Alice Fantastic - Maggie Estep

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Maggie Estep ALICE FANTASTIC

traduzione di claudia antonucci e giordano bruno raggi

Casini Editore


Titolo originale dell’opera: Alice Fantastic. Copyright © 2009 by Maggie Estep. This edition has been published in agreement with Akashic Books trough Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency. www.akashicbooks.com © 2010 Valter Casini Edizioni www.casinieditore.com ISBN: 978-88-7905-175-0



Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore oppure sono stati rielaborati attraverso la fantasia. Qualsiasi analogia con persone vere, vive o morte, eventi o località è del tutto casuale.


1. ALICE

Erano diciassette settimane che cercavo di liberarmi del grande tonto, ma lui continuava semplicemente a tornare. Sentivo suonare il campanello, guardavo fuori dalla finestra e lo trovavo davanti alla porta con l’aria da cane bastonato. Non so cosa avrei potuto farmene di un altro cane bastonato visto che avevo già preso la bastardina bianca con delle chiazze marroni che mio cugino Jeremy aveva trovato abbandonata in un parcheggio per camion nel Kentucky. Non potendola tenere, il cugino Jeremy mi aveva chiamato e in qualche modo mi aveva convinto a dare una casa alla bestiolina. Dopo averla portata dal veterinario per l’antirabbica e la sterilizzazione, Jeremy le aveva trovato un passaggio grazie a uno dei suoi amici strambi che faceva regolarmente il viaggio dal Kentucky al Queens per trasportare sigarette da due soldi. Una notte l’amico di Jeremy aveva fermato il furgone davanti al mio palazzo, appena prima di mezzanotte, e la cucciola era saltata fuori ed era rimasta a fissarmi, con addosso la puzza di sigarette e l’aria da cane bastonato. Non che pensassi che quel tipo strambo l’avesse bastonata davvero. Il punto è che avevo già un cane bastonato. A cosa mi sarebbe servito un uomo con lo stesso aspetto?


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Non ne avevo bisogno. Ma ogni volta che suonava il campanello lo facevo entrare e anche se avessi avuto addosso l’accappatoio sporco del mio defunto padre e non mi fossi fatta la doccia per cinque giorni, mi avrebbe detto «Sei fantastica, Alice». Sapevo che diceva sul serio, che vedeva qualcosa di meraviglioso nei miei capelli castani spettinati, nella mia faccia gonfia e nei foruncoli che mi erano spuntati all’improvviso all’età di trentasei anni. Era tutto così imbarazzante. I foruncoli, il fatto che lasciassi che un grande tonto entrasse in casa e strofinasse il naso sulla mia carne non lavata, il cagnolino che si sedeva sul bordo del letto e mi guardava mentre ci davo dentro con Clayton, il grande tonto. La mia vita era un disastro. Quindi avevo promesso a me stessa di farla finita con Clayton. Me l’ero promesso alle sette di mattina di un martedì in cui mi ero svegliata con un insolito senso di chiarezza. Avevo aperto gli occhi e avevo visto la sottile luce del sole invernale che attraversava le finestre della casa che il mio defunto padre mi aveva lasciato. Candy, la cagnolina del parcheggio per i camion, era seduta sul bordo del letto e aspettava educatamente che mi svegliassi perché la cosa migliore dei randagi è che sono così grati di essere stati accolti che si adattano a qualsiasi abitudine o bisogno dei loro padroni. Quindi, Candy era sul bordo del letto e il sole entrava dalle finestre della casa del mio padre defunto sulla 47th Road nei sobborghi del Queens, New York. E mi sentivo lucida. Chissà perché. Mi sentivo lucida e basta. E sentivo che dovevo rimettermi in sesto. Farmi la doccia più spesso. Smettere di fumare così tanto. Riprendere le lezioni di yoga e di kick boxing. Evitare di consumare in un lampo i modesti guadagni che facevo come modesta giocatrice d’azzardo. Dare una scossa alla mia vita. E per farlo avrei dovuto per prima cosa liberarmi del tonto, Clayton. In ogni caso, chi ha mai sentito parlare di un tipo che si chiama Clayton che non abbia almeno novantasette anni?


