Casablanca n.20

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S t o r i e

d a l l e

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f r o n t i e r a ANNO IIUM.6

EdizioniLeSiciliane

CIAO MAURO SPECIALE PROCESSO ROSTAGNO A CURA DI LILLO VENEZIA

settembre 2011

SANTI AFFARI

LA MAFIA LO MINACCIA, IL GOVERNO GLI CHIUDE LA TV. MA PERCHE' GLI STA COSI' ANTIPATICO PINO MANIACI?

SULLA PELLE DEGLI IMMIGRATI PIPITONE

I GIOVANI LEONI

DELLE COSCHE DI CATANIA BENANTI

TESTIMONI DI GIUSTIZIA

CHE FINE HA FATTO IL PROGRAMMA DI PROTEZIONE?

I C A T E ZITTO

Chiudono Telejato, levano la protezione a Lannes, liquidano i programmi di difesa dei testimoni di giustizia. Parlare contro la mafia, in questo paese, dà fastidio al governo

GULISANO/ I VOLTI DELLO SCIOPERO


CASABLANCA N.20/ SETTEMBRE 2011/ SOMMARIO

Sebastiano Gulisano 6 L'Italia che verrà Gigi Malabarba 8 Montedison/ Amianto killer Giuseppe Pipitone 12 Cara, Cie e Caritas Graziella Proto 14 Ridate la scorta a Lannes Rosita Rijtano e Sonny Faschino 16 Intervista ad Angela Manca Marco Benanti 18 Catania/ Mafia: la nuova mappa Graziella Proto 21 Nome in codice “Ulisse” Farid Adly 22 Xxxxxx xxx Amalia Bruno Cronachette a cura di Lillo Venezia 30 Ciao Mauro

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Casablanca - direttore Graziella Proto graziellaproto@interfree.it Edizioni Le Siciliane di Graziella Rapisarda Progetto grafico: Riccardo Orioles e Luca Salici – da un'idea di Piergiorgio Maoloni Registr.Tribunale Catania n.23/06 del 12.7.06 – dir.respons.Riccardo Orioles

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Editoriale

Susanna, da te ci aspettiamo molto! Fare il palinsesto di questo numero è stato faticoso. Mentre ci accingevamo a chiuderlo, le notizie cambiavano. La parte calda del giornale andava in tilt. Lo stesso per fare un punto copertina. Difficilissimo. Le cose accadute nell'ultimo mese sono tutte importanti. Spesso gravi. Avvenimenti che, non bisogna sottovalutare o tralasciare e la cui analisi ed elaborazione potrebbe servire per un nuovo e futuro progetto di vita. Non mercato, non precarizzazione, non aria fritta, escort o beneficenze ad alcuni loschi individui. Vita. C'è stato uno sciopero generale indetto dalla CGIL. Non accadeva da tantissimo tempo. E' andata abbastanza bene. Centinaia di piazze invase da lavoratori, pensionati, insegnanti, disoccupati, precari e casalinghe. Susanna Camuso dietro lo striscione apriva il colorato corteo. Sarà una nota frivola, ma, come dimenticare la nostra Susanna col foulard rosso al collo gridare la sua rabbia dal palco. Oppure, il momento in cui cantava bella ciao. Da pelle d'oca. Bellissima immagine, di donna coraggiosa e combattiva. Da lei ci aspettiamo ancora tanto. A chi l'ha definita folle, e responsabile di chissà che, diciamo, con disprezzo, servi. Non hanno diritto di rappresentare i lavoratori. Quelli che pagano sempre. Ai quali, non si può e non si deve dire fate pazienza. Autorevoli ed importanti editorialisti hanno anche spiegato che l'Italia di tutto ha bisogno meno che di fare lo sciopero. Ma dove vivono? Come? Chi frequentano? Non c'è bisogno di appartenere alla classe più misera dei lavoratori per ricordare che negli ultimi venti anni sono state smantellate tutte le garanzie del lavoro, cancellato tutti i diritti e ci hanno detto che questa è la flessibilità. In teoria gli illuminati editorialisti e non, hanno ragione, ma se non si protesta ci si può convincere che tutto vada bene. Invece, pochi soldi, poco lavoro, niente servizi. Medicine e visite a pagamento, licenziamenti con una semplice letterina prestampata, una cambiale al posto della liqui-

dazione, rischio di poter perdere la casa perché non si è in grado di pagare il mutuo o il fitto. Potremmo abituarci a non mangiare e non uscire da casa. Basterà?

*** L'altro giorno, mentre uscivo da casa si ferma una macchina davanti al cancello del mio giardino e scende un signore di trentacinque anni circa. Mi si avvicina e dice"scusate, avete bisogno di un muratore? Sono senza lavoro da mesi, sono bravo, oggi ho girato tutti cantieri intorno a Catania, ci ho rimesso anche i soldi della benzina...ho tre figli, non so più cosa fare…" L'unica cosa che sono riuscita a pensare è stata" se potessi, smantellerei la mia casa e la rifarei. So che non è questa la soluzione. Ma, nessuno ascolta la disperazione della gente comune e normale. Fuori dalle classi alte e privilegiate. Al rigore che, da parecchi mesi chiediamo alla casta, c'è stato risposto con raccolte di firme e consensi all'interno del Parlamento per la difesa del doppio stipendio quello di parlamentare e quello di sindaco o altro lavoro. La vera vergogna? Il fatto che, dal palazzo questi episodi non escono in forma ufficiale. Un tacito accordo. *** La nostra lotta inizia da Partinico, insieme a Pino. Ci sono due giornalisti in zone diverse della penisola che vivono ore difficili a causa del lavoro che fanno. La passione e l'one-

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stà che vi mettono. Uno Gianni Lannes, gli è stata tolta la scorta senza alcun motivo e senza che le indagini - ancora in corso - abbiano trovato un autore delle minacce e degli incidenti strani che minano la sicurezza del giornalista e della sua famiglia. L'altro, Pino Maniaci nella sua Partinico ( tra Palermo e Trapani), vive sotto scorta perché con la sua microscopica televisione, Telejato, non si fa gli affari suoi. Un'emittente che nonostante tutti i suoi difetti e limiti, è la tv privata più seguita in una zona ad alta densità mafiosa. Un progetto di cambiamento delle regole dell'informazione che parte da un punto piccolissimo dell'Italia. Appunto, piccolissimo. Dove, spesso, mentre prendi il caffè, puoi trovarti, gomito a gomito, con il piccolo boss che denunci. Se abbassi lo sguardo hai paura, se lo sostieni lo sfidi. Hai voglia di mettere zucchero, quel caffè resterà sempre amaro. Recentemente a Partinico, alcuni muri sono stati imbrattati con scritte contro Pino e la sua famiglia, già una prima volta i muri erano stati lavati, ma, le scritte sono ricomparse. Delinquenti ed idioti che non sanno come passare il tempo? C'è dell'altro: la questione delle frequenze e del digitale terrestre. Per farla breve: tutte le televisioni piccole, spariranno, resteranno le grosse. Senza affrontare il tema cosa farà l'intera famiglia Maniaci che, vive con e per, Telejato, se, questa piccola e particolare emittente, fosse obbligato chiudere, in quella zona ci sarebbe il silenzio, perché a parte qualsiasi problema e disquisizione, dei piccoli centri non s'interessano le grandi testate. Il bavaglio è sempre in agguato. Piano, piano, uno per volta saremo tutti imbavagliati. Minacce, agguati, mancanza di contributi per i piccoli editori o piccole testate, è tutto un calderone. Il bavaglio. Su la testa. Trasformiamo la nostra dignità e il nostro coraggio in strumenti di lotta contro ogni tentativo di renderci servi, sottoposti, vassalli ed oppressi. Graziella Proto


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SOLIDARIETA'

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“IMAGINE”

Negli occhi

dell'Italia che verrà di Sebastiano Gulisano A Roma durante la manifestazione della Cgil del 6 settembre

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CRIMINI AZIENDALI

Montedison

Amianto killer di Gigi Malabarba Sinistra Critica Settantadue morti. Dodici manager imputati. Al processo Montedison, un tecnico, medico dell'Asl con funzioni ispettive su igiene e sicurezza, potenziale vittima, smaschera le responsabilità dell’azienda per la mancata bonifica da amianto. Una documentazione fotografica che si riferisce proprio agli anni dal 1972 al 1989 dimostra che al petrolchimico di Mantova gli operai lavoravano a stretto contatto col materiale killer. «C'era quindi un sistema - ha chie sto il pm Giulio Tamburini per la rimozione sicura dell'amianto?». «Certo. Bastava uno spazio dedicato, la protezione degli addetti, acqua e vinavil». Intanto il ministro Sacconi si esalta per la riduzione degli incidenti mortali da 4 a 3,9 al giorno, senza tenere conto della riduzione lavorativa legata alla crisi nei settori a più alta incidenza infortunistica vale a dire che negli ultimi tempi il numero di morti ha subito un incremento. Inoltre, se l'infortunato non muore subito, rientra nella fatale normalità.

Di fronte alla sentenza del tribunale di Torino per il rogo della Thyssenkrupp, si levano voci scandalizzate da parte padronale nei confronti della condanna per'omicidio volontario’ dei dirigenti dello stabilimento (fino ad arrivare ad applaudire in segno di solidarietà il loro capo all’assemblea di Confindustria!), Voglio ricordare che sono purtroppo tristemente quotidiane le vicende riguardanti, gli atti criminali dei cosiddetti datori di lavoro nei confronti dei propri dipendenti. E spesso la cronaca non li registra neppure. Anzi, l’ineffabile ministro Sacconi si spinge persino ad incensare il proprio ruolo per la riduzione dello 0,1 per cento, il numero degli infortuni mortali nello scorso anno (da 4 a 3,9 omicidi bianchi quotidiani, calcolati sulla media di 255 giorni lavorativi). Con la riduzione dell’attività produttiva dal 15 al 20 per cento a causa della crisi soprattutto nei settori a più alta incidenza infortunistica, ciò significa nei fatti l’incremento più forte dei morti sul lavoro degli ultimi anni! E’ pure inaccettabile che si attiri l’at-

tenzione mediatica solo sui ‘morti’. Si considera, infatti, mortale l’incidente che provoca l’immediato decesso, mentre chi non muore immediatamente nel corso dell’evento traumatico o a causa di malattie contratte sul luogo di lavoro, e si tratta di numeri di decine di volte superiori, rientra nella fatale normalità. E’ per queste ragioni che voglio segnalare una delle tantissime tragedie relative all’amianto-killer che, dati i tempi di incubazione dell’asbestosi (fino a trent’anni dall’esposizione), avrà il suo culmine attorno al 2020. La messa fuorilegge di questo materiale è avvenuta solo nel 1992 , ma, le imprese conoscevano le conseguenze mortali del suo impiego, con l’insorgere del mesotelioma pleurico perlomeno dal 1960. Ci sono altre due ragioni per farlo: la prima è che la stampa nazionale non ne ha neppure parlato; la seconda perché a smascherare il colosso Montedison è - circostanza singolare - una delle potenziali vittime. Un tecnico che, si è trovato –e non per caso- nelle condizioni di scoperchiare le responsabilità dell’azienda.

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Molto recentemente, infatti, abbiamo assistito ad un colpo di scena al processo Montedison davanti al tribunale di Mantova. L'accusa, con una mossa che ha sorpreso tutti, ha presentato in aula "prove schiaccianti" sull'esposizione all'amianto a cui erano sottoposti gli operai del petrolchimico. Si tratta di una documentazione fotografica eccezionale, che si riferisce proprio agli anni (dal 1972 al 1989) in cui i dodici ex manager, oggi imputati, avrebbero causato la morte di settantadue operai. Il tutto attraverso il puntuale e scioccante resoconto di un tecnico particolare: Paolo Ricci, attuale responsabile dell'Osservatorio epidemiologico dell'Asl di Mantova, all'epoca tecnico appena assunto in Montedison, è stato capace di assestare un durissimo colpo alla difesa che alle prime battute dell'udienza aveva cercato, ma con scarso successo, di controbattere alle tesi scientifiche del perito sugli effetti cancerogeni della sostanza. Obiettivo dei legali della difesa era dimostrare la scoperta tardiva di quel pericolo e quindi la non responsabilità dell'azienda.


CRIMINI AZIENDALI

La testimonianza di Ricci, nella sua duplice veste di testimone e ufficiale di polizia giudiziaria, ha dimostrato l'esatto contrario, spazzando via, in un sol colpo molti di quei dubbi sui quali i difensori di Montedison avevano puntato, in particolare sull'insufficienza o la mancanza di documentazione. Quali notizie particolari ha raccontato Paolo Ricci ai giudici? «Sono stato assunto dall'Asl il diciannove settembre del 1988 - ha detto in aula - e pochi mesi dopo, il ventiquattro febbraio 1989, ho effettuato il primo sopralluogo alla Montedipe, ( Montedison Petrolchimico di Mantova) dov'era stato demolito un impianto per la produzione dello stirene. Era la prima volta che succedeva. Un atto di disobbedienza nei confronti della direzione aziendale che per anni ha gestito i controlli in termini, negoziali. Trovai un'area con materiale di decoibentazione che poteva contenere amianto. Raccolsi un campione del materiale e un laboratorio di Verona mi confermò la presenza della sostanza. Il responsabile della sicurezza interna mi disse che era impossibile e che in azienda non c'era amianto, aggiungendo: ma lo sanno i suoi superiori che lei è qui? Furono trovati trecento quintali di ma-

teriale contenente amianto che era movimentato con mezzi meccanici, sollevando le pericolose polveri di cui anche i dipendenti si erano lamentati. C'era da affrontare una situazione d'emergenza. Diffidammo l'azienda. Bisognava sgombrare subito l'area, bagnare le macerie e chiedemmo una mappatura delle coibentazioni». Nei mesi successivi furono trovati anche altri trecento sacchi contenenti lo stesso materiale. Furono sequestrati e l'allora manager finì a processo, poi caduto in prescrizione. Ma l'amianto era ovunque e le foto lo dimostrano. Dal 1992 al 2006 la metà del materiale asportato, circa seicento tonnellate era amianto. La mazzata finale di Ricci? E' arrivata, quando gli è stato chiesto di rispondere alle domande nella sua qualità d'ufficiale giudiziario. Ha raccontato della perquisizione e del sequestro effettuati il cinque aprile del 2001. Tutte le attività del laboratorio ricerche dell'azienda ora sono contenute in un floppy disk e per quanto concerne la manutenzione, pochi i documenti trovati, conservati nei locali di Via Chiassi. Il resto riguarda soltanto atti amministrativi. L'intera documentazione è stata esaminata e scremata.

