Casablanca n.17

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CASABLANCA N.17/ MARZO 2011/ SOMMARIO

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Lidia Menapace 04 La costruzione dell'Italia Graziella Proto “Mi chiamo Ruby e non sono la nipote...” Sebastiano Gulisano 06 I volti delle donne Graziella Proto 08 Le Siciliane/ Franca Viola Roberta Mani 10 Calabria/ La sconfitta di Lea Antonella Serafini 14 Operaie Gigi Malabarba 18 Una rivoluzione contagiosa Nadia De Mond 20 Africa/ Donne martoriate Gianni Lannes 22 Quanto vale una vita umana Natya Minori 24 Teatro/ Piero Grasso Andrea Guolo 26 Teatro/ “Mafia in pentola”

Casablanca - direttore Graziella Proto graziellaproto@interfree.it Edizioni Le Siciliane di Graziella Rapisarda Progetto grafico R. Orioles e Luca Salici (da un’idea di Piergiorgio Maoloni) Registr.Tribunale Catania n.23/06 del 12.7.06 – dir.respons.Riccardo Orioles

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Editoriale

Costituzione, donne miti e rivoluzioni

Dall'ultimo numero di Casablanca sono stati due mesi molto intensi. Il bimestrale non permette di stare sulla notizia, senz'altro ci permette di riflettere, analizzare, approfondire. Studiare gli avvenimenti. Ci siamo lasciate alla vigilia della grande manifestazione delle donne indignate dal sistema politico e dai criteri dei cast, ma i giorni a seguire hanno totalmente coperto questo evento di rilevanza politica e sociale immensa. Noi ripartiamo dallo stesso punto dove ci siamo lasciati e proponiamo storie di "belle donne", raccontate da altre donne, con la loro sensibilità e capacità di scendere nel profondo. Per esempio raccontiamo Franca Viola che a metà degli anni sessanta ha scompigliato le carte del delitto d'onore. Rispondiamo facendo politica vera. Ci sono due donne che per la prima volta nella storia occupano posti strategici. Gestiscono in campi diversi un grosso potere: Susanna Camusso ed Em ma Marcegaglia parlano lingue diverse ma la loro presenza in quelle postazioni è importante. La proposta di candidare Rosy Bindi a presidente del Consiglio andava presa molto sul serio. IL Pd ha perso un'altra grand'occasione. Queste donne così diverse fra loro ci danno una carica d'ottimismo, ci fanno sperare. Loro sanno che donna non è una categoria. *** Nel momento in cui scriviamo è in atto la manifestazione in difesa della Costituzione. Cortei colorati, allegri, chiassosi. Sfaccettati. Tantissimi i bambini, insegnanti, pensionati, professionisti, ope-

rai, disoccupati, studenti, attori, cantanti... tutte le categorie. Tutte le fasce. In moltissime piazze della penisola. Un'esigenza, il diritto e il dovere di difendere quel pezzo di carta che tanti, anche se minoranza, vorrebbero stravolgere. Metterci le mani sopra con la scusa che è vecchia. Una miriade di striscioni e cartelli inondavano il cielo. In uno sta scritto “Sciascia: ad ognuno il suo". Il ragazzotto venuto in città per la movida del sabato sera lo legge e poi con aria saputella e saccente dice al suo amico: ad ognuno il suo lo capisco, ma Sciascia che vuol dire? Ecco, la questione è tutta qui, nella cultura, nell'istruzione e nel diritto allo studio. Nella crescita. sociale ed individuale. La colpa non è dei ragazzi; lo dice anche Vecchioni nella sua ultima canzone divenuta già inno della manifestazione d'oggi. I ragazzi in piazza con i mano i libri vogliono cambiare il mondo. Il libro come unica arma. Invece, tagli su tagli. Su tutto certamente, ma sulla cultura in generale molto di più, senza che la ministra che dovrebbe battersi per il contrario faccia una piega. Impreparata. Inesperta *** Dai paesi del mondo arabo giunge un vento dolce-amaro. Porta la freschezza dei giovani, la grinta di chi ha raggiunto il limite e non ne può più. E' stata intrapresa la strada della dignità, del riscatto, della libertà. Tunisia, Egitto, Libia... Le situazioni sono molto diverse fra loro, la freschezza e il sacrificio uguali. Interi po-

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poli, oppressi da decenni, si sono rimboccate le maniche e spesso a mani nude sono andati contro il nemico da battere. Un vento che cerca emancipazione e libertà. Un vento contagioso. Minaccioso per chi ha coda di paglia. Fra tutte la situazione libica sembra la peggiore. Il dittatore folle negli anni ha creato troppe ingiustizie sociali. Calpestato la democrazia, represso con la forza ogni anelito di diritto o libertà. Gheddafi è pericoloso, non va protetto, deve essere cacciato e bisogna fargli sapere che della sua amicizia non ce ne frega nulla. Ci rendiamo conto, bisognerà trattare, non si sa quanto durerà, cosa succederà... Un processo complicato per tutti: quelli che sono dentro la Libia e quelli che ne stanno fuori. Operai, esuli, perseguitati politici, ma anche ambasciatori, capi di Stato, mediatori vari. Severità e rigore. Nessuna concessione in tal senso. Nessuna genuflessione. *** Il governo Berlusconi, nonostante le prove di fiducia, accumula contraddizioni, debolezza, arroganze ed incapacità di risposte. Una cosa per il momento è certa: i proclami dell'opposizione che ormai siamo alla fine, che è questione di poco, che ormai... Non è così. L'allerta deve essere altissima - così non pare - perché il danno che può fare questo governo in termini di regressione e arretramenti sociale è grandissimo. Noi donne del movimento rispondiamo "SIAMO VIGILI". Vi daremo filo da torcere. Graziella Proto


STORIA

Il centocinquantesimo. La costruzione politica dell'Italia di Lidia Menapace Conosciamo il percorso politico e sociale che ci ha portato all'Unità d'Italia? Perché non la pensiamo tutti alla stessa maniera? Usiamo il "centocinquantesimo anniversario" per affrontare un bilancio della breve, ma intensa storia dello stato nazionale italiano per conoscerlo e per trarne indicazioni utili per il suo superamento. Ricordandoci dei protagonisti nel bene e nel male In sè la proposta di intitolare all'Unità d'Italia una periodizzazione che incomincia col 1861 è molto discutibile storiograficamente, perchè fa partire il cammino dell'unità dalla data della "proclamazione del Regno d'Italia", quando molte parti del paese erano ancora sotto vari domini e le proposte per la costruzione politica dell'Italia erano varie: repubblicane (Mazzini), socialiste (Pisacane) , federaliste (Romagnosi Cattaneo Ferrari Rosmini) . Infatti molte iniziative segnano una qualche smarcatura propro rispetto alla periodizzazione: la migliore mi sembra,a mia conoscenza, quella dell'Istituto storico della Resistenza "Pietro Fornara" di Novara che ridisegna così la proposta: Il Risorgimento lungo un secolo (1848/1948), una tavola rotonda con diversi interlocutori e interlocutrici, e in una seconda tappa si sofferma su : Memorie di guerra e di brigantaggio. Così il lungo cammino della costruzione dello stato nazionale diventa più chiaro e le memorie non vengono artificialmente "condivise". Infatti, non si può costruire la storia da posizioni preventive e pregiudiziali, perchè questo ripeterebbe le operazioni fatte dai Savoia, quando pagarono

la storiografia detta del "partito del re", nascosero l'apporto di illustri repubblicani e federalisti e nemici dello stato pontificio, nascondendo i meriti di stati come il Granducato di Toscana , e di parlamentari favorevoli alle donne come Morelli ecc.ecc., annacquando tutto in un indistinto patriottismo retorico. Allo stesso modo si possono individuare nella spedizione dei Mille anche le mire di Rubattino armatore genovese al quale Genova stava molto a cuore come porto concorrente con quello di Napoli, allora più importante soprattutto perchè legato alle Ferriere Materdei e al cantiere navale dei Borboni. Napoli era allora una città più industriale di Milano. La politica fiscale del Regno dei Savoia privilegiò la borghesia mercantile del nord e la grande proprietà terriera del sud trascurando il proletariato sia settentrionale che meridionale . Per questo credo si debba appoggiare nella scelta e nel taglio il contributo di chi non accetta acriticamente una periodizzazione retorica e generica. E' invece questa -detta del 150°- una bellissima occasione per riprendere la lettura scientifica della costruzione dello stato nazionale, per non riconoscere nessuna delle titola-

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rità che non gli appartengono: nè alla chiesa che oggi forse vorrebbe rinnovare pretese neotemporaliste, nè alla Lega che ruba un Federalismo che non conosce affatto. Il pensiero politico federalista in Italia ha avuto ben altri nomi . Da Romagnosi a Rosmini, Cattaneo e Ferrari, fino al padre di Bruno Trentin federalista rivoluzionario e antifascista, esule in Francia, la cui opera giuridica è in parte stata di recente pubblicata. Un federalismo, che non ha nessuna mira secessionista. Pensa invece ad un ordinamento giuridico non così centralistico come quello che anche Cavour scelse e che l'attuale ministro degli Interni ad onta del suo dichiarato federalismo copia dando sempre maggiore autorità ai prefetti, una istituzione che qualsiasi federalista anche moderato abolirebbe e che non esiste in nessuno stato federale al mondo: infatti, c'è solo nell'ordinamento francese come longa manus del governo centrale. D' accordo dunque: usiamo il "centocinquantesimo anniversario" per affrontare un bilancio della breve, ma intensa storia dello stato nazionale italiano e ne avremo profitto per conoscerlo e indicazioni utili per il suo superamento.


DONNE

“Mi chiamo Ruby e non sono la nipote di Mubarak” di Graziella Proto “Anche io vengo dal sud del mondo. Ho diciassette anni, ho appena finito il liceo e dovrei andare all'università. Mi sono presa alcuni mesi di tempo per riflettere, si dice così? Non è che non mi piaccia faticare, impegnarmi...studiare…Il punto è che intorno a me ci sono anche persone, ragazze per lo più, che mi dimostrano che tutto ciò non è necessario. Così fra una panineria, una birreria, un concerto, insomma, un posto dove divertimi, ho cercato di guardarmi intorno” Perdiana, se non fosse scoraggiante direi che la situazione è comica. Per qualsiasi attività ti richiedono qualità e caratteristiche che non centrano nulla col lavoro. Però faccio finta di essere d'accordo, di non scandalizzarmi, perché non voglio fare la figura della bigotta . Nessuno parla di serietà, onestà. Merito. Ma non è che se ne parla solo a casa mia? Ho qualche sospetto. Intanto mio padre, ricordandosi del mio desiderio da bambina, e, devo dire che allora mi piaceva tanto l'idea, mi vede magistrato. Spesso nei suoi sogni mi vede con la mia bella toga nera seduta sotto la scritta"la legge è uguale per tutti" e ci fa sopra tanti castelli in aria. Non mi dispiacerebbe essere un ministro della giustizia, però poi mi soffermo sui tempi - lunghi - di studio: quattro d'università, che dovrebbe essere di prestigio, non una qualsiasi di una piccola città, l'abilitazione, il tirocinio, la scuola di magistratura - se riesci a superare la selezione che è rigida ed è giusto così. Una strada molto lunga in effetti. Sì, lo so, mio padre è d'altri tempi, e pure mia madre. Non sono vecchi. Tutto sommato sono abbastanza aperti. "Ci siamo battuti per la libertà sessuale" mi

dice mia madre con quella sua vocina "per il diritto allo studio, per fare andare all'università anche i figli degli operai e dei contadini!" . Il mondo è cambiato. Ora è diverso, come glielo devo fare capire? Non che non voglio andare all'università, ma, oggi, è consigliabile? A parte il percorso lungo, faticoso e difficoltoso, siamo sicuri che serva per raggiungere l'obiettivo? Oggi, ce lo dicono in tutte le lingue, per fare carriera è molto facile. Semplice, se, incontri il tipo giusto. Se, riesci ad entrare in certi giri. Anzi, se entri in certi sistemi, ti sistemi. Soprattutto in televisione e in politica. " Non esiste il successo facile, possono esserci solo cinque minuti di notorietà…" che noia! "Senza sacrifici e fatica non si va da nessuna parte…servono impegno, tenacia, passione; non scorciatoie…"uffa, uffa. Ma dove vivono? I tempi sono cambiati. E Ruby? La diciottenne marocchina più celebre del momento? Escort? Ma che balle. La ragazza è una gran furbacchiona, una che se ne intende. Ha saputo sfottere un sistema che

