 26. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena in basso a destra. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 27. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare della scena in basso a sinistra. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 28. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare di Lucifero. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 30. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare del vescovo nella scena in basso a sinistra. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 29. Vittoria su Lucifero, formella della porta bronzea. Monte Sant'Angelo, Santuario di San Michele Arcangelo

Fig. 31. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, particolare del vescovo nella scena in basso a sinistra. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 32. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo e storie della sua vita, ciclo narrativo. San Casciano in Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli



LA MADONNA COL BAMBINO DI AMBROGIO LORENZETTI DA VICO L’ABATE. UN NUOVO DOCUMENTO E QUALCHE RIFLESSIONE

Il Museo “Giuliano Ghelli” di San Casciano conserva la prima opera datata del pittore senese Ambrogio Lorenzetti, nato molto probabilmente negli ultimi anni del XIII secolo e morto di peste nel 1348: si tratta della Madonna della chiesa di Vico l’Abate (fig. 1), tempera su tavola di 160 cm per 190 cm alla cui base è dipinta un’iscrizione che così recita (fig. 2): “A.D. MCCCXVIIII.p(ro) rimedio.d(el)l’a(ni)m(a)di Burnacio […] / .Ducio da Tolano.fecelafare. Bernardo figluolo Burnac[…]”. Il dipinto è stato quindi realizzato nel 1319 ed esprime un linguaggio pittorico talmente maturo e privo di incertezze da non poterlo considerare frutto di un pittore alle prime armi, come già aveva intuito Giacomo De Nicola, ossia colui che per primo ha attribuito l’opera ad Ambrogio Lorenzetti1. Le fonti testimoniano la considerazione di cui Ambrogio godeva. Nel 1347 secondo un resoconto di una riunione del consiglio dei Paciari, un’istituzione comunale di cui era membro, il pittore avrebbe pronunciato “sapientia verba”2. Lorenzo Ghiberti nei Commentari scrive: “[…] Maestro Simone fu nobilissimo pictore e molto famoso. Tengono e’ pictori sanesi fosse el miglore, a me parve molto miglore Ambruogio Lorenzetti


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et altrimenti dotto che nessuno altri”3. Lo stesso Ghiberti tramanda la notizia che Ambrogio avrebbe tratto un disegno da una Venere allora attribuita a Lisippo trovata a Siena e collocata sulla fonte Gaia. La figura, in seguito considerata un idolo portatore di sventura, fu distrutta4. Presumibilmente Ghiberti con questo racconto intende evocare una situazione in cui l’ammirazione per l’antico non era ancora condivisa, ma forse non è un caso che la figura della Securitas negli Effetti del Buon Governo, sia alata e coperta solo di un velo trasparente attorno ai fianchi: è probabile che Ambrogio si sia ispirato effettivamente ad un modello classico5. Tale interesse verso la cultura e l’arte antica non era molto dissimile da quello che nutrivano il Petrarca, Coluccio Salutati e Boccaccio, sebbene in ambiti diversi. L’iscrizione (fig. 2) sul dipinto è lacunosa e frammentaria. Secondo Laura Neagle Tampieri, poiché si articola in parte sulla tavola dipinta e in parte sulla cornice, interromperebbe il piano di posa della figura e ne disturberebbe la visione, tanto da indurre la studiosa a ipotizzare che sia stata aggiunta in un secondo momento per volontà del committente e un’esecuzione della tavola prima del 13196, proposta che tuttavia non ha avuto seguito7. Certa è in ogni caso l’esistenza, in quel torno di tempo, dei personaggi menzionati nell’iscrizione, che si trovano citati in un atto notarile conservato nel Fondo Antecosimiano dell’Archivio di Stato di Firenze che attesta che il 29 settembre 1313 nella piazza di Monteficalle, ossia Montefioralle, Balduccio e i suoi fratelli, figli del “quondam” – ossia del defunto – “Burnaccio de Tolano populi S. Angeli de Vicchis Abbatis”, rendono due fiorini d’oro e 24 soldi a Becco del fu Rinuccio per estinguere il debito contratto anni prima da Burnaccio per un mutuo8. Burnaccio, forse Brunaccio, e i suoi figli abitavano a Tolano, toponimo che ancora oggi indica una piccola frazione poco distante sia da Greve che da San Casciano. Nella carta Tolano risulta come “del popolo di Sant’Angelo di Vico l’Abate”9, quindi i suoi abitanti erano dei parrocchiani, per usare un termine moderno, della chiesa. Questo dimostra che la tavola di Ambrogio era destinata alla chiesa. Il documento inoltre, rivelando il nome autentico del figlio maggiore di Burnaccio, ossia Balduccio, consente di supporre che il patronimico di Burnaccio fosse “di Balduccio”, contratto in “Duccio” nell’iscrizione sulla Madonna col Bambino. Burnaccio in conclusione contrasse un debito per un mutuo: in quel momento le condizioni della sua famiglia non erano dunque floride, ma i figli, ossia Balduccio e i suoi fratelli, sembrano aver recuperato le perdite del padre così da essere in grado di pagarne i debiti, con un conseguente miglioramento del loro status sociale, tanto da poter commissionare un dipinto a uno dei pittori più promettenti e ambiziosi dell’epoca per la sal-


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vezza del padre. L’atto, pertanto, confermerebbe la contemporaneità di iscrizione e opera, concepita espressamente per impetrare l’intercessione della Vergine per Burnaccio, che nel 1313 era già morto. La tavola è testimoniata presso Sant’Angelo nelle carte dell’archivio della chiesa, ove appare in almeno due inventari di epoca moderna. Nel più antico, risalente al 13 settembre 1681, l’economo della chiesa segnala la presenza di “una tavola antica dipintovi la B(eata) V(ergine)”10 in sagrestia. Il secondo, risalente al 1783, conferma la collocazione dell’opera in sagrestia e la descrive come “un quadro antico in tavola sull’oro colla iscrizione Rappresentante Ma(ria) SS.MA con gesù in grembo”11. Qui la vede anche Guido Carocci nel 1892 insieme ad altre tavole, tra cui il San Michele Arcangelo di Coppo di Marcovaldo12. Trent’anni più tardi, nel 1922, De Nicola invece la ricorda in un ambiente annesso alla chiesa13. Nel 1933 l’opera fu prelevata insieme alla tavola di San Michele Arcangelo per essere esposta nella Mostra del Tesoro di Firenze Sacra14; non fece più ritorno a Sant’Angelo e solo nel 1992 fu trasferita nel museo di San Casciano. Se a questo punto è possibile affermare che la tavola sia sempre stata all’interno della chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate, resta difficile capirne la posizione originaria. Le foto del retro della tavola scattate in occasione del recente restauro (2009) rivelano la presenza di tre anelli metallici infissi nella traversa superiore della tavola (fig. 3). Le staffe cui sono fissate le due alle estremità della traversa sono state aggiunte in epoca recente, come rivelano le viti a una fessura sulla capocchia, diffuse a partire dal XX secolo, ma la campanella centrale non ha staffe ed è la più grande delle tre. La parte inferiore (fig. 4) della tavola sul retro non sembra presentare tracce di basamenti: la traversa inferiore è convessa e dunque inadatta ad assicurare la posizione verticale della tavola. È pertanto possibile che il dipinto fosse appeso, ma in mancanza di ulteriori osservazioni e analisi più approfondite sul supporto ligneo non è possibile aggiungere altro. Il mantello della Vergine non ha conservato molte tracce del colore originario a causa di una pesante ridipintura blu ottocentesca: in base alle analisi diagnostiche condotte sul dipinto nel corso dell’ultimo restauro15, è possibile suggerire che in origine il colore della veste, ottenuto con la sovrapposizione di velature di lacca rossa sull’azzurrite, fosse azzurra con lievi sfumature violette; un procedimento analogo di velatura sembra essere stato usato anche per il manto, per il quale inoltre la lacca è stata pure mescolata all’azzurrite, così che il colore doveva risultare viola o azzurro con tonalità decisamente violacee. Anche le fasce di pittura arancione della veste sembrano essere frutto di un intervento successivo. La tecnica pittorica di Ambrogio Lorenzetti è visibile soprattutto negli incar-


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nati e nel tessuto leggero in cui è avvolto il Bambino: lunghe e fini pennellate contigue usando, per ottenere le sfumature e il chiaroscuro, la giustapposizione di colori progressivamente più o meno intensi. Le pennellate larghe culminanti in cumuli densi di colore visibili sul manto della Vergine sono frutto di un restauro ottocentesco eseguito con una tecnica pittorica del tutto diversa. Il dipinto è composto unicamente da tre elementi: la monumentale Vergine, il vivacissimo Bambino sgambettante e il trono cosmatesco, tradotti in un linguaggio pittorico personale che amalgama le maggiori novità della pittura contemporanea con la tradizione pittorica duecentesca. La frontalità della figura e la fissità dello sguardo ne accentuano la ieraticità ed evocano le immagini altomedievali della Vergine, sia bizantine che occidentali, così come la rappresentazione del maphorion, la cuffia in cui sono raccolti i capelli, elemento antiquato che comunque non era ancora in disuso all’inizio del Trecento, come dimostra la tavola del Maestro di Badia a Isola (fig. 5)16. La solennità monumentale della Vergine, il suo distacco da idolo orientale17 creano una contrapposizione stridente con la vivacità guizzante del Bambino (fig. 1), espressa soprattutto nello scalciare delle gambe e nella punta delle dita dei piedi che, sbucando repentinamente dalla veste, si trasformano nel cardine della rappresentazione. Ambrogio, come giustamente afferma Emanuele Zappasodi18, era capace di scarti linguistici notevoli, talora anche più audaci del fratello. Enzo Carli definisce il piccolo Gesù come un bambino “erculeo, ricciuto e inquieto” e ne individua i modelli nella scultura di Nicola Pisano19 (fig. 6). La frontalità dell’opera sarebbe ispirata a dipinti quali la Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto (fig. 7), del 1290 circa20, o la Madonna con il Bambino di Arnolfo di Cambio, del 1300 circa, conservata al Museo dell’Opera del Duomo di Firenze21 (fig. 8). Luciano Bellosi invece suggerisce come modello la Madonna al centro della Maestà di Simone Martini nel Palazzo Pubblico di Siena, finita nel 1315, ritoccata e modificata dal pittore stesso nel 132122: lo studioso cita quale termine di paragone la Maestà di San Gimignano di Lippo Memmi (1317), ispirata alla prima versione della Maestà del futuro cognato (fig. 9) e individua stringenti analogie nella torsione e nella linea del collo della Madonna di Vico l’Abate con altre figure femminili frontali di Simone Martini. È molto più probabile, tuttavia, che Ambrogio abbia tradotto nel proprio linguaggio pittorico elementi desunti da varie fonti. La Madonna in trono con il Bambino di Arnolfo di Cambio può avere influenzato Ambrogio non soltanto per la posizione frontale: com’è noto, la Madonna arnolfiana ha gli occhi di vetro, per l’esattezza dei bulbi oculari in vetro bianco con iride e pupilla in un colore verdastro non troppo scuro23, una soluzione che


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richiama i busti romani24. La superficie degli occhi pertanto, quando l’opera si trovava nella sua collocazione originaria, ossia nella lunetta sopra il portale centrale della facciata arnolfiana demolita nel 1587 di Santa Maria del Fiore, rifletteva la luce brillando come cristalli o pietre preziose, ottenendo un effetto naturalistico sorprendente. Ed è stato proprio il naturalismo dell’opera la causa della sua sfortuna in ambito controriformato e della sua rimozione non solo dalla posizione originaria, ma anche dall’interno della Cattedrale25. Secondo Peter Cornelius Claussen, gli occhi della Vergine arnolfiana erano rivolti leggermente verso l’alto, o comunque verso una distanza illimitata. La brillantezza naturalistica degli occhi e lo sguardo rivolto all’infinito in realtà accentuavano il senso di distacco della figura dalla realtà circostante: la Vergine, presaga del destino del Figlio, è completamente assorbita in una contemplazione non priva di malinconia. Anche la Vergine di Ambrogio ha lo sguardo rivolto leggermente verso l’alto e sebbene gli occhi siano privi della lucentezza degli occhi della Madonna arnolfiana, è frontale e immobile come la statua di Arnolfo, dunque è colta nello stesso atteggiamento contemplativo. Il distacco da idolo colto dal Carli quindi proviene dalla volontà dell’artista di rappresentare la Vergine assorta nella contemplazione del futuro del Figlio. La Madonna di Vico l’Abate indossa degli orecchini circolari con pendenti (fig. 10): si tratta di un tipo di gioiello non infrequente nelle Vergini di Ambrogio, come dimostrano la Madonna della Presentazione al Tempio ora agli Uffizi (1342) (fig. 11) o quella dell’Annunciazione della Pinacoteca Nazionale di Siena (1344) (fig. 12), ma inconsueto nelle Vergini del Duecento e del Trecento. In realtà Ambrogio nella rappresentazione degli orecchini molto probabilmente si ispirava ad un passo Cantico dei Cantici, il poema d’amore dell’Antico Testamento, ove lo Sposo si rivolge alla Sposa dicendole (Cantico, 1, 10-11, Vulgata): “Pulchrae sunt genae tuae inter inaures, collum tuum inter monilia. Inaures aureas faciemus tibi vermiculatas argento”. (Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle. Faremo per te pendenti d’oro, con grani d’argento26). Effettivamente la ricchezza e la struttura, per quanto elegantemente sobria, degli orecchini della Vergine di Ambrogio li fanno più assimilare a


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pendenti, così il verosimile riferimento al Cantico dei Cantici suggerisce una sovrapposizione dell’immagine della Vergine a quella della protagonista del poema biblico. Non si trattava tuttavia di una novità: l’identificazione di Maria con la Sposa di Cristo e con la Chiesa affonda le proprie radici nella patristica e nella liturgia, ove Maria è associata a testi biblici che legano la dignità regale a quella sponsale27. La rappresentazione della Vergine in questi termini risale almeno ai mosaici romani di Santa Maria Maggiore, eseguiti nel V secolo, ove Maria viene effigiata con una veste dorata e la corona e a Roma si protrae nell’Alto Medioevo con l’iconografia della Madonna Regina, il cui abbigliamento di ispirazione imperiale, improntato su quello delle basilisse bizantine, prevedeva la raffigurazione di orecchini ricchi, talora con pendenti molto articolati. Nei secoli centrali del Medioevo, sempre a Roma, sebbene l’iconografia della Madonna Regina non fosse più predominante, la Vergine indossa spesso degli orecchini, come dimostra l’immagine dell’icona di Sant’Angelo in Pescheria28, un’immagine mariana frontale del XII secolo ornata di splendidi pendenti (fig. 13). Ambrogio Lorenzetti non si ispira a fonti tanto lontane, in quanto sul territorio fiorentino avrebbe avuto l’occasione di osservare la Madonna dell’Impruneta, una preziosa testimonianza della pittura romana attribuita da Miklós Boskovits all’XI secolo, sebbene ridipinta parzialmente già nel XIII secolo29 (fig. 14): ancora oggi è possibile notare che uno degli orecchi della Vergine imprunetina era ornato da un vistoso seppur frammentario orecchino. Nel XIII e nel XIV secolo peraltro la similitudine tra la Sposa del Cantico dei Cantici e Maria era diffusa grazie ad una riflessione teologica e ad una tradizione rappresentativa secolare30: Ambrogio avrebbe citato gli orecchini della seducente sposa del Cantico dei Cantici per esaltare il carattere sponsale della figura della Madonna, come confermerebbe indirettamente la scelta di rappresentare gli orecchini anche nelle Vergini dell’Annunciazione della Pinacoteca senese e della Presentazione al Tempio, episodi in cui il ruolo di sposa di Dio di Maria è centrale, specie nella prima. La cornice della tavola nella sua forma rettangolare culminante in una cuspide triangolare ripropone un tipo in uso nel Duecento, da Meliore a Duccio di Boninsegna, ma Ambrogio ne sfrutta in maniera del tutto originale la sagoma: il contorno della cornice ricalca, ingrandendolo di pochi centimetri, quello del trono e riduce drasticamente lo spazio attorno alla Vergine. Ne risulta un effetto di compressione volumetrica che si riflette soprattutto sulla figura della Madonna, incrementata peraltro dall’annullamento delle potenzialità prospettiche di tutti quegli elementi che avrebbero dovuto suggerire lo spazio come il trono cosmatesco, in cui la convergenza delle linee dei braccioli crea un’illusione di profondità immediata-


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mente smentita dal disegno delle tessere marmoree. Il trono cosmatesco in questo tipo di immagine è stato introdotto, com’è noto, da Giotto, come dimostra la Madonna di San Giorgio alla Costa. Nell’opera giottesca però i tasselli marmorei colorati formano sottili cornici decorative che, simulando una convergenza verso il centro del quadro, suggeriscono la profondità (fig. 15). Ogni singolo tassello è un poligono regolare, di solito un quadrato o un triangolo, di piccole dimensioni, la cui linearità contribuisce a confermare il senso di profondità suggerito dalle linee del trono. Ambrogio rielabora i tasselli cosmateschi giotteschi in modo tale da annullarne quasi totalmente la funzione spaziale (fig. 16): le loro dimensioni maggiori rispetto a quelli giotteschi consentono loro di svolgere solo un ruolo prevalentemente ornamentale. Quelli della fascia più esterna del dossale della Vergine, inoltre, hanno la forma di parallelogrammi dello stesso colore uniti ai vertici dei lati corti che alternativamente formano delle punte e degli angoli concavi. La sottigliezza dei tasselli ma soprattutto le punte e le concavità creano un’illusione di fascia dinamica ruotante attorno alla Vergine che annulla la profondità: tale effetto di appiattimento è rafforzato dalle tessere dipinte alle spalle della Vergine. Ambrogio pertanto riprende un elemento usato da Giotto in termini prospettici per annullare la profondità e ottenere una bidimensionalità che alla fine esalta potentemente l’imponente volumetria della Vergine. Questa rara capacità di sintetizzare in un linguaggio così alto ed efficace le novità pittoriche con la tradizione è frutto del talento di Ambrogio: come lucidamente avevano intuito Cesare Brandi e Enzo Carli, “alla base della visione di Ambrogio non è l’interesse per la plasticità dell’oggetto, bensì per il suo volume in quanto può essere espresso da un contorno e da un colore”. Si tratta quindi, conclude Carli, di una visione da cui scaturisce non solo il caratteristico linearismo del senese, ma la purezza dei colori31. La presenza di un’opera di tale qualità a Vico l’Abate mette in risalto l’importanza territoriale del luogo all’inizio del Trecento e induce a domande a cui al momento non è possibile rispondere: prima fra tutte, come mai i figli di Burnaccio sono riusciti ad ottenere un’opera tanto prestigiosa? Probabilmente perché il giovane e ambizioso Ambrogio Lorenzetti, allora a Firenze, cercava di mettersi in luce con ogni mezzo. In ogni caso, è chiaro che Vico l’Abate sorgeva su un territorio ricco, popolato da persone molto abbienti se potevano permettersi un dipinto di tale portata ed inserirsi così nel gioco dei rapporti, non ancora chiarito, tra la presenza dei pittori senese la pittura fiorentina contemporanea. Elisa Tagliaferri


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NOTE 1 G. DE NICOLA, Il soggiorno fiorentino di Ambrogio Lorenzetti, in “Bollettino d’Arte”,

XVI, 1922-1923, pp. 48-58: 50. 2 G. ROWLEY, Ambrogio Lorenzetti, Princeton 1958, p. 132; G. CHELAZZI DINI, Ambrogio Lorenzetti, in G. CHELAZZI DINI, A. ANGELINI, B. SANI, Pittura senese, Milano 2002, p. 145; G. RAGIONIERI, Pietro e Ambrogio Lorenzetti, (Art & Dossier, 257), Firenze 2009, p. 31. 3 L. GHIBERTI, I commentarii (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333), a cura di L. Bartoli, Firenze 1998, p. 89. 4 GHIBERTI, I commentarii cit., pp. 89, 108-109. 5 RAGIONIERI, Pietro e Ambrogio Lorenzetti cit., p. 38. 6 L. NEAGLE TAMPIERI, Osservazioni sulla Madonna di Vico L’Abate, in Studi in onore di Matteo Marangoni, (Studi di storia dell’arte dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna dell’Università di Pisa, 8), Firenze 1957, pp. 146-151: 147. 7 R.C. PROTO PISANI, Il Museo di arte sacra a San Casciano in Val di Pesa, Firenze 1992, pp. 8-9. 8 Firenze, Archivio di Stato, Notarile Antecosimiano, Buonaventura di Cenni Notaio, 3687, c.5r: “In dei nomine amen. Anno domini 1313 indictione duodeci(m)a die vig(esim)o nono m(en)sis septe(m)b(ris), actu(m) i(n) foro de Mon(n)teficalli (soprascriptis?) testibus Bindo Cennis et Poggio quondam Rinaldi et Salvino quondam Bartuccij. [..] Becchus olim Rinucci p(o)p(u)li Sancti Martini ad Valle(m) ob(li)g(avis)se (condictu?) fuit (conf)essus in (ci)vitate se habuisse et recepisse a Balduccio (quon)dam Burnacij de Tolano p(o)puli S(a)ncti Angeli de Vicchia Abbatis (con)solvente p(ro) se et suis fratribus filiis oli(m) dicti Burnacij duas florenos aur(um) […]”. A lato del documento, sul margine sinistro: “Finibus fili(orum) olim Burnacij”. 9 Del resto già Elio Conti aveva individuato questo toponimo tra le località dipendenti da Vico l’Abate: E. CONTI, La formazione della struttura agraria moderna nel contado fiorentino, Roma 1965, pp. 17-30. Si vedano inoltre in questo volume gli interventi di Guido Tigler e Teresa Ulivelli. 10 Archivio Arcivescovile Fiorentino (AAF), Inventario redatto da Alessandro Casini economo, 13 settembre 1681, c. 415v. 11 AAF, Inventario redatto alla morte di Angiolo Mancini, 12, 18, 19 aprile 1763, n. 86. Le citazioni della tavola nell’archivio della chiesa mi sono state cortesemente segnalate dalla dott.ssa Emma Matteuzzi, che per prima le ha individuate nell’ambito della propria ricerca sulla tavola di Coppo di Marcovaldo; si rinvia ai suoi interventi in questo volume per ulteriori notizie documentarie. 12 G. CAROCCI, Il Comune di San Casciano in Val di Pesa, Firenze 1892, pp. 133-134. 13 DE NICOLA, Il soggiorno fiorentino di Ambrogio cit., p. 49. 14 Mostra del Tesoro di Firenze Sacra, catalogo della mostra (Firenze 1933), Firenze 1933, p. 127. 15 M. SPAMPINATO, Analisi stratigrafiche al microscopio ottico polarizzatore, su campione prelevati da dipinto su tavola raffigurante Madonna con Bambino di Ambrogio Lorenzetti-Museo di San Casciano in Val di Pesa, Lucca 2009, relazione inedita. Ringrazio il dottor Marcello Spampinato per il suo aiuto nella comprensione dei dati. 16 Osservazione già formulata dalla Tampieri (NEAGLE TAMPIERI, Osservazioni sulla Madonna di Vico L’Abate cit., p. 150). 17 E. CARLI, Ambrogio Lorenzetti. Dipinti su tavola, Milano 1962, p. 7.


105 18 E. ZAPPASODI, Ambrogio Lorenzetti “huomo di grande ingegno”: un polittico fuori canone e due tavole dimenticate, in “Nuovi studi”, XVIII, 2013, pp. 5-22. 19 CARLI, La pittura senese, Milano 1955, p. 116. 20 RAGIONIERI, Pietro e Ambrogio Lorenzetti cit., p. 28. 21 CARLI, ibidem. 22 L. BELLOSI, L’esordio duccesco dei grandi pittori della prima metà del Trecento, in Duccio. Alle origini della pittura senese, catalogo della mostra (Siena 2003), a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, L. Bellosi, M. Laclotte, pp. 389-393: 391-393. 23 P.P. CLAUSSEN, Occhi e sguardi: l’animazione delle statue di Arnolfo, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze-Colle di Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), a cura di V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 127-132: 132. Traduzione E. Ferroni. 24 E. NERI LUSANNA, in Arnolfo. Alle origini del Rinascimento fiorentino, catalogo della mostra (Firenze 2005), a cura di E. Neri Lusanna, Firenze 2005, pp. 242-244, cat. 2.9. 25 Ibidem. 26 Traduzione tratta dalla versione dell’Antico Testamento della CEI. 27 T. VERDON, Il fiore di Maria: teologia e iconografia in Santa Maria del Fiore, in Arnolfo. Alle origini cit, pp. 99-107. 28 L’icona è stata rubata nel 1988 e la sua collocazione pertanto al momento è ignota. 29 M. BOSKOVITS, A critical and historical corpus of Florentine painting. The Origins of Florentine Painting, 1100-1270, sez. I, vol. I, Florence 1994, pp. 198-205. 30 VERDON, ibidem. 31 CARLI, La pittura senese cit., p. 116.


Fig. 1. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, 1319, tempera su tavola. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli (Foto Luca Lupi)

Fig. 2. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, dettaglio. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli (Foto Luca Lupi)


Fig. 3. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, retro superiore della tavola. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 4. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, retro della tavola. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli


Fig. 5. Maestro di Badia a Isola, Madonna con il Bambino e due angeli, 1290 c., tempera su tavola, Colle Val d'Elsa, Museo Civico e di Arte Sacra

Fig. 7. Giotto, Madonna di San Giorgio alla Costa, 1290 c., tempera su tavola. Firenze, Museo Diocesano

Fig. 6. Nicola Pisano, Presentazione di GesĂš al Tempio, 1266-1268. Siena, pulpito del Duomo

Fig. 8. Arnolfo di Cambio, Madonna con il Bambino, 1300 c., gruppo scultoreo. Firenze, Museo dell'Opera del Duomo


Fig. 9. Lippo Memmi, MaestĂ , 1317, affresco, dettaglio. San Gimignano, Palazzo Comunale

Fig. 11. Ambrogio Lorenzetti, Presentazione al Tempio, 1342, tempera su tavola, dettaglio. Firenze, Galleria degli Uffizi

Fig. 10. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, dettaglio. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli

Fig. 12. Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione, 1344, tempera su tavola, dettaglio. Siena, Pinacoteca Nazionale


Fig. 13. Petrus de Belizo, Bellushomo, Fig. 14. Madonna dell'Impruneta, XI, XIII e Madonna Odighitria, primo quarto del XII sec., XVIII sec., tempera su tavola, dettaglio. tempera su tavola, dettaglio. GiĂ Roma, Impruneta, Basilica di Santa Maria Sant'Angelo in Pescheria

Fig. 15. Giotto, Madonna di San Giorgio alla Costa, dettaglio. Firenze, Museo Diocesano

Fig. 16. Ambrogio Lorenzetti, Madonna con il Bambino, dettaglio. San Casciano Val di Pesa, Museo Giuliano Ghelli (Foto Luca Lupi)


LE ORIGINI DELLA BADIA FIORENTINA E IL SEPOLCRO DEL MARCHESE UGO

I documenti dell’archivio dell’abbazia di Santa Maria a Firenze, detta Badia Fiorentina, confluiti con le soppressioni all’Archivio di Stato di Firenze, già ben noti agli eruditi sei-settecenteschi Don Placido Puccinelli e Pier Luigi Galletti1, e pubblicati poi nel 1913 per quanto riguarda i secoli X-XI e nel 1990 per il secolo XII2, informano che il monastero benedettino fu fondato intorno al 970 dalla contessa Willa3 e non, come vorrebbe la tradizione, da suo figlio, il marchese Ugo di Toscana4. Infatti il terreno con case su cui doveva sorgere l’abbazia, situato entro le mura orientali della cinta romana non lontano dalla Porta di San Pietro (figg. 12), fu in parte acquistato da Willa nel 9675 e in parte nel 969, quando vi si aggiunse inoltre la preesistente chiesetta di Santo Stefano, fino ad allora Eigenkirche di un tale Zenobio della fu Inghelrade6, destinata comunque a rimanere in piedi come edificio a sé stante per secoli, durante i quali potrebbe essere stata rimaneggiata o ricostruita7. Con atto del 978 Willa donò al monastero di Santa Maria a Firenze, da lei allora ufficialmente fondato e dotato, ventuno fra case e cascine nel contado fiorentino-fiesolano e i castelli di Signa, Greve (Scandicci) e Bibbiano presso Pelago, e quello non identificato finora di Gariperga, stabilendo che nel cenobio si seguisse la regola benedettina ed investendo l’abate del pieno possesso di quei beni a partire dal suolo stesso su cui era stata edificata la chiesa (“in


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primis fundamentum illum in qua ipsa Domini ecclesia sita esse videtur”) ma vietandogli di vendere o alienare alcuno di quei beni8. Nel 1896 Robert Davidsohn aveva sostenuto che “già vivente ancora il marito, Willa doveva aver divisato quella costruzione, perché risalgono agli anni 967 e 969 i suoi primi acquisti di case a Firenze, sul posto dove poi sorse il monastero; ma soltanto nel 978 fu messo mano all’opera”9. Invece, come chiarito nel 1903 da Arnaldo Cocchi e precisato nel 1932 da Ulrich Middeldorf e Walter Paatz10, un passo – peraltro grammaticalmente e sintatticamente assai scorretto – dell’atto di fondazione del 978 afferma inequivocabilmente che allora la chiesa era stata già edificata, per cui si possono assegnare all’edificio ‘ottoniano’ le date 969-978: “Ego in Dei nomine Vuilla comitissa, lege vivente Saliga, filia bone memorie Bonefatii, qui fuit marchio, obtimum duxit, pro anime mee remedium edificavit ecclesia monasterium ad fundamentis in proprio territorio meo in onorem beate sancte Marie semper Virginis sita infra civitate Florentia iusta muro ipsius civitatis…”11. Come chiarito da Ernesto Sestan e ribadito da Andrea Calamai, il fatto che nell’atto di fondazione Willa non si sia riservata il diritto di nomina degli abati, limitandosi invece a chiedere che nella Badia si pregasse in perpetuo per la salvezza della sua anima, dimostra che non si trattava di un monastero privato (Eigenkloster) bensì di uno destinato a restare fin dall’inizio libero12. La chiesa originaria (fig. 3) aveva un canonico orientamento con facciata a Ovest, verso il centro cittadino, e absidi a Est, dietro le mura, che mantenne nella ricostruzione iniziata nel 1285 (1284 stile fiorentino), incoraggiata da una bolla pro fabrica del 1286 di Onorio IV, il cui altar maggiore fu consacrato nel 1310, edificio di cui restano l’elegante prospetto tergale gotico delle tre cappelle a terminazione rettilinea che si affacciavano sul transetto, due ambienti residuali delle cappelle laterali con decorazioni scultoree e pittoriche, tagliati fuori dalle cappelle odierne, parte del tetto a capriate e il portale fiancheggiato da avelli verso il cortile a Nord (fig. 4). Questa fabbrica, che il Vasari attribuiva infondatamente, e secondo me a torto, al suo Arnolfo “di Lapo”, più tardi identificato con lo storico Arnolfo di Cambio, ma che in realtà dimostra l’adozione del lessico dell’architettura mendicante in una chiesa monastica, come avveniva nella distrutta San Pier Maggiore e come si vede tuttora anche in Santa Trinita, ha poi subito una radicale ricostruzione, questa volta in forme barocche, fra 1627 e 1631 ad opera di Matteo Segaloni, che le ha conferito una pianta a croce greca, ma con cambio di orientamento deviato di 90 gradi: alla chiesa si accede oggi da Nord, da un portale che si apre accanto a quello laterale gotico tamponato, e il braccio Sud del transetto


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gotico dà ora accesso al lungo coro absidato che lambisce Piazza San Firenze (fig. 5)13. L’interno della chiesa conserva qualche opera della fase gotica e del Rinascimento, fra cui affreschi staccati di Nardo di Cione e il monumento sepolcrale di Ugo di Toscana, scolpito nel 1481 da Mino da Fiesole (fig. 9), che si trova tuttora nella sua posizione originaria in fondo alla cappella presbiteriale centrale della chiesa gotica, divenuta braccio sinistro della croce greca14. Non si vede più alcuna traccia della chiesa ‘ottoniana’, perciò giustamente definita ‘invisibile’ da Karin Uetz in un articolo del 2004 tratto dalla sua Dissertation in Bauforschung, cioè archeologia del costruito, discussa nel 1999-2000, relatore Manfred Schuller dell’Università di Bamberga15. La studiosa riesamina la confusa descrizione dei ritrovamenti operati nel 1663 in occasione della costruzione dei gradini che salgono al presbiterio barocco e della distruzione delle scale che salivano alle cappelle presbiteriali gotiche, offerta da Puccinelli nel 166416, e le osservazioni di Antonino Di Gaetano sotto all’odierno pavimento e nel vano sopra alla Cappella di San Mauro, adiacente al braccio destro della croce greca, fatte nel 1947 in occasione di un restauro e pubblicate nel 195117. Di questi ultimi dati, che dimostrano fra l’altro che la parete meridionale di tale vano faceva parte del perimetro della prima chiesa, non aveva potuto tener conto nel 1932 e 1940 Paatz, che ricostruiva ipoteticamente una basilica a tre navate, che si sarebbe estesa nella navata laterale destra oltre l’attuale edificio e a quello gotico, occupando parte del Chiostro degli Aranci (fig. 6)18, ricostruzione già resa poco plausibile dall’elementare considerazione che se la chiesa ‘ottoniana’ fosse stata così grande non avrebbe avuto senso sostituirla poi con un edificio di pari estensione ma più stretto e lungo nel Duecento. Le due absidi, quella centrale più ampia e quella sinistra, viste da Puccinelli sotto al pavimento e alle scale, assieme ad un muro trasversale Nord-Sud, visto più verso Ovest sotto al pavimento da Di Gaetano, permettono alla Uetz di ricostruire plausibilmente una struttura triabsidata a croce commissa, in cui dalla navata unica si saliva al transetto sopraelevato, sotto al quale poteva trovarsi una cripta, ipotesi resa ancor più plausibile dall’esistenza di un dislivello orografico fra il piano attuale della Badia e dell’adiacente cortile e quello di Via del Proconsolo, corrispondente grosso modo al tracciato delle mura romane (di cui nell’odierno manto stradale è stata indicata la sagoma di una delle torri), come – malgrado l’innalzamento dei livelli – è ancora percepibile salendo gli scalini dal portale di Benedetto da Rovezzano del 1494. La chiesa così ricostruita (fig. 7) era separata dal campanile, la cui parte inferiore cilindrica, datata anch’essa fra 969 e 978 da Paatz, è giustamente posticipata all’XI secolo dalla Uetz, in base ad un


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confronto tipologico con il campanile di Badia a Settimo19. Solo in un ulteriore intervento pienamente romanico, che la Uetz data congetturalmente agli anni Settanta del XII secolo, quando la città stava crescendo con la costruzione delle nuove mura, la chiesa è stata ampliata verso Nord e sopraelevata, con nuove più grandi monofore poste sopra a quelle del X secolo allora tamponate, giungendo ad essere in tal modo adiacente al campanile (fig. 8). Grazie alla condivisibile ricostruzione qui riassunta della chiesa ‘ottoniana’, la Badia Fiorentina si inserisce pienamente nella norma, visto che nel Romanico toscano le pievi, dovendo ospitare i laici, sono in genere chiese basilicali a tre navate, le suffraganee in genere piccole chiese ad aula unica absidata e le badie, dovendo avere un ampio presbiterio per il coro dei monaci ma non svolgendo attività di apostolato, sono normalmente grandi chiese a navata unica con transetto sul quale aggettano tre absidi o anche una sola, soluzione quest’ultima particolarmente frequente nelle più austere chiese degli ordini riformati, i Camaldolesi ed i Vallombrosani20. Considerato che la fondazione della Badia Fiorentina interrompe un lungo periodo di quasi un secolo in cui, in corrispondenza della crisi successiva alla fine dell’Impero carolingio e precedente alla Restauratio di Ottone I, incoronato imperatore nel 961, nel marchesato di Tuscia21 non si erano più istituite abbazie e in cui quelle esistenti erano in gran parte decadute, vorrei qui proporre l’ipotesi che proprio questa chiesa (fig. 3) sia stata il prototipo tipologico di tutte le successive abbazie toscane a croce commissa con una o tre absidi, a partire alla fine del X secolo dalla fondazione sorella di Capolona, dove nel 1915 Mario Salmi segnalava i resti di un transetto originariamente triabsidato, coll’abside centrale però ai suoi tempi già perduta, e dove sembrano ancora in piedi consistenti testimonianze architettoniche medievali che mi auguro di poter esaminare al più presto22 (ma anche le abbazie regie ed imperiali di Sesto sul Lago di Bientina e Marturi presso Poggibonsi, beneficiate rispettivamente da Willa e Ugo, che di fatto sembrano averle rifondate, possono aver avuto una pianta a croce commissa, come in assenza di ritrovamenti archeologici è lecito solo immaginare). Quanto alla combinazione con la cripta si possono ricordare, per la prima metà dell’XI secolo, le abbaziali a croce commissa di Prataglia, consacrata nel 1008 (ma con cripta ricostruita nel XII secolo), San Baronto, consacrata nel 1019 (ma con alzato ricostruito nel XII secolo)23 e San Salvatore in Agna (con cripta parzialmente rifatta nel XII secolo), ricostruita probabilmente per volere del vescovo di Fiesole Jacopo il Bavaro, che nel 1028 ha fondato al posto della vecchia cattedrale la Badia Fiesolana, che pure doveva avere questa


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struttura24. Nelle abbaziali di Farneta, San Giusto a Tuscania, Colle San Paolo presso Perugia (di cui resta solo la cripta) ed Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata, consacrata nel 1036, la croce commissa si complica con tre absidi trilobate tanto in cripta quanto nel transetto continuo soprastante, tipologia imparentata con quella più semplice ricostruibile per Santa Trinita a Firenze nella fase della prima metà dell’XI secolo, dove sembra esservi stata una chiesa ad aula unica priva di transetto ma terminante in un solo triconco (come a Castelseprio e a Sankt Maria im Kapitol a Colonia), di cui resta la cripta trilobata25. La tipologia inaugurata dalla Badia Fiorentina non restò quindi la sola in auge nell’architettura primoromanica toscana per le chiese abbaziali: già nel secondo quarto dell’XI secolo a Badia a Settimo, fondata dai conti Cadolingi, si adottò la tipologia basilicale triabsidata, con cripta estesa sotto e davanti alle tre absidi26, come poi avvenne nella seconda metà del secolo a San Miniato al Monte27, e ai primi del XII secolo a San Godenzo (che conserva però la cripta ad oratorio della precedente chiesa del 1025 circa, fondata da Jacopo il Bavaro, che doveva essere una croce commissa monoabsidata), dotata di una sola abside, così come l’abbaziale femminile di Rosano, consacrata nel 1129. Contemporaneamente la tipologia basilicale veniva sempre più adottata nelle ricostruzioni delle chiese plebane, dove essa prevale dalla metà dell’XI secolo rispetto a quella ad aula unica, che pare essere stata prevalente in età altomedievale, in significativo parallelo con la contemporanea crescita demografica, come è ben documentato dagli scavi sotto alla pieve di Gropina28. Tornando alle vicende storiche della Badia Fiorentina, che qui ci interessano in quanto intimamente legate a quelle di Vico l’Abate, le carte superstiti dell’archivio monastico informano che Ugo incrementò notevolmente il patrimonio fondiario della neonata istituzione con donazioni terriere nel 995 (casa e corte di Luco presso Reggello, con un castello e chiesa di San Clemente29) e nel 997 (corte di Bibbiano, secondo me presso Capolona, con un castello e chiesa di San Martino30). Come ricostruito da Schiaparelli, la charta offersionis relativa a Luco, che reca correzioni in cui il nome di tale località ed i dati relativi sono sostituiti a quelli di “Vicclo”, con suo castello e chiesa di San Michele, sarebbe stata malamente esemplata su di un analogo perduto documento, probabilmente coevo o di poco anteriore, riguardante appunto “Vicclo”31. Quest’ultima località, come viene più ampiamente spiegato in altre parti della presente pubblicazione, dopo essere stata erroneamente identificata ora con Vico in Valdelsa ora con Vicchio nel Mugello32, è stata poi giustamente ricondotta a Vico l’Abate in Chianti, con la vicina chiesa di San Michele33.