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Ricci era riuscito ad ottenere anche il censimento dell'amianto con relativa planimetria dall'Enichem che era subentrata a Montedison. Le conoscenze sull'amianto, in quel periodo c'erano. Eccome. Ha raccontato inoltre, d'aver eseguito uno studio per conto della procura di Firenze, sulle Grandi Officine delle Ferrovie dello Stato. Ebbene già nei primi anni Ottanta avevano preso delle precauzioni con ambienti dedicati per la bonifica della sostanza nociva. La stessa cosa invece non è avvenuta in Montedison. «C'era quindi un sistema - ha chiesto il pm Giulio Tamburini - per la rimozione sicura dell'amianto?». «Certo. Bastava uno spazio dedicato, la protezione degli addetti, acqua e vinavil». Settantadue operai morti, una strage. E, com’è probabile, visto come sono finite le vicende di Fincantieri a Monfalcone, dove esiste in Comune persino un assessorato all’amianto, o a Casale Monferrato a causa dell’Eternit, troveremo anche riscontri sulla popolazione nei dintorni, a partire dalle mogli degli operai che si sono ammalate di mesotelioma perché avevano lavato le tute da lavoro inquinate usate dal marito. Morti sul lavoro? Ricominciamo ad utilizzare la definizione più corretta: omicidi.


IMMIGRATI: ASSISTENZA E AFFARI

Cara, Cie

e Caritas di Giuseppe Pipitone ha collaborato Vincenzo Figlioli Un giro di sigle e cooperative che fanno capo al mondo cattolico per gestire l'affare immigrati. In tutta Italia la Caritas si tiene a debita distanza dai Centri Identificazione ed Espulsione, ma a Trapani a gestire i migranti sono due cooperative d'origine cattolica. All'interno dei Centri Identificazione ed Espulsione "Grande conflittualità, violenze ed autolesionismo, perché la persona non è tutelata " dice Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana. Un punto sul quale sembrano tutti d'accordo, ma bisogna fare il "monitoraggio". Come mai sempre cooperative vicine al mondo cattolico? Antonio Manca manager dell’accoglienza, nel 2008 ha dichiarato “Non viviamo d'appalti, ma di capacità d'impresa dove il soggetto svantaggiato diventa risorsa” . Appunto, una risorsa! “Al di fuori dello spirito e della lettera della Carta Costituzionale per la forma di eccessiva coercizione che viene esercitata nei confronti di persone. E questo senza alcuna distinzione”. Sono le parole utilizzate in un documento dello scorso 16 febbraio dalle Caritas delle diocesi venete per definire i Cie, Centri di Identificazione ed Espulsione, proprio pochi giorni prima dell’apertura di un nuovo centro in provincia di Venezia. Parole forti che, avevano preso le distanze dalle “barbare condizioni di segregazione” riservate ai migranti dell’inferno dei Cie. Purtroppo, in Italia non tutta la Caritas la pensa allo stesso modo sul “business dei clandestini”. A Trapani ad esempio, l’atteggiamento della Curia nei confronti dei Cie e dei Care ( definiti altrove come dei veri e propri inferni terreni ), è diametralmente opposto a quello delle diocesi venete. Tramite la cooperativa sociale Badia Grande, infatti, la Caritas trapanese di monsignor Sergio Librizzi – chioma brizzolata e sguardo furbo da ex assessore democristiano di Petralia Sottana - è riuscita a stendere una sorta di regime di monopolio sulla gestione dell’ immigrazione in

provincia di Trapani. A partire dalla tendopoli di Kinisia, allestita nel giro di pochi giorni, a fine marzo, per far fronte alla nuova emergenza sbarchi. La tendopoli era inizialmente concepita come un Cara che avrebbe dovuto accogliere i richiedenti asilo provenienti dalle coste nordafricane. La natura emergenziale della situazione aveva convinto la prefettura ad affidare la gestione del centro a due cooperative che avevano già maturato una certa esperienza in materia di accoglienza. Una è la cooperativa Insieme, che fino a quel momento faceva parte del Consorzio Solidalia. L’altra è Badia Grande, guidata da Antonio Manca, astro nascente della Caritas trapanese e responsabile del settore cooperazione. “Non viviamo d'appalti, ma di capacità d'impresa dove il soggetto svantaggiato diventa risorsa” dichiarava il trentacinquenne manager dell’accoglienza nel 2008 subito dopo la sua nomina a presidente della Gsm, cooperativa cuore del turismo made in Caritas. Parole dal valore profetico. Il ventuno aprile del 2010, infatti, un’ordinanza della Presidenza del Consiglio ha trasformato Kinisia da Cara (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) a Cie: la

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connotazione del centro è diventata quindi prettamente detentiva, con l’obiettivo di censire gli immigrati in arrivo per poi prepararne il rimpatrio. Venuta meno la connotazione emergenziale di Kinisia, la prefettura ha deciso in seguito di bandire una gara per la gestione della tendopoli, seguendo la procedura della trattativa privata. Su cinque ditte invitate, ha risposto solo l'associazione temporanea d'impresa costituita da Badia Grande e cooperativa Insieme. I Cie non rientrano in una logica di accoglienza e inserimento. E, non a caso, in tutta Italia la Caritas se ne tiene a debita distanza. Anche Monsignor Librizzi cerca di respingere un ruolo principale nella faccenda: “Non è la Caritas a gestire i Cie e i Care, meno che mai a Trapani. Semmai, la gestione compete ad alcune cooperative, come Badia Grande, che seppur d’origine cattolica niente hanno a che vedere con noi. Hanno un’esperienza nel campo dell’accoglienza è per questo sono state scelte, ma la Caritas ha poco a vedere con il loro impegno”. Una presa di distanza netta; tuttavia, mal si associa al fatto che, fino al 2009, il predecessore di Manca alla guida della


IMMIGRATI: ASSISTENZA E AFFARI

cooperativa Badia Grande era proprio don Sergio Librizzi. In seguito lasciò l’incarico per andare a guidare la Caritas di tutte le diocesi siciliane. Lo stesso Antonio Manca è stato nominato per volere diretto di monsignor Francesco Miccichè, vescovo di Trapani, a cui è considerato molto vicino. Nel frattempo la tendopoli di Kinisia è ormai destinata ad essere smobilitata, non soltanto per i continui episodi di violenza e di autolesionismo e pessime condizioni igienico – sanitarie, ma soprattutto perché era ormai pronta la nuova megastruttura di contrada Milo, costata sei milioni di euro e destinata a diventare uno dei Cie più grandi del sud Italia. Fino alla scadenza della convenzione della prefettura (prevista per il 31 dicembre) saranno ancora le cooperative Insieme e Badia Grande ad occuparsene. Dopo di che, nella stessa struttura confluiranno anche gli ospiti del Cie Serraino Vulpitta, che a dodici anni dal rogo che costò la vita a sei immigrati, sta finalmente per essere chiuso. A quel punto, sarà bandita una nuova gara? Non c’è alcun elemento che faccia pensare a un disimpegno di Badia Grande sebbene il prolungamento da parte del Governo da sei a diciotto mesi dei tempi di detenzione degli immigrati all’interno dei centri di identificazione ed espulsione, abbia scatenato le proteste delle associazioni

umanitarie e, neanche a dirlo, del mondo cattolico. “Allungare i tempi di trattenimento dei Cie, che non sono un luogo dove le persone vengono tutelate, significa esasperare maggiormente la situazione – ha spiegato monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana. - Sappiamo che i CIE sono un luogo di grande conflittualità, di violenza, di autolesionismo, perché la persona non è tutelata”. Posizioni chiare sposate in qualche maniera da Monsignor Librizzi che ammette: “anch’io sono contrario al trattenimento, ma queste non sono scelte che competono alla Caritas. Noi abbiamo solo un compito di monitoraggio. Come i cappellani nelle carceri” Ma ha poco a che vedere con il monitoraggio, e soprattutto le carceri Villa Nazareth, splendida struttura ai piedi del monte Erice, che testimonia come la Curia di Trapani e Badia Grande (allora presieduta da Librizzi) abbiano incrociato le forze già nel 2009 nel campo dell’accoglienza. Miccichè ha accettato di cedere in comodato gratuito la tenuta nei pressi di Valderice (vicino Trapani), alla cooperativa Badia Grande che ci avrebbe ricavato un Care, centro richiedenti asilo. La splendida villa immersa nel verde era stata acquisita dalla Fondazione Auxi-

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lium dopo la fusione con la Fondazione Campanile (fusione su cui indaga da marzo la sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza). La cessione in comodato d’uso (possibilità di cui non hanno potuto godere le altre cooperative) ha aiutato i conti della cooperativa Badia Grande che negli anni ha visto crescere il proprio giro d’affari, fino ad arrivare ad un fatturato a sei zeri. All’orizzonte nel frattempo spunta una nuova scommessa per gli uomini di Badia Grande che hanno partecipato lo scorso dicembre al bando di gara per gestire il centro di Salinagrande, il più grande Centro d’accoglienza per richiedenti asilo che andrebbe a sostituire anche quello di Villa Nazareth, dove da dicembre gli extracomunitari hanno lasciato spazio all’Hotel Villa Sant’Andrea, confortevole albergo tre stelle sorto a pochi passi dall’ex Cara istituito grazie all’alleanza tra Auxilium e Badia Grande. La sfida per gestire il centro di Salinagrande, dopo una sentenza del Cga che ha accolto il ricorso di Solidalia, è ora appesa alla decisione del Tar che potrebbe ulteriormente incrementare il monopolio della gestione dell’ immigrazione in provincia di Trapani. In barba alle Caritas venere che storcono il naso di fronte ai Cie, in Sicilia il piatto appare troppo ricco per rifiutarlo a priori.


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“Ridate la scorta” a Gianni Lannes di Graziella Proto Gianni Lannes è un giornalista e fotografo investigativo autore d'inchieste pericolose e coraggiose che nemmeno il quotidiano "La Stampa" ha voluto pubblicare, anzi, gli dà lo stipendio per starsene in casa, basta che non disturbi. Direttore di Italiaterranostra.it, dal diciotto novembre 2010, il suo sito risulta oscurato. Sembra che non ci sia stata regolare denuncia ascritta a "eventuale reato di diffamazione a mezzo stampa" presentata alla magistratura, rassomiglia piuttosto ad una iniziativa dello stesso provider Aruba che lo ospitava "Dalla seconda metà d'agosto le è stata revocata la scorta" disse pressappoco la voce all'altro capo del filo a Gianni Lannes. Una comunicazione semplice, fredda, formale, ufficiale, da parte della Prefettura di Foggia. Una prassi sulla quale non c'è bisogno di esprimere giudizi. Con una telefonata lo Stato Italiano ha soppresso la scorta ad un cronista che si trova in situazione di pericolo per il lavoro che fa. L'onestà e la passione che ci mette. La decisione è stata presa dal Ministero dell’Interno, ma, la proposta è partita dal Prefetto di Foggia Antonio Nunziante. Qualcosa è cambiato rispetto a, quando gli è stata data la protezione? Non esiste più lo stato di pericolo? Andiamo con ordine. Gianni Lannes è un giornalista e fotografo investigativo. Spesso nella sua lunga attività di indagine giornalistica ha affrontato tematiche che sono sfociate in procedimenti giudiziari importanti. Fra le sue inchieste: le cosiddette «navi dei veleni» affondate nel Mediterraneo, i traffici di rifiuti nucleari, le ecomafie internazionali; la strage Nato del peschereccio Francesco Padre, traffici illegali di armi ed esseri umani, la morte

di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, la strage di Ustica. Un lavoro minuzioso il suo, a trecentosessanta gradi, senza guardare in faccia nessuno, facendo nomi e cognomi. Per Casablanca ha pubblicato il Bosco della Ficuzza, Ustica, Il Trattato di Prum… Insomma, lavorando in Italia e all’estero si è preoccupato di informare. Ha preferito non mettere una divisa, restare libero. Una decisione pesante in una società che è totalmente schierata e per lo più subalterna. La risposta? Una serie di tentativi criminosi per lui, la sua famiglia, i suoi collaboratori. Attentati, minacce di morte, telefonate anonime, furti, danneggiamenti ed intimidazioni di vario tipo. La notte del sei aprile scorso, l'ultimo avvertimento di stampo mafioso. Dopo una serie di telefonate anonime, l'auto della famiglia è stata trovata in mezzo alla strada circondata da una bella chiazza di benzina, un vetro rotto ed un paio d'occhiali probabilmente dimenticati dall'autore del messaggio, dentro l'abitacolo. Alcuni mesi fa, l'undici febbraio sempre di quest'anno, è stata sabotata l’auto della moglie e manomesso il seggiolino di sicurezza del figlio; Già il due luglio 2009, ignoti gli avevano fatto esplodere l’auto che già, per ben due volte nell'arco di tre mesi del

