I Frati del Parioli

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Carlo Luna

I “FRATI” DEL PARIOLI Storie e personaggi del Club dal dopoguerra ad oggi

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CARLO LUNA I "FRATI" DEL PARIOLI Stampato a Roma nell'ottobre del 2008 Art director e copertina: STEFANO MENICUCCI Illustrazioni: FRANCESCO FERRARI

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Avvertenze 1. Una dura nota di biasimo per Maurizio Riganti e Massimo Operti, che hanno avuto l’idea di questo libro e mi hanno convinto ad un’improba fatica. Il risultato contribuirà sicuramente a far crescere a dismisura il tasso d’antipatia nei miei confronti.

2. Ho scritto un libro assolutamente fazioso ma anche vero. La faziosità mi ha portato a selezionare solo alcuni episodi e personaggi, magari arricchendo e colorando qualche particolare. La sostanza però c’è tutta. Ne sconsiglio vivamente la lettura ai soggetti permalosi 3. Ringraziamenti sentiti per il prezioso aiuto fornitomi a Roberto Wis, Emanuele Scarfiotti, Vincenzo Stipa, Giancarlo Fumasoni, Mirella Sotis Prandi, Cesare Guerci Lena, Nicola Pietrangeli, Roberto Valerio, Ugo Fumasoni, Franco Palombelli, Fabrizio Berliri, Carlo Tommasi, Paolo Rampichini, Federico Castelnuovo.

4. Il libro è stato scritto gratis da me e stampato gratis dall’Alce Buono, al secolo Aristide Palombi. Stefano Menicucci ne ha curato gratis la parte grafica, mentre il giovane e promettente architetto Francesco Ferrari ha disegnato gratis le vignette. Non sarà regalato a nessuno, neanche all’Autore, ma solo messo in vendita per beneficenza.

5. Quindi non fate i tirchi e cacciate il grano!

Carlo Luna

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Dove comincia l’avventura Parioli è un quartiere residenziale assai noto di Roma e “pariolini” sono chiamati i suoi abitanti. Questo vale, però, solo per chi non sa di tennis. Per quanti, con differente abilità, ma sempre con tanta passione e cocciutaggine, si dannano con una racchetta e una pallina su un rettangolo di terra rossa diviso da una rete, “Il Parioli” è uno dei circoli di tennis più vecchi e gloriosi d’Italia. Dove ancora si gioca rigorosamente vestiti di bianco come a Wimbledon, e che ha dato a questo nobile sport, un tempo molto snob, adesso assai popolare, campioni del calibro di Uberto De Morpurgo, Riccardo Sabbadini, Clemente Serventi, Giovanni Palmieri, Giorgio De Stefani, Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta. Scusate se è poco...

Per quelli che vivono il Circolo da più o meno mezzo secolo, e che hanno iniziato a frequentarlo da ragazzi, nella storica sede di Viale Tiziano 68, il Parioli è, però, anche molte altre cose. Una seconda casa, un luogo dove passare allegramente il tempo, non solo facendo sport ma soprattutto amicizia. Popolato da personaggi incredibili e divertenti, con tradizioni rispettate, regole non scritte ma invalicabili, avvenimenti indimenticabili ed un linguaggio particolare. Non tutti lo hanno vissuto e lo vivono con la stessa intensità, ma tutti, anche quelli che se ne sono andati per i più svariati motivi, lo hanno sempre sentito come un posto unico, nel quale

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fioriscono battute e sfottò, si combinano scherzi, si affibbiano soprannomi, si punisce col sarcasmo ogni smargiassata e ci si divide inevitabilmente in clan.

La prima regola del Parioli è, da sempre, quella coniata da George Orwell, opportunamente rivisitata. Stabilisce che: “ Tutti i soci del Circolo sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”. Chi non la capisce è irrimediabilmente out. Non riesce a concepire perché oltre un migliaio di “uguali”, ammessi con la stessa procedura e che pagano la stessa quota, sono in realtà divisi in almeno quattro categorie.

Al Parioli, per i nuovi entrati, è previsto un periodo nel quale sono considerati sotto esame, anche se non se ne rendono conto. I neo ammessi per questo sono chiamati “socetti”. Non si tratta, fino a prova contraria, di un dispregiativo. Non è mai esistita nei confronti dei nuovi soci un’ostilità preventiva o pregiudiziale, ma sta a loro cavarsela nell’approccio con il Circolo ed i suoi altezzosi abitanti.

Con gli anni abbiamo imparato a conoscere diverse specie di “socetti”. Ci sono quelli che capiscono quasi subito le regole, anche se nessuno gliele ha mai spiegate. Si muovono con discrezione, salutano, non s’intrufolano nelle conversazioni degli anziani, non si propongono per improbabili doppi con giocatori più abili di loro, non si siedono come “angolisti” indesiderati in sala carte. Socetti del genere sono assai graditi. Ci sono però, ed è una sciagura, socetti da prendere con le molle, invadenti, rumorosi e imprudenti, che si aspettano di essere salutati. Rischiano assai, come vedremo in seguito.

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Quella del “socetto” è per alcuni una categoria transitoria, dalla quale è possibile uscire, prima o poi. Si può, infatti, a tempo debito arrivare a meritare la qualifica di “socio” vero, che comporta il riconoscimento di tutti i diritti, specie se non previsti dallo statuto del Club, a cominciare da quello, fondamentale, di prendere ed essere presi per il culo. Ma senza esagerare. Si tratta solo di soci normali e niente di più...

C’è chi, invece, rimane “socetto” per tutta la vita. Si tratta di personaggi oltremodo discreti, quasi invisibili, trasparenti, che vengono al Circolo, giocano a tennis con qualche socetto a vita loro pari, con il quale hanno stretto un sodalizio silenzioso e clandestino. Non si fanno mai notare e passano inosservati per anni senza lasciare la minima traccia. Sono i preferiti dal Tesoriere del Club, ancor più dei soci assenti, perché pagano la quota per intero.

Solo alcuni possono salire oltre il grado di socio. Quelli più divertenti, dotati di spirito di gruppo e d’osservazione, gelosi della tradizione pariolina, in grado di coniare battute e soprannomi e, soprattutto, di giudicare con indiscussa faziosità gli eventi del Sodalizio, possono arrivare al grado supremo di Frate.

L’appellativo Frate fu coniato a Viale Tiziano e in qualche modo c’entra, seppur di straforo, perfino Dante Alighieri. La storia pariolina racconta di Carlo Della Vida, che, mentre sedeva al tavolo verde, amava citare, per proprio diletto e per l’altrui sconcerto, i celebri versi del Canto XI del Purgatorio, quando il sommo poeta descrive l’incontro con il miniaturi-

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sta Oderisi da Gubbio, che espiava la pena per la propria superbia. Il verso recita: “Frate - diss’egli - più ridon le carte, che pennelleggia Franco Bolognese”. Ripetuti più volte a mo’ d’orecchiabile cantilena nelle più svariate occasioni, questi versi divennero popolari, anche presso quanti avevano poca dimestichezza con la cultura e la poesia, e che certamente non sono mai mancati fra i giocatori di tennis e fra i soci del Parioli. Gente che ha sempre pensato a Dante come ad una rinomata marca d’olio d’oliva. “Frate diss’egli” fu adottato come tormentone, e alcuni soci presero a chiamarsi “Frate” fra loro. Questo dice dunque la leggenda.

Fatto sta che i “Frati” da allora esistono e si considerano custodi dell’ortodossia pariolina, depositari d’eventi e ricordi, coniatori di battute e soprannomi. I “Frati” rimangono tali per tutta la vita, anche in caso di litigi e divisioni fra loro, come le più recenti e meste vicende sociali hanno ampiamente dimostrato. Sono Frati anche quelli che hanno lasciato il Parioli e adesso frequentano altri Club romani, e “Frate” è la prima parola che viene pronunciata, quando s’incontrano.

Se capita di sentirla in un ambiente di lavoro, in un aeroporto o in un’occasione mondana, state certi che in loco ci sono due pariolini doc che si stanno salutando.

C’è chi fa un percorso lento, e da socetto passa a socio per diventare poi in qualche caso speciale vero Frate; e chi ci arriva più rapidamente. Dipende dalle qualità del soggetto. In ogni modo si va generalmente per gradi. Con una sola eccezione verificatasi fino ad oggi, quella di Giorgio Prandi.

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L’unico nella storia recente del Parioli a passare direttamente da “socetto”, come fu soprannominato appena ammesso, a Frate. Un record.

Dalla classe dei “socetti” si può, nei casi più disperati, scendere però anche verso il basso, andando a finire in quella dei “pizzettari”, così chiamati per la consolidata parsimonia e per il loro inestinguibile grigiore. Il nome deriva dall’abitudine di riunirsi, per ordire complotti, nelle pizzerie più a buon mercato della Capitale. Si tratta di una categoria in preoccupante aumento e che ha preso, ahinoi, il sopravvento nelle elezioni del 2005. Come i Frati, anche i “pizzettari” appartengono ad una casta dalla quale non si può più uscire per tutta la vita. Nel loro caso una specie d’ergastolo...

Questo libro non ha alcuna pretesa di raccontare la storia ufficiale del Parioli. Altri vi hanno già provveduto assai egregiamente. Non si parlerà dei grandi campioni della racchetta né dei tanti personaggi importanti che hanno dato lustro al Sodalizio. Qui si vuole solo tentare di ricordare ai lettori com’era lo spirito originario del Vecchio Parioli allocato in Viale Tiziano, e in quale misura esso riesce ancora faticosamente a sopravvivere nel Parioli di oggi. Uno spirito a tutti gli effetti sanamente e inguaribilmente fazioso. È un libro che vorremmo fosse meditato soprattutto dai giovani, fra i quali abbiamo individuato alcuni promettenti candidati Frati di un prossimo futuro, e che raccoglieranno (più tardi possibile, speriamo) il nostro testimone. Ed è questa l’unica buona notizia che, nell’occasione, possiamo darvi

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sul nostro amato Club com’è oggi.

Il libro è dedicato a tutti i Frati del Parioli, in primo luogo a quelli che non ci sono più.

Charlie Moon

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Parte Prima Il Vecchio Parioli

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Un sopralluogo d’estate Luglio 2007, ore 12,30, Viale Tiziano 68. Oltre un cancello arrugginito c’è un’orrenda porta a vetri d’alluminio “anonimato”, come direbbe qualche vecchio socio di nostra conoscenza. Accanto, una targa di plastica blu con scritto “Circolo Sportivo Paolo Rosi”.

Il solitario e attempato pariolino che in questa torrida mattina ha deciso di addentrarsi nell’edificio per giocare con i propri ricordi di cinquanta e più anni fa, viene accolto da una robusta massaia rurale che gli consente la visita e, soprattutto, di restare alla fine da solo.

Il primo impatto è sconfortante. La casina è rimasta identica nella struttura, ma l’aria d’abbandono all’interno mette tristezza. C’è il bancone del bar del tutto spoglio che fronteggia alcuni divani dal tessuto consunto e polveroso. La sala carte al pianterreno è diventata un magazzino d’acque minerali. Lo spogliatoio maschile è rimasto dov’era, ma non c’è nessuno. “Abbiamo trenta soci”, fa in tempo a dire la massaia rurale, prima che uno sguardo eloquente e severo la costringa ad allontanarsi definitivamente.

Fuori la sensazione non è migliore. Da nove che erano, i campi da tennis sono ridotti a tre. La piccola piscina è scomparsa sotto l’asfalto di un inutile parcheggio vuoto. Il campo “uno”, teatro d’epici doppi, non esiste più. È rimasto il leccio, l’albero sotto il quale i Frati di allora amavano

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sedersi per discutere l’ultima “gravità” verificatasi nel Sodalizio, confrontare le prime impressioni su qualche nuovo “socetto”, comporre una canzone beffarda.

Che senso ha restare qui? È l’ora più calda della giornata e a parte le pallosissime cicale che “friniscono” (non è un errore di stampa, ma il verso che fanno, caro socio di cui sopra...) non c’è nessuno. Eppure, eppure... Chiudendo gli occhi, una stranissima fantasia ti prende, una specie di sogno ad occhi aperti che fa tornare indietro di mezzo secolo. Si sentono voci... C’è qualcuno. Sotto il leccio Roberto “Fico” Wis tiene corte. Con lui ci sono alcuni Frati illustri: i fratelli Teramo, Carlo e Franco Palombelli, Giuliano Scribani, Carletto Saraceni...

C’è un signore distinto che torna dal campo nove dove è nato a Roma il calcetto. È sporco e sudato. Siamo al cospetto del nobile siciliano Jhonny Moncada, detto “Piccolo verme”. Al campo 1 stanno giocando un doppio importante “Monsieur” Pietrangeli padre, Franco Brusati, il marchese Ferrante Cavriani (tanto abile nello sfilarsi al momento opportuno dalle discussioni spinose da meritare l’appellativo di “Sua dissolvenza”)e Carlo Giauna... Al campo quattro il “barone” Patriarca compete rumorosamente con Ninì Galletti, da lui battezzata “Zampettona”, e ad ogni raro colpo che stranamente gli riesce, con quel suo modo orribile di tenere la racchetta penzoloni, le dice “beccati questa”. Alla fine, come al solito, perderà.

Fuori del campo confinante, uno spettatore sta ironica-

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mente chiedendo ad un corpulento e attempato romanesco verace: “Bona Marchè?” e riceve una risposta assai schietta (“Bona er cazzo”!). Sulla soglia del salone centrale il trio composto da Erberto Vaselli, detto “Boccuccia”, dal fido Carlo Del Frate e da Italo Sanna, discetta sulla conduzione del Circolo. Accanto a loro, un distintissimo signore vestito da gentiluomo inglese scuote la testa: è Franci con l’immancabile cravatta regimental ed il panciotto. In sala carte, Carlo Della Vida sfida a Scala 40 l’avvocato-giornalista Giuseppe Colalucci e cantilena beffardo ad ogni scarto: “Cola ti vado in culo. Ti vado in culo Cola”.

Rinasce pian piano una storia che merita di essere raccontata. Quella del Vecchio Parioli, così come un quattordicenne di allora lo andava via via scoprendo. Personaggi, aneddoti, episodi e canzoni rivivono nella memoria e nel racconto di alcuni dei protagonisti di allora. Siamo quasi a metà degli anni ‘50, l’Italia sta cominciando a dimenticare la guerra e si prepara al boom economico che verrà...

A 14 anni si diventava allora soci di un importante Club di tennis come il Parioli o per tradizione di famiglia o perché si era una promessa di questo nobile sport. Nel primo caso si entrava come “figlio di socio”, nel secondo come speranza del tennis italiano. Chi scrive deve la sua appartenenza al Circolo ad una congiuntura del tutto atipica.

Un antico socio, il dottor Arnaldo Lupi, medico della mia famiglia, con l’avanzare degli anni non trovava più compagni di gioco e intendeva crearsene uno con una ca-

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ratteristica particolare: talmente scarso nello sport da essere battuto qualche volta perfino da lui. Fui io il prescelto e non lo delusi quasi mai su questo piano. Di essere diventato pariolino, però, ancora oggi lo ringrazio.

Per un ragazzino l’ingresso nel Club era una continua e silenziosa scoperta. C’erano personaggi che mettevano autentica soggezione. Chi abilissimo nel tennis, chi tremendamente autorevole nel modo di parlare e di comportarsi con un “socetto” di primo pelo e chi, infine, in possesso di entrambe queste formidabili doti. La qualità principale per il “socetto” era la discrezione, che induceva a parlare solo se interrogati, a salutare tutti per primo, a cercare di giocare a tennis nel campo più lontano possibile dalla casina sociale e dal leccio dove sovrastavano i Frati. Ci si dava in ogni caso del tu - era obbligatorio - ma questo non attenuava il rispetto dovuto e l’imbarazzo provato.

A quell’età non si poteva essere protagonisti al Parioli (tranne che nei casi di un particolare talento tennistico) ma solo testimoni di una vita sociale che ogni giorno ci appariva più stimolante e divertente. Tenendo la bocca chiusa e le orecchie aperte, si carpivano battute da imparare a memoria, soprannomi, definizioni e storie di vita pariolina ruotanti attorno all’ultima “gravità” verificatasi. Un vero spasso.

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Un dubbio risolto Quando si decide di raccontare la storia minore di un vasto e selezionato gruppo di persone, come sono gli appartenenti di un Club antico e blasonato chiamato all’origine Lawn Tennis Parioli (questa la prima scritta sul cancelletto di Viale Tiziano), si è presi da più di un dubbio.

Soprattutto considerando che la gran parte degli episodi e dei dettagli divertenti o buffi risalgono agli anni che vanno dal 1945 al 1960, e riguardano persone che non ci sono più, ed alle quale ciascuno di noi è legato da affettuosi e indimenticabili ricordi.

Si può raccontare tutto? Si può scrivere di una presa in giro, di una beffa, di una canzone impertinente che aveva come destinatarie proprio quelle persone? O forse è meglio rifugiarsi nell’ipocrisia e lasciar perdere? Per questo sottoponiamo al lettore il percorso di riflessione che ci ha portato alla scelta di ricordare quelle persone come veramente erano, con pregi e difetti, grandi e piccoli, proprio perché ne sentiamo profonda nostalgia.

Il gioco e lo sport sono competizione. Ci si confronta per prevalere. Nel tennis, come nel calcio o a carte. Si compete per soddisfazione personale o magari per soldi, ma si compete sempre. Questa innegabile verità è la legge fondante di un Club sportivo, dove la competizione - ed è questo il punto - è a tutto campo, ed investe ogni aspetto del nostro

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modo di essere. Al Vecchio Parioli la competizione era costante non solo sulla terra rossa, sul campo di calcetto o in sala carte. Andava oltre. A competere soprattutto erano le personalità dei singoli soci, il loro diverso modo di atteggiarsi, di prendersi gioco l’uno dell’altro con battute più o meno felici, con scherzi che a volte andavano anche oltre misura, con tormentoni che mettevano alla berlina il potente o l’esibizionista, soprattutto il primo, specie se permaloso.

Ci sono diversi modi di reagire ad una battuta scherzosa.

Il migliore è respingerla al mittente con una battuta ancora più divertente e soprattutto immediata. Ma non tutti ci riescono. Il modo peggiore è prendersela perché si dà maggiore soddisfazione a chi ce l’ha indirizzata. Il consiglio, per i permalosi, è di evitare il Parioli o di curare in qualche modo questo pericoloso difetto.

Vale per tutti, come esempio d’atteggiamento positivo, quello d’Italo Sanna, per lunghi anni prezioso e infaticabile Segretario del Club. Italo è sempre stato un uomo di spirito.

Con lui il Padreterno, sufficientemente generoso nel dotarlo di cervello, è stato invece piuttosto avaro per quel che riguarda l’altezza: irrimediabilmente tozzo e basso. E Colalucci, che presto ritroveremo, l’aveva soprannominato “Cortaccio dannato”.

Nel 1953 uscì nelle sale cinematografiche il film Moulin Rouge, diretto da John Huston, che aveva fra i suoi personaggi il celebre pittore impressionista Touluse Lautrec: un

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genio ma notoriamente un nano deforme. Alcuni pariolini affermarono che ricordava loro Sanna e, per prenderlo in giro, ogni volta che si avvicinava, si mettevano a cantare il motivo conduttore della colonna sonora del film. Italo, che non capiva il perché di quella melodia a lui diretta, s’informò e alla prima occasione si mise a cantare insieme con chi intendeva beffarlo per la sua non elevata statura. La storia finì lì: aveva vinto lui.

Sanna è stato però un’eccezione. La realtà era che i permalosi, al Vecchio Parioli come nel Nuovo, erano e sono in numero piuttosto elevato. Ad essi va dato tuttavia gran merito: se non lo fossero la storia del Club non sarebbe così divertente. Il più meritevole fra loro è stato uno dei personaggi eminenti del Sodalizio, il conte Erberto “Boccuccia” Vaselli.

Appartenente ad una delle più importanti e facoltose famiglie della Capitale, il conte Erbè aveva diverse qualità.

Educato, gentile, elegante, colto. Siamo alla presenza di un vero signore, amante del buon gusto. Era tuttavia assai parsimonioso nelle piccole cose: fumava di solito a sbafo. Ricordo una frase classica che pronunciava spesso in sala carte: “ Caro Luna, non avrebbe per caso una di quelle sue buone sigarette”? E scroccava. Come ospite, tuttavia, Erberto non si faceva mai guardare dietro: era grandioso. I suoi ricevimenti in occasione delle battute di caccia al cinghiale a Castel di Decima erano leggendari. Lo stesso dicasi quando invitava qualche consocio sul suo mitico Yacht “Mealla”.

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Erberto, dunque, era potente e permaloso, e nei suoi confronti le battute fulminanti e le canzoni che lo prendevano per i fondelli erano quasi una necessità. Chi non conta - e Vaselli ha contato parecchio nella storia del Parioli - non merita di essere preso in giro. Erberto era tanto permaloso che, come vedremo, per liberarsi dei suoi persecutori propose all’Assemblea, che approvò, di sciogliere il Parioli per poi ricostituirlo. In questo modo tutti avrebbero dovuto presentare nuovamente domanda d’ammissione e gli indesiderati beffeggiatori sarebbero stati esclusi. Andò proprio così. A tanto può portare la difficile convivenza in un Club fra soci spiritosi e potenti permalosi.

Queste riflessioni ci hanno indotto a raccontare le vicende del Parioli così come veramente si sono svolte, con le parole, in qualche caso un po’volgari, ma usuali in un ambiente sportivo, che sono state dette. A proposito di queste ultime va ricordato che a Roma l’uso delle parolacce non ha mai una valenza solo letterale. Ad esempio se di qualcuno si afferma che è “un fijo de ‘na mignotta” non si vuole per nulla far riferimento ad una discutibile, anche se antica, attività materna, ma solo alle caratteristiche proprie del personaggio. Tanto è vero che l’espressione può essere usata sia in negativo (“Attento a quello che è un fijo de ‘na mignotta”) ma anche in positivo (“Ammazza che fijo de ‘na mignotta che sei”!). Lo stesso dicasi per l’espressione “prenderla nel culo”, usata assai di frequente. L’omosessualità non c’entra per niente: significa solo che si è vittime di una fre-

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gatura o comunque si è stati sconfitti.

Intendiamo inoltre limitarci nel racconto scartando di proposito quello che oggi è comunemente chiamato “gossip”. Storie risapute d’amori furtivi e legami sentimentali irregolari. Non c’interessano. È roba che accade da per tutto. Ci sforzeremo invece per dimostrare al lettore come il Vecchio Parioli fosse, in quegli anni, un luogo ameno unico e, probabilmente, irripetibile.

Con un’avvertenza. I permalosi, che abbiamo ricordato, sono stati in realtà uno degli ingredienti fondamentali della storia del Sodalizio. Senza di loro sarebbe stata piatta e monotona e non così spassosa come l’abbiamo vissuta e come speriamo di saperla raccontare. Dunque grazie ai Frati beffardi ma grazie anche e soprattutto ad un gentiluomo permaloso come Erberto Vaselli ed ai suoi tanti piccoli e più modesti emuli. Senza di lui e senza quelli come lui, avremmo avuto ben poco da scrivere. Ciao “Boccuccia”, sei stato veramente un grande...

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La legge di gravità del Parioli Quando si parla di “gravità” i più sprovveduti pensano subito a tale Isacco Newton. Quel rompipalle inglese che, sdraiato sotto un albero, nel 1687 si beccò una mela sul grugno.