Alice

Entrai nella doccia e mi strofinai per bene lavando anche i miei folti capelli unti. Mi misi dei vestiti puliti presi dall’armadio invece di pescare a caso qualcosa dal cesto come avevo fatto nelle ultime settimane. Indossai un paio di jeans neri e un maglione verde. Mi guardai allo specchio. I capelli quasi asciutti erano a posto e anche il gonfiore del viso era attenuato. Perfino i foruncoli erano meno appariscenti. Avevo un aspetto vagamente vivo. Presi il cappotto dal gancio, misi il guinzaglio a Candy e uscii per portarla a camminare lungo l’East River, a due passi dai condomini che si affacciano su Manhattan. Il mio defunto padre adorava la città di Long Island. Si era trasferito lì negli anni Settanta, quando la zona era quasi interamente industriale, per vivere con qualche puttana ubriacona, subito dopo che mia madre lo aveva lasciato per mettersi con il musicista rock che sarebbe diventato il padre della mia sorellastra. Mio padre era rimasto nel quartiere molto tempo dopo che la puttana lo aveva mollato — tutte le donne mollavano di continuo mio padre — e alla fine aveva comprato una casetta di legno a due piani che decise di lasciare a me, la sua unica figlia, quando il cancro lo uccise l’anno scorso, a cinquantanove anni. Mi piace Long Island. È tranquilla e ci sono tanti posti in cui comprare dei tacos. — Sei proprio bella, mammina — mi disse un tipo mentre passavo con Candy davanti al distributore di benzina. Gli lanciai un’occhiataccia. Mentre Candy annusava in giro, faceva i suoi bisogni e cercava di mangiare un po’ di spazzatura, io fumavo qualche Marlboro e guardavo Manhattan. Era bella da quella distanza. L’aria era così fredda da sembrare quasi pulita e iniziai a pensare a come liberarmi di Clayton. Ci avevo provato così tante volte. Lo avevo convinto a non chiamarmi più. Ma ogni volta tornava a suonare il campanello nel giro di due giorni. Allora lo avrei fatto entrare. Mi avrebbe guardata con quei grandi occhi


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marroni e mi avrebbe detto quanto ero bella: «Alice, sei fantastica». Lo aveva ripetuto così tante volte che ero arrivata a pensare a me stessa come a Fantastica Alice, anche se non ci sarebbe stato niente di fantastico nella mia vita finché non mi fossi liberata di Clayton. Avrei iniziato con il ritornello che ripetevo da diciassette settimane: «La nostra relazione non funziona più, Clayton». Lui avrebbe assunto un’espressione ferita e le sue spalle sarebbero crollate al punto che avrei dovuto toccarlo e una volta che lo avessi toccato saremmo corsi a letto e il sesso sarebbe stato piuttosto bello, bello quanto può esserlo con una persona da cui si è attratti fisicamente nonostante il fatto, o forse proprio grazie al fatto, che non c’è nient’altro in comune e, siccome il sesso sarebbe stato bello, avrei considerato l’idea di vedere Clayton in modo più o meno regolare e immagino che fosse questo lo sbaglio che avevo sempre fatto. Avrebbe visto quell’idea nei miei occhi e ci si sarebbe aggrappato e avrebbe provato dei sentimenti e quei sentimenti lo avrebbero reso un amante prodigioso al punto da farmi restare così colpita dal sesso che avrei stupidamente risposto “Sì” quando mi avrebbe chiesto di passare la notte con me e avrei stupidamente risposto “Sì” la mattina dopo, quando avrebbe chiesto di potermi chiamare. Ma il troppo è troppo. Non volevo che Clayton si convincesse che saremmo diventati una coppia fissa e che saremmo invecchiati insieme in un parcheggio per camper in Florida. Al momento Clayton vive in un parcheggio. Nel suo furgone. L’ho scoperto quando, quella prima notte, dopo che lo avevo incontrato al taco bar e avevo passeggiato con lui lungo il fiume, godendomi la sua semplicità e la sua lunga e lenta andatura, lo avevo portato a casa e gli ero saltata addosso nell’ingresso chiedendogli di scoparmi da dietro in cucina per poi condurlo in camera da letto dove per un po’ ce n’eravamo stati tranquilli finché, quando era di nuovo duro, indossando un paio di calze