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2009 è andata in fiamme. La notte del quindici maggio del 2010 (sempre), ignoti, si sono introdotti, nel suo studio rubando un computer ed un hard disk portatile. Ha pestato i piedi a qualcuno? Ha distratto il conducente? Ha turbato qualche equilibrio? Probabilmente, dato che, anche un deputato, l'On. Angelo Cera, UDC e sindaco di San Marco in Lumis, durante la campagna elettorale, aveva promesso di "sistemare" il giornalista. Sui rischi corsi da Gianni e la sua famiglia un fiume di Interrogazioni parlamentari al Ministro degli Interni, tutte senza risposta fino a questo momento. Le indagini? Sembrerebbe siano ancora in corso, sia Lannes, che il suo avvocato, non hanno ricevuto mai, ad oggi, alcuna comunicazione di archiviazione. Ci si chiede: com'è possibile che, con le indagini ancora aperte sugli attentati qualcuno decida di togliere la scorta al "perseguitato" e alla sua famiglia? Dal Parlamento, Elisabetta Zamparutti, deputata Radicale, in Commissione Ambiente della Camera, appresa la notizia, definisce la decisione del Ministero "un fatto grave", affermando di considerare "la revoca della scorta, un atto intimidatorio analogo a quelli commessi da parte di chi è stato infastidito dalle sue inchieste sul traffico dei rifiuti nucleari,


GIORNALISTI SOTTO TIRO

sulla “malasanità” pugliese, sul traffico di armi, sulla mafia pugliese, dalla ripresa delle indagini sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sulla strage di Ustica e sulle navi dei veleni". La stessa parlamentare assieme ad altri deputati cofirmatari, in un'interrogazione parlamentare al ministro degli interni, datata due agosto 2011, racconta di una audizione ( 26 gennaio 2011 )della Commissione Parlamentare ecomafie, a Bari, per una verifica della situazione rifiuti e illeciti connessi al ciclo dei rifiuti sull’area pugliese e di un inceneritore <la cui costruzione non appare conforme alle normative di protezione sanitaria ed ambientale e alla legge n. 108 del 2001 di ratifica della Convenzione di Aarhus >, L'inceneritore dovrebbe sorgere nella zona di Manfredonia e sarebbe di proprietà della famiglia Marcegaglia. In quella riunione a Bari Il Prefetto di Foggia Antonio Nunziante, ai membri la commissione bicamerale ha detto: «Per quanto riguarda la Marcegaglia, dopo tutte le autorizzazioni - tra cui la regione e così via - i lavori sono iniziati 6-7 mesi fa. Io ho ricevuto l'amministratore unico della Marcegaglia Energy, di cui mi perdoni - non ricordo il nome. Con lui abbiamo fatto anche un piano della sicurezza. I lavori stanno andando avanti, però dai primi accertamenti dei carabi-

nieri e delle forze dell'ordine in generale, non sembra ci sia un interesse acché i lavori non procedano. Il tutto presidente, viene fuori da un giornalista, Gianni Larmes, che un po' fomenta queste situazioni e quindi fa presa sulle preoccupazioni intorno a questo termovalorizzatore»; Nella stessa interrogazione datata due agosto 2011, si legge ancora: "…in merito alle procedure per l'inceneritore dell'Eta, il comune di Cerignola ha presentato, all'inizio dell'anno 2011, un ricorso straordinario al Capo dello Stato, mentre un altro inceneritore targato Marcegaglia è stato sequestrato per gravi irregolarità a Modugno dalla procura della Repubblica di Bari; per l'inceneritore di Massafra (proprietà Marcegaglia) l'Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia europea; " La cosa che emerge con forza nell'interrogazione parlamentare è che secondo i sottoscrittori , il Prefetto di Foggia, Nunziante, non sia nelle condizioni di "indipendenza di giudizio" nei confronti di Lannes, e quindi, per poter chiedere la revoca della scorta. Considerazioni: La tutela, dello Stato arriva solo in caso di reale pericolo d'incolumità della persona. Vale a dire che tutto ciò che è denunciato dalle " vittime" è regolarmen-

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te verificato ed accertato dalle autorità competenti. La sorveglianza si toglie, quando, si accerta che lo stato di pericolo non sussiste più. E'stato accertato. Chi ha verificato? Quale ufficio? Perché nessuno si è preoccupato di comunicarglielo per iscritto all'interessato? Oppure al suo legale. Vero, il Prefetto ha avanzato la proposta, ma sulla base di quali informazioni - se è lecito sapere - l'UCIS ha eseguito? Come mai non ha provveduto autonomamente ? - si chiedono gli interroganti alla camera. Un giornalista può sbagliare? Certamente. Può anche accadere che in buona fede prenda per vera una notizia costruita ad arte, da chi ha interessi particolari. Giustamente ne deve rispondere. Ci sono le ammende, le multe i risarcimenti. Questo si può fare. Ciò che non si deve assolutamente fare è trasformare un giornalista serio in un bersaglio per i malavitosi, emarginarlo, screditarlo, sapendo perfettamente ciò che si sta facendo e non tenendo conto delle conseguenze eventuali e del fatto che di quel giornalista la società ha bisogno. Qualora, sia un rappresentante istituzionale a fare tutto ciò, chi di dovere, dovrebbe intervenire e portarlo via di peso dal posto occupato. Dopo di che, ognuno la chiami come vuole: deontologia, etica, questione morale. Giustizia.


INTERVISTE/ ANGELA MANCA

L'urologo che

curò Provenzano di Rosita Rijtano e Sonny Faschino Un giovane e brillante medico specializzato in urologia è stato trovato morto nella sua abitazione a Viterbo. Aneurisma dissero ai genitori, ma, già al funerale, la gente bisbigliava che il ragazzo era un drogato. “Ci sono tracce di siringa sul braccio sinis tro!”. Ma il giovane medico era mancino dalla nascita.... Qualcosa non quadra. Giorno dopo giorno Angela, sua madre che non si è mai rassegnata, ricompone tutti i tasselli del puzzle, altri continuano ad aggiungersene. Chi ha ucciso Attilio? Cosa avrebbe potuto rivelare? Probabile ruolo di un losco figuro, parente della vittima. Ugo Manca coinvolto nel processo Mare Nostrum è stato il primo ad arrivare a Viterbo e subito dopo l'omicidio si è dato molto da fare per conto dei famigliari - diceva lui. Angela Manca aveva avuto tutto dalla vita. Una famiglia serena e due figli di successo: l’introverso Luca e il dolce Attilio. Un sollievo per la sua vecchiaia. Tra loro due il legame era intenso. Litigavano spesso, ma gli bastava uno sguardo per capirsi. “Ero felice. Forse troppo. Non poteva durare – dice Angela rassegnata” E non è durata. L’undici febbraio 2004, Attilio – mente geniale e uno dei pochi urologi in Italia a saper eseguire l’intervento alla prostata per via laparoscopica – è trovato morto nel suo appartamento di Viterbo. Di lui hanno detto che era depresso e si drogava. Per questa quella sera d’inverno Attilio, mancino fin da piccolo, aveva preso due siringhe e con il braccio destro si era iniettato nel sinistro un mix di droghe pesanti, provocandosi la morte. Quel giorno Angela è diventata vecchia all’improvviso. I suoi sessant’anni le sono piombati addosso: come un mattone che cade da un tetto. Oggi immaginarla felice non è facile. Ha il corpo esile e i lineamenti induriti dai sette anni trascorsi alla ricerca della verità. Felice lo è stata. Prima che ammazzassero Attilio. “Non ho mai creduto che Attilio fosse morto per overdose. Neanche per un istante!”, n'è certa. Eppure che, nell’ultimo periodo, vi fosse qualcosa di strano, lei l’aveva notato. Nelle sue telefonate quotidiane Attilio era diventato vago. Non era affettuoso come sempre, ma acido. Che aveva dei problemi era evidente, difficile immaginarne la portata… - L’ultima telefonata…

"È avvenuta la mattina dell’undici febbraio. Attilio mi chiese di fargli aggiustare la moto che teneva a Tonnarella e usava d’estate. Una richiesta assurda: sia per il periodo dell’anno, sia per il modo sgarbato in cui si rivolse. Tanto che lo salutai innervosita. Inizialmente la polizia ha confermato l’esistenza di quella telefonata, che adesso è sparita nel nulla. Allo stesso modo, in un primo momento, hanno detto che mio figlio non era solo nel suo appartamento, poi hanno ritrattato. Ancora oggi non sappiamo se su quelle siringhe letali vi siano le impronte di altre persone, o solo quelle di Attilio. Una delle tante “omissioni” che hanno caratterizzato la raccolta delle prove". - Qual è stata la prima versione ufficiale che le hanno fornito? "A dirmi che Attilio era morto è stato il padre di Ugo Manca, fratello di mio marito. Non la polizia. Tutti hanno detto che si era trattato di un aneurisma. Solo dopo il funerale ho saputo che quelle stesse persone diffondevano un’altra notizia: Attilio era morto per overdose. Io e mio marito dovevamo essere protetti, mentre tutta Barcellona Pozzo di Gotto veniva a sapere che nostro figlio era un drogato". - Che cosa ha provato in quel momento? "Una grande rabbia. Eravamo stati ingannati e nel modo più vigliacco, perché il nostro dolore era immenso. Eravamo frastornati, storditi. Per noi la morte di Attilio era solo un brutto incubo, ho iniziato ad avere dei sospetti. Ho ricordato una telefo-

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nata in cui Attilio chiedeva notizie di Angelo Porcino (ora in carcere accusato d’estorsione con aggravante mafiosa), che sarebbe andato a trovarlo a Viterbo, per un consiglio. Indirizzato da Ugo Manca" - Inizialmente era restia a parlare… "Non ho mai creduto che Attilio fosse morto per overdose. Neanche per un istante! Ho capito subito che era stato ammazzato, ma non il perché. La storia mi si è svelata, quando ho sentito che in un’intercettazione il mafioso Francesco Pastoia aveva parlato di un urologo, che aveva visitato Bernardo Provenzano nel suo rifugio. Non solo. Come ha detto il Procuratore Pietro Grasso in una puntata di Chi l’ha visto?, Provenzano è stato operato alla prostata per via laparoscopica. E per giunta a Marsiglia, dove Attilio si trovava nell’ottobre 2003. Infine ho saputo della latitanza del boss a Barcellona, protetta da alcuni locali. Piano, piano ho ricomposto tutti i tasselli del puzzle, mentre altri continuano ad aggiungersene". - Ad esempio? - Di recente mi è arrivata una lettera da parte di una signora romana. Lei sostiene che Provenzano si nascondeva tra Roma e Viterbo, in una villa molto ben protetta, e si faceva chiamare “Il Generale”. Nelle ricevute fiscali di Attilio del 2003 ho trovato due ricette - non datate - intestate all’ospedale militare Celio; ciò significa che nel 2003 mio figlio lì ha visitato qualcuno…" - Fino alla morte di suo figlio, che conoscenza aveva del fenomeno mafioso?


INTERVISTE/ ANGELA MANCA

"Conoscevo la mafia come la maggior parte delle persone: in modo superficiale. Come la spiegava mio marito a scuola: con cartelloni e manifestazioni. Per me era qualcosa d'astratto. Non pensavo che fosse così pervasiva, o che potesse entrare nella mia famiglia e distruggerla. Né, tantomeno, conoscevo i mafiosi". - Eppure vi siete ritrovati coinvolti... "Sì, ma non abbiamo mai abbassato la testa. Abbiamo sempre combattuto con tutte le nostre forze. All’inizio eravamo soli. Dicevano che io ero una pazza e che volevo far passare la morte di Attilio per un delitto di mafia, in modo da ottenere i soldi dallo Stato. Cercavano di renderci poco credibili. A mano a mano, però, si è venuta a creare una rete di solidarietà intorno a noi. Oggi di Attilio non si parla più come di un drogato, se non a Barcellona e Milazzo: i due regni della Corda fratres (circolo che tra i suoi iscritti annovera magistrati come l’odierno Procuratore Generale della Corte d’Appello di Messina Franco Cassata, e Rosario Cattafi di recente additato come il boss dei boss della cosiddetta “provincia babba” ndr)". - Noti membri della Corda sono venuti al funerale di vostro figlio... "Rosario Cattafi è stato uno dei primi a stringere la mano a mio marito, Ugo Manca è venuto direttamente a Viterbo. È stato lui a chiedere al pm di accelerare i tempi, con pratiche e autopsia, perché tutti noi avevamo fretta. Ed è stato lui a fare dissequestrare l’appartamento in cui è morto mio figlio,

con la scusa di prendere il vestito ad Attilio". - È vero che Attilio e Ugo erano amici? "Amici mai. Ogni tanto uscivano insieme, anche se ultimamente Attilio si vergognava, diceva che avesse i miliardi in Svizzera e che una volta finito Mare Nostrum (il maxi processo alla mafia tirrenica e nebroidea) li avrebbe fatti rientrare in Italia. Tutti quanti". - Qual è stato l’aspetto positivo di queste sette anni di lotta? "Aver fatto conoscere la storia di Attilio a livello nazionale. Grazie alla mia testardaggine e all’aiuto di Luca che, negli ultimi anni ha lottato al mio fianco, insieme con altri. Per me ‘l’importante è il noi’, come dice Don Ciotti. Purtroppo, spesso noto che c’è molto egoismo". - E quello negativo? "Gli anni che passano. La fragilità e la stanchezza che ne derivano, la consapevolezza di non avere, forse, il tempo necessario per riuscire a dimostrare la verità. Dal punto di vista giuridico siamo ancora al principio: alle indagini preliminari, come sette anni fa. Da quattordici mesi aspettiamo la scelta del GIP di Viterbo, Salvatore Fanti: deve decidere se archiviare definitivamente il caso di Attilio, o No". - Qual è stata la reazione delle autorità locali all’ipotesi di un omicidio di mafia? "Le autorità locali sono state pressoché inesistenti. Così come quelle nazionali". - Sembra, quasi, che vi sia una spacca-