Invece di incazzarsi, come avrebbe fatto ognuno di noi, ci scrisse sopra addirittura un libro: Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Per stabilire, facendo sfoggio d’inutile erudizione, che: “Qualsiasi oggetto dell’Universo attrae ogni altro oggetto con una forza diretta lungo la linea che congiunge i baricentri dei due oggetti, di intensità direttamente proporzionale al quadrato della loro distanza”. La prima volta che al Liceo mi hanno costretto a leggere questa frase idiota, ho pensato che la mela fosse in realtà una “pera”, e che Isacco si fosse fatto anche qualche canna... In ogni caso la sua legge di gravità è senz’altro una piccola cosa banale di fronte a quella in vigore a Viale Tiziano.

Non c’erano alberi di mele ma di leccio, e sotto di loro troneggiava, fin dal mattino, Roberto Wis detto Fico, con un’accolita di soci della sua stessa risma che col passare delle ore subiva un continuo ricambio. Prima di dedicarsi al tennis, al calcetto o alle carte, la domanda che ognuno gli rivolgeva arrivando al Club era invariabilmente: “C’è niente di gravità oggi”? Newton non c’entrava. Gravità poteva essere un atteggiamento esibizionistico, un comportamento contrario all’etica interna pariolina, un disservizio o, addirittura, una

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violazione dello Statuto che avrebbe comportato l’intervento del collegio dei Probiviri. Il leccio, in ogni caso, sentenziava di suo.

C’erano gravità veniali che erano liquidate con una battuta o un soprannome che rimaneva indelebile sulle spalle del malcapitato. Come fu quando tale Greco, socetto che aveva da poco iniziato il tennis del quale solo lui si considerava una sicura promessa, disse pubblicamente e seriamente “Io in tre mesi divento seconda categoria”. Non ci riuscì mai e la violazione della legge di gravità gli costò da quel giorno l’onta di essere chiamato da tutti”Seconda in 3”.

In caso di disservizi, come fu quando nello spogliatoio degli uomini si guastarono gli impianti per la doccia, la legge di gravità imponeva che dal leccio partisse una proposta sensata atta a risolvere il problema. E così fu. In quei primi anni del dopoguerra l’acqua calda era assicurata da due stufe a legna, una per lo spogliatoio maschile, l’altra per quello femminile.

La rottura della prima stufa aveva messo in crisi il circolo. Roberto Wis s’informò dal direttore Alfonsi padre sul numero delle donne che allora giocavano a tennis e facevano ovviamente la doccia dopo lo sport. Non arrivavano a cinque, mentre gli uomini erano molti di più. La gravità fu risolta decidendo, fino alla riparazione dell’impianto, che le donne dovevano fare la doccia a casa. E così, per una settimana, il loro spogliatoio fu occupato dai maschi.

Fonte di gravità era spesso quanto avveniva in sala carte. I giochi più diffusi erano bridge e canasta. Si giocava natural-

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mente a soldi, ma non si maneggiavano soldi: noblesse oblige.

Ci si limitava a compilare e firmare uno score con l’esito della partita e l’ammontare dovuto. Lo score veniva consegnato in segreteria e si passava il giorno dopo da Alfonsi per regolare il tutto. Era lui ad incassare dai perdenti ed a pagare chi aveva vinto. Alfonsi, ovviamente, se uno presentava uno score di credito, lo onorava anche prima che il debitore avesse fatto il proprio dovere.

Il sistema era valido ma anche fonte d’equivoci e di furbizie. Qualche birichino, sapendo che un socio era partito, compilava uno score di credito a carico dell’assente e incassava da Alfonsi la relativa somma, per poi presentare e pagare uno score di debito a proprio carico prima che questi avesse fatto ritorno. Non si trattava quindi di una truffa ma di una furbata in caso di necessità. Una sorta di geniale anticipazione del futuro Bancomat... Fu scoperta e, come gravità, portò alla sospensione temporanea del sistema...

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“Conte pisciatore” e “Piccolo Verme” Ci sono state gravità passate alla storia. Ci riferiamo soprattutto a due episodi: quello del “Conte pisciatore” e quello del “Piccolo verme”.

Il primo avvenne al campo 9, il più lontano dalla casina sociale e dagli spogliatoi. Giocavano in singolar tenzone Carlo Gatti ed il conte Antonelli. Ad un cambio di campo, considerando la lontananza dai servizi, il conte uscì, si riparò dietro un albero e fece pipì. Poi tornò in campo e concluse la partita. Gatti non protestò, ma subito dopo scrisse una scandalizzata lettera ai Probiviri per denunciare l’accaduto.

A distanza di tanto tempo nessuno ricorda se e quale sanzione fu comminata all’Antonelli, e nemmeno ce ne importa più di tanto. Perché quanti tutelavano da sotto il leccio l’applicazione della “legge di gravità pariolina” si trovarono di fronte a ben altro dilemma. Era “in gravità” l’autore dell’indebita minzione o chi, di soppiatto, lo aveva denunciato a fine partita? Salomonicamente furono deplorati entrambi dal tribunale del leccio, ma da allora Antonelli si portò appresso per sempre il titolo di “Conte pisciatore”.

Di assai maggiore portata la gravità che va sotto il nome di “Piccolo verme”, che ebbe come protagonisti due nobiluomini: il conte Erberto Vaselli e il conte Giovanni Moncada di Paternò, detto Jhonny, di anni 17. Come tutti i

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Piccolo Verme

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grandi eventi entrati, a pieno titolo, a far parte della storia moderna, col passare degli anni del “Piccolo verme” sono state date molteplici versioni. È capitato lo stesso per il sacco di Roma, la disfida di Barletta e lo sbarco in Normandia... Per stabilire una volta per tutte, a tutela del buon nome del Parioli, una verità ufficiale, il vostro Autore si è avvalso della preziosa e indiscutibile testimonianza oculare di un socio di allora, presente alla tenzone e dotato d’ottima memoria: Roberto Wis. Tutto nasce dalla tradizionale galanteria del Conte Erberto Vaselli, che in un pomeriggio di fine estate organizza un the nel salone del Club per alcune avvenenti signore, fra le quali la bellissima Irene Del Frate. Inutile porre l’accento sul perfetto e impeccabile abbigliamento di Erberto e sull’eleganza degli abiti delle signore invitate. Ovviamente per le canoniche ore cinque. Alle 16,30 succede il fattaccio.

Nel salone fa il suo ingresso il Moncada reduce da una battuta di caccia. Il nostro testimone oculare lo descrive, dal basso in alto, nel seguente modo (il Barone Patriarca, che presto ricorderemo, avrebbe detto “in cotal guisa”): stivali infangati, pantaloni di fustagno, cintura con anello d’acciaio al quale sono appesi alcuni fagiani abbattuti che perdono gocce di sangue, giacca da caccia, cappellaccio e “doppietta” calibro 12 in spalla.

Erberto, con il the elegante che si stava ormai approssimando e le signore in ghingheri quasi tutte già presenti, ha un sobbalzo. Fra i due nobili, il romano ed il siciliano, si

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svolge il seguente dialogo: Vaselli: “Jhonny, dove vai vestito così? Mi sembri un piccolo verme”!

Moncada (con voce afona): “A Erbè, sai che te dico? Er piccolo verme te lo schiaffi al culo”. Le sue parole vengono accompagnate dal classico gesto dell’ombrello.

Vaselli (visibilmente contrariato e cambiando decisamente tono): “Moncada, chi ti dà questa confidenza”?

Moncada adotta anche lui il cognome dell’interlocutore e insiste: “A Vase’, la confidenza te la metti al culo” Il the elegante va a rotoli. Erberto è una furia, telefona al Collegio dei Probiviri e convoca in presidenza i membri del Consiglio direttivo presenti in quel momento. Fra questi ci sono Roberto Wis e Carlo Della Vida, che hanno assistito per intero all’episodio, e Ugo Sinigaglia, detto “Capone” per via del suo ragguardevole cranio pelato. Per i Probiviri arrivano Barbato, padre del giornalista Andrea, e Masetto Carosi.

Da un lato c’è il presidente del Club, maturo esponente di una facoltosissima famiglia romana di nobiltà recente. I conti Vaselli erano ricchi imprenditori romani, grandi proprietari terrieri e d’immobili, che avevano ottenuto a suo tempo anche il lucroso appalto della raccolta dei rifiuti nella Capitale. È noto che più fresca è la nobiltà e più si tiene al titolo e al rango. Erberto ci teneva moltissimo. E storceva il naso o meglio, nel suo caso, la bocca, quando veniva a sapere che al Parioli i Vaselli li chiamavano, per via dell’ap-

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palto di cui sopra, “Conti della monnezza”. Erberto questa volta si trova di fronte un ragazzino impertinente di 17 anni, appartenente ad una famiglia siciliana d’antichissimo lignaggio, che lo ha irriverentemente insultato.

La faccenda non era di facile soluzione. La prima parte dello storico dialogo fra i due nobiluomini poteva, infatti, essere risolta con scuse reciproche, visto che Erberto aveva dato del “Piccolo Verme” al conte Moncada e Jhonny aveva invitato il conte Vaselli a riporre il verme in questione in un luogo di sua stretta pertinenza. Lo stesso Moncada aveva dichiarato “Tu mi hai dato del piccolo verme, io ti ho risposto come meritavi. Siamo uno ad uno”.

Assai più spinosa era invece la seconda parte del dialogo che diventò subito il nocciolo del problema. Alla domanda, legittima, “Moncada chi ti dà questa confidenza”? Era stato risposto che tale confidenza doveva essere posta nello stesso sito oscuro, sempre di proprietà di Erberto. Questo, almeno, emerse dalle dichiarazioni del Vaselli che chiedeva, quindi, una sanzione esemplare.

Con la sua voce afona il Moncada diede agli inquisitori una versione differente. Mentre, infatti, convenne di aver destinato il famoso piccolo verme al culo di Vaselli per rispondere ad una provocazione con un’altra di pari oltraggio, negò la collocazione finale della confidenza. Sostenne di aver detto: “La confidenza me la metto al culo”. Si trattava quindi del suo culo e non di quello di Erberto.

Consiglieri e Probiviri discussero a lungo su questo

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punto. cioè sull’opzione “ te la metti “ o “me la metto” emersa dalle indagini. Aiutati dal fatto che la voce di Moncada, per la sua afonia, non era perfettamente percepibile, gli amici del nobile siciliano sostennero vigorosamente la seconda versione e questa alla fine prevalse.

Tutti si erano fatti parte diligente per la riconciliazione ma quando i due nobiluomini stavano per scambiarsi scuse reciproche e festeggiare con un brindisi, ci fu un ulteriore momento di panico. Carlo Della Vida se ne uscì con queste parole: “Io, per il bene del Circolo e per i due contendenti che hanno fatto pace, sono contentissimo. Tuttavia, per amor di verità, caro Erberto, ho sentito che Moncada ha detto che la confidenza andava messa nel culo tuo”. Ci furono attimi di sconcerto e le ostilità stavano quasi per riprendere... Ma fu lo stesso Della Vida, con un largo sorriso, a scongiurarle dicendo: “Ho scherzato! Ho scherzato!”.

E nel dirlo abbracciò i due conti, chiudendo definitivamente il caso. Scuse e brindisi, dunque, ma nessuno da quel giorno tolse al Moncada il soprannome di “Piccolo Verme”.

Lui lo ostentò sempre come una sorta di medaglia al valore...

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Penna nefanda Abbiamo cominciato ricordando un grande presidente come Erberto Vaselli. La storia ci obbliga a contrapporgli subito il più importante e caustico fra i suoi avversari: l’avvocato e giornalista Giuseppe Colalucci, detto “Penna nefanda”. Soprannome che in tempi più recenti, grazie al Barone Patriarca, il vostro cronista ha immeritatamente ereditato.

Fulvio Stinchelli di recente ha ricordato “Cola” su Il Romanista con queste parole: “Aveva una cultura e, soprattutto, una memoria formidabili. Giovanissimo, aveva militato nella corte di Galeazzo Ciano; si faceva tagliare gli abiti da Domenico Caraceni e, per le camicie, si serviva a Firenze. Di corporatura minuta, con gli anni aveva messo su qualche chilo, che portava però con sconcertante eleganza”.

Era ammirato ma soprattutto assai temuto. Aveva la battuta pronta e il soprannome “Penna nefanda” gli si attagliava a pennello. Direttore e editore di un giornale che si occupava di calcio (Il Tifone), il martedì pubblicava una rubrica di cronaca mondana nella quale si poteva finire per essere stritolati. I suoi nemici affermavano che sotto il fascismo non solo era stato nell’entourage di Ciano, ma anche una spia dell’Ovra; ma si trattava di un’affermazione senza il sostegno di alcuna prova. Lo dicevano a mezza bocca,

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L’ultimo duello a Roma

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anzi lo sussurravano perché ne temevano l’ironia e il sarcasmo con il quale avrebbe potuto colpirli direttamente o sul giornale. Era lui uno dei coniatori di soprannomi: da “Boccuccia” per Erberto, a “Cortaccio dannato” per Sanna.

Colalucci passava gran parte delle sue giornate al Parioli.

Arrivava presto al mattino, si faceva doccia e barba negli spogliatoi, poi si organizzava la giornata fra tennis, carte e lavoro, perché sempre al Circolo scriveva molti dei suoi articoli. Al Parioli di quegli anni, quando tutti i campi erano occupati, per prenotarne uno si usava appoggiare la propria racchetta al cancelletto della recinzione che lo delimitava.

Entro un’ora gli occupanti dovevano liberarlo. Questo, ovviamente, non valeva per il campo uno, riservato ai big. Colalucci era un tennista modesto ma quando appoggiava la propria racchetta ad un campo che non fosse il numero 1, a lui precluso, gli occupanti finivano in fretta, anche assai prima del tempo che loro spettava. Era così rispettato e temuto. Le sue battute pronte erano micidiali.

Lui ed il conte Erberto all’inizio erano stati amici, anche se divisi dal tifo sportivo: Erberto era laziale. Cola era romanista, anche se qualcuno sostiene una sua colpevole preferenza per i biancocelesti negli anni della gioventù. Sotto la presidenza di Ugo Sacerdoti fu anche Capo Ufficio Stampa della Roma. Poi fra Vaselli e Cola avvenne la rottura, ma nessuno ne seppe mai la causa. Fatto sta che l’antipatia reciproca dilagò. Per il conte Bocca non fu un affare.

Non solo per le sferzanti battute dell’avversario, ma anche

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perché Cola aveva a disposizione la sua rubrica mondana settimanale che poteva veramente far male.

Prima della rottura definitiva fra i due, Erberto pensò bene di invitare tutti i Frati nella sua tenuta di Decima, per un gran pranzo. E un gran pranzo fu per l’abbondanza e la bontà del cibo e del vino. Ma si verificò una gravità. Seduto al tavolo d’Erberto, Colalucci stava bevendo il caffè quando accusò un malore. “Oddio, Oddio mi si annebbia la vista, mi sento male”, andava dicendo attirando su di sé l’attenzione generale. Viene soccorso, confortato, pare riprendersi e dice: “Non ci vedo ancora bene, però sto un po’ meglio. Ma se guardo la mia tazzina non la vedo ancora completamente. Mi sembra che sia senza manico”... Risata generale perché, per somma sfortuna d’Erberto, proprio a Cola avevano dato l’unica tazzina sbeccata e lui, perfidamente, aveva recitato quella commedia solo per metterlo in ridicolo...

Erberto provò una volta a ripagare l’antagonista della sua stessa moneta. Incontrandolo davanti ad un gruppo di soci lo apostrofò scherzosamente dicendogli: “Buon giorno avvocaticchio”. Colalucci non se lo lasciò sfuggire e replicò: “Buon giorno, conticchio”, suscitando l’ilarità dei presenti e la forte stizza del Vaselli.

Cola scriveva molto bene e rimbeccava quanti usavano a sproposito la lingua italiana. Lo faceva, con una certa dose di crudeltà, anche con il personale del Club. Epico il suo scontro verbale pressoché quotidiano con un cameriere che

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aveva poca dimestichezza con il parlare corretto. Era chiamato Bredesen, perché era biondo e assomigliava vagamente ad un attaccante della Lazio. Aveva il vizio di usare i verbi sbagliati e, quando prendeva un’ordinazione, invece di chiedere al socio che cosa voleva, usava il verbo preferire. Lo faceva anche con Colalucci e ad ogni suo “Avvocato preferisce”? si sentiva rispondere “ A che”? Finendo in totale confusione. Ma una volta la ebbe vinta e fu Cola a finire deriso. Ecco la storica ricostruzione.

La scena si svolse nella sala dove venivano serviti i pasti ai soci. Il cameriere si avvicinò, con il consueto reverenziale timore, ed iniziò l’abituale litania fra l’attenzione divertita dei presenti, che già ne pregustavano l’ennesima figuraccia.

Il dialogo fu il seguente: “Avvocato, per primo preferisce una mezza funghi”?

Cola, che non aspettava altro, come da copione risponde: “Va bene ma la preferisco a che”?

Bredesen, turbato passa oltre: “Per secondo preferisce una bella lombatina”?

Cola: “A che”?

I presenti sghignazzano, mentre il malcapitato inserviente è ormai in preda al panico. Trova coraggio, ed azzarda una richiesta per il dessert: “Per finire preferisce una bella macedonia”?

La replica è implacabile: “D’accordo ma la macedonia la preferisco a che”?

Bredesen di colpo s’illumina e risponde: “Ar maraschino”.

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Le risate dei soci che avevano assistito allo scontro, quella volta furono tutte a suo favore...

Colalucci fu anche protagonista di uno degli ultimi duelli celebrati nella Capitale. Suo rivale l’avvocato Carlo D’Alessio. Anche su quest’episodio circolano diverse versioni. Noi siamo ricorsi ad una fonte indiscutibile, testimone di una parte della vicenda. Cola un giorno commise l’imprudenza di corteggiare la donna di Carlo, alla quale propose un incontro galante pomeridiano in Piazza di Spagna. La donzella non si presentò ma arrivò in sua vece D’Alessio. Chiese a Cola, elegante e azzimato, che cosa stesse facendo e ricevutane una risposta generica gli contestò il tentativo di tradimento. Ne nacque un gran diverbio e i due si presero alle mani. Furono separati dagli astanti, ma a Penna nefanda caddero gli occhiali. Si sfidarono a duello.

Lo scontro, proibito dalla legge, avvenne sul serio. Ci furono tentativi di conciliazione che andarono tutti a vuoto.

Poi toccò ai padrini concordare la scelta delle armi e il luogo dove si sarebbe svolta la tenzone. Fu scelta la pistola su proposta dei padrini di Colalucci. Ritennero saggia quest’opzione perché fisicamente D’Alessio era molto più prestante del loro assistito, ed avrebbe sicuramente prevalso se fosse stata scelta un’arma bianca come la spada. Ottenuta l’adesione della controparte telefonarono esultanti a Cola dicendo “Vittoria! Vittoria! Abbiamo ottenuto la pistola”.

L’avvocato non la prese per niente bene.

Nella notte che precedette il duello, assistito da Roberto

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Wis e Carlo Della Vida, Cola fece testamento. Al mattino, nella periferia della cittĂ , lontano da occhi indiscreti, i due contendenti si fronteggiarono secondo le regole. Spalle contro spalle fecero i prescritti 30 passi per poi girarsi e fare fuoco. Per loro fortuna entrambi mancarono il bersaglio.

Ma non si riconciliarono mai.

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Sorrisi e, soprattutto, Canzoni Il Parioli era un luogo di sport, anche ad alto livello, ma soprattutto di divertimento. La competizione costante fra i soci era fonte inesauribile di occasioni per sorridere. Le qualità ed i difetti, grandi e piccoli, delle persone erano esasperati nel dileggio, sintetizzati in soprannomi che li mettevano in risalto e li consegnavano ai posteri.

Abbiamo ricordato “Sua Dissolvenza” Cavriani, il “Conte pisciatore” Antonelli, “Piccolo verme” Moncada, “Seconda in 3” Greco e Ugo “Capone” Sinigaglia. Ma ce n’ erano tanti altri.

In genere alle donne non toccavano i soprannomi. Una delle poche eccezioni fu quella di Maria Cardella, bella tennista di terza categoria, battezzata “Lollo dei poveri”, per la sua assomiglianza con la celebre attrice. Non era però uno sfottò ma il riconoscimento della sua avvenenza. Va anche ricordato che la vera Gina Lollobrigida fece domanda per diventare socia del Parioli, ma fu bocciata.

A Vaselli toccò il soprannome di “Boccuccia”, perché il disegno delle sue labbra non era perfettamente regolare.

Non si trattava tutto sommato di una gran cattiveria ma, come ricordato, il conte Erberto era assai permaloso e non ci stava. Questo faceva il gioco dei suoi avversari che s’ingegnavano in diversi modi per indispettirlo. Il più classico consisteva nel silenzio. Si svolgeva nel seguente modo: un

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gruppo di Frati stava discutendo di un argomento qualsiasi, come una partita di calcio o un film. All’avvicinarsi di Erberto tutti di colpo tacevano, per istillargli il sospetto che stessero parlando, invece, di lui...

Lo strumento di dileggio più perfido furono, però le canzoni, i cui testi per la gran parte erano composti da Colalucci, spesso coadiuvato da Carletto Saraceni e dai cugini Palombelli. Il protagonista, ovviamente, era Erberto. La musica non era mai originale, ma si prendevano in prestito le note ed i refrain delle canzoni in voga in quegli anni. Si cambiavamo solo le parole. Questo non solo rendeva il tutto più facile, musicalmente parlando, ma serviva a far aumentare le occasioni di scherno. Perché una volta che il destinatario fosse venuto a conoscenza delle parole a lui dirette, bastava canticchiare il motivo prescelto senza pronunciarle, perché arrivassero a destinazione senza che potesse replicare. Spesso si dava anche una mancia a qualche raccattapalle perchè fischiettasse, al momento giusto, il motivo incriminato.

Così, sulle note di un successo di San Remo come “Casetta in Canada”, il duo Colalucci-Saraceni applicò le seguenti strofe: “Aveva la boccuccia stortarella e sai perché Lievissimo difetto di natura Embè che c’è Diceva ce l’ho storta e tu che voi da me Rimango in ogni caso ora e sempre il conte Erbè”.

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Refrain: “Boccuccia, Boccuccia, Boccuccia...

Storciamola anche noi Così nun ce penzamo più”.

I versi erano artisticamente assai modesti, ma colpivano irrimediabilmente nel segno, così come quelli di uno stornello romanesco che diceva: “A noi dei falsi conti Nun ce ne frega gnente Noi volemo Vasco Valerio presidente”.

Vasco Valerio, altro socio illustre del quale dovremo parlare, in realtà non entrò mai in competizione con Vaselli per la presidenza del Parioli. Aveva ben altro da fare ed era troppo scaltro per imbarcarsi in un’impresa del genere. Ma evocare un concorrente potenziale (Vasco godeva della simpatia e della stima generali) era sufficiente per irritare Erberto, per di più definito “falso conte”, Sempre a lui fu destinata una terza canzone, con la musica scippata al celebre motivo francese “Mes mains”, portato al successo da Gilbert Becaud. La spaccatura nel Club era ormai in stadio avanzato e le parole, un po’ volgari, messe insieme da Cola ed altri dicevano:

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Il Grande Boccuccia

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“Erbè, ascolta sto consijo Lo do come ad un fijo Vall’a pijà ‘n der cul Erbè ritorna sur Mealla In culo a ripijalla E nun ce penzà più”.

Il “Mealla” era la lussuosa barca del conte Vaselli, sulla quale amava invitare i suoi amici soci del circolo, con grave scorno degli esclusi. In quella canzonaccia c’era dunque anche un pizzico d’invidia.