Alice

gli avevo chiesto di strapparmele; dopo tutto ciò, quando stavo pensando a un modo educato per chiedergli di andarsene, si era appoggiato su un gomito e mi aveva detto quanto gli piacessi. — Mi piaci davvero, voglio dire, mi piaci davvero — mentre mi guardava con quegli occhi grandi come lune e, anche se desideravo solo leggere un libro e mettermi a dormire, non avevo avuto il coraggio di buttarlo fuori di casa. Aveva piagnucolato tutta la notte, raccontandomi le sue disgrazie. Sua madre aveva l’Alzheimer e suo padre era in prigione per contraffazione. La moglie lo aveva lasciato per un idraulico, aveva perso il lavoro al negozio in cui fabbricava gabinetti e viveva in un parcheggio e si faceva la doccia nel blocco Y. — Devo lasciare il Queens, in fretta — aveva detto. — Per andare dove? — In Florida. Non mi piace il freddo. Mi entra nelle ossa. — Sì. La Florida — avevo detto. C’ero stata. Agli ippodromi di Gulfstream Park, Calder Race e Tampa Bay Downs. Però non glielo avevo detto. Avevo detto solo “Sì, la Florida”, come se non fossi stata contraria alla Florida, come se volessi fargli pensare che la Florida potesse piacermi, cosa che lo avrebbe probabilmente portato a pensare che fossi disposta a trasferirmi con lui. Forse volevo solo essere gentile. — Un semplice camper andrebbe bene. Mi piacciono i camper — aveva detto Clayton. — Già — avevo detto. Poi avevo fatto finta di addormentarmi. Era successo diciassette settimane prima. E ancora non mi liberavo di lui. Camminai con Candy per quasi un’ora prima di dirigermi verso casa. Passai di nuovo davanti al distributore di benzina dove l’idiota sentì il bisogno di ripetere «Sei proprio bella, mammina». Mi fermai, lo fissai, e cercai le parole per spiegargli quanto fosse disgustoso farsi chiamare “mammina” perché sentendolo mi immaginavo quel tipo che faceva sesso con sua madre, in-


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dubbiamente una vecchia con un’infinità di rotoli di grasso e con le ragnatele fra le gambe. Ma non trovavo le parole e siccome quel tipo stava iniziando a sorridere, probabilmente convinto di avermi colpita, ripresi a camminare. Tornata a casa diedi a Candy gli avanzi della cena della sera prima e mi misi seduta al tavolo della cucina davanti al computer, al “Daily Racing Form” e al mio blocco per gli appunti. Iniziai a lavorare sulle corse del giorno successivo all’ippodromo di Aqueduct. Per quanti cambiamenti volessi fare nella mia vita, avevo comunque bisogno di lavorare. Non c’erano grandi eventi, anche per gli standard di un mercoledì di febbraio, quindi non avrei puntato grosse somme. Avrei comunque osservato. Preso appunti. Ascoltato. Mi sarei goduta il mio lavoro. Lo faccio sempre. Non importa quanti colpi di sfortuna devo sopportare, non importa quante volte il buon senso mi ha detto di cercare un impiego più stabile e una vita priva di aritmie causate dalla tensione. Sono una giocatrice d’azzardo. Dopo parecchie ore cominciai a sentire un po’ di fame e guardai nel frigorifero. Della lattuga agonizzante, un po’ di succo d’arancia e un uovo. Pensai di bollire l’uovo, visto che ci sono dei giorni in cui niente mi rende più felice di un uovo bollito, ma decisi che quello non era uno di quei giorni. Sarei andata al taco bar. Misi il guinzaglio a Candy, indossai il cappotto ed ero quasi alla porta quando squillò il telefono. Risposi. — Ciao, Alice. — Era la voce bassa di Clayton. Mi scappò un gemito. — Tutto a posto? Ti senti male? — Più o meno. — Che significa? Cos’hai? Arrivo subito. — No, Clayton, non venire. Sto male solo perché non accetti un no come risposta. — No, riguardo a cosa? — Riguardo al continuare così.