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tura tra i rappresentanti dello Stato e l’opinione pubblica che vi sostiene... "È vero, ma, non me la prendo con la destra, con Berlusconi, perché quando c’è stato Prodi al governo non è cambiato nulla. Quando si tratta di mafia, non c’è nessuno che ti protegge. Buona parte dei politici arriva al potere con voti mafiosi, perciò, non ripongo le mie speranze nella politica nazionale, ma, in qualche uomo politico e giornalista d’inchiesta". - E ha mai pensato di… "Di rinunciare? Di andarmene? –risponde prontamente Angela, anticipando la mia domanda. No, mai! Non voglio che tutti i miei ricordi svaniscano nel nulla. La lotta è impari. Le cose sono più grandi di quanto possiamo immaginare. Le indagini implicherebbero le protezioni politiche di cui ha goduto Provenzano durante la sua latitanza. Chi vuoi che se ne occupi? " *** Lasciamo Angela assorta nei suoi pensieri ma, vigile, attenta. Non le sfugge nulla. L'aria molto quieta, quasi rassegnata. Non aveva chiesto nulla dalla vita. Solo, i suoi fantastici ragazzi, e un'esistenza onesta e dignitosa. Poi arrivò la mafia, e l'incubo iniziò di colpo. Sapere, capire, cercare verità. Trovare la certezza che il figlio è stato ucciso per mano della mafia, per mano forse del suo stesso sangue, ed essere inerme, non poter fare nulla se non urlare, urlare fortemente, urlare coraggiosamente affinché, per una volta, sia fatta giustizia in tempo.


CATANIA/ GUERRA DI MAFIA?

Giovani leoni crescono

La nuova mappa delle cosche di Marco Benanti Catania: fra marzo ed aprile l'Autorità giudiziaria ha emesso ottanta ordinanze di custodia cautelare. In ascesa i "Carateddi" frangia del clan "Cappello". Tanti giovani leoni tentano di imporsi. Un fiume di cocaina in vade ogni giorno la città, producendo guadagni stratosferici. Sullo sfondo, quartieri poveri, popolati da soggetti deprivati culturalmente e socialmente. Una città "invivibile", priva di classe politica dirigente, servizi, spazi democratici. Tanti falsi modelli per quei giovani senza sogni, la cui unica ambizione, sono i capi firmati, i soldi, il potere. Nuova mappa della nuova mafia? Un tempo erano Alfio Ferlito, Turi Cappello, Turi Pillera: oggi, i “nemici” si chiamano Mazzei “carcagnusi” e Cappello-Bonaccorsi “Carateddi”. Per la “famiglia” Santapaola-Ercolano la supremazia mafiosa non è mai un dato acquisito definitivamente. Ogni tanto, arrivano i “giovani leoni” con cui fare i conti. Dopo anni dell’ascesa e dell’affermazione (anni Settanta-Ottanta) e quelli del consolidamento fino ai primi anni Novanta, dentro Cosa Nostra catanese gli “avversari” si fanno notare. Dopo l’arresto dei capi (Santapaola e Pulvirenti) e quello di molti esponenti di punta del nuovo braccio armato e finanziario (“famiglia Laudani”), da Palermo si è tentato il “colpo” su Catania: a dirigere le operazioni il gruppo Mazzei, in testa il boss Santo, imposto da Leoluca Bagarella, suo padrino di “battesimo” nell’organizzazione. L’operazione non è riuscita fino in fondo, sebbene Mazzei oggi rappresenti una “famiglia” nel territorio catanese. Ora all’orizzonte ci sono i Bonaccorsi “Carateddi”: vogliono scalare l’organizzazione, hanno tanti soldi, dirigono una bella fetta del mercato della droga locale, sono quasi dei modelli per le migliaia di giovani e meno giovani deprivati culturalmente e socialmente dei quartieri, in particolare del “loro”, San Cristoforo. Così mentre lo Stato non riesce nemmeno a garantire uno straccio di sussidio agli inoccupati, la criminalità più o meno mafiosa, in funzione di puntello dell’equilibrio sociale, offre qualche centinaio di

euro al giorno a chi vive ai margini. Come? Facendo la “sentinella” o il pusher o altro ruolo nell’“azienda droga”. Dicono alla “mobile” di Catania: “in molte famiglie dei quartieri si vive di stupefacenti, è difficile resistere alla tentazione di un guadagno facile in zone dove il lavoro non c’è”. Così, arresti su arresti: il proibizionismo sulle droghe produce lavoro e carriere per poliziotti e magistrati e fa aumentare i guadagni alla mafia. I “Carateddi” sono il nuovo che avanza. La scorsa primavera è stata una sorta di “esplosione” di manette: ottanta ordinanza di custodia cautelare emesse dall’Autorità Giudiziaria in meno di un mese, fra marzo ed aprile, per un fiume di cocaina che invade ogni giorno la città, producendo guadagni stratosferici. “Droga spa”, quindi: a Catania, il traffico e lo spaccio degli stupefacenti hanno un’organizzazione aziendale, con tanto di “dipendenti” con ruoli diversi, con le “vedette” in funzione di controllo, i “pusher” e i loro “superiori” con telefono e collegamento email 24 ore su 24, senza dimenticare persino un sistema di videosorveglianza. Nel suo volto delinquenziale da strada, Catania assomiglia sempre più a Napoli, richiama gli scenari gangsteristici -con omicidi e azioni di forza per “difendere” le “piazze” dello spaccio- descritti da Roberto Saviano in “Gomorra”, dove il crimine coinvolge tanti giovani, anche minorenni, violentandone identità e prospettive di vita.

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“Vuoi capire cosa succede nelle loro famiglie? –racconta un operatore sociale di San Cristoforo. “Bene, io guardo loro le scarpe e capisco: quando non le cambiano più vuole dire che il loro capofamiglia è ormai definitivamente detenuto. E non per poco….” E cosa può desiderare un ragazzo di San Cristoforo senza scuola e senza lavoro? In fondo, quello che vuole il ragazzo “perbene” del centro: una bella auto, soldi, una casa di proprietà, una bella donna, gli abiti firmati. Vivono due realtà distanti chilometri nello spazio e nella società di classe, eppure sono tutti e due coinvolti negli stessi desideri e nella stessa ipocrisia. Al centro storico di Catania, a San Cristoforo -in quello che è stato definito dagli inquirenti “il supermarket della droga” (fino a trentamila euro al giorno di guadagni con lo spaccio, quantificato in seicento-ottocento dosi giornaliere)- un fiume di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina e marijuana, dà “lavoro” ad una massa incalcolabile di persone. Questo il dato economico-criminale: sul versante “politico” le cose sono in movimento. Sembra che il gruppo Bonaccorsi abbia tentato o stia tentando, con l’ausilio della cosca di riferimento dei Cappello, di cui rappresenta la frangia più violenta, la scalata. Che significa scalzare la “famiglia” Santapaola-Ercolano. All’ “aristocrazia” di Cosa Nostra competono ancora gli affari, gli appalti, i rapporti politico-mafiosi: dietro, cercano di farsi strada i Bonaccorsi.


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I "Carateddi", nel 2009, sotto la guida di Sebastiano Lo Giudice, ora detenuto sottoposto al 41 bis, cugino di Salvatore Bonaccorsi, che aveva stretto alleanza con i Lo Piccolo di Palermo, sono stati condotti allo scontro con il clan Santapaola-Ercolano, nell’intento di estromettere quest’ultima cosca da Cosa Nostra catanese. Di fatto, l’egemonia di Santapaola è stata oggetto di attacchi da tempo, in particolare dai "palermitani", ma – per adesso- non c’è stato il "cambio di comando" tentato. Per il momento. Intanto, lo scontro quotidiano con la polizia e la magistratura prosegue. Prima di ferragosto c’è stato l’ennesimo blitz in piazza Campo Trincerato, una zona “loro” , area dei Bonaccorsi. Strade, cemento ed omertà. Sei arresti in un monovano, per fatti di armi e droga. Poi in carcere sono rimasti solo in tre. Così ha deciso, il 13 agosto scorso, il Gip Marina Rizza in merito al blitz della "mobile" di Catania, per il quale sono state tratte in arresto, nel pomeriggio del 10 agosto scorso, sei persone. Tra di esse quello che è ritenuto l’attuale reggente della cosca dei "Carateddi" Salvatore Bonaccorsi, 24 anni, figlio di Concetto, ergastolano, al 41bis, ritenuto esponente apicale della frangia del clan Cappello che fa riferimento alla sua "famiglia". Al collo Salvatore Bonaccorsi porta una catena d’oro, con un ciondolo che contiene la foto di suo zio Massimiliano “Mimmu Carateddu” ucciso dai Mazzei, il 23 gennaio 1997, in una sala da barba a San Cristoforo. Un’esecuzione con numerosi colpi di pistola per un “capo”, una persona a distanza di tempo da ricordare, giorno dopo giorno. Legami d’affetto e di sangue. Per Salvatore Bonaccorsi sussistono – a giudizio del gip- gravi indizi con riguardo alla detenzione delle armi, con esclusione però dell’aggravante di aver favorito la cosca mafiosa, mentre analogo quadro indiziario non può ravvisarsi per gli altri indagati. Nell’abitazione -che è risultata essere in uso all’indagata Antonella Pasqualina Micci- all’interno della quale gli agenti della "mobile" hanno tro-

vato riuniti Bonaccorsi, Giovanni Crisafulli, Giuseppe Chiesa, Maurizio Bonsignore e Rosario Rosignoli (Crisafulli, fra l’altro, è figlio di Francesco condannato nell’operazione contro il clan Cappello "Revenge") sono state rinvenute – occultate sotto il mobile della cucina adibita a lavabo- due pistole con matricola abrasa: una Beretta "Tomcat" calibro 7,65 con colpo in canna e caricatore pieno ed un revolver "Magnum Ruger Sp" calibro 357 con tamburo fornito di cinque cartucce. I poliziotti hanno potuto accertare che le due pistole erano in perfette condizioni. Di qui l’accusa di detenzione di armi e ricettazione delle stesse. Cosa hanno detto i protagonisti della vicenda? Bonaccorsi ha affermato di avere comprato le armi in sequestro qualche minuto prima di fare ingresso nella casa della Micci. Secondo la sua versione, avrebbe chiesto alla donna di poter attendere in quel posto Giovanni Crisafulli, che avrebbe dovuto incontrare per recarsi con lui al mare, evitando così il rischio di essere colto in possesso delle armi dalle forze dell’ordine. Armi di cui –a detta di Bonaccorsinessuno dei coindagati, che lui aveva invitato ad entrare per scambiare qualche parola, aveva la consapevolezza che lui detenesse e che erano saltate fuori allo bussare alla porta dei poliziotti, in un tentativo occultamento –risultato vano- sotto il mobile della cucina. Crisafulli, però, ha dichiarato che lui al mare c’era già andato: era di ritorno quando Bonaccorsi, affacciato alla finestra della casa, lo aveva invitato a raggiungerlo. Lì aveva trovato già presenti Bonsignore, Rosignoli e Chiesa. Ma a cosa serviva questa riunione? Secondo il Gip era stata organizzata per finalità illecite; nello stesso tempo non si può affermare, sulla scorta dei riscontri investigativi a disposizione del Gip, che la riunione fosse stata organizzata nel contesto associativo mafioso del clan "Cappello" per "discutere di strategie criminali ed associative" come sostenuto dal Pm della Procura della Repubblica Antonino Fanara.

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Una "fonte confidenziale" aveva "soffiato" alla polizia la notizia di un "summit" tra esponenti di "di spicco" del clan: ma i legami di parentela, le condanne riportate in particolare per Rosignoli, condannato dieci anni fa per 416 bis, non sono sufficienti per pervenire alle conclusioni degli investigatori, ovvero della "mafiosità" degli indagati e alla loro partecipazione al clan "Cappello". Custodia cautelare anche per Rosario Rosignoli, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. (Pubblica Sicurezza) con obbligo di soggiorno per tre anni a partire dal 15.10.2010. L’uomo è accusato di aver violato questo obbligo. Rosignoli ha ammesso nel corso dell’interrogatorio di essere solito frequentare Maurizio Bonsignore, con il quale era andato nella casa della Micci per incontrare gli altri indagati. Rosignoli è stato già condannato, con sentenza passata in giudicato, per associazione mafiosa e per numerosi reati contro il patrimonio commessi in concorso con altri: si tratta, secondo il Gip, di soggetto inserito nell’ambito della criminalità operante nel territorio di appartenenza e che è a conoscenza di fatti e personaggi di questo tipo di ambiente. Per Antonella Pasqualina Micci (incensurata), invece, il Gip ravvisa gravi indizi di colpevolezza per il delitto di detenzione illecita di sostanza stupefacente. Respinte, come per Rosignoli, altre ipotesi d’accusa. Nell’abitazione in uso alla donna, infatti, nel corso della perquisizione gli agenti hanno trovato –custodita in due involucri in cellophane ed in un barattolino in plastica, all’interno di un borsellino in pelle- 21,5 grammi di marijuana. Alla fine, quindi, misura cautelare in carcere per Bonaccorsi, Rosignoli e Micci: misura, invece, respinta per Crisafulli, Chiesa e Bonsignore, scarcerati. Questo il quadro giudiziario, per il momento. Ma gli ultimi eventi criminali, a Catania, con altri arresti e presunti piani d’omicidio lasciano intravedere orizzonti piuttosto foschi. Qualcuno azzarda: è alle viste una nuova guerra di mafia?