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Decisiva per tale identificazione è la notizia, ricavabile da documenti della Badia Fiorentina del 1074 e del 1149, che “Vicclo” faceva parte del piviere di Santo Stefano a Campòli, nell’odierno territorio comunale di San Casciano Val di Pesa34. Ugo morì nel 1001, secondo la tradizione il 21 dicembre giorno di san Tommaso, quando si celebra annualmente una messa in suffragio della sua anima in Badia, dove fu sepolto onorificamente. Nel 1002 Ottone III emanava un privilegio per il monastero di Santa Maria a Firenze, in cui gli garantiva l’immunità rispetto a qualsiasi vassallo o vescovo, conferendogli lo status di abbazia regia ed imperiale (Reichsabtei), come è evidenziato dalla frase: “Ipsa vero abbatia regalis vel imperialis libera aeternaliter permaneat”35 (immunità poi solennemente ribadita su richiesta degli abati da vari imperatori e poi pontefici36). Nel documento della cancelleria imperiale Ottone dichiara di aver agito anche per la salvezza dell’anima di Ugo, la cui madre Willa aveva costruito il monastero: “quod nos, propter Dei omnipotentis amorem et ob remedium anime marchionis Hugonis, monasterio Sanctae Mariae quod mater sua Vuilla construxit…”37. Le carte della Badia Fiorentina contribuiscono a gettare nuova luce sulla rifondazione della badia di San Michele a Marturi presso Poggibonsi, in diocesi di Volterra, e sulla fondazione di quella di San Genuario a Capolona, in diocesi di Arezzo, entrambe considerate tradizionalmente fondate da Ugo di Toscana e ai suoi tempi promosse ad abbazie regie ed imperiali, nonché indirettamente sulla successiva fondazione dell’abbazia regia ed imperiale di Farneta, sempre in diocesi di Arezzo38. Come chiarito nel 1969 da Wilhelm Kurze, che smascherò la falsità della donazione all’abbazia di Marturi della corte di Antoniano e di altri beni in diocesi di Modena da parte di Ugo di Toscana del 12.07.97039, dell’atto di fondazione di quel monastero da parte dello stesso Ugo del 25.07.99840 e della Vita del suo ‘primo’ abate, san Bononio, apparentemente scritta poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1026, dal monaco di Lucedio, in diocesi di Vercelli, Rotberto (o Ratberto)41, il primo documento genuino che ci informa sulla storia di quel cenobio è la charta offersionis del 10.08.998, rogata a Marturi, con la quale Ugo donava all’abbazia già esistente (“qui est fundata infra monte et poio, que dicitur castello de Marturi”) diversi beni situati tanto nelle vicinanze quanto ad Antoniano nel Modenese, riservandosene però l’usufrutto fino a quando sarebbe stato in vita e dichiarando la donazione nulla qualora avesse avuto eredi dalla moglie (che da altri documenti sappiamo essersi chiamata Giuditta e che in realtà non sembra avergli dato figli maschi, gli unici abilitati dalla Lex salica alla successione ereditaria)42. Kurze dà credito invece alla cosiddetta


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“Narrazione di Marturi”, allegata agli atti di un processo del 1076 relativo alla proprietà delle terre di Papaiano in Valdelsa, secondo la quale Ugo avrebbe fondato la Badia di Marturi dopo aver acquistato le terre di Papaiano da un tale Guinizo, cosa avvenuta documentatamente nel 97143. Come plausibilmente ricostruito da Kurze, il monastero di Marturi era stato fondato nel 762 dai fratelli longobardi Erfo, Anto e Marco, fondatori anche di Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata, ma sarebbe poi decaduto, per venire poi rifondato nella seconda metà del X secolo da Ugo, opinione questa che ha trovato una sorta di conferma dagli scavi archeologici condotti nella vicina fortezza di Poggio Imperiale da Marco Valenti, che vi ha individuato tracce di capanne altomedievali, riferibili forse ad una arimannia longobarda, poi abbandonate44. La chiesa abbaziale, ricostruita nel 998, doveva invece trovarsi al posto della villa ottocentesca che oggi occupa il sito del castello marchionale di Marturi, non lontano dal quale i conti Guidi nel 1155 avrebbero fondato la ‘terra murata’ di Podium Bonizi, poi conquistata dal Comune di Firenze. Non è però stato fatto il collegamento con un atto di vendita, rogato l’11.06.972 a Marturi, col quale Willa acquisiva da tale Tebaldo, detto Teuzo, del fu Gualtieri sette tra case e sorti a Collina (identificabile con una località nei pressi di Bargino nel territorio comunale di San Casciano Val di Pesa45), Tavernelle Val di Pesa e Bibbiano (cioè Bibbiano in Valdelsa vicino a Poggibonsi, da non confondere con le omonime località vicino Pelago e a Capolona)46. La circostanza che questa pergamena si conservi fra quelle dell’archivio della Badia Fiorentina fa pensare che ad un certo punto tali beni passarono del tutto o in parte a quel monastero, come del resto sembra confermato da documenti del 1055 e del 1061, che attestano rispettivamente che la Badia acquistava terreni a Collina e ne possedeva a Bibbiano in Valdelsa47; ma anche Marturi nella seconda metà dell’XI secolo risulta aver avuto possedimenti nelle stesse zone (vedi nota 30). Con Marturi mi sembra aver relazione anche la carta di offersione alla Badia Fiorentina dell’ottobre 996, rogata a Foci o Fosci in Valdelsa vicino a Marturi, con la quale Ermingarda del fu Odalgario, detta Imma, donava in suffragio della propria anima e di quella di Adaleta, la sua signora, sepolta nella Badia, diversi beni che aveva acquistato da Ugo di Toscana nel piviere di San Gimignano: “Unde et ego in Deo omnipotentis nomine Ermingarda, que Imma vocata, filia bone memorie Odalgarii, optimum dixit (sic), quia pro anime mee remedio et Adalete, qui fuit domna mea, offero Deo et in ecclesia et monastero Beatissime Sancte Marie, que est posita intra hanc Florentina civitate, ubi modo ipsa domna mea requiescit…”48. Secondo Calamai questa curiosa transazione fa pensare ad una pseudo-vendita49.


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Nel 1036 la stessa Ermingarda del fu Odalgario, detta Imma, ed il figlio Milo del fu Milo, con due atti rogati il 18 dicembre a Vallerano presso Murlo nel Senese, donavano i loro possedimenti nel piviere di San Gimignano alla Badia Fiorentina per poi riceverli subito a livello50. Tanto il documento del 996 quanto quelli del 1036 riguardano terre situate a Foci, nel castello di Colle di Monte e a Casaglia, nelle immediate vicinanze di Marturi. Il tutto si chiarisce in base ad una clausola contenuta nella donazione di Ugo del 10.08.998 all’abbazia di Marturi, in cui egli escludeva dai beni destinati a quel monastero quelli che aveva venduto in precedenza a varie persone, fra cui Imma ed i conti Guidi, e quelli che aveva donato alla Badia Fiorentina: “Transacto nomine tibi Deo et ipsius ecclesie monasterio beati sancti Michaelis archangeli offerre prevideor exscepto et antepono exinde omnibus casis et curtis seo casalinis atque sortis sive rebus domnicatis et massariciis, quantas ego, qui supra Ugo marchio, per venditionis cartula dedero Teuzo filio Liufredi et Ymme et […] Gisle et Ubaldi et Uuidi fili Ghisle et filia Uuidoni comes, et quantas ego, qui supra Hugo marchio, per offersionis paginam dedi ad ecclesia monasterio bete sancte Marie scito infra civitatem Florentia, quas eidem predicto monasterio sancti Michaelis archangeli per hanc offersionis paginam minime offerre prevideor”51. Ma perché Ugo avrebbe dovuto inserire questa ambigua clausola, se quei beni non fossero stati in precedenza attribuiti proprio a Marturi? Ricostruisco pertanto lo scenario seguente: nel 971 (acquisto di Papaiano) e nel 972 (acquisto di Collina, Tavernelle e Bibbiano in Val di Pesa e Valdelsa) Willa – non Ugo – aveva deciso di dotare la decaduta badia di Marturi, iniziativa poi non decollata, per cui il figlio Ugo qualche anno più tardi vendette parte di quei beni a diverse persone fra cui Imma (che poi li cedette alla Badia Fiorentina in parte nel 996 e in parte nel 1036, con mutui accordi che ne prevedevano il mantenimento del possesso dietro corresponsione di un modesto canone d’affitto) e forse una Ghisla dei conti Guidi52, mentre ne donava un’altra parte alla stessa Badia Fiorentina, escludendo tutti quei beni da quelli che nel 998 destinava a Marturi, solo allora da lui rifondata coll’appoggio di Ottone III come abbazia regia ed imperiale. Non escluderei che anche Vico l’Abate, geograficamente non distante da altri possedimenti in origine destinati a Marturi, avesse fatto parte del patrimonio fondiario messo insieme da Willa per la dotazione di quel monastero nel 971-972 e che sia stata poi donata alla Badia Fiorentina da Ugo negli anni Novanta. Ciò spiegherebbe le correzioni da “Vicclo” in “Lucho” nella charta offersionis del 995, che Schiaparelli imputava poco plausibilmente a un ravvedimento del notaio (ma si potrebbe pensare anche a un monaco), che si sarebbe accor-


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to dell’errore dopo aver scritto il documento, compilato tenendo sott’occhio l’atto di donazione perduto relativo a Vico l’Abate (vedi nota 31). Se le cose sono andate come qui ricostruito, è più probabile che ci sia stato qualche ripensamento da parte di Ugo stesso, il quale inizialmente avrà disposto di redigere la donazione di Vico l’Abate alla Badia Fiorentina, ripensandoci poi e facendo usare lo stesso atto per la donazione di Luco, poiché forse intendeva donare Vico l’Abate a Marturi, per poi cambiare idea ancora una volta e tornare al proposito iniziale, visto che nel privilegio imperiale del 1002 la località chiantigiana appare già definitivamente assegnata alla Badia Fiorentina. Una carta di vendita rogata nel luglio 972 nel castello marchionale di Capolona sull’Arno a Nord di Arezzo (“Atu intus castello Capoleoni feliciter”) attesta l’acquisto di una località di “Agilone” da Alfridi del fu Alfridi da parte di Willa53. Il fatto che questa carta si trovi nell’archivio della Badia Fiorentina fa pensare che tale misteriosa località sia entrata a far parte dei beni di quel monastero, anche se poi non la troviamo più menzionata nei suoi documenti successivi. Il toponimo Agilone fa pensare ad un luogo acquitrinoso54, quale era il Lago della Chiana, e l’indicazione della posizione a confine fra la “terra sancti Donati” (cioè la diocesi di Arezzo) e la “terra sanctae Mustiolae” (cioè la diocesi di Chiusi) quadra con il sito in cui poi – prima del 1014 – sarebbe sorta l’abbazia di Santa Maria a Farneta, che si trova in Val di Chiana entro i confini della diocesi aretina con quella di Chiusi. Secondo Paul Friedolin Kehr (1908) la fondazione del monastero di Capolona è ancorabile proprio a questo documento55, mentre per altri risalirebbe al 977, anno in cui fu costruita la chiesa di San Saturnino nel castello di Capolona (localizzabile nel sito di Castelluccio)56 o anche entro il 988 (recte 995), quando Elemperto vescovo di Arezzo avrebbe affidato il cenobio ai monaci benedettini esiliati da Montecassino accolti in Toscana da Ugo57. Tuttavia nel privilegio rilasciato all’abbazia di Capolona da Ottone III il 13.12.997, che la elevava a Reichsabtei, si legge che essa era stata fondata da Ugo stesso: “monasterio quo ipse a fundamento construere fecit”58, ed è improbabile che allora non si sapesse come erano andate le cose. Proprio sopra a Capolona si trova Bibbiano, già sede di un castello con chiesa di Santa Maria, fuori dal quale, 700 metri più in alto, sono i resti della chiesa di San Martino, ricostruita nel XII secolo e modernamente trasformata in casa colonica, come reso noto da Alberto Fatucchi59. Questa Bibbiano presso Capolona aveva dunque una chiesa intitolata a San Martino – da non confondersi con la vicina San Martino sopr’Arno –, proprio come l’omonima località presso Pelago, cui Renzo Ninci (vedi nota 30) ha riferito tanto la donazione di


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Willa del 978 (nel cui atto è specificata l’appartenenza del luogo al territorio fiorentino-fiesolano) quanto quella di Ugo del 997 (dove non è indicato il comitato o la diocesi ma lo è il nome della chiesa) e le conferme imperiali del 1002, 1012 e 1030 (che non scendono in particolari). Mi sembra però strano che la stessa località sia stata donata due volte alla Badia Fiorentina, per cui propongo di identificare il castello di Bibbiano in territorio fiorentino-fiesolano di cui si parla nel 978 e probabilmente anche nei diplomi imperiali con la località presso Pelago, e quella oggetto di donazione nel 997 – con chiesa di San Martino – con la località presso Capolona. Di essa non si trova più traccia nei successivi documenti della Badia Fiorentina perché ceduta alla nuova abbazia di Capolona. Ricostruisco pertanto che nel 972 Willa abbia acquistato la palude di Farneta per la dotazione della Badia Fiorentina, ma che qui qualche tempo dopo sorse un’abbazia regia ed imperiale indipendente; analogamente nel gennaio 997, mentre era a Foci presso Marturi per avviare la rifondazione di quel monastero, Ugo prese la decisione di donare Bibbiano sopra Capolona alla Badia Fiorentina, per poi però ripensarci e fondare proprio in quel possedimento l’abbazia regia e imperiale di Capolona, cosa subito dopo approvata da Ottone III col suo privilegio del dicembre dello stesso anno. Quest’ultima abbazia pare dunque proprio essere stata ufficialmente istituita nel 997, come avevano già sostanzialmente chiarito quanto all’anno di fondazione Antonio Falce e Kurze, a torto contraddetti da Calamai60. Ed è verosimile che in occasione della fondazione, quindi probabilmente nel 997, Ugo abbia concesso all’abbazia di Capolona quei beni nell’Aretino e in Umbria che poi le sarebbero stati confermati col privilegio di Corrado II nel 102661. La contemporaneità ed il legame fra la rifondazione di Marturi e la fondazione di Capolona nel 997-998 sono evidenziati anche dal fatto che la badia di Capolona è intitolata a San Genuario (da non confondersi, come poi è stato fatto, con Gennaro, il più noto santo vescovo napoletano, o coll’omonimo santo di Benevento), santo le cui reliquie sono venerate a Lucedio nel Vercellese, intitolata ai Santi Michele e Genuario62, l’abbazia da dove in quegli anni è venuto a Marturi l’abate san Bononio, che ne avrà importato il culto in Toscana. La fondazione della Badia Fiorentina, avviata nel 967 a soli sei anni dall’incoronazione imperiale di Ottone I, ed il primo tentativo di rifondazione della badia di Marturi negli anni 971-972 acquistano un senso ben preciso se viste in rapporto ad altre due iniziative di Willa: la riqualificazione della badia di San Ponziano alle porte di Lucca e di quella di Sesto sul Lago di Bientina o di Sesto sempre in diocesi di Lucca (quest’ultima fondata alla fine del VII secolo dal re longobardo Cuniberto), cui ella ha


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fatto cospicue donazioni e alla quale poi nel 996 Ugo avrebbe ceduto la rocca sul Monte Verruca, nei Monti Pisani fra Pisa e Lucca63. Tali interventi su abbazie preesistenti (San Ponziano, Sesto e Marturi) e su una nuova (Firenze) sembrano infatti corrispondere ad un mirato disegno del marchesato di Toscana e dell’Impero di presidiare con abbazie, dove ospitare pellegrini e la stessa itinerante corte imperiale, le strade principali della Marca: la Francigena, lungo la quale si trovavano San Ponziano, Sesto e Marturi; quella fra Pisa e Firenze (in alternativa forse più comodamente percorribile per via fluviale), e quella, oggi nota come Strada dei Setteponti, fra Firenze ed Arezzo, da dove si proseguiva per Roma. Infatti le proprietà destinate nel 978 alla Badia Fiorentina, non a caso costruita presso la Porta di San Pietro (che recava tale nome per lo meno dal 969, quando è menzionata nell’atto di vendita a Willa di una parte del terreno su cui doveva sorgere la Badia64) dell’antica cerchia muraria di Firenze (fig. 1), erano collocate tanto a Ovest di Firenze, lungo l’Arno (Greve col castello di Scandicci Alto e le due Signe a guardia di un guado) quanto a Est, dove si trova Bibbiano presso Pelago. Il finora non identificato castello di “Garipergha”, pure donato da Willa alla Badia Fiorentina nel 978, ma che poi scompare dalla documentazione, potrebbe essere identico con quello di “Cedeca”, cioè Cetica in Casentino, confermatole da Ottone III nel 1002 (vedi nota 35), poiché Gariperga (varco nei monti o a guardia delle montagne) può essere il nome longobardo di Cetica, toponimo d’origine etrusca. Questa isolata località si trova significativamente a guardia di un valico del Pratomagno che doveva consentire il passaggio in Romagna, tramite una scorciatoia fra la Strada dei Setteponti e quella che dal Casentino conduce al Passo dei Mandrioli. Strategica dal punto di vista viario era anche la posizione di Capolona (sotto al colle di Bibbiano, inizialmente assegnato alla Badia Fiorentina), sita nei pressi di un guado sull’Arno, dove tuttora si trova il borgo medievale di Vado, a Nord di Arezzo, presso un bivio che venendo da Arezzo permetteva da una parte di raggiungere il Ponte a Buriano e riallacciarsi alla Strada dei Setteponti e dall’altra, percorrendo il Casentino, di valicare gli Appennini e raggiungere la Romagna. Il successo del potenziamento di uno di questi due percorsi – non è chiaro quale – è dimostrato dal fatto che qui passarono i preti tedeschi Pietro ed Eriprando, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, che trovandosi lungo la “via di San Pietro” decisero di ritirarsi in vetta al Pratomagno in un monastero, la Badia di Santa Trinita in Alpe, da loro fondato coll’appoggio dell’Impero fra 983 e 996, gli anni della reggenza di Teofano, vedova di Ottone II e madre di Ottone III ancora minorenne, monastero ubicato sopra a Bibbiano e vicino a Talla, la cui diruta chiesa


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mostra di essere stata ricostruita nel XII secolo65. Analogamente le abbazie di San Ponziano, Sesto e Marturi, che già in età longobarda e carolingia avevano assolto al ruolo di sentinelle lungo la Via Francigena (assieme a quelle di Sant’Eugenio, Sant’Antimo e San Salvatore sul Monte Amiata)66, godettero dei favori di Willa e poi di Ugo, al fine anche di riorganizzare quel percorso per Roma, poi descritto nella prima metà degli anni Novanta del X secolo dall’arcivescovo di Canterbury Sigeric. Non sfuggirà allora la strategia viaria implicita nelle assegnazioni territoriali qui ricostruite per la prima donazione di Marturi progettata da Willa. Oltre a terre situate nel piviere di San Gimignano nelle immediate vicinanze di Marturi lungo la strada per Volterra, fra cui la Bibbiano di Valdelsa, e ad altre come Papaiano sopra Poggibonsi in direzione di Firenze, si trattava infatti di castelli e corti situati lungo la strada per Firenze: Tavarnelle, Collina presso Bargino e forse Vico l’Abate. Fallito il tentativo di Willa di far rinascere Marturi, ed essendo quelle terre poi state aggiudicate alla Badia Fiorentina, alla metà degli anni Novanta Ugo ne rafforzava la presenza nel Valdarno Superiore con la donazione del castello di Luco lungo la Strada dei Setteponti presso il bivio per Cetica e del castello di Bibbiano sopra a Capolona, dove subito dopo erigeva una nuova abbazia regia ed imperiale, e promuovendo contemporaneamente la rifondazione di Marturi, che diventava anch’essa abbazia regia ed imperiale. In tal modo nessuna delle tre abbazie da lui beneficiate avrebbe avuto di che lagnarsi, come figlie cui un buon padre lascia una congrua dote: Marturi, sia pure depauperata dei propri beni nel contado fiorentino, veniva resuscitata; Firenze doveva rinunciare alle terre in diocesi di Arezzo assegnate alle abbazie di Capolona e poi di Farneta ma si arricchiva di altre terre nel contado fiorentino-fiesolano prima destinate a Marturi; Capolona nascente era destinata a signoreggiare sulle terre ai confini nord-orientali della Marca. La fondazione di Capolona nel 997 acquista anch’essa una motivazione viaria se posta in relazione col sostegno finanziario che qualche anno prima, forse nel 991-992, Ugo aveva dato a san Romualdo, consigliere spirituale di Ottone III, per la fondazione dell’abbazia di San Michele di Verghereto, situata ai confini del marchesato di Toscana fra Bagno di Romagna e Pieve Santo Stefano, vicino alle sorgenti del Tevere, là dove la Via Romea percorsa dai pellegrini provenienti dalla Germania (perciò detta anche Teutonica o d’Alemagna) e passanti per Ravenna si biforcava valicando l’Appennino o verso il Casentino e poi Arezzo oppure verso l’Alta Val Tiberina, con due percorsi alternativi che poi si ricongiungevano a Montefiascone67. Non a caso il valico del Passo dei Mandrioli sull’Alpe di Serra era stato da poco presidiato con la badia di Prataglia,


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fondata dal vescovo di Arezzo Elemperto (in carica dal 986 al 1010), alla quale nel 1002 Ottone III donava dei mansi che precedentemente le erano stati allivellati dal marchese Ugo, quindi sicuramente beni demaniali68; e qui vicino verso il 1025 san Romualdo fondò Camaldoli, la casa madre del suo ordine eremitico-cenobitico. Sulla stessa strada, più in giù nelle paludi della Val di Chiana al quadrivio per Siena e Perugia, dopo il 972 fu fondata l’abbazia di Farneta, menzionata dapprima nel 101469. Le modalità in cui si svolsero le politiche monastiche di Willa e Ugo si comprendono meglio se teniamo conto delle vicende biografiche dei due: stando alla testimonianza di san Pier Damiani, autore di una Vita del marchese, secondo la quale Ugo sarebbe morto non ancora cinquantenne70, egli dovrebbe essere nato nel 951 o poco dopo (oggi si propende per il 953), per cui fino al 970 o poco oltre era minorenne; il padre Uberto, essendosi messo contro prima Berengario II e poi Ottone I, sembra essere stato in esilio per gran parte degli anni Cinquanta e Sessanta del X secolo71, ragion per cui non stupisce che la politica monastica della famiglia venisse allora condotta in prima persona da Willa, malgrado le limitazioni imposte dalla Lex salica. Anche dopo il definitivo ritorno di Uberto e la sua riappacificazione con Ottone I, quando nel 967 (come è documentato dal primo atto di vendita relativo alla Badia Fiorentina) lo ritroviamo insignito del titolo di marchese di Toscana, doveva apparire più prudente per così dire intestare i beni alla moglie e farle firmare i documenti (vedi nota 5), visto che lei godeva della fiducia di Ottone I, anche per il suo altissimo lignaggio franco, mentre lui era ormai sostanzialmente screditato per la sua recente fellonia. L’impegno a favore di vecchie e nuove abbazie doveva rappresentare per Uberto e Willa e poi per Ugo quasi una captatio benevolentiae nei confronti degli imperatori sassoni, strumento che effettivamente sembra aver dato frutti, se è vero che Ugo è riuscito a riconquistare in pieno la fiducia della dinastia, che suo padre aveva perduto. Nella memoria successiva i meriti di Ugo hanno fatto obliare quelli della madre – e a maggior ragione quelli del padre che sembra aver agito dietro di lei –, della quale in realtà oggi sappiamo che aveva avviato quella politica monastica che poi il figlio ha ripreso negli anni di Ottone III con maggiore successo e più vaste risorse (dopo un’apparente interruzione negli anni di Ottone II, col quale non sembra aver avuto rapporti così buoni, come invece li aveva con le reggenti Adelaide e Teofano). La generosità di Ugo verso le abbazie ha fatto sì che già poco dopo la metà dell’XI secolo si creasse il mito che fosse stato lui a fondare la Badia Fiorentina, come – tratti in inganno dalla sontuosità del suo monumento sepolcrale e dalla ricorrenza della messa in suffragio – credevano gli stes-


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si monaci di quella comunità, che ne informarono san Pier Damiani72. Nel secolo seguente si cominciò a credere che egli avesse fondato pure il monastero di San Michele sulla Verruca sopra Pisa, in realtà preesistente e comunque subordinato a quello di Sesto, cui lui aveva donato la soprastante rocca73; ed in seguito si aggiunsero altre badie, che hanno ancor meno a che fare con Ugo, fino ad arrivare alla puerile idea che l’abbazia di Settimo a sette miglia da Firenze dovesse il suo nome al fatto di essere la settima fondata dal marchese (vedi nota 38). All’origine di questo equivoco stanno le autorevoli affermazioni di Leone d’Ostia e san Pier Damiani, che nella seconda metà dell’XI secolo avevano accreditato ad Ugo la fondazione l’uno di cinque e l’altro di sei abbazie, facendone un eroe della lotta per la riforma monastica, intesa anacronisticamente nei termini in cui la si interpretava ai loro tempi. Probabilmente gli episodi che dettero lo spunto a questa mistificazione sono comunque avvenuti davvero: il sostegno economico dato a san Romualdo nel 991-992 per la fondazione, voluta da Ugo, del monastero di Verghereto, di cui parla l’avellanita, dietro al cui racconto quasi agiografico si intravedono però contrasti tra gli intenti del marchese, cui interessava il controllo della viabilità appenninica, e quelli del santo, cui premeva la radicalità dell’osservanza della regola benedettina74; e l’accoglienza di alcuni monaci benedettini che avevano abbandonato Montecassino entro il 995 per protesta contro l’irregolare elezione dell’abate Mansone imposta dal principato longobardo di Benevento e dalla contea di Capua, di cui parla il marsicano (vedi note 38, 41). Mentre Falce credeva ancora in buona misura a questa idealizzata versione dei fatti, la storiografia contemporanea l’ha largamente smitizzata, senza però rinunciare del tutto al riconoscimento della genuinità delle motivazioni religiose alla radice dell’operato di Ugo, posizione questa fatta propria anche da Calamai75. Passando in rassegna l’impressionante lista delle donazioni territoriali di Ugo ad abbazie toscane e non, ma anche a cattedrali e capitoli canonicali, documentate dal 993 alla morte nel 100176, non si può fare a meno di avvertire la limitatezza della prospettiva laicista che vorrebbe spiegarle tutte in base a calcoli utilitaristici, come l’accentramento di proprietà fiscali e allodiali disperse (teoria questa già avanzata nel 1914 da Fedor Schneider, sulla quale grava però l’incognita della distinzione fra beni statali e privati in un periodo così caotico e mal documentato77), o come appunto il controllo della viabilità78, fattori che comunque devono aver esercitato un loro peso. Innegabilmente Ugo fu in stretto rapporto con Gerberto di Aurillac, abate di Bobbio e poi (dal 999 al 1003) papa col nome di Silvestro II, a sua volta uno dei più intimi consiglieri spirituali e fidati collaboratori di Ottone III per gli affari ecclesiasti-


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ci, il cui programma consisteva essenzialmente nel favorire la riappropriazione da parte degli enti ecclesiastici di beni allivellati a censo irrisorio ai laici e nel combattere la simonia79. Un ruolo può averla avuta anche la paura che il mondo finisse nell’anno 1000 e che bisognasse sbrigarsi per rientrare nella grazia di Dio, secondo la testimonianza del cronista Rodolfo il Glabro, che è stata, credo, fin troppo screditata dalla storiografia de Les Annales (i soggetti apocalittici sono così frequenti negli affreschi e nelle miniature di quei decenni da farmi pensare che il terrore dell’imminenza del giudizio fosse davvero piuttosto diffuso). Non bisogna infine dimenticare la prosaica verità che Ugo e Giuditta, non potendo avere figli maschi – cosa che ancora speravano nell’estate del 998 –, erano in grado di mostrarsi particolarmente generosi con la Chiesa negli ultimi anni di vita di lui, fatto salvo l’usufrutto vita natural durante da parte di lei di tali rendite garantito da Ottone III, anche a prescindere dall’accademico interrogativo se i beni in questione appartenessero al marchesato o alla famiglia. Di qui la leggenda raccolta da Giovanni Villani (Nuova Cronica, IV, 2) che Ugo avesse deliberatamente rinunciato ad avere figli, vivendo castamente con la moglie, come un frate laico del terz’ordine francescano: “E vivette poi colla moglie in santa vita, e nonn ebbe nullo figliuolo”; affermazione però non veritiera se – come sembra – la coppia ebbe una o due figlie80. Ma il Villani raccolse anche una spiegazione dietrologica che doveva circolare ai suoi tempi, secondo la quale l’incredibile generosità di Ugo verso i monaci non avrebbe potuto avere altra spiegazione che un tentativo di espiare in extremis i peccati carnali particolarmente gravi, che gli avrebbero fatto temere le peggiori pene dell’Inferno. La maliziosa natura umana ci induce infatti a sospettare che dietro un’eccessiva bontà vi sia qualcosa da farsi perdonare. Non vi è ragione di dubitare, come fa Calamai81, dell’attendibilità della tradizione che fissa al 21 dicembre, festa di san Tommaso, il decesso di Ugo, visto che tali date venivano in genere tramandate negli obituari dei monasteri, sulla base dei quali si celebravano annualmente le messe nelle ricorrenze, ordinate nei loro testamenti dagli stessi defunti. Proprio un precetto del genere, in un perduto obituario della Badia, avrà contribuito alla genesi della credenza che Ugo avesse fondato questo monastero, dove del resto è presente la sua tomba82, mentre non sembra mai esservisi trovata la tomba di Willa, che immagino sepolta nella badia lucchese di San Ponziano da lei beneficiata (resta da chiarire chi fosse la misteriosa Adaleta tumulata entro il 996 nella Badia Fiorentina). Dante (Paradiso, XVI, 127-130) accenna alla messa cantata che allora come oggi si celebra in Badia ogni 21 dicembre in suffragio di quel marchese al quale una parte


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della nobiltà fiorentina più antica faceva risalire la propria elevazione al cavalierato, riconducendo al suo preteso stemma (di rosso a tre pali d’argento), che è anche diventato quello della Badia, l’origine delle loro armi, in cui ricorrevano in varia combinazione i sei pali rosso-bianchi (colore che araldicamente equivale al metallo argento): “ciascun che de la bella insegna porta/ del gran barone il cui nome e ‘l cui pregio la festa di Tomaso riconforta/ da esso ebbe milizia e privilegio”83. La presunta arme di Ugo compare, così consunta da essere ormai pressoché illeggibile, negli scudi gotici in arenaria posti sotto alla cornice marcapiano del terzo ordine di bifore del campanile della Badia, dove inizia la parte ricostruita dal 1330, dopo la distruzione avvenuta a furor di popolo nel 1307 per il rifiuto dei monaci di pagare le tasse al Comune fiorentino, di cui narra il Villani (fig. 11)84. Dal momento che tale sopruso era motivato, dal punto di vista dei monaci, dal mancato rispetto delle condizioni stabilite alla fondazione della Badia, ritengo che l’apposizione dello stemma sulla porzione rifatta del campanile debba essere spiegata con un appello alla memoria di Ugo, creduto fondatore del monastero (vedi nota 36). In seguito lo stemma creduto di Ugo fu apposto al prospetto della vecchia sala capitolare, databile agli anni in cui era abate Giovanni Albergotti, fra 1358 e 1365, esponente di un’illustre famiglia aretina, di cui pure vi compare lo stemma, assieme a quello dell’abate Jacopo Guasconi, in carica fra 1408 e 1418, documentatamente apposto in quest’ultimo anno a ricordo di lavori forse da lui fatti eseguire (fig. 10)85. Lo ritroviamo più tardi tre volte nel monumento sepolcrale di Ugo scolpito da Mino da Fiesole nel 1481 – al centro e ai lati nelle mani di una coppia di putti reggiscudo (fig. 9) –, in uno scudo a mandorla sopra al portale di Benedetto da Rovezzano del 1494 su Via del Proconsolo, e sull’arco trionfale di Matteo Segaloni del 1630 circa sopra all’altar maggiore86. Don Vincenzo Borghini, abate commendatario della Badia e protagonista degli studi antiquari fiorentini nella seconda metà del Cinquecento, ne ha ufficializzato l’adozione come stemma della Badia87, ma non è affatto chiaro se già nei secoli precedenti questa insegna fosse sentita come propria del monastero o del suo presunto fondatore oppure di entrambi. Sospetto che fino ai tempi di Borghini quello stemma fosse considerato proprio di Ugo e non della Badia, dal momento che in Italia non c’era la consuetudine che le abbazie avessero degli stemmi, cosa comune invece in Germania, dove con la Bolla Aurea del 1356 le Reichsabteien erano divenute stati sovrani. Quanto alla tradizione raccolta da Dante, oggi – più smaliziati – sappiamo che l’idea stessa di una nobiltà affondante le sue gloriose radici nella “milizia” altomedievale è spesso un’impostura bassomedievale e moderna, così come è un sogno


