Poltronissima V edizione

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La porta stretta e l'inquietudine del Dio ignoto di Giovanni Cogliandro

Padre Ferdinando Castelli, da vero maestro, legge in controluce

grandi pagine della letteratura internazioanale: Heinrich von Kleist, Hans Christian Andersen, Nikolaj Gogol', Charles Baudelaire,

Anton Cechov, Sigrid Undset, Katherine Mansfield, Corrado Alvaro, Clive Staples Lewis, Evelyn Waugh e Luigi Cantucci.

<< Se ci fosse un Dio, visiterebbe, credo, la mia solitudine, mi parlerebbe familiarmente nel mezzo della notte>> (P. Valere)

L'uomo tormentato da domande radicali - Chi sono? Ha un senso la

vita? Dov'è Dio? - invoca la risposta, attende una visita,chiede un po' di luce.

<<Nell'incontro con undici noti scrittori Padre Castelli domanda loro che cosa pensano della vita, dunque una risposta alle doman-

de radicali. Non tutti offriranno risposte convincenti, ma tutti ci diranno che forzare le porte del mistero per essere illuminati sul senso della vita non è opera da folli ma da pellegrini saggi e coraggiosi>>

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adre Castelli è da diversi decenni uno dei critici letterari di maggiore finezza e profondità nel panorama italiano: citiamo solo alcuni dei suoi volumi recenti: «Risvegliò il mondo» San Francesco nella letteratura del Novecento (EMP 2006); Nel grembo dell'ignoto. La letteratura moderna come ricerca dell'assoluto (San Paolo Edizioni 2006 2. ed.); i tre volumi dei Volti di Gesù nella letteratura moderna (San Paolo Edizioni 1990-5). Senza vezzi o compiacimento mette in opera in questo libro un interrogare intenso ed esigente, in cui traspaiono frammenti di vita di alcuni scrittori che vissero tra otto e novecento: alcuni sono ben noti al pubblico italiano, altri saranno forse delle felici scoperte. La caratteristica che più li accomuna è il sentimento di essere simili a profeti, li definirebbe Maimonide guide dei perplessi, guide che come Mosè hanno intravisto la terra promessa, ma non hanno potuto o voluto varcare il confine della fede. Questi frammenti di esistenza sono quasi degli esercizi di ammirazione (direbbe Cioran): ammirazione per la consequenzialità di chi ha voluto narrare non solo un proprio vissuto interiore, ma mettere a nudo le proprie radicali contraddizioni, la propria luce o le proprie tenebre. Eccoci quindi a scoprire cose nuove e cose antiche tra questi undici scrittori che padre Castelli ci lascia rimirare. Lo scrittore di fiabe Andersen è un servo sofferente ma fedele, privato dell'amore dalle coincidenze che gli permisero di divenire, lui poverissimo, il cantore del sentimento popolare non solo danese ma occidentale. Kierkegaard non fa certo una bella figura quando apprendiamo dalle sue carte che gli rimproverava l'assenza di una filosofia, ma si sa che i filosofi a volte sono tardi alla comprensione. Von Kleist è un suicida che fa paura, come fa paura l'abbagliante gioia che nella morte si è illuso di provare: la sua immortalità vive tra gli uomini nei suoi personaggi che per la troppa coerenza si dannano, epigoni mitologici delle dottrine luterane o del paganesimo più disperato. Gogol' ci si mostra sotto le sue molteplici sfaccettature di scrittore, ispirato non solo dalla sua attitudine di soggetto sensibile, ma chiamato a conformarsi alla voce dello Spirito che lo spinge a scrivere le sue “Anime Morte” quali

parallelo al progetto dantesco, e a lasciarle incompiute. A quanto con maestria ci illustra Castelli si potrebbero aggiungere due singolari parallelismi: il primo con Sergej Bulgakov, che non appena decise di riconciliarsi con la chiesa ortodossa e di diventare teologo fu escluso dagli intellettuali autoproclamatisi progressisti. Gogol' ha poi qualcosa in comune con Florenskij, l'altro grande filosofoteologo della russa età d'argento: entrambi scelsero la forma epistolare per parlare della loro rinnovata assimilazione a Cristo nella Sua chiesa, Gogol' nei Passi Scelti, Florenkij ne La Colonna e il Fondamento della verità (che purtroppo ancora non si riesce a far ristampare in Italia, magari in edizione migliorata). Siamo quindi condotti all'incontro con Baudelaire, vittima di quello che Castelli definisce un errore di angelismo: “per lui il santo è solamente e sempre un angelo, non anche un peccatore che resiste al male, e lo vince. A suo parere, o si è santi, o si è satanici” (p 82). La sua esperienza di dandy è la declinazione a lui contemporanea di quella terribile emulazione delle potenze dell'aria che affascinò Milton, Carducci, Hugo, Huysmans. Questi scrittori nelle esperienze tenebrose che scelsero vollero emulare il principe dei superbi, il patrono degli arroganti: l'atteggiamento di Baudelaire è però sempre sofferente, non come D'Annunzio che era “soddisfatto nella sua grascia” (p 76): era invece tremendamente cosciente che la sua scelta lo portava sin d'ora alla dannazione, che egli canta come quasi nessuno fece, come decomposizione, orrore, ribrezzo per una natura che pretende di elevarsi al rango del soprannaturale, e per questa superbia finisce come la prefigurazione di Apollo e Marsia, scarnificata, resa mostruosa, satanica e preternaturale. La donna malefica che il poeta francese evoca è l'opposto e il contrappasso della donna angelicata: come quella spinge ad avanzare verso Dio, così la donna solo naturale tira in basso verso gli inferi. Come più volte affermava Reginald GarrigouLagrange (ormai anch'egli troppo poco citato) nella dinamica della vita interiore verso le cose divine o si avanza o si arretra, non si può mai fermarsi. L'abisso chiamò l'abisso in Baudelaire, poeta cristianamente ispirato con il terrificante realismo di chi ha scelto il lato oscuro. 93


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