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la voleva solo utilizzare. E' una gran dritta. Altroché. Il sistema le propone una strada facile e piena di soldi e lei accetta. Un brutto esempio? Per caso è un presidente della repubblica? Un ministro? Un alto prelato? Insomma si tratta di un personaggio che deve dare l'esempio? Dimostrare rigore e severità? Essere un modello per la nazione? No. Era lei che organizzava? Lei che ha creato "quel sistema di relax"? Eventualmente, è il sistema che bisognerebbe indagare ed analizzare. Lei è stata coinvolta e l'ha sfruttato. Grande Ruby. Non tanto per la quantità di denaro che le è stato donato, tutto il resto vale molto di più. E' riuscita a regalarsi una notorietà da star. Oggi viaggia col jet privato. La accolgono con le limusine. Ogni foto o intervista è una caterva di soldi. E' andata a Vienna per far "debuttare le debuttanti! Brava. Sta mettendo a frutto ogni piccolo particolare, come una formica. Certo, lo zio suo, MubaraK all'inizio è stato decisivo. Oggi non le sarebbe proprio d'aiuto, poverino. Ah dimenticavo: mi chiamo Ruby. Non sono nipote di Mubarak. Non ho nessuno zio potente e… forse ha ragione quel bacchettone di mio padre.


“IMAGINE�

Volti di un'altra Italia di Sebastiano Gulisano A Roma durante la manifestazione delle donne del 13 febbraio

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“IMAGINE”

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LE SICILIANE/ FRANCA VIOLA

La donna che rifiutò

il matrimonio riparatore di Graziella Proto

Aveva diciassette anni e tanto coraggio. Si rifiutò di sposare il suo violentatore che la rapì per ricorrere al matrimonio riparatore. Disse di no e diventò un simbolo per tutte le ragazze. Un mito. In quegli anni avrebbe potuto approfittare della sua notorietà, ma ha preferito uscire dalla scena per vivere la sua vita di ragazza normale. Riservata. Onesta. Roba d'altri tempi "Pronto? Mi scusi, sono una giornalista, cerco la signora Franca Viola". "Sono io". La voce è dolce, calma. Fa pensare ad una signora di belle maniere, garbata, gentile, pacifica, quasi in contrasto con la sua famosa "fermezza" che rimanda alla durezza. Al telefono continui ad immaginarla: una signora di circa sessanta anni, gli occhi dolci, com il sorriso sulle sue labbra. Parla sottovoce quasi avesse paura di disturbare, o essere scortese, infatti, subito aggiunge, "…mi dispiace, lei è molto gentile a ricordarsi di me, ma io ho scelto di vivere la mia vita normalmente. Le chiedo scusa, ma non parlo con i giornalisti". A metà degli anni sessanta, Franca Viola era una ragazza di 17 anni. Bellissima riferiscono le cronache. Vigeva ancora il delitto d'onore. Abitava ad Alcamo in provincia di Trapani. In Sicilia,i giovani innamorati non potevano incontrarsi da soli,erano sempre guardati a vista."io mammeta e tu" era la regola. L'onorabilità della ragazza, vale a dire l'illibatezza, l''insegnamento. La cosiddetta "fuitina", in pratica la fuga degli innamorati per mettere gli altri di fronte al fatto compiuto rappresentava un metodo per arrivare al matrimonio. Quello "riparatore", era contemplato dall'articolo 544 del codice penale. Lo stupro per intenderci, non era considerato un rea-

to grave, bastava sposare la vittima per estinguere il reato. La perdita della verginità della ragazza, per legge aveva come epilogo il matrimonio. Franca è ancora minorenne, in paese c'è un suo spasimante sempre respinto ed ostinato che ha deciso che la vuole. Non ci sono problemi, non ce ne possono essere, sarà sua moglie. Si chiama Filippo Melodia: Non è uno qualunque. E' destinato a fare carriera fra le fila dei picciotti dei Rima, con i quali è imparentato ed affiliato. Rifiutarlo è già un'azione di gran coraggio, o, d'enorme incoscienza. Franca è più che decisa: non lo vuole. Ama un altro. Filippo Melodia per tutta risposta organizza con una squadra d'amici suoi, dodici persone equivoche, e la sequestra per costringerla al matrimonio riparatore. Il ventisei dicembre del 1965, Franca, è appena uscita di casa con il suo fratellino d'otto anni. La squadra dei picciotti che già la teneva d'occhio, la raggiunge e la rapisce assieme al piccolo che sarà rilasciato dopo poche ore. Lei è trascinata e segregata in un casolare dove sarà violentata per otto giorni conseguitivi dall'innamorato pazzo. Per evitargli la galera, come previsto dall'articolo 544 avrebbe dovuto sposarlo, ma Franca non voleva. Anzi, che, Filippo finiva in galera non, la preoccupava per nulla. Il giovinastro dal canto suo, aveva cal-

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colato tutto: la ragazza ormai era "disonorata" il matrimonio riparatore sarebbe stato il finale logico. Tutto OK. Le cose allora, soprattutto in Sicilia andavano così. Franca era innanzi ad un bivio, sposarlo, oppure rimanere zitella a vita. Nessun altro l'avrebbe sposata. Non era stata prevista una cosa: la dolce Franca era anche una ribelle. Si oppose alla morale del tempo e del paese; insorse contro l'articolo 544. Sfidò le ire del piccolo boss. "Perchè - si chiedeva arrabbiata - una ragazza stuprata deve sposare il suo violentatore? La persona che ha approfittato di lei con la forza? Io non lo voglio". Un terremoto! Il ciclone sociale che venne fuori si trascinò per più di venticinque anni,e portò alla abrogazione dell'articolo 544 del codice penale. Aveva solo diciassette anni e una famiglia umile. Una vera eroina del tempo. "In quel momento - spiegherà poi - io seguivo solo il mio cuore". La sua famiglia modesta, non potente, non legata ad alcun carro, la sostiene nella battaglia. Ne accetta le possibili conseguenti rappresaglie da parte dell'aggressore, più forte di loro tutti messi assieme. Durante la segregazione della figlia, Bernardo Viola fu avvicinato da due emissari per prendere accordi sul futuro dei giovani. La ragazza è minorenne e deve essere lui a dare il consenso.


LE SICILIANE/ FRANCA VIOLA

Il padre pur di vedere la figlia fa finta di essere d’accordo su tutto e di acconsentire alle nozze. Per essere evoluti e civili non occorre una grande istruzione, e a Bernardo quella consuetudine fra uomini, la legge che tutela " l'onore" della vittima, non garba. A sua figlia Franca il tizio non piace, e non piace nemmeno a lui. Forse lo teme, ma la posta in gioco è troppo alta. Così l'agricoltore si mette d'accordo con i carabinieri e quando il due gennaio del 1966 dopo otto giorni Filippo Melodia e i suoi amici si presentarono in paese per consegnare la ragazza furono arrestati. Franca denunciò il suo violentatore e i complici e fece sapere che non aveva nessuna intenzione di fare il matrimonio riparatore. Da quel momento, è ovvio, la piccola famiglia si mette contro tutti: il violentatore potente, la legge, i paesani. Le convenzioni, la morale corrente. Ne seguirà un periodo difficilissimo, tormentato, burrascoso. Bernardo minacciato. Le sue vigne distrutte. Il suo casolare bruciato. La sua famiglia, emarginata da tutti per paura. Ogni tanto la sua presa di posizione, traballava, si scontrava con la determinazione di Franca. Risoluta. Ferma. Decisa. Pronta a combattere anche, contro il suo genitore. Non ce ne sarà bisogno perché Bernardo resterà sempre accanto alla figlia. Uniti nel respingere il ricatto.

Al processo, i giornalisti arrivarono da ogni parte, ma intervistare la ragazza d'Alcamo era impossibile. Il mito tuttavia andava avanti a prescindere dalla sua collaborazione. "Non fu un gesto coraggioso -ripete ancora oggi Franca - ho fatto solo ciò che mi sentivo di fare, come farebbe una qualsiasi ragazza. Ho ascoltato il mio cuore. Il resto è venuto da sé". Franca Viola con quel gesto sprezzante è diventata un simbolo per la Sicilia, per l'Italia, per la crescita civile non solo degli anni settanta, anche per quelli a venire. I riflettori di mezzo mondo erano puntati su di lei e la sua famiglia, e liberarsene era ed è stato molto difficile. In quel momento avrebbe potuto approfittare della sua popolarità, ma lei voleva solamente ritornare alla normalità, alla riservatezza di sempre. Alla vita di tutti i giorni. Aveva avuto una brutta avventura e la voleva dimenticare. Voleva liberare tutte le persone care da qualsiasi peso di ricatto o ritorsioni, rappresaglie future. Il ritegno secondo lei era l'unica strada da percorrere. Giuseppe, il fidanzato, oggi suo marito e padre dei suoi figli, ha dovuto lottare per sposarla; lei cercava di dissuaderlo, perché, temeva di coinvolgerlo in una spirale pericolosa. Al processo, grande fatto di cronaca, Filippo Melodia fu condannato ad undici anni di carcere e dopo aver scontato la pena fu ucciso da due colpi di lupara. Da copione.

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Il cinque agosto del 1981 l'articolo 544 del Codice Penale è stato abrogato, nel frattempo tante altre ragazze hanno seguito l'esempio della giovane di Alcamo. Franca e Giuseppe si sposarono dopo poco tempo e vissero per alcuni anni fuori del loro paese, vi ritorneranno dopo alcuni anni e continueranno a fare una vita molto riservata, schiva dalla popolarità o dalla fama. In pieno anonimato. Lontano dai giornalisti che non solo non le davano tregua, ma a volte la utilizzavano per fare cassa. A Franca sarebbe piaciuto impegnarsi nel sociale, ma, troppo famosa, allora. Si ritirò a vita privata. "Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia - dice - ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un'esperienza decisamente negativa"ha dichiarato tanti anni dopo in una delle sue poche uscite. "…non fu un gesto di grande coraggio - spiega - ma una normale scelta dettata dal cuore". L'articolo 544 del codice penale, l'onorabilità, l'illibatezza, oggi come allora sono cose assurde. La questione morale, anziché la dissolutezza, la depravazione, la disonestà su tutti fronti, non è cosa da bacchettoni. I modelli di chi gestisce il potere e quindi propone e educa, sono fondamentali. Le ribellioni, in linea di massima avvengono per migliorare.


