Faip2014 oriana caristia

Page 1

S C U O LA DI C OU N S EL I NG P E DA G O GI C O R E L AZ I O NA L E S E D E DI PAL ER M O a .a . 2 0 1 3 / 2 01 4

DAL SENTIRSI ABBANDONATI ALLA GIOIA DI ABBANDONARSI

U n p o s s i b i l e p e rc o r s o e m p i r i c o d a l l a m e n t e a l c o r p o a l c u o re

Candidato O R I A NA C AR I S T I A

Relatori: d o t t .s s a Li l i a n a M i n u t o l i p r o f .s s a Do n a t e l l a S a l v à

Direttore Scientifico p r o f . M i c h e l Ha r d y


2


«Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo-quello che per ognuno di noi costituisce il mondo, una somma di informazioni, di esperienze, di valori- il mondo dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita; e noi vogliamo estrarre da questo mondo un discorso, un racconto, un sentimento: o forse più esattamente vogliamo compiere un’operazione che ci permetta di situarci in questo mondo.” “L’inizio è anche l’ingresso in un mondo completamente diverso: un mondo verbale. Fuori, prima dell’inizio c’è o si suppone che ci sia un mondo completamente diverso, il mondo non scritto, il mondo vissuto o vivibile. Passata quella soglia si entra in un altro mondo…» I. Calvino Lezioni Americane

Introduzione Mi sono imbattuta per caso in questa frase quando stavo scrivendo il lavoro finale dei miei tre anni all’interno della scuola di Counselor pedagogico-relazionale con approccio empirico e mi è sembrato che descrivesse perfettamente i sentimenti con cui mi stavo confrontando nella stesura della mia tesi. Lungi dal volermi paragonare a uno scrittore, (tantomeno a Calvino) era proprio un mondo quello che avevo conosciuto lungo il percorso. Un mondo nuovo che mi aveva “costretto” a rivedere tante delle mie convinzioni e tanti dei miei schemi, un mondo che adesso chiedeva di essere raccontato. La scuola di Counselor pedagogico-relazionale ad approccio empirico propone un percorso di consapevolezza personale che partendo dalla conoscenza di se stessi, delle caratteristiche del proprio Sé, dei propri schemi emotivo-relazionali conduce alla relazione con l’altro in termini professionali affinando, strada facendo, modalità e tecniche di comunicazione. È un percorso che attraverso un’indagine sul Sé e sul proprio sentire approda al sentire dell’altro. Ed è del mio sentire che mi sono riappropriata in questo viaggio scoprendo quale era stato sino a quel momento il leitmotiv della mia vita: l’abbandono. Un leitmotiv che come una Moozak, un sottofondo sonoro continuo e costante, mi aveva stordito a tal punto da non averne più una consapevole percezione. “Sola perduta abbandonata” così canta Manon Lescaut nel finale dell’omonima opera di Puccini, sola perduta abbandonata mi sono ripetuta spesse volte ora con tono canzonatorio ora con evidente volontà di provocare nell’altro senso di tenerezza (e colpa) nel corso della mia vita, inconsapevolmente stringendo alleanza con un copione personale che di volta in volta faceva di me la bambina abbandonata, la vittima in preda alla tristezza, la carnefice che si nasconde dietro un innocente sorriso. 3


Dal significato del termine abbandono prende inizio questo lavoro. Un abbandono che, vissuto in maniera reale, tangibile e concreta nella mia esistenza, a causa di un lutto in famiglia avvenuto durante la mia infanzia, ho ri-cordato (nel suo significato etimologico di richiamare nel cuore) grazie all’approccio empirico, avendo la possibilità di toccare con mano tutti i meccanismi di difesa costruiti pur di sfuggire ad un dolore lancinante, insopportabile, da dimenticare al più presto. Ricordo il primo incontro con il prof. Michel Hardy quando ho sentito l’espressione “anestesia emotiva”. Queste parole, diventate esperienza, “sentire” in una delle attività proposte, sono state come una torcia che illuminava gli ultimi vent’anni, o anche più, della mia esistenza. Anestetizzare ecco ciò che ero riuscita a fare con i miei sentimenti, con il mio sentire dunque, ma con il mio corpo soprattutto. E dal corpo dalla scoperta di un corpo che vive, si esprime, vibra, chiede, implora è iniziato il cammino verso me stessa …. E attraverso il corpo è continuato per sentire e scoprire dentro di me un’emozione che avevo sempre ripudiato, anzi da cui pensavo, credevo fortemente non fossi mai stata toccata: la rabbia. Quale scoperta quando questa si è manifesta in me, nel mio corpo, nella mia voce con una forza sconosciuta, incontrollata, a tratti sconvolgente. E dal riconoscere la rabbia, il dolore, il mio corpo, i miei sentimenti anestetizzati ha avuto inizio il mio cambiamento e mentre anche gli altri assistevano stupiti a nuovi modi di essere della brava bambina con il sorriso finto, della bambolina di porcellana poggiata su un pianoforte, tutto ha cominciato ad avere un significato. Iniziavo a scoprire cosa avevo reclamato da sempre, cosa mi portava a stringere relazioni in cui la co-dipendenza la faceva da padrone, perché continuavo a dire sempre si quando avrei voluto urlare fortemente no. Era stato quello che il prof. Michel Hardy chiama “debito empirico” ma era stato ancora prima una qualità d’amore insufficiente, un diritto negato che adesso aveva bisogno di essere preso per mano, riconosciuto e accettato. E solo dopo tale presa di consapevolezza di tutto ciò che era stato, poter finalmente lasciare andare, poter finalmente “abbandonare” schemi, copioni, brave bambine, vittime, carnefici e provare ad accedere ad un amore che non veniva reclamato dal bisogno di una bambina abbandonata ma di un’adulta che si è finalmente messa in gioco. Questa tesi è dunque un percorso che a partire dal concetto di abbandono in termini psicologici e facendo riferimento a quello che l’approccio empirico sostiene passa attraverso una riappropriazione del proprio corpo e del proprio sentire come momento fondamentale per riappropriarsi di se stessi. Da un’analisi di quelle che sono le caratteristiche intrinseche all’approccio empirico si passa quindi ad una disamina dei concetti di dolore e rabbia quali momenti esperienziali fondamentali per poter accedere al libero fluire, cercando di recuperare ciò 4


che per strada abbiamo smarrito trasformando l’abbandono iniziale in un abbandonarsi, nel senso di affidarsi agli altri, cedere alla rivelazione di se stessi.

“Noi non cesseremo mai di esplorare e la fine di tutto il nostro esplorare sarĂ giungere dove siamo partiti e conoscere il posto per la prima voltaâ€? T.S.Eliott

5


Capitolo I “Sola, perduta, abbandonata…”

Se tu fossi stato con me t’avrei chiesto scusa. Oppure aiuto. Invece non c’eri: incredibile come gli altri manchino sempre nei momenti in cui se ne ha bisogno: passi giorni, mesi, anni interi con qualcuno cui non hai da dir nulla e nel momento in cui hai da dirgli qualcosa, magari scusami, aiuto, lui non c’è e tu sei solo. Oriana Fallaci

6


1.1

Una definizione di abbandono

L’orizzonte di senso del termine “abbandono” abbraccia una duplice polarità: da un lato l’atto dell’abbandonare, del “lasciare senza aiuto e protezione, in balia di se stessi o d’altri”1 dall’altro fa riferimento, in senso fisico, al rilassamento delle membra; in senso morale, ad un pieno affidamento di se stessi alla comprensione altrui, indicando anche il cedere alla confidenza, al colloquio aperto, alla rivelazione di sé. Considerata dunque l’ambivalenza semantica del termine “abbandono” è sul significato di rottura, allontanamento, separazione quello su cui si concentrerà, in questo primo capitolo, la nostra attenzione.

1.2

L’abbandono e la psicanalisi

Secondo alcune teorie psicanalitiche è il momento della nascita che dà inizio alla nostra prima esperienza di separazione e alla concomitante paura dell’abbandono. Nascere è lasciare quello stato di “fusione” corporea con la madre, nascere è abbandonare il grembo materno, perdere uno stato particolare per essere accolti in un mondo nuovo. E tale mondo nuovo potrebbe diventare una “landa desolata” se non riusciremo a sentire le cure e le attenzioni di cui abbiamo bisogno. Secondo le teorie sullo sviluppo psichico dei bambini di Margaret Mahler esiste una differenza tra la nascita biologica e la nascita psicologica degli stessi. «La nascita biologica del bambino e la nascita psicologica dell'individuo non coincidono nel tempo. La prima è un evento drammatico, osservabile e ben circoscritto; la seconda un processo intrapsichico che si svolge lentamente. ... Chiameremo la nascita psicologica dell'individuo processo di “separazione individuazione: l'instaurarsi di un senso di separazione da, e di rapporto con, un mondo di realtà che riguarda soprattutto l'esperienza del proprio corpo e il principale rappresentante del mondo di cui il bambino ha esperienza: l'oggetto di amore primario. Come ogni processo intrapsichico anche questo si riflette lungo tutto il ciclo vitale e non ha mai fine».2

Tale processo ha inizio a partire dal 4°/5° mese di vita ed è successivo sia alla fase autistica normale in cui ciò che regola il ritmo sonno/veglia del bambino sono lo stimolo della fame e l'alternanza bisogno-soddisfazione sia alla fase simbiotica in cui il bambino avverte la presenza di 1

2

Dizionario Treccani online. M.MAHLER - F.PINE - A.BERGMAN, La nascita psicologica del bambino , Boringhieri.

7


un “agente di cure” ma con tale agente si comporta come se fosse all’interno di un unico spazio di confine. È con la consapevolezza di un “essere separato” che si creano i presupposti per una vera relazione con l’oggetto fonte di cure e le basi per tutte le future relazioni. Sarà infatti proprio la madre ad accompagnare il bambino lungo il suo percorso evolutivo che lo porterà ad accettare ogni forma di separazione senza che il mondo diventi all’improvviso un deserto sconfinato. Strettamente correlata al tema dell’abbandono e della perdita è sicuramente la teoria dell’attaccamento proposta ed elaborata da John Bowlby. Il termine “attaccamento” viene usato in psicologia per identificare comportamenti, pensieri ed emozioni che l’individuo pone in essere al fine di cercare una vicinanza, un conforto o una protezione da parte di una figura privilegiata (figura di attaccamento). La teoria dell’attaccamento studia i processi attraverso i quali vengono costruiti degli schemi interni che influenzeranno il nostro rapporto con gli altri, modelli interni che organizzano le informazioni relative ai rapporti affettivi e i comportamenti adottati in risposta ai nostri bisogni di protezione, vicinanza . «Ogni individuo costruisce modelli operativi del mondo e di se stesso in esso, con l’aiuto dei quali percepisce gli avvenimenti, prevede il futuro e costruisce i suoi programmi. Nel modello operativo del mondo che ognuno si costruisce, una caratteristica chiave è la nozione che abbiamo di chi siano le figure di attaccamento, di dove possano essere trovate e di come ci si può aspettare che rispondano. Similmente, nel modello operativo di se stessi che ognuno di noi si costruisce, una caratteristica chiave è la nostra nozione di quanto accettabili o inaccettabili noi siamo agli occhi delle nostre figure di attaccamento ».3

Secondo Bowlby, il bambino piccolo possiede una predisposizione innata, su base biologica, a sviluppare un legame di attaccamento verso chi si prende cura di lui come se la predisposizione a stringere relazioni intime fosse iscritta nel patrimonio genetico e presente nei primi giorni di vita sotto forma di riflessi innati (suzione, prensione, pianto) .

Le relazioni interpersonali diventano quindi per il bambino di primaria importanza perché da esse dipendono sia la sopravvivenza fisica ma anche il proprio benessere emotivo. Risulta chiaro, secondo questa linea di pensiero, che il nutrimento di cui il bambino ha bisogno non è solo legato al suo essere “fisicamente” nutrito ma diventa allo stesso modo una richiesta e un soddisfacimento di un altro bisogno che è quello di “essere nutriti” di amore, essere accuditi, 3

J.BOWLBY, La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1975.

8


mantenere una condizione interna di sicurezza e protezione. Ad essere interiorizzati saranno quindi, contemporaneamente, una certa quantità di cibo e una “certa” qualità di relazione. Da ciò ne deriva uno stile di attaccamento ovvero una modalità di risposta a ciò che si è ricevuto e che dipenderà strettamente dalla “qualità” delle cure materne così come lo stile dei primi rapporti di attaccamento condizionerà l’organizzazione della personalità e il concetto che il bambino avrà di sé e degli altri. L’attaccamento diventa così non più una costruzione intrapsichica, ma una costruzione relazionale in cui la persona ed il contesto sono considerati inseparabili. Gli sviluppi della teoria dell’attaccamento che la inseriscono in un ampio panorama di ricerca di altre discipline quali l’etologia, la psicobiologia e lo studio dei processi neurofisiologici, endocrini e recettoriali nonché le teorie sui sistemi ecologici, sottolineano come sia possibile che nel corso della vita dell’individuo possano esserci eventi in grado di modificarne i percorsi comportamentali e mentali ovvero vi è la possibilità che possano esistere eventi inattesi, eventi che favoriscano tali cambiamenti, uno di essi è, ad esempio, legato alla morte di uno dei genitori.

Che ci fai qui? Sto seduto Sei triste? No Stai male? Si E cos’hai? Mancanza Ah, ecco! Da” Il cielo sopra Berlino”

9


1.3

L’abbandono in chiave empirica: debito e copione personale.

«L’abbandono costituisce una prerogativa empirica che nasce dalla biografia del singolo, dalla sua storia e dal suo passato costituendo una precisa qualità del proprio debito. Esso instaura una coazione a ripetere nella vita facendosi abbandonare o facendolo a sua volta. Tale moto permane fino alla risoluzione del debito. Così il singolo è costretto a tenere fede alla consegna d’amore anche se essa si rivela controproducente».

4

Questo frammento sul tema dell’ abbandono, estratto dalla grammatica dell’essere del Prof. Michel Hardy, permette di effettuare una breve analisi su alcune delle “parole chiave” dell’approccio empirico. Una delle basi portanti dell’assunto teorico di tale approccio è legato alla definizione di “debito”. Il debito è un’infrazione di un ordine empirico inteso quale emanazione di un sistema che rimane nascosto ad una comprensione immediata ma che regola e comprende tutto ciò che è. L’ordine empirico è un principio in cui tutto è incluso e in cui tutte le cose hanno un loro posto. Tale ordine risponde ad un principio di funzionalità secondo un meccanismo di causa-effetto. Il comportamento, l’agire dei singoli individui generano conseguenze che di solito non sono riconosciute quali manifestazioni di un ordine ma piuttosto come eventi casuali a se stanti, come “destino crudele”. Nel momento in cui l’individuo si allontana dai valori empirici previsti dall’ordine, l’ordine segnalerà un’infrazione e tale violazione dei parametri armonici si manifesterà come un debito. Tale debito è tuttavia una sorta di “serbatoio empirico” in cui viene accantonato tutto ciò che non può essere affrontato repentinamente perché costituirebbe un dolore troppo grande. Il sistema dunque mette in moto attraverso il debito una sorta di salvaguardia, di istanza cautelativa che costituisce un meccanismo di difesa. Nonostante ciò l’individuo sentirà man mano che il debito accresce gli effetti disarmonici dello stesso fino a quando non sarà in grado di estinguerlo. «Il debito empirico è una lesione del principio universale generata da un’infrazione delle leggi armoniche. È un “vortice autorigenerante” che contiene tutte le informazioni empiriche inerenti alla violazione avvenuta».5

4 5

M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.II. M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.II.