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NOME IN CODICE “ULISSE”

“Te ne devi andare da qua!” di Graziella Proto Nome in codice Ulisse. Come l'eroe greco, ha vagato. Ha coraggio da vendere. Determinazione. Saggezza. Idee chiare. Paure. Storia di un testimone di giustizia. Due coniugi assistono ad un omicidio, decidono di denunciare e si ritrovano nemici acerrimi della camorra in prima persona. Un fatto di civiltà, trasformato in una questione personale. Lacune, mancanze, disattenzioni. Legislative, di assistenza e di personale specializzato

"Te ne devi andare da qua" gli spiegarono le autorità, coloro che in quel momento rappresentavano lo stato." E' per la vostra sicurezza- aggiunse qualcuno - hai un'arma?". Strano, non ci aveva mai pensato, e poi, per difendersi da chi? Da cosa? Non ci pensava nemmeno in quel momento ad averne una, ma pochi giorni dopo era già al poligono di tiro per imparare ad usare la pistola che gli avevano prestato. Poco tempo dopo senza capire il perché, li accompagnano in un albergo, Ulisse, sua moglie i due figli. "Sono persone mie" dice il carabiniere all'accettazione e tutta la famiglia entra senza mostrare documenti. Quattro in una stanza. Un albergo elegante, costoso, che lo Stato paga ancora meglio. Tutto ok ? No."Eravamo guardati in modo strano racconta Ulisse - non so spiegare se bene o male, era uno sguardo strano…". Capirà in seguito il perché. Si trattava di uno degli alberghi che lo Stato utilizza per nascondere i collaboratori di giustizia prima di trovargli una sistemazione definitiva. "Ma, io non sono un collaboratore spiega con insistenza e con ironia allo stesso tempo". Una parlata e un modo di fare simpatico e solare. Mai da vittima - " perché so di avere agito nel giusto…sai una cosa? - aggiunge e ride - nonostante tutto, lo rifarei. Non sono pazzo, lo-ri-fare- i ". Non è un collaboratore, ma assieme alla sua famiglia lo portano fra i collaboratori. Non solo, ad un certo punto l'uffi-

cio di riferimento gli presenta dei documenti da firmare sui quali, al primo punto, l'impegno a non commettere più reati. Reati? Ma sono lì, in quella situazione proprio per il contrario, lui e sua moglie hanno denunciato un reato, Quelli che gli sottopongono, sono i moduli utilizzati per i pentiti e per i collaboratori. Il nostro Ulisse si ribella, non ci sta, alza la voce, batte i pugni sul tavolo, "o firmi o te ne torni a casa tua" gli dice qualcuno e tutto finisce lì. Casa sua, quanto gli mancava! Per un attimo si ferma e pensa a quello che sta vivendo: Ha perso la casa, il lavoro, gli affetti. I figli da proteggere per garantirgli una vita normale. La moglie che sì ammalata di depressione " era una donna solare, adesso…l'ansia la distrugge". "O firmi o torni a casa tua". Ci si chiede, ma a chi è affidato l'ufficio che gestisce i testimoni di giustizia? Quale professionalità? Quale formazione? Quali regole per un cittadino libero che decide di testimoniare un reato? *** Era il quindici ottobre del 1990. Una coppia, Ulisse e la moglie, con la propria auto sta percorrendo la tangenziale est di Napoli. Parlano del più e del meno, quando all'improvviso davanti ai loro occhi una scena agghiacciante. Un giovane uomo con una testa strana, metà pelata e metà gialla, con una pistola in mano insegue un ragazzo che tentava si scappare. E' bastato un attimo per capire e cosa fare. Con lucidità Ulisse fa retromarcia, ma

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non serve a nulla. Nello specchietto vede l'assassino che freddamente spara in testa al ragazzo. Prima di lui aveva già ucciso un altro, il fratello. La coppia trova normale recarsi dai carabinieri per fare la loro denuncia. Sono due persone consapevoli, credono nella giustizia, non si pongono alcuna domanda, nessun interrogativo. denunciano. Raccontano, riferiscono, descrivono. Non capiscono perché li costringono a ripetere via via che arrivano marescialli, commissari…Tutti soddisfatti per ciò che udivano. I nostri, non si rendono conto del gran favore che hanno fatto alle forze dell'ordine con la loro denuncia, perché l'assassino è un noto camorrista sul quale non si riusciva a trovare uno straccio di prova. L'omicidio dei due fratelli Giugliano raccontato da Ulisse e signora è un affare grosso per le forze dell'ordine. Sarà una grand'operazione giudiziaria. I testimoni? Non avranno più una loro vita, vivranno in località segreta, perderanno lavoro, affetti e proprietà. I loro figli si dovranno abituare a vivere nella menzogna, in condizioni di vita diverse, "non mi sento una vittima, so che dovevo farlo, lo rifarei…a distanza d'anni, quando ne parlo con i miei figli, ho la conferma che dovevo farlo…per favore - aggiunge Ulisse con quel suo accento e filosofia tutta napoletana - deve essere chiaro che non sono un eroe, sono solo un testimone che vorrebbe regole più chiare . Più tutele per chi decide di testimoniare senza aver mai commesso alcun reato"


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Libia: il vento del cambiamento di Farid Adly “Non è stata una avventura o una fuga in avanti; i nostri ragazzi ci hanno regalato la libertà”, sostiene un papà fiero di questa generazione, dopo la liberazione di Bengasi.“La mia scelta è netta, non voglio più vivere nella paura. I miei amici tunisini e egiziani ce l’hanno fatta e non posso essere solidale con loro sulle pagine Internet e poi, quando arriva il mio turno, mi tiro indietro”, ha scritto un ragazzo di 15 anni. Giovani rivoluzionari che si battono per una libertà mai conosciuta, che sfidano a petto nudo contro le mitragliatrici anticarro. Migliaia di persone che in piazza cantano l'inno alla libertà. Come sarà la nuova Libia? Sicuramente libera e progressista Le Primavere arabe hanno cambiato il volto del Mediterraneo e gli assetti degli scontri geopolitici tra le potenze industriali, con l'affacciarsi prepotente dei 5 del BRICS. Sono processi di massa, fino al giorno prima inimmaginabili e hanno già cacciato tre tiranni (il tunisino Ben Alì, l'egiziano Mubarak e il libico Gheddafi) e stanno terremotando altri due (Assad e Abdalla). Questi movimenti hanno avuto diversi sviluppi a causa delle differenze strutturali degli Stati e per il diverso grado di sviluppo economico. In Tunisia e Egitto c'erano delle Costituzioni, con una separazione dei poteri (simbolico, ma c'era) e con multipartitismo di facciata (ma partiti e sindacati c'erano) e un certo margine, molto limitato, di libertà di stampa. In questi due paesi, l'esercito, unico potere realmente organizzato a livello nazionale, è intervenuto per impedire la carneficina ed ha costretto i due presidenti a fuggire (Ben Alì) o a dimettersi (Mubarak). Questo non è stato possibile in Libia. Principalemte per la mancanza di una Costituzione e di uno Stato di diritto. Per 42 anni la Libia è stata governata da una famiglia, quella dei Gheddafi, con un potere assoluto e controllo totale su risorse, ricchezze, economia, finanza e forze di sicurezza. L'Esercito era di fato svuotato di ogni reale consistenza e le forze di sicurezza erano controllate da tre dei figli del colonnello. La corruzione e la compravendita delle coscienze sono

state le basi del regime che gli hanno garantito longevità. Per 42 anni il paese era stato privato dei partiti, dei sindacati e di ogni altra forma organizzata della società civile. Molte posizioni e riflessioni, avanzate da più parti, sulla crisi libica sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica nel suo contesto storico. Le paure sul futuro delle convivenze nel Mediterraneo, sul pericolo fondamentalista e le paure che un intervento occidentale coprirebbe in realtà mire espansionistiche per mettere mano sul petrolio libico avrebbero fatto parte di un dibattito avanzato e profondo su dubbi e zone d'ombra, se non ci fosse stata in corso una tragedia di un popolo che veniva ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e nelle piazze d'affari del mondo industrializzato. Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile come sostengono alcuni analisti; è una resistenza popolare contro un tiranno, la sua famiglia, i suoi miliziani e mercenari. Lo si è visto in tutte le città liberate, quando il potere tirannico è svanito, si sono liberate energie enormi e in piazza sono scesi milioni di persone per gridare l'inno alla libertà. Questa esplosione di gioia si è espressa anche nella creatività di massa, dagli slogans alle canzoni di lotta. Quella libica è perfettamente paragonabile alla resistenza italiana contro il regime mussoliniano e

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l'occupazione nazi-fascista. La nuova Libia che nascerà dalle ceneri degli incendi e delle uccisioni di civili, operate dai mercenari di Gheddafi, sarà un paese di giovani e sono stati proprio i giovani i veri protagonisti del cambiamento. Sono ragazzi giovanissimi cresciuti sotto la dittatura e non hanno avuto altre esperienze politiche, ma hanno respirato un clima di libertà nella rete. La censura del regime sulla stampa e la repressione delle libertà d'espressione e di organizzazione hanno creato un vuoto di azione politica, che il vasto mondo di Internet ha colmato. Conoscere il mondo esterno, avere informazioni immediate su ciò che succede in tutto il pianeta, compresa la stessa Libia, comunicare e scambiare opinioni con i loro coetanei ha permesso alle nuove generazioni di crescere interiormente e apprendere nuovi strumenti di protesta per cambiare le condizioni di vita subìte. Il ricorso a chiedere l'intervento internazionale è stato l'unica via d'uscita, per mancanza di una struttura organizzata per resistere alla minacciata carneficina. Dopo sei mesi di lotta anche la capitale Tripoli è stata liberata, con il minimo di spargimento di sangue. Il tiranno è nascosto da qualche parte, i suoi figli o sono stati uccisi, sono fuggiti all'estero (in Algeria) oppure sono assediati alla testa degli ultimi fedeli, a Sirte e Bani Walid, le ultime due roccaforti delle milizie del regime.


CATANIA/ GUERRA DI MAFIA?

Ma cos’è successo nel paese, quale la molla di questa rivolta? E’ la disoccupazione, l’allargamento della forbici tra i pochi ricchi e la maggioranza di poveri. “Ci aveva rubato il futuro”, ha scritto un ragazzo in un post su un network sociale. La ricchezza del paese era nelle mani dei figli di Gheddafi, che la sperperavano come volevano, a pieni mani. I loro scandali hanno riempito la cronaca dei giornali di tutto il mondo. Ci hanno reso, come libici, la barzelletta di tutta la gioventù araba. E noi qua a morire di noia, senza lavoro dignitoso, che corrisponda al livello dei nostri studi”. La Libia è un paese ricco ma i libici sono poveri. I dati forniti dalla Banca centrale libica parlano chiaro: il 30% dei giovani in età lavorativa sono disoccupati o inoccupati; il 20% della popolazione è sotto la soglia della povertà. Dati inaspettati, per un paese con soli 6 milioni di abitanti e con risorse petrolifere e gas senza uguali in tutta l’Africa. Questi giovani sono nati e hanno vissuto sotto questo regime e non hanno visto altre esperienze, ma le loro aspirazioni vanno al di là dei confini del paese. Guardano all’Europa e all’America, perché le nuove tecnologie hanno abbattuto gli stretti confini nei quali loro erano rilegati. In Internet hanno respirato la libertà che il loro paese non ha garantito; senza giornali indipendenti come era e con una televisione di Stato noiosa e sen-

za spessore culturale, il mondo virtuale ha aperto nuovi orizzonti. Ma i protagonista di questa rivoluzione non sono soltanto i giovani. E’ la società civile libica, per tanti anni repressa che si è svegliata: avvocati, giudici, professionisti e commercianti, lavoratori e impiegati, che hanno abbassato la testa per lungo tempo, hanno detto basta alle angherie del dittatore. Si parla di timore dal vuoto di potere. Non è così, perché il potere alternativo è già in piena funzione in tutte le città liberate. Nei tribunali cittadini, unici luoghi del potere non corrotto del paese, si sono formati comitati provvisori di salute pubblica per la gestione della vita amministrativa delle città. Sono strutture volontarie che hanno sopperito a tutte le mancanze passate del potere. Le condizioni materiali che hanno portato alla Primavera libica hanno il germe dei cambiamenti sociali e saranno le stesse esperienze dei giovani e della popolazione libica a determinare il nuovo cammino in senso progressista. Prima dell'affermarsi di un'idea e pratica di sinistra ci vorranno una serie di cambiamenti strutturali nella stessa società libica, a partire dalle condizioni di vita e di cittadinanza dei milioni di lavoratori stranieri residenti nel paese (circa il 25% della popolazione). Quello che nascerà dalle ceneri di Gheddafi sarà un paese guidato da movi-

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menti popolari di carattere patriotticoprogressista. Di certo non avrà una politica economica socialista, ma gli elementi progressisiti saranno sicurament prevalenti. La società libica è una società fortemente impregnata del sentimento religioso di fede musulmana, ma l'estremismo islamista non ha mai avuto seguito di massa. Altri timori avanzati riguardano la rapina delle risorse del paese da parte delle potenze che hanno partecipato alla missione. Su questo non c'è dubbio, le potenze occidentali hanno già presentato il conto e il viaggio di Sarkozi e Cameron a Tripoli sono lì a dimostrarlo. Ma questo è messo nel conto. Le poteze occidentali avevano già in mano il petrolio e gas libici. Casomai il cambiamento sarà nella misura della ridistribuzione delle fette di sfruttamento. E sicuramente in questo caso, l'Italia sarà quella che pagherà il prezzo più alto a causa delle politiche irresposnabili del governo, che ha dovuto fare capriole sorprendenti per riaggiustare il tiro, senza una politica strategica, ma seguendo soltanto la cronaca degli eventi e preoccupandosi di mettere a bada le contraddizioni interni allo stesso governo con la lega Nord, sulla questione immigrati. E un altro occhio alle decisioni prese a Washington.