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tipicamente trecentesco voler risalire all’origine degli stemmi nobiliari in epoche remote come quella di Ugo, in cui l’araldica non esisteva ancora, almeno secondo le regole poi codificate, analogamente a come si pensava ad esempio di poter ricostruire lo stemma di Carlo Magno dall’unione dell’aquila imperiale tedesca e dei gigli francesi88. Secondo Calamai l’arme di Ugo e della Badia potrebbe rispecchiare quella di un qualche successivo marchese di Toscana89, mentre per Alessandro Savorelli, che se ne è seriamente occupato in un’apposita monografia divulgativa del 200490, essa potrebbe effettivamente derivare dai vessilli rosso-bianchi di cui si ha notizia che furono usati dai tempi più remoti dal Sacro Romano Impero, i quali secondo alcuni sarebbero pure all’origine della più antica araldica comunale italiana in cui prevalgono questi due colori. In effetti rosso-bianche sono le armi bipartite di Lucca e Firenze (il vecchio stemma comunale che Giovanni Villani spiegherà fantasiosamente come unione dei vessilli rossi dei Romani di Florentia e bianchi degli Etruschi di Fiesole, mai abolito anche dopo l’adozione nel 1251 dello stemma gigliato), anche se con diverse disposizioni, a balzana quella lucchese e verticale quella fiorentina; e bianco-rosso è pure lo stemma di Pisa, con la sua caratteristica croce, nonché la croce di san Giorgio dello stemma del Popolo di Firenze. Il ricorrere del rosso e del bianco negli antichi stemmi dei ducati tedeschi di Franconia e Sassonia (odierna Bassa Sassonia e Westfalia) conferma questi legami, anche se è più plausibile che la dipendenza dell’araldica comunale italiana da quella feudale tedesca risalga alla fine dell’XI secolo, ai tempi della dinastia salica, quando appunto – alla vigilia della prima crociata – si posero le basi per la codificazione araldica tuttora in vigore. Chiosando il passo di Dante i commentatori della Commedia ed altri autori, cioè Fazio degli Uberti (Dittamondo, II, 23, vv. 49 ss.), Giovanni Villani (Nuova Cronica, IV, 2), il notaio Andrea91 e Ricordàno Malispini (le cui Istorie fingono di risalire al Duecento mentre sono posteriori al Villani da cui dipendono), hanno individuato nelle famiglie Pulci, Della Bella, Nerli, Giandonati, Gangalandi e Alepri, nei cui stemmi ricorrono in diverse combinazioni i sei pali rosso-bianchi, quelle cui si riferiva implicitamente il poeta. Sospetto che proprio queste famiglie abbiano inventato lo stemma di Ugo, giustificando tale affinità araldica, che poteva essere di buon auspicio per stringere una consorteria, facendola risalire ad un’iniziativa nobilitante di Ugo. In tal modo bisognava risalire ad uno stemma di Ugo costituito dall’elemento che accomuna quelli delle sei famiglie: il ricorrere dei pali rosso-bianchi (fig. 12), nel cui numero sei si sarebbe potuto vedere una relazione simbolica tanto con le sei famiglie fiorentine quanto con le sei abbazie toscane credute fondate dal marchese


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in base alla testimonianza di san Pier Damiani. In ogni caso questa invenzione dello stemma di Ugo deve essere collocata nel XIII secolo, non molto prima che l’Alighieri – lui stesso membro di quella nobiltà nostalgica di un ormai idealizzato passato feudale e residente all’ombra della Badia – la raccogliesse, determinandone l’ulteriore successo. Il prossimo passo doveva essere inventare una dinastia feudale illustre cui Ugo avrebbe potuto plausibilmente essere appartenuto, che si volle inizialmente individuare nei marchesi di Magdeburgo, città che aveva stretti legami con gli Ottoni, con i quali si pensava che Ugo fosse imparentato (visto che Ottone I è sepolto nella cattedrale di Magdeburgo da lui fondata e visto che subito ad Est di questa città si estendeva una marca dell’Impero allora popolata da Slavi), ma che in seguito il Villani suggerì di individuare nei marchesi di Brandeburgo, visto che ai suoi tempi quello era un famoso marchesato o margraviato, sede di principe elettore, mentre nell’epitaffio del monumento sepolcrale del 1481 si scrisse che Ugo era stato conte e marchese dell’inesistente località di Andeburgo (fig. 9), nome riportato da un codice dell’epistola di Andrea invece del corretto Magdeburgo92. Anche a questa illazione, del tutto in contrasto con la verità storica, non dovettero essere estranee le ragioni dell’araldica, visto che i colori della presunta antica arme del ducato di Sassonia sono, come si è detto, il rosso del fondo e il bianco o argento del cavallo rampante che vi campeggia (che fra l’altro ritroviamo, ma con diversi colori, nello stemma di Arezzo). Anche nella messa in memoria di Ugo, un tempo celebrata all’alba ed oggi ai vespri del 21 dicembre, considerato il giorno più corto dell’anno e perciò quasi metafora dei secoli bui prima della rinascita del 1000, l’ideale della cavalleria aveva ed ha un ruolo determinante. Come scrive Davidsohn, alla fine dell’Ottocento dinnanzi al monumento sepolcrale, provvisto di una zoccolatura a forma di panca, veniva posta “la mezza figura di un cavaliere con corazza, elmo e visiera calata, col pugnale in una mano e lo scettro d’oro nell’altra”93. Chiaramente questo rituale doveva suggerire l’idea che Ugo, del quale in realtà non è nota la partecipazione ad alcuna battaglia, fosse stato un prode guerriero e che gli antenati delle sei famiglie fiorentine da lui promossi al cavalierato avessero partecipato alle sue imprese, distinguendovisi per il coraggio. Oggi, in clima ‘politicamente corretto’, il pugnale e lo scettro sono purtroppo spariti mentre resistono – accompagnati dai vessilli a strisce rosso-bianche – la corazza e l’elmo, ovviamente non del 1000 ma del XVI secolo. Ciò fornisce un prezioso indizio per ricostruire quando e in quale clima – quello cioè della rifeudalizzazione legata al granducato mediceo – sia stata dapprima orchestrata questa messa in scena, che si spera resistere alla rimedievalizzazio-


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ne kitsch che ha ridicolizzato tanti giochi storici, un tempo pure connotati dall’interpretazione granducale della cavalleria. Come riferiscono Puccinelli e Galletti, le spoglie di Ugo sarebbero state inizialmente custodite in una cassa di ferro sulla quale si leggeva semplicemente “HUGO MARCHIO MI”, cioè il nome e l’anno di morte94. Non è però dimostrabile se questo forziere, ancora esistente nel Seicento ma oggi perduto, fosse davvero una prima tomba o non piuttosto, come sensatamente pensava Uccelli95, una bara posta all’interno del monumento sepolcrale marmoreo; e in questo caso non è neppure accertabile se la cassa si trovasse già dentro al primo monumento o solo nell’attuale. In ogni caso sembra evidente che l’accorgimento di proteggere il corpo tumulandolo entro un forziere sia stato preso più per timore di furti del ricco corredo funebre che del cadavere stesso, come invece avveniva nel caso dei santi e beati, spesso sepolti almeno nel tardo Medioevo italiano in casse lignee protette da grate di ferro96. Dal momento che il primo monumento sepolcrale di Ugo era in realtà una vasca, di cui non si è conservato il coperchio, è anche immaginabile che non vi fosse alcuna lastra marmorea ma che la cassa metallica fosse visibile all’interno della vasca, sporgendone in modo da far leggere la scritta posta sul suo margine superiore. Come riferisce Davidsohn, da un sepoltuario della Badia contenuto in un Ordo infirmorum del principio del Duecento (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. D. 8.2851) veniamo a sapere che la tomba di Ugo si trovava nei pressi – non è chiaro se accanto o dietro – dell’altar maggiore rialzato su di una scalinata (si è già visto infatti che, stando alla convincente ricostruzione della Uetz, l’area presbiteriale della chiesa ‘ottoniana’ ancora in piedi ai primi del XIII secolo era posta sopra ad una cripta ad oratorio rialzata a pontile), dal momento che vi si prescriveva che nella processione del giorno dei morti “fratres […] ascendant ad altare maius, ubi est sepulcrum marchionis Ugonis”97. All’epoca era ancora in piedi l’abside semicircolare centrale (fig. 3), per cui non è immaginabile che il monumento si trovasse lungo un lato curvo dell’emiciclo; dobbiamo dunque ricostruirne la posizione in fondo all’abside, in asse con quella del più arretrato monumento di Mino da Fiesole che lo ha sostituito, coll’epitaffio murato al di sopra. Conosciamo il testo di quella perduta lapide dal Puccinelli, che nel 1643 ne ha fornito anche una riproduzione grafica nella xilografia in cui è raffigurato pure il “Sepulchrum Porphyreticum” di Ugo (fig. 13)98. Si tratta di un carmen figuratum in cui le lettere iniziali, centrali e finali di ogni verso, se lette verticalmente dall’alto, danno luogo all’invocazione: “FLERE MARITU(m)/ SIVE MAGISTRUM/ TUSCIA DISCAT”. Questo componimento, che il Puccinelli avrà conosciuto da una


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affidabile trascrizione manoscritta, è databile davvero ai primi dell’XI secolo, come fanno pensare certi suoi preziosismi retorici, colmi di citazioni classiche, né è disprezzabile come pensava Davidsohn, prigioniero dei pregiudizi che ai suoi tempi precludevano l’apprezzamento della poesia latina del Medioevo99. La sua contemporaneità coll’installazione del monumento sepolcrale marmoreo è suggerita dal nono verso in cui se ne fa menzione: “ISTE TAMEN TUMULUS ME CLAUDIT MARMORE PARVUS”. Anche se il seppellimento di fondatori o patroni laici in un’abbazia benedettina è piuttosto consueto, decisamente sopra le righe è la scelta di un ambizioso monumento marmoreo: il caso cronologicamente e geograficamente più vicino che viene in mente è quello del duplice monumento, costituito da un sarcofago e da una sorta di acroterio soprastante, delle contesse Gasdia (morta nel 1075) e Cilla (morta nel 1096) a Badia a Settimo, un tempo – credo ab origine – collocato in facciata, di cui oggi rimane solo il prospetto in marmo di Carrara e serpentino di Prato all’interno della chiesa. Comunemente datato al 1096, il monumento di Badia a Settimo va credo posticipato alla metà o oltre del secondo decennio del XII secolo, anche perché dipende dalla tomba di Buscheto (ancora in vita nel 1110) nella facciata del Duomo di Pisa (probabilmente proveniente dalla vecchia facciata da lui eretta entro la consacrazione del 1118), e va interpretato come una memoria ai benefici che l’abbazia aveva ricevuto dai suoi fondatori e patroni, i conti Cadolingi, estintisi nel 1113100. Analogamente il monumento di Ugo commemora la generosità di colui che aveva beneficiato la Badia Fiorentina con le donazioni più importanti; ma ciò avrebbe acquisito certo un ben diverso significato dopo che egli era morto senza eredi che ne potessero reclamare il patrimonio e dopo che Ottone III aveva solennemente ufficializzato la liberazione dell’abbazia da ogni vincolo di soggezione a patronato: a Firenze e a Settimo i monaci erano grati ai nobili fondatori soprattutto perché i loro casati si erano estinti. Il marchese Bonifacio, successore ma non parente di Ugo, fece un tentativo di riappropriarsi dei beni fiscali donati da Willa e Ugo (o forse anche di loro beni allodiali confluiti nelle stesse donazioni) alle abbazie di Marturi e Firenze, ma non riuscì nell’intento, e nel 1009 si vide costretto a restituire le terre che aveva sottratto alla Badia Fiorentina con una finta donazione101. Non è del tutto escluso che il monumento marmoreo di Ugo sia stato installato solo allora dai monaci, oppure, se già c’era – come ritengo più probabile –, avrà allora acquisito la valenza di monito di rispettare la Badia rivolto al marchese in carica. Analogamente verso il 1070 san Pier Damiani elogerà Ugo, facendone quasi un santo, al fine di dare una


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lezione ad altri principi molto meno rispettosi della Libertas Ecclesiae. La vasca antica riusata come sepolcro di Ugo dopo la realizzazione del monumento rinascimentale del 1481 fu riadattata ad abbeveratoio per cavalli in un chiostro della Badia, come lamentato dal cardinale Cesare Baronio alla fine del Cinquecento102; in seguito, dietro richiesta di Pietro Capponi, cui i monaci dovevano dei soldi, fu ceduta a Bardo Corsi, che la fece onorevolmente sistemare nel palazzo già dei Tornabuoni in Via de’ Tornabuoni all’angolo con Via Strozzi, da lui acquistato nel 1607, dove l’opera sarebbe stata registrata dagli inventari del 1685 e del 1743 (quest’ultimo con la precisazione del fatto che il bordo era ora in “Giallo Antico”). Stando ad Uccelli (1858) e Davidsohn (1896) il sepolcro non si trovava allora più in Palazzo Corsi, poi Corsi-Salviati103. Esso, come mi segnala Barbara Arbeid, si trova attualmente nel cortile detto dell’Ajace di Palazzo Pitti (alla fine dell’odierno percorso di visita, anche se non sempre aperto al pubblico, del Museo degli Argenti), dove è stato riscoperto nel 1997 in occasione della mostra Magnificenza alla corte dei Medici, ideata da Detlef Heikamp e allestita scenograficamente in quel museo (fig. 14). Fabrizio Paolucci, cui si deve l’unico studio monografico sulla vasca, ricostruisce che essa deve essere passata intorno al 1815, quando vennero messi in vendita parte degli arredi di Palazzo Corsi-Salviati, nella proprietà degli Asburgo-Lorena rientrati in Palazzo Pitti dopo la parentesi napoleonica104. Secondo l’archeologo si tratta di un tipico labrum romano, databile al II secolo “tra la tarda età adrianea e il primo periodo antonino (140-160 d.C.)”. Il materiale non è porfido, come pensava Puccinelli, ma Rosso Antico, come in altre vasche del periodo, integrato con il nuovo orlo in Giallo di Siena in un restauro databile fra Sei e Settecento, prima comunque del 1743, quando sarebbero state anche rilavorate le teste leonine. L’orlo originario doveva già presentarsi slabbrato dall’esposizione all’aperto al momento del riuso, come è attestato dall’epitaffio del monumento sepolcrale di Mino da Fiesole, dove quello precedente è definito “VETUSTATE ATTRITUM” – giustificandone in tal modo la sostituzione –, ed ulteriori danni si saranno verificati durante il riutilizzo come abbeveratoio per cavalli. Nessuno ha finora fatto mente locale sul fatto che – allo stato attuale delle nostre conoscenze – si tratta del primo caso di impiego di prestigioso materiale di spoglio nella storia dell’arte della Toscana, di gran lunga precedente (anche a prescindere dall’incertezza sull’anno preciso, se cioè quando Ugo era ancora in vita o immediatamente dopo la sua morte o forse nel 1009 circa) rispetto ai casi pisani di San Michele in Borgo, dove il memoriale dell’abate Bono del 1046 informa che egli aveva fatto veni-


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re colonne da Roma (come poi avverrà a Montecassino e nel Duomo di Pisa), della galilea di San Zeno e di San Piero a Grado, chiese databili al secondo quarto dell’XI secolo, per non dire del cantiere della cattedrale di Buscheto avviato nel 1064105. Si può a buon diritto istituire un collegamento con la Renovatio voluta da Ottone III nel 997, assistito da Gerberto di Aurillac, san Romualdo, il vescovo Leone di Vercelli e appunto da Ugo, il cui ambizioso programma prevedeva fra l’altro il ritorno della capitale a Roma, dove infatti l’imperatore si trasferì, a seguito dell’elezione al soglio pontificio di Gerberto da lui ottenuta nel 999 (col programmatico nome di Silvestro II, che era come dire che Ottone era un secondo Costantino), in significativa coincidenza coll’alba del nuovo millennio106. Quest’esperimento è poi subito fallito, e proprio ad Ugo toccò il compito di salvare nel febbraio del 1001 Ottone dalla plebaglia romana inferocita: ma quell’ideale intramontabile, in cui avevano creduto Teodorico, Carlo Magno ed Ottone I, sembra che Ugo lo condividesse davvero, pur essendo per indole un diplomatico incline alla Realpolitik, come ricostruito da Calamai. Perciò sarebbe immaginabile che Ugo stesso abbia deciso il riuso di un ‘sarcofago’ antico, volendo così dare un messaggio di forte ripresa delle glorie della Romanità, in quel clima politico-culturale degli anni 999-1001, o in alternativa che lo abbia deciso subito dopo la sua morte Giuditta o anche l’abate Marino, probabilmente sulla stessa linea. Come è noto, il Porfido Rosso egiziano, che si cavava nel Mons Porphyrites nel Medio Egitto, è stato usato in gran quantità per opere architettoniche e scultoree legate all’Impero romano, a causa del suo colore simile alla porpora degli abiti imperiali107, fino a quando nel corso del IV secolo sembra essere cessata l’attività estrattiva, dopo di che si dovette ripiegare su materiale di spoglio rilavorabile, fino a che nel VII secolo veniva meno anche la capacità tecnica di lavorare quel durissimo materiale108. L’uso del Porfido Rosso, particolarmente in voga ai tempi di Diocleziano (quando si ambienta anche la leggenda dei ‘Santi Quattro Coronati’), dei Tetrarchi e di Costantino tanto a Roma quanto a Costantinopoli109, si mantenne poi soprattutto alla corte bizantina, dove gli imperatori venivano partoriti in una sala dalle pareti incrostate di porfido (il che spiega perché fossero soprannominati ‘porfirogeniti’), incoronati su rotae di porfido (come poi si fece anche per Carlo Magno nel Natale dell’800 in San Pietro in Vaticano), regnavano su troni di porfido e finivano in sarcofagi di porfido, alcuni dei quali esposti al Museo Archeologico di Istanbul110. Teofano, la figlia di Romano II e moglie di Ottone II, può averne informato tanto il marito quanto Ugo, col quale sembra essere stata in buoni rapporti durante la sua reggenza in Italia111. A


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parte i casi di Teodorico e Dagoberto II, su cui tornerò, non risulta che l’uso dei sarcofagi di porfido si fosse diffuso fino ai tempi di Ugo per comuni mortali non di sangue imperiale: solo nel XII secolo se ne appropriarono, per emulazione degli imperatori bizantini, alcuni papi ed i re di Sicilia112, così come per lo stesso motivo nel Duecento si fece largo uso di spolia in Porfido Rosso, predati a Costantinopoli, in San Marco a Venezia113. Come si è visto, il ‘sarcofago’ di Ugo (fig. 14) è in realtà un labrum, cioè una vasca, che rientra in una diffusa tipologia ispirata alle vere vasche da bagno romane, che dovettero essere in origine di legno e poi nei casi più lussuosi in bronzo, dove le coppie di veri anelli di ferro applicati sui due fianchi servivano per il trasporto. Diventate di moda nell’età di Adriano, queste vasche da bagno sono state spesso riprodotte in marmo o porfido dei più diversi litotipi a scopo meramente ornamentale, destinate ad essere comunque inizialmente riempite d’acqua e perciò munite in basso di fori per il deflusso, come avviene anche nel nostro caso (non a caso la vasca fu infatti riusata poi come abbeveratoio di cavalli); in altri casi erano invece destinate a restare vuote, alludendo soltanto alle vere vasche da fontana. Quando gli anelli, ormai inutili e perciò finti, si trovano – come nel nostro caso – entrambi sul lato frontale, cosa in teoria illogica se la vasca fosse davvero intesa come trasportabile, le vasche dovevano essere destinate a stare addossate ad un muro, per cui talvolta, ma non qui, il retro non è lavorato114. Tali vasche ornamentali ad uso di fontana o vuote si trovavano spesso nelle terme, oltre che in altri tipi di lussuosi edifici e giardini di rappresentanza, pubblici e privati, dell’antichità romana, per cui mi sembra probabile che la nostra provenga dalle terme di Florentia, città che gli archeologi ritengono fiorita architettonicamente proprio in età adrianea. Intorno all’anno 1000, quando sarebbe stato arduo trasportare un sarcofago o un labrum di Porfido Rosso da Roma a Firenze, dove non doveva esservene alcuno, ci si accontentò di un labrum in Rosso Antico disponibile sul posto, che comunque solo un occhio allenato riesce a distinguere dal porfido egiziano. Già nel culto dionisiaco la forma a tinozza dei labra ed il loro ornato con teste leonine e foglie d’edera o di vite si prestava ad un’associazione simbolica coll’idea della morte e resurrezione, a causa dell’affinità con i lenoi, i lignei recipienti usati per la vendemmia e la pigiatura dell’uva, a loro volta poi imitati in sarcofagi marmorei della stessa forma, detti appunto ‘a lenos’, spesso strigilati davanti e con rilievi di scene di venatio ai lati, dove il leone che si avventa sul cervo o sul cavallo allude all’ineluttabilità della morte. Questi sarcofagi assomigliano alle vasche da bagno


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anche per un altro, macabro, dettaglio: il foro per il deflusso dei liquidi rilasciati dai cadaveri in decomposizione, processo che veniva associato con la fermentazione del mosto che dà origine al vino. In ambito cristiano quest’associazione simbolica ritorna travestita sia per la valenza eucaristica del vino che per il significato catartico della vasca da bagno, nobilitatasi in fonte della vita, che poteva far venire in mente il fonte battesimale (non a caso quello del Battistero Lateranense, in cui si crede battezzato Costantino, è una vasca circolare di Porfido Rosso di spoglio). Quando nel IV secolo in Italia i sarcofagi di porfido ormai scarseggiavano, si poteva così ripiegare con buona coscienza su vasche dello stesso materiale, come sant’Ambrogio suggerì a Teodosio, in una lettera inviatagli da Milano a Costantinopoli nel 392, per la tomba di Valentiniano II, morto in quell’anno, che andava approntata nel mausoleo imperiale di Milano (poi chiesa di San Gregorio, che si trovava presso la Basilica di San Vittore al Corpo), con la giustificazione che così si era fatto già per Massimiano, morto nel 310 e verosimilmente sepolto nello stesso oggi distrutto mausoleo: “Est hic porphyreticum labrum pulcherrimum et in usum huiusmodi aptissimum: nam et Maximianus Diocletiani socius ita humatus est. Sunt tabulae porphyreticae pretiosissimae quibus vestiatur operculum, quo regales exuviae claudantur” (Epistulae, I, 53)115. Per lo stesso motivo simbolico labra di Porfido Rosso sono stati riusati nell’Alto Medioevo come contenitori per corpi e reliquie di santi – considerato anche il rimando del colore al sangue da loro versato –, usanza questa introdotta a quanto pare dapprima nel IX secolo a Roma e poi adottata pure a Milano (dove la lettera di Ambrogio non deve essere stata dimenticata) e forse a Metz116. Una vasca di Porfido Rosso si trova tuttora sotto l’altar maggiore di San Bartolomeo all’Isola Tiberina (fig. 15), chiesa fondata nel 1000 da Ottone III e Silvestro II, per cui è probabile che siano stati loro a destinarla a cassa reliquiario, cosa di cui Ugo sarà stato al corrente. Al pari avrà conosciuto la tomba di Ottone II, morto nel 983, nel quadriportico di San Pietro in Vaticano, demolita assieme al contesto architettonico in cui si trovava nel 1610, che da descrizioni e un disegno (fig. 16) di Giacomo Grimaldi (Archivio di Stato Vaticano, ms. Barb. Lat. 2733, c. 237; ms. Vat. Lat. 2691, c. 22) sappiamo essere stata costituita dall’assemblaggio di pezzi di spoglio: un sarcofago di marmo bianco con specchiature di Verde Antico o Porfido Verde di Tessaglia, colore associato cristianamente con la speranza nella resurrezione; ed un coperchio ottenuto capovolgendo una conca di Porfido Rosso117. Inoltre può aver conosciuto la vasca di Porfido Rosso (fig. 17) che aveva un tempo accolto il corpo del re ostrogoto Teodorico, morto nel 526, nel mausoleo da lui stesso fatto costruire a


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Ravenna (come già alla metà del VI secolo attestava l’Anonimo Valesiano), vasca che però alla metà del IX secolo risulta essersi trovata fuori dal mausoleo, nei pressi del monastero di Santa Maria del Faro che là era stato eretto, come testimonia Andrea Agnello: “Sepultusque est in mansoleum, quod ipse hedificare iussit extra portas Artemetoris, quod usque hodie vocamus ad Farum, ubi est monasterium sancte Marie, quod dicitur ad memoria regis Theodorici. Sed, ut michi videtur esse, sepulcro proiectus est, et ipsa urna, ubi iacuit, ex lapide pirfiretico valde mirabilis, ante ipsius monasterii aditum posita est” (Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 39). Come scrive Friedrich Wilhelm Deichmann, il corpo di Teodorico potrebbe essere stato gettato fuori dalla vasca già nel 540, al momento della conquista di Ravenna da parte di Belisario durante la guerra greco-gotica, oppure più plausibilmente verso la fine degli anni Cinquanta del VI secolo, quando a seguito della politica antiariana dell’arcivescovo Agnello furono convertite al culto cattolico le chiese ariane di Ravenna (fra cui Sant’Apollinare Nuovo, con la damnatio memoriae dei mosaici con le raffigurazioni di Teodorico e della sua corte nelle scene del Palatium e del porto di Classe) e quando sembra essere stato fondato il monastero di Santa Maria del Faro, attestato documentariamente dalla metà del IX secolo, visto che il piano superiore della rotonda, dove si trovava la vasca, fu adibito a coro della chiesa monastica118. Non stupisce che Teodorico, che aveva tentato di far sopravvivere la civiltà romana, assumendo per così dire il ruolo di curatore fallimentare dell’Impero Romano d’Occidente su incarico di quello d’Oriente, abbia voluto essere sepolto in una vasca di porfido, analogamente a come nel IV secolo si era fatto nella capitale Milano per Massimiano, Valentiniano II e forse Graziano; e con lo stesso spirito tale scelta sarebbe stata fatta poi dal re franco Dagoberto II, morto nel 638, sepolto in una vasca di Porfido Rosso (fig. 18) oggi al Louvre, prima collocata nell’abbazia regia di Saint-Denis da lui fatta ricostruire. Secondo la tradizione egli avrebbe fatto recare a Parigi quella vasca da Poitiers come trofeo di guerra assieme al corpo di sant’Ilario, che forse vi era stato sepolto; già nel 1625 essa non serviva più da sepolcro ma da fonte battesimale119. Anche di quest’ultima vascasepolcro Ugo, di stirpe franca, avrebbe forse potuto sapere. Ma indubbiamente quella che a lui doveva essere rimasta più impressa, in quanto principe di origine germanica coinvolto in un sogno di Renovatio dell’Impero romano, è la vasca vuota di Teodorico, che può aver visto durante i suoi a quanto pare frequenti soggiorni a Ravenna, dove alla fine del X secolo risiedevano spesso due dei suoi principali interlocutori: Ottone III e san Romualdo. In ogni caso Ugo deve essere passato per Ravenna quando nel


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991-992 effettuava, da Bagno di Romagna, la donazione finalizzata alla fondazione di Verghereto a san Romualdo, e di nuovo nel 993, 996 e 997 quando beneficiava l’abbazia della Vangadizza, risiedendo proprio in quella località del Polesine, o anche quando forse in una delle stesse occasioni faceva una non datata donazione all’abbazia di Pomposa (vedi nota 76). Dal punto di vista artistico, la citazione del mausoleo di Teodorico nella tomba di Ugo va dunque ad aggiungersi alla lista di imprestiti ravennati, e più latamente romagnoli, che caratterizzano il primo-romanico della Toscana nord-orientale: la documentata citazione di San Vitale nel perduto Duomo di San Donato nel castello vescovile aretino del Pionta da parte dell’architetto Maginardo su incarico del vescovo di Arezzo Adalberto (in carica fra 1014 e 1023), poi consacrato nel 1032 dal suo successore Teodaldo (in carica fino al 1036/38); la ripresa nella cattedrale di Firenze Santi Giovanni e Reparata, ricostruita credo fra 1036 e 1059, di un tipo di pilastri a sagoma cruciforme che in diverse variazioni ricorrono in chiese d’area ravennate; l’adozione nel Duomo di Città di Castello e in chiese della diocesi di Arezzo dei campanili cilindrici; e la stessa precoce fortuna degli archetti pensili, più tardi universalmente diffusi120. La citazione nel monumento sepolcrale della Badia di quello di Teodorico presuppone in ogni caso un ricordo positivo di quel sovrano, plausibile in Ugo e Giuditta, entrambi in origine germaniche, o anche nell’abate Marino, che dal nome si direbbe poter essere stato romagnolo o comunque originario del versante adriatico della penisola121. I Bizantini ed i Romani ne avevano invece un pessimo ricordo, perché negli ultimi anni del suo regno Teodorico aveva fatto uccidere Simmaco e Boezio (del quale più tardi si credette a torto che si fosse convertito al Cristianesimo), ed imprigionare papa Giovanni I, morto – secondo la Chiesa anche lui ucciso e quindi martire – il 18.05.526, poco prima dello stesso re (30.08.526). Secondo Procopio di Cesarea (De Bello Gothico, I, 1) Teodorico sarebbe morto di spavento durante un banchetto per aver riconosciuto nella testa del pesce che stava mangiando il volto del senatore Simmaco. Gregorio Magno (Dialogi, III, 30) raccoglie il racconto di un eremita di Lipari che all’indomani della morte di Teodorico lo avrebbe visto gettato nell’Inferno dal cratere del vicino vulcano: “hesterna die hora nona inter Iohannem papam et Symmachum patricium discinctus atque discalciatus et vinctis manibus (post tergum) deductus, in hac vicina Vulcani olla iactatus est”, come ripete Paolo Diacono (Historia Romana, XVI, 19), ma con riferimento all’Etna, essendogli evidentemente ignoti i vulcani delle Isole Eolie122. Esattamente la stessa storia – ma con Happy End – viene riferita a Dagoberto II da Aimoino, monaco di Fleury, alla fine


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del X secolo (De Gestis Francorum, IV, 34), in base non a caso alla testimonianza di Ansoaldo vescovo di Poitiers, cioè per l’appunto di quella città da cui si crede provenire la vasca di porfido (fig. 18) in cui fu tumulato nel 638 quel sovrano francese123: ed è proprio il curioso fatto che Teodorico e Dagoberto II sono accomunati dall’essere stati sepolti in vasche di porfido che deve aver causato il trasferimento della stessa leggenda dall’uno all’altro re. Andrea Agnello (Liber Pontificalis…, 39) sembra vedere nella repentina morte di Teodorico, causata da eccessi alimentari, una punizione divina per la sua politica anticattolica: “Theodoricus autem post XXXIIII anno regni sui cepit claudere eclesias Dei et coartare christianos, et subito ventri fluxus incurens mortuus est”. Carlo Magno, al contrario, doveva avere una grande ammirazione per Teodorico, in cui poteva vedere un anticipatore dei propri intenti volti al benessere tanto dei Germani quanto dei Romani, tanto da far trasportare nell’801 da Ravenna ad Aquisgrana un monumento equestre in bronzo dorato di cui si pensava che raffigurasse Teodorico124; ma poco dopo il monaco Valafrido Strabone (morto nell’849), poeta di corte dall’829 all’840 di Ludovico il Pio, scrisse una poesia vituperosa su quel monumento equestre, oggi perduto, in cui associava la posa eretta di “Tetricus” sul cavallo che si inalbera con la superbia, la doratura del bronzo con la cupidigia, e la nudità di un “niger”, cioè di un africano (ma forse lo trasse in inganno la patina del bronzo non dorato) che affiancava il gruppo equestre reggendo una campanella, con la miseria e le tenebre dell’Inferno che attendono puntualmente i peccatori125. In controtendenza, nelle contemporanee leggende popolari germaniche incontriamo Teodorico come “Dietrich von Bern”, cioè di Verona, descritto come guerriero sostanzialmente buono ma sfortunato, cacciato dal suo popolo dal cattivo re Ermanarico, in combutta con Odoacre, ma ospitato alla corte di Attila, dove però non riesce ad evitare la strage dei Burgundi ordita dalla regina Crimilde, moglie di Attila, per vendicare l’uccisione del primo marito Sigfrido126. Sospetto che questo racconto, cui si accenna dapprima nello Hildebrandslied, il primo documento superstite della poesia antico-altotedesca, scritto nell’abbazia di Fulda fra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, quando quella chiesa fu edificata ad imitazione di San Pietro in Vaticano per ospitare il corpo dell’evangelizzatore dei sassoni e Frisoni Willibrod/Bonifacio, sia frutto di confusione con una più antica leggenda relativa ad un omonimo Teodorico visigoto (due re di tal nome regnarono consecutivamente sui Visigoti in Spagna nel V secolo), che potrebbe aver davvero lasciato il regno di Ermanarico (morto di crepacuore nel 375 all’arrivo degli Unni) quando sulle rive del Mar Nero


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avvenne la dolorosa scissione fra Ostrogoti e Visigoti, per poi trovare accoglienza nelle multietniche schiere degli Unni, i cui re venivano chiamati tutti attila cioè piccolo padre, combattendo nel 403 con Alarico nella battaglia di Verona contro l’esercito romano guidato dal barbaro Stilicone, nel quale erano arruolati altri Germani, fra cui probabilmente anche dei Goti127. Tale racconto si è poi contaminato con il Niebelungenlied, redatto sulla base di versioni orali precedenti fra XII e XIII secolo in Austria, e perciò ambientato a Tulln sul Danubio alla corte di Attila, ma riguardante in origine la strage del popolo dei Burgundi, capeggiati dal re Gundahar (il Gunther della saga), avvenuta nel 436 a Worms sul Reno ad opera dell’esercito romano guidato dal generale unno Ezio (cioè attila nel senso di re), chiamato Etzel nella saga e confuso con Attila. Sulle inquietanti circostanze della morte di Teodorico si è poi formata un’altra leggenda, attestata visivamente dapprima da un rilievo in due formelle nella facciata di San Zeno a Verona (fig. 19), insieme firmato nel 1138 da maestro Nicolò e dall’assistente Guglielmo, con titulus esplicativo128: mentre stava facendo il bagno nudo, Teodorico vide un bel cavallo nero, saltato in sella al quale, indossando solo il mantello, si dette ad inseguire un cervo nella foresta sempre più fitta ed oscura, non riuscendo però a tenere a freno il cavallo ed accorgendosi così che si trattava del diavolo che lo stava portando all’Inferno. Questo racconto mi sembra suggestionato dalla vasca ‘da bagno’ vuota fuori dal mausoleo ravennate e dal monumento equestre che si inalberava ad Aquisgrana, nell’interpretazione negativa che ne aveva dato Valafrido Strabone. Nelle saghe germaniche successive, raccolte da uno scrittore norvegese intorno al 1260 a Bergen da racconti di mercanti tedeschi nella Thidrekssaga, le imprese di Dietrich von Bern alla corte di Attila vengono collegate con la morte nella diabolica caccia al cervo, la quale riceve però un finale positivo, perché prima di scomparire nella foresta Teodorico fa in tempo a gridare che ritornerà. In racconti tedeschi successivi si fantasticherà quindi sulla caverna entro una montagna in cui re Teodorico, assistito dagli gnomi su cui regna Laurino, attende il proprio ritorno sulla faccia della terra, analogamente a come si raccontava di Artù, che regnerebbe nell’Etna, o più tardi del Barbarossa e di Federico II. Queste narrazioni non facevano che adattare ai re di cui si conservava un ricordo positivo e di cui pertanto si sarebbe voluto che non fossero mai morti, l’immaginario dell’antica religione germanica, secondo la quale Wotan (Odino) regna dall’interno di una montagna129. Già lo storiografo del Barbarossa Ottone di Frisinga (1111-1158), nell’istituire nel suo De Duabus Civitatibus il collegamento fra la fine di Teodorico nel vulcano narrata da Gregorio Magno e la caccia al cervo della leggenda, si ren-


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deva conto delle incongruenze cronologiche fra i racconti sul Teodorico della leggenda e la realtà storica, cosa ragguardevole per un autore della metà del XII secolo: “Ob ea non multis post diebus, XXX Imperii sui anno, subitanea morte rapitur ac juxta Gregorii Dialogum a Ioanne et Simacho in Ethnam praecipitatus a quodam homine Dei cernitur. Hinc puto fabulam illam traductam qua vulgo dicitur Theodoricus vivus equo sedens ad inferos descendisse. Quod autem rursum narrant eum Hermanarico Attilaeque contemporaneum fuisse, omnino stare non potest, dum Attilam longe post Hermanaricum constet exercuisse tyrannidem istumque post mortem Attilae octennem a patre obsidem Leoni Augusto traditum”130. La metamorfosi di Teodorico nelle leggende tedesche, specie nel Singerkriec uf Wartburc (o modernamente Wartburgkrieg) redatto in Tirolo alla metà del XIII secolo, spiegano le devianze iconografiche rispetto ai rilievi di San Zeno a Verona in un affresco duecentesco con la caccia al cervo di “Dietrich von Bern” all’esterno della cappella castrense del Castello d’Appiano (Hocheppan) vicino a Bolzano, dove Teodorico è vestito di tutto punto anziché seminudo, il cavallo è bianco anziché nero e non si vede l’ingresso dell’Inferno (fig. 20)131. Tuttavia l’assenza di riferimenti specifici all’iconografia teodoriciana consente anche un’interpretazione alternativa dell’affresco come generica caccia al cervo, leggibile in chiave moraleggiante come tutte le scene venatorie che ricorrono nelle decorazioni scultoree delle facciate romaniche. Proprio l’ambiguità di questa raffigurazione sembra aver suggerito in un secondo momento, individuabile per motivi stilistici nel Trecento, di ridipingere parzialmente a secco la caccia del controverso Teodorico, trasformando la scena in un San Giorgio che uccide il drago, di cui si vede tuttora la testa cornuta vomitante fuoco trafitta dalla lancia. Mi sono dilungato su queste leggende intorno alla vita e alla morte di Teodorico non solo perché quelle più antiche possono essere state note a Ugo, o a chi allora ha commissionato il monumento (il nonno Ugo re di Provenza era infatti stato signore della parte meridionale del Regno dei Burgundi, la Borgogna, mentre la madre Willa può aver sentito cantare lo Hildebrandslied, essendo di una famiglia originaria della Franconia, il ducato dove si trovava Fulda), ma anche perché nella loro più inquietante versione sintetizzata da Ottone di Frisinga rivelano una somiglianza con la leggenda poi formatasi a riguardo della conversione di Ugo. Racconta il Villani (Nuova Cronica, IV, 2): “Advenne, come piacque a Dio, ch’andando lui a una caccia nella contrada di Buonsollazzo, per lo bosco si smarrì da sua gente, e capitò, a la sua avisione, a una fabbrica dove s’usa di fare il ferro”. Ma il notaio Andrea, che fornisce ulteriori particolari, spe-