10


Tale violazione non deriva da atti incresciosi o peccaminosi ma semplicemente vuole sottolineare delle reazioni scorrette dal punto di vista empirico, una sorta di deragliamento dai binari del “libero fluire”. Alla base di ogni violazione c’è l’allontanamento dell’anima dai moti d’amore. Un amore inteso come condizione sistemica e quale principale espressione di ogni moto armonico, un amore che diventa dunque la naturale espressione del sistema, l’unico “stato di normalità” ai fini empirici. La presenza di un debito si manifesta attraverso la comparsa di indicatori empirici (senso di colpa, rabbia, tristezza, paura), comunemente avvertiti come “moti interiori autonomi, che costituiranno, fino all’estinzione del debito, i “binari” del proprio sentire”6. La natura dell’indicatore dipende dalla qualità dell’infrazione. Gli indicatori possono essere attivi e passivi, i primi sono i moti predominanti del proprio carattere, quelli passivi sono moti segreti e poco ambiti, che costituiscono la parte più repressa o mancante del proprio assetto emotivo e sono destinati a crescere con il passare degli anni, manifestandosi in maniera predominante. Non esiste infatti nessun stato emotivo persistente che non sia il risultato del proprio debito. Il debito di base si acquisisce da piccoli per una qualità d’amore insufficiente ed è legato all’infrazione di un diritto ben preciso: il diritto d’essere amato. A questa violazione, il bambino diventato adulto, si rifarà in ogni futuro rapporto con l’amore. All’interno del proprio agire si svilupperanno strategie ben precise che diventeranno una “coazione disarmonica” del fare ovvero un rivivere sempre le stesse situazioni, un obbligo a seguire sempre gli stessi schemi e gli stessi comportamenti. Come se, con il passare degli anni, ognuno di noi cominciasse a crearsi una trama della propria vita, una sorta di copione personale. «Ognuno impara ad approcciarsi al mondo attraverso il proprio copione personale. Tale copione svolge la funzione di lente personale attraverso la quale il singolo osserva e decodifica la realtà empirica. Esso diventa la sua identità, il suo carattere, e gli permette di identificarsi con le convinzioni alterate acquisite».7 Il copione personale contiene e descrive il proprio debito. Esso si manifesta attraverso le convinzioni più profonde e radicate sia su se stessi che sugli altri. Il copione personale è, secondo la visione dell’approccio empirico, determinato dalla consegna dei genitori perché contiene tutte le convinzioni, i credo, le opinioni e i meccanismi contro sistemici della propria stirpe. Come la consegna di un testimone, anche il nostro debito e il nostro copione personale sono legati ad una 6 7

M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.II. M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.II.

11


consegna della nostra famiglia che è sempre e comunque una consegna d’amore. La qualità dell’amore dei nostri genitori sarà a sua volta legata a ciò che loro stessi hanno potuto apprendere da piccoli. Così ciò che da piccoli si è ricevuto o subìto sarà integrato nel proprio profilo personale attraverso individuali strategie di approccio alla vita. Ciò che noi chiamiamo carattere, dunque, nasce dal nostro debito e nasconde in realtà la messa in atto di strategie compensatorie per non sentire un dolore subito. Attorno a queste strategie d’amore,che il bambino comincia ad assimilare da piccolo, si creeranno tutte le sue future strategie che sono correlate al tipo di diritto empirico che è stato violato. Nel momento in cui a causa di un moto interrotto d’amore dovuto ad esempio alla morte di uno dei genitori, il bambino comincerà a mettere in scena un copione personale così ben costruito e strutturato che gli permetterà di non sentire il dolore inflittogli da tale perdita e sarà tendente a sviluppare una personalità abbandonata entrando nel ruolo compensatorio della vittima. Il moto d’amore interrotto violentemente a causa di una morte improvvisa costringerà l’anima a ritirarsi dal libero fluire, ad allontanarsi dall’amore per sostituirlo con personali surrogati di tale sentimento. L’amore potrà diventare così uno stato di bisogno portando l’adulto a instaurare relazioni affettive basate su personali proiezioni, sempre alla ricerca di un padre o di una madre elettiva che si prenda cura di lui. «Perché questa è l’unica vera ragione per il mantenimento di ogni arretrato empirico, ovvero il terrore di rivivere lo stesso abbandono del passato. Continuando però a fare finta di nulla il singolo rimarrà attaccato alla stessa matrice di sempre. Soltanto elaborando e integrando le ferite del passato riuscirà a lasciare andare anche la propria affinità all’ombra il suo bisogno del dolore».

8

È solo dunque, attraverso una consapevole presa in carico del proprio debito, riconoscendo il proprio

copione

ed

entrando

nel

personale

dolore,

attraverso

un

preciso

atto

di

responsabilità,lasciando il ruolo del figlio per accedere a quello dell’adulto che sarà possibile accedere nuovamente ad uno stato di integrità che ci colleghi con il nostro sentire, con i nostri ruoli empirici, con la nostra capacità di amare.

1. Cammino per strada. C'è un buco profondo nel marciapiede. Ci cado dentro. Sono perduta, sono disperata. Non è colpa mia. 8

M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.III.

12


Ci vorrà un’eternità per uscirne. 2. Cammino per la stessa strada. C'è un buco nel marciapiede. Fingo di non vederlo e ci cado di nuovo. Non posso credere di essere allo stesso posto. Ma non è colpa mia. Ci vorrà molto tempo per uscirne. 3. Cammino per la stessa strada. C'è un buco nel marciapiede. Lo vedo. Ci cado dentro, è un’abitudine. I miei occhi sono aperti, so dove sono. E' colpa mia. Ne esco immediatamente. 4. Cammino per la stessa strada. C'è un buco nel marciapiede. Ci giro attorno. 5. Cambio strada. SogyalRinpoche

13


1.4 L’abbandono come perdita di una persona amata. Il lutto. Il termine “lutto” sta ad indicare una condizione dolorosa che si prova per la perdita, in genere, di una persona cara anche setale termine può essere utilizzato per identificare ogni stato di sofferenza provocato sia dall’allontanamento di qualcuno sia da cambiamenti che portano ad una modifica totale o parziale dei propri stili di vita. C’è un altro termine che si usa nella nostra lingua per indicare la sofferenza causata da una separazione dovuta alla morte ed è cordoglio che nel suo significato etimologico di “sentire dolore nel cuore” dona un aspetto timbrico più intenso allo stato di sofferenza fisica e psichica che la morte di una persona cara provoca. Tanti gli autori che si sono da sempre occupati del lutto, sia per analizzarne gli aspetti psicologici che per considerarne il portato antropologico. Freud ne parla ampiamente (il lutto ha un preciso compito psichico da svolgere: la sua funzione è di separare i ricordi e le speranze di colui che è sopravvissuto dalla persona deceduta; il lutto è invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale). J.Bowlby ne fa una attenta disamina relativamente alla sua elaborazione, Norman Paul parla dell’impatto dei lutti irrisolti nelle fasi di passaggio della nostra esistenza, mentre Pereira, Bowen e Raphael analizzano i comportamenti e le tappe di risoluzione dell’intero nucleo familiare nei confronti dell’ evento luttuoso.9 Il lutto, dunque, quale intenso sentimento di dolore provocato dalla perdita di una persona amata si impone con veemenza all’interno della vita sia del singolo individuo sia dell’intera famiglia. Nel caso in cui tale perdita riguardi la morte di uno dei genitori il nucleo familiare ne sarà profondamente e inevitabilmente segnato. La famiglia è costretta a riorganizzarsi, a confrontarsi con il cambiamento della propria struttura, a mettere in atto comportamenti e strategie che facciano fronte al dolore che l’evento traumatico comporta. Al genitore rimasto spetta il gravoso compito di accompagnare i figli nel percorso che porta all’accettazione del distacco, della perdita. Le diverse teorie sull’elaborazione del lutto prendono in esame le sue varie fasi e pur nella loro peculiarità, tutte si rifanno ad uno schema che comprende il dolore, il rifiuto, lo shock, l’incredulità, la disperazione, la rabbia, l’accettazione. Tali modalità di elaborazione sono presenti anche nei bambini ma spetta all’adulto favorire il passaggio attraverso le diverse fasi. Ciò che è stato notato è che spesso diventa particolarmente difficile per il genitore rimasto in vita affrontare l’argomento della morte per paura soprattutto di causare nel bambino

9

www.terapiatrigenerazionale.com/approccio%20trigenerazionale%20lutto.doc (18.06.2014) 14


“ferite emotive”.10 Ed è nel tentativo di evitare tali ferite che spesso la scelta diventa quella di tacere sull’accaduto, di dimenticare o di coprire. Tale difficoltà, legata anche all’incapacità dell’adulto di comunicare i propri sentimenti, il proprio dolore, la propria angoscia, ha lo scopo di tutelare il bambino ma in realtà lo esclude da un contatto diretto con quanto avvenuto. Ed è la non presa di consapevolezza di questo angoscioso dolore, pur con le modalità e le dovute cautele legate all’età del bambino, favorita dal silenzio del genitore rimasto che potrà creare nel bambino una sorta di “area di fragilità” con la quale si troverà a dover fare i conti da adulto. La paura della separazione, la paura dell’abbandono realmente vissuto tornerà a bussare alla porta ogni volta che determinate situazioni o comportamenti andranno ad invadere quello spazio interiore tutelato, protetto e difeso, quello spazio che possiamo identificare come il luogo “sacro” del nostro “bambino interiore” ferito. «Il lutto si impone all’adulto come al bambino. Costituisce una prova di grande maturità tramite la quale ognuno prende coscienza della mortalità dell’essere umano, di se stesso come dei propri cari. Ma aiuta anche a prendere coscienza del fatto che la persona che muore non trascina i vivi con sé nella morte, non ferma la vita». (D. Oppenheimen)

10

www.salus.it/psicologia-c41/psicologia-infantile-c109/la-scoperta-della-morte-e-il-lutto-nell-infanzia1633. ( 20.06.2013) 15


1.4

Il bambino interiore

Quando il bambino era bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino era bambino, | non sapeva di essere un bambino, | per lui tutto aveva un'anima | e tutte le anime erano un tutt'uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente aveva un'opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, | e di colpo sgusciava via, | aveva una vortice tra i capelli | e non faceva facce da fotografo.|| Quando il bambino era bambino,| era l'epoca di queste domande:| "Perché io sono io e perché non sei tu?| Perché sono qui e perché non sono li?| Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?| La vita sotto il sole è forse solo un sogno?| Non è solo l'apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?| C'è veramente il male e gente veramente cattiva?| Come può essere che io che sono io non c'ero prima di diventare?| E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono? Song of Childhood Peter Handke

Il bambino interiore è quella parte della nostra personalità che rimane legata, in un modo o nell’altro, alle caratteristiche della nostra infanzia. Eric Berne, psichiatra e psicanalista, nell’esporre i principi della sua teoria nota come “analisi transazionale” parla di “stati dell’Io” definendoli come sistemi di pensiero e sensazioni che si manifestano attraverso modelli di comportamento. Tre sono gli stati dell’IO: lo stato del Genitore in cui manifestiamo comportamenti che provengono dalle figure genitoriali; lo stato dell’ io Adulto in cui le situazioni vengono considerate con oggettività, e lo stato dell’ io Bambino in cui si sente, si parla e si reagisce come quando si era bambini. Anche Jung aveva parlato di tale particolare forma di struttura psicologica identificandola con il PuerAeternus, l’eterno fanciullo che si esprime attraverso la gioia, la creatività, la vitalità. Ma a tale parte in “luce” del nostro bambino interiore se ne contrappone un’altra che è legata a tutti quegli aspetti infantili che richiamano i nostri bisogni e le nostre attese tradite. È il “Bambino ferito” che chiede cura e attenzione, che pretende l’amore, che ha bisogno di essere riconosciuto. È quel bambino spaventato, diffidente e insicuro che si crogiola nel dolore e nella sofferenza. «Il nostro bambino regresso non vive nel presente, non trae conclusioni basate sulla realtà attuale, né risponde in modo appropriato alla situazione esistente. Le sue opinioni e i suoi comportamenti sono condizionati da passate esperienze traumatiche. »11

11

KRISHNANANDA AMANA, Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, 2013.

16


Lo stato dell’Io bambino dunque quale struttura mentale porta l’adulto ad identificarsi con tale identità credendo che essa sia l’unica possibile. È come se, pur abitando in un corpo di adulto, le nostre manifestazioni continuassero a rifarsi al nostro passato. Nella visione che l’approccio empirico propone, relativamente al bambino interiore, si ha un ulteriore approfondimento degli stati dell’Io che vengono qualificati come espressioni legate a particolari meccanismi di difesa, a strategie messe in atto per coprire le nostre ferite, e quindi strettamente in relazione con il nostro debito e con i nostri ruoli compensatori, con il nostro copione personale dunque. In particolare si sottolinea come le diverse espressioni dell’Io siano correlate a due polarità intrinseche alla natura stessa dell’individuo ovvero la carica Yang e la carica Yin. Si tratta di un sistema comportamentale arcaico, che si rifà al simbolismo della cultura orientale, e che definisce un mondo di principi empirici ben chiaro e delineato che differenzia le espressioni del sistema maschile da quello femminile. «Ogni uomo e ogni donna accede ad un proprio codice empirico. Questo è come un contenitore di base, che porta i principi attivi Yin o quelli Yang, a seconda del proprio sesso biologico. Così il codice Yin detiene e stabilisce tutti i talenti femminili, le doti naturali e i principi attivi più genuini della donna. Nella stessa maniera il codice Yang contiene e determina i principi maschili, i moti guida e tutte le sue emanazioni » 12

L’uomo e la donna dunque sono caratterizzati da un patrimonio emotivo che contiene la carica primaria di base che è legata al sesso biologico. Tale carica primaria porta in sé dei principi base che sono diversi e ben determinati per l’uomo e per la donna. La carica Yang ha in sé tutte quelle qualità che afferiscono alla spinta vitale, alla fermezza, alla forza fisica, all’autorità, alle regole, alla competizione, alla guida, al potere, al controllo e alla determinazione. I principi guida dello Yin sono, invece, la forza incondizionata, il nutrimento, la cura, la morbidezza, l’accoglienza, la comprensione, l’accettazione, l’intuizione. Le qualità Yang e quelle Yin tuttavia coesistono all’interno di ogni uomo e di ogni donna come cariche secondarie nel senso che ogni uomo possiede anche le caratteristiche tipiche dello Yin e ogni donna porterà con sé la forza dello Yang. Secondo tale principio, che in parte si rifà a quanto Jung sosteneva a proposito degli archetipi di Animus e Anima, la forza Yin e la forza Yang sono

12

M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.I.