CALABRIA

La sconfitta di Lea di Roberta Mani Autrice, insieme a Roberto Rossi, di “Avamposto - nella Calabria dei giornalisti infami”

Come mai non era sotto protezione? Lea Garofalo aveva deciso di raccontare tutto ai magistrati, ma, non sopportava di essere additata come pentita. Pentita di che? Non aveva commesso alcun reato. Per il marito e i cognati era una che aveva tradito la famiglia, quindi - secondo la DDA di Milano - l'hanno rapita, torturata e sciolta nell'acido. Una richiesta di aiuto al Presidente Napoletano pubblicata solo da "Il Quotidiano della Calabria ". Denise, figlia di Lea, oggi ha diciotto anni, vive in località segreta. Il 10 febbraio scorso le è stata assegnata una borsa di studio:ottomila euro per costruirsi un futuro Denise ha una borsa di studio. Ma non ha più sua madre. Si chiamava Lea Garofalo, i capelli neri, gli occhi vispi e impauriti di una donna che ha cercato una vita migliore, lontano da quel pantano mafioso che ha inquinato i suoi 35 anni. Era nata a Petilia Policastro, nel crotonese, terra di ‘ndrine in guerra per il controllo del territorio e del traffico di droga. Il padre ucciso quando aveva otto mesi, conosciuto solo in foto. Un tatuaggio con l’iniziale del suo nome impresso sulla pelle del polso per non dimenticare. Un fratello, Floriano Garofalo, boss temuto e rispettato, morto ammazzato l’8 giugno del 2008. Un cugino ucciso a colpi di lupara, altri due bruciati vivi in macchina. Poi quell’uomo, Carlo Cosco, con cui Lea aveva pensato di costruire una famiglia. Carlo che grazie al legame con lei, sorella di un uomo d’onore, aveva guadagnato punti nella gerarchia mafiosa. Che controllava a Milano il traffico e lo spaccio di cocaina, lavorando come buttafuori di un locale per non dare nell’occhio. Affiliato alla famiglia di Petilia Policastro, appoggiato dalle famiglie reggine, dai De Stefano in particolare. Un vincolo di sangue e di morte che Lea aveva accettato fino alla nascita di Denise. Fino al cambio di prospettive che l’arrivo di un figlio porta

con sé, al desiderio stringente di offrirgli qualcosa di meglio. Denise ha una borsa di studio. Ma non ha più sua madre, Lea. Gliel’ha ammazzata il padre, aiutato dagli zii, perché Lea si è ribellata. Perché ha voluto scappare dalle logiche della mafia calabrese che conosceva sin da piccolissima. Uccisa, per lavare l’onta di una donna che non voleva tacere, che scappava su e giù per l’Italia insieme alla figlia. Eliminata. Perché ha fatto rumore. Ha collaborato con i magistrati. Ha chiesto protezione. Ha bussato a tutte le porte. Persino a quella del Presidente della Repubblica Giorgio Napoletano a cui ha scritto una lettera dura di una madre disperata che non si sente al sicuro. Una donna che ha sfidato la mafia, e ne è uscita sconfitta. Quattro pagine buttate giù a mano, di getto. Un urlo per squarciare l‘indifferenza del mondo perbene. “Pensavo sinceramente che denunciare fosse l'unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi – si legge nel suo lungo sfogo pubblicato da Quotidiano della Calabria – Oggi dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile. La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi aspetta! La prego signor Presidente ci dia

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un segnale di speranza, non attendiamo che quello, e a chi si intende di diritto civile e penale, anche voi aiutate chi è in difficoltà ingiustamente”. Una lettera spedita anche alle redazioni dei principali quotidiani. Un grido d’aiuto inascoltato, travolto dalle altre notizie di giornata. Lea era scoraggiata, ovunque si nascondesse l’ex convivente la rintracciava. “Hai speso una fortuna per trovarmi – gli aveva rimproverato - ma sei sempre arrivato troppo tardi”. Era sola Lea, con la responsabilità di una figlia. Aveva denunciato, ma nessuna delle sue dichiarazioni era diventata oggetto di inchiesta. I tempi della giustizia lunghi. Infiniti per chi sa che rischia la vita. Le avevano revocato il programma di protezione. Lei aveva combattuto per riaverlo. E aveva vinto. Ma poi aveva rinunciato. Forse per protesta. Forse perché non le sembrava sufficiente. E di fronte alla sua rinuncia, in troppi se ne sono lavati le mani. Andava protetta Lea, comunque. In ogni caso. Ora Denise ha una borsa di studio. Ma non ha potuto ritirarla. Ora vive sotto copertura, in una località segreta. Lontano dal padre, da quella famiglia che, secondo la Dda di Milano, le ha rapito, torturato, giustiziato la madre. Da quegli zii che ne hanno sciolto il cadavere nell’acido.


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Sì perché la ‘ndrangheta, quella degli affari milionari, uccide ancora così. E non solo nel profondo Sud. Nella ricca e ignara Milano che non ha ancora capito, che vive distrattamente gli omicidi, le esecuzioni mafiose, che fa i conti con le richieste di pizzo, le estorsioni e tace davanti ai magistrati, che non ha gli anticorpi. Lea aveva fatto i nomi. Sapeva cosa voleva dire tradire la famiglia, sapeva di rischiare, parole sue, “una morte indegna e inesorabile”. Ma l’amore per Denise era più forte. Dal 2002 Lea parlava con i magistrati. In gergo giuridico, un “collaboratore di giustizia”. Non le piaceva quel termine, quel concetto sottointeso di pentimento la faceva infuriare. “Non ho mai fatto niente – diceva – non ho commesso reati. Mi sono staccata da loro. Li ho denunciati tutti. Io non ho nulla di cui pentirmi”. Sapeva troppo Lea. Sapeva chi aveva ucciso Antonio Comberiati, ammazzato a Milano nel maggio 1995 nel cortile di casa. Lei lo sapeva, gli inquirenti no, fino alle sue dichiarazioni. Era stato il fratello del suo convivente. “Minchia non voleva morire,… aveva il diavolo in corpo” le aveva detto subito dopo avergli sparato quattro, cinque colpi di pistola a bruciapelo. E il suo compagno era complice. Probabilmente aveva fatto il palo. Aveva raccontato tutto Lea, con particola-

ri. Aveva svelato persino il movente. Comberiati voleva comandare, gestire il traffico di droga. Bisognava fermarlo. Aveva tradito. Rotto il silenzio. E la ‘ndrangheta non perdona. Chi parla, chi fa l’infame, muore. Denise, con i suoi diciotto anni, ha dovuto impararlo in fretta. Ha vissuto quel calvario, divisa tra la madre che aveva detto basta e il padre, quel padre, suo padre, nonostante tutto. Quando Lea è scomparsa, il 24 novembre 2009, faceva freddo a Milano. Erano state insieme tutto il giorno, mamma e figlia. Le telecamere di sorveglianza di una banca le aveva riprese, strette nei piumini. Due sagome, vicine. L’ultima immagine. Gli ultimi istanti di vita. “Io seduta dietro piangevo, ricordo che loro, parlando e chiacchierando ridevano a voce alta”. Denise racconta così quelle ore di angoscia. Loro, il padre e gli zii, avevano già rapito Lea, e stavano concludendo il piano di morte. La messa in scena delle ricerche. Il film dell’esecuzione ricostruito successivamente dagli inquirenti è agghiacciante. Lea era già finita, trascinata in un capannone fuori città, torturata per capire cosa avesse raccontato ai magistrati, per definire l’entità del danno, freddata con un colpo di pistola alla nuca e sciolta nell‘acido. E loro ridevano. Denise piangeva disperata. Aveva capito,

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aveva immaginato. Già una volta aveva dovuto afferrare per i capelli un finto tecnico della lavatrice che si era avventato su sua madre, la mano stretta intorno al collo. Quella volta l’aveva salvata. Eppure Lea non era sotto protezione. Dopo il tentato omicidio aveva deciso di provare a riprendersi la sua vita. Di riavvicinare la figlia al padre. La logica della burocrazia l’aveva lasciata sola. La logica mafiosa della vendetta, no. La stessa logica che ha provato a piegare anche Denise. Rimasta sola Denise è scappata, fuggita dalla Calabria, lontano da quella mentalità di sangue. I picciotti l’hanno costretta a tornare. Hanno minacciato la zia, la sorella della madre, terrorizzato il marito. E allora Denise e i suoi diciotto anni sono ricomparsi in Calabria, per rassicurare la famiglia. Non parlo. In ostaggio. Fino a ottobre 2010. Agli arresti. Sei in tutto. Il padre, gli zii e altri tre complici. Poi, il dramma di Lea che viene alla luce. Sconvolge. La giustizia che si ricorda di essere tale. Denise che cambia vita, che viene messa sotto protezione. Denise che ora si è trasferita chissà dove, e ha una borsa di studio. Diciotto anni e ottomila euro per il suo futuro. Lo Stato ha dimostrato di non saper proteggere chi vuole ricominciare a vivere.


CALABRIA

LETTERA APERTA

AL SIGNOR PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA pubblicata dal Quotidiano della Calabria

Chi le scrive è una giovane madre disperata, allo stremo di tutte le proprie forze, psichiche e mentali, in quanto quotidianamente torturata da anni dall'assoluta mancanza di adeguata tutela da parte di taluni liberi professionisti, quali il mio attuale legale che si dice disponibile a tutelarmi e di fatto non risponde neanche alle mie telefonate. Siamo da circa 7 anni in un programma di protezione provvisorio in casi normali la provvisorietà dura all'incirca 1 anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite, in quanto quotidianamente vengono violati i nostri diritti fondamentali sanciti dalle leggi europee. Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia. Sono una donna che si è presa sempre le proprie responsabilità e che da tempo ha deciso di rompere ogni tipo di legame con la propria famiglia e con il convivente. Cercando di riniziare una vita all'insegna della legalità e della giustizia con mia figlia. Dopo numerose minacce psichiche, verbali e mentali, decido di denunciare tutti. Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese dalle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto dopo oltre un mese passato scappando di città in città per ovvie paure e con una figlia piccola, i carabinieri ci condussero alla procura della Repubblica di C. e li fui sentita in presenza di un avvocato assegnatomi dalla stessa procura. Questi mi comunicarono di figurare come collaboratore, premetto di non avere nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di far arrestare dei criminali mafiosi. Dopo circa tre anni il mio caso passa ad un altro magistrato e

dai lui appresi di essere stata maltutelata dal mio legale. Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile. Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente non immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l'unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi e probabilmente a far tornare sui propri passi qualche povero disgraziato sinceramente, non so neanche da dove mi viene questo spirito, o forse sì, visti i tristi precedenti di cause perse ingiustamente da parte dei miei familiari onestissimi! Gente che si è venduta pure la casa dove abitava, per pagare gli avvocati e soprattutto, per perseguire un'idea di giustizia che non c'è mai stata, anzi tutt'altro! Oggi e dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia, soprattutto dopo precedenti disastrosi come quelli vissuti in prima persona dai miei familiari. Eppure sarà che la storia si ripete o che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripetendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo, e sa qual la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi aspetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte! Inaspettata indegna e inesorabile e soprattutto senza alcuna soddisfazione per qualche mio familiare è stata anche abbastanza naturale se così di può dire, di una persona che muore perché annega i propri dolori nell'alcol per dimenticare un figlio che è stato ucciso per essersi rifiutato di sottostare ai ricatti di qualche mafioso di turno. Per qualcun altro è stato certamente più atroce di quanto si possa immaginare lentamente, perché questo visti i risultati precedenti negativi si è fatto giustizia da solo e, si sa, quando si entra in certi circoli viziosi difficilmente se ne esce in-