Anche la melodia di una celebre canzone di Johnny Dorelli, “Souvenir d’Italie”, fu saccheggiata dai Frati e trasformata a beneficio di Vaselli: Ma che fai, ma ‘ndo vai, conte Erbè Nun andà, stai co noi, Dacce er grano perché Stamo tutti co’ te Conterbè, conterbè, conteeerbè.

L’onore di una canzone dedicata toccò anche ad un altro socio, uno stimato professionista dotato di discreto fascino che si era sistemato con una signora più grande di lui, dotata di cospicuo conto in banca. Aveva, come si dice, “attaccato il cappello”. Ebbene un pomeriggio, entrando nello spogliatoio maschile, fu accolto da questa canzone, sul

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ritmo de “La pansè”: Ma, che bel pappone che tieni Che bel pappone che c’hai Je darai, je darai, je darai qualche milion...

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Il “Bocca show” Una sera, verso la fine degli anni ‘50, fu convocata una riunione straordinaria di Frati nello spogliatoio maschile del Club. C’erano tutti, a cominciare da Wis, Della Vida, Carlo e Franco Palombelli, i Fratelli Teramo e il terribile “Penna nefanda” Colalucci. Furono della partita anche i fratelli Fumasoni, allora giovanissimi e tutti e due di largo peso. Erano “Fratini”, vale a dire apprendisti. Un giro di telefonate aveva annunciato che al Parioli sarebbe andato in onda il “Bocca show”.

La Tv, come tutti sanno, arrivò in Italia nel 1954, con le prime trasmissioni della Rai in bianco e nero. Era tanto forte l’attrazione che questo nuovo mezzo di comunicazione suscitava, che qualsiasi programma aveva immediato successo e popolarità. Fu così anche per il “Perry Como show”, che la Rai aveva acquistato dagli Usa. Più che logico, dunque, un “Bocca show” al Parioli.

I cantanti non avevano il garbo di Perry, ma supplivano con ritmo ed entusiasmo. Non c’era la Tv che riprendeva l’evento, ma il ricorso alla tecnologia non mancò. Erano arrivati sul mercato i primi registratori, anche loro una rivoluzione. Uno, costruito dalla ditta italiana Geloso, divenne subito famoso anche perché aveva un prezzo abbordabile ed era facile da manovrare: fu battezzato “Gelosino”. Ebbene proprio un Gelosino era stato piazzato nello spoglia-

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toio per registrare l’intero “Bocca show”.

I Frati si esibirono, rumorosamente, nell’intero repertorio, battendo il tempo, come sempre, sugli armadietti. Lo show durò a lungo ed Erberto, quando lo venne a sapere, non la prese per niente bene. Le nostre ricerche del prezioso nastro non hanno finora avuto alcun esito. Un testimone, tuttavia, ci ha confidato che la stizza di Vaselli per il Bocca Show arrivò fino al punto di accusare perfino gli assenti.

Prese di petto Giuliano Scribani, ma questi gli disse che era ben lontano dal Parioli al momento dello spettacolo e che quindi non aveva cantato alcuna canzone. Erberto, senza esitare, replicò: “Ma se tu ci fossi stato avresti cantato, vero”?

Il divertimento era tanto e l’irritazione del conte Vaselli e il fronte anti Frati crescevano giorno dopo giorno. Ve lo racconteremo più avanti nei dettagli, ma in questo capitolo dedicato alla musica, ci corre l’obbligo di evidenziare che, quando nei confronti dei Frati più beffardi Erberto emanerà una sorta di lista di proscrizione, la reazione fu in perfetto stile Parioli. I Frati che stavano per essere condannati all’esilio, fecero riunioni carbonare al caffé Esperia da Albertino Ruschena e composero addirittura una canzone su se stessi. La musica, questa volta, la carpirono ad un celebre motivo di Toni Dallara, il capofila degli “urlatori”: Ti dirò, che sei fregato, Ti dirò che sei fiondato,

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C’hai rimesso già le penne, Nun andrai a Forte Antenne E così la pijerai ‘n der cul.

Questo nella versione singola ma ce n’era anche una per tutto il gruppo: Vi dirò, che siete in otto Destinati a fa’ fagotto V’hanno messi in quarantena Tornerete da Ruschena e così Nun romperete più.

Una delle regole non scritte del Parioli è sempre stata la capacità di saper ridere anche sulle proprie disavventure. E questa rimane una delle chiavi per capire che cosa significa essere dei veri Frati.

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Una giornata al Parioli La vita al Circolo cominciava abbastanza presto al mattino. C’erano i campi da preparare per le prime partite.

D’inverno venivano liberati dalla paglia sparsa la sera precedente per evitare che gelassero; d’estate bisognava innaffiarli e spazzare le righe. Il tutto avveniva sotto la supervisione di Ascenzio Panatta, padre del futuro campione di tennis. Adriano da piccolo, quando ancora non aveva rivelato le sue grandi doti sportive, era chiamato affettuosamente “Ascenzietto”.

Il Parioli si animava verso la fine della mattinata, quando si combinavano gli incontri di tennis e le formazioni per il calcetto. L’evento clou era il doppio al campo numero uno che vedeva di solito fra i protagonisti due grandi giocatori.

Riccardo Sabbadini e Clemente Serventi. Erano in età matura e, sotto la spinta di Fico Wis, venivano accolti dal canto garibaldino: “Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti, le spade nel pugno, gli allori alle chiome, la fiamma ed il nome d’Italia nel cor”. Ne ridevano anche loro e Sabbadini, finito il coro, invariabilmente chiedeva: “Quanto c’è”? Riferendosi all’ammontare delle scommesse. Giocavano sempre il doppio ma mai insieme, ciascuno scegliendo accuratamente il compagno. Parte del pubblico era lì solo per assistere allo spettacolo, ma c’erano anche molti scommettitori.

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Frate Carlo della Vida

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Ricordiamo alcuni protagonisti a cominciare dal già citato Roberto Wis. Veniva dal Club Tevere Remo e aveva praticato con successo l’atletica in gioventù. Carlo Palombelli, che aveva conosciuto lavorando in Borsa, lo aveva convinto ad iscriversi al Parioli dove divenne un personaggio di primissimo piano, non solo sul campo da tennis ma anche sotto il famoso leccio delle “gravità”.

Autore di memorabili soprannomi, era stato a suo volta battezzato da Colalucci “Fico” e così quasi sempre veniva chiamato. In doppio aveva inventato addirittura il Piave.

Non il fiume, che per la verità già c’era, ma una fase del gioco del tennis. Non era un giocatore eccezionale da fondo campo ma a rete, dove si piazzava appena possibile, aveva dei riflessi formidabili. Le rimandava tutte e intonava la canzone del Piave sui versi fatidici “a far contro il nemico una barriera” e “non passa lo straniero”, terminando con il classico “zum zum” quando concludeva con successo lo scambio. Era uno dei suoi tanti e irridenti modi di sfottere, in questo caso gli avversari dall’altra parte del campo.

Ebbene il suo Piave ebbe addirittura un riconoscimento ufficiale. La TV italiana trasmetteva la semifinale del torneo di Wimbledon che vedeva di fronte Pietrangeli e Sirola opposti alla formidabile coppia australiana Hoad-Rosewall. I due “canguri” sparavano formidabili bordate contro gli azzurri schierati a rete. Ci fu uno scambio serrato ed i nostri facevano muro respingendo tutto. Il telecronista, il grande Giorgio Bellani, se ne uscì con questa frase:” Guardate la

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coppia azzurra che sta eseguendo il Piave, come dice il tecnico italiano Roberto Wis”. Per Fico fu una consacrazione.

A Fico dobbiamo inoltre due spiegazioni che hanno arricchito la nostra modesta cultura: l’origine del termine “sciolti”, entrato a vele spiegate nel linguaggio “pariolino” e poi adottato in tutta Roma; la versione autentica del perché il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, usava spesso la celebre battuta: “Ma siamo uomini o caporali”?

Sciolti viene dalla Borsa, dove Fico e i “doppi cugini” Carlo e Franco Palombelli lavoravano, insieme con molti altri soci del Parioli. Fra questi vanno citati Giorgio Carpi della Roma (un soprannome meritato perché da calciatore nel 1942 aveva vinto uno scudetto con la squadra giallorossa); Nello Benigni (Er Pomata); Giorgio Ceccarini detto “Tonno” (aveva un buon passato da nuotatore) ed Ettore Operti, cui era toccata la non piccola responsabilità di mettere al mondo il nano Massimo.

Poteva capitare che in una contrattazione si volesse scoprire se un acquirente o un venditore stessero “in campana”, per non far capire le proprie vere intenzioni. Se uno gridava di voler acquistare un certo titolo, trovava un venditore e si dichiarava disponibile solo per la quantità minima prevista dal regolamento, il venditore concludeva il tutto dicendo “allora sciolti”, e il contratto veniva consensualmente annullato.

Arrivato al Parioli, il termine sciolti venne usato nelle più svariate circostanze finendo per assumere significati diversi.

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Una palla contestata durante una partita di tennis poteva indurre uno dei giocatori ad abbandonare per protesta il campo dichiarando: “Se è così, allora sciolti”. Chi decideva di porre fine ad una serata al Club quasi sempre affermava: “Sciolti ragazzi, me ne torno a casa”. Nel corso di una lite uno dei contendenti concludeva minaccioso rivolto all’antagonista : “ Guarda che io a te ti sciolgo”, per dichiarare che non voleva più mantenere rapporti. Se una coppia, regolare o non, interrompeva il proprio vincolo, al Club si dava la notizia: “Quei due si sono sciolti”. Per completezza d’informazione citiamo infine due varianti: “Sciolti Roma”, e “Sciolti a vita”. La prima scherzosa, la seconda, minacciosa, indicava uno “scioglimento” che sarebbe durato molto a lungo.

Wis ebbe inoltre la fortuna di conoscere di persona Totò, grazie al fatto che un socio del Parioli, Gianni Buffardi (detto “Principe ladro”) aveva sposato la figlia del grande attore. Fico non ebbe esitazioni a chiedergli perché molto spesso nei suoi film pronunciasse quella battuta. Totò lo guardò come si guarda uno che non riesce a capire e gli disse: ”Caro signore, lei non sa che sotto le armi i caporali non sono mai di ramazza e quindi non scopano”?

Un duo coeso di Frati era composto da Carlo e Franco Palombelli, che erano “doppi cugini” perché figli di due fratelli, Luigi e Giuseppe, che avevano sposato due donne fra di loro sorelle. Fu Carlo, il più grande, a presentare il cugino al Parioli come socio: era il premio per aver superato

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l’esame di licenza liceale. Molto legati e sempre insieme, amavano la caccia e Carlo portava con sé il più giovane cugino anche quando questi non aveva ancora la licenza per sparare col fucile.

Al campo uno spesso si esibiva nei famosi doppi Cesare Guerci Lena, che diventerà uno dei Frati storici del Sodalizio. Cesare nel 1952 si fece socio al Parioli. Veniva dalla scherma ed era stato convinto da un amico inglese a provare il tennis. Fu “un amore a prima vista”, raccontava. Aveva preso in mano una racchetta per la prima volta a 23 anni ed a 28 vinse i campionati nazionali di terza e seconda categoria alla Virtus di Bologna, in finale contro Sergio Jacobini, che di anni n’aveva allora 18. Entrò così in prima categoria.

Personaggio amabile e scontroso, aveva la passione per la pittura. Era un uomo spiritoso, gran raccontatore di barzellette, ma anche severo, pedante e meticoloso censore delle magagne del Sodalizio e del comportamento sbagliato di soci e socetti. Parlava con i Frati usando il linguaggio inventato da Silvio Senigaglia, un giornalista italo-americano detto Mister Belvedere. Un linguaggio nel quale la elle si tramutava quasi sempre in J. Quindi Coca Cola veniva pronunciata Coca Coja, bella palla diventava beja paja e così via.

Di suo Cesare aveva inventato invece un singolare rafforzativo, con il quale l’efficacia di un aggettivo viene moltiplicata. E così, tanto per fare un esempio, “lingua

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biforcuta” diventava “triforcuta” se non addirittura “quadriforcuta”. L’ispirazione la ebbe mentre assisteva ad un doppio femminile al Nuovo Parioli, insieme al Nano Operti. In campo c’era una giunonica signora alla quale occorse un imbarazzante e spassoso incidente: nel rincorrere una palla le si spezzò un elastico e le scivolarono le mutande, di taglia assai ampia, all’altezza delle scarpe. Si ricompose subito e non ci furono né scandalo ne visioni proibite. Ma le rilevanti dimensioni dell’indumento suggerirono a Cesare la seguente, storica frase: “A questa non je basta er bidet, je ce vole er tridet”...

Anche Cesare aveva un sopranome che gli derivava dal fisico atletico e imponente: il comico triste Dino Verde lo aveva chiamato “Topolino ginnasta”, familiarmente poi sintetizzato in Top Gin, o anche, cacofonicamente, “Topola, spigola”. Lui però non gradiva.

Fin dall’inizio Cesare è stato uno dei soci più rappresentativi, non solo come sportivo, avendo difeso più volte i colori del Club in gare importanti, ma soprattutto come personaggio assiduo, divertente ma anche assai puntiglioso sia nel Vecchio sia nel Nuovo Parioli. Lo ritroveremo ancora nel corso del racconto, protagonista, fra l’altro, di un’esilarante e memorabile spedizione pariolina in terra marchigiana.

Cesare lo abbiamo perduto proprio mentre veniva confezionato questo libro che anche lui ha ispirato, confidandoci molti suoi ricordi. In una cena a tre con il Nano

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Operti, nell’Osteria di Via Chiana di Federico “Peluche” Castelnuovo e Marco Prandi, ci aveva raccontato solo poco tempo fa della sua lunga appartenenza al Parioli, con il solito spirito scanzonato e divertente, anche se la sua malattia ormai era andata molto avanti. Ciao Top Gin! Sempre al campo uno si esibiva spesso in doppio il marchese Ferrante Cavriani, grande gentiluomo e ottimo tennista, famoso però anche per la sua straordinaria abilità nei giochi di prestigio. Chi scrive ricorda ancora quando prendeva un mazzo di carte e te lo consegnava per mischiarle.

Poi diceva: “Adesso che le hai mischiate dividi, senza mai guardarle, i semi rossi da quelli neri. Se sbagli ti correggerò”. Tu iniziavi la divisione e, due o tre volte, Ferrante ti diceva di porre una carta dall’altra parte. Arrivato in fondo ti chiedeva di scoprire i due mucchietti: uno conteneva solo cuori e quadri, l’altro fiori e picche. Incredibile!

Grande scommettitore e animatore del Circolo Antonio “Toto” Fumasoni, imprenditore edile, capostipite di un’illustre famiglia di Frati. Chi scrive lo ricorda non solo per la sua simpatia e le formidabili scarpe bicolori che, seguendo la moda del tempo, spesso sfoggiava, ma anche per la benevolenza con la quale trattava i socetti e soci più giovani.

Toto, uno dei pochi nel primo dopoguerra a possedere a Roma e al Parioli un’auto di prestigio, spesso organizzava corse notturne su Viale Tiziano con altri soci del Club. Appassionato di calcio e tifosissimo della Roma, della quale fu anche uno dei dirigenti, divenne celebre per aver por-

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tato nella squadra giallorossa, su consiglio di Gipo Viani del quale era amico, un attaccante danese, autentico fuoriclasse: Helge Broneè. Lo ingaggiò a poche ore dalla chiusura della campagna acquisti, spedendo l’autista Romoletto Raggi alla Posta di Piazza San Silvestro con la sua Lancia Aurelia a clacson strombazzante, per la fatidica raccomandata in extremis alla Federcalcio.

Di lui si racconta anche una storia divertente. La Roma aveva nel mirino un terzino del Modena, un giovane di grandi speranze. Toto Fumasoni fu incaricato dal presidente della società di andarlo a comprare. Non gli dissero il nome, ma solo: “Vai a Modena e compra er tre”, vale a dire il terzino sinistro. Toto andò nella città emiliana, assistette alla partita del Modena ed eseguì l’incarico puntualmente. Purtroppo quel giorno il Modena, per un caso, aveva invertito i due terzini ed il giovane promettente aveva giocato con il numero due, lasciando la maglia numero tre ad uno stagionato calciatore di poco talento ed a fine carriera.

Bisogna ricordare, infine, un particolarissimo spettatore dei doppi al campo uno: Rodolfo Franci. Magro, alto, distinto, era il prototipo del socio di un club inglese. Elegante, portava, come abbiamo ricordato, panciotto e cravatta regimental. Soprannominato “Vecchio Parioli ohhhh”, si considerava il custode della storia del Club e dell’ortodossia dei comportamenti in campo e fuori.

Pochi sanno - ed il vostro Autore non era fra questi - che fu Rodolfo Franci a disegnare lo stemma ufficiale del Pa-

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rioli, con la lupa romana che sovrasta due strisce verdi e oro in campo bianco, e tre palle da tennis. Aveva composto anche una canzone. Non certo beffarda come quelle di Cola su Boccuccia ma nostalgica ed orecchiabile. La musica era quella di un motivo popolare di San Remo, “Vecchio Scarpone” ed i versi iniziali erano solo una modifica di quelli originali: “Vecchio Parioli, quanto tempo è passato, quanti ricordi fai rivivere tu”...

Amava il tennis di un amore non molto corrisposto, ed aveva sue personalissime teorie su come diventare campioni in questo sport, che metteva scrupolosamente e ossessivamente in pratica senza molto successo. Condannava anche la più piccola infrazione a quella che riteneva l’etichetta esclusiva del Club. Quando Nicola Pietrangeli vinse uno dei suoi tanti tornei internazionali, al circolo fu esposta una bandiera con lo stemma ma anche con la scritta “SS Parioli”. Per lui si trattava di un sacrilegio, che commentò sdegnato: “Visto che c’eravate, sulla bandiera potevate scriverci anche il numero di telefono”!

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Tennis e nobiltà: da Re Gustavo al Barone Patriarca Molti i nobili fra i soci del Club. Il più importante, in oltre un secolo di storia, è stato addirittura un vero Re: Gustavo V di Svezia. Non era un socio onorario, come lo sono stati molti regnanti per altri circoli, ma giocava sui campi del Club quando veniva in Italia e partecipava ai tornei, nel periodo a cavallo fra gli anni ‘20 e ‘30, con il nome di “Mister G”. Fra i tanti cimeli del Parioli ci sono le sue foto vestito da tennista, con i classici pantaloni lunghi bianchi e il maglione a V. Giocò sui nostri campi anche in età avanzata, trovando sempre compagni di doppio che, quando ormai “non la beccava più”, ne rispettavano l’altissimo lignaggio e, all’occasione, gli alzavano comodi pallonetti da chiudere.

Sovrano di Svezia a parte, il Club ha avuto principi, duchi, marchesi, conti, esponenti di grandi e illustri famiglie, d’antico o più recente blasone. Alcuni li abbiamo già incontrati durante il nostro racconto: il marchese Cavriani (“Sua dissolvenza”), ed i conti Vaselli (“Boccuccia”), Moncada di Paternò (“Piccolo Verme”) e Antonelli (“Conte Pisciatore”).

Di un nobile, in particolare, abbiamo un meraviglioso e indimenticabile ricordo. Perché era un uomo straordinario e, soprattutto, un vero Frate del Parioli: il duca Nicola Riario Sforza, principe di Ardore, detto Nicky. Noi lo chia-

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mavamo “ A Duca Principeee”, con chiari intenti beffardi, dei quali lui sorrideva con signorile amabilità. Nicky apparteneva ad una delle più antiche famiglie italiane, ma era anche la persona meno snob che si potesse incontrare. Affabile, simpatico, buono, colto e spiritoso, partecipava con gioia a tutte le iniziative dei Frati, dando preziosi suggerimenti per gli scherzi più divertenti. Era impossibile non volergli bene. Se n’è andato, come molti altri, troppo presto. Dopo una vita crudelmente segnata dalla cattiva sorte.

Fra tanti nobili soci, il più famoso e popolare è stato tuttavia un semplice barone o, meglio “il Barone” Carlo Patriarca. In realtà “Barone” sembra fosse un soprannome e non un suo autentico titolo nobiliare. Ma lui se lo meritava lo stesso. Era un personaggio unico, che sembrava uscito da una poesia di Trilussa o da un film con Aldo Fabrizi. Romano fino al midollo, della nobiltà capitolina aveva comunque una caratteristica essenziale: l’allergia congenita per qualsiasi tipo di lavoro. Non l’aveva mai cercato e nessuno si sarebbe mai sognato di affidargliene uno, anche il più semplice. Non ne sarebbe stato del resto capace.

Aveva un personalissimo modo di esprimersi caratterizzato da un vocione da baritono - che contrastava con il fisico per nulla imponente o atletico - e dall’uso di definizioni erudite. Quando parlava della madre, che non solo lo aveva messo al mondo, ma ne finanziava generosamente l’esistenza, la definiva immancabilmente “Santa Donna”. Per indicare quelli che appartenevano alle classi popolari usava

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il dispregiativo “Rustica progenie”. La femmina che di volta in volta godeva delle sue attenzioni (e dei suoi soldi) assumeva il titolo di “Bambolina”. Per descrivere una bella donna diceva che aveva “turgore e connettivo”, mentre per un seno importante usava il dannunziano “turgido siccome marmo cipollino”.

Il suo modo di comportarsi, invadente e ingenuo, ne faceva un bersaglio perfetto di burle e scherzi d’ogni genere.

Una volta Carlo Palombelli e Carlo Saraceni gli fecero credere che Vasco Valerio era talmente tirchio che, per risparmiare sull’acqua calda della sua lussuosa casa di Via Archimede, costringeva il figlio Roberto a lavarsi quotidianamente nella piscina del circolo. Una vasca dalle dimensioni piuttosto ridotte offerta ai soci dal conte Giuliano Scribani (“Conte piscinatore”). Carlo si meravigliò, ma i due passarono all’azione e nel tardo pomeriggio di una sera d’estate cosparsero Roberto di schiuma su tutto il corpo e lo fecero piazzare ai bordi della piscina. Poi chiamarono il Barone perché constatasse quello che stava accadendo. Questi vide il giovane Valerio ed esclamò: “Ti ho beccato, Ti ho beccato. Adesso te la vedrai con i Probiviri”. Scrisse una lettera di denuncia che finì, com’era giusto, nel cestino.

Quando attraversava lo stretto passaggio che dal parcheggio immetteva all’ingresso della casina sociale, il Barone diventava bersaglio non solo di frasi irridenti ma anche di qualcosa di più concreto. Un mattino d’estate si presentò con un impeccabile doppio petto di lino chiaro e fu cen-

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trato da una secchiata d’acqua mista a terra rossa (“M’avete fregato! M’avete fregato”! fu la sua reazione). Nella storia pariolina spiccano, però, due scherzi storici al Barone.

Quelli del “Perlinguale” e del Generale “Bambolina”. Per par condicio va ricordato anche un suo colpo di genio: lo “Score mignotta”. Partiamo da quest’ ultimo.

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Lo “Score mignotta”, il Perlinguale, Bambolina Correva l’anno 1954, Robertino Valerio aveva 16 anni. Il campo sei, dove spesso giocava a tennis allenandosi con continuità, era diviso da Viale Tiziano da un muretto. Viale Tiziano era allora famosissimo a Roma non tanto perché sede del Parioli, ma soprattutto perché vi prestavano servizio delle vogliose lavoratrici del sesso a pagamento. Non era raro che durante il giorno, nelle ore di magra, qualcuna osasse issarsi sul muretto, commentare salacemente qualche partita di tennis o, addirittura, provare ad offrire i propri servigi con il classico “Perché, dopo, non mi vieni a trovare”? Non c’erano state commistioni, fino a quel momento, e Roberto, giovane e piuttosto carino, restava uno dei bersagli preferiti delle gentildonne di Viale Tiziano.