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Cronachette

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di AMALIA BRUNO


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PUNTO FINAL

Telejato, i Siciliani e un appello al Presidente di Riccardo Orioles Che cosa dobbiamo aspettare ancora? L'attacco a Telejato (il doppio attacco, quello della mafia mafiosa e quello del governo) non è certo il primo, né tocca solo Telejato. E' trent'anni – per quanto mi riguarda – che facciamo giornali. Ed è trent'anni che ce li strozzano, in un modo o nell'altro, e ci lasciano in mezzo alla strada. Questa di Telejato è solo l'ultima volta. Può darsi che stavolta ci sia più fortuna. Può darsi che il governo che ora sta chiudendo Telejato l'anno prossimo non ci sia più, e che quello che verrà dopo di lui sia un po' più civile. Va bene: intanto, dai candidati a questo futuro governo vorremmo saere che cosa faranno, allora, per Telejato, e lo vorremmo sapere ora. Ma non è questo il punto. Il punto è che non passiamo più andare avanti così, con loro che ogni tanto ci danno una sberla, noi che protestiamo indignati, e a volte riusciamo a rialzarci e a volte restiamo lì per terra. Il punto è che siamo troppo piccoli per questo mondo. E invece dovremmo essere grandi e grossi, e restituirgli ogni volta la sberla con gli interessi. La cosa buffa è che in realtà, tutti insieme, grandi e grossi lo saremmo. Abbiamo i migliori giornalisti della Sicilia, i migliori autori video, i migliori fotografi, i migliori disegnatori e anche, non spesso ma abbastanza spesso, i migliori attivisti. Eppure restiamo qua a prender le botte. Il problema è in quella parola “insieme”. Noi non l'abbiamo ancora capita, quella parola. Una volta c'era l'”insieme” dei cosiddetti communisti, quaggiù in Sicilia, del

partito dei contadini che insieme dovevano stare per forza. Ma non c'è più da secoli. E da allora l'”insieme” si è perduto. Io sono vecchio oramai, non ce la faccio più a aspettare. L'articolo che sto scrivendo, è un articolo sbagliato. Perché è su un giornale piccolo, che leggeranno in pochi. Invece potrebbe essere su un giornale grossissimo (non quelli dei padroni: a me di Repubblica e Corriere non me ne frega niente) e allora sì che farebbe veramente danno. Oggigiorno, con internet, non ci vogliono miliardi per fare un giornale così. Basta mettersi “insieme”. Ai tempi di Peppino noi compagni eravamo arrivati prima di tutti, a fare le radio private e altre cose moderne come quelle. Ma non eravamo “insieme”. Così Peppino (che era solo) l'hanno ammazzato e poi le emittenti private se le sono fatte loro a modo loro e per i loro interessi, e così alla fine è arrivato Berlusconi. Ma anche stavolta deve finire così? Io dico di no. Per questo, con altri amici, sto rifacendo di nuovo i Siciliani. Un “insieme” visibile da lontano, buono per tutti noi antimafiosi, in cui ci possono starci dentro tutti. A cominciare da Telejato. Allora, solidarietà per Telejato, difendiamola. Ma anche, costruiamo “insieme” una cosa più grossa. Senza la quale, anche Telejato, Casablanca, Ucuntu e tutto il resto non possono resistere a lungo, è solo questione di tempo. Ecco, la storia è questa. La stanno capendo i giovani, i vecchi – come al solito – no.

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Poscritto (E Lei, signor Presidente? Caro Napolitano, Maniaci e i suoi lavorano per il Suo Paese e rischiano ogni giorno la pelle. La meritano una medaglia? O almeno un piccolo aiuto, tanto per continuare ad aiutarLa? O medaglie e belle parole arrivano solo dopo il funerale, come per Falcone, Fava e tutti gli altri? Io ci farei un pensierino, sarei anche disposto a firmarLe - se ne ha bisogno – un appello, e credo che come me lo farebbero molti altri intellettuali, siciliani e non, e giornalisti)

LA MAFIA CONTRO TELEJATO Le ennesime minacce a Pino Maniaci e il "viva la mafia" che le accompagna dimostrano la disperazione dei mafiosi, ormai incalzati dappresso nello stesso paese di Partinico, e la vittoria della famiglia Maniaci - non solo Pino - che con straordinario coraggio e bravura ha saputo impostare una battaglia giornalistica e civile che ha smascherato i potenti mafiosi e li ha reso ridicoli davanti a tutti. Nè le minacce nè le botte nè le calunnie dei collaborazionisti hanno potuto fermare un momento l'allegro e responsabile coraggio di questa famigliola di siciliani con le palle. Siamo onorati di averli con noi in prima fila nella ricostruzione de "I Siciliani" e in tutte le battaglie di civiltà e libertà della Sicilia onesta. R.O.


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Il 28 settembre a Trapani riprende il processo agli assassini di Mauro Rostagno. Dopo 23 anni e tanti depistaggi, dopo un'umiliante carcerazione della moglie di Mauro, dopo diecimila firme raccolte a Trapani per chiedere l'apertura, finalmente il 2 febbraio Vito Mazara e Vincenzo Vigra sono stati chiamati rispondere dei loro reati. Ma il processo non è solo a loro due. Il processo dovrà chiarire i contorni oscuri in cui è maturato l'omicidio. Alla sbarra ci sono anche la cosca trapanese di Messina Denaro, la connivenza mafiapolitica, la massoneria trapanese, il traffico di droga, quello delle armi, gli appalti pubblici. Vito Mazara e Vincenzo Vigra sono gli estremi di una penisola che si insinua dentro il mare. Come Trapani. Come per Peppino Impastato e Giuseppe Fava, le indagini si sono subito dirette contro i familiari, gli amici, i compagni, Lotta Continua. I carabinieri con le loro veline hanno condizionato giornali e giornalisti (anche di sinistra), che hanno sposato le tesi dei Cc, hanno taciuto sul trasferimento del poliziotto che sosteneva la pista di mafia: per poi versare lacrime di coccodrillo quando la pista mafiosa è apparsa indiscutibile. Mafia al servizio della politica, politica al servizio della mafia: come ai tempi di Peppino e Pippo. Ma ancor oggi questi giornalisti “di sinistra”, in pieno processo, sempre battendosi il petto e versando lacrime di coccodrilo, adombrano la vecchia tesi di “coinvolgimenti esterni alla mafia”. E ora c'è unaltro giornalista minacciato dai mafiosi, Pino Maniaci di Telejato, tv nel comprensorio di Carini. Non lascamolo solo. Solo così impediremo la morte di un altro giornalista. Lo raccomandiamo all'Ordine dei Giornalisti e al Sindacato dei Giornalisti siciliani, che si è costituito parte civile al processo contro gli assassini di Mauro Rostagno. Lillo Venezia

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a cura di Lillo Venezia


CIAO MAURO

Rostagno contro i “40 ladroni” di Giorgio Zacco

L'Associazione Ciao Mauro apre tutte le sue iniziative con un video in cui sono state messi insieme i “pezzi” più significativi dell'attività giornalistica di Mauro. Quando Mauro esce fuori dal ruolo di giornalista e abbraccia Saveria Antiochia, la mamma di un poliziotto ucciso dalla mafia, alla fine di una intervista. Quando partecipa emotivamente al dramma di Giuseppina Ilardi mamma di un ragazzo tossicodipendente molto legato a lui; quando si oppone alle affermazioni del potente deputato socialista Bartolo Pellegrino e quando prende in giro i boss democristiani Ciccio Canino e Salvatore Rondello. Per Mauro il consiglio comunale di Trapani era “palazzo D'Alì e i 40 ladroni”. Altre volte filmava Mariano Agate -boss mafioso di Mazara del Vallodurante il processo che lo vedeva imputato, registrando le sue espressioni di uomo comune, demistificando tutto il suo potere. Altre volte andava ad un congresso democristiano e filmava i partecipanti nel momento del pranzo, mentre s'ingozzavano voracemente, sbrodolando sughi dalla bocca.Mauro parlava di cose di cui, più o meno, parlavano anche altri giornalisti (allora la stampa era diversa da oggi). Ma era il modo in cui lo faceva, a fare la differenza. Era un modo irriverente, musicale e non auto-referenziale, che metteva le persone al centro della notizia. Trattava le notizie in modo originale e tutti gli argomenti erano trattati con lo stesso rilievo, perché erano determinanti per la vita della persone che ascoltavano la televisione: l'acqua che mancava nelle case e la “munnizza” nelle strade, erano importanti come un fatto di cronaca, un processo ai mafiosi o una notizia politica. Tutte le notizie erano trattate in modo inusuale. La leggerezza e l'ironia dei suoi interventi televisivi mettevano a nudo i mafiosi, i potenti e le loro malefatte. Questo è stato Mauro per i trapanesi: uno tsunami sotto un cielo plumbeo di conformismo e rassegnazione, che con la sua onda lunga incitava i trapanesi a guardarsi intorno e a diventare protagonisti del loro futuro.

Mafia e politica uccidono così

Tutto ciò era intollerabile per il potere politico-mafioso locale, e per questo Mauro doveva essere eliminato. Tutti i trapanesi n'erano consapevoli, e quando è accaduto, erano certamente sconvolti, ma non sorpresi. Tutti i ragazzi di allora sono cresciuti sentendo dire a casa dai genitori: “A questo prima o poi l’ammazzano”. I ragazzi di allora hanno raccontato questa vicenda ai figli e questi a loro volta, la stanno raccontando ai nipoti, srotolando i fili della memoria tra le generazioni. Mauro è stato vissuto da tutti i trapanesi come un eroe laico positivo, un amico, un familiare con cui si è trascorso un pezzetto di vita, una persona da ricordare con tenerezza ed ammirazione, per il suo rigore etico e per la sua pulizia morale. La partecipazione della città ai funerali è stata enorme. Negli anni immediatamente successivi al suo omicidio, è stato ricordato con manifestazioni del Partito Comunista, della comunità Saman e da un'associazione di giovani studenti, il Circolo 26 settembre. Una decina d'anni fa alcune associazioni tornavano a ricordare Mauro mettendo in scena la Trapani migliore, quella del volontariato, quella dei ragazzi che facevano musica, teatro, danza, quelli che facevano le cose per il piacere di farle, con amore e spontaneità. La Trapani, insomma, che sarebbe piaciuta a Mauro e a cui Mauro piaceva. Da quest'attività nasceva l'Associazione Ciao Mauro. Nel frattempo sul fronte delle indagini imperava il più completo immobili-

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smo. All'inizio non fu messa in campo alcun'attività investigativa di un qualche rilievo. Errori, cialtronerie e depistaggi hanno caratterizzato i primi anni d'indagini solo apparenti affidate ai carabinieri, con il procuratore Coci che diceva che a Trapani la mafia non esisteva, mentre “a trapani avevamo i cani attaccati”, come poi hanno spiegato diversi pentiti. Fu negata la pista mafiosa, molto seguita dal Commissario di P.S. Rino Germanà che fu esautorato dalle indagini, a favore un'improbabile “pista economica ed interna”, che non aveva alcun fondamento. Poi dopo circa otto anni, con il procuratore Garofalo, si fece l'attività investigativa che non era fatta sino ad allora, ma, seguendo la cosiddetta “pista interna”, con l'arresto di Chicca e di altri della comunità. Una pista, che, alla prova dei fatti, risultò inconsistente e cialtrona. Poi la competenza delle indagini passò alla Procura Antimafia, quando alcuni collaboratori di giustizia -interrogati anche sull'omicidio di Mauro- lo attribuirono alla mafia trapanese. Ma, per altri dieci anni circa non è stata svolta un'attività investigativa particolarmente intensa, limitandosi a registrare qualche altra dichiarazione di collaboratori di giustizia e al balletto semestrale della chiusura delle indagini, respinte con motivazioni improbabili, fidando delle opposizioni dei familiari. Ad un certo punto, mentre era in pieno svolgimento il Ciao Mauro del 2007, il capo della Squadra Mobile di Trapani -Dott. Linares- nel corso di un'intervista ad una tv locale ebbe a dire sostanzialmente che le indagini sull'omicidio di Mauro si potevano fare se lo si voleva. Noi, ascoltando questa affermazione, eravamo stupiti e arrabbiati. Sapevamo che Mauro era tanto amato dai trapanesi e ci rendevamo conto che era necessario fare qualcosa; l'idea che per risolvere il caso bastava un po' di volontà e un po' di soldi (un centimetro di autostrada?) ci chiamava ad una grande responsabilità a cui non eravamo, francamente, attrezzati.