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Ci fu un silenzio di tomba. — Dove sei? — chiesi. — Nel parcheggio. — Ah — dissi. — Clayton, so che pensi di essere un tipo a posto ma non è bello che continui a farti vedere nonostante ti abbia chiesto ripetutamente di non farlo. Mi sento perseguitata. Di nuovo il silenzio. — Ho bisogno di vivere tranquilla. Silenzio. Poi, dopo qualche minuto: — Non ti piace più come ti tocco? — Nella vita ci sono anche altre cose. — Uh? — disse Clayton. — Non ne avevo idea, visto che tutto quello che mi permetti di fare è venire a casa tua e scoparti. Clayton non aveva mai usato la parola “scopare”. Era cresciuto in un qualche tipo di ambiente religioso. — La mia vita è vuota, Clayton, vado all’ippodromo. Scommetto, prendo appunti e fumo una sigaretta dopo l’altra per non vomitare dalla paura. Parlo con qualche altro giocatore. Torno a casa e preparo la cena o vado a comprare qualche taco. Porto il cane a passeggio. Tutto qui. Non c’è niente nella mia vita, Clayton, niente da vedere. — Allora fammi venire con te. — Venire dove? — All’ippodromo. — Ti sto chiedendo di non chiamarmi mai più e di uscire dalla mia vita. Perché dovrei portarti all’ippodromo? — Voglio solo vedere una piccola parte della tua vita. Me lo merito. Consideralo un po’ come se mi stessi passando gli alimenti. Non vedevo perché avrei dovuto fare qualcosa per lui. Comunque accettai. Almeno lo convinsi a riattaccare il telefono. Andai con Candy al taco bar. Tornai a casa e mangiai la mia cena, dandone metà al cane.


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••• Avevo detto a Clayton di incontrarci la mattina successiva alle undici per poi prendere la metropolitana. Si era offerto di accompagnarmi ma avevo paura che quel suo mostruoso furgone potesse cadere a pezzi a metà strada. Suonò il campanello e scesi le scale trovandolo con uno sguardo colmo di speranza. Come se vederci alla luce del giorno implicasse il matrimonio e l’imminente arrivo di un bambino. Non che gli avessi mai chiesto qualcosa di simile ma lui era quel genere d’uomo, il genere che sembro attirare fin troppo spesso, il genere che vuole sistemarsi e mettere su famiglia. A quanto si dice, ci sono milioni di donne alla ricerca di uomini così, quindi non capisco perché vengano tutti a bussare alla mia porta. Immagino sia come una sfida. Questo li rende uomini. — Ciao Alice — disse sorridendo, — sei fantastica. — Grazie — dissi. In effetti, mi ero sistemata. Avevo una gonna nera stretta lunga fino al ginocchio e un morbido maglione nero che lasciava le spalle scoperte — se avessi tolto il cappotto, cosa che non avevo intenzione di fare perché se Clayton avesse visto un solo centimetro di pelle avrebbe cominciato a farsi delle idee. — Lo faccio solo perché me lo hai chiesto — dissi mentre camminavamo verso la linea G, — ma devi capire che questo è il mio lavoro e non puoi interferire o farmi troppe domande. Guardavo dritta davanti a me per non vedere nessun segno di dolore nei suoi occhi, perché quello era uno dei suoi trucchi, lo sguardo ferito, lo sguardo da cane bastonato che cominciava veramente a stancarmi. — Certo — disse Clayton. Entrammo nella stazione e, mentre aspettavamo un’eternità come sempre succede con la linea G, Clayton restò a fissarmi, così intensamente che ero sicura mi avrebbe trasformato in pietra.