Non è storicamente accertato chi fu a prendere l’iniziativa. Fatto sta che una sera un gruppo di Frati, fra i quali Fico Wis, Johnny Moncada, Walfrido Picardi (Baldraccone o Amaral), Penna Nefanda Colalucci, Mauro Lais, il Barone Patriarca ed un paio d’altri soggetti, fecero entrare di soppiatto cinque signorine nella casina sociale e, gioiosamente, le accolsero nello spogliatoio maschile a quell’ora deserto. Il giovane Valerio, essendo minorenne, fu esentato dai propri doveri di maschio latino, mentre tutti i maggiorenni presenti, con modalità e fantasie diverse, usufruirono largamente delle prestazioni delle cinque professioniste.

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Non ci furono ingorghi e furono rispettati tempi e turni.

Finita la festa, bisognava far uscire le procaci donzelle in modo discreto e indolore: alcuni dei presenti lasciarono lo spogliatoio maschile per individuare il percorso più consono. Altri, compreso il giovane Valerio, li seguirono per dare una mano e le cinque pubbliche peccatrici rimasero in compagnia del solo Barone, in attesa del segnale di via libera. Il segnale tardava ad arrivare perché i Frati, dopo aver fornicato così gravemente, furono folgorati dal rimorso e di colpo si pentirono, decisero all’unanimità di lasciare di corsa il luogo dell’infamia appena commessa, e di ritirarsi ciascuno a casa propria per espiare e meditare...

Il Barone era sulle spine anche perché, per le loro ghiotte prestazioni, le professioniste reclamavano la giusta mercede pattuita. Carlo comprese che, come si dice a Roma, gli altri avevano “bruciato er pajone”. Non si perse d’animo e pagò di tasca sua per tutti, riuscendo a far sortire dalla sede del Club le cinque soddisfatte madame senza ulteriori problemi.

Nella notte maturò il colpo di genio. Il giorno seguente consegnò ad Alfonsi padre uno score con i nomi di tutti i debitori e lo intitolò “Score migna”, chiedendo il pagamento di quanto aveva sborsato per loro. Il buon Alfonsi rimase di sasso: non capiva di quale gioco il Barone vantasse un credito così cospicuo. Si recò dal segretario del Club che, per fortuna dei debitori, era Roberto Wis. Fico capì che non era il caso di diffondere la notizia della notte brava e

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Incursione amorosa del Barone

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tutti rimborsarono al Barone la propria quota, facendo fronte allo “Score migna”.

A parte questo straordinario episodio, di solito era il Barone a finire vittima, come detto, di burle e scherzi. Come fu per il celeberrimo ”Perlinguale”: un antenato virtuale del Viagra, inventato da un gruppo di Frati del Vecchio Parioli.

Carlo Giauna, nel suo libro sul tennis a Roma dal 1946 al 1960, lo racconta con dovizia di particolari, senza svelarne gli autori.

Al Barone fu fatto credere che in Svizzera era stato inventato un prodotto miracoloso che aumentava la potenza sessuale. Una lettera, su carta intestata di un inesistente laboratorio farmaceutico elvetico, gli annunciò la visita di un rappresentante che gli avrebbe consegnato gratuitamente un campione del prodotto. L’incontro avvenne e il falso rappresentante, ingaggiato per l’occasione, fece la consegna.

Nella confezione c’erano delle comuni vitamine. Il miracolo si verificò ugualmente. Le prestazioni sessuali del Barone subirono una stupefacente impennata.

In preda all’entusiasmo, ordinò al rappresentante della ditta svizzera una robusta scorta di Perlinguale, consegnandogli in anticipo un cospicuo assegno che fu incassato dai Frati e devoluto in beneficenza. Il Perlinguale divenne l’argomento principale delle conversazioni col Barone e la cosa andò avanti per diversi mesi, fino a quando la ditta svizzera fu fatta fallire, con sua grande delusione.

Sempre in caccia di nuove avventure a pagamento, il Ba-

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rone fu allettato dal racconto di un gruppo di Frati che gli parlarono di un’eccezionale “Bambolina” che vendeva le proprie prestazioni in una signorile casa del quartiere Prati.

Non lontano dal Gran Caffè Esperia, di proprietà del Frate Albertino Ruschena, dove la sera si ritrovavano diversi soci del Parioli. Fu spiegato al Barone che bisognava suonare ad una porta del terzo piano del palazzo in questione e pronunciare una speciale parola d’ordine per avere accesso (pagando, s’intende) ai favori di quella formidabile professionista. Doveva dire: “Le rose sono sbocciate”. Fu scelta un’abitazione qualsiasi, senza sapere che apparteneva ad un generale dell’esercito. Il Barone abboccò e si presentò, vestito a festa, davanti alla porta dell’appartamento del terzo piano. I Frati si erano appostati e nascosti lungo le scale che portavano al piano superiore.

Suonò e, in elegante vestaglia damascata, venne ad aprire proprio il padrone di casa. Uomo assai robusto e dallo sguardo accigliato e severo. Il Barone non si scompose e pronunciò sorridendo: “Le rose sono sbocciate”. Il militare, sorpreso, gli intimò: “Ma lei chi è? cosa vuole”? La parola d’ordine fu ripetuta, accompagnata da un sorriso ammiccante e da un dar di gomito. Il padrone di casa, rosso in volto, gli intimò un definitivo: “Se ne vada”! Carlo, sconvolto, guadagnò l’uscita. Raggiunse gli amici che gli avevano dato la preziosa informazione e se ne uscì con queste parole: “Non ci andate lì. Vi hanno preso in giro. È una fregatura”...

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Quando non era impegnato nei suoi raid erotici, il Barone passava gran parte della giornata al circolo; giocava a tennis e faceva il “guardone” a carte, assistendo alle partite di poker. Celebre un suo stentoreo e giubilante “Entroe!” allorché, trovandosi alle spalle di un giocatore, si accorse che aveva legato una scala incastro. Tutti gli altri passarono dopo quell’improvvido annuncio, e il Barone dovette fronteggiare l’irritazione di chi si era visto sfuggire un piatto importante.

Fra gli specialisti degli scherzi al barone Patriarca vanno annoverati due Frati illustri: Nicola Pietrangeli e Maurizio Riganti. Spesso in coppia come due carabinieri, quando se ne presentava l’occasione solleticavano l’eterna passione di Carlo Patriarca: la lussuria. Lui stesso l’alimentava perché incontrandoli diceva “ecco i lussuriosi” e chiedeva notizie delle loro avventure amorose.

Una volta al Foro Italico Nicola e Maurizio stavano assistendo ad una partita di tennis. Si avvicina il Barone che li apostrofa nel solito modo: “Ecco i lussuriosi”. I due improvvisano e gli raccontano di un locale molto riservato, una specie di palestra, dove si esibiscono due atletiche gemelle svedesi di prorompente bellezza che fanno ginnastica completamente nude, con tanto di flessioni e torsioni, di fronte ad un selezionato e ristretto pubblico. Certo il biglietto d’ingresso è un po’ caro: 100mila lire. Il barone allibisce per il prezzo, ma chiede tutti i possibili dettagli sulle svedesi nude.

Gli vengono generosamente forniti. Alla fine Nicola e Mau-

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rizio gli danno l’indirizzo della palestra: Via della Lungara 26.

A bordo della sua Fiat 500 decide di tentare l’avventura, sognando le due biondone che saltellano senza veli in autentici esercizi di “corpo libero”, esibendo i propri tesori più nascosti. E poi chissà? Arriva a Via della Lungara e suona al fatidico indirizzo: gli apre una guardia carceraria.

Farfuglia qualche cosa, gira i tacchi e torna in macchina: ha finalmente capito che era uno scherzo. Però reagisce alla grande. Torna al Circolo, incontra Riganti e gli dice: “Guarda che le tue svedesi le hanno arrestate”...

Sempre Riganti prese ad indagare sull’amante fissa di Carlo Patriarca. La “Bambolina” per antonomasia alle cui grazie era abbonato. Riuscì a scoprirne il nome e l’indirizzo.

Per una singolare coincidenza aveva lo stesso nome e le stesse sue iniziali. Si chiamava, infatti, Maurizia R. ed abitava nei pressi di Piazza Mazzini. Era una donna piuttosto bella. Con la nota faccia tosta, Maurizio R. decise di effettuare un sopralluogo. Andò a suonare alla porta di Maurizia R. e quando “Bambolina” venne ad aprire chiese se c’era il signor tal dei tali. Ricevuto un cortese “qui non c’è nessuno con questo nome”, si scusò e se n’andò. Ebbe in ogni caso il tempo di dare un’occhiata all’ingresso dell’appartamento e di memorizzare alcuni dettagli dell’arredamento.

Al Circolo prese da parte il Barone e lo rimproverò in questi termini: “Certo che Bambolina potresti trattarla meglio e non tenerla in un appartamento così modesto, con le

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applique verdi di plastica all’ingresso, il tappeto sdrucito con la tigre stampata e la pianta di fiori finti”! Carlo ebbe un sussulto, lo guardò fisso, poi sorridendo gli disse: “Caro il mio cognato. Paolo fotte e Pietro paga, eh”?

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Sciacqua, sciaborda e scroscia Il Barone non era colto ma, come detto, erudito. Di un’erudizione da Settimana Enigmistica. Aveva tuttavia un suo cavallo di battaglia che sfoggiava, a richiesta, alla fine delle cene al Circolo, quando gli effetti del vino si facevano sentire. Sapeva a memoria una celebre poesia scritta da Gabriele D’Annunzio per il suo Alcyone, “L’Onda”. Al Parioli era stata ribattezzata, prendendo lo spunto da uno dei versi più famosi, “Sciacqua e sciaborda”.

La recita de “L’Onda” aveva un rituale tutto suo. Il prologo arrivava di solito quando si era alla frutta o al dolce, con la richiesta al Barone di esibirsi: “Dai Carlo, Sciacqua e sciaborda, facci Sciacqua e sciaborda”! Il Barone si lasciava all’inizio pregare, ma bastava che fra i richiedenti ci fosse una bella donna perché cedesse di colpo. Iniziava a declamare nel silenzio generale ed i primi versi, di solito, superavano ogni ostacolo senza molti problemi: “Nella cala tranquilla/scintilla, /intesto di scaglia/come l’antica/lorica/del catafratto, /il mare”. Da quel momento in poi ogni verso era buono per commenti sguaiati e rumorosi. Quando il Barone declamava “Nasce l’onda fiacca, /subito s’ammorza”, iniziavano i primi lazzi. Più volgari quando, un’altra onda si alzava “più lene/che ventre virginale”, che “palpita, sale, /si gonfia, s’incurva/s’alluma, propende”. Da lì era un crescendo fino ai versi più celebri che venivano pronunciati quasi in coro, in una confusione totale,

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Sciacqua, sciaborda e scroscia

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con la voce del Barone che sovrastava quella di tutti gli altri e scandiva :”Sciacqua, sciaborda,/scroscia, schiocca, schianta, /romba, ride, canta, /accorda, discorda”... Un trionfo che scatenava commenti, urla, risate e anche di peggio. A quel punto, di fronte a quella “Rustica progenie” volgare e urlante, il Barone abbandonava D’Annunzio al proprio destino.

Al Nuovo Parioli al Barone fu anche attribuita una fidanzata socia del Club: la signorina Nocera, insegnante, detta “ La Pedagoga”. Al contrario di Carlo, era una donna colta e raffinata. Giocavano a tennis spesso insieme e questo diede vita al solito pettegolezzo da Circolo, alimentato dalla facilità con la quale il Barone abboccava a ogni provocazione. Lo stuzzicavamo sulla “Peda” spacciando l’esistenza di un flirt tra di loro. Lui negava.

Una sera d’estate poteva forse scoccare il colpo di fulmine.

Al Nuovo Parioli si era mangiato e bevuto in abbondanza ed il Barone si era esibito, con il solito codazzo di rumorosi commenti, in “Sciacqua e sciaborda”. Forse impressionò la Peda che si mise anch’essa a declamare poesie. Non poesie qualsiasi, ma assai licenziose. Tutti tacevano e il Barone assisteva compunto, quasi rapito da quell’inattesa concorrente. A rompere l’incantesimo, proprio mentre venivano pronunciati i versi più intriganti e scollacciati, due atroci, formidabili pernacchie fecero crollare le illusioni del Barone e spensero gli ardori tardivi della signorina Nocera.

I presenti, complice il vino, sghignazzavano, ma gli autori del volgare commento sonoro furono individuati: Giancar-

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Sciacqua, sciaborda e scroscia

lino Fumasoni (“Papero”) e Mirella Sotis Prandi. Solo Giancarlino però fu punito con una sospensione di 15 giorni. Mirella No. Aveva riso tanto nel corso di quella cena e dell’esibizione del Barone e della Peda che, la notte stessa, con un anticipo di un paio di settimane, diede alla luce uno dei suoi splendidi figli.

Quando ci si trasferì a Forte Antenne, Carlo Patriarca donò al Circolo uno dei suoi quadri. Chi lo ricorda sostiene che raffigurava una donna, formosa, con un bambino. Non si trattava proprio di una “crosta”, come dicono i mercanti d’arte dei quadri altrui, ma non era niente di speciale. Si decise di rivalutarlo nello stile Parioli. Un gruppo di Frati sparse la voce che il quadro poteva essere un capolavoro di scuola cinquecentesca, magari opera di un grande pittore italiano e la notizia cominciò a diffondersi, arrivando presto alle orecchie del Barone. Si passò allora alla fase due, preannunciando la visita al Circolo di un celebre critico d’arte che avrebbe dato il suo parere sull’autenticità e sul valore del dipinto. Il Barone entrò in fibrillazione.

Al Parioli ormai si davano i numeri e qualcuno sosteneva che il valore del quadro poteva superare il miliardo di lire. La visita del falso critico avvenne sul serio e la beffa fu completata. Carlo Patriarca non sapeva come richiedere indietro il suo prezioso dono per sostituirlo con un altro suo quadro di minor valore. La burla alla fine gli fu svelata e se la cavò con un cena, conclusa, ovviamente, con la recita di “Sciacqua e sciaborda”...

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La nascita del calcetto, la “terra tennisa” e altro ancora Nel ricordare gli ultimi 14 anni di vita del Vecchio Parioli e prima di descrivere le vicende che portarono allo scioglimento e alla costituzione del Nuovo, ci è sembrato giusto proporre alcune altre storie parioline che ancora oggi si raccontano, legate a protagonisti del Vecchio Parioli che poi in parte ritroveremo a Forte Antenne.

La più antica è del periodo della guerra e riguarda un socio austriaco, ottimo giocatore di tennis, che aveva disputato in gioventù la Coppa Davis per il suo Paese. Si era nell’estate del 1943 e Roma era ancora occupata dalle truppe del terzo Reich. Dopo il 25 luglio erano frequenti i rastrellamenti di civili: i nazisti cercavano lavoratori per la Todt e, soprattutto, ebrei. Una mattina fece il proprio ingresso al Parioli un camion militare e tutti i presenti, temendo una retata, tentarono di mettersi in salvo. Tradotto in linguaggio pariolino ci fu “un Fiuggi, Fiuggi generale”.

Alcuni si allontanarono per Viale Tiziano ancora vestiti da tennis o in accappatoio; altri cercarono di nascondersi nelle zone più riparate del Circolo. Tutto inutile. Era solo il consocio Riccardo Planner che aveva lasciato per un mattino la guerra e, in divisa dell’esercito tedesco, cercava un compagno per una partita di tennis.

Indimenticabile, un personaggio assolutamente straordinario, come sportivo e come Frate: Carlo Della Vida. Lo

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abbiamo già celebrato come seguace di Dante Alighieri, autore dell’appellativo che distingue da allora la classe più alta e temuta dei soci del Sodalizio, e come imbarazzante testimone nella vicenda del “Piccolo Verme”. A Carlo si deve anche di aver portato al Parioli, e quindi a Roma, il calcetto. Non siamo certo i primi a raccontare questo storico evento e le versioni che abbiamo letto fino ad oggi non concordano in tutti i dettagli. Alcuni protagonisti, allora giovanissimi, ci hanno confermato tuttavia che fu Carlo, dopo alcuni giorni di neve e gelo che impedivano il gioco del tennis, a proporre di utilizzare l’ultimo campo del circolo, quello con l’out più grande dove si era giocato un incontro di Coppa Davis, per una partita di calcio a ranghi ridotti e con le porte più piccole. L’iniziativa ebbe successo e da allora il calcetto è protagonista in tutti i circoli della Capitale.

Non tutti i soci furono d’accordo con quell’iniziativa.

Giorgio De Stefani, grandissimo campione di tennis, scrisse una lettera sdegnata al suo amico bolognese Vanni Canepele: “Pensa che dove noi abbiamo giocato la Coppa Davis, adesso al mio circolo si gioca al calcio”. Un sacrilegio! Canepele venne dopo qualche tempo al Parioli e... si mise a giocare a calcetto pure lui.

I dirigenti del sodalizio all’inizio non presero bene questa novità, ma poi cedettero. Il campo di calcetto fu preparato a dovere e si decise di inaugurarlo ufficialmente con una partita che avrebbe contrapposto il Parioli ad una squadra di un altro circolo. Uno dei giocatori, Franco Palom-

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belli, ricorda che fu chiamato a dirigerla un arbitro vero, Maurelli di Roma. Fu annullato ingiustamente un gol alla rappresentativa pariolina e uno dei migliori fischietti dell’Italia di allora, fu investito da pesanti contumelie e più volte “sfanculato”. Per la cronaca il Parioli vinse.

La “terra tennisa” è la versione veronese della terra rossa usata come fondo per i campi. Fu chiamata così da un giovane e - allora - squattrinato imprenditore, destinato al successo e a diventare socio del Parioli: Vasco Valerio. Lui stesso me l’ha raccontata una volta che mi portò a Napoli, con la sua Rolls Royce, insieme col fratello Danilo, per assistere ad un incontro di Davis. A quel tempo era capitano non giocatore della squadra azzurra.

In gioventù Vasco girava la provincia di Verona proponendo ai ricchi proprietari delle ville più belle la costruzione di un campo da tennis. Aveva con sé tre piccoli barattoli di vetro: uno con la terra rossa tradizionale, un secondo con lo stesso ingrediente più scuro perché vi era stata aggiunta polvere di carbone, il terzo con maggior polvere di carbone e quindi più scuro ancora. La materia prima era la stessa, il carbone serviva solo per modificare la tonalità del colore.

Vasco faceva a tutti il seguente discorso: “Questa - diceva esibendo il primo barattolo - è terra tennisa classica, ottima per un campo da principianti, per imparare a giocare, ve la consiglio, costa poco”. Poi prendeva il secondo contenitore: “ Questa è per giocatori già esperti, costa un po’ di più ma

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consente un gioco più veloce”. Era infine la volta del barattolo più scuro:” Questa ve la faccio solo vedere. La si usa per i campi più importanti e per giocatori di altissimo livello. Costa molto, a voi non serve”. Concludeva il racconto sorridendo e rivelando che quasi tutti i ricchi veronesi abboccavano e sceglievano la “terra tennisa” più cara. Come può non avere successo uno così bravo a sollecitare le umane debolezze?

Tonio Lupi e Marchetti erano diversissimi, ma uniti da un celebre episodio che li vide insieme. Tonio un buon tennista, un uomo affascinante, amato dalle donne, medico.

Marchetti, tennista più che modesto e per nulla affascinante, era diventato celebre per la sua risposta “Bona er cazzo” data in occasione di un palla contestata di una sua partita.

Marchetti durante una singolare si sentì male per il caldo e stramazzò al suolo mettendo in allarme tutto il Circolo.

Molti giunsero al soccorso. Altri si mobilitarono alla ricerca di un medico. C’era Tonio Lupi nella casina sociale che fu subito allertato e si precipitò al campo quattro, dove il buon Marchetti era ancora disteso semi incosciente sulla terra rossa. Tonio si fece largo fra i consoci che attorniavano il malato e si avvicinò per verificarne le condizioni. Gli prese il polso e il malato aprì finalmente gli occhi, lo guardò e disse :”Vojo un dottore vero”. Espressione poi entrata a pieno titolo, di fronte a qualsiasi seguace di Esculapio, nel linguaggio pariolino.

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Come l’inevitabile “Ma m’hai da dì co’ che machina” (mi devi dire con quale autovettura) che nasce da una vanteria di Carletto Saraceni (“Saracchetto”) che parlando con Carlo Palombelli e Luciano Giachetti (figlio del grande attore Fosco) asseriva di essere andato da Roma a Livorno in poco più di tre ore. Sulla vecchia Via Aurelia di allora sembrava impossibile. Giachetti in particolare non era convinto ma quando alla fine chiese dettagli sulla performance di Saracchetto e si sentì dire che aveva utilizzato una potente Lancia Aurelia se ne uscì, appunto, con il “Ma m’hai da dì co’ che machina”, che sarebbe divenuto da allora celebre per stabilire che una notizia va data completa di tutti i dettagli per essere accettata e credibile.

Non possiamo finire questo capitolo di vecchie storie parioline, senza ricordare due personaggi particolari: Alberto Rabagliati e Guido Agazzi. Quest’ultimo amava il tennis, le donne e, soprattutto il vino. In tarda età diceva, facendo abboccare qualche sprovveduto, di essere il padre del tennista americano Agassi, cambiando con disinvoltura le due zeta del suo cognome in esse. Quando giocava, ed era stato un buon seconda, teneva sempre un fiasco di rosso sotto il seggiolone dell’arbitro e ad ogni cambio di campo attingeva. Non si è mai saputo se, senza quel magico additivo, avrebbe giocato meglio o peggio...

Di Rabagliati, detto Raba, si sanno molte cose, essendo stato un uomo notissimo. Si racconta ancora oggi che, giovane e assai bello, vinse il concorso indetto negli Stati Uniti

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come sosia di Rodolfo Valentino, senza ottenere successo come attore ma rivelandosi un grande cantante, molto popolare in Italia (“Quando canta Rabagliati fa così”...).

Amava moltissimo il tennis e come poteva si presentava al Parioli per giocare in doppio, piazzandosi a rete. Anche quando, con il passare degli anni, cominciarono i primi acciacchi che lo costringevano ad usare fasce elastiche e altre protezioni muscolari, mentre il suo peso tendeva inesorabilmente a salire, Raba non rinunciava al suo doppio.

Mite, simpatico e spiritoso, anche se importante doveva fare i conti con lo spirito, irriverente e goliardico, dei Frati pariolini. Capitava di frequente che nello spogliatoio maschile, qualcuno gli chiedesse: “Dai Raba, cantaci Via Veneto”, una canzone da lui stesso composta. La prima volta che ingenuamente aveva aderito all’invito, la canzone era stata sfregiata dopo il verso finale con un’irriverente pernacchia. Era per questo che ai nuovi inviti rispondeva subito: “No, perché poi voi mi sfottete”. Il gioco consisteva nel pregarlo con insistenza, assicurandogli che il precedente era stato solo un deprecabile infortunio. Lui sapeva come sarebbe andata a finire, ma non resisteva a lungo. Iniziava a cantare “Via Veneto” mentre Carletto Saraceni batteva il tempo sul suo armadietto. La frase finale era “Mi piaci sì, perchè sei nata in Italy”. Lui garbatamente la cantava e, sgarbatamente, mentre tutti ridevano, partiva il sonoro dileggio. Finiva per riderne anche Raba.