17


inseparabili, sono due componenti opposte che si sostengono a vicenda e solo attraverso l’integrazione, l’inclusione di queste due forze si potrà accedere allo stato dell’Io adulto. Ma c’è dell’altro. Ognuna delle due componenti dell’animo umano maschile e femminile porta in sé un numero considerevole di qualità empiriche;qualità empiriche che ne rappresentano la natura profonda, sottolineandone l’appartenenza al codice perché sono legate ai principi più autentici del proprio vero essere. Accanto a tali principi, in un gioco di luce e ombra, si muovono tutti gli aspetti meno desiderati di ognuno di noi. «Per quanto sia la parte più luminosa a contenere le espressioni più ambite e desiderate di ogni specie, quelle più espressive e intense sono date dall’ombra»13 E così se nell’uomo è la spinta vitale il principio guida in “luce” sarà la “ forza rabbiosa” distruttiva, crudele e spietata la sua controparte. Mentre la tristezza, la paura, la vergogna, la fragilità ma anche la perfidia e la cattiveria saranno gli aspetti più oscuri del proprio essere con cui ogni donna dovrà confrontarsi. Parlare di codice Yin e di codice Yang relativamente al nostro bambino interiore vuol dire sottolineare una differenza nelle strategie comportamentali di tale bambino e del bambino presente nell’adulto. Se dunque prevarrà una carica Yang ci troveremo di fronte a quello che viene chiamato il “bambino rabbioso” mentre il “bambino triste” sarà l’espressione di un eccesso di carica Yin. Le due diverse qualità si sostanzieranno in atteggiamenti fisici e verbali caratteristici. Così il bambino arrabbiato attiverà modalità di comunicazione verbale e non verbale che saranno caratterizzati da atteggiamenti di sfida e competizione con frasi che implicano una continua pretesa (io voglio). Il bambino triste avrà invece comportamenti che si muoveranno attorno un alone di sottomissione con espressioni come “mi dispiace”, “scusami” “non l’ho fatto apposta”, “non lo merito”. Se l’attivazione dell’io bambino è legata, così come sostenuto dalla teoria dell’approccio empirico, ad un meccanismo di difesa e quindi di protezione di un nostro diritto infranto è alle radici di tale infrazione che bisognerà risalire. E' una curiosa creatura il passato Ed a guardarlo in viso Si può approdare all'estasi O alla disperazione.

13

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.IV.

18


Se qualcuno l'incontra disarmato, Presto, gli grido, fuggi! Quelle sue munizioni arrugginite Possono ancora uccidere! Emily Dickinson

La morte di un genitore è sicuramente per un bambino un evento traumatico che segnerà profondamente il suo percorso esistenziale. La ferita da abbandono sarà continuamente riaperta dalle relazioni con cui si confronterà da adulto e i suoi atteggiamenti saranno condizionati da quel bambino ferito, non accettato e riconosciuto. Sarà a partire da tale moto emozionale che metterà in scena tutta una serie di atteggiamenti e comportamenti per mascherare il dolore subito cercando di coprire la sua paura più profonda: la paura di non essere amato, la paura che nessuno si prenda più cura di lui, la paura di essere ancora una volta ferito e abbandonato. Allora sarà un adulto alla continua ricerca di qualcuno che lo salvi, che gli dia le sue attenzioni, che soddisfi il suo “bisogno d’amore”. «Le nostre relazioni diventano un pasticcio emozionale, con una graduale perdita di confini e identità, e allora cerchiamo di compensare interrompendo la comunicazione, esigendo più spazio o richiedendo più energia dall’altro»14 Tutte le nostre strategie attivate per controllare, dominare o manipolare l’altro così come i nostri atteggiamenti di co-dipendenza, sperando sempre di trovare qualcuno che ci salvi e ci liberi dal nostro profondo senso di solitudine, hanno, dunque, la loro origine nella ferita d’abbandono. Le strategie proposte dall’approccio empirico relativamente alla presa di contatto del nostro bambino interiore consentono di osservarlo, sentirne la sofferenza ma anche la sua spontanea vitalità, prenderlo per mano, condurlo con l’adulto che siamo diventati per imparare a donargli quell’amore che a gran voce ci richiede, scusandoci per tutte quelle volte che non lo abbiamo ascoltato. Riconoscere il nostro bambino interiore vuol dire avvicinarci a tutto ciò che del nostro passato ci sembra doloroso, vuol dire confrontarci con le nostre zone d’ombra, vuol dire lasciare andare, perdonare, accettare e includere tutto ciò che è e ciò che è stato.

14

KRISHNANANDA AMANA, Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, 2013.

19


«Il nostro passato costituisce da sempre uno degli scogli più ardui per ogni tipo d’integrazione empirica. Per attuare nella propria esistenza la legge dell’inclusione è necessario- come prima cosa- avvicinarsi a tutto ciò che del nostro passato ci sembra più doloroso e scomodo. Perché è tale parte che trattenendo un’abbondante quantità di dolore, costituisce la resistenza più grande ad ogni tipo di accettazione»15 E’ dunque nel nostro passato che bisogna immergersi per recuperare e dare sostegno al nostro bambino impaurito, avventurandoci alla ricerca del nostro dolore per poter recuperare le nostre radici nascoste e il filo conduttore della nostra esistenza, diventando consapevoli dei nostri inganni e delle nostre strategie di “auto boicottaggio”. Il silenzio è il drappo funebre del passato, ed è talvolta empio, spesso pericoloso, sollevarlo: anche quando la mano è pietosa e amorosa, il primo momento è crudele. Alphonse de la Martine

15

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.I.

20


1.6 Il dolore O vos omnes qui transitis per viam Attendite et videte Si est dolorsimilis Sicutdolormeus Attenditeuniversi populi et videtedoloremmeum Si est dolorsimilis Sicutdolormeus dalle Lamentazioni di Geremia 1, 12

Da sempre l’uomo si è interrogato sull’esperienza del dolore provando a dare senso e significato a questo evento che può irrompere all’improvviso nella vita di ogni individuo affliggendola con tormenti che diventano paralizzanti e distruttivi. Possiamo provare a darne una spiegazione, così come suggerisce Salvatore Natoli nel suo testo “L’esperienza del dolore”, riducendolo a campi settoriali o a discipline e quindi lo tratteremo in termini neurofisiologici, clinici, psicologici, psicoanalitici, sociali, religiosi, comportamentali ma ci accorgeremo ben presto della difficoltà di poter dare un senso profondo alla sofferenza che l’esperienza del dolore provoca. La scienza e la tecnica hanno provato a misurarlo, a includerlo in scale di valore che ne attestino l’intensità; i farmaci provano a lenirlo, curarlo, dominarlo, celarlo. Talvolta si cerca di neutralizzarlo attraverso forme di spettacolarizzazione dove la rappresentazione del dolore diventa un modo per poterne prendere le distanze, per poterlo esorcizzare; ne abbiamo pudore e vergogna e tentiamo di nasconderlo dietro attività frenetiche e ritmi di vita assordanti. Ma il dolore sembra voler sfuggire ad ogni umano tentativo di fuga dallo stesso e in altre vesti, in altre forme si ripresenterà a noi per poter ricevere una degna accoglienza. «L’ uomo contemporaneo percepisce il rumore di fondo della sofferenza anche se essa è tolta dalla scena ed è occultata. La sofferenza trapela e forza la congiura del silenzio che le molteplici, civili, e costruttive attività del giorno coprono con il loro rumore produttivo e fecondo […]oggi si ha pudore del proprio dolore. Ciò accade non perché si ha a cuore la gloria della propria forma, ma perché si teme l’abbandono, ci si accorge che se si dichiara la sofferenza non si può più stare al passo col ritmo della vita»16

16

S.NATOLI, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2010.

21


La definizione che l’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore ne dà mette in relazione la componente fisica con la componente emotiva e sensoriale (una sgradevole esperienza sensoriale ed emotiva, associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale) e quindi spesso diventa difficile poter valutare quanto nell’esperienza del dolore ci sia di fisico, oggettivo e misurabile da quanto ci sia invece di personale, psichico, interiore. Incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare presto-barellieri-il-plasma, se ti rompi una gamba te la ingessano, se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore pezzi e sei così disperato che non ti riesce aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare. Oriana Fallaci

È quindi se esiste un dolore fisico, oggettivo, in parte misurabile ne esiste un altro che sembra sfuggire ad ogni tentativo di interpretazione: è il dolore dell’anima, la sofferenza interiore che, all’improvviso e senza una plausibile spiegazione, attanaglia la nostra esistenza rendendoci schiavi di un sentire buio e oscuro. In preda a tale tormento interiore perdiamo i nostri punti di riferimento, ci agitiamo nel tentativo di porvi rimedio e, sconfitti, cominciamo ad immedesimarci con il nostro dolore, come se la nostra vita non potesse più esistere senza la sua presenza. Allora il dolore diventa come suggerisce Eckhart Tolle un “corpo di dolore”, un campo di energia negativa che occupa il corpo e la mente. Una sorta di filo invisibile che lega tra di loro tutte le esperienze del nostro sentire attorno ad unico nucleo: la sofferenza. «Il corpo di dolore vuole sopravvivere, come ogni altra entità esistente, e può riuscirci solo se ti induce a identificarti con esso, allora riesce a risollevarsi, a prendere il sopravvento, a “diventare te” e a vivere attraverso di te[…]quindi una volta che il corpo di dolore ha preso il sopravvento su di te, crea nella tua esistenza una situazione che riflette la sua frequenza energetica, in modo da trarne nutrimento. Il dolore si 17

nutre solo di dolore, non può cibarsi di gioia perché la troverebbe alquanto indigesta. »

Alla luce di tale teoria è come se ci fosse una sorta di identificazione tra noi e il nostro dolore, come se amassimo la nostra sofferenza, come se fosse impossibile poter vivere senza la presenza di drammi e tragedie nella nostra esistenza. Ancora una volta è il nostro copione personale che vive per noi. La sua recita si appropria degli stilemi tipici della vittima, di chi in preda a tragici eventi 17

E. TOLLE, Il potere di adesso, Edizioni My Life, Coriano di Rimini, 2013.

22


non può fare a meno di “fondersi” con essi. Si diventa in certo senso dipendenti dall’infelicità, attaccati a tale “parassita psichico”, legati al cappio del nostro passato. Perché la sofferenza, il dolore del presente ha origine nella nostra storia biografica e tanto più questa è costellata da eventi che manifestano malessere e disagio tanto più noi ad essi ci aggrappiamo manifestando quello che dall’approccio empirico è definita la nostra “affinità al dolore” recitando ora la parte della vittima ora quella del carnefice. A volte è più difficile lasciare andare la nostra maschera, abbandonare ciò che ci è familiare, perdere le coordinate che regolano la nostra vita che prendere in mano la situazione è provare a fare un salto oltre il velo delle apparenze costituite.

Certe persone - e io sono di quelle - odiano il lieto fine. Ci sentiamo frodati. Il dolore è la norma. Vladimir Nabokov

Nella “grammatica dell’essere” si afferma che l’individuo che rimane legato al proprio dolore, come ad esempio chi non riesce dopo annidi lutto a lasciare andare la sofferenza accumulata comincerà a dipendere da tale dolore, muovendosi all’interno di dinamiche d’ombra che inquineranno il proprio sentire e le proprie strategie vitali. Se è vero che è necessario un periodo di tempo per lasciare allo scoperto il dolore senza rimuoverlo o placarlo e quindi semplicemente osservandolo è anche vero che un dolore trattenuto a lungo termine porta a un indurimento dell’anima e a uno stato di angoscia profonda e di disperazione. L’ordine empirico dunque riconosce lo stato doloroso come momento indispensabile e necessario ma ne prevede altresì, dopo che ci si è dati l’opportunità di accedervi, la possibilità di contenerlo attraverso il riconoscimento della sua forza e della sua dignità. L’ordine nel suo stato di completezza prevede i due moti contrapposti, quello della luce e quello dell’ombra. Sarà il nostro debito ad orientarci e ad allinearci con le dinamiche dell’uno piuttosto che dell’altro. «Ogni debito personalizza il nostro lato d’ombra, destabilizzando l’assetto naturale della compensazione empirica. Ciò avviene sempre attraverso il nostro operato ossia le infrazioni causate dal nostro fare e generati dall’eredità della stirpe. Dal momento dell’infrazione l’ombra si altera e si espande, secondo il debito acquisito, diventando il “biglietto da visita” della persona».18 Ciò che quotidianamente viene fatto è rinnegare i nostri moti d’ombra creando inconsapevolmente zone scure ancora più grandi. Così la presenza del dolore e di tutti i suoi moti affini diventano una

18

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol II.

23


zona di riferimento entro cui l’individuo agisce e muove la propria vita. Nasce quindi una vera e propria affinità a tali dinamiche che si trasformano in vortici di energia pronti a catalizzare tutti gli eventi della nostra esistenza. Solo attraverso un atto di responsabilità personale che prevede la presa in carico del proprio debito e quindi del proprio dolore può iniziare un cammino di consapevolezza verso una possibile integrazione delle polarità opposte presenti nella vita di ogni essere umano. Per fare questo è necessario, attraverso un approccio che utilizza il sentire come strumento privilegiato di risoluzione, immergersi nella propria ombra, avvicinarsi al dolore e affrontare i nostri tabù personali. Tali tabù sono stati acquisti attraverso la consegna familiare e sono l’espressione dei nostri limiti. Avvicinarci ai nostri tabù ci obbliga ancora una volta a confrontarci con il nostro copione personale. Se l’abbandono, come sostenuto precedentemente, può dare luogo a una serie di comportamenti che afferiscono al ruolo della vittima, è con tutto ciò che tale ruolo tende ad esorcizzare che bisogna fare i conti. Ovvero l’impossibilità di alzare la voce, l’ impotenza davanti a situazioni che portano una carica intensa o aggressiva, il bisogno di nascondersi dietro continui consensi, l’incapacità di farsi valere, la paura di entrare in contatto con l’intimità dell’altro, la preoccupazione continua di non voler fare del male. Una volta che vengono individuati i propri tabù personali si comincia a intravedere il dolore e gli episodi che lo hanno provocato e si incomincia ad avere consapevolezza dei modi in cui tale dolore è stato coperto e rinnegato. Questo avviene attraverso il proprio sentire, attraverso il recupero di tutte le emozioni bloccate e rinnegate. «Il confronto con i tabù sistemici costituisce per l’uomo un passaggio fondamentale della propria esistenza essendo l’unica strada che gli permette di evolversi interiormente. Attraverso il confronto con il dolore avviene una crescita a livello empirico, necessaria per entrare nel ruolo empirico dell’adulto. La differenza tra il ruolo del piccolo e quello dell’adulto è che questo sa contenere il proprio dolore, mentre il piccolo lo evita o lo subappalta»19

I tabù empirici sono le modalità attraverso cui l’ordine pone in essere i moti della sua parte più buia, appartengono alle nostre zone d’ombra, costituiscono uno specchio fedele di tutte le aree della nostra esistenza perché afferiscono alla legge della completezza e dell’inclusione che sta alla base dell’ordine empirico. Nel momento in cui si riesce ad entrare a contatto con i tabù sistemici senza rinnegarli o coprirli per paura si acquisisce uno spazio maggiore che è in grado di contenere i nostri dolori e le nostre sofferenze e che ci permette di entrare in contatto con la forza della trasformazione. Ma è un ulteriore passo che bisogna compiere per poter accedere al ruolo 19

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.II.