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cifica che: “Dies iam declinabat; homines, canes et rapaces quietem petebant, dum marchio perfugientem cervum insequitur; et cum per dempsiorem silvam ingredietur, velocius ille fugit, et celum turbatur et nimbus obscurior nocte occupat aerem. Diffugiunt omnes, et metu tegmina petunt, ac magnanimus Ugo solus ad sinistram tendit: et cum domum aliquam desideraret, horrendam incurrit speluncam”132. Per tornare alle parole del Villani, “Quivi trovando huomini neri e sformati, che in luogo di ferro parea che tormentassero con fuoco e con martella huomeni, domandò che ciò era. Fugli detto ch’erano anime dannate: e che a simile pena era condannata l’anima del marchese Ugo per la sua vita mondana, se non tornasse a penitenza. Il quale con grande paura si racomandoe alla vergine Maria, e ciessata la visione rimase sì compunto di spirito, che, tornato in Firenze, tutto suo patrimonio de la Mangna fecie vendere, e ordinò e fecie fare sette badie…”. Galletti, seguito da Davidsohn, avanzò la supposizione che questa leggenda fosse stata ispirata dalla formula “Divine gratie munere et superne virtutibus auxilio a faucibus demoniace potestatis eruti…” ricorrente nelle arengae delle chartae offersionis dei tempi di Willa ed Ugo, formula presente anche nell’atto di fondazione della Badia Fiorentina del 978133. Ma è stato giustamente contraddetto da Falce, sia perché tale formula veniva usata anche prima e dopo di Ugo, per cui non si capisce perché la leggenda si sarebbe dovuta formare proprio su di lui, sia perché si tratterebbe di una leggenda “popolare”, e – come si sa – il popolo non legge i documenti in latino né ha accesso agli archivi134. Io sospetto invece che la cosiddetta leggenda popolare sia un mito di fondazione dell’abbazia di Santa Maria di Buonsollazzo in Mugello, che voleva far risalire la sua origine al marchese Ugo, e che l’idea della vita dissoluta e dedita ai piaceri della caccia di Ugo prima della conversione sia stata alimentata dal toponimo e dalle foreste che tuttora circondano quel monastero. In realtà l’esistenza della badia di Buonsollazzo è attestata documentariamente solo dal 1085, per cui la sua fondazione da parte di Ugo, accolta acriticamente nel 1491 da Lorenzo Ciati, nel 1589 da Michele Poccianti, nel 1591 da Francesco Bocchi e nel 1643 dal Puccinelli e supposta non completamente inventata da Calamai135, va secondo me decisamente respinta, trattandosi di una falsificazione monastica plausibile dopo che si era già formata l’opinione che Ugo avesse fondato cinque o sei abbazie, per cui queste potevano facilmente diventare sette, per espiazione dei sette vizi capitali. Per stabilire un terminus post quem per il formarsi della leggenda è pertanto utile ricordare che nei documenti pubblicati nel 2004 quest’abbazia è chiamata fra 1085 e 1099 di Forcolise o Forculise, nel 1123 di Bunzulacio e solo dal 1143 di “Bonosolatio”, dizione poi adot-


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tata ufficialmente con la bolla di Celestino II del 1144, dove è detta di “Bono Solacio”136. Probabilmente la leggenda si è formata dunque nel corso del XIII secolo, anche se non è escluso che ci si debba spingere fino al 1320, quando l’abbazia benedettina di Buonsollazzo fu concessa ai Cistercensi di Settimo, altro monastero creduto allora fondato da Ugo, dove infatti si conservava uno dei codici dell’epistola del notaio Andrea (oggi nella biblioteca del Seminario Maggiore di Cestello a Firenze, ms. B.I.5’). Comunque sia, se la leggenda di Buonsollazzo è stata forgiata da un monaco letterato (sul tipo di Cesario di Heisterbach) del Basso Medioevo, non è improbabile che egli conoscesse il passo citato di Ottone di Frisinga su Teodorico, servendosene come spunto per il racconto su Ugo ed arricchendo dottamente l’oscura cavità della grotta infernale con una fucina di diabolici fabbri, evocanti il ricordo di Dio Vulcano, che secondo gli antichi forgiava le armi degli Dei nell’Etna. Ma perché quel monaco avrebbe dovuto associare Ugo a Teodorico, se non per il fatto che entrambi sono stati tumulati in strane vasche? La stessa cosa era già successa, del resto, a proposito di Dagoberto II. Magari può averlo colpito anche il sinistro forziere metallico, in cui si poteva fantasticare che Ugo abbia voluto far rinchiudere il suo cadavere per paura che qualche diavolo se lo portasse via, come era successo a Teodorico e a Dagoberto II. Guido Tigler


142 NOTE 1 P. PUCCINELLI, Historia dell’eroiche attioni della gran dama Uvilla principessa della Toscana, duchessa di Spoleto e contessa di Camerino, Napoli 1643; Idem, Historia di Ugo principe della Toscana, Venetia 1643; Idem, Origo et progressus historicus, sive apparatus de illustribus Abbatiae Florentinae viris, Mediolani 1645; Idem, Cronica dell’insigne et imperial Abbadia di Fiorenza, Milano 1664; Idem, Historia dell’eroiche attioni di Ugo il Grande, duca di Toscana, Firenze 1664; Idem, Galleria sepolcrale dell’Abbadia di Firenze, Milano 1664; P.L. GALLETTI, Historia diplomatica Abbatiae (Florentinae) (ms.) citato da G.B. MITTARELLI, A. COSTADONI, Annales Camaldulenses, II, Muriani 1756, p. 162; Idem, Ragionamenti dell’origine e de’ primieri tempi della Badia Fiorentina, Roma 1773. 2 Le carte del monastero di S. Maria in Firenze (Badia), I: sec. X-XI, a cura di L. Schiaparelli con la collaborazione di F. Baldasseroni e R. Ciasca, Firenze 1913, ristampa anastatica (Regesta Chartarum Italiae 41), Roma 1990; II: sec. XII, a cura di A.M. Enriques, con Indice dei due volumi e Appendice di I. Lori Sanfilippo e R. Ninci (Regesta Chartarum Italiae 42), Roma 1990. La pubblicazione curata dalla Enriques Agnoletti, già pronta nel 1938, non vide subito la luce a causa delle leggi razziali e della fucilazione della studiosa nel 1944. 3 Willa, morta probabilmente nel 979 (cfr. Le carte cit., I, doc. 6, carta di vendita del 27.01.979, a p. 18: “a terra et palco qui fuet Guille marchionisse”), era figlia di Bonifacio duca di Spoleto e marchese di Camerino, morto nel 953, di stirpe salica. Il nome Willa (corrispettivo femminile di Wilhelm, che attraverso Wilihelmus/Wiligelmus/Vuiligelmus si trasforma in Italia in Guilhelmus e poi Guglielmo) lo si trova già in documenti coevi anche nelle forme Vuilla, Guilla o Guillia. Oltre alla nostra, vi erano un sorprendente numero di nobildonne franche, tutte in vario modo imparentate, di nome Willa tanto nella famiglia di Bonifacio di Spoleto (cfr. A. CALAMAI, Ugo di Toscana. Realtà e leggenda di un diplomatico alla fine del primo millennio, Firenze 2001, p. 275: albero genealogico) quanto in quella di Ugo di Toscana (ibidem, pp. 272-273: albero genealogico). Inoltre così si chiamava la madre di Ildebrando dei conti Aldobrandeschi, pure vissuta nella seconda metà del X secolo, invece di stirpe longobarda, essendo figlia di Landolfo duca di Benevento (cfr. P. CAMMAROSANO, Storia di Colle di Val d’Elsa nel Medioevo, I: Dall’età romanica alla formazione del Comune, Trieste 2008, p. 24). 4 Ugo era figlio del marchese Uberto, morto nel 969 (che negli anni Quaranta del X secolo era stato, oltre che marchese di Toscana, duca di Spoleto e marchese di Camerino), a sua volta figlio di re Ugo di Provenza e d’Italia, morto nel 948. Per le sue relazioni con la Badia Fiorentina, delineate dapprima da san Pier Damiani (1007-1072) nella sua Vita del marchese Ugo, da lui definito “magnus”, scritta verso il 1070 (ediz. cons. in Petri Damiani opera omnia, II, a cura di J.P. Migne, in Patrologia Latina, CXLV, Lutetiae Parisiorum 1853, pp. 825 ss.), cfr. R. DAVIDSOHN, Geschichte von Florenz, Berlin 1896 e ss., ediz. it. cons. Storia di Firenze. Le origini, Firenze 1909, ristampa anastatica Roma 2009, I, pp. 171-173; A. FALCE, Il marchese Ugo di Toscana, Firenze 1921, p. 84; A. GUIDOTTI, Ugo di Toscana, Firenze 1985; CALAMAI, Ugo cit., pp. 171-177. 5 Le carte cit., I, doc. 1. L’atto di vendita da parte di Adanaldo detto Amizo, figlio del fu Atripedo, di una terra con casa a Firenze, fu rogato il 15.09.967 a “Rimmiano”, identificata da Schiaparelli con Rignano sull’Arno. Cfr. anche S. PIERI, Toponomastica della valle dell’Arno, Firenze 1919, ristampa anastatica Sala Bolognese 1983, p. 151, per questa ed altre località dal nome simile, da lui fatto derivare dal prediale Herennianum.


143 6 Le carte cit., I, doc. 2. L’atto di vendita da parte di Zenobio (cioè Zanobi, nome che lo fa credere fiorentino) della fu Ingelrade (nome germanico) di un pezzo di terra con casa e con la “ecclesia cui vocabulum est Beati Sancti Stefani” a Firenze, fu rogato l’08.07.969 a Lucca, capoluogo del marchesato e probabile domicilio di Willa. Per la sede della curtis regia a Lucca cfr. I. BELLI BARSALI, Lucca guida alla città, Lucca 1988, p. 155. 7Questa chiesetta ad aula unica, che aveva orientamento Nord (facciata) - Sud (abside), occupava il sito adiacente l’odierno cortile d’ingresso, dove ora si trova la metà occidentale della quadrata Cappella di Santo Stefano (o Pandolfini) e il vano contiguo usato come negozio di ricordi della Badia, nei cui muri perimetrali non si vedono tracce medievali (vedi fig. 1 al n° 8 e fig. 3). Chiamata anche Santo Stefano del Popolo, perché alla fine del Duecento prima della costruzione di Palazzo Vecchio vi si riunivano i Priori delle Arti, eletti in conclave nella vicina Torre della Castagna, la chiesetta è raffigurata nel codice di Marco di Bartolomeo Rustici al Seminario Maggiore di Cestello a Firenze, databile fra 1448 e 1453, quando vi si accedeva dal fianco Ovest tramite una scalinata. Cfr. DAVIDSOHN, Storia cit., I, p. 172, tav. XVIII; A. COCCHI, Le chiese di Firenze dal secolo IV al secolo XX, I: Quartiere di San Giovanni, Firenze 1903, p. 108; W.-E. PAATZ, Die Kirchen von Florenz. Ein kunstgeschichtliches Handbuch, I, Frankfurt a. M. 1940, pp. 269, 301 nota 44; A. GUIDOTTI, Vicende storico-artistiche della Badia Fiorentina, in E. SESTAN, M. ADRIANI, A. GUIDOTTI, La Badia Fiorentina, Firenze 1982, pp. 47-270: 54-55. 8 Le carte cit., I, doc. 5. L’atto fu rogato il 31.05.978 a Pisa. Come informano i PAATZ (Die Kirchen cit., I, p. 295 nota 5), questo documento era stato erroneamente datato al 989 da Ughelli e Mabillon, ma ricondotto alla sua giusta datazione da G. RICHA (Notizie istoriche delle chiese fiorentine, Firenze 1754, I, p. 190), G.B. LAMI (Sanctae Ecclesiae Florentinae monumenta, Florentiae 1758, I, p. 87), GALLETTI (Ragionamenti cit., p. 104), G.B. UCCELLI (Della Badia Fiorentina. Ragionamento storico, Firenze 1858, p. 6) e altri. 9 DAVIDSOHN, Storia cit., I, pp. 171-172. 10 COCCHI, Le chiese cit., pp. 106-107; U. MIDDELDORF, W. PAATZ, Die gotische Kirche der Badia und ihr Baumeister Arnolfo di Cambio, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, III, 1919-32, 8 (1932), pp. 492-517: 492; cfr. anche PAATZ, Die Kirchen cit., I, pp. 265, 269. 11 Le carte cit., I, p. 12. 12 E. SESTAN, Il ‘Gran Barone’ Ugo marchese di Tuscia, in SESTAN-ADRIANI-GUIDOTTI, La Badia cit., pp. 5-12: 10; CALAMAI, Ugo cit., pp. 161-162. 13 Per le vicende architettoniche della Badia cfr. UCCELLI, Della Badia cit., pp. 31, 46; COCCHI, Le chiese cit., pp. 105-114; D.F. TARANI, La Badia Fiorentina. Conferenza storica, Firenze 1920, pp. 27, 30; MIDDELDORF-PAATZ, Die gotische Kirche cit.; PAATZ, Die Kirchen cit., I, pp. 264-318; A. DI GAETANO, Della Badia Fiorentina, Firenze 1951; GUIDOTTI, Vicende cit., pp. 47-102; C. COLOMBI, Nuove acquisizioni sul campanile della Badia Fiorentina, in “Bollettino degli ingegneri”, XXXIX, 1991, 12, p. 9; K. UETZ, La chiesa invisibile: riscoperta della medioevale Badia Fiorentina, 9691284, in “Bollettino degli ingegneri”, LII, 2004, 11, pp. 3-12; G. ROCCHI COOPMANS DE YOLDI, L’epoca arnolfiano-giottesca nella Badia Fiorentina e nel Bargello, in S. Maria del Fiore: teorie e storie dell’archeologia e del restauro nella città delle fabbriche arnolfiane, a cura di G. Rocchi Coopmans de Yoldi, Firenze 2006, pp. 113-123; A. LEADER, The Badia of Florence: art and observance in a Renaissance monastery,


144 Bloomington 2012. 14 Nella scelta dei preziosi materiali, il bianco di Carrara per la struttura e le specchiature, in serpentino verde di Prato nella zoccolatura e in Porfido Rosso nell’alzato, il monumento rende omaggio tanto alla tradizione fiorentina dell’incrostazione marmorea medievale quanto alla prima tomba di Ugo simile al porfido, di cui si parlerà più avanti. Sul catafalco è scritta la data di morte: “OBIIT AN(n)O SALUTIS MILLESIMO P(rim)O XII(esim)O KAL(endas)/ IANNUARIAS”. L’epitaffio, qui nuovamente trascritto, recita; “UGONI OTHONIS III IMPER(atoris) AFFINI AC/ COMITI MARCHIONI ANDEBURGENSI/ HATRURIAEQ(ue) PRAEFECTO Q(ui) DIVO BENEDICTO/ HOC OLI(m) ET SEX ALIA COENOBIA CO(n)DIDIT/ PII HUIUS LOCI MONACHI DE SE BENEMERITO/ SEPULCHRUM VETUSTATE ATTRITUM/ I(n)STAURAV(er)U(n)T. AN(n)O SALUTIS MCCCCLXXXI/ H(oc) M(onumentum) H(eredem) N(on) S(equetur)”. 15 UETZ, La chiesa cit., pp. 3-5, 10-11. 16 PUCCINELLI, Galleria cit., pp. 149-151. 17 DI GAETANO, Della Badia cit., pp. 25-26 fig. 34, tav. IV. 18 MIDDELDORF-PAATZ, Die gotische Kirche cit., p. 493; PAATZ, Die Kirchen cit., I, pp. 268-269, 301 nota 47. 19 UETZ, La chiesa cit., p. 7, che propone una dipendenza del campanile della Badia Fiorentina, secondo lei del 1030 circa, e di quello di Badia a Settimo, che a sua volta sarebbe stato influenzato da quello fiorentino, dalle torri scalari di chiese ‘ottoniane’ tedesche come San Pantaleone di Colonia o San Michele di Hildesheim, idea questa condivisa da M. GAMANNOSSI (L’abbazia di San Salvatore a Settimo. Un respiro profondo mille anni, Firenze 2013, pp. 79-84), che include nei confronti il campanile di Sant’Antonino a Socana in Casentino, datando quello di Badia a Settimo, distrutto nel 1944, al 1048-50 circa. Su questi argomenti (cui ho accennato in G. TIGLER, Toscana romanica, Milano 2006, pp. 305-306, relativamente a Socana) intendo tornare in altra occasione, così come sulla fase gotica della Badia. 20 Cfr. I. MORETTI, R. STOPANI, Architettura romanica religiosa nel contado fiorentino, Firenze 1974, pp. 115-135, per le chiese monastiche in area fiorentino-fiesolana; F. GABBRIELLI, All’alba del nuovo millennio: la ripresa dell’architettura religiosa tra il X e l’XI secolo, in L’architettura religiosa in Toscana: Il Medioevo, Firenze 1995, pp. 955, per una panoramica delle chiese primoromaniche in Toscana. Vi sono comunque anche delle eccezioni, che testimoniano l’adozione di altre tipologie in qualche chiesa monastica toscana: navata unica con due absidi contrapposte (San Bartolomeo a Subcastelli presso Sansepolcro); navata unica con presbiterio triabsidato su cripta (San Veriano e Badicroce nella valle del Cerfone presso Arezzo); navata unica con presbiterio monoabsidato su cripta (Badia a Ripoli presso Firenze). Ma si tratta di edifici non anteriori al pieno XI secolo. 21 Si userà qui sempre il termine marchese/marchesato invece di margravio/margraviato, ricalcato sul tedesco, più raro ed antiquato ma dal significato equivalente. Il toponimo “Tuscana”, usato come sostantivo, è attestato dapprima nel 937 come sinonimo di Tuscia. La Marca di Tuscia, i cui confini meridionali con il Patrimonium Petri variavano, includeva stabilmente i comitati di Città di Castello e Perugia. 22 A. MUCCI (La Badia. Manoscritto sull’abbazia di Campoleone a Castelluccio, Firenze s.d.), citato da F. GABBRIELLI (Romanico aretino. Architettura protoromanica e romanica religiosa nella diocesi medievale di Arezzo, Firenze 1990, p. 178 cat. 86), scrive che la chiesa “avrebbe avuto una pianta a croce latina, ad una sola navata, ampio


145 transetto sporgente, tre absidi separate tra loro e due torri di sezione quadrangolare ai lati della facciata”. La coppia di torri in facciata, frequente in età carolingia, ottoniana e salica in Germania e Normandia, si è conservata ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata e c’era pure a Farfa e a Montecassino. M. SALMI (L’architettura romanica nel territorio aretino, in “Rassegna d’arte”, XV, 1915, pp. 30-42: 34) scrive che l’abbazia “fu radicalmente trasformata; soltanto vi si vede la curva delle absidi laterali (la centrale scomparve) amplissime come quelle di Farneta, con le quali rivelano analogia costruttiva e icnografica”, lasciandoci così nel dubbio se anche qui vi fossero dei triconchi, cosa però poco plausibile alla luce della descrizione di Mucci. L’abbazia fu distrutta nel 1214 dal Comune di Arezzo e nel 1527 dalle milizie di Carlo di Borbone e al suo posto nel Settecento sorse una villa, oggi sede del Relais Badia Campoleone, attualmente in corso di ristrutturazione, cui ho chiesto di accedere (Gabbrielli non aveva potuto visitare il sito). 23 Cfr. G. TIGLER, Scultura e pittura del Medioevo a Treviso, I: Le sculture dell’Alto Medioevo (dal VI secolo al 1141) a Treviso, nel suo territorio e in aree che con esso ebbero rapporti. Tentativo di contestualizzazione storica, Trieste 2013, pp. 211-213. 24 Cfr. F. BORSI, La Badia Fiesolana: cultura e architettura, in F. BORSI, G. LANDUCCI, G. MOROLLI, E. BALDUCCI, La Badia Fiesolana, Firenze 1976, pp. 3-36: 56; MOROLLI, La Badia Fiesolana, lettura del monumento, ibidem, pp. 37-103: 45 ss.; TIGLER, Toscana cit., p. 293. 25 Cfr. H. SAALMAN, The Church of Santa Trinita in Florence, Pittsburg 1966, le cui conclusioni sono state recentemente riesaminate da C. BELLINI, La chiesa di Santa Trinita a Firenze nella fase romanica, tesi triennale, Università di Firenze AA. 2014-15, rel. G. Tigler. 26 S. ACOMANNI e R. MATTEI (San Salvatore a Settimo: testimonianze cluniacensi e cistercensi, in Storia e arte dell’abbazia cistercense di San Salvatore a Settimo a Scandicci, atti della giornata di studio (Badia a Settimo 1986), a cura di G. Viti, Firenze 1995, pp. 11-21 : 15) hanno interpretato come fondazione del muro occidentale del braccio sinistro del transetto un reperto segnato in una pianta di scavi del 1976 sotto al pavimento della navatella Nord, dall’andamento perpendicolare rispetto allo stilobate sinistro. Di conseguenza la prima chiesa degli anni 998-1011 sarebbe stata a navata unica con transetto a croce commissa. Non concorda M. FRATI (Resti e contesti. Le tracce dell’abbaziale protoromanica di San Salvatore a Settimo nel quadro della premier art romane (sic), in “De Strata Francigena”, XVIII, 2012, 2, pp. 81-111: 83-85), che giudica quella fondazione troppo sottile in confronto alle altre per aver sostenuto un muro portante, tornando dunque all’opinione tradizionale che la chiesa costruita fra 998 e 1011 fosse fin dall’inizio a tre navate, come pensa anche GAMANNOSSI (L’abbazia cit., pp. 61-62). Secondo me la sottile fondazione, parallela ai muri perimetrali Est e Ovest della chiesa, può essere riferita ad un tratto della recinzione presbiteriale del coro dei monaci, che nella navata centrale sporgeva probabilmente più verso Ovest. La muratura dell’absidiola sinistra superstite e del fianco Nord (per come appariva in foto precedenti al restauro Niccoli e al crollo del campanile che l’ha travolto nel 1944) sembra sostanzialmente simile a quella della parte cilindrica del campanile, la cui datazione è ancorata all’abbaziato di Guarino (in carica già prima del 1011 e morto dopo la metà del secolo) e alla committenza del conte Guglielmo il Bulgaro dei Cadolingi, che fece una donazione al monastero il 07.12.1048 (Carte della Badia di Settimo e della Badia di Buonsollazzo nell’Archivio di Stato di Firenze (998-1200), a cura di A. Ghignoli e A.R. Ferrucci, Firenze 2004, doc. 9), visto che la lapide che ricorda la costruzione del campanile li ricor-


146 da entrambi, pur non fornendo alcuna data d’inizio dei lavori. Si può concordare coll’opinione di Augusto Campana ed Adriano Peroni, accolta da Frati e Gamannossi, che pertanto il campanile sia stato costruito attorno al 1048, in anni cruciali per l’abbazia, come dimostrano anche il privilegio di Enrico III del 1047 (ibidem, doc. 8) e la bolla di Leone IX del 1049 (ibidem, doc. 10). Ritengo però che a questi anni debba essere posticipata anche la chiesa odierna, inclusa l’intera cripta tripartita, per la quale Cinzia Nenci aveva ipotizzato poco convincentemente una anteriorità del settore centrale rispetto a quelli laterali. Invece la chiesa privilegiata da Ottone III nel 998 (ibidem, doc. 1), che era già sede di monastero nel 1011, quando ottenne una donazione territoriale (ibidem, doc. 2) – monastero poi privilegiato da Enrico II nel 1014 con un diploma che ricorda il fondatore dell’abbazia Lotario dei conti Cadolingi (ibidem, doc. 3) –, immagino che fosse una più piccola aula unica preesistente, presso la quale già nel 998 i Cadolingi devono aver deciso di istituire un’abbazia, poiché altrimenti non si sarebbero muniti di un privilegio imperiale. Penso debba essere riabilitata anche la credibilità di un documento del 988, pervenuto in copia trecentesca (ibidem, Appendice, doc. 1), che viene invece giudicato falso nell’edizione del 2004 (ibidem, pp. XXXIX-XLI, 253-255), ma che proprio per gli errori nella trascrizione dei nomi mostra di dipendere da una pergamena di quel periodo: con questo atto un conte Adimaro (ma in realtà Adalberto, conte di Bologna, fratello di Willa madre di Ugo di Toscana), che si dichiara figlio del marchese Bonifacio, a sua volta figlio del fu Rubaldo (recte Ubaldo), conferma al prete Cuberto, custode della chiesa di San Salvatore a Settimo, il possesso dei beni concessi ad essa dal padre e dal nonno, nominative le chiese di San Martino alla Palma e San Donato a Lucardo. Queste offersioni, risalenti per quanto riguarda quelle del duca di Spoleto e marchese di Camerino Bonifacio alla prima metà del X secolo, riguardavano una Eigenkirche già esistente, che possiamo immaginare fondata in età longobarda o carolingia se non prima – come fa pensare l’arcaica intitolazione al Salvatore – dai signori del posto, non necessariamente identici con i Cadolingi. 27 Per la datazione dell’attuale cripta e chiesa di San Miniato alla seconda metà dell’XI secolo e non al 1014 cfr. TIGLER, Toscana cit., pp. 156-162. 28 Cfr. G. TIGLER, La Pieve di Gropina e il suo pulpito romanico nel quadro degli studi sull’architettura e la scultura del Medioevo nelle diocesi di Arezzo e Fiesole, in “De Strata Francigena”, XXVIII, 2015, 2 (Architettura romanica e viabilità: il contado fiorentino), pp. 49-91: 72-78, con nuova proposta di datazione delle tre fasi costruttive della chiesa rinvenute negli scavi. Per la relazione fra la costruzione delle chiese rurali e l’incremento demografico cfr. R. FARINELLI et alii, Chiese e popolamento nella Tuscia dell’Alto Medioevo. Un approccio quantitativo alla documentazione diplomatica altomedievale del monastero di San Salvatore al Monte Amiata, in Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali della Toscana (V-X secolo), Atti del convegno (San Giovanni d’Asso, Montisi 2006), Borgo San Lorenzo 2008, pp. 297-336. 29 Le carte cit., I, doc. 8. L’atto fu rogato il 27.04.995 a Lucca. Per la località di Luco cfr. V. CIMARRI, Reggello. Il territorio e la sua storia. Luoghi e percorsi medievali, Poggibonsi 2003, pp. 81-82. 30 Le carte cit., I, doc. 11. L’atto fu rogato nel gennaio del 997 a Foci o Fosci in Valdelsa, non lontano dall’odierna Campiglia dei Foci sull’omonimo torrente, nel territorio comunale di Colle Val d’Elsa (altri beni della Badia Fiorentina a Colle Val d’Elsa vennero allivellati nel novembre 995, con atto rogato a Firenze, ibidem, doc. 9). Secondo PUCCINELLI (Cronica cit., pp. 214-216), seguito da GALLETTI (Ragionamenti cit., pp. 5455), UCCELLI (Della Badia cit., p. 6) e DAVIDSOHN (Storia cit., I, p. 203) la Bibbiano


147 menzionata in quest’atto e in quello del 978 (vedi nota 8) sarebbe quella valdelsana in diocesi di Volterra, la cui chiesa era intitolata a San Niccolò. Come ricorda E. REPETTI (Dizionario geografico fisico storico della Toscana, I, Firenze 1833, pp. 308-310) ci sono almeno sette località di nome Bibbiano in Toscana, per cui è incerto se le carte della Badia Fiorentina del 978 e 995 si riferiscano a quella valdelsana (cui per la menzione della diocesi volterrana sono da collegare indubbiamente documenti del 994 e del 1266), a quella chiantigiana nel piviere di Santa Cristina di Ligliano presso Castellina o a quella nei pressi di Pelago. A quest’ultima, dove si trova una chiesa di San Martino, Repetti è propenso a riferire cautamente l’atto del 997, dove viene menzionata una chiesa con tale nome, ipotesi in seguito ribadita con più forza da R. NINCI (Le proprietà della Badia Fiorentina: problemi di identificazione, in Le carte cit., II, pp. 319-348 :. 324-327), che collega con Bibbiano in Valdelsa i documenti della Badia Fiorentina del 972 (Le carte cit., I, doc. 3), 996 (ibidem, doc. 10), 1036 (ibidem, doc. 41), 1240 e 1266, e con Bibbiano presso Pelago fra Valdarno Superiore e Valdisieve i documenti del 978 (ibidem, doc. 5), dove si specifica che quel castello faceva parte dei beni di Willa nel contado fiorentinofiesolano, del 997 (con menzione della chiesa di San Martino ma non della diocesi o del contado) e nei privilegi imperiali del 1002 (ibidem, doc. 15), 1012 (ibidem, doc. 21) e 1030 (ibidem, doc. 28) nonché nelle successive bolle papali. Secondo Luciana Cambi Schmitter la Bibbiano dove si trovano possedimenti dell’abbazia di Marturi (Poggibonsi), registrati nel falso atto di fondazione di quel monastero da parte di Ugo di Toscana datato 25.07.998, riferibile invece alla fine dell’XI secolo (Carte della Badia di Marturi nell’Archivio di Stato di Firenze (971-1199), a cura di L. Cambi Schmitter, Firenze 2009, p. 46 nota 44), sarebbe quella in piviere di Santa Cristina di Ligliano, ma mi domando se non si tratti piuttosto di Bibbiano sul Foci. Non vi sono dubbi sull’identificazione dell’omonima località menzionata nell’atto rogato a Firenze nel gennaio del 1001, con cui Giovanni del fu Giovanni detto Bonizo dona alla Badia Fiorentina una casa con dipendenze “in loco Bibbiano, ubi et Calcinaria vocatus, plebe Sancti Iohanni sito Lago” (Le carte cit., I, doc. 14, a p. 44), che il REPETTI (loc. cit., p. 310) collega giustamente con una perduta località fra Santa Maria a Monte e l’Arno, che però non identifica con Calcinaia in diocesi di Pisa, poiché quella frase del documento non compariva nella trascrizione da lui utilizzata, tanto è vero che nella voce Calcinaia (loc. cit., p. 386) non menziona il documento del 1001 ma quello del 15.10.975, quando il vescovo di Pisa Alberico “diede in enfiteusi ai due figli del marchese Oberto, conte di palazzo di Ottone I, la chiesa plebana di San Giovanni Battista e San Pietro a Vico Vitri…”, identificando Vico Vitri con Calcinaia. In questo luogo dell’Alto Medioevo si era formato un lago prodotto dallo straripamento dell’Arno, menzionato nell’atto del 1001, e la pieve ricostruita modernamente si chiama San Giovanni Battista, per cui è sicuramente sbagliata l’identificazione con la Bibbiano nel Mugello, in piviere di San Gavino Adimari e senza lago, ventilata da Ninci. 31 SCHIAPARELLI, in Le carte cit., I, p. 25. Il passo in questione (ibidem, pp. 26-27) recita: “id est casa et curte mea illa domnicata qui dicitur Lucho [correzione al posto di “Vicclo”] cum castello illo qui ibi est edificatum et cum ecclesia Beati Sancti Clementi [correzione al posto di “Sancti Michaelis”] ibi constructa, una cum terris et vineis seo domnicato illo qui a ipsa curte pertinet et cum duo centi et octo [correzione al posto di “septuaginta”] inter casis et cassinis seo rebus massariciis qui ad suprascripta curte et ecclesia seo castello sunt pertinentibus”. Secondo l’illustre paleografo e diplomatista il notaio sarebbe stato incaricato di attenersi ad una donazione dello stesso Ugo alla Badia Fiorentina relativa a “Vicclo”, che fraintendendo l’ordine avrebbe inizialmente trascritto


148 in modo integrale, compresi il toponimo, il nome della chiesa e le indicazioni numeriche su case e cascine, per poi rendersi conto in un secondo momento che avrebbe dovuto sostituire quei dati, cosa che avrebbe poi fatto correggendosi. L’idea si regge sull’osservazione dell’identità di calligrafia nel testo originario e nelle correzioni. È opportuno avvisare che l’atto è conservato all’Archivio di Stato in tre documenti, segnati “Regesto, tomo 49, c.3v”, di cui solo l’originale presenta le menzionate correzioni mentre gli altri due ne sono privi e sono dunque copie successive (quella in più bella calligrafia è riprodotta in CALAMAI, Ugo cit., copertina e figg. alle pp. 124-125). La spiegazione di Schiaparelli è stata accettata da FALCE (Il marchese cit., pp. 113-115) e CALAMAI (loc. cit., p. 176). In ogni caso “Vicclo” deve essere stata assegnata alla Badia Fiorentina prima del 1002, quando Ottone III ne confermava il possesso al monastero (Le carte cit., I, doc. 15, p. 46). Figura inoltre fra i beni restituiti nel 1009 dal marchese Bonifacio (ibidem, doc. 19, p. 53) e fra le località del contado fiorentino-fiesolano in cui si trovavano terreni concessi nel 1031 dall’abate Pietro all’ospizio della Badia allora da lui fondato (ibidem, doc. 35, p. 88); compare poi nella lista dei castelli della Badia nei privilegi imperiali del 1012, 1030, 1074 e in quelli papali del 1067-68, 1070, 1176, 1188 (ibidem, docc. 21. 28, 65, 73, 103; Le carte cit., II, docc. 155, 199, 225), per i quali si veda qui la nota 36. 32 Alla località valdelsana pensava GALLETTI (Ragionamenti cit., p. 113), seguito da DAVIDSOHN (Storia cit., p. 172), mentre si avvicinava alla giusta soluzione UCCELLI (Della Badia cit., p. 7 nota 3), parlando confusamente di Vico l’Abate in Valdelsa. Alla località mugellana pensava invece M. BOTTERI TOGNETTI (L’antroponomia delle carte (sec. X-XI) del monastero di Santa Maria di Firenze, Firenze 1985, ad vocem). La confusione è originata dal fatto che il termine vicus (paese) e il diminutivo viculus hanno dato luogo in Toscana a numerosi toponimi, registrati dal REPETTI (Dizionario cit., V, 1843, pp. 754 ss.) e dal PIERI (Toponomastica cit., p. 362). 33 Dopo che vi erano già arrivati per diversi motivi Guido Carocci, Elio Conti e Riccardo Francovich, la questione è definitivamente chiarita da NINCI (Le proprietà cit., pp. 320, 331-336, 346-348), che approfondisce anche le vicende duecentesche di Vico l’Abate, che videro il progressivo distacco del castello dalla giurisdizione abbaziale che gli ha dato il nome, nome a torto invece collegato da REPETTI (Dizionario cit., V, p. 754) con la vicina badia di Passignano. 34 Nel documento del 1074 (Le carte cit., I, doc. 100, p. 254) sono ricordate anche le “sortes in loco Marcillano et in loco qui dicitur Ripe et in Tolano et in loco qui nominatur Succlelli”; in quello del 1149 (Le carte cit., II, doc. 176, p. 176) sono ricordate come suffraganee della pieve “Sancti Stefani de Campo Pauli” due cappelle, “una scilicet extra castrum de Viclo, in honore Sancti Michaelis consacrata, et altera infra castrum, Sancti videlicet Nicolai”. Per lo meno da quell’anno, oltre alla chiesa di San Michele Arcangelo sul colle, c’era dunque anche una oggi distrutta chiesa di San Niccolò entro le mura del castello. 35Le carte cit., I, doc. 15. Il diploma, emanato l’08.01.1002 a Paterno vicino Roma, menziona fra le località appartenenti alla Badia, di cui riserva l’usufrutto a Giuditta, vedova di Ugo: “nominative castellum de Segna, Greve, Viclo, Bibiano, Luco, Cedeca…”, cioè Signa, Scandicci, Vico l’Abate, Bibbiano presso Pelago, Luco di Reggello e Cetica in Casentino. 36 Imperatori: Enrico II nel 1012 (Le carte cit., I, docc. 21-22), Corrado II nel 1030 (ibidem, doc. 28), Enrico IV nel 1067-68 in una minuta non utilizzata (ibidem, doc. 64) e nel 1074 (ibidem, doc. 103); pontefici: Alessandro II nel 1067-68 in una minuta non utiliz-