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La fine del Vecchio Parioli Le Olimpiadi di Roma del 1960 segnarono la fine del Vecchio Parioli. Lo stadio Torino doveva essere trasformato in stadio Flaminio e una parte del territorio del circolo doveva essere utilizzata per costruire parcheggi. Sarebbero rimasti solo tre campi e la casina sociale. Coni e Comune di Roma si preoccuparono della sopravvivenza di un Club così importante. Ci fu offerto, come sede provvisoria, il Foro Italico, il che permise al sottoscritto e ad altri pariolini scarsi di poter finalmente giocare più volte a tennis sul famoso campo centrale, anche se con le gradinate di marmo assolutamente deserte... Come sede definitiva conquistammo poi uno splendido terreno ai limiti di Villa Savoia, fra l’antica Via Salaria e la costruenda Via Olimpica.

In un ambiente diverso questo cambiamento non avrebbe creato grossi problemi, ma il Vecchio Parioli era un’altra cosa. La gestione del circolo era saldamente in mano ad Erberto Vaselli ed ai suoi uomini. I Frati erano in minoranza ed il tasso di sfottimento e dileggio era diventato altissimo, quasi insopportabile. Vaselli colse al volo l’occasione per convocare un’assemblea con all’ordine del giorno lo scioglimento del Club e la costituzione del Nuovo Tennis Parioli, che sarebbe rinato prima al Foro Italico e poi a Forte Antenne.

Lo scopo era palese. Sciogliendo il vecchio Club, per di-

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ventare soci di quello nuovo sarebbe stato necessario per tutti sottoporsi ad una procedura d’ammissione. Con la maggioranza in mano ad Erberto, che avrebbe guidato un comitato di transizione, i Frati a lui più odiosi sarebbero stati irrimediabilmente bocciati. Lui ne aveva almeno otto nel mirino, con in testa Colalucci e Wis. Lo scioglimento del Club non era assolutamente necessario ma solo un pretesto. Prova ne sia che il nuovo Parioli ha sempre rivendicato la continuità con quello precedente, celebrando tranquillamente i suoi 100 anni di vita nel 2006.

L’assemblea di scioglimento fu tutto sommato tranquilla e la tesi di Vaselli prevalse. Il Vecchio Parioli fu sciolto ed un comitato di transizione incaricato di gestire la costituzione del nuovo. Molti Frati, sapendo che non sarebbero stati accettati, non fecero nemmeno domanda per esservi ammessi.

Una parte (Carlo e Franco Palombelli, Giuliano Scribani, i fratelli Teramo, Carlo Della Vida) trasmigrarono al Canottieri Roma, Fico Wis andò a giocare al Circolo del Ministero degli Esteri, Giuseppe Colalucci, perduto il Parioli, non andò da nessuna parte, rinunciando a diventare socio di un club. Ci fu, dunque, un’epurazione “spontanea” dei nemici d’Erberto. “Boccuccia” aveva vinto.

Vaselli si prodigò con successo per la costruzione del nuovo Club a Forte Antenne. Finalmente, almeno così lui credeva, era senza oppositori e dileggiatori. Era il leader incontrastato del Sodalizio.

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Ma i Frati avevano seminato... Quelli che si erano meno esposti nel dileggiare Boccuccia avevano fatto domanda ed erano stati accettati. Molti giovani, che ancora non avevano ottenuto la “qualifica”, dei Frati avevano subito il fascino e si apprestavano a ripeterne le gesta. Inizia da qui una diversa storia, quella del Nuovo tennis Parioli. Anch’essa merita di esser raccontata e arriva fino ai giorni nostri.

L’intento è di verificare se e quanto lo spirito del Vecchio Parioli è riuscito a sopravvivere.

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Parte Seconda Il Nuovo Parioli

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Il regno d’Erberto e le poltrone nere Erberto pensava di poter regnare a lungo in un Parioli fatto a sua immagine e somiglianza. C’era stata la diaspora dei contestatori più agguerriti e tenaci; era stata assegnata al nuovo Club una delle location più affascinanti di Roma, attaccata a Villa Ada, sotto i magnifici pini di Forte Antenne; i lavori procedevano spediti per la costruzione di uno dei Circoli più belli della Capitale; al governo con lui c’erano una schiera di fedelissimi.

Non va nemmeno dimenticato che per far nascere il nuovo Parioli il conte Vaselli ci aveva messo o, meglio, aveva garantito del suo, con una fideiussione di 65 milioni che all’inizio degli anni ‘60 rappresentavano una gran bella cifra, qualcosa come più di 1 miliardo e 300 milioni di vecchie lire ai prezzi di oggi. Altri soci benestanti avevano poi dato sub fideiussioni per un totale di 45 milioni di allora (900 milioni di lire) e la costruzione aveva decollato con successo.

Erberto ed i soci fideiussori avevano, com’era logico, il dominio del Sodalizio. Iniziò così un periodo di operosa quiete. Nulla sembrava poter turbare il luminoso regno di “Boccuccia”...

Però - nella vita c’è sempre un però - anche l’armonia perfetta del regno “erbertiano” fu turbata da un ostacolo imprevisto: le poltrone nere. Un incidente fastidioso, a prima vista insignificante ma che segnò l’inizio della fine. Un

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La poltrona fatale

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giorno i soci del Club trovarono l’arredamento del salone completamente rinnovato, con divani e poltrone di pelle nera lucida, completati da vistose borchie dorate. Erano stati scelti con cura da Erberto e dai suoi amici più fidati, a cominciare dai coniugi Carlo e Irene Del Frate. Ai soci non piacquero e ci furono reazioni divertenti e sguaiate.

Qualcuno, più superstizioso, fece poco eleganti gesti di scongiuro; altri diedero su quell’arredamento un po’ funereo giudizi salaci e impietosi. Nessuno, tranne qualche sconsiderato e i fautori della discutibile scelta, osò mai sedersi su quei divani e quelle poltrone.

Uno dei due divani fu la sede appropriata di un evento che suscitò grande ilarità e fece il giro del Sodalizio. Fra i soci più attempati, il Parioli vantava da molti anni un ex militare ottuagenario che dimostrava con evidenza i suoi anni. Lo avevano battezzato a Viale Tiziano “Colonnello Mortone”. Notissimo perché era stato colto più volte mentre, munito di un potente binocolo, si metteva accanto ai campi da tennis “puntando” da pochi metri le parti nobili delle tenniste più prosperose. Da allora le malelingue del circolo gli avevano attribuito alcune “passioni”, esclusivamente visive e tassativamente non ricambiate, fra le quali quella per una formosa giocatrice bionda altoatesina.

Quando non era occupato col binocolo, perché non c’erano tenniste da sbirciare, il colonnello sonnecchiava. Il caso volle che un giorno scegliesse proprio il divano nero borchiato d’oro, quasi sempre rigorosamente deserto, per

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sdraiarsi e iniziare un robusto pisolino. Un gruppo di giovani soci, che provenivano dal Vecchio Parioli, ma erano stati riammessi, provvide a deporre un cero acceso e dei fiori sul divano, accanto ai piedi del colonnello dormiente, simulando un estremo e irriverente saluto. Chi transitava prendeva parte alle “esequie” sghignazzando vistosamente.

Il vertice del Club la prese assai male. Uno dei presunti autori della beffa, il giovane Emanuele Scarfiotti, apprendista Sire di Macerata e futuro Presidente, fu investito dalla collera erbertiana. Il conte Vaselli, spalleggiato da Carletto Del Frate, gli contestò non il gesto beffardo (non c’erano prove) ma il giudizio estetico. Agli atti una frase di Del Frate che diceva: “Tu Emanuele, che sei perfino stato a Montecarlo, come fai a dire che queste poltrone non sono appropriate per un Club come il nostro”? Scarfiotti, che a quei tempi oltre che incosciente era anche coraggioso, mantenne il punto e confermò, senza esitazioni, che a lui quelle poltrone facevano schifo e che molti soci, soprattutto giovani ma non solo, pensavano fossero funeree e infauste.

Invece di accettare il parere della maggioranza, il vertice pariolino scelse la linea dura. Ci fu perfino una commissione d’inchiesta sulle poltrone nere, presieduta addirittura da un membro del Governo: l’onorevole professor Giuseppe Codacci Pisanelli, Ministro per i Rapporti col Parlamento. Si racconta che una mattina il Ministro in persona telefonasse a casa Scarfiotti per chiedere di parlare con “il signorino Emanuele”, e per sentirsi rispondere da un cortese

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cameriere che non era possibile perché “il signorino stava a scuola”.

Questo divertente episodio segnò una svolta nel Nuovo Parioli di Forte Antenne. Diversi soci, soprattutto giovani, riscoprirono il gusto della contestazione all’autorità, del soprannome azzeccato, dello scherzo mirato, ritrovando in parte quello spirito canzonatorio e beffardo che aveva contraddistinto i Frati di Viale Tiziano. Ai pariolini esuli in altri Club giunse l’eco dell’episodio. Si può senza tema di smentite affermare che dalle poltrone nere, dopo qualche tempo opportunamente sostituite, nacquero nuovi “Frati” rinnovando in parte l’antica tradizione. Frati che peseranno sempre di più nella scelta dei dirigenti del Club, fino ad arrivare, con Vincenzo Stipa, a portare un esponente della confraternita per la prima volta alla presidenza.

Ed è sotto questo profilo che intendiamo parlare del periodo che va dai primi anni ‘60 ad oggi, tralasciando, come sempre, le grandi imprese dei nostri tennisti che pure ci sono state, ma non ci riguardano, e senza seguire un preciso ordine cronologico. Andremo per argomenti, cercando di ricordare gli episodi ed i personaggi più divertenti. Perché solo questi lo meritano.

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Presidenti post vaselliani Il regno d’Erberto e le poltrone nere durarono solo quattro anni. Fu creata per lui la carica di Presidente generale e nel 1964 fu eletto Presidente del Consiglio Direttivo Gigi Orsini, uomo un po’ grigio ma assolutamente cordiale e soprattutto per bene. Era solito approcciare chi incontrava pronunciando con voce profonda uno stentoreo “Come vaaa”?, e “Come vaaaa”? fu il soprannome bonario che gli venne appiccicato. Fu anche presidente della Federazione Tennis. Già allora, nel Consiglio Direttivo entrò un giovane proveniente dal Vecchio Parioli, ottimo tennista, professore universitario di chirurgia la cui forte personalità peserà molto nella storia del Club: Vincenzo Stipa. Frate dotato di grande e raffinata intelligenza, assai simpatico ma anche abilissimo tessitore di trame, tanto da meritare in età matura il soprannome scespiriano di “Iago”, del quale il vostro Autore rivendica con orgoglio il copyright.

Il Parioli di Forte Antenne andava avanti “più bello e splendente che pria”, ma le ricorrenti crisi dell’economia italiana di quegli anni con l’inflazione in costante crescita, si ripercossero negativamente sul suo equilibrio finanziario.

Questo portò all’amara decisione di diminuire la quota a fondo perduto da versare per essere ammessi, con l’inevitabile conseguenza di abbassare, in alcuni casi di molto, il target dei nuovi soci. Più sensibili alla convenienza dell’offerta

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Presidenti post vaselliani

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che consapevoli o attratti dal vero spirito pariolino. Quella decisione, dettata dalla necessità, costituirà il seme delle future divisioni della compagine sociale che tuttora permangono. Intanto fra i giovani provenienti dal Vecchio Circolo si stavano formando nuovi Frati...

Ad Orsini nel 1972 successe Tullio Fazi. Toscano, estroverso, simpatico e molto sicuro di sé, Tullio non aveva un passato nella storia del Parioli e questo finiva per limitarne l’appeal presso i Frati vecchi e nuovi che stavano emergendo. Generoso e divertente, Fazi invitava diversi consoci ad Ansedonia, alla riserva Cantore, per partecipare ad una bellissima giornata di caccia e ad un pantagruelico pranzo.

Con Fazi la politica delle quote basse proseguì.

Al presidente toscano ne seguì uno napoletano dal nome impegnativo: Garibaldi Lo Pane, detto Dino. Anche lui dotato di grande simpatia ma non romano né pariolino. Al suo fianco diventava sempre più importante la carica del Segretario del Circolo, perché perennemente interpretata da un pariolino doc, Italo Sanna (Toulouse) del quale abbiamo già avuto modo di occuparci. Durante il Governo Lo Pane aumentò il peso dei giovani del Circolo, ma si cementò anche l’intesa fra quelli che sarebbero poi stati battezzati come “pizzettari”.

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La prima offensiva dei pizzettari Alla scadenza del primo mandato di Dino Lo Pane i Frati del Parioli vennero a sapere che si stava preparando, sotto l’egida del presidente uscente, una lista antagonista di “chiara matrice pizzettara”. L’espressione “pizzettari” non è nata al Club ma fa parte dello slang romano. Va riconosciuto che il primo a adottarla nei confronti dei soci ritenuti tali è stato Emanuele Scarfiotti, Frate all’epoca giovane e oggi storico. L’occasione fu una riunione che si svolse a casa di Giorgio Prandi dove furono convocati i giovani del Circolo. C’erano tutti: Vincenzo Stipa, Scarfiotti il “Sire”, i “Nani doc” Operti e Tommasi; Stefano Provenzani (Cucchiarino), Ugo Fumasoni e Giancarlino (Papero), il vostro Autore (Moon) e tantissimi altri. Facevano gli onori di casa Mirella Sotis Prandi e la leggendaria mamma Sotis.

Si decise di contrastare l‘offensiva pizzettara e la soluzione fu proposta - non poteva essere altrimenti - dal Frate Iago.

Stipa s’impegnò a convincere Lo Pane a cambiare campo, cioè a riconfermarlo presidente ma con una lista di consiglieri giovani, capeggiata da lui che avrebbe assunto la carica di vice presidente. Lo Pane avrebbe compiuto un nuovo mandato, poi avrebbe lasciato la presidenza allo stesso Stipa.

Un piano perfetto, come sono quasi sempre stati quelli di Iago, che ebbe successo.

Nelle elezioni la lista Lo Pane-giovani trionfò, mentre

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I cospiratori

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La prima offensiva dei pizzettari

quella pizzettara non riuscì a far entrare nessun esponente nel nuovo Consiglio Direttivo. Si svolsero di sabato ed i risultati furono proclamati a notte inoltrata. Il giorno dopo, domenica, sole splendido, Circolo gremito ma nemmeno l’ombra degli esponenti della lista sconfitta. Tranne uno che, nella circostanza, dimostrò di avere coraggio e spirito, presentandosi e ricevendo i prevedibili sfottò dei vincitori: il notaio Barca. Al quale chi scrive rivolse, incautamente, una frase irriverente e beffarda: “Vi siete voluti contare ed avete finalmente capito che non contate un cazzo”. Alla luce degli eventi successivi, di quella frase irridente sarò costretto a pentirmi. Perché, come vedremo, i pizzettari si sarebbero ampiamente vendicati...

Con l’elezione di Stipa alla presidenza (1987) i Frati confermarono il proprio peso determinante nella vita del Circolo e il tasso di divertimento, di sfottò e di prese in giro più o meno azzeccate crebbe notevolmente. Ma anche fra i Frati avvenne una divisione che, con il tempo, avrebbe avuto pesanti conseguenze. Secondo la versione fornita da Stipa, c’era l’accordo sui due nomi dei vice presidenti che dovevano essere il notaio Mazza e il Sire Scarfiotti, ma Mazza non onorò l’impegno e con lui fu eletto dal CD vice presidente Gigi Tronchetti Provera. La spaccatura da allora vede da una parte l’asse Stipa-Scarfiotti e dall’altra quello MazzaTronchetti. È rimasta fino ai giorni nostri, attraverso le successive presidenze di Tronchetti (1993-1996), Scarfiotti (1996-2002) e Mazza (2002-2005). Ha portato alla grande

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vittoria pizzettara del marzo 2005, che vi racconteremo nella parte finale del nostro libro. Prima, secondo il canovaccio che abbiamo scelto, riteniamo giusto ricordare gli episodi divertenti di Forte Antenne, e alcuni protagonisti.

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Alcune storie: dal “denticue” agli occhiali per sordi Il nostro racconto ritrova Maria Cardella, la bella “Lollo dei poveri” che, come molti di noi, passò dal Vecchio al Nuovo Parioli. Aveva diversi ammiratori, ma noi vogliamo ricordare un episodio particolare e divertente, che ha poco a che vedere con il suo glamour e molto con la sua genuina simpatia. Maria aveva addirittura due soprannomi: il secondo era “Astrua”, a quel tempo un ciclista abbastanza famoso.

La passione per la bici non c’entrava nulla e quel soprannome, credo affibbiatogli da Nicky Riario, derivava dal suo vezzo di inserire un’elegante “u” prima di una qualsiasi vocale, quando riteneva opportuno evidenziare una parola in modo forbito. Era sposata con Pietro, un simpatico romano, anche lui assai verace, proprietario di un importante negozio di fiori in Via Veneto.

Un pomeriggio Maria arrivò al Club e, davanti a diversi consoci, descrisse una sua memorabile impresa culinaria con queste parole: “ Oggi a Pietro ho cucinato un denticue... Un denticue freschissimo, una prelibatezza”. Gli astanti annuirono sorridendo perchè quel pesce, sia pure freschissimo, aveva una “u” di troppo. Maria uscì dalla scena, ma dopo una mezz’ora si presentò al Circolo il sor Pietro. Arrivò al bar, dove sostavano gli sfaccendati di prima, che avevano ascoltato il mirabolante racconto di sua

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moglie, e si rivolse al cameriere con queste parole: “ A Polo damme ‘n po’ n’Alkaselzere, che mi moje oggi m’ha cucinato er baccalà, e ancora me lo sento”...

Due storie riguardano gli apparecchi per combattere la sordità. Erano i primi sul mercato e costavano parecchio.

Due soci, notoriamente deboli d’udito, li acquistarono e si presentarono al Club, pronti a cogliere ogni sussurro.

Uno era Costante Frigo. Veniva dal Veneto, la sua domanda classica era “Conosci Rovigo? Mai stato a Rovigo”?

Questo gli dava l’opportunità di parlare della nebbia delle sue terre, cosa della quale non fregava niente a nessuno. Era molto simpatico, amava il tennis e le carte. Rumoroso e coinvolgente, era spesso vittima di scherzi da parte di quei “romanacci” degli altri soci.

Con i suoi occhiali acustici nuovi di zecca fece il suo ingresso nel Club trionfante, spiegando a tutti i grandi progressi della tecnica che avevano portato, per i sordi, al miracolo. Col suo inconfondibile accento padano raccontava entusiasta di aver provato una sensazione idilliaca: “Finalmente stamattina, quando me son svejato, ho sentito gli osei che cantavano. Una maraviglia”. Gli occhiali erano ingombranti a causa delle batterie, ma per Costante si trattava di un prodigio del quale doveva far partecipi tutti. E con quella tecnologica dotazione si sedette al tavolo verde con tre furbacchioni per giocare a Peppa. Si trattava, mal per lui, di Giorgio Prandi (Socetto), Ugo Fumasoni (Fumacchia) e di Massimo Operti (Nano).

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Ci fu un segno d’intesa e, di colpo, i tre compagni di gioco divennero afoni: parlavano muovendo solo le labbra ma senza emettere alcun suono e guardavano di sottecchi le reazioni della loro vittima. Frigo ne fu colpito, si tolse gli occhiali acustici cominciando ad armeggiare per scoprire come mai fosse ritornato quel terribile silenzio. Gli occhiali, così tormentati, emettevano preoccupanti ronzii. I tre malfattori continuavano a parlare a vuoto... Con un ultimo, sinistro “bzzzzzz” gli occhiali cessarono le trasmissioni e il buon Frigo li sbattè per terra, frantumandoli.

La seconda storia “acustica” riguarda il conte Vitalini Sacconi. Uomo tarchiato, muscoloso e ardito. Aveva un passato eroico avendo partecipato, al seguito di Italo Balbo e dei suoi “Sorci Verdi”, ad una delle imprese aeronautiche più celebri della storia: la trasvolata atlantica in idrovolante. La sua forte sordità pare derivasse proprio da quell’impresa.

Personaggio riservato, si faceva notare perché spesso, in pieno inverno, si recava in costume da bagno in piscina nonostante il freddo, per fare ginnastica all’aperto esibendo un fisico ancora prestante e integro, malgrado avesse ormai un’età avanzata. L’unico suo handicap fisico era la sordità.

Si presentava spesso in sala carte e, inesorabilmente, c’era qualcuno, sempre lo stesso, che approfittando della sua infermità acustica lo salutava con un volgarissimo “Ciao, stronzo!” Era diventata una deprecabile consuetudine. Ma il conte Vitalini era assai meno espansivo di Frigo e non confidò a nessuno che i suoi nuovi occhiali erano occhiali

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acustici dell’ultima generazione. Entrò in sala carte, avvicinandosi ignaro al suo abituale persecutore che gli si rivolse con il consueto “Ciao stronzo!” Vitalini Sacconi non ebbe un attimo d’esitazione, fulminò il malcapitato con un ceffone violentissimo e se ne uscì. L’episodio non ebbe alcuna conseguenza disciplinare: lo schiaffeggiato non reagì e non si rivolse al collegio dei Probiviri. La verità gli si sarebbe ritorta contro.

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I Top Ten Quando si frequenta con assiduità un luogo come il Parioli, si colgono le differenze di comportamento, fino al punto in cui certi personaggi con i quali si è quotidianamente in contatto risultano insopportabili. Quelli che si atteggiano, si danno arie, si sforzano di farsi notare oltre il dovuto e il tollerabile, si mettono continuamente in mostra e parlano a sproposito. In un periodo come la prima metà degli anni ‘80, con il Circolo a pieno regime sul piano sportivo e mondano, persone di questo tipo venivano considerate dai nuovi Frati troppo esposte e bollate con un fulminante aggettivo del dialetto romano, già citato nel caso del conte Vitalini. Aggettivo che in questa sede omettiamo di ricordare. Non solo per evitare di rinnovare le polemiche, allora molto forti, che accompagnarono la decisione fratesca, ma perché, forse proprio grazie a quello straordinario evento, alcuni dei personaggi in questione si sono in seguito ampiamente emendati e non appartengono più a quella deprecata categoria.

Colpiti dagli atteggiamenti eclatanti d’alcuni soggetti, in noi si fece strada l’esigenza di mettere ordine fra tante personalità così disparate e, al tempo stesso, tanto petulanti.

Decidemmo di varare una sorta di Ordine di Merito, una classifica nella quale, con accurate e preganti definizioni, fosse codificata una scala di valori. Ci riunimmo più volte

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per decidere il numero dei classificati, e decidemmo di limitarlo a dieci, anche se il materiale per una graduatoria più ampia di certo non mancava. Tenemmo una riunione conclusiva in casa del Nano Operti alla quale presero parte il Nano Tommasi, Cesare Guerci Lena e due rampanti e scomposte promesse sulla via dell’apprendimento fratesco: Paolo Rampichini, candidato Nano, e Maurizio Antinucci, avvocato ma, soprattutto, terrorizzatore di cavalli.

Ne venne fuori una classifica molto succosa, e le definizioni di ciascun concorrente compilate dal sottoscritto, furono approvate all’unanimità. Chi scrive provvide a far battere a macchina dalla propria segretaria il nome degli eletti, con accanto la motivazione che aveva consentito l’exploit rispetto alla concorrenza che, nello specifico, come detto era piuttosto forte.

Furono fatte diverse copie della classifica che cominciò a circolare clandestinamente fra un ristrettissimo numero di soci del Sodalizio, suscitando consensi e ilarità. Fino a quando Paolo Rampichini, colpito da un attacco d’altruismo, decise che era opportuno mettere al corrente delle nostre scelte l’intera collettività sociale. Prese una copia della classifica dei Top Ten e la inserì, in bella mostra, fra i vetri che proteggono la bacheca dove sono affissi gli editti del Consiglio Direttivo, situata alla destra del bar che sta fra la piscina e gli spogliatoi.