24


dell’adulto e abbandonare il sentire della vittima. È un passaggio che mette in contatto l’individuo, ancora una volta, con la sua zona d’ombra dove sono cresciuti inconsapevolmente quelli che vengono denominati

gli “indicatori passivi” ovvero i moti interiori che più ci spaventano e

terrorizzano. «Per coloro che hanno sviluppato un eccesso di energia Yin, avendo come indicatore attivo la paura, la tristezza o il senso di colpa, quello passivo è rappresentato dall’energia Yang. La sua massima rappresentazione è costituita dalla rabbia[…]si tratta della rabbia repressa della vittima, della vendetta della brava bambina e del moto aggressivo mai ammessosi di chi subisce la vita; essa contempla la rivalsa di chi sente di non aver mai avuto la sua chance e di chi esige soddisfazione dal mondo» 20 Gli indicatori passivi costituiscono una sorta di cartina di tornasole ai fini empirici, sono il momento della resa dei conti. Chi interpreta il ruolo della bambina “sola e abbandonata” ha necessità di confrontarsi con l’indicatore della rabbia se non vuole che la potenza di tale emozione prenda il sopravvento nella propria esistenza trascinandola lungo il percorso della metamorfosi empirica, un percorso “alterato” che ci costringe ad uscire dai nostri ruoli empirici e ad indossare altre maschere, a calcare nuovi palcoscenici, a interpretare ruoli distanti dal libero fluire.

" "Di fronte alle sofferenze del mondo tu puoi tirarti indietro, sì, questo é qualcosa che sei libero di fare e che si accorda con la tua natura; ma precisamente questo tirarsi indietro é l'unica sofferenza che forse potresti evitare". (Kafka)

20

M. HARDY, La grammatica dell’essere, vol II.

25


1.7 La rabbia Cantami, o diva, del Pelìde Achille L’ira funesta che infiniti addusse Lutti agli achei , molte anzi tempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio s’adempia ) , da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de’ prodi Atride e il divo Achille Iliade Proemio La rabbia è parte integrante e vitale del nostro mondo emotivo. È un’emozione primaria e, come tale, viene considerata di fondamentale importanza da tutte le teorie psicologiche. Presente nei bambini già all’inizio della loro esistenza, è la reazione emotiva ad un disagio, ad un bisogno non corrisposto, ad una perdita. In tale prospettiva è strettamente legata alla paura dell’abbandono, alla minaccia che nessuno possa prendersi cura di noi. Il bambino piccolo urla, piange, si dispera quando avverte una pericolo nel mondo che lo circonda. Il bambino piccolo pretende che vengano soddisfatti i suoi bisogni fisici ed emotivi. Il bambino piccolo si “arrabbia” quando avverte un profondo senso di solitudine e separazione dall’altro da sé. E nel caso in cui tale separazione diventi reale, nel corso della sua infanzia, a causa della morte di uno dei due genitori, provocando, ai fini empirici, l’interruzione di un moto d’amore, il bambino, incapace di vivere, al momento, il dolore per tale perdita, manifesterà ad un livello profondo un’intensa rabbia, segno di una continua pretesa di voler compiere il moto interrotto .La rabbia nasce dunque da un’infrazione continua e persistente e nel momento in cui compare nella nostra vita di “adulti” è il sintomo che qualcosa non è andato come doveva, è la manifestazione di un diritto empirico infranto, un diritto mancato di cui l’adulto ha la responsabilità di farsi carico. Tale situazione assume una connotazione particolare se osservata da un punto di vista “femminile”. Parlare della “rabbia delle donne” in termini empirici obbliga a confrontarsi con una visione particolare di tale emozione mettendola in relazione con i ruoli “alterati” del codice Yin. Esiste ai fini empirici una “matrice” d’eccellenza, un modello di riferimento che contiene delle specifiche coordinate sistemiche. Tale matrice costituisce il paragone ideale per ogni credenza o convinzione del singolo e detiene tutti i diritti e i doveri dell’individuo. Ogni bambino che nasce 26


porta con se tale modello ideale; una sorta di mappa di riferimento per i suoi comportamenti e le sue azioni. La consegna familiare, le esperienze vissute nel corso della vita faranno in modo che il singolo, acquisendo “debito”, si allontani da tale matrice e quindi dal libero fluire previsto dall’ordine. «Più l’adulto si avvicina alla matrice d’eccellenza del proprio femminile o maschile, ossia al codice Yin o Yang, più si accosta anche ad uno stato integrato, una condizione sana e genuina ai fini empirici. Essa costituisce la condizione di base per l’ordine, la sua normalità e il termine di paragone per ogni sua dinamica e moto di raffronto. L’integrato è un preciso modello empirico(…) Esso può essere raggiunto solo gradualmente, attraversando i vari ruoli previsti dall’ordine, somma di diritti e obblighi diversi da quelli precedenti, fino a raggiungere la piena potenzialità del codice Yin o Yang»21

Il riferimento a tale matrice d’eccellenza passa, dunque, attraverso la definizione dei ruoli della donna Yin integrata e dell’uomo Yang integrato, ovvero i due ruoli empirici in cui si è attuata l’integrazione delle componenti in luce e in ombra della parte maschile e femminile di ognuno di noi. Se dunque la donna Yin integrata è il modello ideale di riferimento dell’agire femminile, tutte le altre forme vengono considerate ibride o alterate, perché portatrici di una carica empirica compromessa, una carica che, di solito, ha subito un’interruzione nel corso dell’infanzia. Ed è proprio la rabbia a rappresentare una sorta di “termometro” per stabilire il tipo e la qualità di alterazione, segnalando il passaggio da un ruolo all’altro all’interno della cosiddetta ”metamorfosi empirica” intendendo con tale termine il graduale e progressivo degrado del profilo empirico di ogni individuo. La metamorfosi empirica è, dunque, un processo che porta ad un mutamento lento e costante del proprio carattere, della propria personalità e prevede un movimento che conduce da un iniziale stato di appartenenza al gruppo “Yin alterato” al ritrovarsi dentro alle dinamiche tipiche del gruppo degli “Yang alterati”. Le alterazioni mantengono l’individuo congelato dentro il ruolo del piccolo e così la donna Yin alterata, prima forma di deviazione prevista dall’ordine empirico per il sesso femminile, si nasconderà dietro il ruolo della brava bambina, dell’innocente, dell’altruista, della vittima. Mancando di una carica Yang ben strutturata tenderà a subire il mondo esterno, non riuscendo a far valere i propri bisogni e i propri desideri. La donna Yin alterata ha l’esigenza di apparire gentile, amabile e mite, dolce e premurosa. E non essendo in grado di assumersi le proprie responsabilità empiriche, poiché è ancorata al ruolo del “piccolo”, si nasconderà dietro una falsa innocenza evitando costantemente il confronto e l’espressione della propria opinione. Il modo di vivere nel mondo della donna Yin alterata è un modo che applica costantemente strategie di chiusura e le manifestazioni di attenzione, cura e accoglienza altro non sono che modi di camuffare 21

M. HARDY, La grammatica dell’essere, vol IV.

27


le sue paure, prima fra tutte la paura di perdere l’amore. Ma con il passare del tempo la brava bambina inizierà ad accumulare sempre più risentimento e rancore; il suo indicatore passivo, la rabbia, comincerà a crescere in sordina minacciando il suo ruolo di vittima. Io sono docile, Son rispettosa, Sono obbediente, Dolce, amorosa; Mi lascio reggere, Mi fo guidar. Ma se mi toccano Dov'è il mio debole Sarò una vipera E cento trappole Prima di cedere Farò giocar. Da “Il barbiere di Siviglia” G. Rossini In tal modo il ruolo empirico della donna “yin alterata” comincerà a trasformarsi, dando inizio ad un processo che le farà cambiare posizione all’interno dell’ordine spostandosi lungo il cammino della metamorfosi empirica. Ogni donna che si trova in tale momento di passaggio, che appartiene alla cosiddetta fase della “vittima rabbiosa”, sperimenta una rabbia sempre più ingestibile della quale però si sente ancora fortemente in colpa. «Nonostante continui a proclamare la propria innocenza la vittima rabbiosa sviluppa un istinto “omicida” irrefrenabile, che la spaventa sopra ogni misura(…)la sua rabbia si manifesta attraverso la sua disapprovazione, l’acidità inedita o l’aggressione gratuita in situazioni in cui non ci sarebbe il bisogno.»”

22

Ciò che accade in questa fase di passaggio è un costante andirivieni tra sentimenti di opposta natura, una sorta di sentire schizofrenico che non riesce a trovare una direzione e che spesso ha come conseguenze una totale “anestesia” del proprio sentire. Ci si “anestetizza”, dapprima, contro la forza del dolore rimosso e poi per sfuggire alla carica impetuosa della rabbia che non troviamo consona ai nostri modelli di riferimento, ai nostri schemi, alle nostre convinzioni da “brave bambine”. Una rabbia che ci sembra sconveniente, troppo forte, troppo intensa e che ci conduce ancora una volta a meccanismi di difesa e chiusura. Censuriamo i nostri atteggiamenti aggressivi

perché non

riusciamo a sentirne la forza vitale, la spinta propositiva e benefica ma ne cogliamo solo gli aspetti violenti e distruttivi. Ma è solo accettando, in quanto donne, la consegna di tale energia impetuosa che possiamo sviluppare la forza del nostro femminile; solo attraversando tale carica energetica 22

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol IV.

28


saremo in grado di ristabilire l’equilibrio tra le nostre diverse parti; solo riconoscendo i doni che tale emozione può donarci possiamo rientrare all’interno del libero fluire. Se per una donna, e ancor di più per una donna che appartiene al gruppo delle alterazioni Yin, è difficile misurarsi e accettare il sentimento della rabbia lo è ancora di più per la donna che ha subito da bambina un abbandono e nello specifico l’abbandono del padre poiché un rapporto equilibrato con la rabbia può nascere solo da un rapporto equilibrato con il padre in quanto depositario delle qualità Yang.

Non mi torturo. Da molto tempo, ho appreso che posso curare le mie ferite solo quando ho il coraggio di affrontarle. E ho imparato anche a perdonarmi e correggere i miei errori. Paulo Coelho Aleph

29


1.8 L’abbandono del padre: la visione dell’approccio empirico "Se quello che i mortali desiderano, potesse avverarsi, per prima cosa vorrei il ritorno del padre" Odissea XVI, 247-248

«L’amore paterno non si esprime attraverso la dolcezza e la tenerezza ma attraverso un compito preciso, quello di saper trasferire le qualità Yang alla propria prole. Egli dona forza e protezione a chi ama, utilizzando la chiarezza, la determinazione e la fermezza come strumenti principali per riuscirci. La sua meta è tracciare binari sicuri sapendo offrire una struttura portante per l’agire femminile. Così il conferire norme e regole diventa strumento legittimo e necessario dell’amore Yang, come lo è anche l’insegnamento del concetto di autorità.» 23

Il padre, dunque, dona alla figlia le coordinate per poter accedere ai principi Yang che per una donna rappresentano la carica secondaria da affiancare e integrare alle qualità del proprio codice empirico d’appartenenza ovvero quello Yin. Tali principi si rivelano fondamentali alla luce di un cammino verso la propria matrice d’eccellenza e negarsi l’accesso porta, come già visto, allo sviluppo di strategie di compensazione disarmoniche. La mancanza di un modello sano e genuino di riferimento maschile per una donna vuol dire innanzitutto non essere capace di accedere alla forza condizionata dell’amore Yang che è alla base di ogni funzionamento dell’ordine empirico. L’amore Yang, infatti, connotato da principi di forza, struttura e ordine è l’artefice di ogni moto vitale e sono le sue leggi a gestire le dinamiche all’interno del sistema. Un amore che viene relegato solo ai principi dello Yin è un amore che manca di forza e consistenza, è un amore che non ha sostegno e vigore, è un amore che tenderà a trasformarsi in uno stato di bisogno. Chi sperimenta la mancanza dell’amore Yang sarà capace solo di dare vita ad un amore debole e inconsistente. Inoltre, sperimentando un moto d’amore interrotto dovuto alla perdita della figura del padre, la donna si ritrova ad essere orfana non soltanto della forza Yang di tale figura ma anche del potere Yin della madre, perché quest’ultima è costretta ad uscire dal proprio ruolo per sopperire al vuoto creato dalla morte del genitore opposto. Ciò che succede alla figlia è un sentirsi emotivamente priva di sostegno perché in balia di due cariche

23

M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol I.

30


empiriche non sufficienti e compromesse, uno stato emotivo che la farà sentire priva di appoggio e alla continua ricerca di colmare un vuoto interiore. Gli atteggiamenti della donna che non ha saputo onorare e prendere in carico la sua parte maschile si concretizzeranno in forme di ribellione, contrasto e rifiuto nei confronti di ogni autorità ma anche in espressioni opposte quali l’incapacità di sostenere le proprie convinzioni, la mancanza di slanci vitali e un persistente stato di paura. Paura nei confronti del mondo che la circonda ma paura fondamentalmente nei confronti della carica dell’energia maschile, una carica che la disorienta e la destabilizza. Allora il mondo maschile diventa un mondo al quale approcciarsi da vittima, da “brava bambina”, da colei che è sempre pronta a dire di “si” elemosinando attenzioni, premure e cura. La tendenza sarà quella di dissolversi nell’amore dell’altro da cui far dipendere la propria felicità sempre in un affannosa ricerca di qualcuno che sia in grado di coprire il proprio vuoto interiore. Se, dunque, come sostenuto dalla grammatica dell’essere del prof. Michel Hardy, ogni energia Yin, per poter accedere ai propri principi di base e sviluppare le proprie qualità femminili richiede la necessità di accostarsi anche alla sua parte Yang, recuperare l’amore paterno assume una connotazione ancora più profonda. È come se andassimo alla ricerca dell’altra parte di noi, per poter vivere finalmente quello stato di pienezza che l’integrazione delle due cariche può dare. Questo può avvenire soltanto nel momento in cui si riesce a stringere alleanza con la parte che più temiamo, la nostra rabbia, rabbia che da sempre cerca di coprire il nostro dolore non evaso. Entrare nella rabbia, nella forza benefica di tale emozione, permette di trasformarla in una spinta propositiva, una spinta che ci consente di uscire dal ruolo di bambina, donandoci il potere di sostenere le nostre convinzioni senza temere di perdere l’altro. Il passaggio dal ruolo del bambino al ruolo dell’adulto è un passaggio che viene riconosciuto attraverso delle strategie di apertura, delle strategie che si rifanno alla capacità di assumersi le proprie responsabilità empiriche, accedendo al proprio poter personale, sapendo fronteggiare situazioni di contrasto senza farsi travolgere. La forza del maschile dona la possibilità di parlare a nostro sostegno, di poter esprimere il nostro dissenso, ma anche di poter esprimere il nostro “si consapevole”. Questo ci permette di accedere anche al senso al nostro esistere perché finalmente sentiremo di avere un posto che ci spetta di diritto perché la forza Yang conferisce sostegno e concretezza, perseveranza e forza di volontà e grazie a questo la donna riesce a percepire il suo valore. Abbandonare il “si” che nasce da una scelta di paura di manifestarsi e che è tipico della brava bambina che non è capace di contraddire, entrare in conflitto o deludere le aspettative dell’altro 31


passa, ancor prima, attraverso la capacità di imparare a saper dire di no, senza crollare sotto la pesantezza dell’abbandono, senza sentirsi in colpa, senza avere paura che l’altro ci lasci. Il si consapevole, che è un preciso atto di responsabilità, è un si che porta in se tutte le qualità del codice Yin, un si che si basa sull’apertura, l’accoglienza e la morbidezza che sono alla base della forza incondizionata, principio supremo dell’agire femminile. E sarà un si che riusciremo a pronunciare solo quando saremo riuscite ad acquisire il nostro poter personale, avendo iniziato un cammino di consapevolezza che porta al cambiamento delle proprie dinamiche emotive, dei propri moti interiori. Un cambiamento che ha inizio solo quando ci daremo il permesso di accedere alle nostre parti più buie, al nostro dolore e alla nostra rabbia, per poi allontanarcene.

Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza. Antoine de Saint-Exupéry

32


Capitolo II “Eppure sentire…”

Mi piace il verbo sentire. Sentire il rumore del mare, sentirne l’odore. Sentire il suono della pioggia che ti bagna le labbra. Sentire l’odore di chi ami, sentirne la voce e sentirlo con il cuore. Sentire è il verbo delle Emozioni, ci si sdraia sulla schiena del mondo e...si sente. Alda Merini

33


2.1 Sensazioni, percezioni, emozioni. Avvicinarsi al proprio al dolore, sentire la propria rabbia vuol dire mettersi in contatto con quel mondo intimo e personale che è fatto di sensazioni, percezioni ed emozioni. Le sensazioni sono legate ad una primo ed elementare contatto con uno stimolo esterno, che attraverso i nostri organi di senso viene colto, recepito e trasmesso al cervello. A causa di tale stimolo esterno avverrà dunque una modificazione del nostro sistema neurologico che attiverà una serie di risposte. La percezione elabora una sintesi dei dati sensoriali costruendone un’immagine interna e dotandola di un significato. Può essere considerata come la base della nostra conoscenza poiché rappresenta la principale modalità attraverso la quale noi acquisiamo informazioni sul mondo esterno.

Le emozioni vengono definite come la sintesi di stati mentali e fisiologici poiché comportano delle modificazioni a livello psicofisiologico. «Le emozioni rappresentano una risposta degli individui agli stimoli ambientali, sono segno importante dell’integrazione che si realizza tra mente e corpo. Emerge come le emozioni, pertanto, non rimangano solo a livello psichico ma, essendo accompagnate da modificazioni fisiologiche e somatiche, si esprimono attraverso il nostro corpo che diventa teatro agito nel rapporto con se stessi, con gli altri e con l’ambiente».

24

Le emozioni, dunque, possono essere intese come un movimento dinamico che a partire da una esperienza soggettiva del singolo si estende all’attività del sistema nervoso manifestandosi attraverso modificazioni fisiologiche ed espressioni comunicative.

Esiste, allora, una stretta correlazione tra le emozioni (paura, rabbia, tristezza) e le relative manifestazioni di esse nel nostro corpo. La tristezza, ad esempio, avrà una connotazione mimica, posturale, respiratoria ben diversa da quella che potrà far vivere un’intensa sensazione di rabbia. Così, pur nel nostro goffo tentativo di mascherare le nostre emozioni difficilmente riusciremo a sfuggire intensità con cui si presentano a noi. Quello che spesso avviene è una maniera distorta di accedere al nostro sentire ovvero non si riesce a cogliere la reale “carica empirica” presente nelle diverse situazioni e a rispondere in maniera corretta. Il risultato è quello o di una totale anestesia emotiva o al contrario di una reazione esagerata ai nostro moti interiori. 24

A.LO IACONO R.SONNINO, Respirando le emozioni Armando Editore, Roma, 2008

34


«Vogliamo essere più vitali e sentire di più, ma ne abbiamo paura. La nostra paura di vivere si vede dal modo in cui ci teniamo occupati per non sentire, corriamo per non doversi fermare di fronte a noi stessi, ci stordiamo con alcol e droghe per non sentire il nostro essere. Dato che abbiamo paura della vita, cerchiamo di controllarla o dirigerla. Crediamo che essere trasportati dalle emozioni sia cattivo o pericoloso. Ammiriamo le persone che sono fredde e distaccate, che agiscono senza emozione […] il motto è fare di più e sentire di meno» 25

Immersi nelle nostre faccende quotidiane temiamo la comparsa dei nostri movimenti interiori e li tratteniamo; abbiamo paura di perdere il controllo, censuriamo, copriamo, ignoriamo o al contrario reagiamo esageratamente, feriamo, ci lasciamo sopraffare dal nostro sentire. Succede allora che possiamo essere gioiosi in situazioni terribili o viceversa esplodere nei momenti meno opportuni schiavi di un sentire distorto, un sentire lontano da quelli che sono,

secondo la visione

dell’approccio empirico, i parametri sistemici. Un sentire che porterà allo sviluppo di moti di agire alterati ovvero a risposte non allineate a quelle richieste dalla carica energetica della situazione. Un sentire che è comunque sempre il risultato del nostro debito. Ogni situazione detiene una propria carica energetica che rivela ciò che la situazione stessa realmente è e, contemporaneamente, offre le diverse possibilità di reazione all’individuo. Tale carica energetica si rivela sul piano del proprio sentire e può essere colta solo entrando in relazione con le sensazioni autentiche che la carica stessa suggerisce. Ogni frammento di vita, quindi, riporta un preciso stimolo empirico dato dalla carica insita e solo chi si muove all’interno del libero fluire è in grado di percepirlo entrando in contatto con le sensazioni autentiche. All’individuo che sperimenta la situazione è richiesto di rendersi disponibile ai suoi effetti. L’ordine considera diverse soluzioni, e offre una gamma di possibilità all’individuo, tuttavia, ai fini empirici, esiste un’unica soluzione, un’unica reazione d’eccellenza che è il risultato di un “sentire assoluto”, un sentire allineato con l’ordine e con tutti quei sentimenti di apertura e accoglienza che questo prevede. «La carica gioiosa è l’energia più vicina ai parametri empirici del libero fluire[…]. Chi si allontana da esso avverte una diversa qualità delle proprie percezioni, che in ogni caso hanno a che fare con l’assenza dell’amore»26

Ciò che dunque è richiesto al singolo è di allineare moti empirici al proprio sentire e questo può avvenire solo quando riusciamo ad aggirare i filtri della nostra mente e collegarci con ciò che viene chiamata “intelligenza empirica”. E se l’intelligenza emotiva si riferisce «alla capacità di riconoscere 25 26

A. LOWEN, Onorare il corpo, Xenia edizioni, Milano, 2011. M. HARDY, La Grammatica dell’essere, vol I.

35


i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le emozioni, tanto interiormente, quanto nelle nostre relazioni »27 risultando quindi limitata al singolo, all’individuo,

l’intelligenza empirica si collega ad un macrocosmo più ampio, è la manifestazione dell’ordine stesso e si rivela attraverso il piano del proprio sentire, attraverso la capacità di mettersi in ascolto del proprio corpo.

Bisogna aver rinunciato al buon senso per non convenire che non conosciamo nulla se non attraverso l’esperienza. Voltaire

27

D. GOLEMAN, Lavorare con intelligenza emotiva, BUR 2010.

36


2.2 Il corpo, il respiro. Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza. F. Nietzsche

Tutto ciò che passa attraverso il nostro sentire, la nostra capacità di provare delle emozioni non può essere scisso dai moti del nostro corpo perché esso ne è la piena e concreta manifestazione. La corporeità è una dimensione primitiva, primaria senza la quale niente si costituisce nel mondo. «Nessuno è nulla al di là del corpo vivente in cui ha la propria esistenza e attraverso il quale si esprime e si pone in relazione con il mondo che lo circonda»28

I correlati fisiologici delle nostre emozioni (il rossore e la vergogna, il tremore e la paura, il respiro affannato e la rabbia, il cuore che pulsa all’impazzata e la gioia) si manifestano con tutta la loro forza espressiva nel nostro corpo. Un corpo che vive, pulsa, vibra, piange, ride, si arrabbia, si contrae, si espande. Siamo stati abituati a separare, a scindere il nostro corpo dalla nostra mente, il nostro sentire dal nostro pensare, correndo il rischio di percepire il corpo come una entità a noi estranea, come un organismo che si muove al di là della nostra coscienza e consapevolezza. Lo ascoltiamo solo quando ci segnala che qualcosa non va, con il dolore, con la sofferenza o con la malattia. E siamo subito pronti a trovare una cura, ad anestetizzarlo senza mai chiederci cosa in realtà ci stia chiedendo. Cerchiamo di darci delle spiegazioni plausibili, cerchiamo di aggirare l’ostacolo con i nostri ragionamenti senza renderci conto di quanto la mente stia prendendo il sopravvento, “ingannandoci” attraverso le sue considerazioni, i suoi filtri e le sue analisi sul caso. Una mente che tenta il più in fretta possibile di liberarsi dai propri moti di disagio senza provare a ricercarne il significato in un disegno più ampio. Così, secondo l’approccio empirico, le nostre facoltà intellettive si sostituiscono a quelle sensoriali, coprendo il piano del nostro sentire. Talvolta capita di percepire che le nostre giustificazioni non riescono a motivare la forza delle sensazioni che spinge, ma la nostra paura e il nostro intelletto ci offrono immediatamente strumenti idonei per sfuggire a quanto succede nel nostro mondo interiore. Ciò che l’approccio empirico propone non è un rifiuto della nostra parte cognitiva, non si tratta di eliminare la mente quanto piuttosto imparare a integrare i due livelli, a stabilire una sorta di contatto tra il nostro pensare e il nostro sentire. L’integrazione tra il pensare e il sentire avviene dunque attraverso una presa di consapevolezza del nostro corpo, una presa di consapevolezza che prova a 28

A.LOWEN, Bioenergetica, Feltrinelli Editore Milano

37


recuperare la dimensione “olistica” dell’’individuo; una dimensione che mette in connessione tra loro il nostro livello fisico, emotivo, mentale e spirituale. Il corpo e la mente diventano quindi una unità inscindibile, un’unità che si influenza reciprocamente e dalla quale non si può prescindere in ogni cammino che porti alla crescita di se stessi. L'Approccio Empirico, dunque, quale processo d'indagine interiore che porta ad una sempre maggiore consapevolezza di se, utilizza il corpo come catalizzatore e strumento d'eccellenza. E attraverso il linguaggio del corpo e la rivelazione di tale linguaggio nel corpo stesso spinge il singolo a placare il continuo mormorio della mente. Questo avviene attraverso un lento e graduale processo di sedimentazione a livello profondo del nostro sentire. Solo attraverso questo passaggio è possibile elaborare e iniziare a risolvere tutte le nostre dinamiche nascoste. Attraverso l’uso di diverse tecniche corporee e sensoriali, attraverso un approccio “globale” si inizia a dare spazio ai movimenti del corpo, alla bellezza con cui questo manifesta i propri moti interiori, risalendo alla radice dei nostri debiti, dei nostri moti d’amore interrotti. Questo processo, che avviene in tempi lunghi e dilatati e solo nel momento in cui siamo in grado di darci il permesso, senza che la mente si intrufoli, amplia la nostra capacità di sentire ancor prima di capire, ci consente di ascoltare il silenzio dentro di noi per riuscire pian piano a trovare il nostro spazio interiore che non è più uno spazio, un vuoto ma piuttosto un luogo che riesce a contenere prima noi stessi e poi anche gli altri. Perché quando siamo in grado, attraverso il corpo di accedere al nostro dolore, la nostra essenza, il nostro modo di essere comincia a cambiare così come cominciano a mutarsi tutte le situazioni che girano attorno a noi. Non è facile, a causa dei nostri tabù personali, familiari e sociali, vivere il corpo nella sua gestualità e nei suoi movimenti, abbiamo perso il contatto, ancora una volta, con il nostro “bambino interiore” che è invece in grado di esprimersi e muoversi con facilità e leggerezza attraverso il suo corpo. Ci sentiamo imbarazzati nel dare spazio al nostro corpo, ci disorientano tutte quelle attività che lo richiedono come protagonista , ci vergogniamo quando siamo chiamati ad esprimerci con questa parte di noi. È come se con il passare degli anni ci fossimo allontanati dal piano del nostro sentire e lo abbiamo fatto innanzitutto a partire dal nostro respiro. Un respiro che è diventato inconsapevole e superficiale, trattenuto e teso, un respiro che manifesta chiaramente nelle sue espressioni il nostro modo di essere nel mondo. Ed è proprio dal respiro che bisogna ripartire per riappropriarsi del proprio corpo per poterne sentire le richieste di attenzione, quel respiro con cui ha inizio la nostra vita e con cui la stessa ha fine. «Il respiro è il ponte tra il volontario e l’involontario, tra l’anatomia reale e quella simbolica. Il respiro è la strada che ci permette di compiere quel lungo viaggio che ci conduce al punto da noi più lontano e più vicino: il nostro corpo e la nostra storia. Il respiro è quel flusso sotterraneo di consapevolezza che in ogni

38


momento ci tiene aggiornati su noi stessi e sul nostro coinvolgimento con l’essenza e con il mondo ».29

Porre l’attenzione sul nostro respiro significa quindi porre l’attenzione su noi stessi. Trattenendo il respiro, mantenendolo ad un livello superficiale non facciamo altro che trattenere, contenere, bloccare anche le nostre emozioni. Solo attraverso una respirazione consapevole possiamo cogliere l’intima connessione di tutte le dimensioni del nostro essere: corpo, mente, cuore e spirito. Sentire il nostro respiro, sintonizzarsi con esso per coglierne o variarne l’intensità, osservarlo nella quotidianità diventa quindi uno dei primi passi da compiere nel cammino di ri-appropriazione di se stessi. Ogni volta che senti che la mente non è tranquilla Ma tesa, preoccupata, logorroica, ansiosa, costantemente sognante, fai una cosa: prima espira profondamente… buttando fuori l’aria anche lo stato d’animo che hai verrà buttato fuori perché respirare è tutto. Osho

29

G. SALONIA, Sulla felicità e dintorni, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011.

39


Capitolo III Lasciare andare…

La vostra gioia è il vostro dolore senza maschera. E il pozzo da cui scaturì il vostro riso, sovente fu colmo di lagrime. Come può essere diverso. Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia voi potrete contenere. Gibran Kahlil Gibran