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Alla fine arrivò il treno che ci portò alla stazione di Hoyt– Schemerhorn a Brooklyn dove prendemmo la linea A, decisamente più efficiente. L’idea di andare all’Aqueduct mi sollevava il morale. Ci sono ben poche persone a cui piace l’Aqueduct e io sono una di quelle. Il Belmont è bello e spazioso mentre il Saratoga è imponente se si riesce a sopportare la folla, ma io adoro l’Aqueduct. All’Aqueduct puoi incontrare allenatori in rovina abbandonati sugli spalti, degenerati, ubriachi che si scambiano consigli e qualche giocatore professionista pieno di esperienza che si occupa stoicamente dei propri affari. Il mio posto ideale. Dopo trenta minuti, il treno arrivò alla fermata Aqueduct. Scendemmo. C’eravamo io, Clayton, un paio di bianchi di mezza età, dei tipi con i rasta leggermente più giovani e un elegante uomo sulla cinquantina proprietario di qualche cavallo o che fingeva di esserlo. — Oh, che bel posto — mentì Clayton mentre uscivamo dal tunnel sotto i binari. La struttura appariva come il set di un film di zombie degli anni Settanta, con i colori sbiaditi e sfumati, l’onnipresente grigio newyorkese e gli aeroplani diretti al JFK che volavano così bassi che sembrava quasi che stessero per atterrare su di un cavallo. — Andiamo al ristorante a mangiare qualche omelette — dissi a Clayton quando fummo dentro. — Il caffè fa schifo ma le omelette sono buone. — Va bene — disse Clayton. Prendemmo le scale mobili fino alla cima e, arrivati alla grande porta in vetro dell’Equestris, Manny, il maître, mi salutò e ci diede un tavolo con vista sulla linea d’arrivo. Poi Clayton iniziò con le domande. Non era mai stato un tipo da troppe domande, né, in effetti, un tipo loquace, ma all’improvviso voleva sapere la storia dell’Aqueduct, e la mia storia con l’Aqueduct, e cos’altro avessi mai fatto per guadagnarmi


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da vivere e cosa pensasse la mia famiglia del fatto che fossi una giocatrice professionista, eccetera eccetera… — Te l’ho detto, devo lavorare. Basta con gli interrogatori. Ecco il modulo delle corse — dissi dandogli la copia in più che avevo stampato, — studialo e lasciami in pace. Il poveraccio fissò il modulo ma ovviamente non aveva idea di come si leggesse. A volte dimentico che non tutti sanno queste cose. A me sembra di aver sempre saputo cosa implicasse andare all’ippodromo, da quando mi ci portava mio cugino Jeremy, che all’epoca viveva ancora nel Queens e si occupava di me quando mio padre era fuori città per qualche lavoro edile. Ho iniziato a scommettere a nove anni e mi sono dimostrata ragionevolmente scaltra nel gestire i soldi e nel valutare i rischi, sin dall’inizio. Quel primo giorno avevo accumulato un buon profitto, con Jeremy che piazzava le scommesse per me e nonostante le serie sfortunate che ho subito da allora, i periodi vertiginosamente alti continuano a compensare i periodi negativi. Ho tirato avanti. Per qualche tempo ho avuto un lavoro come supplente di liceo dopo essermi diplomata all’Hunter College, ma era incredibilmente noioso. Così avevo ripreso a giocare d’azzardo. Pochi resistono più di qualche anno ma io ero riuscita a farne un lavoro con cui guadagnarmi da vivere. Principalmente perché l’idea di fare qualsiasi altra cosa è insopportabile. Mi sentirei una semplice cittadina. Un ingranaggio. Una pecora. Clayton mi stava facendo pena e stavo per spiegargli come leggere il modulo quando Arthur arrivò e si sedette al tavolo con noi. — Vedi quel pezzo di merda di Pletcher nella quinta gara? — chiese Arthur. Arthur, che pesava cinquantacinque chili o poco più, non era un tipo a cui piaceva scherzare. Non gli interessava che gli presentassi Clayton e probabilmente non si era neanche accorto che fossi con qualcuno. Voleva solo la conferma che il