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denni tutto questo perché le istituzioni hanno fatto orecchie da mercante! Ora con questa mia lettera vorrei presuntuosamente, cambiare il corso della mia triste storia perché non voglio assolutamente che un giorno qualcuno possa sentirsi autorizzato a fare ciò che deve fare la legge e quindi sacrificare se pur per una giustissima causa la propria vita e quella dei propri cari per perseguire un'idea di giustizia che tale non è più, nel momento in cui ce la si fa da soli e, con metodi diciamo così spicci. Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto, lei rispondesse alle decine, se non centinaia di persone oltre a me che oggi si trovano nella mia stessa situazione. Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiano mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo a ad aver saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza. Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può, nonostante tutto! La prego signor presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello, e a chi si intende di diritto civile e penale, anche voi aiutate chi è in difficoltà ingiustamente! Personalmente non credo che esiste chissà chi o chissà cosa, però credo nella volontà delle persone, perché l'ho sperimentata personalmente e non solo per cui, se qualche avvocato legge questo articolo e volesse perseguire un'idea di giustizia accontentandosi della retribuzione del patrocinio gratuito e avendo in cambio tante soddisfazioni e una immensa gratitudine da parte di una giovane madre che crede ancora in qualcosa di vagamente reale, oggi giorno in questo paese si faccia avanti, ho bisogno di aiuto, qualcuno ci aiuti! Una giovane madre disperata


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RESISTENZE

La fabbrica delle donne di Antonella Serafini A Latina una fabbrica di sole donne. Ieri producevano giubbotti antiproiettili e divise per militari, oggi barriere antinquinamento, enormi sbarramenti per il mare. Un settore di cui non si occupa quasi nessuno in Italia. Per mille eurol a mese le operaie lavorano in un ambiente pericoloso, inquinante, poco salubre. Adesso gli toglieranno anche questo. Loro, ventotto in tutto, si sono barricate dentro la fabbrica e la presidiano da alcuni mesi. Si tratta del loro lavoro, della loro vita. Resisteranno. Nel frattempo si organizzano. Fanno strategie "Il lavoro, quello con la elle maiuscola, sia il punto di partenza per la realizzazione d'ogni individuo. Grazie al lavoro le donne iniziarono la loro esistenza di Persone Giuridiche". Rosa Giancola, operaia alla Tacconi e rappresentante sindacale è molto arrabbiata, e non ha torto lei e le sue compagne di lotta. "L'otto marzo saremo qui. Per noi ha un significato particolare". Per una seria di motivi, l'otto marzo il mondo femminile, o fa festa in pizzeria, o ricorda quella data come il giorno in cui prese fuoco una fabbrica di operaie, negli Stati Uniti. "Oggi, di operaie non si parla più - continua Rosa - è importante invece che l'otto marzo ritorni ad essere un punto fermo nella storia d'ogni donna". S'infervora per il fatto che quest'anno qui da noi in Italia la donna è citata perché scende in piazza contro un sistema politico discutibile e desidererebbe introdurre modelli e sensibilità femminili. "Dentro il movimento ci sono pure le operaie, che esistono, sono tantissime, e addirittura ci sono fabbriche interamente tirate avanti da donne". La Tacconi Sud, per esempio. Alla ribalta per quei cinque minuti in cui le operaie hanno preso la

parola ad Annozero, per poi ricadere di nuovo nel dimenticatoio. Ma riprendiamo il discorso da dove è stato abbandonato. Siamo a Latina, in questa fabbrica Tacconi Sud - che è una costola di una grande azienda del Nord Italia, la Sacconi, nota per gli appalti che le affida lo Stato. Ieri le divise e i giubbotti antiproiettile per le forze dell'ordine, oggi le tende che la protezione civile usa per i casi di calamità naturale, tipo i terremotati aquilani, oppure le barriere antinquinamento, una sorta di sbarramenti che servono per togliere materiale inquinante in mare. Un settore di cui in Italia non si occupa quasi nessuno, con profitti da monopolio. Un monopolio che non garantisce chi svolge quel lavoro. Le trentuno lavoratrici della Tacconi sud di Latina hanno vissuto una vita creando, producendo, costruendo. Insomma, sono diventate specialiste di un settore. Senza nessuna formazione programmata. Nessun manuale d'istruzioni. Hanno fatto tutto da sole. Un'attività delicata e particolare che il cambio di produzione ha notevolmente cambiato accentuando le problematiche concernenti la sicurezza, ambientale e sanitaria La Tacconi Sud da mesi non paga lo

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stipendio alle lavoratrici. Ufficialmente non ha soldi per gli stipendi, manca liquidità, ma ufficiosamente circola voce che si vuole spostare la produzione in Tunisia e in Romania, creando dal nulla una nuova società, la Protext. Nelle contrattazioni tra sindacati e azienda finora non si è mai raggiunto un risultato utile per le lavoratrici, perciò, il giorno in cui i padroni della Tacconi Sud decidono di cambiare la serratura ai cancelli, con un atto di coraggio tipico delle donne, le operaie s'impossessano dell'azienda decidendo di fare un presidio permanente. Occupazione! In fondo la fabbrica è un po' loro. E' nata dai fondi pubblici della Cassa del Mezzogiorno, in altre parole con le tasse della gente comune. Le operaie sentono che il loro diritto al lavoro è minato, alzano la testa e la voce. Sentono la partecipazione attiva come qualcosa di dovuto. In passato hanno resistito ad altri periodi critici, hanno vissuto la cassaintegrazione, hanno visto riconversioni, i loro incarichi e prodotti trasformarsi. Hanno lottato sempre per riuscire a conservare un lavoro che non è quello dietro le scrivanie, ma in fabbrica, con tutti gli acciacchi, le privazioni e gli sforzi che questo lavoro comporta.


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Macchinari usati senza il controllo di un direttore tecnico, rischi quotidiani con la pressa; strappi muscolari alla schiena per lo spostamento di quintali di materiale gommoso, oppure lavorare otto ore in ginocchio a causa dell'eccessivo peso dei prodotti in lavorazione. Donne che azzardano e lottano per uno stipendio mensile di mille euro, "A cosa corrisponderebbe nella villa d'Arcore? - chiede con tono di sfida in diretta televisiva Rosa Giancola - e aggiunge con aria sfottente - Una toccatina?". Si vede che provoca per attirare l'attenzione sul problema. Sicuramente non c'è alcun legame concreto fra il numero infinito di famiglie sul lastrico e lo sperpero assurdo di denaro per giochini, ma, la rabbia e il voltastomaco la fanno da padroni. C'è dell'altro. I materiali che respirano sono sostanze chimiche molto tossiche? Sono loro che decidono, e lo fanno, di mettere la mascherina. Nessuno glielo ha fatto presente. Ci arrivano da sole. I materiali usati non sono schedati come da regolamento, e nessuno quindi sa cosa sta respirando. Per gli stabilimenti privati non sembra che esista il segreto di stato. Fabbriche che lavorano colle, Pvc e materiale chimico tossico sono ad alto rischio cancerogeno, la legge prevede la

presenza di un tecnico per la sicurezza. Abbiamo già visto con la MarzottoMarlane di Praia a Mare, in Calabria, dove i materiali trattati erano gli stessi. L'alto tasso di morti con tumori ai polmoni e le troppe chemioterapie hanno fatto scattare un rinvio a giudizio per omicidio colposo per tutti i responsabili. Complessivamente, per la questione Tacconi, sembra ci sia una sottovalutazione del caso. Perché sono donne? Per nascondere che forse fra poco l'azienda chiuderà? La Tacconi ha ufficialmente messo in liquidazione l'azienda, ma non si trova un compratore. Una cosa alquanto strana, perché i prodotti che crea la fabbrica, sono esclusivi. Insomma, i meccanismi di prestanome e delocalizzazione sono noti e stranoti a tutti, e sulla Tacconi bisogna tenere le antenne alzate perchè a rischio è la salute di queste donne ma anche la vita delle loro famiglie. Mamme con figli piccoli obbligate a fare turni schiavisti, ma mai assenti. Finiscono il lavoro di fabbrica e fanno le mamme, le mogli, le casalinghe. Il premio per tutto questo è perdere dignità, tempo e salute. Si vuole privarle anche di quel misero stipendio, che già a suo tempo fu ridotto perchè una parte di esso era

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stato destinato a un fondo di previdenza privato. Sembrerebbe che per dieci anni siano stati decurtati soldi in realtà mai versati e finiti in chissà quali tasche. Che fine ha fatto il Tfr? Si potrebbe dichiarare fallimento, ma, i fratelli Sarchi, padroni della Tacconi, "non vogliono - spiegano le operaie del presidio - perché dichiarando fallimento non avrebbero più i requisiti per partecipare ai bandi di gara del Ministero dell'Ambiente". La proposta di fallimento interessa anche alle operaie rimanenti. Una piccola impresa, la "Vira" sta sparigliando i conti della vecchia industria. Una fabbrica minuscola la "Vira" che, produce gli stessi servizi e che ha già chiamato a lavorare sette ex dipendenti della Tacconi, con l'obiettivo di espandersi e rilevare tutto il personale, perché già formato, pratico ed esperto nel settore. La nuova azienda non ha capitali da investire in macchinari costosissimi come quelli della Tacconi, ma probabilmente a un'asta fallimentare potrebbe averli a prezzi agevolati. Le operaie, quindi, soldate e anche strateghe di se stesse. Il loro obiettivo è mantenere un lavoro, lavorare al meglio, faticando come sempre fanno da una vita.


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Lo facciano per la Tacconi o per la Vira (la piccola azienda che potrebbe assumerle tutte) non ha più importanza. La loro priorità è continuare a vivere onestamente, lavorando, dando un ulteriore valido contributo alle proprie famiglie. I riflettori sono abbassati sul caso, il rischio di essere dimenticate dalle istituzioni è altissimo, ma tutti questi sforzi e queste fatiche non devono essere vani. Le operaie di Latina sanno che secondo il testo unico dei lavoratori sono obbligatori controlli sanitari, ispezioni Asl, valutazioni di rischio, e che in fabbrica ci sono state delle inosservanze dunque, ma nessuna di loro sporge denuncia. L'interesse è puntato tutto sul riuscire a far dichiarare fallimento. La piccola fabbrica, riuscirà, piano piano, ad integrare tutte le lavoratrici? La fabbrica Protext, appena nata e che produrrà barriere antinquinamento con le commesse che ha adesso la Tacconi sud, a chi potrebbe essere collegata?