40


3.1 Lo spazio del cuore La strada fangosa

Una volta Tanzan ed Ekido camminavano insieme per una strada fangosa. Pioveva ancora a dirotto. Dopo una curva, incontrarono una bella ragazza, in chimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare la strada. «Vieni, ragazza,» disse subito Tanzan. Poi la prese in braccio e la portò oltre le pozzanghere. Ekido non disse nulla finché quella sera non ebbero raggiunto un tempio dove passare la notte. Allora non poté più trattenersi. «Noi monaci non avviciniamo le donne» disse a Tanzan «e meno che meno quelle giovani e carine. È pericoloso. Perché l'hai fatto?». «Io quella ragazza l'ho lasciata laggiù» disse Tanzan. «Tu la stai ancora portando con te?» Questa breve storia Zen sembra descrivere le nostre modalità di approccio alle situazioni che quotidianamente ci si presentano davanti. Troppe volte rimaniamo legati a ciò che è passato, incapaci di lasciare andare il peso di ciò che è stato, trascinandoci dietro il fardello ingombrante di tutto quello che non vogliamo prenderci la responsabilità di guardare e affrontare. Ci troviamo continuamente immersi nel nostro dolore lo tratteniamo e ne siamo travolti. Riuscire ad affrontare le nostre ferite non cicatrizzate, attraverso un cammino di consapevolezza personale, iniziare a curarle e accettarle per quelle che sono crea dentro di noi uno spazio sempre maggiore, crea una sorta di vuoto interiore che diventa, con l’andare del tempo, uno spazio di fiducia, uno spazio per la “resa”. È un vuoto che ci sostiene, un vuoto che non ha più bisogno di essere riempito da altro e da altri, ma diventa una forza sempre crescente per gestire nel migliore dei modi possibili la nostra quotidianità. Affrontare il dolore, affrontare la ferita dell’abbandono, risalire all’origine dei nostri diritti infranti, ci costringe ad entrare in ciò che più ci fa paura, in un sentimento intenso di solitudine, di distacco da tutto, ma è solo in questa solitudine, nel nostro essere soli con noi stessi che possiamo iniziare a sentire la “bellezza” di quel dolore, l’amore che può trasmetterci, la sua straordinaria forza,. Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. 41


Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te. Franz Kafka

È la forza della consapevolezza, è la forza della presenza, è quella forza che ci permette di stare e di entrare negli angoli più oscuri e bui di se stessi, riuscendo a non opporre più resistenza, accettando le nostre luci e le nostre ombre, i nostri talenti e i nostri limiti, per riuscire alla fine a lasciare andare, a non trattenere, a perdonare noi stessi e anche gli altri. Solo in tal modo saremo in grado di assumerci la responsabilità per tutto ciò che abbiamo fatto ma anche per le azioni non compiute, uscendo dal nostro ruolo di vittime delle circostanze esterne per riconoscere il nostro posto all’interno del sistema, un sistema che include ed integra tutto ciò che è, senza critica e senza giudizio, un sistema che ha alla base un unico movimento, un solo moto: l’amore. Riconoscendo dunque ciò che è senza contrastarne le inevitabili manifestazioni, possiamo allinearci con l’ordine e sperimentare la condizione del libero fluire, una condizione di equilibrio, in cui ogni gesto e ogni azione trova la sua compensazione e il suo bilanciamento. Il senso di pienezza e di appagamento che si sperimenta all’interno di tale stato trova la sua naturale condizione nella definizione che di amore viene data nella “Grammatica dell’Essere” del prof Michel Hardy. L’amore viene considerato come la “più grande ambizione di ogni energia pulsante”, come la massima manifestazione ed espressione del vivere in sintonia con l’ordine. Esso è il moto principale di ogni atto armonico e ne è la naturale e massima espressione. Immergersi nel libero fluire vuol dire accedere ad uno stato di pienezza e gioia di vivere, aspirare ad un profondo stato di serenità interiore che si riflette in ogni ambito della nostra esistenza. Questo avviene solo quando si riesce a muoversi in accordo con l’ordine empirico avendo integrato le proprie dinamiche nascoste dopo essersi dati il permesso e la disponibilità di accedere a tali dinamiche. È un amore che non rimane ancorato alla nostra sfera affettiva ma che stringe e contiene in sé tutto il piano della nostra esistenza. Tale allineamento e la sensazione di benessere che ne consegue avviene attraverso il piano del nostro sentire, quando ci siamo in un certo senso liberati dal superfluo della nostra mente, avvicinandoci ad una dimensione che ci consente di aprirci ed essere disponibili nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Si sperimenta un senso di interezza e di appartenenza profonda, stato che si riflette su tutte le nostre strategie vitali.

42


«L’amore, più che un semplice stato psicofisico, si rivela come il principio attivo di ogni moto dinamico dell’ordine armonico, sia all’interno della sfera emotiva che nel senso più ampio della creazione[…]Solo l’amore può alimentare il continuo tentativo di ogni cosa di voler raggiungere l’interezza all’interno del sistema»30. Il nostro stare ed essere in uno stato di pienezza ed appagamento è dunque dato dalla presenza o dall’assenza dell’amore. La capacità dunque di poter trasformare e dissolvere i nostri moti disarmonici avviene nel momento in cui, lentamente iniziamo a ripulire gli angoli più sporchi della nostra profondità. Una sorta di pulizia interiore ancora una volta alla ricerca del nostro passato. Un passato che è quindi necessario rimettere in ordine, riassettare, ripulire per bene, rendendo limpido e splendente ogni piccolo spazio. Arrivare al centro di tale spazio è arrivare al centro della nostro cuore. Ed è proprio la spazio del cuore la meta di ogni trasformazione empirica, una meta che mi permette di poter contenere il dolore, la rabbia e la paura, una meta che solo l’essere diventati adulti mi permette di raggiungere. In tale stato posso finalmente sperimentare una forma di amore che non è più un bisogno, una richiesta, ma una condizione ideale nella quale il dare e il ricevere si contemplano e si completano a vicenda. Nello spazio del cuore non ho più bisogno di proteggermi o di chiudermi, ho la capacità di guardare con distanza e contemporaneamente con amorevolezza me stesso ma anche gli altri. Nello spazio del cuore posso contenere e osservare, senza farmi trascinare in vortici distruttivi, ciò che mi circonda, accedendo alla fine alla forza concreta dell’amore per me stesso ma anche per gli altri. Nello spazio del cuore ho imparato ad accogliere ciò che è rimanendo presente a me stesso. «Al centro del cuore, dove c’è silenzio, vuoto, una dimensione nel presente dove non c’è spazio e non c’è tempo, ma solo un infinito ora, la maggior parte dei processi mentali non servono ».31

Collocarsi al livello della “saggezza del cuore” porta a una dimensione nuova della propria capacità di stare nel mondo, una capacità che mi permettere di uscire dalla mia dimensione egoica per poter finalmente entrare in contatto con l’altro. È il momento del passaggio dall’Io al Noi, un Noi che non è soltanto il partner che ci siamo scelti e che ci accompagna nella vita, ma è un noi che comprende tutto ciò che ci circonda.

30 31

M. HARDY, La grammatica dell’essere, vol I. A.PIAZZA - M.COLOSIMO, La saggezza viene dal cuore, Milano, 2013.

43


«Quando l’amore tocca il dolore di qualcun altro, si genera compassione. Essa costituisce l’unica qualità dell’anima ed esula dai principi Yin e Yang. Compassione significa semplicemente avere spazio per poter accogliere qualcosa che si è in grado di contenere. In tal caso, qualsiasi cosa faccia l’altro, qualunque sia la sua reazione, qualsiasi sia l’avvenimento che ci coinvolge, c’è posto per questo nel proprio cuore »32

È un cambio di prospettiva, dunque. Attraverso i mezzi e le modalità che l’approccio empirico utilizza si riesce dunque a mettere da parte il chiacchiericcio della nostra mente, a mettere un freno alla presunzione costante del nostro Ego, per poter finalmente arrivare all’altro,e poterlo ascoltare senza critica e senza giudizio, ma pieni della forza della nostra presenza, del nostro amore, del nostro spazio del cuore. È un passaggio questo che, legato alla professione del counselor, diventa fondamentale. Saper mettersi in ascolto, saper osservare ciò che l’altro comunica, riconoscendolo per quello che è in quel momento, dandogli la dovuta attenzione, senza entrare nelle sue dinamiche personali, attraverso un contatto di profonda empatia, è proprio una delle competenze richieste da tale professione. Una competenza che si affina lentamente attraverso il recupero di se stessi e del piano del proprio sentire.

32

M. HARDY, La grammatica dell’essere, vol III.

44


3.2 Dal sentire all’ascoltare: il counselor Se abbiamo due orecchie ed una sola bocca Significa che dobbiamo ascoltare Il doppio di quanto parliamo. Zenone

Il counseling, secondo la definizione che di esso ne da Carl Rogers, è una relazione di aiuto che ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato. Una relazione che favorisce la valorizzazione delle risorse personali di un individuo e la loro possibile espressione. Le stesse finalità sono chiaramente dichiarate

nella

definizione

di

counseling

approvata

dall’Assemblea

Nazionale

FAIP

COUNSELING il 18 aprile 2013: “Il Counseling è una professione in grado di favorire lo sviluppo delle potenzialità, qualità e risorse di individui, gruppi e organizzazioni”. È quindi la centralità della persona, con le sue qualità e i suoi talenti, e la concomitante relazione con essa, la base, l’assunto centrale di ogni possibile intervento di counseling. È a partire da ciò che il “cliente” mette in gioco che si possono costruire piani di intervento per realizzare gli obiettivi desiderati dallo stesso. Tali obiettivi possono riguardare la difficoltà a prendere una decisione, così come la gestione di alcuni conflitti o riferirsi alla capacità di prendere consapevolezza di se stessi. Il counselor, senza sostituirsi alla persona che ha di fronte, trae da questa le risorse per meglio affrontare le situazioni. E’ quindi una professionalità che tende a valorizzare i talenti del singolo, le sue potenzialità, le sue risorse interiori, favorendo l’autonomia decisionale al fine di sviluppare l’autoconsapevolezza per la gestione di eventuali conflitti, aiutando a riconoscere e gestire le proprie emozioni. In tale accezione è strettamente legato e correlato anche alle teorie pedagogiche che si riconoscono nell’arte della “maieutica”, in quella capacità di far emergere dal soggetto con cui si ha una relazione educativa o legata appunto alla professione di counselor, il riconoscimento delle proprie risorse e dei propri talenti. Socrate ne è la figura di riferimento, ma tale modalità di approccio con l’altro, è stata ripresa nel corso dei secoli da Seneca, da Rousseau ed è approdata ai nostri giorni grazie anche al contributo di Danilo Dolci e del suo metodo basato sulla metafora della domanda e sul sogno. Un metodo che spinge gli allievi ad allargare la propria sfera di apprendimento attraverso l’uso consapevole di alcuni interrogativi come mezzo di riconoscimento e di auto-riconoscimento, come 45


base per l’auto-riflessione e la scoperta anche dei propri moti interiori e dei propri stati d’animo. Sembra essere proprio questo, dunque, il punto di incontro tra la pedagogia e il counselor, un punto di incontro che si concretizza proprio nella capacità di “far uscire” dall’allievo e/o dal cliente le proprie potenzialità, aiutandolo ad orientarsi ed esprimersi nel mondo. La centralità dell’individuo, dunque. Una centralità che è alla base anche del pensiero di Carl Rogers che, insieme a Rollo May, può essere considerato il padre fondatore del counseling. Anche secondo Rogers il cliente ha in se tutte le potenzialità per attuare la piena realizzazione di se stesso, potenzialità che attendono solo di essere scoperte. Uno dei metodi utilizzati nella rivelazione di tali potenzialità è basato su quello che Thomas Gordon chiama “ascolto attivo”. Una tipologia di ascolto che favorisce la comunicazione interpersonale, una tecnica, ma anche una modalità di essere e stare nella relazione, che consente di far “sentire” all’altro la nostra presenza, la nostra attenzione, la nostra accoglienza. Cercando sul dizionario della lingua italiana i termini “Ascoltare” e “Udire” possiamo leggere le seguenti definizioni: Ascoltare: stare intenzionalmente ad udire qualcosa; stare a sentire con attenzione qualcuno. Udire: percepire suoni con l’udito.33 Se il termine “udire”, dunque, si riferisce alla nostra capacità di cogliere suoni attraverso l’organo di senso preposto a tale attività, il termine “ascoltare” comprende un significato più ampio che considera fondamentale la componente volontaria del soggetto che “intenzionalmente” e con “attenzione” si pone e si predispone a comprendere ciò che l’altro esprime. In ogni forma di ascolto dunque che si riferisca ad un amico, ad un bambino, al nostro partner, ad un “cliente” ciò che viene sottolineato è la capacità di entrare in contatto con l’altro e con quanto l’altro ci sta comunicando, attenti a tutte le manifestazioni verbali e non verbali presenti in tale messaggio. E se nella nostra quotidianità non sempre riusciamo ad essere così presenti a noi stessi nell’ascolto delle persone con cui ci relazioniamo, questa capacità, questa competenza diventa prioritaria nel momento in cui ci confrontiamo con la nostra professionalità da counselor. Il nostro ascolto diventa e si trasforma così in quell’ “ascolto attivo” citato precedentemente, in quella modalità di ascoltare che ci permette di entrare in una forma autentica di comunicazione con l’altro e creare in tal modo quel clima di fiducia e comprensione che è richiesto in ogni professione di aiuto.