L’effetto fu dirompente. Tutti sghignazzarono, tranne i diretti interessati. Nessuno di loro la prese bene, anche se la

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graduatoria non riportava il pesante aggettivo in base al quale era stata compilata. Ci fu addirittura chi, interpretando male la motivazione che lo riguardava, scambiò per un insulto sanguinoso uno sfottò tutto sommato assai simpatico e gratificante, che si limitava a ridimensionare una sua non difficile conquista amorosa. Al culmine della vicenda, dopo che il foglio incriminato era stato asportato dalla bacheca, l’aspirante Nano Rampichini fu denunciato al Collegio dei Probiviri.

Al presidente del Collegio, l’esimio Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti, il Rampico disse, mentendo spudoratamente, di aver trovato il foglio su un tavolo del bar e che, ritenendolo divertente, aveva pensato di farne partecipe l’intera compagine sociale. Azzariti gli rispose che il Collegio doveva in ogni caso infliggergli una sanzione, facendogli intendere che sarebbe stata blanda, visto che si trattava di uno scherzo tutto sommato innocente e ben fatto. Non fu così perché il Collegio decise per un mese di sospensione.

Vano fu l’intervento del Nano Operti che si presentò dall’avvocato Azzariti chiarendo che gli autori della beffa erano stati lui ed il vostro Autore. Oramai la sentenza era stata emessa e non c’era possibilità di modificarla.

Sono passati oltre 30 anni e di quella classifica ce ne sono ancora copie in giro. Ci è sembrato giusto riproporla, omettendo tutti i nomi dei classificati, meno uno, del quale siamo sicuri abbia capito perfettamente lo spirito di quella beffa e che ha compiuto da allora un importante percorso

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ed è diventato un grandissimo e amatissimo Frate: Nello Vaglio. Purtroppo anche lui non c’è più. Occupava il sesto posto e veniva definito: “ Piccolo di Podrecca. Metallaro su Ferrari bianca e Off Shore rosso. Confezionato in scatola di montaggio da 500 pezzi.”.

La classifica aveva un presidente onorario, un noto grande scrittore contemporaneo, del quale non erano ovviamente criticate le insigni opere letterarie ma il vezzo, in età avanzata, di insediarsi ai bordi dei campi da tennis e di intervenire, quasi sempre a sproposito, per sostenere che una palla era buona o out.

Per il primo classificato s’informavano i lettori che si era alla presenza di un soggetto “Inossidabile (anche dopo lavaggio). Contiene coloranti e conservanti. Leggere attentamente le avvertenze”. Il numero due veniva definito “Da corsa. Passato dal tennis all’ippica alla quale tutti, continuamente, sentono di doverlo indirizzare”. Il “podio” era completato dal numero tre: “Nuovo ingresso. Indicato nelle sindromi da menopausa. Reduce Garibaldino (ultimo dei Mille)”.

Al quarto e quinto posto due soggetti interessanti. Del primo si precisava che “La FAO ne prevede un largo utilizzo in agricoltura”, con la precisazione che era “efficace anche se assunto in micro dosi”. Per il numero cinque il verdetto della giuria diceva: “Disponibile anche in versione spray.

Comunque con l’aria che tira c’è poco da stare allegri”.

Del sesto in classifica abbiamo detto. Il settimo era “Un

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esponente della scuola comica romana” al cui cospetto si poteva venire colti da “imprecisati effetti collaterali”. L’ottavo era invece “tradizionale e affidabile” ma da “agitare bene prima dell’uso” potendo provocare “sintomi di rigetto”. Il nono era “del tipo irreversibile” e “interamente fatto a mano”; per ottenere sue referenze occorreva “rivolgersi a Carlo Tommasi”. The last but not the list il decimo classificato le cui particolare vocazione risultava “Visibile ad occhio nudo a diversi Circoli di distanza”.

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Biancaneve e i Sette Operti Nel linguaggio comune Nano indica una persona di statura piuttosto bassa. Alcuni genitori lo adottano, in modo affettuoso, per indicare i propri figli, quando ancora sono piccoli. Viene usato in modo dispregiativo se accompagnato da un aggettivo: nano malvagio, brutto nano, e così via. In una celebre canzone, Fabrizio De Andrè, con il pessimismo che lo contraddistingueva, non ha avuto invece dubbi sul significato negativo del termine. Cantava, infatti, che “ Un nano è una carogna di sicuro, perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”.

Al Parioli Nano ha un significato tutto suo e ciò si deve alla presenza attiva di alcuni personaggi, uno dei quali, il Nano per eccellenza Massimo Operti, è fra gli ispiratori di questo libro. Sullo stesso piano un’altra celebrità del Nuovo Parioli: il Nano Carlo Tommasi. Lui ed io siamo stati spesso protagonisti di un siparietto per mettere in imbarazzo socetti o qualche ospite appena entrato timidamente al Club.

Il copione non era nostro ma di Charles Schulz, il famoso vignettista americano, padre dei Peanuts. Funzionava sempre. Carlo mi presentava alla vittima dicendo: “Questi è Charlie Moon, detto Curls il Riccio, maestro di sarcasmo”.

Il soggetto sorrideva e molto spesso rispondeva, come da copione, “Dì qualcosa di sarcastico”. Ed io subito: “Piacere di conoscerti”. Lo sghignazzo era generale.

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Compagni di doppio, di calcetto e di merende, i due Nani classici sono stati fra i protagonisti della vita del Club, anche se Carlo Tommasi negli ultimi tempi, con nostro gran disappunto, ha dapprima molto diradato le proprie frequentazioni e poi, sciaguratamente, rassegnato le dimissioni.

Caratteristica dei Nani è, simpatia a parte, lo spirito caustico, la battuta pronta, il gusto dello scherzo e, soprattutto, il fatto non secondario di accettare a loro volta soprannomi irridenti e prese in giro. I Nani, in buona sostanza, non sono permalosi.

Una battuta storica, che dà la misura dello spirito fulminante in dotazione ai Nani, fu pronunciata da Operti per risposta ad una frase di Franco Olivieri, detto Cicci, un Frate di enorme simpatia, protagonista d’episodi che ritroveremo nel corso del nostro racconto. Stavamo nella vecchia sala carte, quella che diventerà in seguito la sala Tv. Giocavamo a poker nel primo tavolo tondo sulla destra. Dalla porta emerge il bel volto di Cicci Olivieri che, come sua abitudine, si toccava il mento con le dita. Ci giriamo quando lui dice: “Ragazzi, mi è venuta una mezza idea”. Al che il Nano subito replica: “Perché a te idee intere non te so’ mai venute”!

Altra caratteristica nanesca l’irascibilità durante il gioco del tennis o del calcetto. Qui il Nano Operti non lo batte nessuno. Non si contano i suoi rimproveri a tanti sfortunati compagni di doppio “misto” per i loro errori a fondo

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campo o a rete. Per “doppio misto” al Parioli s’intende una partita fra due coppie formate ciascuna da un giocatore forte e da uno, diciamo così, meno abile. Se quello forte è un Nano, ogni scambio è buono per battute sferzanti e altri supplizi. C’è chi si sottopone a questo strazio con piacere masochistico, come l’esimio professor Marcello Scalzo, al quale il Nano Operti ha rivolto tutto il suo vasto campionario di contumelie, arricchendolo di continuo. Arrivando al culmine, dopo una partita perduta in coppia, di prendere dall’armadietto del malcapitato compagno la divisa da tennis e bruciarla in un rogo purificatore.

Sempre sul campo da tennis, se vedete un gruppo di spettatori che sghignazzano e scommettono, vuole dire che c’è almeno un Nano impegnato in doppio. Se si tratta di Massimo Operti lo spettacolo è assicurato. Gli spettatori affluiscono numerosi non tanto per seguire il risultato della tenzone, quanto sperando che accada qualche gravità. Raramente restano delusi. Oltre che con la racchetta è possibile che un Nano colpisca, con insulti roventi, non solo il proprio compagno di gioco o i due avversari ma anche i giocatori del campo accanto.

I Nani sono superstiziosi. Operti per entrare al club segue sempre lo stesso percorso, tenendo la destra all’andata e al ritorno verso il parcheggio. È arciconvinto che alcuni soci influiscano negativamente sulle sue prestazioni tennistiche, quando si trovano ai bordi del campo a seguire una sua partita. Non gli passa nemmeno per la testa che è colpa sua se

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sbaglia un colpo facile: è l’influsso negativo dello sfigatore o della sfigatrice di turno che lo ha provocato. Lui sa quanto siano ridicole queste fissazioni, alle quali però tiene moltissimo, tanto da attribuirsi in esclusiva il “Premio Nobel per la Fisima”.

Nei confronti dei Nani, che sono ovviamente dei Frati doc, c’è ammirazione ma anche invidia. Specie da parte di quelli che il Circolo non lo hanno mai vissuto come luogo di puro divertimento, da quando si entra a quando si esce, ed oltre. È così capitato che l’ennesimo lancio di racchetta di Operti, conclusosi con un doloroso atterraggio sul capo del conte Carlo Canali, non venisse denunciato dal nobile e simpatico spettatore, vittima del misfatto, o da uno dei presenti, ma da qualcuno che ne aveva solo sentito parlare.

E questo non è stato bello.

Inutile dire che più volte il Nano Operti è stato oggetto d’attenzione e di sanzioni da parte del Collegio dei Probiviri del nostro amato Sodalizio. Una punizione ricorrente è stata quella di non estrometterlo dal Circolo ma solo di proibirgli l’accesso ai campi da tennis. Il Nano, senza chinare il capo né rinunciare alle sue battute, in quei casi accettava il divieto e se ne andava tutto solo, o accompagnato da qualche sodale, a giocare contro il muro. Questo, però, appariva sconveniente al Collegio che, nella sanzione successiva, gli proibiva qualsiasi contatto con la racchetta, imputandogli il reato di “strafottenza”. Come ai tempi della Santa Inquisizione, per il Collegio non c’erano stati visibili

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segni di pentimento.

Abbiamo ritenuto necessaria questa premessa sui Nani del Parioli perchĂŠ serve a comprendere gli avvenimenti, divertenti o no, che hanno contrassegnato la vita del Club fino ai giorni nostri.

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Il calcetto Il calcetto, come sappiamo, è nato al Vecchio Parioli e questa nobile tradizione è stata portata avanti con successo anche nel Nuovo. La squadra biancoverde è stata sempre una delle protagoniste della Coppa Canottieri Lazio, prima competizione fra circoli della Capitale, che richiamava nelle sere d’estate un foltissimo pubblico sulla sponda del Tevere.

Le partite erano seguite da numerosi soci del Sodalizio, giovani e non, che si entusiasmavano per le imprese dei nostri rappresentanti e tifavano alla grande. Anche perché erano tutti derby: con la Canottieri Roma, la Canottieri Lazio, la Tevere Remo e l’Aniene.

In quegli anni la Coppa Canottieri alla Lazio era uno degli eventi mondani dell’estate romana. I giocatori erano tutti soci dei Club e non ex calciatori professionisti ingaggiati per l’occasione. Gli spalti erano frequentati anche da belle donne e da esponenti della nobiltà, oltre che da un pubblico spiritoso e vociante. Erano serate divertenti e lo spettacolo non era solo sul campo. Dalle tribune partivano spesso sfottò memorabili. Come quando un giocatore della Tevere Remo, al quale madre natura aveva elargito una dotazione esorbitante di peli su braccia e gambe, fu apostrofato così: “A tre, se te porto allo Zoo me danno du’ scimmie de resto”.

La squadra del Parioli aveva in porta dapprima Ugo Fu-

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masoni e poi Sergio Chimenti. Era composta da Stefano Garzoni Provenzani (Cucchiarino), Maurizio Pozzi, Mauro Monteduro (poi passato nelle file dei rivali del Canottieri Roma), Lucio D’Orsola (Bomber), Mario Savini (Bambokan), Gianluigi Parmeggiani, Massimo Giampieri (Nasa), Paolo Staccioli (il Matto), Alberto Magrini ai quali si aggiungeranno poi i validissimi fratelli Forte.

Sul campo di casa del Parioli imperversava invece quasi quotidianamente la squadra dei Nani, con in porta Chicco Cantarini detto Pecorella che nano non è come dimensioni, risultando piuttosto robusto e alto quanto basta. Chicco è un personaggio. Per descriverne la scanzonata romanità basta un episodio avvenuto d’estate sulla strada dell’Argentario. Il principe Costantino di Grecia, reduce da una regata, transitava da Porto Ercole verso Porto Santo Stefano.

La sua presenza aveva creato un ingorgo di traffico e le auto, compresa quella di Cantarini, erano pressoché bloccate.

Chicco resistette solo qualche minuto e poi scese dalla propria vettura si avvicinò al futuro sovrano dicendo: “A principe, va be’, ma adesso levate dar cazzo”.

Nani veri della squadra di calcetto erano Massimo Operti, Carlo Tommasi (che sarà poi soprannominato “la sorella di Pirlo”), Provenzani e Paolo Prosperi (detto Aragosta o Scarpantibus). I Nani sfidavano le altre squadre e negli spogliatoi e sul campo, succedeva di tutto. Famosa la beffa ricorrente ai danni di un grande appassionato di calcetto, Giacomo Ciarlantini, che cercava sempre di parteci-

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pare e si portava perfino il pallone da casa. Se si superava il prescritto numero di 10 giocatori, si ricorreva alla sorte per stabilire chi sarebbe rimasto fuori. La prima volta che si trovarono in 11, i Nani organizzarono le cose per bene. 11 bigliettini con i nomi dei giocatori furono messi dentro un cappello ed il compito di estrarre il nome dell’escluso affidato ad un serio e stimato professionista: il notaio “Inzi” Gandolfo. Uscì il nome di Ciarlantini. La volta successiva idem. Il notaio estraeva e Ciarlanta rimaneva fuori. Fino a quando non fu colto da un atroce dubbio e, dopo l’estrazione, agguantò il cappello e iniziò ad aprire i bigliettini: tutti portavano il suo nome.

I nuovi arrivati sul campo di calcetto venivano pesati a seconda della propria abilità e, quasi sempre, etichettati con un soprannome. “Er Soala”, ad esempio, toccò al giovane Meloni che si presentò dicendo “Io so ala” ai Nani schierati per una partita. Mentre ad un famoso andrologo, il professor Spera, venne chiesto se il suo fosse un “nome d’arte” considerando la professione e il miraggio che faceva balenare ai suoi clienti (“Spera che te s’addrizzi”). Presentatosi in campo come “mezz’ala”, e ricevuto un immediato “vaffa” dai Nani, l’illustre clinico si fece togliere subito la palla da Pizzetti (detto “Ilde” dal nome del musicista Ildebrando) che andò facilmente in gol, provocando l’uscita prematura dal campo per protesta del Nano Operti.

Durante le partite le battute divertenti fioccavano. Come fu quando il giovane Cardella, detto Gongorò, disse ad un

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compagno di gioco driblomane, che si ostinava a non passare la palla: “Aho, e dalla! Fa come tu sorella”! Più recente ma altrettanto memorabile la critica di Fabrizio Berliri ad un consocio originario della Puglia, suo compagno di gioco: “Tu parli come Cassano, ma giochi come Banfi”.

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La Caravella tricolore Il Parioli ha avuto per diversi anni una vera squadra di calcio che ha partecipato ad un torneo romano assai popolare, la “Caravella Tricolore”. Vi erano impegnate altre squadre di circoli romani, a cominciare dai nemici “storici” del Canottieri Roma, che avevano una compagine molto forte ed esperta, e alcune società di calcio ben note e amate nelle zone popolari e periferiche della città. La squadra biancoverde aveva come proprio campo l’Artiglio, anche questo in periferia, ed alle partite del sabato pomeriggio, oltre ai tifosi del Club, si presentavano sugli spalti dei perdigiorno locali molto abili nello sfottò e dotati di salace spirito d’osservazione.

Da questo punto di vista il nome Parioli, nella zona suburbana, non aiutava. E nemmeno il fatto che i baldi componenti la nostra squadra si presentassero con un’impeccabile e immacolata divisa di gioco bianca e verde.

C’eravamo infine noi tifosi, che arrivavamo a bordo di auto spesso di gran lusso, in quartieri dove non avevano mai visto passare una Ferrari o una Mercedes. L’epiteto più gentile che accoglieva i giocatori pariolini al loro ingresso in campo era quindi un classico “A frociiii”, che la diceva lunga sugli umori della fauna locale.

Allenatore della squadra era Walfrido Picardi, ex rugbista, particolarmente ammirato dalle donne, soprattutto mature.

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Era stato soprannominato “Baldraccone”, ma nelle vesti di allenatore gli era toccato “Amaral”, dal nome di un tecnico brasiliano assai noto a quei tempi. Portiere titolare era Ugo Fumasoni, detto Fumacchia o Fuma, che si faceva subito notare da avversari e pubblico non solo per il vivace maglione giallo e i pantaloni neri, ma soprattutto per la stazza notevole dove troneggiava una “panza” di ragguardevoli dimensioni. Questo ne faceva uno dei bersagli preferiti dei dileggiatori sugli spalti. In difesa giocavano Giuliano Vitale, Francesco D’Alessio, Tullio D’Angelo (O Guappo) e Bartoli. Centrocampisti erano Mario Savini, Maurizio Pozzi, Stefano Garzoni Provenzani; attaccanti Paolo Staccioli, Robertino Valerio e Lucio D’Orsola (Bomber).

Al Tuscolano Fumacchia fu salutato con un’ovazione dalla tifoseria locale, fra urla e sghignazzi. Uno di loro chiamò a raccolta la massa dicendo: “Venite a vede: questi in porta c’hanno Gino Bramieri”. Ugo, da grande sportivo, non reagì e prese posizione rivolto verso il centro del campo, con le braccia larghe ed i pugni chiusi appoggiati alla vita. Uno spettatore provocò una scomposta ilarità generale dicendogli: “A portiereee! Me pari un supplì cor manubrio da corsa”.

Sempre sullo stesso campo un altro spiritoso commentò la straordinaria e inusitata prestazione di Ugo come centravanti. Il Bomber D’Orsola era stato costretto a dare forfait, non c’erano altri atleti disponibili e così Fumacchia aveva dovuto indossare la maglia di Lucio col numero nove

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per sostituirlo. Il risultato era che la maglia in questione riusciva a coprirgli solo una parte del corpo, lasciando scoperta la pancia. Questo aveva provocato diversi ululati e sberleffi, culminati con la frase “A Nove! Si caschi in avanti fai er cavallo a dondolo”.

I tifosi del Parioli non restavano indifferenti a tutto questo; reagivano al dileggio e ricambiavano di cuore gli insulti più sanguinosi. Nel rimbeccare la tifoseria avversaria le più scatenate erano le donne parioline, con in testa la simpaticissima giovane marchesa Cristina Theodoli, moglie di Roberto Valerio, che abbandonava spesso il lessico della classe nobile, cui apparteneva per antico lignaggio, per prodursi in atroci contumelie in puro dialetto. Una volta, il suo incosciente coraggio ed i suoi epiteti, mentre era in corso una partita in notturna, stavano per scatenare una rissa gigantesca, evitata solo da una tempestiva fuga collettiva.

Sugli spalti si presentava quasi sempre Carlo D’Alessio, socio storico del Parioli e padre di Francesco. Ex rugbista, avvocato di grido, famoso proprietario di cavalli da corsa con la scuderia Cieffedi, acronimo dei due nomi: Carlo e Francesco D’Alessio. Fumantino come pochi, pronto spesso allo scatto di nervi, ma altrettanto pronto a chiedere scusa se necessario ed a rappacificarsi con il malcapitato interlocutore.

Amava moltissimo Francesco e ne era ampiamente ricambiato. I due erano diversissimi. Francesco era un ragazzo dal carattere complesso del quale chi scrive non

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ricorda mai uno scatto d’ira. Buono, generoso e disponibile era un ottimo tennista, bravissimo in doppio. Talmente disponibile d’aver chiesto di giocare, qualche volta, perfino al sottoscritto, del quale era universalmente nota la scarsezza sulla terra rossa.

Amava i paradossi, le scommesse ed i ragionamenti contorti che spesso finivano per disorientarti. Fra di noi ci raccontavamo, per prenderlo in giro, di un suo dialogo con il padre, quasi sicuramente inventato, ma che serviva per indicare quanto fosse profondo il rapporto fra i due. C’era, in quest’arbitraria ricostruzione, Francesco che poneva al padre il seguente quesito: “Ma secondo te, papà, è più dolce lo zucchero o più veloce il treno”? E Carlo che ribatteva: “Ma che domanda cretina fai”? E poi, dopo un attimo sorridendo aggiungeva: “È più dolce lo zucchero. No”?

Questi ricordi divertenti, e quelli che seguiranno quando torneremo sugli spalti della Caravella Tricolore con Carlo D’Alessio protagonista, rendono più acuto il dolore per la tragica scomparsa di Francesco. La vicenda è assai nota e non intendiamo ripercorrerla. Solo affermare che la cosa che ha fatto più male a noi amici di Francesco è stata l’immagine profondamente sbagliata e distorta che n’è stata dipinta al processo, che fece seguito al suo assassinio.

Immagine ampiamente alimentata dalla stampa di allora, ma che non corrispondeva per niente al Francesco che abbiamo conosciuto ed al quale abbiamo voluto molto bene.

Quando Francesco giocava, a tennis, a calcetto o a cal-

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cio, Carlo era sempre lì, a partecipare ed a fare il tifo. Carlo aveva un fisico imponente e qualsiasi interlocutore ci pensava due volte prima di attaccar briga con lui. Se qualcuno in campo faceva un fallo su Francesco interveniva protestando dalla tribuna ed i tifosi della squadra avversaria quasi mai trovavano il coraggio di contraddirlo. Tranne un giorno, all’Artiglio, quando un giocatore ospite fece uno sgambetto a Francesco e Carlo subito lo fulminò: “Aho, vedi de lasciallo perde perché quello è mi fijo”! Il destinatario incassò senza replicare. Passarono pochi minuti e ci fu un brutto fallo su Mario Savini e Carlo rinnovò il suo perentorio invito: “Lascialo perde quello che è mi fijo”! Ci fu una replica immediata: “ Ma che te sei scopata tutta Roma”?

Indimenticabile resta una partita, al campo Artiglio, contro i rivali del Canottieri Roma, che avevano una squadra molto più smaliziata della nostra. Il Parioli, con un gol di Cucchiarino riuscì ad imporsi. Fu festa grande con alcuni strascichi polemici perché, nell’euforia, molte telefonate di sfottò furono indirizzate dai tifosi pariolini, in particolare donne, al circolo rivale.

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Il tennis Come abbiamo fatto per il Vecchio Parioli, non staremo qui a ricordare le grandi imprese tennistiche dei giocatori del Nuovo, che pure ci sono state e ci sono ancora. Ci preme invece sottolineare la particolare psicologia del giocatore medio, di tutti i giorni, perché chi più chi meno, ha l’irresistibile tendenza a sopravvalutarsi. L’abilità con la racchetta provoca un’inevitabile selezione naturale e, pertanto, ci si divide in categorie abbastanza precise, clan dove ognuno gioca quasi sempre con le stesse persone, cercando di prevalere in partite di singolo o doppio che ritiene equilibrate. Ma resta in ciascuno il desiderio di giocare nel clan superiore alla propria classifica.

Un momento particolare è il “mercato” dell’ora di pranzo, quando molti arrivano al Club senza una partita già combinata. Qui si assiste quotidianamente al tentativo, quasi sempre vano, dei giocatori più deboli di essere ingaggiati da quelli più validi e, al tempo stesso, al tentativo di questi ultimi di respingere, qualche volta con perdite, i loro assalti. La presunzione di cui sopra ha un ruolo decisivo negli accordi che vengono raggiunti e nei rifiuti.