Vite operaie, vite emigrate La malinconia delle persone che hanno lasciato la loro città per vivere meglio, affascinanti dal sogno di un lavoro sicuro, una vita dignitosa, tanti sogni per i loro figli. La situazione profondamente cambiata crea inquietudine e dubbi Avevo deciso di cambiar vita. Avevamo deciso io ed il mio compagno di lasciare Napoli, di abbandonare una delle Città più belle al mondo ma prigioniera di una minoranza di delinquenti ( io li chiamo “persone per male” ) che, da sempre, tengono in ostaggio la Città. “Persone per male”, che credono d'essere “e reritt” (i furbi), che vivono sulla pelle delle “persone per bene” (i fessi) Avevamo deciso di cambiar vita... sognando un futuro per i nostri figli. Sorgeva l’Italia del dopo ’68, l’Italia delle grandi conquiste sociali, aborto, divorzio, ma anche e principalmente della Legge 300, lo Statuto dei Lavoratori. Ma per Napoli erano ancora gli anni di Achille Lauro, dei voti venduti e comprati, dei pacchi di pasta, della scarpa si-

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nistra, prima del voto, e di quella destra dopo il voto. Erano gli anni dei Gava (padre, figlio e successive generazioni), degli Scotti, dei Cirino Pomicino (eterno!). Non sapremo mai se il nostro emigrare è stato un atto di coraggio o di viltà. E’ stata certamente una decisione improvvisa ed emotiva. Poi, si dice, torneremo... poi, non si ritorna più. La Lombardia, con la sua nebbia e le sue fabbriche, non ha lo stesso cielo di Napoli, ma una prospettiva di vita serena e dignitosa. La Lombardia, culla acquisita dai nostri figli (ed è per questo che non si torna più). Da Napoli anche il grande Eduardo, dividendo la società partenopea in “reritt” e “fessi”gridava, da un palco improvvisato durante una visita in un carcere minorile, che: Si starà bene solo, quando muoiono tutti e “reritt” e restano solo i “fessi”. Dalla Lombardia una vita decorosa, onesta, di lavoro e, in ogni modo, di sacrifici, guardiamo un futuro incerto e barcollante, segnato dalla perdita dei diritti, dalle speculazioni edilizie, commerciali e finanziarie. Marchiato dalla perdita dei posti di lavoro, dalla “ricollocazione altrove”, dalla disgregazione sindacale... dalla fine di quel sogno! Francesca D.


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Una rivoluzione contagiosa di Gigi Malabarba Sinistra Critica, senatore della XIVa legislatura e membro del Copaco

Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco,Yemen, Giordania, Siria, Emirati arabi,…e Libia:da che parte stare? Regimi corrotti e repressivi che sembravano inamovibili soprattutto perché foraggiati dal democratico Occidente traballano o crollano all'avanzare del popoli stanchi o affamati. Gheddafi non ha mai costruito un regime democratico. Quarantun anni fa è stato il leader della lotta di liberazione contro l’Italia coloniale, monarchica, fascista e repubblicana; A suo modo ha rappresentato un esempio e un sostegno per altre lotte nel mondo arabo e altrove; Oggi, bisogna stare senza indugi dalla parte del popolo libico e delle rivoluzioni arabe in corso. Dobbiamo esprimere la nostra solidarietà incondizionata per i diritti civili, sociali e democratici negati in tutti questi anni Imprevedibile? Certamente imprevista, straordinaria, travolgente. La più straordinaria sollevazione dei popoli del Nordafrica contro la loro secolare oppressione è in atto, spazzando via in poche settimane regimi corrotti e repressivi che sembravano inamovibili soprattutto perché foraggiati dal democratico Occidente. E la sinistra, a volte anche quella estrema, si contorce dietro i se e i ma, invece di mobilitarsi con tutte le proprie forze perché la rivoluzione trionfi; perché – una volta cacciato il tiranno – la rivolta continui fino al soddisfacimento dei bisogni più elementari di donne e uomini, privati del loro futuro in paesi che pur dispongono di risorse immense: di queste, si devono impossessare i loro legittimi proprietari. Questo è portare fino in fondo la rivoluzione. Che ogni rivoluzione porti con sé il suo contrario, una controrivoluzione, è l’abc della storia dell’umanità, perché chi dispone di tutti i privilegi non vuole rinunciarvi, usando tutte le sue forze per schiacciare la rivolta. Bisogna semplicemente decidere da che parte stare in Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco, Yemen, Giordania, Siria, Emirati arabi,

…e Libia. Soprattutto in Libia, perché è proprio lì che lo scontro è più duro. Se il colonnello Gheddafi riprende il controllo della situazione, con un massacro senza precedenti, tutto il processo nel mondo arabo sarà frenato o persino bloccato. Se Gheddafi sarà rovesciato dal popolo libico, l’intero movimento di rivolta ne uscirà al contrario rafforzato e potrà toccare paesi e popoli d'altre latitudini, come l’Iran e la Cina. Gheddafi è stato quarantun anni fa il leader della lotta di liberazione contro l’Italia coloniale, monarchica, fascista e repubblicana, e ha rappresentato un esempio e un sostegno – a suo modo - per altre lotte nel mondo arabo e altrove. Ma non ha mai costruito un regime democratico. E nel corso del tempo, non solo negli ultimi dieci anni – come ha giustamente scritto il giornalista libico che risiede da anni in Sicilia, Farid Adly – si è trasformato in uno degli alleati più significativi dei paesi capitalistici e dei loro interessi imperiali nell’area. Per non parlare del suo ruolo di gendarme assassino nei confronti dell’emigrazione verso l’Europa, principalmente da tutta l’Africa

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subsahariana. Come si può oggi far finta di non vedere il massacro degli insorti in corso? Come si può avere riserve nella condanna del regime, quando il suo capo bombarda il popolo. Gheddafi non è mai stato comunista, ma anche se si fosse dichiarato tale, la sinistra avrebbe dovuto chiudere gli occhi per questo? Gli orrori del gulag staliniano, dei Pol Pot o di Tien Ammen non sono già stati sufficienti a screditare l’idea di un altro mondo possibile nel secolo passato? Vorrà dire qualcosa se tutte le classi dirigenti, tutti i governi, tutti i regimi reazionari del mondo arabo stanno più o meno supportando la dittatura libica e se l’Europa, e l’Italia in primis, ha esitato fino all’ultimo prima di esprimere la sua condanna! Stati Uniti, Unione Europea e Nato stanno moltiplicando le operazioni per cercare di controllare il processo in atto. Le rivoluzioni in corso indeboliscono, al di là di cosa affermano i leader occidentali nei loro discorsi, le posizioni dell'imperialismo nell’area. Così, come accade spesso, Lorsignori utilizzano il pretesto della “situazione


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caotica”, come la chiamano, o della “catastrofe umanitaria” per preparare un intervento e riprendere il controllo della situazione. Nessuno dovrebbe essere ingannato dalle intenzioni delle forze Nato: vogliono togliere dalle mani delle popolazioni locali le rivoluzioni in corso e sfruttare la situazione per occupare nuove posizioni, soprattutto in merito al controllo delle regioni petrolifere. Per questa ragione fondamentale è necessario rifiutare ogni intervento militare. È compito del popolo libico, che ha iniziato il lavoro, portarlo a termine, con l'aiuto di tutte le forze progressiste a livello internazionale che devono contribuire urgentemente con la loro solidarietà e supporto. Da questo punto di vista il mio disaccordo con le posizioni adottate da Hugo Chavez, Daniel Ortega e Fidel Castro è totale. Fidel Castro ha denunciato giustamente il rischio di un intervento dell'imperialismo americano, ma ha considerato la rivoluzione libica un complotto ‘yanky’, anche se col tempo ha preso atto che almeno nel resto del mondo arabo qualche ragione di rivolta

effettivamente esiste, bontà sua (i ritratti del ‘Che’ con le scritte in arabo come simbolo assai diffuso nelle manifestazioni in Tunisia e in Egitto forse gli avranno suggerito qualcosa…) Hugo Chavez, che ha confermato il suo appoggio al dittatore Gheddafi, si è lanciato in un improbabile ruolo di mediazione utile solo al mantenimento della dittatura. Queste posizioni sono inaccettabili per le forze rivoluzionarie, progressiste e antimperialiste del mondo intero. Lo ripeto, non ci si oppone all'imperialismo appoggiando dittatori che massacrano il loro popolo in rivolta. Questo può solo rafforzare le mire imperiali, così come il fondamentalismo islamista (ora marginale). Qualche discussione si è aperta in ogni caso in America Latina e numerose sono le voci che ormai contestano apertamente le scelte dei dirigenti, rievocando giustamente il Guevara dei discorsi alla Tricontinentale del 17 aprile 1967 e quelli precedenti pronunciati proprio ad Algeri e al Cairo! Bisogna stare senza indugi dalla parte del popolo libico e delle rivoluzioni arabe in corso. Dobbiamo espri-

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mere la nostra solidarietà incondizionata per i diritti civili, sociali e democratici che stanno emergendo in questa rivoluzione. Una delle priorità consiste nel fornire alla popolazione libica – tutti gli aiuti medici in arrivo da Egitto o Tunisia, gli aiuti alimentari necessari – chiedendo la cancellazione di tutti gli accordi commerciali e i trattati di amicizia con la Libia e la sospensione della vendita delle armi al regime. Dobbiamo prevenire il massacro del popolo libico. Più Gheddafi resisterà, più i rischi di una nuova Somalia, se non di un nuovo Afghanistan, diventeranno reali. La sua cacciata e il no all’intervento della Nato non sono disgiungibili. Il vento caldo della rivoluzione araba soffia anche in Italia, nonostante pochi ancora lo vogliano sentire. Un certo risveglio sociale è tuttavia in campo anche da noi e questa primavera può ancora riservare sorprese. Come diceva un noto regista recentemente scomparso nella sua ultima intervista televisiva: “L’Italia è senza dignità, serve una botta, una Rivoluzione!”.


ARTICOLO 15 “ARRANGIATEVI COME POTETE”

Marcia mondiale delle donne le donne martoriate del kivu di Nadia De Mond Dal 2000 coordina in Europa la Marcia mondiale delle donne contro le violenze e la povertà

Repubblica Democratica del Congo: documentate tremende violenze sulle donne: introduzione di oggetti taglienti nella vagina, armi azionate all'interno del corpo della donna. Padri costretti a violentare le figlie e fratelli le loro sorelle. Molte ragazze vengono rapite e utlizzate come schiave sessuali fino a quando la comunità non paghi per riscattarle. L'abbandono sia da parte dei mariti che della comunità per paura di rappresaglie; i casi di stupro commessi da civili. La marcia mondiale delle donne a sostegno delle vittime.