33

Cfr. Dizionario RIZZOLI - LAROUSSE

46


L’ascolto attivo quale momento cardine della relazione interpersonale ci permette di entrare in contatto con l’altro e prestare attenzione a quanto l’altro ci sta comunicando, rimanendo sempre aperti a tutti i suoi messaggi, dimostrando concretamente di aver capito il senso di cosa ci è stato comunicato ma anche di averne compreso i contenuti senza alcuna forma di critica o giudizio. L’ascolto attivo in quanto tecnica prevede una serie di passaggi che conducono da una iniziale fase di predisposizione all’ascolto, in cui anche attraverso gesti o frasi manifestiamo la nostra attenzione, a momenti nei quali incoraggiamo ad approfondire l’argomento senza commenti o giudizi a una fase in cui il contenuto del messaggio che ci è stato comunicato viene riproposto, viene condiviso, viene rielaborato, senza esprimere pareri o commenti personali, ma favorendo processi decisionali autonomi. Nella pratica di tale tipo di ascolto assume una valenza fondamentale la comunicazione non verbale sia del counselor che del cliente. Partendo dagli assunti sulla “teoria della comunicazione”, elaborata dalla scuola di Palo Alto, che afferma che tutti i nostri comportamenti hanno una valenza comunicativa e che trasmettiamo sempre qualcosa anche quando pensiamo di non farlo, anche quando stiamo in silenzio, si può comprendere come la capacità del counselor di cogliere le sfumature nei messaggi verbali, non verbali e paraverbali di chi ci sta di fronte sia una qualità fondamentale, una qualità che afferisce ancora una volta al piano del nostro sentire. Gli studi sulla comunicazione affermano che soltanto una minima parte di ciò che comunichiamo si esprime attraverso il linguaggio, mentre una buona parte passa attraverso il canale del paraverbale ovvero dal tono della nostra voce, dal timbro, dall’intensità, dalle pause, dalla velocità. A farla da padrone nella scambio comunicativo è, però, il linguaggio non verbale, il linguaggio espresso dal nostro corpo, dai suoi movimenti, dai suoi gesti, dalle sue posture, dai suoi atteggiamenti. L’approccio empirico che utilizza il corpo come catalizzatore e strumento di eccellenza per conoscere se stessi e le proprie dinamiche nascoste diventa quindi un valido supporto per sviluppare la nostra capacità di cogliere i messaggi che l’altro ci sta, anche inconsapevolmente, inviando. «Il non verbale e il paraverbale rappresentano un punto di partenza per entrare in contatto con la propria parte intima, quel sé dimenticato e coperto da strati e strati di convinzioni, strategie, credo e schemi mentali che hanno forgiato il nostro cosiddetto carattere […] L’espressione non verbale soddisfa bisogni emotivi, affettivi, sociali; avvicina al proprio sé rendendo consapevoli del mondo interiore, delle sensazioni e delle emozioni; aiuta a considerare gli stimoli esterni e lo scambio con gli altri come un’occasione per osservarsi, accettarsi e integrare ogni parte di sé».34

34

L. MINUTOLI, Tra luce e ombra, Edizioni Erickson, Trento, 2011.

47


Attraverso dunque il non verbale e il paraverbale ci viene data la possibilità di entrare in relazione con l’altro, riuscendo a cogliere le diverse sfumature della sua comunicazione, affinando la nostra capacità di entrare e stare in una relazione basata sull’empatia. «Essere sordi emotivamente si traduce nella goffaggine sociale che può derivare da un’errata interpretazione dei sentimenti, da un’ottusità meccanica e desintonizzata, o dall’indifferenza che può distruggere un rapporto[…] L’empatia implica la capacità di leggere le emozioni altrui; comporta la percezione e la reazione alle preoccupazioni o ai sentimenti non verbalizzati dell’altro. Al massimo livello coincide con la comprensione dei problemi e delle preoccupazioni che stanno dietro al sentimento dell’interlocutore»35.

Se, dunque l’empatia come anche Rogers afferma, è la nostra capacità di mettersi nei panni dell’altro e di sentire l’esperienza così come egli la sente, risulta chiaro come questa abilità del counselor debba partire dalla conoscenza e consapevolezza dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. Una consapevolezza che può nascere solo dopo essersi riappropriati del proprio spazio nel cuore, uno spazio che ci permette di accogliere l’altro senza farci travolgere dal suo sentire e senza farci trascinare nei vicoli di una forma di empatia cieca e angosciante.

Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose. P.Coelho

35

D.GOLEMAN, Lavorare con intelligenza emotiva, BUR, Milano, 2010.

48


3.3 Sentire…Ascoltare…Comunicare…Sperimentare Dalla consapevolezza del proprio corpo e del proprio respiro, dalla capacità di osservare se stessi e gli altri, dalle nostre strategie di comunicazione ha preso il via la sperimentazione da me condotta all’interno dell’istituto scolastico in cui lavoro. Una sperimentazione che, prevista nel corso del terzo anno della scuola di Counselor pedagogico-relazionale, rappresenta sicuramente un momento di riflessione e analisi della propria professionalità nascente. Ho effettuato tale sperimentazione con 10 insegnanti appartenenti a due diversi ordini scolastici: la scuola dell’infanzia e la scuola primaria, 10 insegnanti che “volontariamente” si sono messe in gioco insieme a me per sperimentare alcune delle tecniche e delle metodologie che io avevo appreso nel corso dei miei studi. Come ogni fase di progettazione di un intervento richiede, sono partita da un’analisi dei bisogni dei destinatari del mio intervento. Posso con sincerità affermare che non è stata un’analisi condotta con l’ausilio di chissà quali metodi scientifici ma è stata un’analisi scaturita da una amichevole chiacchierata tra colleghe in uno dei nostri pomeriggi dedicati alla programmazione. Alcune delle mie colleghe hanno “assistito” nel corso di questi tre anni ai miei cambiamenti, alla mia apertura, al mio sorriso che diventava con passare del tempo sempre più autentico e spesso incuriosite mi hanno chiesto cosa mi stesse succedendo, qualcuna di loro ha anche attribuito tale mio nuovo modo di essere a un possibile “innamoramento”. Ho sempre parlato loro della scuola che stavo frequentando e scherzosamente le ho spesso invitate, durante animate discussioni in collegio docenti, a respirare. A volte, quando insieme ai miei alunni, ho sperimentato alcune delle attività che prendevano a modello le forme esperienziali dell’approccio empirico, qualche collega si è trovata ad assistere e, tra il serio e il faceto, ha esclamato che sarebbe stato interessante potersi mettere alla prova. Forte dunque di questa “motivazione”, ma anche di una loro richiesta di “rilassarsi”, di “staccare la spina”, di “fermarsi un po’ con se stesse”, di riappropriarsi del piano del proprio sentire ha avuto inizio la mia sperimentazione.

49


3.4 Schema di Progetto Tipologia gruppo: docenti di scuola dell’infanzia e scuola primaria Tempi: 4 incontri da due ore e trenta Obiettivo generale: Prendere consapevolezza del proprio sentire per migliorare la relazione con se stessi e con gli altri; favorire il benessere psicofisico. Obiettivi specifici: Prendere contatto con il proprio respiro e la propria corporeità Percepire come cambia il respiro in situazioni diverse Imparare a “sentire” ogni singola parte del proprio corpo Prendere consapevolezza del proprio stato di tensione-rilassamento muscolare Osservare il proprio mondo emozionale Riconoscere le proprie emozioni e saperle esprimere con il corpo, il volto e la voce Sentire e distinguere nelle proprie sensazioni momenti di disagio o benessere Superare le naturali resistenze nel comunicare agli altri le proprie esperienze o i propri sentimenti. Riflettere su alcune forme e modalità di comunicazione Attività: le docenti vengono invitate a mettersi in contatto con il proprio respiro e a sentirne le differenze in base a cambiamenti indotti volontariamente. Attività: attraverso appositi stimoli i partecipanti vengono invitati ad appropriarsi di alcune sensazioni corporee, provando a riconoscere eventuali stati di tensione e contrazione. Attività: i partecipanti si osservano e osservano negli altri come in uno specchio, alcuni dei propri modi di comunicare attraverso la voce e il corpo.

50


Attività: le insegnanti sono invitate a riflettere sulla possibilità che modi di dire, di fare e agire nella quotidianità, soprattutto professionale, siano legati all’uso di “copioni personali”. Attività: le insegnanti vengono invitate a riflettere sulla capacità di comunicare agli altri le nostre sensazioni senza paura di critica e giudizio attraverso la condivisione di una personale lista della gratitudine. Metodologia e tecniche: Ogni incontro è strutturato secondo un iter che ha previsto una fase iniziale, di introduzione; una fase centrale, nucleo dell’esperienza proposta; una fase di chiusura. Apprendimento esperienziale/laboratoriale attraverso il vissuto corporeo. Tecniche di respirazione e rilassamento corporeo Visualizzazioni guidate Utilizzo dei linguaggi espressivi( musica e arte) e della creatività Valutazione: Attraverso condivisioni alla fine di ogni piccola esperienza o alla fine dell’intero percorso. Feedback su quanto esperito.

51


3.5 Attività e riflessioni Un Monaco zen viveva con suo fratello, cieco d’un occhio e idiota. Un giorno proprio quando un famoso teologo era venuto da lontano per parlargli egli era stato costretto ad assentarsi. Disse allora a suo fratello: “Ricevi e tratta bene questo erudito! Soprattutto non aprire bocca e tutto andrà bene!” Il Monaco abbandonò il Monastero. Al suo ritorno, andò di corsa dal suo ospite: “ Ti ha ricevuto bene mio fratello?” gli chiese. Pieno di entusiasmo ,il teologo esclamò: “Tuo fratello è una persona notevole. E’ un grande teologo.” Il Monaco sorpreso farfugliò: “Come?... Mio fratello ,un teologo” “Abbiamo avuto una conversazione appassionante”, continuò l’erudito “esprimendoci solo a gesti. Io gli ho mostrato un dito, lui ha replicato mostrandomene due. Allora gli ho risposto, logicamente, mostrandogli tre dita, e lui mi ha lasciato sbigottito mostrandomi un pugno chiuso che metteva fine al dibattito. Con un dito, io gli ho indicato l’unità di Buddha. Con due dita, lui ha allargato il mio punto di vista ricordandomi che Buddha era inseparabile dalla sua dottrina. Soddisfatto della replica, con tre dita, gli ho dato a intendere: Buddha e la sua dottrina nel mondo. E allora lui mi ha dato una risposta sublime mostrandomi il pugno: Buddha, la sua dottrina, il mondo, formano un tutto. Questo vuol dire davvero superare se stessi”. Poco dopo il monaco andò da suo fratello: “Raccontami com’è andata con il teologo!” “E’ semplice” disse il fratello “Lui mi ha provocato mostrandomi un dito per farmi notare che io avevo un occhio solo. Non volendo cedere alla provocazione, ho risposto che lui era fortunato ad averne due. Lui ha insistito sarcastico: “Comunque, sommando quelli di entrambi, fanno tre occhi”. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mostrandogli il pugno chiuso l’ho minacciato di stenderlo all’istante se non la smetteva con le sue malevole insinuazioni.”36

La lettura di questa storia ha dato il via alla mia sperimentazione, una sperimentazione che potremmo intitolare “alla ricerca del corpo perduto…”, perché questo è stato, in sintesi, l’obiettivo che si è cercato, attraverso le diverse attività proposte, di raggiungere. Partire dalla lettura di un testo mi ha permesso, utilizzando una modalità di comunicazione che, apparentemente, mette in gioco solo il piano cognitivo, non solo di creare un clima iniziale di fiducia, ma di poter osservare le dinamiche con cui, attraverso la successiva riflessione sulle parole del testo, le docenti si sono confrontate. L’animata discussione che ne è scaturita ha subito evidenziato le difficoltà che ognuno 36

A. JODOROWSKY, Il dito e la luna, Oscar Mondadori, Milano, 2009.

52


di noi ha nella gestione della quotidianità a farsi comprendere dagli alunni, dai genitori, dai colleghi, fino ad arrivare alle proprie famiglie. Provando per un istante ad osservare quanto stava accadendo ho notato come la tendenza fosse sempre quella di “scaricare” sugli altri la responsabilità del nostro non essere capiti, tentando di giustificare ogni nostra azione, mettendo in atto le nostre strategie di sopravvivenza e i nostri copioni personali. La percezione che ne ho avuto e che ho messo in relazione con me stessa e con il mio di “copione personale” è stata quella di una inconsapevolezza di molti dei nostri atteggiamenti e dell’incapacità di leggere in questi il bisogno nascosto. Bisogno che è emerso nel corso di un’altra attività in cui le stesse docenti sono state invitate a “riconoscersi” in alcune frasi o modi di dire. Espressioni come “non mi capisce nessuno”, “perché sempre a me”, “una volta era diverso”, “tanto non serve a niente” ,“come mi sento non è importante” sono state le più gettonate tra le tante frasi che ho chiesto di scegliere su una lista a loro consegnata. È emerso ancora una volta una tendenza costante ad entrare in determinati ruoli, in particolare in quello della “vittima” designata senza considerare che ciò che accade intorno a noi altro non è che una ovvia reazione ai nostri comportamenti. La difficoltà è stata quella di spostarsi per un attimo dal proprio piano personale ed osservarsi mentre si sta nel gioco delle relazioni con gli altri, provando a cogliere quanto di nostro c’è in tale gioco e quanto invece può essere ricondotto al ruolo che ci siamo dati nella nostra esistenza.

Le attività su un uso consapevole della respirazione hanno lentamente condotto le partecipanti a spostarsi dal proprio piano cognitivo al proprio piano emotivo. Sono state invitate a osservare il proprio modo di respirare per prenderne sempre una maggiore consapevolezza. Andare alla radice del nostro sentire attraverso le differenti modalità di respirare (clavicolare, toracica, addominale) ci permette di cogliere anche le modalità con cui affrontiamo quotidianamente le situazioni. Respirare “di pancia” o respirare “di petto” possono in un certo senso essere messi in correlazione con il nostro modo di porci nei confronti di noi stessi e degli altri, facendoci notare i nostri atteggiamenti di apertura o chiusura, di rilassamento o tensione. Ho potuto notare una difficoltà, soprattutto iniziale, nel concentrarsi sul proprio respiro, ma, “costrette ad osservare” i propri processi di inspirazione ed espirazione le docenti hanno pian piano consentito a loro stesse di sentirne il portato benefico. Mi sono, successivamente, chiesta quanto rimanere in superficie nella nostra respirazione, senza sfruttarne a pieno le potenzialità costringa a rimanere sullo stesso piano anche le nostre emozioni, che vengono, in tal modo, compresse e bloccate, impedendone la naturale espressione. Quello che è emerso dalle condivisioni finali su tali tipo di attività è stato un profondo senso di benessere psicofisico che si è manifestato anche nel loro modo di comunicare a me le 53


sensazioni provate durante le esperienze, un modo di comunicare che aveva abbassato di parecchi decibel il volume della loro voce. Lo stesso effetto “benefico” lo hanno avuto le attività mirate sulla presa di consapevolezza della corporeità, attività che ha portato le partecipanti a concentrarsi, ora attraverso visualizzazioni guidate, ora attraverso dei veri e propri movimenti nello spazio, su ogni singola parte del loro corpo, provando a mettere a “tacere la mente” e soprattutto la bocca. La frase “ siamo peggio dei bambini” ha rotto l’iniziale imbarazzo nella realizzazione di tali attività dandomi conferma di quanto sia difficile mettersi in gioco attraverso il nostro corpo, di quanto i condizionamenti personali, familiari o sociali abbiamo influito sulla percezione che dello stesso noi ci siamo create.