149 zata (ibidem, doc. 65), ancora Alessandro II nel 1070 (ibidem, doc. 73), Pasquale II nel 1107 (Le carte cit., II, doc. 155), Alessandro III nel 1176 (ibidem, doc. 199), Clemente II nel 1188 (ibidem, doc. 225). Significativamente, come in altri casi, le bolle papali iniziano a prendere sotto la protezione della Santa Sede l’abbazia per emulazione dell’Impero a partire dai decenni in cui si fa strada la cosiddetta Lotta per le Investiture. In seguito queste attestazioni di immunità rispetto a qualsiasi autorità locale sarebbero state usate dalla Badia per difendersi dalle ingerenze del Comune di Firenze, che chiedeva anche ai monasteri il pagamento delle tasse, come è successo nel 1307, generando il tumulto popolare che portò alla distruzione della parte superiore del campanile (vedi qui nota 84). 37 Le carte cit., I, pp. 46-47. 38 Secondo Leone Ostiense o Marsicano, cronista di Montecassino e biografo dell’abate Desiderio, Ugo avrebbe fondato cinque non specificate abbazie, in cui avrebbe ospitato una parte dei monaci di Montecassino, esuli dalla casa madre benedettina quando i principi di Capua imposero come abate Mansone, fatto datato dalla storiografia moderna fra 988 e 995; secondo san Pier Damiani, biografo di san Romualdo e dello stesso Ugo, quest’ultimo avrebbe fondato sei abbazie, una delle quali è quella fiorentina. Secondo Giovanni Villani (Nuova cronica, ediz. cons. a cura di G. Porta, Parma 1990) e la fantasiosa biografia di Ugo del notaio Andrea del 1345 (Epistula Andree notarii florentini domino Niccolao abbati monasterii Sancte Marie de Florentia de hedificatione dicti monasterii, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Conv. D. 8. 2851, pubblicata da A. GAUDENZI, Una romanzesca biografia del marchese Ugo di Toscana, in “Archivio storico italiano”, s. V, XXXVIII, 1906, pp. 261-290) le abbazie fondate da Ugo in Toscana sarebbero sette, una per rimedio di ognuno dei peccati capitali, cioè nell’ordine quella di Firenze, quella di Buonsollazzo, quella di Arezzo (da identificarsi con Capolona), quella di Poggibonsi (cioè Marturi), quella della Verruca sopra Pisa, quella di Petroio, oggi Petroia, vicino a Città di Castello e quella di Settimo fuori Firenze. Di queste la storiografia moderna accetta come fondazioni di Ugo solo Marturi e Capolona, come argomenta FALCE (Il marchese cit., p. 75), che aggiungeva anche la Vangadizza a Badia Polesine nell’odierna provincia di Rovigo, invece considerata oggi beneficiata nel 961 dall’omonimo marchese di Toscana Ugo figlio di Oberto di Suppo ma effettivamente fatta oggetto di donazioni da parte del nostro Ugo di Uberto di Ugo nel 993, 996 e 997 (cfr. B. BAUDI DI VESME, Dai Supponidi agli Obertenghi, in “Bollettino storicobibliografico subalpino”, XXII, 1920, pp. 220-224; SESTAN, Il ‘Gran Barone’ cit., pp. 7, 10; CALAMAI, Ugo cit., pp. 93-98, 181-185). Ma, come vedremo, l’unica sua fondazione ex novo è quella di Capolona. 39W. KURZE, Die Gründung des Klosters Marturi im Elsatal, in “Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken”, XLIX, 1969, pp. 239-272, ediz. it. Gli albori dell’abbazia di Marturi, in Idem, Monasteri e nobiltà nel Senese e nella Toscana medievale. Studi diplomatici, archeologici, genealogici, giuridici e sociali, Siena 1989, pp. 165-201. Per la carta di offersione che pretende di essere stata rogata a Lucca il 12.07.970 ma è databile alla seconda metà dell’XI secolo cfr. ora Carte della Badia di Marturi cit., doc. 1. 40 Carte della Badia di Marturi cit., doc. 2, che pretende di essere stata rogata nel castello di Marturi nel 998 ma è databile alla seconda metà dell’XI secolo. 41 Cfr. G. TABACCO, La Vita di san Bononio di Ratberto monaco e l’abate Guido Grandi, Torino 1934; Idem, voce Bononio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma 1960, pp. 358-360. L’opinione che si tratti di un falso ascrivibile all’abate camaldolese Guido Grandi, cioè proprio dell’erudito che nel 1730 ne annunciò il ritrovamento,


150 si deve a Gerhard Schwartz, che pubblicò la Vita Bononii nelle Fälschungen dei Monumenta Germaniae Historica. Sarebbe invece affidabile un’altra, anonima, biografia di san Bononio, redatta poco dopo la sua morte nell’abbazia piemontese di Lucedio. Secondo l’anonimo, Bononio alla metà del X secolo si fece monaco nell’abbazia di Santo Stefano a Bologna (intitolata ai luoghi santi di Gerusalemme, cosa che potrebbe averlo stimolato al successivo pellegrinaggio), da dove partì per l’Egitto, dove avrebbe riparato chiese e fondato un monastero benedettino e dove avrebbe usato il suo influsso sul califfo per ottenere la liberazione del vescovo di Vercelli Pietro, caduto prigioniero in una battaglia identificabile con quella di Capo Colonne del 982. Tornato in patria, il vescovo Pietro chiamò Bononio alla guida dell’abbazia di Lucedio in diocesi di Vercelli, poi aggredita da Arduino di Ivrea (come oggi si pensa, nel 997), così che Bononio si vide costretto a trovare riparo in Toscana, invitato da Ugo a reggere l’abbazia di Marturi, dove sarebbe morto. Invece, stando al falso rotbertiano, Bononio sarebbe stato prima inviato in Toscana, in risposta alla richiesta di Ugo, dall’eremo di Pereo a Nord di Ravenna, da parte di san Romualdo, che sappiamo aver fondato quel romitorio nel 995. Dopo aver riformato assieme ad altri tre monaci di Pereo l’abbazia di Marturi, alla morte di Ugo (1001) Bononio si sarebbe recato in Egitto, per concludere la sua vita a Lucedio. Lo smascheramento della falsificazione ha anche la conseguenza di far venire a mancare la più autorevole attestazione di una volontà riformatoria in accordo con san Romualdo alla base della politica monastica di Ugo. Tale intento riformatorio pareva inoltre confermato dalla dura requisitoria contro la simonia contenuta nell’atto di fondazione di Marturi del luglio 998, che però si è pure rivelato essere un falso della seconda metà dell’XI secolo (cfr. FALCE, Il marchese cit., pp. 49-50, contraddetto da CALAMAI, Ugo cit., pp. 163170). Ma vedi qui nota 74. 42Le carte della Badia di Marturi cit., doc. 3, rogato a Marturi. 43Come riassume CALAMAI (Ugo cit., p. 193): “un certo Azzo figlio di Pietro avrebbe ucciso suo fratello Ugo, ne avrebbe sposato la moglie, cioè sua cognata, e ne avrebbe incamerato tutti i beni. A questo punto Guinizo, figlio dell’ucciso, avrebbe chiesto l’aiuto del marchese Ugo e avrebbe ceduto a lui tutti i suoi beni di Papaiano, col diritto di mantenerli a vita in usufrutto. Dopo tali avvenimenti, sempre secondo la ‘Narrazione’, Ugo avrebbe edificato il monastero e lo avrebbe dotato dei beni acquisiti”. Su queste vicende cfr. anche M. RONZANI, Un monastero valdelsano e la sua documentazione nei secoli XI e XII: osservazioni e spunti di ricerca alla luce dell’edizione delle ‘Carte della Badia di Marturi’, in “Miscellanea storica della Valdelsa”, CXVIII, 2012, 1-3, pp. 81120: 83-86. La canonica di Sant’Andrea a Papaiano, databile fra XI e XII secolo, presenta la tipologia diffusa nelle chiese abbaziali toscane, con una navata a croce commissa e originariamente transetto triabsidato, di cui è perduto il braccio sinistro e la relativa abside, cfr. MORETTI-STOPANI, Architettura cit., pp. 140, 144 (fig. 158), 147 (pianta), 212, 213. 44 M. VALENTI, La collina di Poggio Imperiale a Poggibonsi, in “Miscellanea storica della Valdelsa”, CIV, 1998, pp. 9-40: 30. A riprova di questa datazione altomedievale viene citato anche un elenco di perdute bolle papali nella bolla indirizzata nel 1068 da Alessandro II all’abbazia di Marturi: “Confirmamus autem prefato venerabili monasterio quicquid nunc tenet vel deinceps acquisiturus est […] ab antecessoribus nostris, videlicet Stefano, Adriano, Iohanne, Formoso” (L. CAMBI SCHMITTER, Introduzione, in Carte della Badia di Marturi cit., p. 16). 45 Le carte cit., I, doc. 3. Per l’identificazione di Collina cfr. I. LORI SANFILIPPO-R. NINCI, Indice dei nomi di luogo, in Le carte cit., II, p. 272, che in alternativa propongo-


151 no meno plausibilmente San Quirico in Collina presso Montespertoli. 46 Vedi qui note 30 e 59. 47 Le carte cit., I, doc. 47, p. 125, doc. 57, p. 144. 48 Le carte cit., I, doc. 10, p. 32. Questa Adaleta (da Adelheid), omonima della moglie di Ottone I e zia di Ugo, pur non comparendo nelle genealogie della famiglia di Willa e di quella di Ugo pubblicate da Calamai (vedi qui nota 3), potrebbe essere stata comunque imparentata con loro, oppure aver fatto una rilevante donazione, di cui però si è persa la memoria, alla Badia Fiorentina, poiché altrimenti non si spiegherebbe perché vi sia stata sepolta, privilegio allora concesso assai di rado in un’abbazia benedettina, eccetto che in un Eigenkloster. 49 CALAMAI, Ugo cit., p. 177, che ipotizza che Ugo non potesse disporre liberamente di quei beni per qualche ignoto motivo. 50 Le carte cit., I, docc. 40-41. L’identità della donatrice con la Imma (o Emma) del 996 è già chiara a NINCI, Le proprietà cit., pp. 323-324. 51 Carte della Badia di Marturi cit., doc. 3, pp. 56-57. 52 Non ho però reperito né questa Ghisla né Adaleta fra le donne della famiglia dei conti Guidi o fra le loro mogli, ricordate da N. RAUTY, Documenti per la storia dei conti Guidi in Toscana: le origini e i primi secoli 887-1164, Firenze 2003. Il nome Adaleta ricorre tuttavia in diverse varianti in successive attestazioni documentarie dei Guidi, casato che ai tempi di Matilde di Canossa avrebbe avuto importanza nell’area di Poggibonsi, anche in conflitto coll’abbazia di Marturi (cfr. RONZANI, Un monastero cit., pp. 98-100). Intorno al 1000 capofamiglia dei Guidi era Guido II, documentato fra 992 e 1039, ma anche questo nome era diffuso nella nobiltà toscana dell’epoca. 53 Le carte cit., I, doc. 4. 54 Per i toponimi toscani derivanti da aqua cfr. PIERI, Toponomastica cit., p. 301. Sospetto che anche il toponimo Aglione/Aglioni, che Lami e Repetti facevano derivare da “ad leones” e Pieri dai nomi di persona Al(l)io o Alionius (ibidem, pp. 68-69), possa venire da aqua – sempre che non sia semplicemente riconducibile alla pianta dell’aglio –, così come il toponimo Guiglie/Guigli, che Pieri fa invece discendere dal nome Aquilius (ibidem, p. 70); entrambe le forme ricordano aquiliae, cioè acquette, da confrontare coll’etimologia di L’Aquila in Abruzzo. 55 P. F. KEHR, Etruria (Regesta Pontificum Romanorum. Italia pontificia 3), Berolini 1908, pp. 51, 166, seguito da altri. Per la fortuna critica cfr. CALAMAI, Ugo cit., p. 186. 56 M. BINI, S. BERTOCCI, R.M. MARTELLACCI, Emergenze e territorio nell’Aretino, I, Firenze 1991, p. 13. 57 Come pensa P.A. SODERI (Il territorio di Capolona attraverso i secoli, Arezzo 1975, p. 26), riferendosi alla testimonianza di Leone d’Ostia, che però non parla esplicitamente di Capolona (vedi qui nota 38). 58 U. PASQUI, Documenti per la storia della città di Arezzo nel Medioevo, I, Firenze 1899, pp. 91, 118. Inoltre nel privilegio di Corrado II del 1026 (ibidem, pp. 123-124) viene menzionata come cofondatrice anche la moglie di Ugo, Giuditta, salica e parente dell’imperatore: “monasterio quod Hugo marchio et consanguinea nostra coniux Judith a fundamento construere fecit […] in comitatu aretino, in castello de Campileonis”. 59 A. FATUCCHI, Le chiese aretine scomparse: San Martino di Bibbiano (Capolona), in “Brigata aretina degli amici dei monumenti. Bollettino d’informazione”, XXIV, 1987, 44, pp. 8-9, che identifica il nome della chiesa in base all’elenco delle decime del 1302-03. 60 FALCE, Il marchese cit., p. 151; W. KURZE, Monasteri e nobiltà nella Tuscia altomedievale, in atti del V Congresso internazionale di studi sull’Alto Medioevo (Lucca


152 1971), Spoleto 1973, pp. 339-362 : 352, 356. CALAMAI (Ugo cit., p. 186) propende per una datazione della “reale” fondazione da parte di Ugo fra 972 e 988. 61 Cfr. CALAMAI, Ugo cit., p. 187. 62 Cfr. G. MASSOLA, San Bononio riformatore, tra Lucedio e Marturi, in “De Strata Francigena”, XVII, 2009, 1-2, pp. 151-189: 166. 63 Cfr. FALCE, Il marchese cit., pp. 119, 123; H. SCHWARZMAIER, Lucca und das Reich bis zum Ende des 11. Jahrhunderts, Tübingen 1972, pp. 252-253; CALAMAI, Ugo cit., pp. 171, 235. 64 Le carte cit., I, doc. 2 (vedi qui nota 6). La Porta di San Pietro è menzionata anche nella carta del 27.01.979 con cui Gisaltrude, detta Bellinda, della fu Bruniperga vendeva a Pietro del fu Alberto case e terre a Firenze nelle vicinanze di quella porta urbica, in seguito evidentemente passate alla Badia (ibidem, doc. 6, vedi qui nota 3). Secondo DAVIDSOHN (Storia cit., II, pp. 1367-1368) l’attestazione documentaria del 969 dimostrerebbe l’esistenza già prima di quell’anno della chiesa di San Pier Maggiore fuori dalla Porta di San Pietro, la quale avrebbe preso il nome della chiesa. Sospetto invece che le cose siano andate inversamente, cioè che la porta abbia preso il nome dal fatto che da qui si usciva da Firenze per andare in pellegrinaggio alla Basilica di San Pietro a Roma e che in seguito fuori da quella porta sia stata fondata un’omonima chiesa, destinata forse in origine a ospizio di pellegrini. La chiesa di San Pier Maggiore, dove poi sarebbe stato istituito un monastero benedettino femminile consacrato nel 1067 e di nuovo nel 1068, è stata menzionata dapprima da Lorenzo d’Amalfi nella sua Vita di san Zanobi, databile verso il 1036, in cui viene raccontato il miracolo della resurrezione di un bambino operato dal santo vescovo, in carica ai primi del V secolo, localizzato a metà strada fra la Porta di San Pietro e la chiesa di San Pier Maggiore nell’odierno Borgo degli Albizi, dove una croce viaria commemorava l’evento, analogamente all’altra croce viaria in Piazza del Duomo, relativa al miracolo dell’olmo rifiorito al passaggio del corpo del santo traslato da San Lorenzo in cattedrale. La Chronica de origine civitatis, databile al 1228 circa, fa poi di San Pier Maggiore una delle chiese più antiche della città, fondata dopo la distruzione da parte di Totila, confuso con Attila, in posizione extraurbana analoga a quella di San Pietro in Vaticano a Roma. Cfr. PAATZ, Die Kirchen cit., IV, 1952, pp. 629, 642. Un particolare rivelatore mi fa pensare invece che il miracolo di Borgo degli Albizi sia stato trasformato da Lorenzo d’Amalfi da uno attribuito a san Zanobi post mortem ad uno operato in vita dal santo: il bambino resuscitato viene detto figlio di una pellegrina franca, cosa che ci riporta ai secoli del pellegrinaggio di massa dalle terre d’oltralpe, quindi molto dopo il V secolo. 65 Cfr. A. FATUCCHI, Sulle origini dell’abbazia di Santa Trinita in Alpe, in “Atti e memorie dell’Accademia Petrarca di lettere, arti e scienze”, n.s., LIX-LX, 1997-1998, pp. 559-580: 565-566. 66 Cfr. W. KURZE, La ‘Via Francigena’ nel periodo longobardo, in “De Strata Francigena”, VI, 1998, 1, pp. 29-38; F. VANNI, Le abbazie nella Valdelsa dell’Alto Medioevo. Ruoli economici, politici e sociali, con particolare attenzione alla viabilità sovralocale. Un omaggio alla memoria di Wilhelm Kurze, in “De Strata Francigena”, XVII, 2009, 1-2, pp. 69-85 specie pp. 83-85; R. STOPANI, Monasteri e vie di pellegrinaggio, in “De Strata Francigena”, XXII, 2014, 2 (Monachesimo e viabilità nella Toscana del Medioevo), pp. 7-18. 67 Per la Strada Teutonica e il suo ruolo di mediatrice di forme e tipologie architettoniche cfr. M. GAMANNOSSI, La Via Teutonica e la diffusione dell’arte ravennate dal Casentino a Montefiascone, in “De Strata Teutonica vom Romweg”, I, 2013, pp. 157-


153 176. Per Verghereto vedi qui nota 74. Il passaggio da Montefiascone di pellegrini tedeschi all’inizio del XII secolo è commemorato nella nota leggenda aiziologica sull’origine del nome del vino Est Est Est, suggerita probabilmente dal toponimo che fa pensare ad un grande fiasco di vino. 68 Cfr. GABBRIELLI, Romanico cit., p. 187 cat. 113. 69 Cfr. R. SCARTONI, La chiesa abbaziale di Farneta: contributo all’interpretazione di alcuni aspetti dell’architettura dell’XI secolo in Italia centrale, in “Arte medievale”, s. II, V, 1991, 2, pp. 49-65; TIGLER, Toscana cit., pp. 306-307, con datazione dell’edificio attuale al secondo quarto dell’XI secolo, prima della costruzione del campanile iniziata secondo un’epigrafe nel 1050. 70 Vedi nota 4. San Pier Damiani racconta che mentre Ugo era ammalato un certo vescovo avrebbe interpretato nelle forme di un ramoscello sul fuoco una L, che profetizzava che Ugo sarebbe morto a cinquant’anni, cosa che tranquillizzò tutti; ma poco dopo Ugo sarebbe morto, pur non avendo ancora compiuto i cinquant’anni. La storiella, che mette in guardia da certe superstizioni cui credeva anche il clero, dimostra che alla metà dell’XI secolo l’aspettativa di vita media era proprio di cinquant’anni, poiché altrimenti ci sarebbe stato poco di cui rallegrarsi. 71 Dell’esilio parlano due fonti diverse, il Chronicon della badia di Sant’Andrea sul Monte Soratte e la Vita di Ugo di san Pier Damiani, che lo collocano ai tempi di Ottone I. L’avellanita riferisce che quando Uberto rientrò in Toscana avrebbe trovato la moglie Willa con un bambino, della cui nascita nulla sapeva, cosa che lo avrebbe indotto a sospettare l’adulterio. Si sarebbe perciò ricorsi ad una sorta di ordalia, chiedendo al bambino di riconoscere il padre mai visto prima, che si trovava in una sala in mezzo a uomini travestiti da monaci, riconoscimento che sarebbe avvenuto con successo, scagionando Willa dall’accusa (e che il santo interpretava come premonizione del futuro buon rapporto di Ugo con i monaci). Tenuto conto anche del fatto che nel 961, al tempo della donazione all’abbazia della Vangadizza, risultava insignito del titolo di marchese di Toscana Oberto di Suppo, SESTAN (Il ‘Gran Barone’ cit., pp. 6-7), seguito con cautela da CALAMAI (Ugo cit.,, pp. 77-85), postulava due esili di Uberto: uno fra 953 e 956 causato dal dissidio con Berengario II, dopo di che sarebbe avvenuto il riconoscimento del figlio; e una fra 961 e 964 o comunque entro il 967 a causa del dissidio con Ottone I, che lo avrebbe sostituito con Oberto. Anche dopo il rientro Uberto risulta comunque privato del ducato di Spoleto e del titolo di conte palatino. 72 Nella minuta per il diploma di Enrico IV alla Badia Fiorentina predisposta nel 106768 dai monaci (Le carte cit., I, doc. 64) si afferma ambiguamente: “confirmamus omnia que Ugo inclitus marchio atque Vuilla comitissa eius genitrix eidem venerabili loco quocumque modo contulerunt […] atque volumus ut abbatia illa in perpetuum sit regalis et libera, sicut a tanto talique viro constat esse constructa”; nella coeva minuta per la bolla di Alessandro II (ibidem, doc. 65) si afferma: “monasterium Florentinum, a Vuilla comitissima (sic) nobilissima atque Ugone suo filio constructum…”. Così anche san Pier Damiani, nella sua Vita di Ugo, credeva che la Badia fosse stata da lui fondata. È proprio su richiesta di san Pier Damiani, allora cardinale di Ostia, che il 07.10.1070 Alessandro II promulgò una seconda bolla in favore della Badia, non avendo inoltrato la prima (ibidem, doc. 73), cosa che fornisce un prezioso appiglio cronologico per la stesura della biografia del marchese da parte del santo. Cfr. FALCE, Il marchese cit., p. 84. Sulla base forse del passo del privilegio imperiale del 1067-68 il notaio Andrea nel 1345 afferma che Willa avrebbe portato a termine le fondazioni monastiche di Ugo dopo la sua morte: “Qualiter Huilla, illustrissima mater dicti marchionis, perfecit incepta monasteria per


154 eum, et impetravit ab imperatore confirmationem largitionum eiusdem” (GAUDENZI, Una romanzesca biografia cit., pp. 287-288 cap. XIX). 73 Il monastero di Sant’Angelo alla Verruca è documentato già nell’861 e nel 913, quando apparteneva al vescovo di Lucca; nel 996 Gherardo vescovo di Lucca lo allivellò a Maione, abate di San Salvatore a Sesto, e successivamente, il 21 luglio dello stesso anno, Ottone III confermava la donazione della rocca della Verruca da parte di Ugo di Toscana all’abbazia di Sesto, in un privilegio a quest’ultima redatto “interventu ac petitione Hugonis marchionis”. Nel 1097 l’abbazia della Verruca, divenuta nel frattempo davvero indipendente, risulta essere proprietaria della chiesa di San Nicola a Pisa, che fungeva da cappella palatina del vicino palazzo marchionale (cfr. R. SILVA, Chiese e cappelle palatine in Toscana: origine e tradizione, in “Prospettiva”, XXIX, 1981, pp. 31-37: 33), cosa che può aver favorito il nascere della credenza che il marchese Ugo avesse fondato la badia della Verruca come abbazia regia ed imperiale, come affermato nel privilegio rilasciato a quest’ultima nel 1137 da Lotario III imperatore e nelle bolle papali di Innocenzo III del 1209 e Gregorio IX del 1228. Cfr. CALAMAI, Ugo cit., pp. 205-207; G. GIULIANI, Il monastero di San Michele alla Verruca: profilo delle vicende storiche, in L’aratro e il calamo. Benedettini e Cistercensi sul Monte Pisano. Dieci anni di archeologia a San Michele alla Verruca, a cura di S. Gelichi ed A. Alberti, Pisa 2005, pp. 1133: 11-16. In questa pubblicazione si riferisce dei ritrovamenti archeologici, che consistono soprattutto in una prima chiesetta ad aula unica riferibile ad età longobarda, come fa pensare anche l’intitolazione a San Michele, e poi ai grandiosi resti dell’abbazia cistercense del Duecento, mentre scarsi sono i reperti riferibili ai tempi di Ugo. 74 Petri Damiani Vita Beati Romualdi 18, ediz. it. cons. M. A. VELLI, Vita del beato Romualdo. Nuova versione italiana, in San Romualdo. Vita iconografia, Fabriano 1984, pp. 15-82 : 37-38. Romualdo ottenne da Ugo sette libbre per le necessità monastiche, che il santo decise di utilizzare non solo per la fondazione dell’abbazia di Verghereto, voluta dal marchese, ma anche per la riparazione della più appartata abbazia di Palazzolo (credo identificabile con Palazzuolo sul Senio). Ciò provocò le ire dei monaci di Verghereto, detestati da Romualdo per la loro vita perversa, i quali lo aggredirono bastonandolo. La punizione divina non si fece aspettare: uno dei monaci aggressori morì cadendo in un ruscello e gli altri morirono per il crollo del tetto della loro chiesa causato dal peso della neve. Dal racconto si capisce che mentre a Palazzolo Romualdo aveva potuto insediare monaci intenzionati a tornare alla severità della regola, in linea con i suoi progetti di riforma, a Verghereto Ugo promuoveva l’istituzione di un’abbazia tradizionale, caratterizzata dalla consueta rilassatezza di costumi. 75 FALCE, Il marchese cit., pp. 49-52, che collega la politica monastica di Ugo a Maiolo di Cluny e alle prime esperienze di combinazione di eremitismo e cenobitismo avviate da san Romualdo a Pereo nel 995, dietro impulso del monachesimo basiliano riformato da san Nilo di Calabria; ma cfr. CALAMAI, Ugo cit., pp. 161-170. 76 Nel 993 si registrano una donazione alla Vangadizza (CALAMAI, Ugo cit., p. 118) ed una alla badia di San Salvatore ad Acquapendente sulla Francigena (ibidem, pp. 120, 217); nel 995 una alla Badia Fiorentina (ibidem, p. 122) ed una ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata sulla Francigena (ibidem, pp. 233-234); nel 996 una alla badia di Sesto, relativamente alla rocca della Verruca (ibidem, pp. 127, 235), una al Duomo di Volterra (ibidem, pp. 227-231) ed una al Duomo di Vercelli (ibidem, p. 219) nonché una al capitolo dei canonici del Duomo di Pisa (ibidem, p. 127); nel 997 di nuovo una al Duomo di Vercelli (ibidem, p. 131) e di nuovo una alla badia della Vangadizza (ibidem, p. 131) nonché la fondazione e probabile relativa donazione di Capolona (ibidem, p. 187), ed una


155 nuova donazione alla Badia Fiorentina (ibidem, p. 177); nel 998 la rifondazione e relativa donazione di Marturi (ibidem, p. 191) e forse la restituzione della badiola di Sant’Andrea all’Arco nel centro di Firenze, che gli era stata allivellata nel 978 dal vescovado, al vescovo di Firenze Podo, che intendeva istituirvi un capitolo di canonici conducenti vita in comune (ibidem, pp. 107-108, 169, 225-226); nel 1000 una nuova donazione al Duomo di Volterra (ibidem, p. 139). Non sono databili con precisione, ma probabilmente da riferire agli ultimi anni di vita di Ugo, le donazioni ricordate in successivi privilegi imperiali alle abbazie regie ed imperiali di Sant’Antimo (ibidem, p. 227) e Pomposa (ibidem, pp. 231-233), dove però potrebbe trattarsi di Ugo di Oberto dei Supponidi, e l’allivellamento all’abbazia di Prataglia (ibidem, p. 217). Si noti che nel privilegio di Enrico III del 17.07.1051 all’abbazia di Sant’Antimo si parla, oltre che di un precedente perduto documento di Ugo di Toscana ed Ottone III (“Confirmamus etiam eidem venerabili loco secundum quod senior III Otho bone memorie imperator et Hugo marchio ordinaverunt”), anche di una donazione di un altro Ugo (“hereditas Ugonis filii bone memorie item Ugonis de Sciscano”), da non confondere col nostro, identificato da P. CAMMAROSANO (La nobiltà del Senese dal secolo VIII agli inizi del secolo XII, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, atti del I convegno (Firenze 1978), Pisa 1981, pp. 223-256: 239 nota 26) con uno degli Scialenghi, una famiglia comitale del Senese. 77 F. SCHNEIDER, Die Reichsverwaltung in Toscana von der Gründung des Langobardenreiches bis zum Ausgang der Staufer (568-1268), Rom 1914, ediz. it. cons. L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale: i fondamenti dell’amministrazione regia in Toscana dalla fondazione del regno longobardo alla estinzione degli Svevi (5681268), a cura di F. Barbolani di Montauto, Firenze 1975, pp. 262-263, 302-303, 326. 78 Cfr. SCHWARZMAIER, Lucca cit., p. 378. Vedi anche qui nota 66. 79 Gerberto, nominato abate di San Colombano a Bobbio da Ottone II, nel 983 scrisse una lettera da Bobbio a un destinatario sconosciuto, che si identifica con Ugo, e nel 986 un’altra lettera da Reims, questa volta indirizzata sicuramente ad Ugo, in cui menziona di avergliene scritta già una. In entrambe si lamenta delle difficoltà incontrate nel suo ufficio di abate a causa dei laici che avevano di fatto privatizzato i beni dell’abbazia, avendoli ricevuti a livello dietro corresponsione di censi irrisori, e chiede l’aiuto del marchese nel combattere questo deprecabile fenomeno. In seguito nel 998 presiedette assieme ad Ottone III il concilio di Pavia, che vietava agli ecclesiastici di alienare beni di chiese e monasteri (cfr. CALAMAI, Ugo cit., pp. 106-107, 169). Curiosamente Gerberto, che divenuto papa si è attirato l’odio dei Romani per aver collaborato con Ottone III al progetto della Restauratio Imperii a Roma incompatibile con lo stato pontificio, si è trasformato nel ricordo dei secoli successivi in un malvagio mago dedito alla necromanzia. 80 Per Richilda e Willa, forse figlie di Ugo, cfr. CALAMAI, Ugo cit., pp. 88-89. 81 CALAMAI, Ugo cit., p. 146. L’anno della morte di Ugo è testimoniato da varie fonti e autori autorevoli (Annales Einsiedelenses, Rodolfo il Glabro, due martirologi lucchesi, una cronica pisana) fra cui san Pier Damiani, che pur non indicando il giorno, specifica che Ugo morì poco prima di Ottone III, il quale l’08.01.1002 emanava il privilegio per la Badia Fiorentina, in cui si parla del marchese come ormai defunto (vedi qui nota 37), e che è poi spirato lui stesso il 21.01.1002. Meno sicuro è che il decesso sia avvenuto a Pistoia, dove Ugo si sarebbe recato per reprimere una rivolta e dove si sarebbe ammalato, come racconta nel 1345 il generalmente inaffidabile notaio Andrea, che riferisce pure del rocambolesco modo in cui i Fiorentini avrebbero ingannato i Pistoiesi nell’appropriarsi del cadavere del marchese, che volevano seppellire nella loro Badia (GAUDEN-


156 ZI, Una romanzesca biografia cit., pp. 285-286 cap. XVII): sembra trattarsi di una maldicenza contro Pistoia, il cui nome veniva associato dai Fiorentini con “pistolentia” cioè pestilenza, da contestualizzare nell’ambito dei rancori causati dal conflitto del 1306. 82 Le prime testimonianze della presenza della tomba di Ugo in Badia sono un documento del 26.07.1061 (Le carte cit., I, doc. 57, p. 144): “Monastereo S. Marie, qui est infra civitate Florentie, ubi Ugo marghio requiesce”, e il testo di san Pier Damiani del 1070 circa. Cfr. FALCE, Il marchese cit., p. 163; GUIDOTTI, Ugo cit., p. 22; CALAMAI, Ugo cit., p. 150. 83 Non è corretta l’affermazione dei PAATZ (Die Kirchen cit., I, p. 295 nota 6) che nel canto XII del Paradiso la fondazione della Badia sarebbe riferita ad Ugo anziché a Willa. Ciò è invece affermato, esplicitando comunque la probabile opinione dello stesso Dante, nel cosiddetto Ottimo Commento, dove a proposito dei citati versi del canto XVI si ricorda Ugo “il cui nome e il cui valore, quando si fa festa del beato messer santo Tommaso, si rinnova; però che allora di lui nella Badia di Firenze, la quale con molte altre edificò, si fanno solenni orazioni a Dio per la sua anima” (cfr. M. ADRIANI, La Badia Fiorentina. Appunti storico-religiosi, in SESTAN-ADRIANI-GUIDOTTI, La Badia cit., pp. 15-46: 16). 84 Giovanni Villani (Nuova Cronica, IX, 89) addossa tutta la colpa della distruzione del 1307 alle autorità comunali di allora e ad una parte della popolazione che gli era invisa: “E la Badia di Firenze, andandovi l’ufficiale isattore con sua famiglia, i monaci chiusono le porte, e sonarono le campane, per la qual cosa dal popolo minuto e da’ malandrini, con sospignimento di loro possenti vicini grandi e popolani che non gli amavano, furono corsi a furore, e tutti robati. E poi il Comune, perché avea sonato, volea il campanile da piè, e disfecionne di sopra presso che la metade; la quale furia fue molto biasimata per la buona gente di Firenze”. Nella decisione della ricostruzione, presa già nel 1310 (cfr. R. DAVIDSOHN, Forschungen zur älteren Geschichte von Florenz, IV, Berlin 1908, p. 494) ma attuata solo a partire dal 1330 grazie al finanziamento da parte dell’abate commendatario Giovanni Orsini – il cui stemma pure potrebbe essere stato compreso fra quelli oggi illeggibili della torre –, il Villani stesso sembra essere stato coinvolto, come scrive alla data 1330 (Nuova Cronica, XI, 175): “E il detto anno s’alzò e compiè il campanile della Badia di Firenze, e per noi fu fatto a priego e istanza di messer Giovanni degli Orsini di Roma, cardinale e legato in Toscana e signore de la detta Badia, e della sua entrata in quella Badia”. Conseguentemente la datazione a dopo il 1330 della parte gotica del campanile era già chiara a PUCCINELLI (Cronica cit., p. 26) ed è stata ribadita fra gli altri dai PAATZ (Die Kirchen cit., I, pp. 265, 297 nota 13), mentre F. FACCHINETTI e M.R. TRAPPOLINI (Il campanile della Badia Fiorentina, in S. Maria del Fiore e le chiese fiorentine del Duecento e del Trecento nella città delle fabbriche arnolfiane, a cura di G. Rocchi Coopmanns de Yoldi, Firenze 2004, pp. 273-288: 273 (tav. I), 276) la datano fra 1284 e 1307, attribuendola ad Arnolfo di Cambio, dimostrando di aver frainteso le testimonianze di prima mano del Villani. 85 PUCCINELLI (Cronica cit., p. 26) collega la costruzione della sala capitolare con la ricostruzione della parte alta del campanile, iniziata nel 1330, attribuendo entrambe le opere ad Arnolfo, cosa contraddetta dai PAATZ (Die Kirchen cit., I, pp. 265, 297 nota 14), che sapevano che Arnolfo di Cambio era già morto nel 1305, anche se continuavano a riferirgli almeno il progetto del complesso monastico, supponendo inoltre che la sala capitolare sia precedente al 1330. A me il prospetto tripartito, con i suoi tozzi pilastri poligonali di macigno, ricorda i chiostri verde e dei morti di Santa Maria Novella, documentatamente costruiti fra 1330 e 1360 circa dai frati domenicani Giovanni da Campi e