Nella Repubblica Democratica del Congo, la violenza sessuale è considerata una caratteristica costitutiva della guerra. Lo stupro collettivo e massivo di donne e ragazze è stato documentato anche in Sierra Leone, Ruanda, Liberia, Uganda Sudan e nei Balcani, ma, nella RDC lo stupro collettivo viene utilizzato in modo sistematico come un'arma di guerra da tutti gli attori armati. Lo International Rescue Committee ha registrato 40.000 casi di stupro nella sola provincia del Sud Kivu tra il 2003 e il 2008. Da uno studio sulle donne curate all'Ospedale Panzi (Ospedale privato, sostenuto dalla cooperazione internazionale, specializzato nella cura delle conseguenze fisiche e psichiche delle violenze sessuali con una capacità di accoglienza di 10 -12 casi al giorno – comunque non sufficiente a rispondere alla domanda) a Bukavu risulta che le vittime sono donne di tutte le età – da 9 a 79 anni - di tutte le etnie, per la maggior parte contadine. Gli stupratori sono per la maggior parte uomini in divisa, che agiscono in bande (gang rapes), in prossimità delle case delle vittime. Gli aggressori arrivano per saccheggiare i villaggi e stuprano le

donne per sottomettere le comunità, scardinare la coesione sociale, spingere gli abitanti a sloggiare o a accettare di lavorare in condizioni di schiavitù. Si tratta di milizie di ogni tipo: truppe provenienti dal Ruanda, Hutu e Tutsi, signori della guerra congolesi al soldo di interessi internazionali o agenti "in proprio", lo stesso esercito nazionale "riformato", milizie a carattere tribale,... La posta in gioco è la stessa, il controllo del territorio ricco di metalli preziosi quali oro, diamanti, coltan - utilizzato nella fabbricazione di cellulari e portatili e reperibile in soli due posti al mondo: l'Australia e il Kivu. Le violenze documentate sono tremende: l'introduzione di oggetti taglienti nella vagina è una pratica comune, così come quella delle armi azionate all'interno del corpo della donna.Non solo, tanti padri sono costretti a violentare le figlie e molti fratelli le loro sorelle. Oppure, le ragazze vengono rapite e utlizzate come schiave sessuali fino a quando la comunità non paghi per riscattarle. Il successivo abbandono sia da parte dei mariti che della comunità – anche per paura di

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rappresaglie – è alto. La stigmatizzazione delle donne violentate è forte, tuttavia, lo studio registra un altro dato preoccupante che consiste nel forte aumento dei casi di stupro commessi da civili – tra l'altro come corollario di furti o rapine - il che denota una banalizzazione della violenza sessuale nella società. Ufficialmente la Repubblica Democratica del Congo è considerata un Paese postbellico. Nello scorso decennio sono stati firmati vari accordi di pace e disarmo tra le forze belligeranti. Una forte missione delle Nazione Unite** dovrebbe vegliare sulla pacificazione, in particolare delle province orientali del Congo. In realtà le donne denunciano la totale inefficacia di questa presenza militare e l'impunità di cui godono queste truppe nei casi – non rari - in cui esse stesse sono autrici di violenza contro le donne. Formalmente la RDC risulta una democrazia – nel 2006 si sono celebrate le elezioni in cui è stato eletto presidente Joseph Kabila, tuttora al potere. Effettivamente le istituzioni rimangono corrotte e i sevizi pubblici praticamente sono inesistenti.


ARTICOLO 15 “ARRANGIATEVI COME POTETE”

Per la popolazione urbana rimane valido il famoso Articolo 15, noto sotto il regime di Mobutu, equivalente ad un "arragiatevi come potete". Nelle aree rurali, potenzialmente ricche del Kivu, la fame regna. Le donne hanno paura di allontanarsi dai villaggi per lavorare i campi, maestre/i e altri funzionari pubblici non vengono pagati – sono gli stessi genitori che si quotizzano per retribuire gli insegnanti e mantenere così un minimo di educazione scolastica. *** Il quadro qui sopra brevemente dipinto racchiude i motivi per cui la Marcia mondiale delle donne, movimento femminista globale, ha scelto il Kivu come centro della sua 3a azione internazionale, un'azione focalizzata sul tema della violenza contro le donne in aree di conflitto, uno dei quattro campi di azione sui quali la Marcia si è mossa in questi anni. Come nelle precedenti edizioni – nel 2000 e nel 2005 – le attività di sensibilizzazione e di mobilitazione sul tema della pace e della smilitarizzazione sono cominciate a livello locale a partire dall'8 marzo, per confluire in iniziative regionali –

per l'Europa si è realizzato un concentramento femminista a Istanbul a fine giugno – e finalmente concentrare le forze in un unico punto del pianeta, ritenuto emblematico per la problematica affrontata. Il raduno internazionale ha come scopo di andare a rafforzare le azioni locali delle associazioni di donne che, normalmente, godono di scarsa visibilità e potere d'impatto – malgrado il valore intrinseco del lavoro che svolgono sul terreno in termini di cura delle vittime, ricomposizione del tessuto sociale e costruzione delle condizioni di pace. Si tratta di creare un contesto – con gli occhi della stampa internazionale puntati – in cui si agevola la denuncia da parte delle attrici locali e si mettono palesemente i politici nazionali e internazionali davanti alle loro responsabilità. Bukavu, tristemente noto come capitale della violenza sessuale, è stato scosso per 5 giorni dalla presenza di 2.500 donne, provenienti da tutte le province del Congo e da 42 paesi stranieri, che hanno gridato la loro ferma decisione di mettere fine alla violenza contro le donne del Kivu. Cinque gior-

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ni di dibattiti sulle stategie da adottare, scambio di esperienze e testimonianze, conclusi con una manifestazione massiccia di 30.000 donne nelle vie di Bukavu. Una mobilitazione che ha coinvolto le donne dei villaggi – a volte venute a piedi per molte ore – e della città, costringendo le autorità locali e nazionali a fare i conti con il loro clamore. Certo uno scossone non è un cambiamento durevole. Dopo la grande mobilitazione si ritorna alla minacciosa quotidianità del conflitto mai assopito, le promesse delle autorità accorse sul posto vanno monitorate e fatte rispettare smascherando i tentativi di recupero e di strumentalizzazione da parte di poitici/che in funzione delle prossime elezioni, la situazione rimane estremamente complessa e va seguita anche a livello internazionale. Però abbiamo la netta sensazione di aver contribuito , con un atto di solidarietà diretto e concreto, ad alleviare per un momento le pene delle donne in Kivu, alimentando la loro speranza e il loro coraggio nella quotidiana lotta per la pace.


QUANTO “VALE” UNA VITA? ECCO IL MERCATO

Brutto e povero? Valutazione: zero di Gianni Lannes La vita umana non ha prezzo? Sbagliato. In realtà c’è un cartellino indicativo che tende al ribasso per le classi sociali agli ultimi gradini. La vita di un immigrato in Italia vale la metà di quella di un italiano. Nel commercio degli organi, per stabilire le tariffe, tutto conta. La vita vale per ciò che si guadagna. Le assicurazioni hanno stabilito che la vita vale tantissimo per il ricco, nulla per il povero. I non abbienti, i modesti, i miseri, restano tali anche di fronte alla morte. Ma una volta non si diceva che innanzi alla morte si è tutti uguali? Nel vecchio continente occorrono circa 3 anni per una donazione legale e molti pazienti muoiono prima di ottenerla. Risultato? Il traffico d'organi umani va a gonfie vele. Un rene è pagato 3 mila euro all’offerente e rivenduto a circa 200 mila dollari. I donatori sono reclutati a pagamento in alcuni nazioni dell’Est Europa dove i redditi sono striminziti e il costo della vita gioca al ribasso. Una Commissione del Consiglio d’Europa ha denunciato a Strasburgo un traffico di reni da diversi Paesi dell’Est europeo. «Dalle nostre indagini in Moldavia scrive la relatrice Ruth Gaby VermotMangold - i donatori, tutti giovani, sono portati in Turchia, dove si fanno le analisi di compatibilità. Dopo si fissa in cliniche private il trapianto. I riceventi sono israeliani, russi e cittadini dei Paesi arabi ma si sospetta che vi siano anche tedeschi e austriaci». Al mercato degli organi umani, un corpo integro vale attualmente 45 milioni di dollari. Per i trapianti e per l’utilizzo di cellule, tessuti e proteine per l’industria medica, il nostro corpo è una miniera. In teoria. Nella pratica, le norme internazionali sono restrittive, quindi, l’effettiva capacità di estrarre parti e sostanze riutilizzabili resta per ora limitata. Una volta nell’occhio del ciclone figuravano India e Brasile, ma oggi il commercio clandestino d'organi umani è sempre più vicino

all’universo occidentale. «Nel mondo le ineguaglianze aumentano - attesta l’Oms - Il pericolo del calo della vita media riguarda il 50 per cento degli europei. In Russia la vita media è scesa a 65,4 anni, mentre nell’Africa subsahariana, benché fosse già bassa, è calata ulteriormente negli ultimi 10 anni». Analoghe disparità sono presenti anche nel ricco occidente: a Glasgow, fra un distretto e l’altro, la differenza della speranza di vita è di 10 anni. «A Torino - documenta uno studio universitario dell’ateneo cittadino - si è arrivati ad un livello simile». Se uno dei tre esseri umani economicamente più ricchi del mondo morisse in un incidente (in tre superano il pil dei 48 Paesi poveri censiti dall’Onu) la sua quotazione sarebbe stratosferica. Irrisoria è per i non abbienti. Così dice il codice civile: la vita vale per ciò che si guadagna. In teoria la vita umana non ha prezzo. In realtà c’è un cartellino indicativo che tende al ribasso per le classi sociali agli ultimi gradini. Lo straniero vale la metà. In Turchia, ad esempio, un italiano morto per colpa può essere liquidato meno che in Italia. E anche gli stranieri dei Paesi in via di sviluppo che periscono nel nostro Paese sono contrattati al minimo, dato che si tiene conto della loro provenienza da zone povere. Molte assicurazioni inoltre, invocano il principio di reciprocità: se la vittima è

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di un Paese arretrato che non riconosce il danno a valori europei, bisogna comportarsi allo stesso modo. Di fatto: la vita di uno straniero in Italia vale la metà di quella di un italiano. Nella realtà, a parte Europa, Giappone e Usa, ci sono ben poche possibilità che la vita venga risarcita. E quando avviene, si tratta di pochi spiccioli. Se si prova a ordinare uno stereo, un computer, una moto a un rivenditore di Caracas, Città del Messico, Nuova Delhi o Nairobi, si può constatare che il bene di consumo costa anche più che in Europa (parecchi stipendi locali). La vita umana invece, o non ha prezzo (perché non viene risarcita) o può valere nei risarcimenti meno di un telefonino. I risarcimenti per la perdita della vita umana, infatti, sono inferiori al costo di molti beni di lusso. Per legge, la vita ha un valore biologico, morale e patrimoniale. Paragonandola alle merci che viaggiano per la Terra, protette da leggi internazionali, ci si chiede: vale più un telefonino o la vita di un bambino ammalato di malaria in Zambia? Un fuoristrada nuovo o un italiano che viene investito da un pirata della strada? La vita non ha prezzo, è un bene supremo, ma per le assicurazioni, le multinazionali farmaceutiche, i giudici chiamati a valutare i danni di un incidente colposo sul lavoro, la vita deve avere un prezzo.