Alice

puledro allevato da Todd Pletcher e che partecipava alla quinta corsa fosse un pezzo di merda nonostante fosse costato quasi due milioni e mezzo di dollari all’asta di Keeneland. — Sì — risposi, annuendo con gravità. — Lo danno 1 a 9. — È un pidocchio — disse Arthur. — Già. Be’, non lo scarterei con un Pick 6. — Io voglio scartarlo. — Va bene — dissi. — Non ha mai affrontato avversari seri e non ha mai fatto due giri. E c’è quel bel cavallo di Nick che è favorito. — Giusto — dissi. — Voglio puntare sul cavallo di Nick. Solo su quello. — Io non scarterei il cavallo di Pletcher. — Fanculo il cavallo di Pletcher — disse Arthur alzandosi e precipitandosi dall’altra parte del locale dove lo vidi sedersi con dei tipi del “Daily Racing Form”. — Amico tuo? — chiese Clayton. Feci di sì con la testa. — Arthur. È un tipo a posto. — Davvero? — Certo. Di sicuro Clayton voleva arrivare a qualcosa. Voleva chiedermi perché pensassi che un piccoletto che si era appena seduto al nostro tavolo e aveva iniziato a insultare dei cavalli fosse un tipo a posto. Un altro motivo per liberarsi di Clayton. Uno dei camerieri arrivò al tavolo e prese l’ordine. Visto che avevo pianificato la maggior parte delle scommesse, mi presi dieci minuti per fare a Clayton un corso introduttivo su come leggere le precedenti prestazioni dei cavalli. Mi stavo sporgendo verso di lui indicando con un dito la riga delle corse, quando Clayton mi baciò l’orecchio. — Ti amo, Alice. — Dio mio, Clayton — dissi. — Che cazzo ti è preso? Clayton sembrava un cane bastonato.


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— Ti ho portato qui perché pensavo che fosse un bel modo di passare il nostro ultimo giorno insieme ma, cazzo, perché devi diventare ridicolo? — gli chiesi. — Non voglio che finisca. Sei tutto quello che ho. — Non sono tua. — Che significa? — Clayton, non c’è futuro. No mas — dissi. — No cosa? — No mas — ripetei. — Basta. In spagnolo. — Sei spagnola? — No, Clayton, non sono spagnola. Merda, mi lasci lavorare? — Tutto bene qui? Alzai lo sguardo e vidi Vito che incombeva sul tavolo. Vito era un tipo tarchiato e pieno di peli, una specie di mafioso di basso rango o aspirante mafioso proprietario di qualche cavallo da due soldi. Si vantava di essere un giocatore fortunato ma io ero sicura che fosse solo uno dei tanti che andavano spiattellando in giro bugie sui loro profitti. — È tutto a posto — risposi, aggrottando le sopracciglia. Per quanto Clayton mi stesse infastidendo, non erano affari di Vito. Il problema con i tipi come Vito è che, essendo io una bella donna sotto gli ottanta anni, una vera rarità all’Aqueduct, tendono a diventare protettivi nei miei confronti. Avrei anche potuto apprezzarlo, se Vito non fosse stato così viscido. Vito aggrottò il monociglio. Sudava copiosamente anche se nel ristorante l’aria era fresca. — Sono Vito — disse con aria aggressiva mentre tendeva la mano a Clayton, — e lei è? — Clayton — rispose quello che a breve sarebbe stato il mio ex amante stringendo la mano unta di Vito. — Qui ci prendiamo tutti cura di Alice — disse Vito. “Vaffanculo, Vito” pensai senza però dirlo. Un giorno avrei potuto avere bisogno di Vito per qualcosa.