157 Jacopo Talenti (sui quali cfr. ora F. CERVINI, ‘Non racchiude l’indefinito gotico’. L’orizzonte internazionale di una novella architettura, in Santa Maria Novella. La basilica e il convento, I: Dalla fondazione al Tardogotico, a cura di A. De Marchi, Firenze 2015, pp. 36-85: 61, 70-81), per cui non solo darei per scontata una datazione a dopo il 1330 ma ritengo probabile che la sala capitolare sia stata ricostruita dopo i quattro consecutivi incendi degli anni 1357-1358, di cui sappiamo che distrussero la sacrestia, il dormitorio ed altri edifici monastici (cfr. TARANI, La Badia cit., p. 17). Questa datazione viene puntualmente confermata dalla presenza della tomba dell’abate commendatario Giovanni Albergotti, in carica dal 1358 alla morte nel 1365, nel parapetto sotto alla finestra di sinistra del prospetto della sala capitolare (per l’identificazione dello stemma di questa importante famiglia aretina cfr. PUCCINELLI, Galleria cit., p. 152; GUIDOTTI, Vicende cit., p. 89 nota 138; LEADER, The Badia cit., pp. 36-38, 79-80). Il fatto che sotto al parapetto della finestra destra vi sia un’altra simmetrica tomba degli Albergotti dimostra, contrariamente a quanto sostiene Alessandro Guidotti, che Giovanni Albergotti aveva trasformato la sala capitolare anche in cappella gentilizia della sua famiglia, come già ipotizzato da F. BURGER (Geschichte des florentinischen Grabmals von den ältesten Zeiten bis Michelangelo, Strassburg 1904, p. 51), corroborando la datazione a dopo il 1358 e non attorno al 1330, come crede la Leader. In tal modo il capitolo della Badia viene ad inserirsi in un fenomeno caratteristico della seconda metà del Trecento a Firenze e poi a Pistoia: a Santa Maria Novella la sala capitolare, che doveva già esistere nel 1344 – data del polittico di Bernardo Daddi per essa dipinto – fu concessa nel 1355 a Mico Guidalotti, che nel 1366-68 la fece affrescare da Andrea Buonaiuti; la sala capitolare di San Francesco a Pistoia, il cui patronato apparteneva, assieme a quello della sacrestia, a Lippa de’ Vergiolesi, fu affrescata da Antonio Vite poco dopo il testamento di Lippa, rogato nel 1386. A Santa Croce, dove la trecentesca sacrestia (di patronato Peruzzi, con cappella aggiunta dei Guidalotti e poi dei Rinuccini) sembra aver fatto temporaneamente da sala capitolare, la brunelleschiana Cappella Pazzi prospettante sul chiostro ha poi svolto tale ruolo. 86 Cfr. CALAMAI, Ugo cit., figg. alle pp. 147-148, 175. 87 V. BORGHINI, Dell’arme delle famiglie fiorentine, in Idem, Discorsi, Firenze 1585, ediz. cons. Milano 1808-09, ristampa anastatica Firenze 1990, tav. VIII (qui alla fig. 12). 88Cfr. H. ZUG TUCCI, Istituzioni araldiche e pararaldiche nella vita toscana del Duecento, in Nobiltà e ceti dirigenti in Toscana nei secoli XI-XIII: strutture e concetti, in I ceti dirigenti in Toscana, atti del IV convegno (Firenze 1981), Firenze 1982, pp. 65-72. 89CALAMAI, Ugo cit., pp. 260-262. 90 L. ARTUSI, U. BARLOZZETTI, F. CARDINI, A. SAVORELLI, La bella insegna. Il vessillo del marchese Ugo e l’araldica toscana, Firenze 2004. 91 GAUDENZI, Una romanzesca biografia cit., p. 286 cap. XVIII: “Nec pretereundum est scilentio, quod ipse marchio militie cingulo decoravit quamplures nobiles civitatis Florentie et eius districtus, videlicet de progenie Iandonatorum, Pulciorum, Nerlorum, filiorum de la Bella, et contis de Gangalando: qui milites tunc, et postea eorum successores signa dicti marchionis in eorum armis tulerunt et fecerunt”. 92 Il Villani (Nuova Cronica, IV, 2) scrive: “Col detto Otto terzo venne in Ytalia il detto marchese Ugo: credo fosse marchese di Brandinborgo, però che in Alamagna non ha altro marchesato”. Ai suoi tempi il marchesato di Brandeburgo (Brandenburg), non esistente ancora nel X e XI secolo, era infatti quello più importante nel regno di Germania, essendo sede di principe elettore, anche se non l’unico, essendovi anche quelli di Lusazia (Lausitz), Misnia (Meissen), Osterland e Moravia, evidentemente ignoti al Villani. Ai


158 tempi di Ugo invece lungo i confini orientali del regno di Germania c’erano le marche slave dei Billungi, del Nord, dell’Est cioè di Merseburg e Zeitz, d’Austria (Ostmark), di Carantania o Carinzia e di Carniola, nonché quella, staccata nel 952 dal regno d’Italia, di Verona. Nel codice edito il notaio Andrea chiama Ugo una volta “marchione Mandeburgensi”, corretto poi in “Maydeburgensi” (GAUDENZI, Una romanzesca biografia cit., p. 271), dichiarandolo “affine” cioè parente di Ottone III, un’altra “marchionem Mandeburgensem et Andeburgensem” (ibidem, p. 272), mentre nell’explicit (ibidem, p. 290) lo dice marchese di Brandeburgo, opinione quest’ultima evidentemente ripresa dal Villani, la cui cronica, scritta in gran parte entro il 1333 (ma con addizioni fino al 1348), precede per quanto riguarda questo passo l’Epistula di Andrea del 1345. DAVIDSOHN (Forschungen cit., I, 1896, pp. 31-32), che data l’epistola al 1346, ipotizza che già una delle fonti cui Andrea dichiara di attingere avesse congetturalmente messo in rapporto Ugo con la città e la sede arcivescovile di Magdeburgo in virtù dello stretto legame di quest’ultima con gli Ottoni, ignorando che all’epoca essa faceva parte del ducato di Sassonia mentre nel Trecento era sede di principato arcivescovile. La formula “Marchio Andeburgensis”, usata inoltre da Andrea e ripresa coll’aggiunta del titolo comitale nell’epitaffio del 1481 (vedi qui nota 14), sarebbe una sorta di soluzione di compromesso fra la tradizione della provenienza di Ugo dalla città di Magdeburgo e la congettura del Villani circa il marchesato di Brandeburgo. GAUDENZI (loc. cit., pp. 268-269) ricostruisce che Andrea in un codice avesse scritto inizialmente “Mandeburgens(is)”, per evidente errore in luogo di “Magdeburgens(is), parola poi trasformatasi in un altro codice in “Andeburgens(is)”, finché in un terzo codice, quello da lui pubblicato, si sarebbe fatto di Ugo un marchese di entrambe le località. Rifiutava la teoria del compromesso di Davidsohn, poiché solo in un secondo momento sarebbe stato aggiunto l’explicit col titolo “Marchio del Brandeburgo”, da lui ritenuto un frutto di correzione altrui, influenzata dal Villani, operata su uno dei codici precedenti e poi riportata su quello pubblicato. Per FALCE (Il marchese cit., pp. 81-83) nel primo ipotetico codice dell’epistola vi sarebbe stato scritto ovunque “…andeburgens(is)”, coll’omissione intenzionale delle lettere iniziali “Br”, che sarebbero dovute essere tracciate da un miniatore, poi non intervenuto, cosa che spiegherebbe l’incertezza dei codici successivi fra “Andeburgens(is)”, “Mandeburgens(is) ed il corretto “Brandeburgens(is)”. Sembra però insolito che dovessero essere evidenziate in rosso o con decorazioni miniate non le lettere iniziali delle rubriche ma quelle di una parola, sia pure importante, nel mezzo del testo, per cui anche questa ingegnosa teoria va rigettata. Infine CALAMAI (Ugo cit., pp. 113, 243-251) tenta di riabilitare la plausibilità della forma “Andeburgens(is)” in Andrea e nelle sue presumibili fonti, poiché il marchese Ugo sarebbe stato confuso con un “Hugo episcopus […] sanctae Hansdeburgensis ecclesiae”, già cappellano di Ottone II, che accompagnava la vedova Teofano in Italia e che nell’aprile del 990 interveniva in un placito tenuto presso Ravenna. Calamai crede che la parola “Hansdeburgensis” nell’atto del 990 significhi di Würburg, fraintendendo la questione. Leopold von Ranke (Jahrbücher des Deutschen Reichs unter dem Sächsischen Hause, a cura di L. Ranke, Berlin 1840, p. 66 nota 3) ha già chiarito che il Mabillon e il Muratori avevano integrato a torto la mutila parola “…burgensis” di quel documento in “Hansdeburgensis”, che significa di Amburgo, visto che nel 990 era vescovo amburghese Livizo, mentre Ugo sembra identificabile piuttosto con Hugo di Rothenburg che dal 984 al 29 agosto del 990 era vescovo di Würzburg, per cui la parola va integrata in “Vuerzburgensis” o qualcosa del genere (anche se la corretta traduzione latina del nome di Würzburg, che significa castello delle spezie, è Herbipolis, tuttora in uso nella Chiesa cattolica). Ciò rende impraticabile l’idea che que-


159 sto vescovo possa essere stato confuso col nostro marchese, cosa comunque poco probabile se non a patto di immaginare che la fonte di Andrea fosse a conoscenza di una copia dell’atto del 990 in cui la parola “episcopus” era ormai illeggibile. Non sono più convinto neppure di un’idea cui avevo accennato a tal proposito nel 2008 (G. TIGLER, La conformazione originaria del pulpito di Guglielmo nel Duomo di Pisa, I, in “Commentari d’arte”, XIV, 2008, 41, pp. 30-55 nota 81), e cioè che alla radice dell’errore di Andrea potesse esservi l’assonanza di “Andeburgens(is)” con “Andegavensis” cioè di Angers, ovvero angioino, un aggettivo ai suoi tempi sicuramente di attualità politica a Firenze. La cosa sarebbe plausibile solo se vi fosse notizia di una fonte informata della discendenza di Ugo da un nonno che era stato re di Provenza, visto che nel XIII e XIV secolo la contea di Provenza apparteneva agli Angiò, ramo cadetto della dinastia reale francese; ma sembra che tale discendenza fosse stata ormai dimenticata. 93 DAVIDSOHN, Storia cit., I, p. 182. 94 PUCCINELLI, Origo cit., pp. 16, 93-94; Idem, Historia dell’eroiche attioni di Ugo cit., pp. 56-57; GALLETTI, Ragionamenti cit., p. 135. La schematica raffigurazione della cassa pubblicata da Puccinelli è riprodotta in CALAMAI, Ugo cit., p. 149, senza indicazione di provenienza bibliografica. 95 UCCELLI, Della Badia cit., p. 11. 96 Cfr. F. MARIUCCI, L’arca vecchia di sant’Ubaldo. Memoria e rappresentazione di un corpo santo, Gubbio 2014, con ampia casistica e bibliografia. 97 DAVIDSOHN, Forschungen, I, cit., p. 31. Questa usanza non può essere iniziata nel 1002, perché allora la festa dei morti del 2 novembre non esisteva ancora. Essa fu istituita, col nome di Commemoratio animarum, verso il 1030 a Cluny dall’abate Odilone, ma ben presto adottata dalla Chiesa di Firenze, se è vero che, come ho cercato di dimostrare, la celebrazione di un sinodo di trentatre vescovi nel Duomo di San Giovanni e Reparata il 2 novembre 1036, quando probabilmente si prese la decisione di ricostruire la cattedrale sul modello di Cluny II, fu fatta intenzionalmente coincidere con quella festività, in prossimità della quale la chiesa è poi stata consacrata nel 1059. G. TIGLER, Architettura in Toscana al tempo di Leone IX: la ricostruzione e la riconsacrazione della cattedrale dei Santi Giovanni e Reparata a Firenze, luogo di sepoltura di Stefano IX, in La reliquia del sangue di Cristo. Mantova, l’Italia e l’Europa al tempo di Leone IX, a cura di G.M. Cantarella e A. Calzona, Mantova 2012, pp. 455-477: 457. 98 PUCCINELLI, Historia di Ugo cit., p. 60; Idem, Origo cit., pp. 16, 93-94 (fig.), 112113; Idem, Historia dell’eroiche attioni di Ugo cit., pp. 57-58, 60 (fig.); GALLETTI, Ragionamenti cit., p. 138; DAVIDSOHN, Storia cit., I, tav. XIX fra p. 240 e p. 241. 99 DAVIDSOHN, Storia cit., I, p. 181 (“brutti versi di pessimo gusto”). In due versi si afferma in toni iperbolici che Ugo aveva saputo ottenere il rispetto e l’obbedienza dell’Africa e di Roma: “AFRUM ME COLUIT REGNUM, ET QUI REXERAT ILLUD/ ROMA MIHI PARUIT”. DAVIDSOHN (Forschungen cit., I, p. 31) lo spiega ipotizzando che Ugo abbia stipulato un qualche accordo commerciale, però non documentato, fra Pisa e gli Arabi del Maghreb e che abbia agito da rappresentante dell’Impero a Roma. CALAMAI (Ugo cit., p. 140) riferisce plausibilmente l’allusione a Roma ai fatti del febbraio 1001, quando Ottone III si trovava asserragliato dai Romani, sobillati dai conti di Tuscolo, nel suo palazzo sull’Aventino, mentre le sue truppe stringevano d’assedio la città, e Ugo riuscì ad ottenere la liberazione dell’imperatore grazie ad una mediazione diplomatica assieme al duca di Baviera, il futuro Enrico II. Quanto all’allusione al regno africano, penso che possa trattarsi di un possibile, anche se non documentato, intervento diplomatico di Ugo dopo la disastrosa sconfitta di Ottone II nella battaglia di Capo


160 Colonne (a Sud di Crotone) del 15.07.982 ad opera degli Arabi di Sicilia sostenuti dai Fatimidi d’Egitto (cfr. ibidem, p. 104). Che Ugo abbia avuto in qualche modo a che fare con quella vicenda è reso plausibile da due indizi: Ottone III dichiara in un diploma del 994 che Ugo era stato fedelissimo dei suoi genitori; nel 997 Ugo fece venire in Toscana a dirigere l’abbazia di Marturi san Bononio, che era riuscito ad ottenere la liberazione di Pietro vescovo di Vercelli, morto in quell’anno, dagli Egiziani, che sembrano averlo preso prigioniero proprio nella battaglia di Capo Colonne, cosa di cui Ugo doveva essere informato. 100 Cfr. GAMANNOSSI, L’abbazia cit., pp. 84-89; G. TIGLER, Il Battistero di Firenze, I, in “Commentari d’arte”, XXI, 2015, 60, p. 5-22: 7-8. Dopo il 1113 Badia a Settimo rischiava di perdere la sua nuova libertà per le mire espansionistiche su quel territorio dei conti Alberti di Prato e del nascente Comune di Firenze. 101 Le carte cit., I, doc. 19. La ‘donazione’ fu poi confermata da Enrico II nel 1012 (ibidem, doc. 22). Vedi qui nota 31. 102 Lo riporta PUCCINELLI, Historia dell’eroiche attioni di Ugo cit., p. 60. 103 UCCELLI, Della Badia cit., p. 11; DAVIDSOHN, Forschungen cit., I, p. 31. Cfr. anche FALCE, Il marchese cit., pp. 163-164. 104 F. PAOLUCCI, in Magnificenza alla corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento, catalogo della mostra (Firenze 1997-1998), a cura di C. Acidini Luchinat, Milano 1997, pp. 40-41, cat. 11. Una foto della vasca è riprodotta in CALAMAI, Ugo cit., p. 149. M. LOPES PEGNA (Le più antiche chiese fiorentine, Firenze 1971, p. 96 nota 213) aveva avanzato la congettura che la vasca fosse finita nel giardino di Boboli. Ph. MALGOUYRES (Inhumés dans le porphyre, in Porphyre. La pierre pourpre des Ptolémées aux Bonaparte, catalogo della mostra (Parigi 2003-2004), a cura di Ph. Malgouyres, Paris 2003, pp. 73-79: 74) mette in dubbio che la vasca in Rosso Antico di Palazzo Pitti sia davvero quella “porfirea” in cui fu sepolto Ugo. 105 Cfr. TIGLER, Toscana cit., pp. 41 ss., 73 ss., 210-212, 227-229. 106 Cfr. M. IMHOF, Des Zeitalter der Ottonen - Ein historischer Überblick, in Die Ottonen. Kunst - Architektur - Geschichte, Petersdorf 2006, pp. 12-24: 22, che tratta anche delle tombe degli imperatori sassoni: Ottone I nel Duomo di Magdeburg da lui fondato, Ottone II già nel quadriportico di San Pietro in Vaticano ed Ottone III nella Cappella Palatina di Aquisgrana accanto a Carlo Magno; cfr. anche CALAMAI, Ugo cit., p. 134. MALGOUYRES (Inhumés cit., p. 74) accenna alla relazione di Ugo con Ottone III in relazione al riuso di una vasca di “porfido”. 107 Cfr. La porpora. Realtà e immaginario di un colore simbolico, atti del convegno (Venezia 1996), a cura di O. Longo, Venezia 1998. 108 Cfr. R. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke, Berlin-Leipzig 1932, p. 11. Cfr. inoltre Porphyre cit.; D. DEL BUFALO, Red imperial porphyry. Power and religion. Porfido Rosso imperiale. Potere e religione, Torino 2012. 109 Ricordo in particolare la coppia di sarcofagi istoriati in porfido dei Musei Vaticani provenienti uno dal mausoleo di Elena a Tor Pignattara, destinato in origine forse a Costantino, e l’altro dal mausoleo di Costanza figlia di Costantino, oggi chiesa di Santa Costanza. 110 Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., p. 27; N. ASUTAY EFFENBERGER, A. EFFENBERGER, Die Porphyrsarkophage der oströmischen Kaiser - Versuch einer Bestandserfassung, Zeitbestimmung und Zuordnung, Wiesbaden 2006. 111 I doni della corte bizantina recati da Teofano in occasione delle nozze con Ottone II nel 972 aprirono gli occhi alla corte sassone sugli splendori delle usanze costantinopoli-


161 tane, che poi ci si sforzò di imitare in Germania nelle arti suntuarie e in miniatura. 112 Innocenzo II, morto nel 1143, fu sepolto in San Giovanni in Laterano nel sarcofago di Adriano proveniente dal mausoleo trasformato in Castel Sant’Angelo (il cui coperchio viene identificato dalla tradizione con quello del sarcofago di Ottone II già nel quadriportico di San Pietro in Vaticano); Anastasio IV, morto nel 1154, in quello di Elena (vedi qui nota 109), trasferito pure nella Basilica Lateranense. Ruggero II d’Altavilla predispose per se stesso, morto nel 1154, un sarcofago di porfido nel Duomo di Salerno e per i suoi familiari altri due nel Duomo di Cefalù, poi riusati assieme ad un terzo nel Duomo di Palermo per Enrico IV, sua moglie Costanza d’Altavilla e il figlio Federico II, mentre un quarto si trova nel Duomo di Monreale ed ospita le spoglie di Guglielmo I, morto nel 1166. Non è qui il caso di affrontare la dibattuta questione dell’entità delle rilavorazioni medievali di questi sarcofagi antichi in Sicilia. Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., p. 31. 113 Si tratta dei Tetrarchi provenienti da due colonne onorifiche nel foro detto Philadelphion di Costantinopoli, di cui faceva parte forse anche il rocchio detto Pietra del Bando, di otto colonne provenienti probabilmente dal palazzo imperiale riusate nel portale maggiore e dei plutei del pulpito di destra, sul quale avveniva l’acclamazione dei Dogi neoeletti. 114 Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., pp. 164-165; A. AMBROGI, Vasche di età romana in marmi bianchi e colorati, Roma 1995; Eadem, Labra di età romana in marmi bianchi e colorati, Roma 2005; DEL BUFALO, Red imperial porphyry cit., pp. 166-167. 115 Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., pp. 30, 220. 116 DELBRUECK (Antike Porphyrwerke cit., pp. 165-168) cita vari casi ancorabili a date sicure: due vasche usate come contenitori di reliquie furono collocate nell’816 nella Basilica dei Santi Apostoli a Roma; una contenente le reliquie dei santi Processo e Martiniano nella Basilica di San Pietro in Vaticano da Pasquale I (817-824); Leone IV (847-855) fece seppellire i corpi dei santi Quattro Coronati, cioè di scultori che avevano lavorato il porfido in Egitto ed erano stati martirizzati da Diocleziano (che l’agiografia ha poi trasformato da schiavi in principi), in quattro vasche, due di Porfido Rosso, una di serpentino verde ed una di bronzo – quindi forse una vera vasca da bagno –, nella confessio della Basilica dei Santi Quattro Coronati da lui fatta edificare; nel 1049 una vasca in porfido fu riusata come contenitore di reliquie nella diaconia di Santa Maria in Via Lata, da dove nel XVII secolo è stata trasportata nella chiesa di San Ciriaco. Altre “conche” di porfido riusate per reliquie, in parte poi scomparse, sono ricordate da F. DE’ FICORONI (Le vestigia e rarità di Roma antica, Roma 1744, pp. 191-193) nelle chiese romane di Santa Maria in Aracoeli (destinata a sant’Elena dopo che il suo sarcofago nel 1154 era stato riusato per Anastasio IV), San Marcello al Corso, San Bartolomeo in Isola e nella tomba di Ottone II in San Pietro. A Milano, dove le reliquie dei santi Ambrogio, Gervasio e Protasio furono tumulate dall’arcivescovo Angilberto (824-859) in un sarcofago di porfido sotto all’altare di Wolvinio della Basilica di Sant’Ambrogio, nel cui quadriportico risulta che si sia trovato un altro sarcofago di porfido oggi perduto, in Duomo si conserva la vasca riusata come arca-reliquiario del santo vescovo Dionigi (349-355). Potrebbe trattarsi di una delle due vasche menzionate da Ambrogio oppure di quella forse usata per la tomba dell’imperatore Graziano, morto a Milano nel 383. Di incerto utilizzo è la vasca in porfido nella cattedrale di Metz, là attestata dal 1105, cfr. MALGOUYRES, Inhumés cit., p. 74. 117 Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., p. XIII. Dal punto di vista tipologico


162 questa vasca non appartiene però al genere dei labra. L’identificazione del pezzo con la vasca che dal 1694 funge da fonte battesimale nel Battistero di San Pietro in Vaticano, proposta da Delbrueck, è respinta da DEL BUFALO (Red imperial porphyry cit., pp. 165, 169-170 catt. L 15, L 34), che riabilita invece la tradizione secondo cui si tratterebbe del coperchio del sarcofago di Adriano. 118 F.W. DEICHMANN, Ravenna, Hauptstadt des spätantiken Abendlandes. Kommentar, Parte I, Wiesbaden 1974, pp. 211-213. Per il mausoleo cfr. R. HEIDENREICH, H. JOHANNES, Das Grabmal Theoderichs zu Ravenna, Wiesbaden 1971; per il monastero M. MAZZOTTI, Appunti per la storia postteodoriciana del mausoleo ravennate alias ‘Monasterium S. Mariae ad memoriam regis seu de Rotunda’, in “Studi romagnoli”, XXXI, 1980, pp. 45-58, riedito in Studien zur spätantiken und byzantinischen Kunst, I, Bonn 1986, pp. 271-280; per la tomba G. GEROLA, La sepoltura di Teodorico, in “Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti”, LXXIII, 1914, 2, pp. 535-544; G. BOVINI, Il mausoleo di Teodorico, Ravenna 1959, pp. 29-33. Ricordata nel Trecento presso il mausoleo da Riccobaldo Ferrarese, la vasca fu inserita nel 1564 nella facciata della chiesa di San Sebastiano (oggi torre dell’orologio) in Piazza Maggiore e nel 1633 nella superstite facciata del cosiddetto Palazzo di Teodorico accanto a Sant’Apollinare Nuovo, in realtà chiesa di San Salvatore, per essere poi musealizzata nel 1897 e tornare nel mausoleo solo nel 1913. La consapevolezza che si trattasse della tomba di Teodorico sembra però non essere mai venuta meno a Ravenna, grazie alla testimonianza di Andrea Agnello, per cui sono ingiustificati i dubbi espressi da MALGOUYRES, Inhumés cit., p. 74. 119 Cfr. DELBRUECK, Antike Porphyrwerke cit., p. 166; Ph. MALGOUYRES, cat. 17, in Porphyre cit., pp. 88-89. Nel 1505 si pensava che si trattasse della tomba di Carlo il Calvo, in realtà sepolto accanto; nel 1706 Félibien ribadiva che la vasca era servita da tomba prima di essere adibita a fonte battesimale. Che in questi secoli si immaginasse che una vasca in Porfido Rosso fosse adatta anche alla sepoltura di un re barbaro lo dimostra la Passio sancti Thomae del VI secolo, secondo la quale il re indiano Gundaforus avrebbe fatto costruire per il fratello Gad un intero mausoleo in porfido, entro il quale vi sarebbe stato un “labrum porphyreticum” DELBRUECK, loc. cit. 120 Per il documento su Maginardo del 1026 cfr. ora V. ASCANI, Le cattedrali di Arezzo dal Duomo Vecchio al Duomo Nuovo, in Arte in terra d’Arezzo: il Medioevo, a cura di M. Collareta e P. Refice, Firenze 2010, pp. 67-82: 68; per Santa Reparata a Firenze, dove l’altare di san Giovanni Evangelista fu consacrato nel 1038 dal vescovo aretino Teodaldo, cfr. TIGLER, Architettura cit., pp. 457, 459; per i campanili, fra cui quello stesso della Badia Fiorentina, G. GIURA, Il campanile della pieve di S. Lorenzo a Borgo. Tipologia, derivazione e contesto storico, tesi triennale, Università di Firenze, AA. 2005-2006, rel. G. Tigler. Quanto agli archetti pensili, che sembrano essersi diffusi a Ravenna, a partire dalla sopraelevazione del Battistero Neoniano e nel campanile del Duomo, già nella seconda metà del X secolo, prima di passare in Lombardia e poi in Catalogna e in Germania, si tratta in realtà di un partito ornamentale originario dell’architettura mesopotamica in laterizio, che compariva ad esempio nell’ivan sasanide di Ctesifonte (seconda metà III sec.), per poi venire adottato in absidi di chiese lapidee siriache del V secolo. Fonte di ispirazione per le chiese protoromaniche della Romagna può essere stato proprio il mausoleo di Teodorico, chiaramente influenzato dalla Siria se non proprio attribuibile ad un architetto siriaco come è stato più volte ipotizzato: intorno al cilindro del piano superiore girano infatti archetti pensili in negativo, come ritagliati entro lo spessore murario, in cui HEIDENREICH-JOHANNES (Das Grabmal cit., pp. 34-51) hanno ricono-


163 sciuto da una parte tracce di interruzione di un progetto mai portato a termine, dall’altra un elemento ornamentale destinato a restare così, visto che le superfici di fondo degli incavi sono state accuratamente trattate in modo da mostrare la forma ricurva della struttura interna. 121 Il nome Marino, inusuale in Toscana, era diffuso nel Medioevo in tutta l’area alto e medio adriatica, compresa la Dalmazia, da dove la leggenda fa venire il santo fondatore dell’eremo di San Marino, all’origine dell’omonima repubblica. Cfr. G. ASSORATI, Le figure storiche di san Leo e san Marino, in Arte per mare. Dalmazia, Titano e Montefeltro dal primo Cristianesimo al Rinascimento, catalogo della mostra (San Marino 2007), a cura di G. Gentili e A. Marchi, Cinisello Balsamo 2007, pp. 24-29. L’abate è documentato in carica dal 1004 al 1019 (Le carte cit., docc. 16, 18-21, 23, 25, 27), ma potrebbe essere stato in carica già alla morte di Ugo o comunque quando se ne allestì il sepolcro. Raccogliendo una macabra diceria che circolava fra i monaci della Badia, san Pier Damiani racconta infatti che Ugo apparve in sogno a Marino, chiedendogli di aprire la tomba e adagiare correttamente il cadavere, che giaceva a testa in giù, in posizione supina, cosa che sarebbe poi avvenuta: “Ajunt enim, quia praefatus marchio Marino abbati, qui monasterium id tunc regebat, per speciem nocturnae visionis apparuit; atque, ut corpus suum in supinum juxta consuetudinem volveret, quod in os reclinatum jacebat, admonuit. Quibus profecto visionibus abbas fidem praebens, probare rem voluit, et honesti viri corpus pronum, et in faciem jacens, sicut sibi revelatum erat, inveniens, reverenter, ut decebat, in latus alterum supinavit. Nec mirum, plane, si vir iste sepulturae consuetudinem petiit, quam et ipse circa se caput electorum omnium voluit exhiberi”. Cfr. FALCE, Il marchese cit., pp. 70-71; CALAMAI, Ugo cit., p. 243. 122 Per C. CIPOLLA (Per la storia d’Italia e de’ suoi conquistatori più antichi, Bologna 1895) la leggenda di Teodorico precipitato nel vulcano deriva da un racconto nestoriano d’età sasanide in cui si narra di un re persiano sprofondato in un cratere per aver ostacolato il viaggio dei Re Magi a Betlemme. Isidoro di Siviglia (Etymologiae, XIV, 8) riconduceva il nome dell’Etna a quello ebraico dell’Inferno: “Mons Aetnae ex igne et sulphure dictus, unde et Gehenna”, seguito da Vincenzo di Beauvais (Speculum Naturale, VII, 22); e per Goffredo da Viterbo (Pantheon) l’Etna è l’ingresso all’Inferno: “Mons ibi flammarum, quas evomit, Aetna vocatur: hoc ibi tartareum dicitur esse caput”. Secondo san Pier Damiani, nella Vita di Odilone abate di Cluny - l’ideatore della festa dei morti -, seguito da Gervasio di Tilbury (Otia Imperialia, III), dall’Etna si sentono i lamenti delle anime tormentate dai diavoli ed ogni volta che ne fuoriesce una fiammata si tratta del segno della prossima morte di un uomo potente che sarà dannato; Cesario di Heisterbach (Dialogus miraculorum, XII, 7-9, 13) racconta quattro aneddoti relativi a membri della nobiltà tedesca dei suoi tempi, fra cui Berthold V di Zähringen, morto nel 1218, che sarebbero stati gettati nel vulcano, ovvero nel monte “Gyber” (Mongibello, cioè Etna), come viene specificato proprio nel testo su Berthold (XII, 12). La dinamica dei primi tre racconti (XII, 7-9) è questa: dei pellegrini tedeschi si recano in nave a Gerusalemme, passando accanto ad un’isola con un vulcano, dal quale odono terribili lamenti e voci sghignazzanti di diavoli che si preparano ad accogliere questo o quel nobile malvagio, morto in quel momento; al ritorno in patria i pellegrini vengono a sapere che il signore del castello era morto proprio in quell’ora precisa. Cfr. A. GRAF, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, I, Torino 1892, pp. 316, 333 note 21-25; Idem, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1883, ediz. ampliata cons. Torino 1923, pp. 644-645, che menziona autori successivi a Gregorio Magno e Paolo Diacono che individuano il vulcano in cui sarebbe finito Teodorico nel Vesuvio. Secondo Giosuè


164 Carducci, che ne parla nella sua celebre poesia sulla Leggenda di Teodorico, in cui sintetizza diverse credenze sulla fine del re barbaro, egli sarebbe precipitato nello Stromboli. 123 Cfr. GRAF, Roma, cit., p. 645 nota 60: “Si narra in essa che Ansoaldo, vescovo di Poitiers, tornando in Sicilia, approdò ad una piccola isola, di cui non si dice il nome, ma che assai probabilmente è quella medesima isola di Lipari che figura nel racconto di Gregorio Magno. Dimorava quivi un santo eremita per nome Giovanni, il quale narrò al vescovo come una volta egli, mentre giaceva immerso nel sonno, fosse destato da un vecchio, il quale gli disse che in quel giorno medesimo re Dagoberto era morto, e gli raccomandò di pregare per l’anima dell’estinto. Quando ebbe ciò fatto, il solitario vide venire pel mare una barca piena di demonii, che ne portavano l’anima di Dagoberto ai Vulcania loca; ma in quella appunto, avendo il re invocato in suo ajuto san Dionisio, san Maurizio e san Martino, questi santi scesero folgoreggiando dal cielo, liberarono il prigioniero dalle mani dei diavoli, e seco lo levarono in cielo”. 124 Ma circolava anche l’opinione, raccolta a Ravenna da Andrea Agnello (Liber Pontificalis, 94), che si trattasse di un monumento all’imperatore d’Oriente Zenone eretto da Teodorico. Forse l’iscrizione frammentaria o difficilmente leggibile dava adito ad entrambe le interpretazioni. Effettivamente nel 551 Jordanes (Getica, 57) aveva scritto che Zenone, grato di essere stato rimesso sul trono, dopo esserne stato deposto nell’agosto 477, da Teodorico (che considerava suo fratello, essendo quest’ultimo figlio adottivo di Leone Isaurico, padre di Zenone), avrebbe eretto a Costantinopoli un monumento equestre in onore di Teodorico, cosa ripetuta da Paolo Diacono (Historia Romana, XV, 13), che soggiornò in vecchiaia alla corte di Carlo Magno. Quindi quest’ultimo potrebbe semplicemente aver fatto confusione fra il monumento equestre di Ravenna e quello di Costantinopoli. Dal momento poi che è improbabile che alla fine dal V o all’inizio del VI secolo si realizzassero ancora monumenti equestri bronzei in Italia, sospetto che quello prelevato a Ravenna da Carlo Magno fosse in realtà un’opera dell’età imperiale romana, magari di Augusto in quanto fondatore di Classe, eventualmente riusato da Teodorico in onore di Zenone, ribattezzandolo tramite una nuova iscrizione dedicatoria. Ciò spiegherebbe anche la sopravvivenza del monumento alla damnatio memoriae teodoriciana della seconda metà del VI secolo: i Bizantini non avranno avuto motivo di distruggere un monumento di Augusto o uno creduto eretto in onore di Zenone. Successivamente questo monumento equestre di Aquisgrana sarebbe stato confuso in Italia col Regisole di Pavia e col Marco Aurelio di Roma, generalmente invece creduto raffigurare Costantino. Su queste questioni cfr. GRAF, Roma cit., pp. 460-461; V. WIEGARTZ, Antike Bildwerke im Urteil mittelalterlicher Zeitgenossen, Weimar 2004, pp. 43-45. L’autoidentificazione di Carlo Magno o di qualche suo immediato successore con Teodorico è comprovata dal piccolo gruppo equestre bronzeo al Louvre, assegnabile ad epoca carolingia, proveniente da Metz in Alta Lotaringia. 125 Valafrido sembra essere stato a conoscenza tanto della vasca di porfido a Ravenna, visto che parla dei bagni termali, che della fine di Teodorico in un vulcano, che associa con i Campi Flegrei e il Lago Averno, dove Virgilio poneva l’ingresso agli Inferi: “Tetricus Italicis quondam regnator in oris/ multis ex opibus tantum sibi servat avarus/ at secum infelix piceo spatiatur Averno,/ cui nihil in mundo, nisi vix fama arida restat,/ quamquam thermarum vulgus vasa praeparet olli,/ hoc sine nec causa, nam omni maledicitur ore,/ blasphemumque Dei ipsius sententia mundi/ ignibus aeternis magnaque addicit abysso”. Cfr. GRAF, Roma cit., p. 644. Per la poesia di Valafrido cfr. H. HOMEYER, Walahfrieds Gedicht über das Theoderich-Denkmal in Aachen, in Platonismus und Christentum. Festschrift für Heinrich Dörrie, a cura di H.D. Blume e F. Mann, in


165 “Jahrbuch für Antike und Christentum”, Supplemento X, 1983, pp. 106-117. 126 Cfr. L. WOLFF, Denkmale und Denkstätten deutscher Heldensage und Heldendichtung in Südtirol, in “Der Schlern”, XLIX, 1975, pp. 224-229: 225-226; A MASSER, Von Theoderich dem Grossen zu Dietrich von Bern - die Wandlung der historischen Person in die literarische Figur Dietrich con Bern, in Mythen Europas, Schlüsselfiguren der Imagination. Mittelalter, a cura di I. Milfall e M. Neumann, Regensburg 2004, pp. 68-89; A. GOLTZ, Barbar - König - Tyrann: das Bild Theoderichs in der Überlieferung des 5. bis 9. Jahrhunderts, Berlin et alibi 2008. 127 Nei 68 versi allitterati superstiti della Canzone di Ildebrando si assiste ad un enigmatico (a causa della perdita dell’inizio della narrazione) duello fra Ildebrando ed Adubrando, nomi fittizi che descrivono le qualità delle loro spade, i brandi, ambientato a Verona o forse alle Chiuse Veronesi, teatro di storiche battaglie, su cui svetta un Castel Ildebrando. Trent’anni prima Ildebrando aveva seguito Teodorico nell’esilio causato dall’ostilità di re Ermanarico, trovando rifugio a Verona fra le schiere di Attila. Ora deve fronteggiare dei guerrieri del proprio popolo, i Goti, fra i quali individua il figlio Adubrando, che però non lo riconosce, essendosi lui allontanato quando il figlio era ancora piccolo. Ildebrando chiede ad Adubrando di quale stirpe sia, cioè di elencare i suoi antenati, cosa che conferma che si tratta di suo figlio, e gli offre in segno di pace le proprie armille, ottenute in dono da Attila; ma Adubrando, riconoscendo che si tratta di oreficeria unna e non gota, insulta Ildebrando chiamandolo maledetto unno, per cui quello, ferito nell’onore, si dibatte fra il dovere di uccidere il nemico insolente e quello di farsi riconoscere dal figlio, entrambi previsti dal rigido codice d’onore della sua gente. Non sappiamo come va a finire, per la perdita della conclusione del racconto, ma è probabile che almeno nella più cruda versione originale i due si uccidessero a vicenda. La tragedia acquista un senso se ambientata non ai tempi di Attila e poi Teodorico re degli Ostrogoti, quando i barbari dominavano ormai incontrastati, ma in quelli fra IV e prima metà del V secolo, quando poteva capitare che i guerrieri di una stessa tribù si scontrassero facendo parte di schieramenti diversi, ed i Romani cercavano di sfruttare queste divisioni, a causa di vecchie faide, applicando il principio del “divide et impera”. In questo periodo, quello del nomadismo delle migrazioni, l’oreficeria aveva un preciso ruolo di segno di riconoscimento delle tribù; e quella dei Goti mostra effettivamente in qualche caso l’adozione di elementi cinesi, giunti tramite la Via della Seta e forse la mediazione di popolazioni turco-altaiche come appunto gli Unni. 128 L’iscrizione in alto recita: “O REGEM STULTUM, PETIT INFERNALE TRIBUTUM/ MOXQUE PARATUR EQUUS, QUAM MISIT DEMON INIQUUS/ EXIT AQUA NUDUS, PETIT INFERA NON REDITURUS”; quella sopra alla seconda formella: “NISUS EQUUS CERVUS CANIS HUIC DATUR, HOS DATUR, HOS DAT AVERNUS”. Cfr. R. FASANARI, La leggendaria caccia di Teodorico nei rilievi della Basilica di S. Zeno, in “Vita veronese”, VIII, 1955, pp. 11-16; M. CARRARA, La ‘leggenda di Teodorico’ e le sculture sulla facciata della Basilica zenoniana di Verona, in Verona in età gotica e longobarda, atti del convegno (Verona 1980), Verona 1982, pp. 5368; G. VALENZANO, La Basilica di San Zeno in Verona, Vicenza 1993, pp. 131-132, cat. 2. La damnatio memoriae di Teodorico proprio a Verona, città con la quale lo associavano le leggende germaniche, è palesata dalle tracce concavi sulle due lastre del rilievo, spiegate da Giovanna Valenzano “per l’uso secolare di strofinare la pietra con dei ciottoli, per procurare scintille e puzza di bruciato”. Un intento di dissociazione dalle leggende tedesche sul ritorno di Teodorico lo si può cogliere nelle parole “petit infera non rediturus”. Giovanni da Verona (Historia Imperialis) da un lato dice che Teodorico sareb-