QUANTO “VALE” UNA VITA? ECCO IL MERCATO

Ecco l'anomalia: il costo di una moto, una macchina fotografica o un orologio di marca è abbastanza stabile fra le varie aree del globo terrestre. Il prezzo della vita umana no: si va, infatti, da qualche spicciolo a milioni di euro. Fino agli anni ’90 il danno di una persona anziana che moriva in Italia per colpa di un automobilista, poteva essere liquidato dalle assicurazioni con cifre inferiori al costo di un'auto di segmento medio-alto. Oggi, va un po’ meglio, ma la valutazione è in ogni modo più bassa di quella di una Ferrari di tre anni (vale meno di 90 mila euro). Se un auto del genere va a fuoco, il risarcimento per il proprietario sarà più alto di quello dovuto ai familiari di un anziano che muore in un incidente stradale. O di un figlio minore vittima di uno scontro in motorino. Se si finisce all’altro mondo per colpa di qualcuno, sono tre i criteri adottati per il risarcimento: danno biologico (il diritto alla salute viene leso totalmente), danno morale da lutto (un’ingiustizia anche ai parenti), danno patrimoniale (la persona deceduta non darà più il suo apporto economico alla famiglia che ha quindi diritto a un risarcimento). Un capo famiglia vale in teoria circa 500 mila euro. Stabilendo invece, una media fra le sentenze, la fine della vita di un italiano per responsabilità altrui costa oggi 250 mila euro, se si dimostra l’effettiva responsabilità. Facile a dirsi, se la vittima è

stata investita; più difficile nel caso di una collisione fra due macchine, ancora più difficile nel caso di morti da parto o per soccorsi ospedalieri errati. Quasi impossibile per le malattie gravi, provocate da lavorazioni sospette o pericolose sul posto di lavoro. Ostruzionismo. La persona muore e, solitamente, nei casi meno dimostrabili, l’assicurazione sposa la tesi della non responsabilità o del concorso di colpa e si va a un processo che può durare a lungo. E’ difficile che i familiari ottengano un risarcimento completo se non si affidano a studi legali specializzati. C’è sempre un margine di discrezionalità sul valore della vittima. In pratica parte una trattativa commerciale fra avvocati, supportata dai periti di parte. Il valore finale della vittima può variare fino al 20 per cento. Quando però si tratta di riconoscere il danno da perdita della vita in se stesso, si va oltre i danni patrimoniali, non esistono più criteri oggettivi. Alcuni tribunali non lo riconoscono affatto, altri lo valutano 200 mila euro; altri ancora solo 2-3 mila euro. Si considera spesso il danno biologico, il cui risarcimento è trasmissibile agli eredi. Ma «per produrre effetti economici», secondo la Cassazione, «è necessario un periodo di sofferenza e di cure prima della morte della vittima», che il magistrato può quantificare proprio come per l’invalidità temporanea, con vari punteggi.

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Se però l’agonia dura poco, molti tribunali non tengono conto della perdita della vita. Paradossalmente, la morte non è considerata un danno biologico. Oltre il limite della morte, secondo l’orientamento della Cassazione, non si paga più in denaro perché interviene la punizione penale. Secondo i giudici favorevoli a riconoscere il danno biologico anche per agonie brevi, la perdita della vita è da considerare un danno al 100 per 100 alla salute, la cui integrità viene garantita dalla Costituzione. Inoltre si ritiene in giurisprudenza che il danno inizia nel momento dell’azione colposa. Quindi, anche se la vittima resta in vita poco tempo, avrebbe comunque diritto al risarcimento, da pagare agli eredi. Se si riconoscesse il danno biologico “per morte causata” si dovrebbe anche riconoscere un prezzo per la vita in quanto tale, indipendentemente dalla professione o dal ruolo sociale della vittima. Qui si arriva al terzo aspetto del risarcimento: il danno patrimoniale, che varia enormemente secondo i Paesi. E c’è pure una macroscopica eccezione. Per i profughi non si pagano i danni. Nelle guerre è difficile che venga rimborsata la vita dei civili. Malnutrizione ed epidemie, anche mortali, hanno superato negli ultimi confitti bellici guerre i danni causati direttamente dalle armi.


TEATRO/ INTERVISTA A PIERO GRASSO

Per non morire di mafia Terra ca nun senti di Natya Minori Il maxi-processo, la lotta alla mafia, i problemi della giustizia, i temi principali affrontati da Piero Grasso nel suo libro "Per non morire di mafia". Un testo divenuto già piéce teatrale con grande successo di pubblico. Riflessioni forti, spesso gridate, che puntano il dito sul pubblico, costringendolo a guardare in faccia il proprio impegno e le proprie responsabilità. Voce narrante Clara Salvo, appassionata interprete della Sicilia. Compagna e partigiana "Per non morire di mafia, bisogna parlarne, bisogna reagire. Tacere il problema della mafia ed il suo radicamento nel tessuto sociale, politico, finanziario ed economico, non significa farne scomparire gli effetti. I silenzi, anzi, rafforzano il potere mafioso. Non solo. Non si può neanche pensare di combattere il fenomeno con la repressione. È necessario piuttosto, il recupero dei valori della legalità e della civiltà, attraverso la sensibilizzazione delle nuove generazioni e, non ultimo, attraverso l'arte e la cultura. Una necessità che, mi spinge ad andare spesso fra i giovani, nelle scuole, nelle università, che mi ha convinto ad accettare la proposta, partita da Sebastiano Lo Monaco, di portare sul palco il mio testo." A parlare così è Piero Grasso, Procuratore Nazionale Antimafia, autore del libro "Per non morire di mafia" opera autobiografica scritta in collaborazione con il giornalista Alberto La volpe e divenuta già impegno teatrale. Un monologo diretto dall'eclettico regista livornese Alessio Pizzech Partendo dal vissuto del magistrato siciliano, la pièce, interpretata da Se-

bastiano Lo Monaco e adattata da Nicola Fano, sviscera temi quali il maxiprocesso e la lotta alla mafia, attraverso riflessioni forti, spesso gridate, che puntano il dito sul pubblico, costringendolo a guardare in faccia il proprio impegno e le proprie responsabilità. Senza veli, senza ipocrisie. Ha tentennato di fronte alla proposta di Lo Monaco? "A dire il vero sì -ammette ridendo il Procuratore - anche perché operazioni come questa sono realizzate di solito con autori defunti...Scherzi (e scongiuri) a parte, all'inizio nutrivo delle perplessità. Il testo è ricco di riferimenti autobiografici e di riflessioni umane e professionali rispetto alle quali, per poter scrivere il libro, ho mantenuto un certo “distacco” emotivo. Temevo che quel distacco potesse in qualche modo riflettersi sul pubblico e compromettere l'esito dello spettacolo". Invece? "Invece, ho dovuto ricredermi. Assistendo allo spettacolo mi sono emo-

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zionato. Non solo il distacco non c'è, ma è stato bello al contrario constatare quanto è stato forte il coinvolgimento del pubblico. Grazie anche a certe “trovate” del regista. Per esempio, l'enorme specchio che nelle battute finali viene puntato sulla platea; la gente partecipa commossa, reagisce, risponde con lunghi applausi liberatori. Evidentemente, perché ha bisogno di toccare la verità, di sentire che qualcuno ne parla, di vedersi riflessa in uno specchio." Il suo libro e lo spettacolo, riflettono sui problemi a cui va incontro la giustizia in Italia oggi. Alla luce della sua esperienza professionale, dalla provincia di Enna al suo incarico a Roma, in che condizioni pensa che versi la giustizia? Quali le prospettive? "In generale, penso che la giustizia italiana abbia bisogno di riforme che la rendano agile ed efficiente, senza paletti o interi steccati che ne rallentino il corso; Sia in campo civile sia in ambito penale, la gente ha bisogno di contare sulla brevità egli iter procedurali.


TEATRO/ INTERVISTA A PIERO GRASSO

Se i tempi sono gravosi, la stessa fiducia della gente nei confronti della legge rischia di perdersi. Noi magistrati lo diciamo da tanto tempo e avremmo anche le soluzioni. Alcune riforme potrebbero infatti, essere attuate a costo zero, come l'informatizzazione della giustizia. Purtroppo però anche la legge deve fare i conti con i tagli del Governo ". L'affluenza e le critiche allo spettacolo continuano a registrare un esito più che favorevole. Segno che i tagli non riescono a recidere certe corde. Almeno quelle. "Per non morire di mafia" partita il 19 febbraio da San Gimignano (Siena) per tutto il 2011 sarà in tournée su tutto il territorio nazionale.

*** Tutto bene dunque, ma cosa ne pensa il regista Alessio Pizzech? "Dopo qualche timore iniziale legato alla sensazione di addentrarmi in un sistema di cui non avevo piena percezione, questo lavoro mi ha spronato ad aprire i miei orizzonti, a guardare in

faccia una realtà che fino ad ora avevo sentito diversa e distante da me. È uno spettacolo che costringe a pensare, che fa muovere i cervelli e le emozioni. Io credo che il pubblico condivida le nostre stesse sensazioni. Me lo confermano, dalla Sicilia a Trieste, le lacrime negli occhi di molti spettatori o le parole di chi si rammarica di non aver portato con sé anche il figlio." Sensazioni forti. Controversa ed intensa l'ambientazione del monologo. Ne viene fuori una Sicilia che soffre, che ride, che dorme, e, che prende vita attraverso la voce, altrettanto intensa, di Clara Salvo. Una straordinaria interprete di canti tradizionali siciliani. "Perché ho accettato di prender parte allo spettacolo? Spiega Clara Salvo, cantante ed interprete straordinaria della tradizione siciliana - Credo semplicemente per coerenza, perché mi piaceva il messaggio che il testo di Grasso vuole trasmettere e perché vi ho letto un impegno che è stato e continua ad essere anche il mio: coinvolgere.

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Perché l'antimafia siamo tutti noi. Inizialmente mi è stato chiesto da Alessio Pizzech e da Dario Arcidiacono, fonico della compagnia, di cantare due ninne nanne, che avrebbero dovuto accompagnare il momento iniziale del monologo, legato all'infanzia del protagonista poi, dati i contenuti, il racconto, i messaggi che il testo contiene, ci siamo subito ritrovati nella comune decisione di aggiungere altri due brani della tradizione siciliana: “La Sicilia avi un patruni”, scritta da Ignazio Buttitta, e “Terra ca nun senti”, brani che raccontano molte verità sulla nostra terra, sulla nostra società. La mia vocevuole essere la voce della Sicilia vera e che non si nasconde…". Prossima tappa, dal 12 al 17 Aprile al Teatro della Pergola di Firenze. "Il nostro intento per il 2011 -sottolinea Pizzech- è toccare altri luoghi e altre coscienze, arrivando a quanti vogliono vivere al teatro, insieme con noi, un'esperienza formatrice." Per una volta, forse, la nostra è "terra ca senti".