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— Oh — disse Clayton, confuso, — bene. Anche io mi prendo cura di lei. Vito strinse gli occhi già piccoli, spostò lo sguardo da me a Clayton e di nuovo a me, poi si voltò e se ne andò. — Ci vediamo, Vito — dissi mentre usciva dal ristorante, probabilmente diretto al paddock per esprimere le sue opinioni sui concorrenti della prima corsa. Poi iniziarono le corse. Feci un po’ di soldi grazie a una cavalla arrivata dal Philadelphia Park. Era stata allevata da una donna sconosciuta, era cavalcata da uno sconosciuto fantino alle prime armi e aveva corso solo al Philadelphia Park quindi, nonostante una buona serie di prestazioni passate, era per lo più ignorata e data 14 a 1. Avevo puntato duecento dollari su di lei in una Exacta e l’avevo messa davanti a tutti i cavalli che erano meglio quotati. Me la cavai abbastanza bene, cosa che alleviò l’irritazione causata da Clayton, diventata così intensa da farmi passare la voglia di mangiare l’omelette e farmi considerare l’idea di chiedere a Vito di toglierlo di mezzo. Non “togliere di mezzo” nel senso di togliere di mezzo. Non lo volevo morto o ferito, solo spaventato. Per farlo, però, sarei stata costretta a chiedere un favore a Vito e non volevo stabilire un rapporto di quel genere con un tipo come quello. Iniziò la quinta corsa e la osservai con interesse per vedere come se la cavava il puledro che piaceva tanto ad Arthur. Come avevo immaginato il puledro allevato da Todd Pletcher, che Arthur odiava e che a inizio corsa veniva dato 1 a 9, scattò dal cancello sei e si piazzò a poca distanza dal cavallo alla testa del gruppo. Gang of Seven, il cavallo che piaceva ad Arthur, era in fondo al gruppo e si prendeva il suo tempo. A un quarto di miglio dalla fine, Gang of Seven iniziò a rimontare e superò tutti gli avversari fino a ritrovarsi in pari con il cavallo di Pletcher. Gang of Seven e il pupillo di Pletcher duellarono sul filo del rasoio e sembrarono tagliare insieme il traguardo.


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— Troppo vicini per dichiarare il vincitore — esclamò lo speaker. Alcuni minuti dopo sugli schermi apparve la foto in cui si vedeva il cavallo di Pletcher battere il favorito di Big Arthur per un pelo. — Sono un idiota! — Sentii Arthur che urlava a qualche tavolo di distanza. Poi lo vidi alzarsi e uscire dal ristorante infuriato, probabilmente per andare sul terrazzo a fumare una sigaretta dietro l’altra e chiamare una ventina dei suoi amici giocatori e annunciargli la propria idiozia. — Quello ha qualche problema — disse Clayton. — No, ti sbagli. — Anche se era vero che Arthur aveva qualche problema a controllare la rabbia, in fondo era una brava persona. Mi alzai e me ne andai, lasciando Clayton a fissarmi con quei suoi occhi grandi come piatti da portata. Scesi verso il paddock, sperando che Clayton non mi seguisse. Trovai Vito con lo sguardo fisso fuori della finestra e con l’enorme pancia premuta contro la vetrata. Mentre cercavo un posto più lontano possibile da Vito, mi voltai per assicurarmi che Clayton non mi avesse seguita. Mi aveva seguita. Lo vidi vagare vicino agli sportelli delle scommesse mentre scrutava a destra e a sinistra. Mi avrebbe trovata da un momento all’altro. Non mi sarei mai liberata di lui. Sarebbero passate altre diciassette settimane. Dovevo fargli arrivare un messaggio chiaro. Così feci qualcosa di un po’ folle. — Vito — dissi avvicinandomi a lui. — Uh? — Si voltò. — Un favore? — chiesi. I suoi occhietti neri brillarono. — Qualsiasi cosa, piccola. Mi stavo già pentendo.