166 be morto come Ario di un “gravissimo ventris profluvio”, come già aveva affermato Andrea Agnello, ma aggiungendo che avrebbe evacuato tutte le sue interiora, dall’altro contraddicendosi riferisce una leggenda popolare secondo la quale Teodorico continuerebbe a cacciare su un cavallo mandatogli da suo padre Satana: “Hic est Theodoricus, quem Veronenses appellant Diatrichum, de quo fabulose fertur a personis vulgaribus quod fuit genitus a diabolo, et regnavit Verone, et fecit fieri arenam veronensem; et postmodum, misso nuntio ad infernum, recepit a patre suo diabolo equum unum et canes, et dum hec munia Theodoricus accepisset tanto gaudio repletus est, quod de balneo in quo lavabatur, solum involutus linteamine, exiens, equum ascendit, et statim nunquam comparuit, set per silvas adhuc de nocte venari dicitur et persequi nimphas”. Cfr. GRAF, Roma cit., pp. 645-646, 648. 129 Artù, che secondo l’originaria leggenda celtica sarebbe stato accolto nell’isola di Avallon, poi identificata con Glastonbury, secondo una credenza originatasi nella Sicilia dei Normanni si troverebbe invece nell’Etna, come affermano Gervasio di Tilbury (1212), Cesario di Heisterbach (1221), in un aneddoto (XII, 12) che contraddittoriamente sta in mezzo ai quattro in cui l’Etna è equiparato all’Inferno (vedi qui nota 122), e poi Stefano di Borbone morto nel 1261 e all’inizio del Trecento il poema francese Florian et Florète; invece secondo l’autore del Lohengrin Artù regnerebbe in un monte dell’India insieme con i cavalieri del santo Graal. Arturo Graf riconduce plausibilmente questa modifica dell’originario romanzo arturiano bretone ad un influsso germanico (GRAF, Miti cit., pp. 303-325). Sospetto che anche il racconto nel Milione di Marco Polo sul “gran vecchio della montagna” a capo della setta islamica degli Assassini, cioè dei drogati di hashish, sia frutto di contaminazione di queste leggende europee con quanto il viaggiatore veneziano può aver sentito raccontare sui Drusi. Un’analoga contaminazione, questa volta con la mitologia classica, è avvenuta nella leggenda tedesca di Tannhäuser, il boscaiolo della Turingia prigioniero di una montagna incantata, nella quale regna “Frau Venus”, che lo ha ammaliato come lo fu Ulisse da parte di Circe. 130 Edito in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores Rerum Germanicarum, a cura di A. Hofmeister, Hannoverae-Lipsiae 1912, p. 232. Martino Polono (o di Troppau/Opava) confondeva invece Attila con Totila, dando luogo all’oscillazione fra i due re barbarici come presunti distruttori di Firenze nella storiografia fiorentina del DueTrecento, cfr. T. MAISSEN, Attila, Totila e Carlo Magno fra Dante, Villani, Boccaccio e Malispini. Per la genesi di due leggende erudite, in “Archivio storico italiano”, CLII, 1994, 2, pp. 561-639. 131 Per il Wartburgkrieg e le leggende sudtirolesi su Laurino, che è il nome ladino di una vetta delle Dolomiti, cfr. WOLFF, Denkmale cit., p. 225. A. MASSER e M. SILLER (Der Kult des heiligen Oswald in Tirol und die ‘Hirschjagd’ der Burgkapelle von Hocheppan, in “Der Schlern”, LVII, 1983, 2, pp. 55-91: 77 ss.) sostengono invece che l’affresco rappresenti un episodio della leggenda di sant’Osvaldo, re di Northumbria nel VII secolo, il cui culto è diffuso in Tirolo: per distrarre il padre e i parenti della sua fidanzata, che non acconsentivano alle nozze perché pagani, il santo avrebbe coll’aiuto divino distratto la loro attenzione mediante un prodigioso cervo dorato, che essi avrebbero inseguito, approfittando così per rapire la principessa. Tuttavia se di questo si trattasse i cacciatori dovrebbero essere più di uno ed il cervo dovrebbe essere dorato, cosa che non è, e da qualche parte si dovrebbe vedere Osvaldo con la principessa. L’ipotesi è dunque da respingere ed occorre tornare all’interpretazione dell’affresco come caccia di Teodorico, già sostenuta da G. GEROLA (La caccia demoniaca di Teodorico in un affresco dell’Alto Adige, in “Il Nuovo Trentino”, IV, 1921, p. 255) quando dell’affresco, poi liberato dalla scialbatura


167 sotto la sua direzione nel 1926, si vedevano solo pochi lacerti. Questa interpretazione è stata accolta, sia pure con qualche dubbio, anche da H. SZKLENAR (Die Jagdszene von Hocheppan - ein Zeugnis der Dietrichsage?, in Dichtung des Mittelalters, atti del convegno (Neustift bei Brixen 1977), a cura di E. Kühebacher, Bozen 1979, pp. 407-465), che già vede nell’iconografia della scena un riflesso delle leggende nordiche su Teodorico. Al Gerola si deve anche la scoperta di un rilievo lapideo del XII secolo nell’abbazia di Sant’Ellero di Galeata in provincia di Forlì (una statua-colonna del chiostro è nel locale Museo Mambrini, due ai Cloisters di New York), località in cui nel 1942 furono scavati i resti di una villa tardoantica creduta di Teodorico: si tratta di una raffigurazione caricaturale di Teodorico a cavallo di un asino imbizzarrito, fermato da un angelo, come chiarito dal titulus, dunque di una contaminazione della leggenda della caccia al cervo con l’episodio biblico dell’asina di Balaam, legata ad un mito di fondazione dell’abbazia di Galeata. Cfr. G. GEROLA, An old representation of Theodoric, in “Burlington Magazine”, XXXII, 1918, pp. 146-151. 132 GAUDENZI, Una romanzesca biografia cit., pp. 275-276 capp. VI-VII. Nel racconto di Andrea all’episodio di Buonsollazzo è anteposta un’apparizione della Vergine durante una battuta di caccia al capriolo di Ugo in Valdarno di Sopra nella selva di “Castro”, che credo corrisponda al valico di Gastra sopra Pian di Scò (dove esisteva un eremo di San Bartolomeo, fondato nel 1014, su un terreno donato nel 1008 all’abbazia di Santa Trinita in Alpe, cfr. A. FAVINI, Insediamenti eremitici nella Toscana medievale, Firenze 2013, p. 74). Questo miracolo si iscrive in un luogo comune dell’agiografia, presente fra l’altro nelle leggende dei santi cacciatori Giuliano, Eustachio ed Uberto. Alla visione dell’Inferno in Mugello segue l’incontro coll’eremita Eugenio – anche questo un elemento topico presente ad esempio nella leggenda dei tre vivi e dei tre morti affrescata da Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa –, nella cui casupola Ugo si addormenta, vedendo in sogno le sette chiese abbaziali che deve fondare in espiazione dei suoi peccati, che gli vengono fatte visitare da un angelo (ibidem, pp. 277-278 cap. VIII). Anche qui i possibili riferimenti letterari non mancano, dalle sette chiese dell’Asia cui Giovanni indirizza la sua visione (Apocalisse, I, 4) al sogno rivelatore di san Galgano Guidotti prima di ritirarsi eremita a Montesiepi, dove sarebbe poi morto nel 1181 (cfr. TIGLER, Toscana cit., p. 322). Questi episodi mancano nel più scarno resoconto di Giovanni Villani, per cui FALCE (Il marchese cit., pp. 85-87) plausibilmente riteneva che Andrea attingesse a fonti precedenti e più loquaci, che collocava dopo l’XI secolo, verosimilmente nel XIII, anche a causa della notizia non più verificabile, tramandata da Puccinelli, che sarebbe esistito nella Badia Fiorentina un manoscritto con la Vita di Ugo del 1216, del quale si sarebbe servito nel 1491 Lorenzo Ciati nella sua Ugonis comitis madeburgensis et Abbatiae Florentinae edificatoris vita (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Conv. B.7. 2883). Tuttavia, come chiarisce CALAMAI (Ugo cit., p. 254), il Ciati, che si basa direttamente sull’Epistula di Andrea, non cita affatto una Vita di Ugo del 1216, bensì un documento di quell’anno relativo ai patti fra la Badia Fiorentina e quella di Petroia. Le concordanze fra il Villani, che scrisse gran parte della sua cronica su incarico del Comune di Firenze entro il 1333, ma con qualche aggiunta fino alla morte nel 1348, quando era rinchiuso nel carcere delle Stinche, e Andrea, che scrisse nel 1345, sono così strette che in ogni caso si deve ammettere che, anche se Andrea disponeva pure di un’altra fonte perduta, egli ha uniformato il suo testo a quello del cronista ufficiale del Comune, pur permettendosi di contraddirlo riguardo all’anno di morte di Ugo (GAUDENZI, loc. cit., pp. 285-286 cap. XVII): “ac honorifice sepultum est corpus ipsius XII kal. ianuarii, anno Domini ab incarnatione millesimo primo: aliqui habent millesimo


168 sexto; quo die celebratur festum beati Thome apostoli. Et perinde quolibet anno tali die annalis ipsius celebratur in dicta abbatia”. È proprio il Villani (IV, 2) che aveva sbagliato: “e morì nella città di Firenze il dì di santo Tommaso gli anni di Christo MVI, e a grande honore fu soppellito alla Badia di Firenze”. Questa correzione dimostra inequivocabilmente che Andrea conosceva la Nuova Cronica, di cui del resto sembra aver tenuto conto anche nell’explicit (come si è visto in nota 92), accogliendo la congettura del cronista riguardo al marchesato di Brandeburgo in contraddizione con quanto aveva scritto nei capitoli precedenti. 133 Vedi nota 8. Cfr. GALLETTI, Ragionamenti cit., pp. 83-84; DAVIDSOHN, Forschungen cit., I, p. 32, che ipotizza anche che le parole messe in bocca ad Ugo a cavallo a Buonsollazzo da Lorenzo Ciati (“Domine mi, domine mi, dies est et hora equitandi”) – con la loro allitterazione di tipo germanico che fa venire in mente i Carmina Burana – vengano da una vecchia canzone popolare. 134 FALCE, Il marchese cit., pp. 76-77. 135 M. POCCIANTI, Vite de’ sette beati fiorentini fondatori del sacro ordine de’ Servi. Con un epilogo di tutte le chiese, monasteri, luoghi pij, e compagnie della città di Firenze, Firenze 1589, p. 165; F, BOCCHI, Le bellezze della città di Firenze, Firenze 1591, pp. 190 ss.; CALAMAI, Ugo cit., pp. 178-179. 136 Carte della Badia di Settimo cit., docc. 48, 64-65.


Fig. 1. Pianta di Firenze al principio del XIII secolo, particolare con la Badia Fiorentina (da Davidsohn 1896)

Fig. 2. Complesso della Badia Fiorentina a volo d'uccello


Fig. 3. Ricostruzione della Badia nella prima metĂ dell'XI secolo (da Uetz 2003)

Fig. 5) Pianta della Badia ricostruita fra 1627 e 1631 (da Paatz 1940)

Fig. 4. Pianta della Badia ricostruita fra 1285 e 1310 (da Middeldorf-Paatz 1932)

Fig. 6) Ricostruzione della pianta della Badia nel X secolo secondo Paatz


Fig. 7. Ricostruzione della pianta della Badia nel X secolo secondo Uetz

Fig. 8. Ampliamento della Badia nel XII secolo secondo Uetz


Fig. 9. Mino da Fiesole, monumento sepolcrale di Ugo di Toscana, 1481, Firenze, Badia, particolare

Fig. 10. Firenze, Badia, prospetto della sala capitolare, 1358-65


Fig. 11. Firenze, Badia, campanile, piano immediatamente sottostante alla parte alta ricostruita dal 1330, particolare

Fig. 12. Stemmi del marchese Ugo e delle famiglie fiorentine che sostenevano di averli avuti da lui (da Borghini 1585)


Fig. 13. Xilografia con tomba ed epitaffio del marchese Ugo, giĂ nella Badia (da Puccinelli 1643)

Fig. 14) Firenze, Palazzo Pitti, labrum del II sec. d.C. riusato come tomba del marchese Ugo, morto nel 1001, giĂ nella Badia


Fig. 15. Roma, San Bartolomeo in Isola, labrum antico riusato come contenitore di reliquie forse nel 1000

Fig. 16. Disegno schematico della tomba di Ottone II, morto nel 983, assemblata da pezzi antichi, giĂ a Roma, quadriportico di San Pietro in Vaticano (da Grimaldi 1619)


Fig. 17. Ravenna, mausoleo di Teodorico, labrum antico riusato come tomba di Teodorico, morto nel 526

Fig. 18. Parigi, Louvre, labrum antico riusato come tomba di Dagoberto II, morto nel 638, proveniente da Saint-Denis


Fig. 19. Nicolò, due rilievi con caccia di Teodorico, Verona, San Zeno, facciata, 1138 circa

Fig. 20. Castel d'Appiano (Bolzano), cappella, parete esterna d'ingresso, affresco con caccia di Teodorico, prima metĂ XIII secolo



APPENDICE SU ALI D’ANGELO. VIAGGIO NEI LUOGHI AD INSTAR GARGANI TRA GENTI E CULTURE D’EUROPA

La profonda suggestione motivata dalla fede ha fatto sì che le contrade più lontane d’Italia e d’Europa, fossero disseminate di manifestazioni devote legate al Monte Gargano, ove un evento prodigioso verificatosi nel lontano V secolo, ha dato origine al più antico santuario micaelico d’Occidente. Questo mio intervento, perciò, si rifà a un ‘pellegrinaggio’ durato nel tempo e vuole essere essenzialmente un invito a fare un viaggio affascinante, quello dei pellegrini in cammino per viam sancti Michaelis alla scoperta semplice e diretta di quelle chiavi che possono aiutare a comprendere lo spirito, la bellezza, le ragioni che hanno ispirato tanti pellegrini, uomini e donne, nel corso dei secoli a visitare il santuario micaelico del Gargano e a riprodurlo, sì proprio ad instar Gargani, sui monti e colli d’Italia e d’Europa, in anfratti, grotte e gravine. Circoscrivere e definire l’identità del santuario di Monte Sant’Angelo, ripercorrerne la storia e coglierne i caratteri originali, individuarne gli aspetti salienti e al tempo stesso evidenziarne le differenze, significa, a mio parere, scoprire quella incredibile sintesi di consuetudini e tradizioni susseguitesi nel corso dei secoli, che qual eco vivamente risonante ha percorso l’avvicendare dei secoli e dei popoli, dalla civiltà pagana-sacrale dedita al culto degli dei a quella biblico-cristiana del culto degli Angeli. In un’Europa rinsaldata da comune radici cristiane e da storia, il san-


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Alberto Cavallini

tuario del Monte Gargano si presenta ed è un luogo speciale che ha gettato ponti tra genti e culture anche in epoche contrassegnate da conflitti e incomprensioni delle tradizioni, ed ha saputo unire tanti nella comune e inesausta ricerca della Bellezza, dell’Assoluto insomma, facendo prendere coscienza della vocazione d’ogni uomo a partecipare all’eterno disegno divino. Fonti storico-letterarie Documenti antichi1 ci parlano degli eventi prodigiosi successi nel V secolo sul Monte Gargano. Eccone la sintesi. Narra la Legenda garganica che nell’anno 490 viveva in Siponto un ricco signore di nome Gargano, proprietario di armenti pascolanti tra le valli ed i colli del Monte. Un giorno di primavera, un pregevole toro fuggì sulla cima del monte, si imboscò in una grotta e non ritornò tra le mandrie. Ciò indusse subito il signore sipontino a mettersi in ricerca dell’animale insieme a servi e guardiani. Ritrovatolo immobile e ieratico in una spelonca, il padrone, furioso perché l’animale non rispondeva ai richiami, lanciò verso il toro una freccia che respinta da un vento leggero e misterioso, tornò come un boomerang all’arciere, ferendolo gravemente. Turbati dall’avvenimento insolito, i Sipontini, servi e mandriani e padrone, fecero frettolosamente ritorno in città, trasportandovi il ferito padrone e pensarono di chiedere spiegazioni al vescovo dell’antica sede apostolica, il quale ordinò subito un digiuno di tre giorni e preghiere. Al termine della devota penitenza, l’arcangelo Michele in persona apparve al vescovo2 orante e gli disse che il ferimento era accaduto per sua volontà; non solo, ma il celeste Spirito si qualificò come l’Arcangelo del Signore. Infatti, disse “…Io sono Michele, l’arcangelo che sta sempre dinanzi al trono di Dio, ed ho stabilito di conservare la grotta del monte per me. Così ho dimostrato di esserne il vero Custode”. Il santo vescovo e il popolo di Siponto si recarono subito processionalmente alla grotta del Gargano, ma non osarono entrarvi e si limitarono a pregare al suo ingresso in quanto avevano udito canti angelici che provenivano dall’interno. Il seguito della Legenda giustifica e spiega la costruzione delle fabbriche del santuario. Nell’anno 492, cioè due anni dopo i fatti prodigiosi raccontati sopra e identificati come la prima apparizione dell’Arcangelo, Siponto, città romana con un importante porto per l’Oriente, fu assediata dai soldati di Odoacre. I pochi soldati di Teodorico che difendevano la città si mostrarono subito insufficienti a proteggerla dall’assalto dei barbari. Allora, il santo vescovo chiese ed ottenne una tregua durante la quale


Appendice. Su ali d’angelo. Viaggio nei luoghi ad instar Gargani tra genti e culture d’Europa

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digiunò ancora una volta insieme al popolo ed invocò l’aiuto dell’arcangelo Michele che riapparve al vescovo dicendogli che le preghiere erano state esaudite. Aggiunse anche che i Sipontini avrebbero vinto i Barbari con il suo patrocinio. E così avvenne. Mentre i Sipontini, sorretti dalla presenza di Michele che dal cielo combatteva al loro fianco, attaccavano e respingevano i nemici, il Gargano tuonava e si scuoteva tutto, sino alle sue viscere. In simili circostanze le schiere di Odoacre, terrorizzate e sgomente, fuggirono. Anche dopo la conseguita Vittoria, Vescovo e Sipontini erano tuttavia esitanti e timorosi di entrare nella caverna prescelta dall’Arcangelo. Il vescovo si consultò con papa Gelasio I che consigliò, a sua volta, di chiedere lumi all’Arcangelo stesso. Così, dopo un nuovo triduo di penitenza, per la terza volta Michele apparve al santo vescovo e disse: “Non dovete dedicarmi la grotta perché io stesso l’ho consacrata. Entrate pure e pregate sotto la mia assistenza celebrando i divini misteri: Io stesso vi mostrerò come ho consacrato quel luogo”. Così il vescovo con popolo e clero salì al Gargano, entrò nella caverna ove rinvenne un’ara, presumibilmente appartenente ad un precedente culto pagano, ricoperta da un panno rosso, chiamato poi pallio, sul quale era appoggiata una splendente Croce di cristallo – forse un coltello sacrificale – e sull’ara rocciosa un’impronta infantile era impressa in maniera ben evidente. Tutto ciò confermò ai Sipontini la presenza dell’Arcangelo di Dio. La Legenda, come tutti possono ben desumere, considerando oculatamente i fatti che narra, cela l’evidente evangelizzazione del sito garganico, con la esaugurazione dei culti pre-cristiani ivi diffusi ed ancora ben praticati: infatti, nell’antichità, nella nostra grotta del Monte Gargano, si veneravano i greci Calcante e Podalirio assieme a Mitra e Apollo ed i pastori sia all’inizio della stagione estiva, maggio-giugno, quando portavano armenti e greggi sui colli e sui monti del Gargano, sia alla fine di settembre, quando scendevano in pianura ai primi freddi autunnali, solevano compiere la incubatio, cioè offrire il sacrificio di un toro nero, caro al culto mitraico ed apollineo, alle divinità ctonie della grotta; quindi, dormivano tutta la notte sulla pelle dell’animale per ottenere in contraccambio dall’indovino ivi dimorante la divinatio. Gli eventi prodigiosi occorsi sul Monte Gargano ebbero ampia eco nella cristianità tardo-antica e medioevale tanto che il santuario micaelico del Gargano divenne una delle tre mete imprescindibili del pellegrinaggio medioevale, sintetizzato nelle tre mete – Homo, Angelus, Deus, cioè Roma, il Monte Gargano e Gerusalemme – e per la sua eccezionalità fu riprodotto e rappresentato in tante chiese con affreschi e tavole iconografiche.


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Iconografia Scopriamo ora solo alcune tracce, tra le più significative, scoperte durante il mio lavoro di ricerca sul culto micaelico e nei luoghi ad instar Gargani. Nel Meridione longobardo A Procida, isola bellissima del golfo partenopeo, è custodito un importante luogo micaelico, legato al Monte Gargano: quivi la protezione dell’Arcangelo è stata impiantata attraverso la trasposizione della seconda apparizione dell’Arcangelo, narrata dalla Apparitio garganica altomedioevale. Narra, infatti, la cronaca locale3 che Procida era assediata dai barbari turchi e gli abitanti dell’isola “…a momenti temevano di cadere nella mani barbare, ecco che il celeste Principe sceso dal cielo in loro aiuto, fè vedere la terra Murata talmente cinta di fuoco e vibrare fulmini e saette che il Barbaro corsale fu costretto non già a salpare ma rompere le gomene e fuggire spaventato e forse ripetendo terribilis est locus iste. San Michele da quel momento divenne il patrono e protettore dell’isola. 8 maggio 1535”. Ed infatti, una grande chiesa fu subito costruita e dedicata all’Arcangelo Michele, con annessi ambienti monastici, e fu impreziosita ed abbellita da pregevoli opere barocche, ispirate al Monte Gargano: due belle statue in argento dell’Arcangelo, ispirate all’iconografia garganica dell’Arcangelo, ed una in pietra posta sulla facciata della chiesa che fu appositamente commissionata e fatta venire dal Gargano, testimoniano ulteriormente questo legame ad instar Gargani. Ma sono le tele del pittore napoletano Nicola Russo che nel 1690 “pingebat” l’apparizione dell’Arcangelo al Monte Gargano, detta del Toro, e quella di San Michele che incatena Satana, che ci interessano, insieme a un’altra tela del 1699, opera di Nicola Ambrosini, che ritrae ad instar della seconda apparizione detta della Vittoria dei Sipontini, la vittoria dei procidani sui turchi con il patrocinio e l’aiuto di San Michele, proprio come successo secoli primi ai Sipontini contro i Goti assalitori. A Ravello sulla costa amalfitana, incantevole e celebre cittadina, ambita dal turismo internazionale, nel Duomo, a destra dell’altare maggiore mi sono imbattuto in una pregevole pala d’altare, datata 1583, opera dell’artista di scuola napoletana Giovannangelo D’Amato, attivo in costiera amalfitana nel XVI secolo: rappresenta l’Arcangelo Michele con ali dispiegate nell’atto di incatenare il diavolo. Sulla base della pala, poi, vi sono tre pannelli che raccontano le apparizioni del glorioso Arcangelo: a sinistra di chi guarda è la prima apparizione detta “del toro”, la seconda a destra è rappresentata quella a San Lorenzo vescovo, orante, infine al cen-


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tro è la terza apparizione dell’Arcangelo avvenuta a Roma sul pinnacolo di Castel sant’Angelo. Interessanti sono queste immagini sia per l’iconografia delle apparizioni che per quella degli ambienti geografici rappresentati. L’apparizione del toro è raccontata in maniera molto espressiva, in successione filmica, mentre l’apparizione a San Lorenzo di Siponto, invece, è in un certo senso eterea per la leggerezza di colori e forme. La pala proviene dall’altare maggiore della chiesa rupestre di s. Angelo, appena fuori del centro abitato della bella Ravello, un tempo assai importante per la comunità cittadina e per i pellegrini in quanto sede di un importante “ospitale destinato ad accogliere viandanti”. Tra gli affreschi del Rinascimento romano Innanzitutto, nel Palazzo apostolico, devo segnalare la presenza del grande affresco dell’apparizione sul monte Gargano dipinto nella Sala delle Carte geografiche da Antonio Danti tra il 1580 e il 1583 (fig. 1) su indicazioni precise del fratello, il padre Pellegrino Danti, domenicano e insigne matematico-cosmografo-architetto rinascimentale, che costituisce un ragguardevole documento del XVI secolo sull’importanza del Monte Gargano, insieme agli altri luoghi della cristianità, custoditi nella memoria della città di Roma. L’affresco presenta la processione dei Sipontini al Gargano, dominato dalla grotta circonfusa di luce nella cui mandorla appare l’Arcangelo glorioso e anche il toro nero, ginocchioni; essa è guidata da San Lorenzo vescovo con clero e popolo ed il paesaggio garganico è aspro e boscoso; l’arciere sipontino ferito, invece, è seduto a terra, sulla sinistra di chi guarda l’affresco. Nel cartiglio della descrizione della pianta del Tavoliere e del Monte Gargano è scritto “Apulia Daunia plana hodie dicta… optima est et maxima frumentaria vasto dorso Gargani Montis ubi sanctus Michael Arcangelus apparuit et colitur”4. Nella basilica dei Santi Apostoli, sempre in Roma, è ubicata la cappella Bessarione, da poco aperta al pubblico che così può ammirarne la ricca decorazione pittorica finora celata e recuperata da un attento restauro. Per vicende alterne susseguitesi nel corso dei secoli, la cappella costruita dal cardinal arcivescovo sipontino Trapezunto Bessarione, ha subito nefasti interventi pittorici e murari tali da compromettere l’impianto pittorico dei preziosi affreschi del Quattrocento romano con la conseguente cancellazione della loro memoria: nel 1545 gli affreschi furono, infatti, coperti con calce a seguito di un’inondazione del Tevere e nel 1650 furono in parte nascosti dalla costruzione della cappella di s. Antonio voluta dai francescani, custodi della basilica romana; ma fu negli anni 1729-1723 che essi furono completamente dimenticati ed oscurati con la costruzione della


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cappella Odescalchi, tuttora esistente e che è stata eretta come autentico paravento dinanzi agli affreschi. Oggi, grazie alla ricerca e al restauro, sono nuovamente visibili le due storie occidentali dell’arcangelo Michele, legate ai grandi santuari del Gargano e della Bretagna-Normandia, culminanti in alto con la presentazione dell’uomo a Cristo (cfr. Ps 8) da parte dei santi Angeli, psallanti incessantemente il Nome santo. Importanti sono i due riquadri affrescati con i due celebri episodi legati all’apparizione di San Michele: a sinistra è raffigurata l’apparizione al Gargano (fig. 2), a destra quella sul monte Tombe. Nell’affresco di sinistra si riconosce la città di Siponto cinta da mura ed il paesaggio rupestre del Gargano sulla cui cima è la grotta della apparizione micaelica con un gran toro bianco, podolico, ricercato affannosamente dai Sipontini, che respinge miracolosamente la freccia scagliatagli addosso da un arciere sul quale appunto ritorna. La scritta presente in basso chiaramente ci ribadisce che stiamo contemplando l’Apparitio sancti Michaelis in Monte Gargano. La scena presentata, dalla bellezza plastica rinascimentale veramente magnifica, è attribuita per la gran parte alla mano di Antoniazzo Romano, identificato nella persona dell’arciere giovane col capo coperto da uno zucchetto che si sta apprestando a tendere l’arco, mentre la mano di Melozzo è riconoscibile nella figura del toro e dell’arciere in abito viola posto sulla destra della scena, ritenuto un autentico autoritratto. Ma nell’Urbe, precisamente nella famosa e conosciuta Trinità dei Monti, vi è un altro importante ciclo di affreschi cinquecenteschi, da poco restaurati, legati alla figura del papa mediceo Clemente VII che nel 1527 resistette per ben sei mesi in Castel Sant’Angelo all’assedio di Carlo V. Gli affreschi presentano le tre più importanti apparizioni dell’arcangelo Michele avvenute in Europa: l’apparizione dell’Arcangelo a papa Gregorio Magno, in cui sono particolarmente evidenziati e gli scempi avvenuti durante il famoso sacco di Roma del 1527 e lo stemma mediceo posto sulla cappa del Papa Clemente VII che ordinò a Jacopo Siculo5 di raffigurarlo nell’episodio dell’apparizione dell’Arcangelo al posto del suo illustre predecessore, San Gregorio Magno, perché fosse ben noto che la città dei Papi e dei martiri, la culla della fede cattolica, era stata salvata ancora una volta grazie al potente patrocinio dell’arcangelo Michele (fig. 3). Nella lunetta di sinistra, invece, si narra la celebre apparizione garganica detta “del Toro” posto in alto sulla montagna con tre arcieri Sipontini che guarniti di archi, frecce e faretre, posti ai piedi del monte, sono intenti a costringere il toro a discendere dalla caverna impervia (fig. 4). Nella lunetta speculare di destra è riprodotta la fondazione del santuario del Mont-Saint-Michel con la imponente figura dell’orante vescovo Saint


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Autbert e del toro, simbolo della presenza dell’Arcangelo, che è posto in alto sul monte. La rassomiglianza con l’analogo ciclo di affreschi, di recente scoperti e sopra citati, presenti nella chiesa dei Santi Apostoli, è evidente. Infine, tra i luoghi laziali che ci parlano del culto micaelico del Monte Gargano, c’è anche la cittadina di Caprarola, posta lungo l’ultimo tratto della Francigena, la “via lattea” percorsa dai pellegrini d’ogni tempo, cittadina nota per lo splendido palazzo Farnese, innalzato dal Vignola, ove sono custoditi affreschi cinquecenteschi, riproducenti l’iconografia dell’arcangelo Michele: l’apparizione a Papa Gregorio Magno e quella del Toro sul Monte Gargano (fig. 5). Nell’elegantissima ed eterea Sala degli Angeli con curiosi effetti d’eco e di risonanza, fastosamente affrescata dagli artisti rinascimentali Jacopo Zanguidi detto il Bertoja nell’anno 1572 e da Raffaelino Motta da Reggio e Giovanni De’ Vecchi negli anni 15741575, con grande stupore mi sono imbattuto nell’affresco illustrante l’apparizione micaelica al Monte Gargano dettagliatamente rappresentata con l’arciere ferito, il toro podolico, la grotta prescelta dall’Arcangelo, i mandriani con i caratteristici abiti rinascimentali, il popolo ed il Vescovo di Siponto oranti processionalmente, il golfo e la città di Siponto, il Gargano boscoso e impervio. E poco lontano da Caprarola, appena fuori dall’abitato di Sutri, a poca distanza dall’anfiteatro, si apre ai piedi di una parete di tufo la grotta di un antico Mitreo, trasformato nel Medioevo, attraverso il noto processo di “esaugurazione”, in grotta dedicata al culto dell’Arcangelo Michele ed adattata ad instar Gargani: un ambiente di una bellezza singolare e davvero suggestiva. Nel vestibolo arricchito da espressivi affreschi medioevali (fig. 6) spicca un arciere, il nobile sipontino proprietario di mandrie che sta per essere colpito dalle frecce miracolosamente respinte da un toro che è ginocchioni. Inoltre, si vede una lunga teoria di pellegrini che dopo aver percorso la Francigena – Sutri è ubicata appunto nel suo ultimo tratto – stanno per giungere a Roma e da qui, poi, si inoltravano per la via s. Michaelis per giungere al Monte Gargano, meta agognata, rappresentata dall’episodio del Toro. Nell’affresco è riportato dettagliatamente il tipico vestiario medioevale indossato dai pellegrini: il mantello, il cappello, la scarsella o bisaccia, ed il bordone per sostenersi nel viaggio e per difesa da predoni. Questo singolare sito micaelico, in parte scavato nella roccia ed in parte naturale, presenta tre navate, di cui quelle laterali divise da pilastri ed illuminate da finestrelle laterali sono simili a corridoi sopraelevati, i famosi deambulatori pagani riservati agli iniziati al culto mitraico.