Sui doppi si scommette. Dentro e fuori dal campo. Partite classiche e celebri sono state quelle fra Robertino Valerio in coppia con Francesco D’Alessio (detto Alipietto dal nome di un cavallo, Alipio, della sua scuderia), contro i

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nani “classici”, Operti-Tommasi; o fra i due Nani e il duo Piperno-Castelnuovo. Quest’ultimo, detto Tapiro, è stato un ottimo acquisto del Circolo non solo sotto il profilo tennistico ma anche come persona. Simpatico, affabile, disponibile (giocava tutti i giorni e, se non trovava di meglio, anche con giocatori assai più scarsi di lui) aveva una somiglianza straordinaria con l’attore americano Walter Matthau ed era lui stesso un buon attore, sia in campo sia negli spogliatoi, dove partecipava attivamente agli scherzi più divertenti. Non c’è più, ma la sua eredità è stata raccolta alla grande dal figlio Federico, detto Peluche, uno dei giovani più simpatici e svegli del Club, ottimo tennista ma soprattutto impareggiabile imitatore di alcuni consoci: da Antonello Valentini a Zibi Boniek, da Alberto Casucci a Enrico Marchiori. Le sue performance negli spogliatoi o in palestra sono indimenticabili.

Le partite più attese, soprattutto per gli spettatori, sono i “doppi misti” che, come già detto, nella versione pariolina sono formati da un giocatore forte e uno più debole, contro una coppia assortita nello stesso modo. Fra i protagonisti i Nani, Scarfiotti, Joe “Strapippa” Damiani, Angelino Meloni, Renzo Carbotti, il generale D’Ambrosio e tantissimi altri.

Principe degli scommettitori è stato per anni Franco Olivieri. Il suo bersaglio preferito era il sire di Macerata, Scarfiotti, contro il quale imbastiva ogni sorta di scommessa dai bordi del campo. Era stato un ottimo tennista arrivando

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alla prima categoria ma, dopo un brutto incidente in montagna a Cortina, giocava raramente a tennis. Si divertiva di più a scommettere contro Emanuele. Il suo motto preferito era: “Inizia bene la giornata, se vai in culo a Macerata”.

Purtroppo non c’è più e la sua simpatia ci manca moltissimo.

Dei Nani e del Sire abbiamo detto. Gli altri meritano qualche approfondimento. Joe Strapippa, che dopo aver infestato i campi di terra rossa adesso si estrinseca anche su quelli da golf, contestatore nato, è capace di provocare una discussione su ogni punto e viene accusato di vedere sulla riga solo le palle da lui scagliate nel campo altrui. Quelle degli avversari sono sempre out. Scommettitore accanito, come tutti non ama perdere. Lo ritroveremo sul mare, all’isola d’Elba, quando parleremo dei soci “naviganti”, ma va aggiunto che Joe è un problema serio anche sulla terraferma.

Lo sconsigliamo vivamente come compagno in una gita in cerca a funghi: è devastante. Non sta mai al suo posto, non rispetta la zona assegnatagli, accorre di corsa se qualcuno annuncia, improvvidamente di aver visto un porcino (Bolelus edulis) o un ovolo (Ammanita caeserea). Perché il suo divertimento non è trovarli i funghi ma “fregarli” agli altri.

Proprio una storia di funghi è collegata all’ incredibile faccia tosta di Joe Strapippa. Per un certo periodo, fino a quando i guardiani non sono stati avvertiti e non hanno

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più consentito ingressi indebiti, un selezionato gruppo di pariolini nella stagione opportuna aveva accesso alla tenuta di Capalbio appartenente ai principi Corsini di Firenze. La strada l’aveva aperta il Sire Scarfiotti che conosceva la principessa. Joe si era impadronito della preziosa informazione e organizzava spedizioni all’insaputa dei principi fiorentini e dello stesso Sire. Un gruppo di sventurati da lui guidato, composto dal nano Tommasi, da Fabrizio Berliri e dal figlio Indiro, si recò nella tenuta Corsini in una giornata di caldo autunno e venne sorpreso dai guardiani armati di fucile.

Erano nei pasticci, Berliri e Tommasi temevano il peggio e si vedeva. Ma la classe non è acqua e Joe se la cavò alla grande. Spiegò ai due guardiani che si trattava solo di un equivoco che sarebbe stato subito chiarito. Sapeva il nome del loro capo, chiese ed ottenne un telefonino per chiamarlo (anche in situazioni di emergenza Joe cerca di spendere meno possibile) e chiarì dicendo di essere Scarfiotti-Damiani, che si era dimenticato di avvertire la principessa Corsini del proprio arrivo. Il capo dei guardiani abboccò e la comitiva pariolina, con tanto di funghi, rientrò felicemente a Roma.

Non pago di averla fatta franca, da quel giorno, sempre spacciandosi per Scarfiotti, iniziò un fitto colloquio telefonico col capo guardiano che veniva regolarmente preavvertito delle sue visite micologiche. Tutto funzionò a meraviglia fino a quando il vero Scarfiotti telefonò a sua volta al capo guardiano per recarsi a funghi. Fu liquidato

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bruscamente dal famiglio che, prima di attaccargli il telefono in faccia, gli disse: “Che Scarfiotti e Scarfiotti. Io lo conosco bene Scarfiotti, e non è lei. Non mi faccia perdere tempo”. Il Sire fu costretto a spiegarsi con la principessa Corsini raccontando di Joe. La nobildonna ne sorrise e incautamente espresse addirittura il desiderio di conoscere l’autore della beffa. Fu, per sua fortuna, sconsigliata dai propri oculati amministratori.

Altro personaggio di spicco Angelino Meloni, che non è più socio, ma ha lasciato una serie di ricordi assai divertenti. Veniva chiamato l’Orsetto. Non era un uomo di grande cultura, ma era buono, sportivo e generoso. Dotato di una assai improbabile chioma fulva, giudicata da Sergio Scozzese “color visone metallizzato”, da un giorno all’altro abbandonò il colore posticcio dei propri capelli e si presentò completamente bianco, come natura prescriveva, suscitando generale ilarità.

Celebre un suo duetto al bar del Club con Freccia (Saetta), un dipendente di nome Emidio, la cui lentezza era proverbiale. Freccia sostituiva temporaneamente il barista titolare (Ciang) e l’Orsetto gli ordinò uno “Skipass”, storpiando maldestramente il nome di un cocktail analcolico allora molto in voga (Skiwasser: limone, lampone e soda).

Il barista improvvisato non si scompose, passò in rassegna le bottiglie allineate sugli scaffali di fronte al bancone e rispose: “Mi dispiace, ma lo Skipass mi sa che è finito”.

L’assidua partecipazione alla vita del Club e la simpatia

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fruttarono a Meloni un posto nel Consiglio direttivo. Ne era assai fiero ed esercitava il mandato con molto impegno.

Fece affiggere nella bacheca sociale il suo primo editto firmato, come al solito, “Il Consigliere addetto”. Nel proclama, per indicare che due concorrenti erano sullo stesso piano, c’era scritto testualmente “ex equo” e tutti noi pensammo ad una caduta da cavallo. Due burloni (chi scrive e il Nano Operti), lasciarono il quadrupede al proprio indebito posto, ma modificarono la firma aggiungendo una H e togliendo una D. La scritta divenne pertanto: “Il Consigliere Ha Detto”. Il caso volle che appena terminata quest’indispensabile precisazione, proprio Meloni si presentasse al Bar, per verificare l’efficacia del suo proclama. Ne nacque il seguente dibattito: “Chi ha cambiato il cartello”?

“Noi. Va scritto così, diventa più esplicito”.

“Ma che cosa avrei detto”?

“Quello che c’è scritto sopra”.

Chiudiamo questo capitolo con le prestazioni tennistiche di Renzo Carbotti e del generale D’Ambrosio. Renzo giocava in doppio quasi tutti i giorni, sia con giocatori del proprio livello, con i quali ingaggiava duelli molto serrati, sia con giocatori più forti. In quest’ultimo caso prendeva possesso della rete e “cambiava” di continuo da una parte all’altra per intercettare la palla degli avversari. Ovviamente doveva essere coperto dal compagno, anche lui obbligato a spostarsi velocemente. Un giorno, dopo una serie di cambi

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senza mai colpire la palla, Operti suo compagno di gioco lo rimproverò dicendo: “ A Renzo, se continui così te arrestano pe’ vagabondaggio”.

Carbotti è autore di alcune celebri massime tennistiche, fra le quali una assai vera che dice: “A bellezza di solito segue cazzata, ma non è detto che a cazzata segua bellezza”. In età più matura ha lasciato il tennis per il bridge, ma non ha perduto l’abitudine di coniare frasi piene di significato. Ad esempio, trovandosi di fronte ad una ragazza, particolarmente procace e dalle forme generose, ha dichiarato: “Io so che certe cose le devo guardare, ma non mi ricordo più perché”.

Del generale D’Ambrosio, protagonista anche in sala carte, va menzionata la famosa “Figata”, una voleè con finta da lui brevettata. Si precipitava a rete e cercava di spedire la palla a destra con la testa rivolta a sinistra o viceversa, per ingannare la coppia avversaria. Spesso faceva il punto ma quando gli capitava di mancare la palla era uno spasso. Il simpaticissimo generale ha sempre accettato con un sorriso ogni scherzo.

Uomo di profonda cultura, ha avuto altissimi incarichi nella gerarchia militare, fra i quali quello di responsabile dei Servizi Segreti. In quel periodo ci teneva a far notare che non c’era notizia importante che lui non avesse già ricevuto in anteprima. Al Club di qualunque cosa si parlasse lui invariabilmente affermava: “Lo so. C’era questa mattina in un rapporto sulla mia scrivania”. Questa risposta finì per

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dare fastidio a noi sfaccendati del Parioli e un pomeriggio in sauna gli comunicammo la notizia della liberazione di Aldo Moro. Anche quella, ci assicurò, c’era stata, fin dal mattino, sulla sua scrivania...

L’abbigliamento del Generale è sempre stato impeccabile, non solo quando si presentava con fiammanti divise d’ordinanza. Elegante con qualche tocco di ricercatezza anche in borghese e sul campo da tennis. Molto curato nella persona, il “Generalippo” (questo il soprannome) non ha mai disdegnato il ricorso a cosmetici e profumi. Un giorno che giocava in doppio al campo tre ed aveva abbondato nella profumazione, uno dei gatti randagi che frequentano il Club varcò il cancelletto aperto e si diresse miagolando verso di lui. Dal vostro Autore partì questa domanda ad alta voce: “Generale, che ti sei messo oggi? Essence de Poisson”? Accettò la presa in giro, come sempre, da gran signore.

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Un vero protagonista Siamo tutti persone, ma non tutti sono personaggi. Questi ultimi, scusate il facile gioco di parole, sono solo quelli che hanno una spiccata personalità. Capaci d’essere protagonisti in ogni situazione, di farsi notare per una serie di doti innate. Anche - come per il personaggio di cui intendiamo parlare - per la loro verace genuinità. Ebbene il personaggio più genuino, verace e caratteristico del Parioli è, senza ombra di dubbio, Giancarlino Fumasoni detto il Papero o, per gli amici più cari, Paperella. Fra le tante qualità che indubbiamente possiede, ha quella di un’inossidabile memoria.

Il soprannome “Papero” deriva dal suo modo di giocare a calcetto. Si schierava all’attacco, nei pressi del portiere avversario, voglioso di fare gol. Quando un compagno avanzava, iniziava un tormentone a voce sempre più alta per chiedere che gli fosse passata la palla, starnazzando un continuo “Qua, qua, qua”, per indicare dove doveva essergli recapitata. Si tratta dunque di un soprannome onomatopeico.

Nella compilazione di questo libro la consulenza del Papero è stata preziosissima: è uno dei pochi a ricordare ancora tutte le parole delle canzoni del Vecchio Parioli ed è, quel che più conta, un Frate vero, doc, a 22 carati. Gli ho fatto presente che un libro come quello che stavo tentando

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di scrivere sullo spirito Parioli, non sarebbe mai stato completo senza un capitolo dedicato ad un gran protagonista come lui. Sono sicuro che leggerà queste pagine col sorriso sulle labbra, anche quando descriverò i suoi numerosi eccessi di genuinità romanesca.

Lo abbiamo già ricordato quando, con Mirella Sotis Prandi, fece crollare con poderose pernacchie il recital di poesia del Barone e della Pedagoga, ma la sua biografia contiene una serie d’episodi leggendari che si sono via via arricchiti nel tempo, anche con particolari e dettagli non corrispondenti del tutto alla realtà. Giancarlo e Ugo Fumasoni, figli di Toto e Irma, arrivano al Parioli in giovanissima età e sono subito adottati come “Fratini”. Sono entrambi “di peso” in tutti i sensi di questo termine, ma poi si differenzieranno nettamente: Ugo conserverà la sua placida robustezza, Giancarlino, facendo molto sport e inventando una dieta a base di “cicoria, caffé e fernet” (così lo sfottevamo nella sala ristorante al momento di ordinare) diventerà asciutto e magro. Ugo lascerà il Parioli, diventando socio per qualche decennio al Canottieri Roma per poi ritirarsi nella villa di Frascati. Il Papero è diventato invece uno dei testimonial storici del nostro amato Sodalizio e ci rimarrà per sempre. Per lui è prevista - ovviamente ci auguriamo il più tardi possibile - la costruzione di un “Paperoleo”...

I detti celebri attribuiti al Papero sono tantissimi e le circostanze durante le quali sono stati pronunciate variano a

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Er Piscio dell’angeli

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seconda delle fonti. Hanno, come ricordato, un denominatore comune: la spontanea genuinità del personaggio.

Due riguardano il vino.

Morigerato come tutti quelli che tengono alla propria linea, Giancarlo di vino ne capisce ed ha il merito di essere uno dei proprietari di Villa Fumasoni a Frascati e, soprattutto, dell’annessa vigna. Una Villa dove spesso gli amici del Parioli sono stati ospitati con signorile generosità. Il clou di questi simposi è il vino ed è legittimo e normale che gli ospiti ne lodino l’ottima qualità. Capitò così che una distinta gentildonna, che aveva giustamente apprezzato uno squisito frizzantino, magnificandone le doti, si sentisse rispondere: “E te credo: questo è piscio dell’Angeli”!

Sempre sul vino un detto celebre usato dal nostro è “Chi tocca er bambino diventa compare”. Vuol dire che chi partecipa anche con un solo bicchiere ad una forte bevuta collettiva, deve poi dividere il conto con tutti gli altri.

Leggenda vuole che, in un ristorante assai elegante, Giancarlino incrociasse una tavolata di pariolini, accompagnati dalle rispettive e ingioiellate signore. Accolto con la consueta cordialità e invitato a bere un bicchiere fra amici, avrebbe usato la sua nota battuta, facendola precedere da una precisazione esageratamente esplicita: “No grazie, a me non m’ inculi: chi tocca er bambino diventa compare”!

Giancarlino è single per scelta: non ha mai trovato finora l’anima gemella. Spesso però è andato vicino al fatale passo del matrimonio, riuscendo (beato lui) a salvarsi in tempo.

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Noi suoi amici ci accorgevamo subito quando Cupido stava per colpirlo con la sua pericolosa freccia, perché Giancarlino aumentava di colpo la propria cura nell’abbigliamento. È sempre stato un segnale che qualcosa bolliva in pentola, perché di solito adotta un “casual” del tutto personale, magari un pochino appariscente, ma quando va in amore veste con ricercata eleganza. Il suo variegato guardaroba è stato una volta addirittura preso di mira dai ladri.

Degli amori del Papero non racconteremo nulla, perché ci siamo ripromessi di non seguire la strada facile del gossip oggi assai in voga. Ci permettiamo solo di ricordare una frase eccezionale che il nostro rivolse ad una donna che su di lui aveva posto gli occhi, con la quale stava ballando: “Sai che te dico? Sei piacente. E me tengo basso”! Anche il quel caso non si arrivò - chissà mai perché - al matrimonio...

Inguaribilmente romanista, come chi scrive, Giancarlino entra spesso in polemica con la minoranza laziale del circolo, in particolare con Lucio D’Orsola, nemico giurato dei colori giallorossi. Al riguardo ricordiamo una battuta memorabile. Eravamo in sala carte: la Roma aveva vinto nell’anno precedente (1983) lo scudetto e all’Olimpico, in serata, giocava in Coppa contro gli scozzesi del Dundee.

Con noi al tavolo sedeva Lucio. Di scatto si alza il Papero, si rivolge a Lucio e gli dice: “Aho! Noi adesso annamo all’Olimpico a vede la Coppa dei Campioni, tu invece che fai”?

C’è poi un racconto di viaggio. Un gruppo di pariolini si

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reca a Parigi e Giancarlino si trova in camera con Walfrido Picardi. Ecco come a suo tempo l’episodio fu raccontato proprio da Picardi: Giancarlino: “In frigo nun c’è più acqua”.

Walfrido: “Chiama il bar e fattela portare, chiedi un’ eau minerale” Giancarlino compone il numero e quando gli viene chiesto che cosa volesse risponde correttamente: “Eau minerale” Barista : “Gaseè ou pas gaseè, monsieur”?

Giancarlino passa il telefono al suo compagno di stanza : « A Walfrì, senti un po’ che vo’ sto stronzo”!

La genuinità del Papero viene alla luce non solo nelle chiacchiere da Circolo ma anche nelle discussioni su importanti argomenti d’attualità. Quando Tonino Staffa (Ghiretto), docente universitario, si presentò al Club con un luminare dell’economia italiana, si aprì al bar un interessante dibattito sulla crisi produttiva del nostro Paese, presenti il Papero, il generale D’Ambrosio, il Nano e Lucio D’Orsola. Tutti pendevano dalle labbra dell’esperto che stava spiegando, con dovizia di particolari, quanto fossero importanti le sinergie fra i diversi settori industriali per far decollare il PIL (Prodotto Interno Lordo). Al termine della dottissima spiegazione, nessuno dei presenti osò replicare, tranne Giancarlino con una frase che mise in chiara difficoltà il famoso economista: “Si vabbè, le sinergie saranno importanti, però ce vole pure un po’ de bucio de culo”. Pare

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che da quel giorno il grande professore stia rivisitando le fondamenta del proprio sapere...

Si potrebbe continuare a lungo, ma questi episodi già bastano per delineare un personaggio di così simpatico spessore ed al quale tutti noi Frati del Parioli, soci e non, vogliamo molto bene. Quando fuori del Circolo incontriamo un Frate passato ad altro Club, è di rito la sua domanda: “E Giancarlino che fa”? Noi lo sappiamo.

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Il personale del Club In ogni Circolo sportivo il personale riveste un ruolo determinante. Negli spogliatoi, sui campi, nella sala carte, al bar e al ristorante del Parioli si sono avvicendati, negli ultimi decenni impiegati di segreteria, addetti agli spogliatoi, baristi e camerieri. In genere tutti hanno fatto onestamente e simpaticamente il proprio lavoro, ma alcuni restano indimenticabili. Li ricordiamo secondo il “taglio” che abbiamo voluto dare al nostro racconto.

Fra gli addetti ai campi iniziò il suo lavoro al Vecchio Parioli uno dei personaggi più benvoluti: Gigetto.Si chiamava Luigi Fabrizi e, lasciata la manutenzione dei campi, prese possesso dello spogliatoio maschile. Ne era l’incontrastato e silenzioso padrone. Era correttissimo con tutti i soci, ma aveva una dote rara: lui i frequentatori dello spogliatoio li “pesava” secondo il canone classico: socetti, soci, Frati e pizzettari. E si comportava di conseguenza, senza però mai infrangere le regole. Per i Frati aveva ovviamente una speciale predilezione. Parlava assai poco, ma aveva uno sguardo eloquente che diceva moltissimo. Come quando Carlo D’Alessio, che dopo un doppio perduto aveva infranto la racchetta di legno sulla recinzione del campo, si presentò e gli disse porgendogliela: “Vedi un po’ Gigè se poi fa qualcosa”. Gigetto aveva una soluzione per tutto ma non per una racchetta in pezzi e il suo sguardo fece capire a Carlo l’assurdità

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Nello, Franchino e il grande Gigetto

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della sua richiesta.

Amava il calcio: la domenica ascoltava alla radio negli spogliatoi “Tutto il calcio minuto per minuto” e sorrideva cogli occhi, da vero romanista, quando una vittoria della Roma coincideva con una sconfitta della Lazio. La morte di Gigetto fu un dolore collettivo: a salutarlo, nella Chiesa di Ponte Milvio, c’eravamo tutti.

Ad aiutare Gigetto c’erano altri addetti allo spogliatoio: Augusto, Nello Belli e Vincenzo detto Pisello. Nello, piuttosto rotondo, amava le donne e soprattutto il vino: teneva sempre una bottiglia nel suo armadietto e, di tanto in tanto, attingeva. Pisello era invece la vittima preferita dei Nani e di Riganti, ai quali era affezionato e fedele come un cocker, nonostante lo bersagliassero di continuo con beffe e scherzi anche pesanti. Come quando lo convinsero ad una scorribanda notturna fra le vie del sesso della Capitale per lasciarlo poi legato ad un albero in mezzo ad un gruppo di petulanti travestiti.

Pisello accettava gli scherzi ma una volta commise l’imprudenza di invitare i suoi persecutori a cena, nella sua casetta di periferia circondata da un piccolo giardino.

All’arrivo i Nani notarono subito un modernissimo cancello elettrico, perfettamente funzionante e perfettamente inutile: non c’era alcun tipo di recinzione, il cancello sorgeva nel deserto. Non mancarono di irridere anche per questo il buon Pisello.

Il cognato di Vincenzo si era raccomandato di non fare

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molto rumore perché la moglie stava riposando ed era cardiopatica: Riganti si presentò aprendo la serata e sparando un rauto terrificante. A completare la devastazione, qualche minuto dopo, il lancio di una bottiglia da un litro e mezzo piena di Coca Cola da parte del Nano Tommasi al conte Darwin Vannutelli. Questi, con la ben nota felina agilità, si protende in tuffo e liscia il pesante oggetto che s’infrange su una vetrinetta addossata al muro, ricolma di fragili ninnoli. Ebbene, nonostante queste che non esitiamo a definire “autentiche puttanate”, Pisello è rimasto sempre disponibile e fedele.

Per la sala carte va sicuramente citato il piccolo Franchino, che l’ha gestita con competenza per diversi anni.

Aveva, per così dire, una doppia vita. Di giorno irreprensibile impiegato modello, di notte frequentatore scatenato di ristoranti alla moda e night club, insieme con un ristrettissimo numero di soci (Nani in testa).

Un capitolo tutto suo meriterebbe Umberto Bartoni. Toscano, esponente di una delle famiglie più illustri del nostro tennis, per decenni maestro e poi sovrintendente all’assegnazione dei campi del Club. Era un maestro bravissimo, ed aveva tentato anche imprese disperate come insegnare il tennis, senza alcun successo, all’Autore di questo libro. Ha avuto il merito di aver fatto espatriare da Ischia il simpaticissimo Antonio Mennella (“Totonno purchiacca”) che da allora è diventato uno dei personaggi del Parioli.

Nell’assegnazione dei campi Umberto non ammetteva di-

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scussioni: se per lui ti toccava la terza fila lì dovevi andare.

Sedeva sempre sulla stessa sedia fra i campi due e tre. Per una strana coincidenza un doppio di Frati e magari con i Nani, era sempre collocato in prima fila, dove il pubblico poteva assistere e scommettere comodamente. Questo provocava travasi di bile ai pizzettari.