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— Puoi spaventare quel tipo con cui ero seduta? Solo renderlo nervoso? Farlo andare via? Vito spalancò gli occhi, come se qualcuno gli avesse messo un grosso pezzo di carne sanguinante davanti al viso. — Dici sul serio? — Si avvicinò. Esitai per un attimo. Poi ripensai alla dichiarazione d’amore di Clayton. — Sì — risposi. — Certo. Dov’è? Mi guardai alle spalle ma non lo trovai. — È qui da qualche parte. Diamo un’occhiata. Vito s’incamminò di fianco a me. Cercammo intorno agli sportelli delle scommesse al piano terra ma non c’era traccia di Clayton. Poi guardai fuori dalla finestra e lo vidi in piedi vicino a una panchina vuota, la schiena curva e l’aria infreddolita e spaesata sotto il cielo grigio. — Laggiù. — Me ne occupo io — disse Vito. Senza aggiungere altro, Vito marciò verso l’esterno. Lo vidi avvicinarsi a Clayton. Vidi Clayton piegare la testa a destra e a sinistra come avrebbe fatto un cane confuso. Pensai a Candy. Più tardi nel pomeriggio sarei andata a casa e forse, grazie a Vito, non mi sarei dovuta preoccupare della possibilità che arrivasse il grande tonto con le sue dichiarazioni insensate. Io e Candy avremmo avuto un po’ di tranquillità. Vito e Clayton erano rientrati e stavano camminando uno a fianco all’altro. Passarono non troppo lontani da me. Dove stavano andando? Pensavo che a Vito sarebbero bastate poche parole scelte con cura, e fine della storia. Ma sembrava che stesse portando Clayton da qualche parte. Li seguii da lontano. Scesero le scale mobili e uscirono dalla porta principale. Vito aveva indosso solo una camicia abbottonata fino al collo e non sembrava accorgersi dell’aria fredda


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di febbraio. Clayton si strinse nel cappotto fino a coprirsi anche le orecchie. Si diressero alla banchina della metropolitana. Vidi Clayton prendere la Metrocard e attraversare il tornello. Poi diede la tessera a Vito che lo seguì all’interno. Che cazzo? Mi fermai a metà della rampa che portava al tornello. I due erano a circa cento metri davanti a me ma mi voltavano le spalle. Non c’era nessun altro sulla banchina. Iniziarono ad alzare la voce. Non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo. Il vento e un aeroplano a bassa quota coprivano le voci. Poi, il suono di un treno che si avvicinava e un movimento indistinto. Un corpo cadde sui binari proprio mentre stava arrivando il treno. Mi preparai allo stridio dei freni. Non udii mai quel suono. Il treno entrò in stazione. Le porte si aprirono e si chiusero. Nessuno salì o scese. Il treno ripartì. Era rimasto solo un uomo sulla banchina. Stava guardando in basso, verso i binari. Avevo le dita intorpidite e mi stava venendo il mal di testa. Mi avvicinai lentamente alla banchina. Presi la tessera della metropolitana dal cappotto. La feci passare nella fessura e attraversai il tornello. Camminai fino al bordo della banchina e guardai i binari. C’era un braccio separato dal resto del corpo. Il sangue che usciva dalla spalla. La testa girata in un angolo innaturale. Come aveva fatto il conducente del treno a non accorgersi di nulla? La MTA era così fiera del suo nuovo sistema di gestione dei treni, sistema che richiedeva la presenza di una sola persona per far funzionare un treno. Forse non era sufficiente per controllare anche i corpi che cadono sui binari. Sentii montare la nausea. Stavo per svenire ma lui mi sostenne mettendomi una mano dietro la schiena.


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— Stava parlando di te — disse Clayton, fissando il corpo straziato di Vito, — di quello che avresti fatto per lui se ti avesse aiutata a liberarti di me. Stava solo cercando di farmi arrabbiare ma ti ha mancato di rispetto. Volevo solo spaventarlo ma l’ho spinto troppo forte ed è caduto sui binari. Clayton parlava con molta calma. — Stava parlando male di te, Alice — aggiunse, alzando un po’ la voce. — Be’ — dissi, — non è stato molto bello da parte sua, no? Clayton sorrise. Non era affatto un brutto tipo.





I libri cambiano il mondo

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Casini Editore via del Porto Fluviale, 9/a – 00154 Roma www.casinieditore.com info@casinieditore.com Finito di stampare nel mese di novembre 2010 Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna – Roma



Mi chiedo solo perché a volte sia più facile trattare meglio gli animali che le persone. Immagino dipenda dal pelo, ma non mi sento tanto incline a trattare bene le persone solamente perché sono pelose.

« Maggie Estep scrive come nessun altro. Fatevi un regalo: leggetevi tutti i suoi libri. » Sara Gran, autrice di Una del giro e La voce dentro.

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