Le attività di drammatizzazione e di imitazione di atteggiamenti e movenze osservati negli altri sono state un modo per tornare alla parte bambina di ognuno di loro. Un modo che durante le condivisioni le ha inaspettatamente portate a sentirsi molto vicine ai modi di fare dei loro alunni riflettendo su tutte quelle volte in cui, presi dal nostro ruolo di “insegnanti” ne ignoriamo le richieste e i bisogni. Proprio a partire da questa considerazione ha preso il via l’attività che ha chiuso il percorso. Un’attività che ha posto l’attenzione sulla nostra capacità di sentire le emozioni nostre e degli altri e di sentirle attraverso il cuore. Dopo un’iniziale condivisione su quale significato loro dessero al termine “gratitudine” le insegnanti sono state invitate a compilare una lista dei loro grazie, una lista che comprendesse anche le persone o le situazioni più scomode, provando proprio a trovare in queste il lato in luce. Alla fine le insegnati hanno condiviso tra di loro questi “grazie” facendo affiorare in superficie le loro emozioni e riuscendo ad esprimere le stesse, senza disagio o vergogna, a tutti gli altri. La difficoltà manifestatami da qualcuna di loro, quando le ho invitato a ringraziare se stesse, mi ha portato a riflettere sulla nostra incapacità di “abbandonarci” al piano del nostro sentire, su quanto ci sforziamo a chiudere gli occhi davanti alla bellezza che abbiamo dentro, su quanto continuiamo a nasconderla agli altri per la paura di soffrire o non esser capite. Se una delle qualità del counselor è quella di riuscire a sentire le emozioni dell’altro senza da queste farsi però trascinare o travolgere posso dire, alla fine di questo percorso, che ho sentito fortemente in me risuonare le emozioni delle mie colleghe, ma di esse mi sono nutrita considerandole un dono prezioso per la mia vita.

54


CONCLUSIONI

“Ogni cosa si rivela con l’esposizione alla luce, e tutto ciò che viene esposto alla luce diventa luce” San Paolo

55


E poi…? Giunta alla fine di questo lavoro è lecito chiedermi a che punto io sia arrivata del mio cammino di crescita, quanto è rimasto del mio dolore? quante ancora profonde sono le mie ferite? quanto a fondo sono andata nel mio passato? ho veramente messo in ordine? mi sono davvero presa la responsabilità di guardare la mia soffitta buia e con cura provare a pulire e spolverare ogni oggetto, ogni situazione, ogni cosa che si è presentata con forza sul piano del mio sentire? In realtà non ho una risposta e forse averne una sarebbe l’ennesimo atto di arroganza di una mente, la mia, spesso troppo ingombrante e saccente,. È stato un lungo cammino, un cammino in cui non sempre è stato facile guardarmi con autenticità. Non so se ho superato la mia paura dell’abbandono ma so di essere riuscita ad “abbandonarmi” in tante situazioni sia dentro la scuola di counselor sia fuori nella mia vita, perché come più volte affermato dal prof. Michel Hardy “la vita comincia fuori dal seminario” e la mia vita posso dire che è cominciata anzi ri-cominciata a partire dai seminari a cui ho partecipato. L’intensità con cui le emozioni di volta in volta si sono presentate ha prodotto molti cambiamenti in me. Cambiamenti che hanno contribuito a migliorare la quotidianità del mio lavoro, i rapporti con i miei alunni, le relazioni con le colleghe, gli scambi sempre più sinceri e autentici con tutto il personale della scuola. L’“autistica” così come qualche collega mi chiama, l’anestetizzata direi io, pian pianino è uscita dal suo bozzolo per incontrare l’altro. I miei tabù personali sono stati piano piano infranti attraverso un sentire sempre più forte della mia corporeità, una corporeità che mi ha condotto in luoghi e in sensazioni che mai avrei creduto poter affrontare. La forza che ho riconosciuto dentro di me è stata la forza che mi ha permesso di ritornare a trovare mio padre nel luogo dove è sepolto, di provare a dire i miei no con il mio partner, di sentire il dolore provato da mia madre, di sentire anche la mia rabbia nei suoi confronti. Una delle attività proposte ha fatto si che tale rabbia venisse fuori in maniera sconvolgente, creandomi inizialmente non pochi sensi di colpa. Non era possibile che quello stesse accadendo proprio a me, non era possibile provare tale sentimento nei confronti di chi avevo da sempre considerato un esempio da imitare. Il recupero del rapporto con mia madre, alla quale ho sempre cercato di nascondere il mio dolore per paura di ferirla è un recupero molto lento e di questo ne sono adesso consapevole. Non ho risolto ma ho, di certo, la capacità di guardare ciò che è senza darmi addosso. 56


Il seminario sulla responsabilità che alla fine prevede la capacità di diventare adulti è stato il seminario che più mi ha segnato, il seminario della svolta come dico sempre. Una svolta che è avvenuta con una grande sofferenza e riconoscendo in me inizialmente l’incapacità di abbandonarmi all’altro, di avere fiducia nell’altro, di cogliere la forza dell’amore dell’altro che mi accoglieva. Scoprire che in me c’era una visione distorta e pretenziosa del maschile e che di questo maschile ero continuamente in affannosa ricerca mi ha permesso di collegarmi a tale parte per riconoscerne la forza provando a integrarla nella mia pur fragile parte femminile. Nel seminario sull’identità di genere sono stata un uomo serioso, un giudice e questo mi ha messo in contatto con un altro dei miei meccanismi di difesa, un meccanismo che allontanando da se la propria responsabilità è pronto a puntare il dito verso gli altri, ma nel far questo non si accorge di quanto lo stesso sia fortemente puntato verso se stesso. Aver riconosciuto le mie strategie di sopravvivenza, il mio stato di “abbandonata” mi ha permesso di riportare in me i reali motivi del fallimento del mio matrimonio. Facendomi notare come l’essere ben immersa nel mio ruolo di “Yin alterata” mi avesse portato a scegliere un uomo che potesse sostituire la figura paterna. A causa di tale relazione mi sono allontanata dal mio nucleo familiare per affidarmi ciecamente a qualcun altro per non sentire il dolore che c’era e si respirava dentro casa. E in questa coppia alterata ho vissuto per tanti anni finché rimettendo in scena il mio copione…sono stata abbandonata. Rivedere tutti i fotogrammi della propria vita, attraverso questo scritto mi ha messo ancora una volta di fronte ai miei limiti, alle mie paure, ai miei ruoli. Ma è la consapevolezza e quello spazio del cuore che a fatica cerco di conquistare ogni giorno che possono farmi affermare di come stia iniziando a liberarmi dall’affanno del sentirmi abbandonata per dare spazio ad una resa incondizionata. So adesso che nessuno potrà prendere il posto di quel vuoto che mi sono portata dentro, nessuno potrà curare la ferita della “bambina triste” se non la mia capacità di andare alla ricerca della mia “bambina gioiosa”. E’ di questa parte che ho imparato a riappropriarmi, è di questo mio lato trascurato che ho iniziato ad avere cura. La mia “affinità al dolore” sta cedendo lentamente il passo alla carica gioiosa, leggera e creativa che avevo sepolto dentro di me. Ma c’è un ulteriore passaggio che mi sento di voler sottolineare, un passaggio che conduce verso una parte di cui sono alla scoperta, con un piccolo lumicino in mano che illumina, con l’entusiasmo del bambino e la consapevolezza dell’adulto è quella parte più spirituale nascosta in ognuno di noi, 57


che sento premere fortemente dentro di me e che ho scoperto con tutta la sua forza e la sua delicatezza nei giorni vissuti durante il seminario “Miracles”. È un sentire che mi conduce in altre direzioni, un sentire di cui ancora non riesco ad afferrare il significato profondo, ma un sentire in cui mi sento accolta, un sentire in cui finalmente posso “abbandonarmi”, arrendermi con gioia. «Quando il punto di riferimento del comune pensare si sposta dalla mente normale alla saggezza del cuore, molte persone sperimentano un periodo della vita piuttosto scomodo, che può disorientare: la vecchia via è lasciata perché ormai poco interessante, la nuova è ancora tutta da scoprire.[…] Molti interpretano questa fase di “nulla”, che qualcuno definisce scherzosamente il “Grande Boh!”, come un periodo smorto, una perdita di tempo, e attribuiscono un significato negativo a questa fase indefinita che si fatica a riconoscere come il desiderato cambiamento che tanto volevamo.[…]E pur tuttavia, in questa fase molti descrivono anche un’altra sensazione parallela a quelle scomode fin qui descritte: una strana inspiegabile sensazione di pace al di là dell’incertezza. I più attenti si rendono conto di quanto sia prezioso il tempo del Grande Boh!, in cui la forza silenziosa del cuore presto avrà come alleata una mente nuova, pronta a porle i suoi doni preziosi[…] Se si accetta dunque il transitorio smarrimento che può accompagnare questa fase, scopriremo che questo periodo è un’ottima occasione per ristrutturare il nostro modo di pensare, in modo che sia più vicino al nostro stesso essere spirituale[…]E’ un momento di riconnessione dell’anima e una frequenza che nel profondo profuma di grazia, di ritorno e comprensione, di consiglio e supporto perfetto, di sorriso al di là, di carezza dell’assoluto.»37

37

A.PIAZZA - M.COLOSIMO, La saggezza viene dal cuore, Tea, Milano, 2013.

58


GRATITUDINE «L’apice della gratitudine è cantare la vita, il dono a cui nessuno ha diritto e che si può ricevere solo gratuitamente. Ogni canto di gratitudine separa e unisce. Separa mantenendo la vicinanza e unisce mantenendo la distanza. Ricongiunge il passato al presente, guarisce le ferite e apre al compito. Fa rinascere la relazione e l’appartenenza. Dire grazie è riconoscere l’altro nella sua dignità e nel suo dono, per quello che si è ricevuto senza sentirsi inferiori, e per quello che non si è ricevuto senza risentimento.»38 Se c’è una cosa che ho imparato in questi tre anni è proprio la bellezza del senso di gratitudine. Un senso che accompagna ogni istante delle mie giornate e che nasce proprio da quello spazio del cuore che ho iniziato ad aprire. Ed è in questo spazio del cuore che accolgo e ringrazio tutti quelli che hanno vissuto accanto a me questo viaggio meraviglioso, ognuno con le sue differenze ha lasciato una parte di sé in questo mio spazio. Condividere le esperienze all’interno di un cerchio e condividerle per tre anni unisce su un piano profondo, sul piano del nostro sentire. Ed è dentro al cerchio che ho trovato la mia “sorella dell’anima”, Samanda e lei ringrazio per l’amore che insieme abbiamo trovato e provato. Un grazie a Michel Hardy che con la sua forza è riuscito a entrare dentro il sorriso finto della brava bambina per farlo esplodere con tutta la sua carica gioiosa, grazie per avermi fatto scoprire cosa c’era dietro il velo della mia “anestesia”. Grazie a Liliana Minutoli che mi ha “costretto” a entrare dentro questo percorso, grazie alla sua accoglienza, alle sue parole, grazie al suo grande cuore. Grazie a Donatella per il suo esserci sempre stata, con i suoi silenzi e con i suoi sguardi complici. Grazie a Paolo, Monica e Charles per tutto quello che nei loro incontri hanno saputo trasmettermi. Grazie al mio compagno che è ancora qui nonostante i miei giri di valzer e i miei copioni personali adottati con lui credendolo un altro. Grazie a un prete speciale che ho avuto l’onore di conoscere nell’ultimo anno della mia vita Grazie alle mie colleghe che si sono messe in gioco insieme a me 38

G.SALONIA, Sulla felicità e dintorni, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011.

59


Grazie a me stessa per essermi data il permesso di arrivare fino a qui. Il cammino continua e noi non smetteremo di camminare. Fu in quel dolore che a me venne l’amore!… Voce gentile piena d’armonia che mi sussurra: “Spera!” e dice: “Vivi ancora! Io son la vita! Ne’ miei occhi è il tuo cielo! Tu non sei sola! Le lacrime tue io le raccolgo!… Io sto sul tuo cammino e ti sorreggo il fianco affaticato e stanco!… Sorridi e spera ancora!… Son l’amore! Intorno è sangue e fango?… Io son divino!… Io sono il paradiso!… Io son l’oblio! Io sono il dio che sovra il mondo scende da l’empireo, muta gli umani in angioli, fa della terra il ciel!… Io son l’amore! la mamma morta da Andrea Chenier di Umberto Giordano

60


BIBLIOGRAFIA M.HARDY, La Grammatica dell’essere, vol.I (2008). La Grammatica dell’essere, vol.II (2008). La Grammatica dell’essere, vol.III (2008). La Grammatica dell’essere, vol.IV (2009). La Grammatica dell’essere, vol.V (2010). La Grammatica dell’essere, vol.VI (2010). BOWBLY J., La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino, 1975. GOLEMAN D., Lavorare con intelligenza emotiva BUR 2010. JODOROWSKY A., Il dito e la luna, Oscar Mondadori, Milano, 2009. KRISHNANANDA AMANA, Fiducia e sfiducia, Feltrinelli, Milano, 2013. LO IACONO - A..SONNINO R, Respirando le emozioni, Armando Editore Roma, 2008. LOWEN A., Bioenergetica, Feltrinelli Editore, Milano. Onorare il corpo, Xenia edizioni, Milano, 2011. MALHER M. - PINE F. - BERGMAN A., La nascita psicologica del bambino , Boringhieri. NATOLI S., L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano, 2010. MINUTOLI L., Tra luce e ombra, Edizioni Erickson, Trento, 2011. PIAZZA A. - COLOSIMO M., La saggezza viene dal cuore, Tea, Milano, 2013. SALONIA G., Sulla felicità e dintorni, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2011. TOLLE E., Il potere di adesso, Edizioni My Life, Coriano di Rimini, 2013.

Sitografia www.terapiatrigenerazionale.com/approccio%20trigenerazionale%20lutto.doc (18.06.2014) www.salus.it/psicologia-c41/psicologia-infantile-c109/la-scoperta-della-morte-e-il-lutto-nellinfanzia-1633. (20.06.2013)

61


Indice Introduzione ...................................................................................................................................................... 3 Capitolo I............................................................................................................................................................ 6 “Sola, perduta, abbandonata…” ........................................................................................................................ 6 1.1

Una definizione di abbandono .......................................................................................................... 7

1.2

L’abbandono e la psicanalisi .............................................................................................................. 7

1.3

L’abbandono in chiave empirica: debito e copione personale........................................................ 10

1.4 L’abbandono come perdita di una persona amata. Il lutto. .................................................................. 14 1.4

Il bambino interiore ......................................................................................................................... 16

1.6 Il dolore.................................................................................................................................................. 21 1.7 La rabbia ................................................................................................................................................ 26 1.8 L’abbandono del padre: la visione dell’approccio empirico ................................................................. 30 Capitolo II......................................................................................................................................................... 33 “Eppure sentire…”............................................................................................................................................ 33 2.1 Sensazioni, percezioni, emozioni. .......................................................................................................... 34 2.2 Il corpo, il respiro. ................................................................................................................................. 37 Capitolo III........................................................................................................................................................ 40 Lasciare andare… ............................................................................................................................................. 40 3.1 Lo spazio del cuore ................................................................................................................................ 41 La strada fangosa ............................................................................................................................................ 41 3.2 Dal sentire all’ascoltare: il counselor ..................................................................................................... 45 3.3 Sentire…Ascoltare…Comunicare…Sperimentare................................................................................... 49 3.4 Schema di Progetto .............................................................................................................................. 50 3.5 Attività e riflessioni ................................................................................................................................ 52 CONCLUSIONI .................................................................................................................................................. 55 E poi…? ............................................................................................................................................................ 56 GRATITUDINE................................................................................................................................................... 59 BIBLIOGRAFIA .................................................................................................................................................. 61 Indice ............................................................................................................................................................... 62

62


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.