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Frettolosamente, nell'arco della notte che precedeva il Ciao Mauro, decidiamo di lanciare da quel palco una raccolta di firme su un appello alle istituzioni. Era un atto volontaristico e piuttosto avventato -chi avrebbe raccolto le firme? Chi ci avrebbe sostenuto economicamente?-, sicuramente esprimeva il comune sentire della comunità trapanese. Registravamo invece l'adesione entusiastica della società responsabile di Trapani, di Libera, della CGIL, delle associazioni del territorio, di gran parte del mondo sportivo (volley e nuoto con il basket in testa, che a Trapani è una realtà che sfiora la 1a serie), dello scautismo, degli ordini professionali, dell'università e delle amministrazioni comunali. Così partiva la raccolta di firme con l'obbiettivo di raccoglierne 5.000, subito doppiato in 10.000, di cui ben 7.500 circa nel circondario di Trapani. Non dimenticheremo mai che quando annunciavamo che avremmo raccolto le firme in una certa piazza della città -dalle 17 alle 19-, ma arrivavamo tardi (perché siamo esseri umani gravati dalle difficoltà della vita d'ogni giorno) e trovavamo decine di persone ad attenderci per firmare, che ci rimproveravano bonariamente, mentre piovigginava, mentre tirava forte il maestrale e stare in mezzo la strada non era certamente piacevole. Non dimenticheremo mai il modo con cui le persone venivano a firmare “per Mauro”, senza neanche leggere l'appello, per “la riapertura delle indagini”, consegnandoci con facilità il proprio documento, che noi chiedevamo per dare più pesantezza alla firma. Come dimenticare la signora con due bambini al seguito e uno in braccio, a cui ho chiesto “Signora dove abita?” e mi rispondeva “in via Mauro Rostagno e ne sono fiera”. La raccolta di firme è servita a confermare, se ce ne fosse stato bisogno per noi trapanesi, questa semplice verità condivisa da tutta la comunità: Mauro è stato un cittadino trapanese amato dalla sua comunità ed è stato ucciso dalla mafia. Tutto quello che è successo o di cui si è parlato (pista interna, moglie fedigrafa,

omicidio Calabresi ed altro) non ha mai oscurato l'immagine che i cittadini trapanesi hanno di Mauro e la certezza granitica che fosse stato ucciso in ragione della sua attività giornalistica. Noi certamente non sappiamo se l'omicidio sia stato determinato da un fatto preciso, da una causa scatenante, ma siamo certi che la fiducia nella possibilità di un cambiamento possibile che Mauro stava seminando, dava fastidio a lor signori, e che questo è bastato per deciderne l'eliminazione.Adesso grazie al processo cominciamo a capire che le cause scatenanti c'erano eccome. Tutto ciò, sta diventando certezza, il processo lo svelerà in modo chiaro. Tutto questo è stato possibile perché, sotto la spinta delle nostre firme, i faldoni dell'inchiesta sono usciti dai sottoscala della procura antimafia e sono stati consegnati alla Squadra Mobile di Trapani. E' bastato, guardare le carte con la necessaria attenzione, per scoprire che non erano state fatte le indagini balistiche (con i moderni sistemi che nel 1988 non erano ancora in uso), grazie alle quali l'omicidio è stato attribuito alla mafia trapanese. Così siamo arrivati al processo. Finalmente. Con buona pace del killer, il quale in un'intercettazione ambientale si lamenta dell'intervento della pubblica opinione, la quale spinge - dice- su una storia vecchia e dimenticata. Già vecchia e dimenticata! Noi l'abbiamo fatta ricordare! Per questo abbiamo ringraziato pubblicamente il killer, perché ci ha spiegato l'importanza di ciò che abbiamo fatto. Adesso è sul processo che dobbiamo vigilare. Ecco perché abbiamo fatto una campagna affinché l'intera comunità fosse costituita come parte civile, ottenendo, peraltro, anche in questo caso un gran successo. Regione, Provincia, Comuni e Associazioni sono dentro il processo. Ecco perché, abbiamo organizzato una grande “passeggiata” per accompagnare in aula Maddalena alla prima udienza. Forse questo processo non ci darà una verità processuale. Certamente potrà dar-

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ci una verità storica e politica, molto più utile per i cittadini tutti e per chi ha in animo di cambiare lo stato delle cose e di coltivare la memoria per ricostruire il senso di una comunità. Infine questa è la semplice verità di questa storia. Se, i cittadini riescono ad esprimere il loro sdegno e la voglia di verità, i risultati arrivano perché il potere è costretto a fare ciò che i cittadini vogliono che si faccia. Anche la faccenda della stele per Mauro, posta sul luogo dell'omicidio, va vista in quest'ottica. Su quel pezzo di marmo orribile, sono scritte in modo indelebile, accanto al nome di Mauro, tre parole chiave: “Vittima di mafia”, vocaboli che racconteranno alle generazioni future una verità che rappresenta il comune sentire della nostra comunità e che il potere è stato costretto a scrivere. L'unica nostra amarezza è che fuori di Trapani di questo processo si parla poco. Sembra una storia confinata alla cronaca locale. Neanche i giornali più vicini al “sentire” politico di Mauro, ne parlano diffusamente. Per lo più sono utilizzate le notizie d'agenzia, con commenti brevi, scontati e poco approfonditi. Qualche eccezione è subordinata alla sensibilità personale di alcuni giornalisti. Noi pensiamo che questo processo debba servire a restituire l'onore a Mauro, ai suoi familiari ed amici. A Lotta Continua. Ma pensiamo che debba servire sopratutto ad aiutare una comunità periferica e marginale, come quella trapanese, a ricostruire i fili della memoria!, e ad acquisire il capitale sociale necessario per compiere il percorso di liberazione dalla mafia e dalla criminalità economica. Trapani periferica e marginale, solo geograficamente, in relazione all'Italia e al resto d'Europa, ben sapendo quanto essa è centrale invece rispetto al Mediterraneo e alla presenza sul suo territorio del nocciolo duro e storico di Cosa Nostra, che da qui pervade e inquina tutta l'Italia e parte dell'Europa. Ecco perché questa è una battaglia politica importante, ci porta dritta al cuore del potere.


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“Suonava da dio

L'hanno ucciso i padroni” di Giuseppe Barbera Ricordo di Mauro Rostagno a Palermo Evidentemente i dirigenti di Lotta Continua avevano deciso di fare sul serio. Nelle fabbriche del nord il movimento era forte abbastanza. Insieme agli studenti e agli operai meridionali occupava case, scuole e università e pensava che fosse giunto il momento di fare la rivoluzione. Ma al sud, le fabbriche erano poche e a Palermo, per “rafforzare il partito e prendersi la città”, quelli della segreteria decisero di inviare Mauro approfittando dell’occasione che padre Pintacuda offriva al suo collega sociologo di avere un contratto in università. L’idea piacque subito a quella parte di noi, militanti palermitani di LC, che avevano temuto con questa storia del partito che fosse arrivato il momento di diventare come gli altri, come quelli di Avanguardia Operaia e del Manifesto: bravi e seri compagni, molto “intellettuali comunisti”, ma certamente un pò noiosi. Mi ricordo ancora delle critiche severe, quando sul giornale dedicammo un pezzo a Jimi Hendrix che era morto di overdose: il titolo, scritto da Mauro, diceva ”suonava da dio lo hanno ucciso i padroni”. Noi di LC amavamo la cultura beatnik, gli hippies e i figli dei fiori ci erano molto simpatici. Magari non avrebbero fatto la rivoluzione, ma vuoi mettere il piacere di cantare Dylan e i Doors ( o Ivan della Mea e le nostre canzoni rivoluzionarie) a squarciagola, complice un po' di vinaccio e qualche spinello furtivo e di incontrarsi con il variopinto mondo giovanile della città, fuori da ogni ideologia, sui prati di Villa Sperlinga pronti a lanciare la prima campagna contro l’eroina? Mauro aveva fama già consolidata di anticonformista, i compagni della segre-

teria lo avevano mandato a Palermo perchè la sua capacità comunicativa era immensa, affascinava tutti, operai e alto borghesi. La prima cosa che fece fu subito coerente con la voglia, che mai lo abbandonerà, di cercare per sé e per gli altri vite più felici. Scelse una casa tra i giardini della piana dei Colli, tra zagare e gelsomini. Ci fu subito (a me, a Mario e a Vincino) molto simpatico anche perché un segretario che suonasse la chitarra non ce lo aspettavamo. E accettammo con lui di provare a diventare un partito. Nella sede molto ambiziosa di piazzetta Speciale leggevamo e commentavamo qualcosa che si chiamava il Catechismo dei Comunisti. Ma non durò molto scegliemmo piuttosto l’intervento in fabbrica, ai cantieri Navali, il volantinaggio allo Zen, e la propaganda davanti alle scuole. Lì c’era il solito problema dei picchiatori fascisti: le prendevamo quasi sempre e decidemmo allora di organizzare una denuncia pubblica; ricorrendo agli archivi del quotidiano "L’Ora" più che alla controinformazione, stampammo un libretto dal titolo “Fascisti a Palermo”. Mauro che odiava la violenza - mai neanche nei terribili anni successivi ci spinse ad azioni violente e di questo gli sarò sempre grato - pensava che elencare i loro nomi e le loro gesta sarebbe bastato. A guardare la luminosa carriera politica di molti di loro non servì proprio. Ci finanziavamo vendendo le grafiche che Mario Schifano o Sebastian Matta ci regalavano e versando ciascuno una quota secondo le proprie possibilità. Organizzammo anche un cineclub, il circolo Ottobre, che alternava i classici russi all’avanguardia americana, qualche concer-

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to al circolo La Base e un “mercatino popolare”: grazie ai compagni di Castelbuono comprammo a prezzi stracciati la carne di un intero vitello per rivenderla a prezzo politico agli operai dei cantieri. Mauro in quel tempo continuava a tessere rapporti. Fu molto attivo nella campagna contro l’abrogazione del divorzio: ricordo un’assemblea nella facoltà d'Agraria con Mauro Rostagno “sociologo” e Peppino di Lello, “pretore”. A casa sua si incontravano gli operai dei Cantieri e i lumpen dei quartieri periferici ma venivano in continuazione a trovarlo anche i suoi amici del nord, meravigliose persone come Alex Langer. Il suo amore per Chicca era grande e nel frattempo era nata Maddalena, piccola palermitana. Me lo ricordo in lunghe passeggiate con quel vecchio comunista doc che è stato, e forse è ancora, Nino Mannino: eravamo orgogliosi e speranzosi di questa amicizia tra vecchi e nuovi rivoluzionari. Un privilegio solo a lui riservato erano le visite, magari accompagnato da Andrea Valcarenghi di “Re Nudo”, al villino liberty occupato da un gruppo di hippies cosmopoliti guidati da Carlo Silvestri: la Comune di Terrasini luogo mitico e idealizzato di sogni erotici, bagni nudi nel mare, viaggi psichedelici, musiche ribelli. Ma poi si tornava al lavoro politico, alle riunioni che Mauro conduceva intercalando un ragionare lucido e comunque spiazzante ed anticonformista con espressioni come “non nascondiamoci dietro un dito…non buttiamo il bambino con l’acqua sporca…non mettiamoci il prosciutto sugli occhi…estremizzo per farmi capire”.


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Portò a Roma, ad una manifestazione nazionale per la casa, un vagone di signore palermitane dei quartieri popolari: per molte di loro era certo il primo viaggio, ebbero la testa del corteo e si divertirono moltissimo, ma le femministe mai perdonarono a Mauro la gestione “maschile” di tutta l’operazione. Il suo capolavoro politico fu l’occupazione della Cattedrale; le donne senza casa avevano una diretta interlocuzione con il Cardinale Pappalardo. Non ricordo quale fu l’esito della lotta, ma davvero sembrava che la città stesse cambiando. Pubblicammo un giornale, immancabilmente titolato “Sicilia Rossa”. Le assemblee “intergruppo” le vincevamo facilmente: Mauro era il leader più bravo, un grande comunicatore e grande fu quindi la delusione quando nelle elezione del 76 noi che eravamo i più forti in città, fummo costretti per differenziarci a metterci in fondo alla lista: Mauro, ricordo, era il numero 26 e io lo portavo in giro a far comizi. Fu una sconfitta, prendemmo pochi voti, molto meno dell’immaginabile e demmo uno splendido esempio della litigiosità perenne della sinistra. I tempi stavano cambiando. Di fronte al rischio di cadere nel terrorismo, scossi dal protagonismo delle donne, spaventati dai primi disastri dell’eroina, sciogliemmo Lotta Continua. Gli ultimi mesi Mauro li passò accentuando il suo spirito libertario, piuttosto che costringersi e costringerci al ritorno all’ovile provammo a sperimentare insieme le strade della creatività. Ricordo bene come Peppino Impastato fosse contrario a quella che riteneva una deriva e ho sempre pensato che la

scritta sotto la sede di Via Agrigento, “abbasso i creativi che fanno i ricreativi” l’avesse scritta lui pensando a Mauro. Poi prese la strada di Macondo, degli “arancioni” in India e poi di Saman a Trapani dove ebbe a che fare con la Sicilia più schifosa.

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Tornò a Palermo nel 1989 quando, negli anni della primavera palermitana, gli fu dedicata l’auletta al piano terra di palazzo delle Aquile, il comune di Palermo, dove discuteva la società civile. Ancora oggi i frequentatori del palazzo la chiamano così.