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Tra gli affreschi medioevali della regione Toscana La Toscana è un’importante regione costellata di monasteri ed ospizi per pellegrini in quanto interamente attraversata dalla Via Francigena usata dai pellegrini per recarsi a Roma per visitare la tomba degli Apostoli Pietro e Paolo, prima tappa del pellegrinaggio medioevale chiamata Homo, e poi proseguendo attraverso la via Appia-Traiana i pellegrini più ferventi giunti in Puglia salivano al Monte Gargano, seconda tappa del cammino chiamata Angelus, prima di imbarcarsi nei porti pugliesi di Sipontum o Turenum o Brundisium per raggiungere la Terra Santa, la sospirata meta del pellegrinaggio medioevale, chiamata Deus, per visitare il Santo Sepolcro. Ma la Toscana ha avuto nei secoli XII-XV un’importante presenza storica, quella dei monaci Pulsanesi, detti anche gli Scalzi, provenienti dal Gargano, ove nei pressi del santuario micaelico ebbero la loro Abbazia Madre e che curarono la diffusione del culto micaelico6. Dunque, in Toscana sia i pellegrini che i monaci pulsanesi diffusero la venerazione per i fatti prodigiosi avvenuti sul Monte Gargano tanto che ancor oggi nella regione abbiamo diverse e cospicue tracce. Nella celeberrima basilica di Santa Croce in Firenze, nel transetto destro che immette poi nella bellissima sacrestia, è ubicata l’antica cappella di San Michele, affrescata da un pittore fiorentino della prima metà del XIV secolo. Al grande affresco che presenta l’Arcangelo “Chi è pari a Dio?”, capo delle milizie celesti, vincitore del divisore tremendo, il diabolon, è contrapposto un leggiadro affresco rappresentante la Legenda garganica (figg. 7-8). Sulla sommità della roccia del Gargano, aspra, desertica e mistica, dominante tutto il grande affresco, è posta la grotta dell’Arcangelo ove un toro delle mandrie di Gargano, signore di Siponto, è fermo, estatico. L’affresco presenta, quindi, a sinistra l’episodio della freccia che a mo’ di boomerang ferisce il ricco signore di Siponto, e a destra di chi guarda, mostra la processione dei Sipontini, formata da clero e popolo, guidati dal santo vescovo Lorenzo, che, estasiato e orante e soprattutto guidato dall’Arcangelo, volge il suo sguardo al cielo, alla sommità della montagna, ove è la grotta, teatro dell’evento prodigioso dell’apparizione gloriosa di San Michele arcangelo. La bellezza dei colori e dei volti dei personaggi è davvero sublime e perfetta: la sosta per qualche minuto davanti a tanta bellezza non può che affascinare e indurre a meditare ogni visitatore. A San Casciano Val di Pesa (Firenze), ubicata lungo una delle diramazioni della Via Francigena, è custodita una bellissima tavola iconica di Coppo di Marcovaldo che presenta alla venerazione dei fedeli l’Arcangelo


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Michele in abiti diaconali, seduto in trono, impugnante con la destra il baculus viatorius e con la sinistra il ripidion con sopra impressa la Santa Croce (fig. 11). L’Arcangelo Michele, il divino Messaggero dell’Altissimo e il Diacono fedele, nella perfezione e pienezza della sua specifica natura di cooperatore del divino disegno di salvezza ha il volto, la forma corporea, la maestà delle vesti lumeggianti, insomma i caratteri che mostrano questa sua reale e regale funzione, mentre le iscrizioni, il nimbo che avvolge il suo capo, la fascia che avvolge i capelli e li tiene ben fermi, ricordo del filatterio ebraico, il ripidion con la Santa Croce, la fascia diaconale, il baculus, sono elementi che pongono in piena luce la sua realtà di Divino Messaggero inviato per testimoniare la sua fedeltà, Michael, quis ut Deus? La figura centrale e superba dell’Arcangelo è contornata da ben sei riquadri, di cui si offre una proposta di lettura. I primi tre presentano alla contemplazione dei fedeli alcuni episodi biblici in cui i santi Angeli sono protagonisti esemplari. Il primo (registro superiore a sinistra) ci parla degli Angeli come i ministri fatti di spirito e fuoco fiammante, fedeli alla Parola del Re celeste che ha fondato la terra. Dice il Salmista: “Qui facis angelos tuos spiritus et ministros tuos ignem urentem. Qui fundasti terram super stabilitatem suam non inclinabitur in saeculum saeculi”7. Gli Angeli rappresentati eseguono i comandi del Re e sul caos di fuoco, acque e masse informi, fondano la terra (quadrato) su cui pongono la sede del Re (cuscino regale). Interessante è notare come il Re celeste sia alato con il baculus imperialis nella destra e dunque personificato dal Principe degli Angeli, l’arcangelo Michael, Quis ut Deus, rivestito dell’abito diaconale che invita e raccomanda agli altri Angeli di ben ascoltare e concretizzare il Verbum del Re. Il secondo (registro superiore a destra) presenta gli Angeli come gli inviati fedeli del Re celeste il quale consegna loro il baculus viatorius, l’insegna distintiva del messaggero imperiale visibile nel segno del comando divino scaturito dalla sua Parola8. Qui l’artista ha presentato Cristo come il Re celeste – “qui videt me videt et Patrem”9 – seduto in trono con il libro della vita nella destra (cfr. Ap 5, 1-14) e con il volto segnato dal tipico ricciolo, simbolo per eccellenza della ipostasi del Verbo; gli abiti indossati e la simbologia dei colori usati rimandano ai canoni iconografici antichi alla persona del Verbo eterno del Padre il quale consegna il baculus viatorius ai quattro Arcangeli, Michele, Gabriele, Raffaele e Uriele. Possiamo capire meglio questa speciale funzione degli Arcangeli attingendo alla tradizione ebraica e soffermandoci sullo Shalom ‘aleykhem – il Pace a voi – che spiega la ministerialità dei santi Arcangeli10:


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Pace a voi, angeli ministri, angeli dell’Altissimo, del Supremo Re dei re, il Santo, Benedetto Egli sia. Venite in pace, angeli di pace, angeli dell’Altissimo, del Supremo Re dei re, il Santo, Benedetto Egli sia. Beneditemi con la pace, angeli di pace, angeli dell’Altissimo, del Supremo Re dei re, il Santo, Benedetto Egli sia. Andate in pace, angeli di pace, angeli dell’Altissimo, del Supremo Re dei re, il Santo, Benedetto Egli sia. haQadôsh, barûk hû’ il Santo, Benedetto Egli sia. Il terzo riquadro (registro centrale a sinistra) è ispirato dall’Apocalisse di San Giovanni apostolo che ci descrive come l’Arcangelo Michele abbia sconfitto ed incatenato Satana, il divisore11. I secondi tre riquadri, invece, narrano gli eventi prodigiosi della Apparitio sancti Michaelis in Monte Gargano e precisamente. Il quarto (registro centrale a destra) presenta l’episodio del toro e della freccia che colpisce l’arciere, il nobile sipontino proprietario di armenti. Il quinto (registro inferiore a sinistra) presenta i Sipontini che, dubbiosi e incerti, chiedono spiegazioni al Vescovo degli eventi successi sul Gargano. Infine il sesto (registro inferiore a destra) presenta l’apparizione di San Michele al vescovo di Siponto, rassicurandolo che la caverna del Monte Gargano è stata da Lui stesso scelta e consacrata. Interessante in questo riquadro è la figura del Vescovo rivestito dei paramenti pontificali il quale, mentre nel riquadro precedente è intento all’ascolto del racconto dell’evento prodigioso della freccia da parte dei fedeli Sipontini e come Vescovo è seduto sulla cattedra episcopale, in questa scena dell’apparizione dell’Arcangelo, si trova invece nell’episcopio, rappresentato in ginocchio davanti all’Arcangelo e di lui Coppo ha ben evidenziato il volto con un cerchio, il nimbo, segno dell’infinito. Una tavola, insomma, di grande respiro e bellezza; un’autentica opera che segna insieme ad altre opere quell’importante passaggio dall’arte iconografica antica legata ai canoni iconografici di Nicea II all’arte italiana sviluppatasi nei secoli successivi proprio in Toscana e da qui a Roma e nel resto d’Italia, grazie ai grandi maestri fiorentini. Nella Pinacoteca della città di Lucca è conservata un’altra bella tavola del secolo XV, dipinta da Priamo della Quercia, il quale ha voluto rappresentare l’episodio prodigioso della Legenda garganica: la scena centrale è data dall’episodio del toro e della freccia (fig. 9); sul Monte roccioso e selvaggio è rappresentata la grotta ove è accovacciato il toro ed in


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primo piano sono presentati tre Sipontini che in abiti rinascimentali sono testimoni dell’evento prodigioso della freccia che colpisce l’arciere, personaggio centrale della scena. In un riquadro, invece, è rappresentata l’Apparizione dell’Arcangelo al santo vescovo di Siponto il quale è a letto nell’episcopio ed è rivestito degli abiti pontificali (fig. 10). Si tratta di una tavola davvero molto bella ed espressiva sia per la cromaticità rinascimentale dei colori che per l’espressività e plasticità dei personaggi presentati. Nella Badia a Passignano, dedicata all’Arcangelo Michele, è custodita nella cappella maggiore del presbiterio una bella tela di Domenico Cresti raffigurante l’apparizione di San Michele al Monte Gargano (fig. 13) e una bella statua medioevale dell’Arcangelo vestito da diacono con il ripidion in una mano e nell’altra anziché sostenere il baculus, impugna il segno della Croce con il quale trafigge il Divisore12 (fig. 14). Anche nella vicina Umbria, precisamente nella parrocchiale di San Michele Arcangelo del borgo di Gavelli, c’è un superbo affresco di Giovanni di Pietro detto lo Spagna (1450-1528) che rappresenta nella maniera plastico-rinascimentale l’apparizione al Monte Gargano dell’Arcangelo (fig. 12). In Lombardia A Bergamo, nella chiesa di San Michele al pozzo bianco, sono conservati due grandi affreschi cinquecenteschi che narrano gli eventi prodigiosi avvenuti sul Gargano (figg. 15-16). Interessante è osservare come ai piedi del monte aspro e impervio, sia presentata la bella città del Golfo, turrita e ricca di case e campanili, mentre fuori le mura si trova l’episcopio, rappresentato da un baldacchino sotto cui è presentato il vescovo visitato dall’Arcangelo. L’autore, il pittore Lucano da Imola che nel 1550 dipinse gli affreschi, ben conoscendo evidentemente il territorio garganico, ha riprodotto fedelmente i luoghi visitati, rappresentando Manfredonia medioevale, città turrita e ben difesa, ma con la sede episcopale nell’antica Siponto. L’artista, in quel lontano anno 1550, ha rappresentato anche La battaglia presso Siponto vinta dai Sipontini per intercessione di San Michele. Il grande e movimentato affresco presenta il paesaggio sipontino dominato dal Golfo e dalla imponente rupe del Gargano, alla cui sommità è posta la basilica-santuario di San Michele, il quale vola negli spazi celesti con fasci di frecce in mano, pronto a scagliarle contro in nemici infedeli. Anche questo è un affresco davvero maestoso per la grandiosità del paesaggio e dei personaggi rappresentati13.


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Non posso, infine, non citare il significativo affresco cinquecentesco della Legenda garganica, di recente restaurato, custodito sul timpano della porta laterale sinistra della bellissima basilica di San Michele Maggiore a Pavia, il “templum regium in beati Michaelis arcangeli”, ove all’arciere ferito segue in successione filmica l’apparitio al vescovo e poi la processione al Monte Gargano, opera di Bernardo Cane (figg. 17-20). Come, infine tralasciare di ricordare un imponente affresco medioevale lombardo? Proveniente dalla distrutta chiesa di s. Michele, ora custodito nel Museo del Duomo di Monza, l’affresco presenta la solenne prima processione di pellegrini al Monte Gargano e la cosiddetta Messa di San Michele, che la tradizione medioevale ha ritenuto celebrarsi quotidie nella grotta garganica14 (fig. 21). Tra gli Scriptorial di Avranches in Normandia Nella bella e storica cittadina di Avranches, in Normandia, è allestita l’impareggiabile e grande Mostra degli Scriptorial, ossia dei documenti antichi e preziosi del soppresso monastero del Mont-Saint-Michel, custoditi nella sala del tesoro: in un medioevale codice15 è riportata una pregevole miniatura del XIII secolo che narra di San Michele che appare al vescovo di Siponto, il cui lettuccio sovrasta ed abbraccia la città, e che col suo “Dito di Dio” gli suggerisce nell’orecchio il da farsi (fig. 22). Interessante è rilevare che il Vescovo non è dormiente, ma ben desto e vigile, così come presentato a partire dalle bronzee icone costantinopolitane della Porta della basilica garganica in quasi tutti gli affreschi e tavole. Infine, nelle cripte dell’antica abbazia di Normandia è custodito un bellissimo affresco che filmicamente presenta l’apparitio al vescovo di Siponto e la prima processione dei Sipontini al Monte Gargano (fig. 23). La Legenda garganica e San Lorenzo Vescovo nel Freistaat di Baviera A Ratisbona mi sono imbattuto e posso dire di avere rinvenuto fortuitamente una tela interessantissima rappresentante l’Apparitio dell’Arcangelo al Monte Gargano che ha alle spalle una lunga storia e che dalla recente critica artistica è stata finalmente attribuita al suo vero autore: è la tela di Albrecht Altdorfer16 (fig. 24) che sentì molto l’influenza della pittura allora assai fiorente in Augusburg, l’importante città della Baviera. Nella pinacoteca di Schleißheim si conservano alcune altre parti di pale d’altare che un tempo, a causa delle sigle “H.D.1525” riportate sulle stesse tavole, furono attribuite ad Hans Dürer e che ora sono state unanimemente riconosciute dagli studiosi come false ed eliminate dalla


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pinacoteca del prestigioso castello di Baviera. Le pale e la tela furono attribuite ad Hans Dürer anche dallo storico Ferdinand Gregorovius17. La tela in questione presenta con grande plasticità l’Apparizione dell’Arcangelo Michele sul monte Gargano al vescovo di Siponto. I due personaggi sono presentati in primo piano, l’Arcangelo in abiti principeschi impugna nella destra una grande spada e il Vescovo indossa il piviale pontificale, nella mano regge il pastorale. I personaggi occupano gran parte della scena e sono in sacro colloquio tra loro e sembrano quasi in atto di abbracciarsi l’un l’altro, anzi il pastorale del Vescovo tocca la spada dell’Arcangelo. Sulla montagna posta a sinistra di chi guarda, alta, aspra e piena di selve frondose, è presentata la grotta dell’Apparizione con il toro ginocchioni e l’arciere sipontino che sta per essere colpito dalla freccia. Sul lato destro, in basso, è raffigurata la città di Siponto, cinta da mura poderose e posta ai piedi del massiccio del Gargano. Un particolare è da rilevare: all’antica città si accede attraverso un ponte con tre archi, proprio come è raffigurato nell’antico stemma di Manfredonia che presenta San Lorenzo a cavallo che attraversa un ponte a tre volte18. Nel 2003 ho avuto modo di rendere nota una serie inedita di affreschi settecenteschi d’Oltralpe, che mettono in risalto il senso vivissimo del culto di San Michele in Baviera, con una pubblicazione in italiano e in tedesco19 dell’importante ciclo iconografico dedicato alle apparizioni di san Michele sul Monte Gargano, presente in ben due importanti chiese della Baviera, l’abbazia di Andechs e la chiesa di St. Michael in Berg am Laim, opera del pittore Johann Baptist Zimmermann (1680-1758), fratello di Dominicus (1685-1766), architetto, entrambi artisti bavaresi valentissimi e fecondi. Nella celebre abbazia benedettina di Andechs, salutata quale “mons sanctus Bavariae, mons Dei, mons pinguis, mons coagulatus, mons gratus ac placens Deo” – meta di pellegrinaggi fin dal 1300, ancor oggi unico monastero in Baviera a mantenere nella foresteria la “birreria” – la chiesa monastica ristrutturata in forme rococò con stucchi e affreschi di Zimmermann (fig. 25), è arricchita da un altare dedicato a San Michele e sul soffitto, in corrispondenza dell’altare, un affresco presenta il miracolo della prima apparizione del Monte Gargano: nel grande riquadro incorniciato da stucchi, Zimmermann ha posto sulla destra la grotta garganica pervasa da una grande luce nella quale campeggia il toro inginocchiato, ed a sinistra, il signore di Gargano, misteriosamente trafitto dalla freccia e soccorso da alcuni servi. Al centro dell’affresco troneggia l’aerea figura dell’invitto Arcangelo Michele che discende dal cielo. La chiesa di St. Michael in Berg am Laim, situata a sud-est della città


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di Monaco di Baviera, fondata dal vescovo-principe di Colonia, Joseph Clemens, è stata nel corso del XVIII secolo ampliata dal nipote Clemens August che affidò a J. Michael Fischer la costruzione della nuova chiesa e a J. B. Zimmermann l’incarico di affrescare l’intero soffitto con scene micaeliche. Nel grande affresco centrale del diametro di circa 15 metri è raffigurata l’Apparitio Prima sancti Michaelis sul Monte Gargano (fig. 26): nella simbolica forma circolare dell’affresco Zimmermann ha presentato innanzitutto il toro inginocchiato davanti alla caverna garganica ed il nobile proprietario sipontino colpito dalla freccia, il quale, sbigottito e ferito, viene sostenuto dai suoi servi; quindi il resto della mandria di buoi al pascolo sul Gargano, cui segue una valle e quindi la città di Siponto, dalla cui porta fuoriesce una processione di fedeli, formata da popolani, soldati, nobili, chierici, e guidata dal vescovo e diretta alla caverna garganica, sulla quale sfolgorante di luce e di gloria è l’invitto Arcangelo, circondato ed accompagnato dalle schiere angeliche. Tutti i personaggi, quasi archetipo delle varie classi sociali del tempo, raggianti per i vestiti multicolori dello stile rococò allora molto in voga, sono esaltati nel paesaggio dominato dal verde e dal cielo azzurro e dalla nube luminosa, simbolo del divino che si manifesta in terra. Tra essi è possibile scorgere ed individuare i contemporanei dell’artista, vestiti degli sfarzosi abiti settecenteschi: sotto il baldacchino è il principe Clemens August e lo stesso vescovo che guida la processione è lo zio del principe, il vescovo Joseph Clemens. L’affresco, dunque, oltre ad esaltare le glorie del casato dei Clemens, si presenta come una grande massa in movimento, modellata con forti accenti chiaroscurali. Il secondo affresco, posto sulla parte presbiterale della chiesa, descrive l’Apparitio secunda sancti Michaelis detta “della Vittoria” (fig. 27): anche questo di forma pressoché circolare, vede troneggiare al centro San Michele vestito di pomposi abiti rococò e circondato da una nube luminosa mentre sta lanciando dal cielo fulmini, frecce e fuoco sull’esercito nemico combattente davanti alla città e che sgomento e incredulo per l’improvvisa sconfitta sta per darsi alla fuga. A sinistra è presentata la ieratica e dolce figura del santo vescovo sipontino che circondato dal seguito presbiterale, esce dalla porta principale della città, sulla quale ben si legge a caratteri cubitali “SIPONTUS”, e volge lo sguardo al cielo in segno di lode e di perenne ringraziamento per il divino aiuto. Ciò che colpisce in questo grande affresco è la drammaticità della composizione, carica di colori forti e scuri, non tipica di Zimmermann, quasi a sottolineare la grave situazione della vicenda raccontata. Il grande affresco dà corpo alle forme dei personaggi e delle architetture in modo sapien-


Appendice. Su ali d’angelo. Viaggio nei luoghi ad instar Gargani tra genti e culture d’Europa

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te e delicato, e tutta la composizione è articolata così da separare nettamente la parte umana da quella divina della storia narrata. Arditi scorci prospettici e sfondali con effetti di illusione spaziale si amalgamano con abilità al tono in parte narrativo e in parte leggendario della composizione immersa nell’immenso azzurro del cielo. La scena dell’Apparitio tertia sancti Michaelis è posta sulla volta del grande altare maggiore che, quale teca, racchiude una grande tela rococò detta del “Trionfo di san Michele” in cui l’Arcangelo di Dio è raffigurato quale difensore del popolo cristiano nell’atto definitivo di incatenare nell’inferno Satana e gli altri spiriti diabolici20. In questo affresco si nota, proprio come nel portale di sinistra della facciata della basilica di Monte Sant’Angelo, la processione dei vescovi guidata dal vescovo sipontino e diretta al Monte Gargano, e poi sulla sommità del monte un altare ornato di sette candelabri d’oro, sopra il quale appare la possente e gloriosa figura di s. Michele, circondato da altri santi angeli. E San Michele, appunto, rivolgendosi ai vescovi dice in lingua tedesca: “Ich selbst hass diss hort gemeyhert” (Io stesso ho scelto questo luogo): sono le parole dell’Arcangelo ben evidenziate nell’affresco dallo Zimmermann e quasi a mo’ di fumetto procedono dalla figura dell’Arcangelo, posta in alto, a quella del vescovo, posta in basso, al di sotto dei gradini di accesso alla sacra spelonca garganica e rivestito di abiti liturgici21. Conclusioni Quali le considerazioni che nascono spontanee negli ascoltatori attenti sull’origine prodigiosa di questo famoso luogo garganico? E’ chiaro, innanzitutto, che la sua nascita è legata indissolubilmente alle premure pastorali del vescovo di Siponto, dedito ad evangelizzare le popolazioni garganiche ancora pagane alla fine del V secolo e dunque ancora legate e chiuse negli stantii schemi della religiosità pagana. Con la sua morfologia, poi, data da un’ineguagliabile ed unica grotta, due atri, campanile ottagonale, scalinata scenografica di accesso, cripte, opere d’arte che lo arricchiscono, il santuario micaelico del Monte Gargano costituisce uno straordinario complesso architettonico, che ha affascinato nel corso dei secoli milioni di pellegrini. Ma esso non è solo una grandiosa ed originale struttura architettonica ma un manoscritto dai fogli di pietra, tutto da leggere da parte del visitatore e turista attraverso l’ospitata serie, forse unica al mondo, di espressioni pregevolissime di arte e di fede – bizantine, romanico-pugliesi, rinascimentali e barocche – a cominciare dalla cattedra episcopale, alle impareggiabili porte di bronzo costantinopolitane, alle due formelle


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dell’Arcangelo del cosiddetto trono reale, alle venerande sculture di pietra addossate alle pareti di fondo della grotta, tutte riconducibili ai secoli XXII, alla statua in bianco marmo dell’Arcangelo che troneggia dall’alto della grotta, alle cosiddette cripte ove ogni pietra grida la sua antichità e testimonia le radici antichissime di un culto per l’Arcangelo Michele che ha affascinato tutta l’Europa, agli affreschi ivi rinvenuti tra cui il Custos Ecclesiae e le antiche iscrizioni runiche lasciate dai Longobardi. Per tutto questo è stato dichiarato Patrimonio dell’Unesco, patrimonio dell’umanità da custodire e preservare. Dunque un luogo di culto antichissimo che custodisce e presenta agli occhi attenti del visitatore tesori palesi, tesori nascosti, tesori sempre nuovi che hanno colpito nei secoli i cuori dei visitatori attenti e dei devoti pellegrini. Alberto Cavallini


195 NOTE 1 Le fonti storico-letterararie sulla nascita del culto micaelico sul Monte Gargano sono costituite da: il Codice Vaticano latino 6074 (VIII secolo), contenente il Liber de Apparitione sancti Michaelis in monte Gargano; i Codici Vaticani greci 821, 866 e 2053 (X–XI secolo), contenenti la Apokalipsis toù taxiarchou Michaèl. 2 Il Vescovo di Siponto dell’epoca delle apparizione al Monte Gargano è identificato secondo la tradizione locale, peraltro tardiva, col nome di Lorenzo (cfr. A. CAVALLINI, L’iconografia dell’episcopo Laurentius sulle strade d’Europa, Manfredonia 2012). I documenti antichi fino all’XI secolo, invece, parlano solo del “santissimo” vescovo di Siponto, ma non ne riferiscono il nome (cfr. Codici vaticani latini e greci citati nella nota precedente e le formelle delle porte di Bronzo del santuario micaelico di Monte Sant’Angelo fuse a Costantinopoli nell’anno 1076). 3 La cronaca è riportata in E. BACCO, E. D’ENGENIO CARACCIOLO, Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci Provincie, Napoli 1671. 4 Sintesi di un articolo a cura dello scrivente apparso sul quotidiano cattolico “Avvenire”, 3 febbraio 2008 (rubrica “Indiocesi”, p. 2): Manfredonia. Città in festa per il Patrono, modello cristiano autentico, che offrì alla comunità identità e unità. 5 La notizia ci è tramandata da Giorgio Vasari che nell’opera Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed archi tettori, che riporta come autore di questo ciclo il pittore michelangiolesco Jacopo Siculo, che si sarebbe ispirato ad alcuni disegni dello stesso Michelangelo non utilizzati per la Sistina. 6 In Toscana i Pulsanesi ebbero fin dal 1177 i seguenti monasteri: San Michele a Guamo e San Silvestro con hospitale presso Lucca; San Michele degli Scalzi e San Giacomo presso San Michele a Pisa; Santa Maria Intemerata di Fabroro e Santa Maria ad Nives in Firenze; Santa Croce del Corvo e San Giacomo del Podio presso Luni. Dopo il 1177 altri due monasteri femminili nella vicina Umbria: SS. Trinità in diocesi di Orvieto e San Cipriano in diocesi di Bagnoregio. Restarono all’interno della famiglia pulsanese, fino alla sua soppressione rinascimentale, le tre abbazie toscane di Pisa, Lucca e Firenze, insieme alle due comunità femminili umbre. Per approfondimenti si veda A. CAVALLINI, Il santo deserto monastico garganico, Pulsano 1998 e il prezioso studio del prof. F. PANARELLI dell’università di Basilicata Dal Gargano alla Toscana: il monachesimo latino riformato dei Pulsanesi, Roma 1997. 7 Il pittore-iconografo si è ispirato ai versetti 5 e 6 del Salmo 103. 8 “Benedicite Domino omnes Angeli eius, potentes virtutes facientes Verbum illius ad audiendam vocem sermonum eius. Benedicite Domino omnes virtutes eius ministri eius qui facitis voluntatem eius” (Ps 102,19-20): gli Angeli sono i ministri del Re celeste che ascoltano la sua Parola e compiono la volontà divina. 9 Cfr. Gv 14,9. Cristo insomma è il Rivelatore celeste nel quale il Padre “ha posto tutto il suo compiacimento” (cfr. Mt 17,5). 10 Cfr. il testo Cabalisti di Tzfat (XVII secolo), con testi e musica ebraica tradizionale, ancor oggi in uso nelle comunità. 11 Ap 12, 7-10: “Et factum est praelium magnum in coelo: Michael et Angeli eius praeliabantur cum dracone et draco pugnabat et angeli eius; et non valuerunt, neque locus inventus est eorum amplius in coelo, et proiectus est draco ille magnus, serpens antiquus qui vocatur diabolus et satanas qui seducit universum orbem et proiectus est in terram et angeli eius cum illo missi sunt. Et audivi vocem magnam in coelo dicentem: nunc facta est salus et virtus et regnum Dei nostri et potestas Christi eius quia proiectus est accusa-


196 tor fratrum nostro rum qui accusabat illos ante conspectum Dei nostri die ac nocte”. 12 Sant’Ambrogio in un’omelia per la festa dell’Arcangelo ricorda che San Michele, come Davide, sconfigge il Satana: come Davide sconfisse il nemico Golia puntando la sua fionda sulla fronte ove non era stato segnato dalla Croce, così Michele con la Croce ha annientato il nemico della stessa Croce (Homilia s. Ambrosii episcopi in festo s. Archangeli. Ex Libro De Apologia David ad Theodosium Augustum. Caput 2). 13 Sintesi di un articolo a cura dello scrivente apparso sul quotidiano cattolico “Avvenire”, 8 febbraio 2009 (rubrica “Indiocesi”, p. 2): Siponto e la confutazione degli Ariani. S. Lorenzo, segreto di Libertà. 14 Sintesi di un articolo a cura dello scrivente apparso sul quotidiano cattolico “Avvenire”, 4 febbraio 2007 (rubrica “Garganosette”): Siponto e il Gargano uniti nella fede; poi con il titolo S. Lorenzo Maiorano sulle orme del Buon Pastore in “Osservatore Romano”, 8 marzo 2007, p. 7. 15 Trattasi del codice minato Codex CIX, che all’8 maggio riporta la ricorrenza della festa dell’Apparitio in Monte Gargano. 16 Pittore cinquecentesco di Baviera, detto anche Maestro dei cori degli Angeli, attivo intorno al 1520, contemporaneo di Albrecht D?rer, così chiamato per i numerosi polittici e tele dedicate agli Angeli. 17 Nell’opera Passeggiate per la Puglia. L’Arcangelo sul Monte Gargano (1871) il Gregorovius ricorda di aver visto raffigurata la Legenda garganica su una tela del castello di Schleißheim. 18 Cfr. A. CAVALLINI, Presentazione di una bella tela del Rinascimento tedesco raffigurante il nostro s. Patrono, in “Voci e Volti”, III 2012, 5; qui lo scrivente offre un ampio studio in occasione della festa di San Lorenzo vescovo. 19 Dell'interessante scoperta iconologica ho pubblicato il testo Iconografia dell'Arcangelo e della Legenda Garganica nel Freistat di Baviera, il più esteso Land della Germania, Monte di Procida 2003. 20 “…Concussum est mare et contremuit terra ubi Archangelus Michael descendit de caelo…”: così canta l'antica liturgia dell'8 maggio, che sembra riecheggiare nella raffigurazione di questa tela che è circondata ed impreziosita dalla presenza di due statue lignee barocche raffiguranti gli altri due Arcangeli, Gabriele e Raffaele. 21 Sono le parole che l'antico manoscritto della Legenda riporta come dette dallo stesso Arcangelo: cfr. Apparitio sancti Michaelis, Vat. Lat. 6074.


Fig. 1. Antonio Danti, Apparizione sul Monte Gargano (1580). Roma, CittĂ del Vaticano, Sala Carte geografiche

Fig. 2. Antoniazzo Romano, Apparizione sul Monte Gargano. Roma, basilica dei SS. Apostoli


Fig. 3. Jacopo Siculo, Apparizione dell’Arcangelo al Monte Gargano, detta del “Toro”. Roma, Trinità dei Monti

Fig. 4. Jacopo Siculo, Apparizione sul Monte Gargano. Roma, Trinità dei Monti


Fig. 5. Jacopo Zanguidi detto il Bertoja, Raffaellino Motta da Reggio, Giovanni de' Vecchi, Apparizione sul Monte Gargano (1575). Caprarola (VT), Palazzo Farnese, Stanza degli Angeli

Fig. 6. Apparizione sul Monte Gargano. Mitreo di Sutri (VT)


Fig. 7. Pittore fiorentino della prima metĂ del XIV secolo, Apparizione al Monte Gargano. Firenze, Santa Croce, cappella Velluti-Zati di San Michele

Fig. 8. Pittore fiorentino della prima metĂ del XIV secolo, Cacciata degli angeli ribelli. Firenze, Santa Croce, cappella Velluti-Zati di San Michele


Fig. 9. Priamo della Quercia, pala con la Legenda garganica, dettaglio con l'Apparizione sul Monte Gargano. Lucca, Pinacoteca Nazionale di Palazzo Mansi

Fig. 10. Priamo della Quercia, pala con la Legenda garganica, dettaglio con l'Apparizione al Vescovo di Siponto. Lucca, Pinacoteca Nazionale di Palazzo Mansi


Fig. 11. Coppo di Marcovaldo, San Michele Arcangelo. San Casciano Val di Pesa (FI), Museo Giuliano Ghelli

Fig. 12. Giovanni di Pietro detto lo Spagna, Apparizione sul Monte Gargano. Gavelli (PG), San Michele Arcangelo


Fig. 14. Scultore toscano, San Michele Arcangelo. Badia a Passignano (FI), chiesa di San Michele Arcangelo

Fig. 13. Domenico Cresti detto il Passignano, Apparizione sul Monte Gargano. Badia a Passignano (FI), chiesa di San Michele Arcangelo

Fig. 15. Lucano da Imola. Affresco (1553) della 2^ Apparizione al Monte Gargano, detta della “Vittoria” dei Sipontini. Bergamo, S. Michele al pozzo bianco

Fig. 16. Lucano da Imola. Affresco (1553) della 1^ Apparizione al Monte Gargano, detta del “Toro”. Bergamo, San Michele al pozzo bianco


Fig. 17. Bernardo Cane, Apparizione sul Monte Gargano. Pavia, basilica di San Michele Maggiore

Fig. 18. Bernardo Cane, Apparizione sul Monte Gargano, dettaglio. Pavia, basilica di San Michele Maggiore


Fig. 19. Bernardo Cane, Apparizione sul Monte Gargano, dettaglio. Pavia, basilica di San Michele Maggiore

Fig. 20. Bernardo Cane, Apparizione sul Monte Gargano, dettaglio. Pavia, basilica di San Michele Maggiore


Fig. 21. Pittore lombardo, Messa di San Michele e del pellegrinaggio al Gargano. Monza, Museo del Duomo

Fig. 22. Apparizione al vescovo di Siponto (Lezionario medioevale). Scriptorial di Avranches

Fig. 23. Processione dei Sipontini al Monte Gargano. Mont-Saint-Michel, cripta


Fig. 24. Albrecht Altdorfer, Apparizione sul Monte Gargano (1525). SchleiĂ&#x;heim, Regensburg

Fig. 25. Johann Baptist Zimmermann, Apparizione sul Monte Gargano. Andechs, abbazia, cappella di San Michele (volta)


Fig. 26. Johann Baptist Zimmermann, Apparizione sul Monte Gargano. Berg am Leim, San Michele

Fig. 27. Johann Baptist Zimmermann, Apparizione della Vittoria. Berg am Leim, San Michele


INDICE Presentazione .................................................................................... pag. 7 Il “castello di Gabbiano. Evoluzione di una turrita “casa da padrone” del medioevo (Renato Stopani) .............................................................................. pag. 9 Vico l’Abate, un castello ritrovato nel Chianti: dalle fonti scritte ai dati archeologici (Teresa Ulivelli) ............................................................................... pag. 19 Documenti per la chiesa di Sant’Angelo a Vico l’Abate (Emma Matteuzzi) ........................................................................... pag. 43 La tavola coppesca di San Michele Arcangelo da Vico l’Abate. Restauri e iconografia (Emma Matteuzzi) ........................................................................... pag. 61 La Madonna col Bambino di Ambrogio Lorenzetti da Vico l’Abate. Un nuovo documento e qualche riflessione (Elisa Tagliaferri)............................................................................ pag. 97 Le origini della Badia Fiorentina e il sepolcro del marchese Ugo (Guido Tigler) ................................................................................pag. 111 Appendice Su ali d’angelo.Viaggio nei luoghi ad instar Gargani tra genti e culture d’Europa (Alberto Cavallini) ........................................................................ pag. 179


“QUADERNI” DEL CENTRO DI STUDI CHIANTIGIANI “CLANTE” 1)

Il Chianti e la battaglia di Montaperti Testi di Duccio Balestracci, Renato Stopani, Enzo Salvini, Maria Ludovica Lenzi

2)

Panzano nel Settecento. Dal libro di memorie di un parroco di campagna Testo di Renato Stopani

3)

Montegrossoli e Semifonte. Due capisaldi della politica imperiale nella Toscana del XII secolo Testi di Renato Stopani, Alessandro Boglione, Enzo Salvini, Giuliano De Marinis, Mario Bucci

4)

“Imago Clantis”. Cartografia e iconografia chiantigiana dal XVI al XIX secolo Testi di Renato Stopani, Leonardo Rombai, Carlo Vivoli, Diana Toccafondi, Giuseppina Carla Romby, Giovanna Casali

5)

Antichi organi del Chianti Testo di Renzo Giorgetti

6)

La toponomastica del Comune di Radda in Chianti. Testo di Antonio Stopani

7)

Toponomastica chiantigiana. Atti del I Convegno di Studi sulla toponomastica del Chianti Testi di Paolo Marcaccini, Carlo Alberto Mastrelli, Laura Cassi, Renato Stopani, Leonardo Rombai, Paolo De Simonis, Antonio Stopani

8)

Dal Chianti romano al Chianti altomedievale Testi di Alessandro Boglione, Riccardo Chellini, Carlotta Cianferoni, Andrea Garuglieri, Renato Stopani

9)

Una cappella stradale affrescata del Quattrocento. L’oratorio dei Pianigiani a Casanova di Ama in Chianti Testo di Renato Stopani Il monachesimo medievale nel Chianti Testi di Adolfo Asnaghi, Biagio Della Vecchia, Mino Marchetti, Renato Stopani

10)

11)

Civiltà romanica del Chianti Testi di Mario Bucci, Rosanna Caterina Protopisani, Giuseppina Carla Romby, Renato Stopani


12)

L’olio del Chianti Testi di Carlotta Cianferoni, Giovanna Casali, Ester Diana, Giuseppina Carla Romby

13)

Scienziati ed esploratori chiantigiani. I Della Volpaia, Giovanni da Verrazzano, Odoardo Beccari, i “Georgofili” di Greve Testi di Paolo De Simonis, Alessandro Boglione, Marco Claudio Mezzetti, Leonardo Rombai

14)

Antichi orologi a torre nel Chianti Testo di Renzo Giorgetti

15)

La toponomastica nel Comune di San Casciano Val di Pesa Testi di Antonio Stopani e Riccardo Chellini

16)

La Val di Cintoia. Storia, archeologia, arte Testi di Andrea Garuglieri, Renato Stopani, Alessandro Boglione, Stefano Binazzi, Giovanna Casali, Giuseppina Carla Romby, Rosanna Caterina Protopisani, Alessio Merciai

17)

Le lastre del Pievano. Contadini e padroni nelle foto di un parroco di campagna dell’inizio del Novecento. Testi di Renato Stopani e Paolo De Simonis

18)

Un Santuario altomedievale nel Chianti. L’oratorio di Sant’Eufrosino a Panzano Testo di Renato Stopani

19)

Scrittori del Chianti. Autori “chiantigiani” nella letteratura del primo Novecento Testi di Jolanda Fonnesu, Massimo Baldini, Paolo De Simonis, Renato Stopani

20)

“Io mi sto in villa...”. L’Albergaccio del Machiavelli a Sant’Andrea in Percussina Testo di Renato Stopani

21)

La toponomastica del Comune di Castellina in Chianti Testi di Antonio Stopani e Riccardo Chellini

22)

I mercatali del Chianti Testi di Giovanna Casali, Giuseppina Carla Romby ,Renato Stopani, Stefano Binazzi, Alessio Merciai e Emanuele Barletti


23)

Dal kantharos alla bordolese. Per una storia dei continentori da vino Testi di Carlotta Cianferoni, Silvia Ciappi, Paolo De Simonis e Dora Liscia Bemporad

24)

La toponomastica del Comune di Gaiole in Chianti Testi di Alfonso Sderci e Renato Stopani

25)

Il Chianti. dal secolo dei lumi all’unità d’Italia Testi di Antonio Stopani, Renato Stopani, Zeffiro Ciuffoletti, Giuseppina Carla Romby, Silvia Ciappi, Leonardo Rombai, Giovanna Casali, Jolanda Fonnesu e Paolo De Simonis

26)

Il Chianti nei libri di famiglia del medioevo Testi di Frank Sznura, Renato Stopani, Paolo Pirillo, Giuseppina Carla Romby, Silvia Ciappi, Donatella Ciampoli, Fabrizio Vanni e Patrizia Turrini

27)

Il Chianti e il fascismo Testi di Leonardo Rombai, Sandro Rogari, Renato Stopani, Giuseppina Carla Romby, Silvia Ciappi, Massimo Baldini, Giovanna Casali, Fabrizio Vanni, Jolanda Fonnesu e Gianni Resti

28)

L’acqua del Chianti Testi di Frank Sznura, Renato Stopani, Paolo Pirillo, Giuseppina Carla Romby, Silvia Ciappi, Donatella Ciampoli, Fabrizio Vanni e Patrizia Turrini

29)

Pozzi, cisterne e riserve d’acqua nel Chianti Testo di Andrea Garuglieri

30)

1944. La guerra nel Chianti Testo di Claudio Biscarini, Giuletto Betti, Daniele Guglielmi e Jolanda Fonnesu

31)

Il sistema di fattoria nel Chianti. Storie di famiglie e di patrimoni Testo di Renato Stopani, Aleesio Meciai e Patrizia Turrini

32)

I tre Chianti. Il Chianti geografico, il Chianti storico, il Chianti enologico Testo di Renato Stopani

Per richieste rivolgersi a ART & LIBRI s.a.s. di A. Lupi e C. Via dei Fossi, 32/r - 50123 FIRENZE Tel. 055264186 - Fax 055264187 artlibri@tin.it



Finito di stampare nel mese di luglio 2016 presso Digital Team, Fano (PU)


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