TEATRO/ UNO SPETTACOLO SU “LIBERA TERRA”

Mafie in pentola

Paccheri e mozzarelle “liberati” di Andrea Guolo

E' in giro per l'Italia una rappresentazione teatrale che racconta la storia di Libera Terra, l'insieme delle cooperative sorte sui terreni confiscati alle mafie. Uno spettacolo per informare, incuriosire, risvegliare: ci spiega che nella quotidianità si può combattere le mafie anche attraverso una spesa che premia la bella economia delle cooperative. Il teatro si fa quindi azione di coscienze Uno spettacolo di teatro civile- gastronomico? Perché no? Lo chiamiamo “Mafie in pentola” e giù, il menu della legalità, dall’antipasto al dolce. I più fortunati tra il pubblico sono invitati dalla protagonista, l’attrice bolognese Tiziana Di Masi, a salire sul palcoscenico “ad assaggiare”, tra ironia e golosità, e ad ascoltare la storia che ciascuno di quei prodotti racchiude. I paccheri e la mozzarella di bufala di don Giuseppe Diana (Campania), il vino di Placido Rizzotto (Sicilia) e Hiso Telaray (Puglia), i peperoncini e le melanzane coltivati dagli extracomunitari feriti a Rosarno (Calabria), il “padanissimo” miele della cascina Bruno e Carla Caccia (Piemonte). Quasi tutti i sapori dell'antimafia in scena e attraverso loro Mafie in pentola, racconta l’esperienza delle cooperative di Libera Terra, sorte nei terreni confiscati alla criminalità organizzata. “Non volevamo che lo spettacolo chiudesse gli stomaci degli spettatori, ma che li aprisse” - ci spiega scherzando Tiziana Di Masi - ognuno di noi, nella quotidianità, può combattere le mafie anche attraverso una spesa che premia la bella economia delle coope-

rative. Il teatro si fa quindi azione di coscienze e l’intreccio fra testo e azione sono legati a questa necessità. Il teatro quindi, per informare, incuriosire, risvegliare stomaci e animi”. Da qualche mese la rappresentazione attraversa l’Italia portando tra gli spettatori un messaggio: le mafie non sono invincibili e si possono combattere anche… mangiando. Il debutto è avvenuto lo scorso ottobre, a Forlimpopoli, per la consegna a don Luigi Ciotti - fondatore di Libera - del premio intitolato a Pellegrino Artusi. Da allora ha toccato Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia. Ora sta per sbarcare in Sicilia, dove dal 13 al 18 aprile sarà in scena a Catania e Palermo, poi, nelle Marche e ancora a Nordest. Dal 2001, cominciando dalla Sicilia, le cooperative di Libera hanno messo radici in un ambiente spesso ostile per diffondere qualità, metodo biologico, legalità e tutela dei lavoratori. Le mafie non sono rimaste a guardare e hanno minacciato, sabotato, incendiato. Tuttavia, la forza della terra è superiore alla capacità distruttiva dell’uomo. Così in Calabria, nella

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piana di Gioia Tauro, dagli ulivi abbattuti per ricavarne legname e non cederlo alle cooperative, si sono originati quei polloni da cui quest’anno, per la prima volta, è stato ricavato l’olio extravergine della rinascita. Nelle terre di Corleone, in Sicilia, all’inizio, per una diffidenza originata dalla paura, le cooperative non riuscivano a trovare manodopera, ma, hanno rotto il muro delle regole mafiose, versando i contributi ai lavoratori e dando il via ad un circolo virtuoso: ora non sono più in grado di accontentare tutte le richieste d’impiego che arrivano. In Campania, non lontano da Casal di Principe, sta avviando l’attività un caseificio che, attraverso l’agricoltura biologica, vuole restituire alla mozzarella di bufala il suo ruolo di portabandiera del made in Italy alimentare. Non lontano da Torino, (bisogna ricordare che le mafie sono presenti anche e soprattutto al nord) – con il miele si produce un golosissimo torrone. In fondo scegliere di stare in pista, non richiede neppure molto coraggio, questa volta basta un… "buon appetito".


TEATRO/ UNO SPETTACOLO SU “LIBERA TERRA”

Disegno diAmalia Bruno. A destra:Tiziana Di Masi. IL MENU' DI “MAFIE IN PENTOLA”

LE PROSSIME DATE DI “MAFIE IN PENTOLA”

Aperitivo Friselle, taralli e olio extravergine

21 marzo: Bologna, palazzo D’Accursio 25 marzo: Bologna, teatro Dom-Pilastro 30 marzo: Pordenone 31 marzo: Portogruaro

Antipasti Carciofi violetti di Brindisi ripieni, fritti e ripassati al forno (come li fanno a Mesagne) Pane casereccio con patè di peperoncino piccante calabrese in olio extravergine d’oliva Primi Zuppa di Cicerchie, come la fanno a Portella della Ginestra (Sicilia) Spaghetti di grano simeto con passata di pomodoro fiaschetto di Torre Guaceto

9 aprile: Chioggia dal 13 al 18 aprile: Palermo e Catania 21 aprile: Bologna, Candilejas 30 aprile Monte Urano

Secondo Mozzarella di bufala campana bio, dalle terre di don Peppe Diana (Campania) Dessert Il “padanissimo” torrone di Cascina Caccia (Piemonte) Digestivo Il limoncello di Bosco Falconeria (Sicilia) Il tutto accompagnato dai vini Placido Rizzotto (Cantina Centopassi) e Hiso Telaray

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LIBERA

Lucania terra di luce di Francesca Ripoli Il diciannove marzo 2011, a Potenza per la XVI Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime delle mafie. Colorati, rumorosi, allegri cortei per le vie della città. Incontri, seminari e tante altre cose per ricordare e per impegnarsi nella lotta alle mafie Narra un’antica leggenda che qualche millennio fa un popolo migrante attraversando il sud del nostro Paese si trovò a percorrere quella vasta zona di terra che si estendeva tra il Mar Tirreno e il Mar Ionio, quella che oggi include anche parte del Cilento, dell’Irpinia, dell’alta Calabria fino al golfo di Taranto. Una terra di boschi, di fiumi e di monti, colpì quella gente perché da questa terra vedevano sorgere il sole; si fermarono, dunque, e la chiamarono Lucania, in altre parole “terra di luce”. Non è questo l'unico significato di Lucania, ma è quello che ci piace di più: perché offre speranza, perché richiama alla responsabilità. Nonostante sia collocata geograficamente nel cuore del Mezzogiorno, la Lucania è una regione vista sempre ai margini del Sud. E' considerata Una sorta di linea di confine culturale tra il volto, classico delle mafie e quello che si evolve nell’era della globalizzazione; Tra la criminalità considerata, la zavorra colpevole di un Sud che economicamente non decolla e quella che sempre più si pone come complessiva questione culturale. Quello che spara e semina lutti e quello che non si fa chiamare mafia, ma anzi prende le distanze dalla mano violenta e criminale. Una zona grigia, insomma, che non essendo mai facilmente definibile rischia d'essere invisibile o, peggio ancora, inesistente; come accade, appunto, in Basilicata la cui storia recente è stata caratterizzata da una serie di vicende che hanno catapultato questa regione sul

palcoscenico di una cronaca nera fatta d'omicidi, scomparsi, intrecci perversi e poteri nascosti.

Ritrovarci il 19 marzo in Basilicata, quindi, per dirci ancora una volta che il contrasto alle mafie e a tutta la loro complessità significa andare oltre i luoghi comuni, scendere nelle profondità delle vicende, attraversare le apparenze, travalicare i confini delle frasi fatte, e che ci sono terre – come appunto questa – che ci aiutano a capire che l’impegno antimafia prima ancora che denuncia delle organizzazioni criminali è annuncio di un nuovo modo di partecipazione alla vita del Paese; è impegno, attraverso la corresponsabilità di tutti e di ciascuno, nell’edificazione di modelli culturali in antitesi con quelle logiche clientelari e patti sottobanco che sono invece terreno fertile di una mafiosità di sistema prima ancora che degli stessi clan. Il 19 marzo in Basilicata, dunque, per dire che in questa regione c’è tanta e tanta gente che vuole rendere visibile “la luce che sorge” perché intende restare fedele al

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significato profondo della stessa parola Basilicata, che viene dalla radice greca “basilicos” o “basileus”, letteralmente “re”, “signore”: dunque, protagonista e non comparsa nella storia di questa regione. Dopo essere stati a Milano, dove la mafia finanziaria fa proseliti, ma è ancora un tabù parlarne apertamente, torniamo al Sud, per accendere un faro su una regione che troppo spesso è dimenticata e marginalizzata rispetto alle dinamiche criminali, resa bomboniera turistica dal noto e gradevole film di Rocco Papaleo. Ma in Basilicata c'è di più: in quel "Coast to Coast" si consumano fatti criminali, legati alle mafie limitrofe ma anche al primo clan autoctono, nato negli anni Novanta ( i Basilischi) che traggono profitto dalla strategica posizione di questa terra. La luce che vogliamo accendere con la Giornata del 19 marzo, è una luce che mira a rendere più visibile il grigio, affinché ognuno possa capire che oltre alle organizzazioni criminali, oggi in Italia dobbiamo fare attenzione alle zone di confine tra i grandi poteri, alla nota zona grigia appunto, costituita dalle mafie, dalle massonerie deviate, da parti deviate della politica e delle istituzioni. Per questo il nostro colorato, rumoroso e lucente corteo, arriverà nelle vie di Potenza il 19 marzo e cercherà di squarciare il velo dell'indifferenza che troppo a lungo si è consumata su quest'area. potenza.19marzo@libera.it info: 331.1776339


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MONDO PRECARIO

Cronachette

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di AMALIA BRUNO


PUNTO FINAL

Dopo il Giappone di Riccardo Orioles Stavolta non è colpa di Berlusconi. Né dei comunisti. Né di Putin o di Obama, né di alcun potere umano conosciuto. E' proprio che siamo deboli, noi umani. Ci strappiamo a vicenda acqua, bancomat e pezzi di terra ma – quando viene il momento – siamo tutti formiche nelle mani della natura. Che non abbiamo domato affatto, né con le buone né con le cattive. I giapponesi, dopo Hiroshima, hanno inventato Godzilla, il mostro inarrestabile che spunta dal profondo. Poi l'hanno dimenticato, e allora hanno costruito le centrali. Non ci sono ideologi a cui rifarsi, in queste cose; solo poeti (io, italiano, penso al nostro Leopardi) e basta. E' tutto, concettualmente, da inventare. E da inventare alla svelta, perché coi sistemi attuali com'è oggi evidente – l'Atlantide affonda. Il terremoto ha dato il primo colpo, e già qui noi formiche eravamo impotenti. La centrale il secondo, perché avevamo bisogno – alla svelta – di sempre più energia facile; e Godzilla dormiva.

Il terzo colpo – che deve ancora arrivare – è quello dell'impatto sul sistema economico mondiale (insurance, subprimes, ecc.), enormemente acuito da tutte le speculazioni che hanno già provocato la piccolo Ventinove di tre anni fa. Tanto “inaspettato” (e aspettabile) quanto un terremoto. E tanto sproporzionato, nella sua incontrollabile enormità, alla misera forza di noi povere formiche. Ecco: di questi colpi, almeno due si possono parare. Non pretendendo di più di quel che il pianeta – coi suoi mostri dormienti - ci consente. E non consentendo più, ai Godzilla artificiali di un'economia ormai esplosa, di calpestare la terra e la carne senza controllo alcuno. Bisogna cambiare sistema, profondamente. Un socialismo, un'anarchia, un cristianesimo, un Tolstoi... – un'utopia qualunque, da mettere in opera subito, a partire da ora. Senza bisogno di darle un nome ma credendo profondamente nella necessità di essa. Perché così, col “realismo” che

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abbiamo, stiamo finendo male e ogni alternativa è meno peggio. Davvero questo Giurassico folle, percorso da tirannosauri che calpestano ogni cosa, è l'unico modo di vivere che abbamo? Davvero il mondo dev'essere amministrato solo dagli uomini maschi, con un pisello fra le cosce e una clava tecnologica in mano? E se la “finanza” svanisse, e tornasse a regnare la produzione? E se governassero le donne, la signora Roccuzzo, la regina di Saba, o quelle come mia nonna? Gli basterebbe governare “anche” loro (che non è mai accaduto: ci sono tante donne al comando oggi quante nell'Egitto dei Faraoni), per imporre finalmente i loro antichi valori: la lentezza, gli affetti umani, la spesa meditata, la gioia e non rapina del sesso, l'armonia. E' “utopistico”, certo, miei signori. Ma tanto, peggio di così non può andare. Sull'orlo del'abisso, l'utopia è ragionevole e la pigrizia del “realismo” è la rovina.


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