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Due vittime: Mauro e la società civile di Rino Giacalone

Trapani: una mafia che comanda Mauro Rostagno non l' ho conosciuto, non ho mai lavorato con lui, non ho condiviso con lui esperienze politiche, di lotta sociale e nient’altro di tutto quello che lui ha saputo fare, non sono destinatario o possessore di qualsivoglia eredità, non faccio dunque parte di quella "fiera delle vanità" che ogni tanto si allestisce attorno al suo ricordo. Una cosa che mi piace dire con assoluta fermezza, è che il 26 settembre del 1988 Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia trapanese. Così sgombriamo subito il campo dalle miserabili storie di corna, di spacci di droga, di tradimenti politici all'ombra del delitto Calabresi, affermando a chiare lettere che la mafia esiste e non da ora, c’era nel 1988 e anche prima, e che oggi non si vede perché si è trasformata e si è infiltrata dentro le nostre quotidiane vite, facendo fuori personaggi scomodi come Rostagno, e chi ci dice che non è così, e cioè che la mafia non esiste perché è stata battuta, spesso si comporta da “cicero pro domo sua”. Cosa nostra trapanese, quella che oggi sopravvive grazie al latitante Messina Denaro, ma non solo grazie a lui, ha eliminato fulminandolo alla guida della sua auto, Mauro Rostagno la bellezza di ben 23 anni addietro, il 26 settembre 1988. Dico subito un’altra cosa. Non sono tra quelli che vedono trame oscure, intrighi, gialli internazionali, spie, traffici di armi e droga, speculazioni internazionali, dietro il delitto. Non li vedo dietro l’omicidio Rostagno ma non dico che questi traffici e queste commistioni nel trapanese non sono esistite. Sostengo che Rostagno e' stato ucciso perché non era a 100 passi dalla mafia, come Impastato a Cinisi, ma era a

cinque passi dalla mafia, il suo editore, Puccio Bulgarella, per dirne una, non campata in aria, era uno che sedeva a tavola in quegli anni con Angelo Siino il ministro de lavori pubblici di Toto' Riina. E Puccio Bulgarella, pace all’anima sua, deceduto di recente, indagato anche lui nel delitto per false dichiarazioni al pm e poi finito archiviato, sarebbe stato uno di quelli che aveva consigliato prudenza alla redazione guidata da Rostagno, solo che certi ricordi non si sono accesi al momento opportuno, ma qualcuno degli ex collaboratori di Rostagno, se ne è ricordato in Tribunale quando oramai Bulgarella è scomparso. A Trapani in quegli anni 80, quando Rostagno faceva i suoi interventi dagli schermi di Rtc, mandava i suoi giovani giornalisti in giro con telecamera e microfono tra la gente, quando lui andava intervistando Paolo Borsellino, Sciascia, Cimino, le madri che avevano visto i loro figli morire per droga o perché colpiti dalla criminalità mafiosa, quando andava in Tribunale a fare le pulci al processo contro l’apparente quieto capo mafia di Mazara Mariano Agate che all’epoca aveva dato ordine ai suoi scagnozzi liberi di dare completa ospitalità al super latitante Totò Riina, la mafia trapanese a quell’epoca era ben salda, c'erano liberi i più pericolosi killer che costituivano i gruppi di fuoco di Cosa nostra, i mafiosi entravano nei salotti, frequentavano le segreterie politiche, prendevano la quota associativa a Cosa nostra riscossa dagli imprenditori senza bisogno di tante intimidazioni. Come ha spiegato l’ex dirigente della mobile di Trapani Giuseppe Linares, Rostagno era circondato dai lupi e i lupi lo

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hanno azzannato. E dunque già questo scenario basta a spiegare perché Rostagno fu ucciso. Quel 1988 era, si e' saputo con successive indagini, l’anno in cui a Trapani la mafia si trasformava, i mafiosi diventavano loro stessi imprenditori, mafiosi riservati erano eletti nei consigli comunali, entravano nei consigli d'amministrazione di societa', riuscivano e riescono ancora oggi a garantire per le proprie imprese canali di pubblico finanziamento. La presenza di Rostagno a Trapani, il suo lavoro di giornalista, ovviamente suscitava preoccupazioni. Provate come ho fatto io a leggere le cronache dei giornali di quel tempo, nelle cronache provinciali seguiva il filone che reggeva l'atmosfera del tempo e che cioe' che la mafia non esisteva, come disse nel 1985 il sindaco di Trapani Erasmo Garuccio davanti ai corpi straziati dall’autobomba di Pizzolungo. Rostagno non faceva, a leggere i suoi editoriali , grandi denuncie diceva cose che gli altri non dicevano, parlava dei traffici della mafia, dei politici traffichini, di una città apposta lasciata sporca e senza futuro. La mafia trapanese che cominciava a fare politica, gestire imprese, che dava accoglienza ai super latitanti del momento, non poteva tollerare tutto ciò. Sentenze definitive emesse dalle Corti di Assisi di Trapani ci raccontano che omicidi sono stati decisi da Cosa nostra trapanese anche per molto meno. C’e' poi un approfondimento che Rostagno stava facendo, riguardava la presenza della loggia massonica coperta Iside 2 a Trapani, lui li' era entrato, per capire, aveva parlato con i capi di quella loggia e poi aveva sparato il suo editoriale in tv.


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Quella loggia, si scoprirà, non era sol luogo di incontro di mafiosi, politici, colletti bianchi, ma era qualcosa di più, da li era passato Licio Gelli, forse era servita da copertura al turco Ali Agca nel suo viaggio verso Roma per tentare di uccidere il Papa, c’erano frequentazioni con agenti libici e di altri servizi. Una camera di compensazione da non violare. Forse non e' un caso che il poliziotto che la ando' a scoprire, l'allora capo della Mobile, Saverio Montalbano, fini presto trasferito a Palermo, mentre gli iscritti a quelle logge sono rimaste tutti ai loro posti e hanno fatto anche carriera ancora oggi, comandano settori vitali della città. Mi fermo qui, aggiungo solo a proposito del processo in corso e che riprenderà il 28 settembre con la testimonianza di Carla Rostagno, che non può restare non considerato da chi oggi anche nel mondo dell’informazione si occupa della mafia sommersa, della cosiddetta trattativa tra stato e mafia, perché in questo processo, nel processo per il delitto di Mauro Rostagno, e' emerso chiaramente come in quel 1988 i "cani" cioe' gli investigatori erano attaccati come ha raccontato in questi anni il pentito Giuffre', la provincia zoccolo duro della mafia, era inattaccabile, pochi investigatori, chi voleva indagare veniva messo da parte, mancavano mezzi e uomini, ma c’erano anche investigatori come alcuni dei carabinieri sentiti già nel corso del processo che hanno portato le indagini sul delitto Rostagno verso altrove, tra le scartoffie sono

stati trovati, oggi, 23 anni dopo, verbali importanti, ci potrà essere una ragione per la quale Chicca Roveri la compagna di Mauro, invece di essere sentita come persona che poteva dare informazioni sulla realtà vissuta dal suo compagno, è finita invece in carcere; ci sarà una ragione per la quale nessun investigatore, a parte l’allora capo della Mobile Rino Germanà, fatto fuori dalle indagini sul delitto, e ci dovrà pur essere una ragione su questo sulla quale qualcuno nel mondo giudiziario dovrà pure dire qualcosa, si accorse che la zona di Lenzi la sera del 26 settembre 1988 era al buio per un corto circuito della linea Enel e che l’operaio incaricato, Vincenzo Mastrantoni morì ammazzato pochi mesi dopo e quel Mastrantoni non era altro che l’autista del capo mafia dell’epoca Vincenzo Virga. Si dirà che tanto è stato scoperto dopo, vero, ma è anche vero che prima quasi nessuno ha tentato di capirci qualcosa della mafia trapanese, e Vincenzo

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a cura di Lillo Venezia

Virga solo nel 1994 quando oramai la campagna elettorale aveva deciso il vincitore, divenne, con una ordinanza di arresto eseguita dai carabinieri (ma lui sfuggì alla cattura restando per sette anni latitante, catturato il 21 febbraio 2001 dalla Squadra Mobile di Trapani) per tutti il capo mafia di Trapani, fino al giorno prima era un imprenditore che partecipava alle convention di Forza Italia e andava incontrando le persone anche in nome e per conto di Marcello Dell’Utri il braccio destro di Berlusconi. E allora viene da pensare che un pezzo del “patto” scellerato tra Stato, mafia e politica è stato anche scritto dalle parti della provincia di Trapani e Rostagno fu ucciso perché a quella trattativa poteva anche arrivare. O comunque la sua voce mentre si intesseva la trattativa dava fastidio. E la sua morte non ha tolto di mezzo tutti i fastidi, e forse anche per questo il processo nei giornali continua ad essere raccontato nascondendo la mafia e i suoi agganci. Vincenzo Virga, mandante, e Vito Mazzara, esecutore del delitto, non sono gli unici responsabili della morte di Rostagno, ma questo non significa che bisogna beatificarli come c’è chi pensa di fare trasformando loro in vittime: le vittime sono due, Rostagno, che ha perso la vita poco più che quarantenne, e la società civile che non riesce ancora a trovare la strada del riscatto. O meglio le si spengono attorno le luci per non farle vedere bene ciò che la circonda.


CIAO MAURO

a cura di Lillo Venezia

“Grazie Mauro”

Intervista a Chicca Roveri di Enza Venezia La compagna di Rostagno racconta Come hai vissuto e vivi il processo per l’ assassinio di Mauro Rostagno? Faccio molta fatica a raccontare del processo. Vi devo raccontare dei depistaggi? Dei carabinieri che hanno subito scelto di non indagare sulla mafia e sulle sue attività criminali? Su Trapani e i suoi massoni? Sulla mafia che ancora comanda a Trapani, la stessa di allora? No, a voi siciliani accorti, esperti sulla propria pelle di cosa è la mafia e i suoi orribili contorni, voglio solo ricordare cosa è Mauro per me e per voi che lo abbiamo conosciuto ed amato. Mauro è il nostro sogno che non si spezza. I tuoi sogni si sono spezzati? Quando ero giovane io volevo un mondo più giusto, dove tutti potessero essere liberi e con eguali possibilità di felicità, i ricchi non così ricchi e i poveri così irrimediabilmente poveri e soli. Dove, la scuola e l'università desse a tutti, la stessa possibilità. Un mondo dove, la libertà

fosse un diritto di tutti, dove tutti avessero il loro giusto posto, le donne, i bambini, gli immigrati. Anche i mafiosi e i politici corrotti avessero il loro giusto posto. Il carcere Oggi, guardando la realtà che stiamo vivendo, sei delusa, arrabbiata? Credi che tu, ma soprattutto Mauro, non vi siete impegnati abbastanza? Era una battaglia molto difficile, e in più noi abbiamo sicuramente sbagliato molte cose. Abbiamo usato toni sbagliati, eravamo giovani. I giovani sono estremi, senza mediazione, intolleranti. Mauro ha interrotto la nostra battaglia da giovani, ha riflettuto, ci ha pensato sopra, ha ammesso che era un bene che avessimo perso, perché non eravamo pronti e così bravi da vincere. Ha fatto un giro di 360 gradi e si è schierato dove era giusto collocarsi, contro di chi impediva qualsiasi anelito di libertà: la mafia e chi si schierava con lei per impedirci di respirare, i politici del tempo, i vari servi di cui

da sempre il potere si serve per opprimere. A Trapani, della mancanza di libertà, Mauro ha visto il massimo del peggio non ha potuto far altro che combatterla, sapendo che rischiava la sua vita. "io, Mauro, non posso e non voglio accettare che la mia libertà sia condizionata. Io voglio poter dire quello che penso, quello che vedo. Io sono un uomo libero". Era l’agosto del 1988, con queste parole. mi comunica che non ha paura di morire. Questo sentimento profondo e fondamentale di Mauro è l’unico motivo che mi fa accettare tutto quello che ha dovuto patire mia figlia. Cosa ti aspetti oggi ? Mi aspetto, per compensare tanto dolore, un'attenzione maggiore al processo. E mi aspetto, forse da illusa, che tanti si ribellino a questa schifo di mafia. Se non sarà così, sono orgogliosa che la mia famiglia abbia pagato, e continuerà a pagare per sempre, un prezzo perché il nostro sogno non si spezzi. Grazie Mauro

PALERMO 25 SETTEMBRE ORE 17.30 presso i giardini del parco della Favorita IL SUONO DI UNA SOLA MANO "Il suono di una sola mano. Storia di mio padre Mauro Rostagno" di Maddalena Rostagno e Andrea Gentile. Introduce Bice Agnello. In collaborazione con la Libreria Modus Vivendi. Il libro: Mauro Rostagno crede che un giorno potrà sentire il suono di una sola mano che applaude: crede nell’impossibile. Per questo sfida la mafia. Ma la mafia non ci sta e nel 1988 lo ammazza a colpi di fucile. C'è un prima. Ed è la storia di Rostagno: leader del ’68 a Trento, fondatore del primo centro sociale italiano, seguace di Osho in India, giornalista a Trapani. Un padre che ama sua figlia Maddalena. E c’è un dopo. Dal 1988 a oggi: ventitré anni alla ricerca di un processo. Depistaggi, incongruenze, indagini e mancate indagini, passioni e speranze. Fino al processo, aperto solo il 2 febbraio dopo ventitre anni.ed una raccolta di firme,diecimila,fatta dall' associazione “ Ciao Mauro”, grandi depistaggi ad opera dei carabinieri, che hanno portato in carcere la moglie di Mauro Chicca Roveri, in seguito scarcerata.

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