Umberto fu festeggiatissimo quando compì 90 anni, con un pranzo in suo onore e molti regali da parte dei soci del Club. Nonostante la tarda età ragionava benissimo e fu visto compiere espliciti gesti scaramantici quando il Sire, colto da enfasi oratoria straripante e pervaso dal desiderio di esprimere il proprio grande affetto, alluse ad una sedia che un giorno “sarebbe stata vuota” aggiungendo un fatale “ci mancherai moltissimo”...Quando toccò a lui rispondere a tanta commossa eloquenza, non ignorò l’argomento limitandosi a dire: “Spero di campare abbastanza da godermi i tanti regali che mi avete fatto”.

Il Bar del Circolo per diversi anni è stato gestito da Ciang, al secolo Giovanni Colagrossi. Quel soprannome cinese gli fu affibbiato per l’aspetto e per il suo astuto modo di fare. Oggi è in pensione ed il suo posto è stato preso dal fratello Mario, che di cinese non ha nulla. Ciang è autore di una celebre massima di vita pariolina, da lui coniata per quei socetti e pizzettari che avevano (ed hanno) il vizio di spulciare il conto del bar contestando, magari a distanza di settimane se non di mesi, una consumazione loro addebitata. Erano discussioni interminabili fra chi negava di aver

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preso un tramezzino e una Coca Cola un certo giorno, e Ciang che l’aveva invece registrata, senza che il consumatore avesse posto sul buono la propria firma. Una volta, con un avventore particolarmente tenace e insistente, Ciang sbottò e passando dal lei al tu gli disse: “Senti a coso: qui o paghi subito, o firmi il conto o te fidi. In ogni caso non devi rompe er cazzo”.

La cinesità di Ciang suggerì un’impresa memorabile, ordita da Emanuele Scarfiotti e altri Frati. La domenica si andava alla partita e all’Olimpico si doveva parcheggiare, come sempre, lontano dall’ingresso. Solo a pochi privilegiati, a bordo di lussuose berline con tanto d’autista, era consentito di varcare i cancelli e arrivare in auto fino allo scalone che porta alla tribuna d’onore. Scarfiotti aveva una lussuosa Mercedes nera e Ciang fu investito del compito di impersonare l’ambasciatore cinese. La formazione era: Sire al volante con accanto il Nano Operti, Ciang al centro del divano posteriore con occhiali neri e impermeabile chiaro col bavero rialzato. Ai suoi lati Giancarlino Fumasoni e Bambokan, come guardie del corpo. Al posto di blocco due poliziotti furono informati che l’ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese era stato invitato ad assistere alla partita della Roma. Abboccarono, inforcarono le rispettive e lampeggianti moto, scortando la Mercedes fino alla tribuna d’onore...

Il buon rapporto fra i Frati e il personale del Club è rimasto fino ai giorni nostri. Chi si occupa di noi e assiste

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alle nostre performance sui campi e negli spogliatoi, merita tutta la nostra simpatia. Periodicamente, nei locali degli addetti alla manutenzione dei campi, i Frati organizzano formidabili e riservatissime grigliate: un’occasione di stare insieme che si è mantenuta anche dopo le divisioni “fratesche” verificatesi negli ultimi anni.

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Mare Monstrum Molti pariolini amano il mare. Sulle spiagge e, soprattutto, a bordo d’imbarcazioni più o meno performanti si trastullano nel periodo estivo, trasportando fra le onde il proprio modo di comportarsi sulla terraferma, scanzonato e poco pratico. Il mare, come tutti sanno, è invece una cosa seria. Questo ha originato una serie di avventure e, soprattutto, di disavventure difficili da dimenticare e che, per chi le ascolta, risultano assai divertenti. Mentre lo sono state assai meno per i protagonisti. L’Argentario, il Circeo e le coste dell’Adriatico, sono le località preferite. Ci si dà appuntamento, ci si incontra: il linguaggio e lo spirito pariolino prendono subito il sopravvento.

Per diversi anni l’Argentario è stato il regno di Renzo Carbotti, che ha generosamente ospitato frotte di consoci nella sua splendida casa di Porto Ercole, con vista su Cala Galera, e che, soprattutto, li ha deliziati con la sua indiscussa abilità di pescatore. Aragoste e ostriche erano le sue prede preferite. Abilissimo nelle immersioni, Renzo era atteso dai consoci in barca e tornava su quasi sempre con un carico prezioso. Accadde una volta che affidasse l’incarico di tener vive le aragoste che andava pescando a Cicci Olivieri, che doveva metterle dentro un retino da tenere in acqua sotto bordo, legato con una cima alla barca.

Era una giornata miracolosa e Renzo faceva quasi l’ascen-

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sore: si tuffava, arrivava sul fondo, prelevava saldamente un’aragosta, risaliva in superficie e la porgeva a Cicci che, diligentemente, la poneva nel retino. Tutti noi, a bordo, prevedevamo una colossale abboffata del delizioso crostaceo, dissertando sui diversi modi per cucinarlo al meglio.

Dopo aver pescato un gran numero d’aragoste che avrebbe sicuramente soddisfatto l’appetito della compagnia, Renzo finalmente tornò in barca fra gli applausi. Afferrò la cima e tirò su il retino per ammirare le prede: era vuoto. Cicci si era dimenticato di legare la cordicella che doveva tenerne chiuso il fondo e le ambite aragoste, una dopo l’altra, avevano serenamente riconquistato la libertà.

Ai Nani piace pescare, sport nel quale, chissà perché, si considerano dei veri esperti. Un grave incidente di pesca si verificò sulla barca di Riganti, un Sarima, dove i Nani erano ospitati e, come al solito, dettavano legge. Misero a mare una lenza e imposero l’andatura per la traina. Qualcosa abboccò e fra le grida di giubilo dell’equipaggio un tozzo pesciotto di brutto aspetto fu abilmente trascinato fin sotto bordo. Qui scattò la perizia di Tommasi che avvertì: “Attenti che questa è una tracina”. In effetti proprio una tracina aveva abboccato all’esca artificiale ed era rimasta infilzata all’ancorotto. Tommasi assunse il comando delle operazioni con un perentorio : “Ci penso io”. E fu il disastro.

Issato a bordo appeso alla lenza, il brutto pesce si divincolava freneticamente, come sono usi fare gli animali della sua specie quando vengono catturati. Il prode Nano prese

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In gommone con Joe Strapippa

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due pinne di gomma e si accinse a catturare la tracina proteggendosi le mani. Risultato: la tracina lo colpì con il proprio aculeo velenoso su un braccio e l’ancorotto dove aveva abboccato trapassò da parte a parte una falange del suo dito.

Punto e arpionato, l’assai dolorante Nano Tommasi fu pietosamente soccorso dal resto dell’equipaggio, trasportato alla massima velocità al Circeo dove un meccanico con un colpo di pinza lo liberò dell’ancorotto e il medico del locale pronto soccorso cercò di alleviare gli effetti della puntura dell’odioso pesce.

Il primo naufragio della storia recente del Parioli ha avuto come protagonista Nello Vaglio, proprietario di una scuderia di mezzi di trasporto della quale facevano parte, all’epoca, una Ferrari bianca e una barca rossa. Il natante era stato appena revisionato dai cantieri di Viareggio ed il nostro aveva invitato, per una crociera in Sardegna, due architetti, Sergio Scozzese e Leonardo Scrocchia, con rispettive signore. Una mattina, poco al largo delle coste toscane, la barca prese fuoco.

Sull’evento due versioni. La prima dice che l’incendio fu originato da una fuga di gas mentre le signore preparavano il caffè. La seconda fa riferimento invece ad una delle caratteristiche dell’architetto Scozzese, un Frate divertente, ex campione d’Italia di pallanuoto, buon tennista e giocatore di carte. Sergio era, come tutti con affetto lo ricordiamo, molto “fumantino”. Per prenderlo in giro noi dicevamo che quando s’innervosiva “sfiammava”, emettendo fuoco dal

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naso. Ovviamente si trattava della classica battuta da Circolo, ma quella volta ci fu chi attribuì il naufragio della barca rossa ad una sua incazzatura. Nessuno dei passeggeri nella circostanza si fece male, il natante affondò, ma poi fu recuperato.

Ogni avventura marinara ha il suo eroe. Dodi Battaglia al rientro da Ponza si beccò il soprannome di Magellano.

Eravamo in estate e due barche parioline sui trovavano in rada una accanto all’altra, poco al largo dell’isola. Una al comando del marchese Massimo Malaspina, una pilotata da Battaglia. Atmosfera assai gaia, anche e soprattutto per la presenza di dolci esponenti del gentil sesso. Aperitivo della staffa e poi partenza per il ritorno al Circeo, dove i due equipaggi si erano dati appuntamento al ristorante.

C’era da percorrere un tratto di mare di 20 miglia con una leggera foschia. Parte la barca di Malaspina per prima, la segue dopo una decina di minuti quella di Battaglia.

La visibilità era diventata nel frattempo piuttosto scarsa ed era necessario servirsi della bussola. Malaspa arriva al Circeo nel tempo previsto e attende i passeggeri della seconda barca per andare a cena. Passano le ore ma di Battaglia e del suo equipaggio non c’è traccia. Era successo che, poco avvezzo alla navigazione con scarsa visibilità, Capitan Battaglia aveva inavvertitamente fatto rotta per Gaeta, dove sarebbe arrivato a tarda ora mettendosi in salvo e guadagnandosi l’appellativo di Magellano. Aveva mancato l’obiettivo solo di 49 chilometri!

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Negli ultimi anni le disavventure marine non sono mancate. Famose la manovre d’ormeggio di Ugo Biagianti spesso conclusesi con lo speronamento di altre barche, in diversi porti turistici italiani. In quasi tutti, ormai, è affissa in bella vista una sua grande foto con la scritta “Wanted”. Episodi rilevanti hanno avuto come protagonisti Joe Strapippa Damiani (un “avaro in avaria” al largo dell’Elba) e il duo Bruttifoul-Fagiano che hanno totalizzato, nell’ordine, un “assabbiaggio” nei pressi dell’isola di Cavallò(Corsica) e un naufragio vero e proprio al largo della Sardegna.

Le innumerevoli prodezze sui mari di alcuni consoci avevano fatto balenare - secondo le solite malelingue - la possibilità di iscrivere all’America’s Cup una barca del Parioli, da costruire nei cantieri di Macerata, che avrebbe assunto il prestigioso nome di “Pizzettaro Latino”. Si era parlato di un equipaggio composto da Scarfiotti Capitano, Joe Strapippa addetto ai rifornimenti, Bigianti alle manovre in porto, il “Fagiano” tattico e Bruttifoul allo scandaglio. Vera o no questa diceria, meglio tornare agli avvenimenti reali, partendo dalla clamorosa esibizione di Joe all’Isola d’Elba.

Si tratta di un’isola non solo assai famosa ma anche molto bella. Uno dei nei è una vasta proprietà terriera dove Joe si ostina a produrre un liquido rossastro che lui chiama impropriamente “vino”, usato a suo tempo come defoliante dagli americani in Viet Nam. Saputo che un gruppo di consoci era ospite dell’hotel Hermitage alla Biodola, sotto la supervisione del “roscio” Marco Mencaglia per una full im-

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mersion tennistica, Joe approda sulla spiaggia con il suo gommone e invita tutti ad un bagno al largo. Giornata splendida, mare calmo. Joe è noto per molte cose anche, come tutti i ricchi, per il suo sano attaccamento al denaro.

Quale migliore occasione che sbafargli una gita in barca, con il carburante a sue spese?

Tutti accettano con gioia tranne il diffidente avvocato Piperno. Arrivati al largo il gommone si blocca per lo spegnimento del motore e gli occupanti scoprono nell’ordine: 1) che nel serbatoio del motore principale non c’era più un goccio di benzina ; 2) che era vuoto anche il serbatoio del motore ausiliario: 3) che il gommone era sprovvisto di cime, remi, pistola lanciarazzi e altre dotazioni di emergenza; 4) che i telefonini in quel punto non prendevano.

Attirata con robuste grida una barca di passaggio, la difficile situazione è stata alla fine risolta, il serbatoio riempito e tutti hanno fatto felicemente ritorno a terra. La Capitaneria di porto di Piombino aveva tuttavia, nel frattempo, diramato un bollettino per avvertire i naviganti del “Pericolo Strapippa”.

C’è, infine, una coppia di marinai che ha fatto molto parlare di sé al Club, formata da Paolo De Propris (Il Fagiano) e Luigi Ferrari (Bruttifoul). I due avevano già ottenuto, come ricordato, una grande attenzione grazie ad un “assabbiaggio” in piena velocità sulla battigia dell’Isola di Cavallò, con la sirena del proprio natante a manetta per avvertire gli ignari bagnanti di mettersi in salvo. Dopo que-

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sta prova generale, il clou è stato rappresentato dall’affondamento di un’elegante e costosa barca di 15 metri presso le coste sarde, dove i nostri eroi scorrazzavano con avvenenti compagne di viaggio. Per motivi inspiegabili il 15 metri ha cominciato ad imbarcare acqua da una grossa falla costringendo i passeggeri ad abbandonarlo in tutta fretta.

Tanto che una delle signore partecipanti alla crociera ha fatto appena in tempo ad afferrare una borsa ed a portarla con sé. Da buon capitano, Bruttifoul al momento di abbandonare la nave per trasferirsi sul barchino di salvataggio, ordina “Prima le signore”. Il Fagiano se ne frega e si mette in salvo scavalcandole.

Qualche giorno dopo, mentre il natante giaceva ormai a 450 metri di profondità, parlando al telefono con la sua squillante voce al Circolo del Golf Parco di Roma, il Fagiano narrava i particolari della sua avventura con queste testuali parole: “E pensà che quella stronza che stava co’ me invece de prende la borsa coi soldi e gli orologi ha salvato quella colle creme da sole”.

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Alle Tremiti e ritorno: prologo nobile in Villa A completare la storia marinara dei soci del Club un evento che vede fra i protagonisti in negativo anche il vostro cronista. Un’avventura in Adriatico che ha un prologo spassoso, uno svolgimento in mare irto di pericoli per la scarsa abilità dei partecipanti (a cominciare da chi scrive) e una conclusione divertente con una celebre beffa al Nano Operti.

Estate. Il Sire di Macerata c’invita nei suoi possedimenti per prendere parte ad una gita in barca alle Tremiti. Da Roma partiamo in tre: io, il Nano e Cucchiarino. Quest’ultimo con due problemi: era fresco di separazione dalla sua prima moglie, e quindi d’umore piuttosto nero; si nutriva in quel periodo esclusivamente di cotolette alla milanese e Coca cola. Cesare Guerci Lena ci attendeva già da qualche giorno ospite di Scarfiotti. Arriviamo nel pomeriggio ed il Sire ci annuncia che la sera stessa era in programma una gran cena nella splendida villa dei Conti Sabatucci. Il Sire si era fatto parte diligente per ottenere che fossero invitati anche dei plebei come noi. Ci saremmo trovati direttamente in Villa attorno alle ventuno, visto che lo stesso Sire - incredibile a dirsi - aveva un impegno di lavoro.

Le indicazioni sulla strada da percorrere erano state precise e arrivammo in orario. C’era un gran cancello aperto

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con un custode gallonato che ci fece segno di proseguire lungo un bel viale alberato di cipressi. Alla fine un gran prato dove erano parcheggiate già diverse vetture. Sullo sfondo una magnifica costruzione rinascimentale. Un ragazzotto in jeans sbucò da un lato del pratone, si diresse verso di noi e ci aiutò efficacemente nella manovra di parcheggio. Affascinati dal luogo e intimiditi, decidemmo che non era il caso di farci guardare dietro. Stanziammo mille lire a testa e, con sussiego, le porgemmo al ragazzo. Si trattava, per nostra somma sfortuna, del contino Sabatucci, erede del titolo e della villa!

Questa formidabile gaffe, che raccontammo subito al Sire, ci mise di buon umore anche se i padroni di casa, gentilissimi e corretti, ci guardavano con misteriosa curiosità, quasi fossimo degli alieni. Il cibo e il vino fecero crescere l’allegria e la disponibilità a riconquistare la stima della nobile famiglia che si degnava di ospitarci. L’occasione arrivò presto. La contessina Sabatucci annunciò l’arrivo di un piatto prelibato che aveva preparato con le proprie delicate mani. Due camerieri poco dopo portarono in pompa magna altrettanti vassoi con delle fumanti lasagne.

Gli altri nobili ospiti, con misurata discrezione, fecero onore al cibo lodando l’abilità della contessina. Noi decidemmo che era venuto il momento di farci perdonare l’affronto del parcheggio. Cesare e il Nano si profusero in elogi sperticati delle lasagne della contessina e questa rivolse loro, per la prima volta, uno sguardo attento e benevolo. Ca-

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pimmo che la situazione stava per volgere a nostro favore.

Purtroppo mi salì alle labbra una domanda perversa, consueta quando eravamo fra di noi al Club, ma assai pericolosa in un ambiente raffinato come quello dove eravamo capitati grazie alla magnanimità del Sire.

Chiesi a Cesare: “Ma tu, che voto daresti a questa lasagne”? Cesare rispose prontamente: “Nove”, ottenendo un cenno di compiaciuto consenso della contessina. Sarebbe andato tutto bene se mi fossi fermato lì, ma la procedura pariolina imponeva un’ulteriore domanda: “Nove su quanto?”, chiesi sciaguratamente, e Cesare rispose subito “Trentasei”, arrotando bene la erre. Scoppiamo a ridere disorientando la contessina e suscitando l’ostilità palese dei suoi altolocati ospiti. Ci parve opportuno a quel punto allontanarci per andare a visitare le altre parti della villa e confonderci fra la folla.

I conti Sabatucci avevano fatto le cose in grande: il clou della serata sarebbe stato l’arrivo del cantante Franco Califano, all’epoca assai bello ma non ancora famoso com’è poi diventato. Le nobili dame, appresa la notizia, lo attendevano con trepidazione perché non lo avevano mai visto.

Noi non eravamo stati messi al corrente, forse per via del parcheggio e delle lasagne, della preziosa informazione. Con il bicchiere in mano, gironzolavamo per i saloni e le terrazze di Villa Sabatucci, incerti sul da farsi.

Fatalità volle che appoggiata ad un muro ci fosse una chitarra e che Cesare decidesse di impadronirsene per strim-

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pellare qualcosa. Ci sedemmo accanto a lui che iniziò con i suoi pezzi forti tipo “Daje de tacco, daje de punta, quant’è bona la sora Assunta”, o “Er ragazzino del Porta Metronia c’aveva er vizio delle sigherette” e via stornellando.

Alcune avvenenti dame furono richiamate dalla musica e dalle parole romanesche e si avvicinarono ritenendo che fosse arrivato Califano. Dopo un quarto d’ora c’era una piccola folla attorno a noi, con Cesare che ormai aveva preso il via ed eseguiva canzoni sempre più scollacciate. Le gentildonne, ad ogni allusione di carattere sessuale, ridevano garrule lanciando gridolini d’eccitazione. Eravamo di nuovo al centro dell’attenzione.

Lo fummo ancora di più quando, scortato da tutti i componenti della nobile famiglia ospite, arrivò un incazzatissimo Franco Califano “vero”, che aveva preso la performance di Cesare come un affronto, All’istante ritenemmo opportuno tornare velocemente al parcheggio per rifugiarci in casa Scarfiotti. Da allora non abbiamo più ricevuto inviti dalla nobiltà marchigiana...

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Quattro uomini in barca: una beffa al Nano Il giorno dopo partenza. C’imbarcammo tutti sul poderoso cabinato del Sire, tranne Cesare che doveva raggiungere in Toscana la sua “druda”, come chiamava la fidanzata del momento. Ben provvisti di cibo e vino, stivammo anche della Coca Cola per Cucchiarino ma per le cotolette alla milanese non ci fu nulla da fare. Con Scarfiotti quasi sempre al timone, arrivammo senza problemi rilevanti alle Tremiti e gettammo l’ancora nella rada dell’Isola di San Nicola.

Nella notte ci fu un po’ di mare e la nostra barca scarrocciò, finendo quasi contro un altro natante ancorato nei pressi. Ce n’accorgemmo in tempo, ma questo non ci salvò da un penoso dialogo fra il nostro Capitano e l’arrogante comandante della barca che avevamo rischiato d’investire.

Questi ci fece notare che eravamo stati ad un passo dalla collisione e noi, educatamente, assentimmo, scusandoci.

Ma non bastò. Perfidamente l’odioso nocchiero si rivolse al Sire per chiedergli con durezza: “ Ma lei che tipo di ancora ha gettato”? Ignorando, come tutti noi del resto, che ci sono tipi differenti, il Sire si limitò a balbettare: “Ma, un’ancora”, suscitando la nostra sguaiata ilarità ed il fiero disprezzo del comandante della barca nemica.

Il soggiorno alle Tremiti fu piacevole nonostante i pericoli notturni e la ricerca spasmodica quanto inutile di cotolette alla milanese da parte di Provenzani. I guai iniziarono al ri-

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torno. Il tratto di mare che separa le Tremiti dalla costa pugliese, è piuttosto breve: 12 miglia. Partimmo tranquilli verso ovest convinti che presto avremmo avvistato l’amata penisola. Dal vano motore sotto i nostri piedi filtrò un fumo sottile e il nostro Capitano fermò immediatamente la navigazione per verificare un ipotetico guasto. Fu sollevata la botola sotto la quale erano collocati i motori ma l’esame dall’alto compiuto dal Sire non rilevò nessun guasto apparente. Riaccesi i motori al minimo funzionavano bene e non c’era più fumo.

Fra i doveri dei Capitani in mare c’è quello di prevenire i pericoli per la propria nave. Capitan Scarfiotti decise di stare in guardia e di sorvegliare direttamente i motori, lasciando aperta la botola che li celava. Questo provocava un piccolo inconveniente: l’apertura della botola era proprio sotto il posto del timoniere e per governare il timone bisognava collocarsi all’esterno della cabina di pilotaggio e manovrare da un grande oblò.

Il delicato compito mi fu affidato con l’ordine: “Vai sempre per 180”. Forse per la posizione assolutamente scomoda o perché l’unico timone che fino ad allora avevo conosciuto era quello con il quale si disegnano le pagine dei giornali, fatto sta che io misi la barca allegramente sui 280 in attesa di scorgere, da un momento all’altro, la costa pugliese. In realtà stavamo facendo rotta per Venezia.

Passò quasi un’ora e, ricordandoci del tempo impiegato all’andata per la traversata verso le Tremiti, cominciammo

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a chiederci per quale motivo avessero spostato l’Italia senza avvertirci. Il Sire, responsabile delle nostre vite, mostrava i primi segni d’inquietudine, io continuavo a reggere il timone dall’esterno restando fisso sulla rotta sbagliata, il resto della ciurma ci provocava con battute irriverenti. Il sole stava per tramontare ed il nostro Capitano cominciò ad armeggiare con la radio di bordo: il mare era piatto come una tavola, i motori funzionavano alla grande, una richiesta di soccorso in quelle condizioni ci avrebbe coperti di ridicolo.

Ad un passo dall’SOS scorgemmo in lontananza delle luci.

Era accaduto che inavvertitamente avevo cambiato di nuovo rotta ed avevo imbroccato per puro culo quella giusta. Ovviamente non eravamo di fronte alla costa pugliese ma a quella abruzzese e alle nove di sera, visibilmente sollevati, entrammo da trionfatori nel porto di Ortona...

Il giorno successivo rotta per Numana ma - chissà perché - non mi fu chiesto di tornare al timone. Raggiunta felicemente villa Scarfiotti, organizzammo la nostra ultima serata in terra marchigiana prima del rientro nella Capitale.

Il Sire, nella sua munificenza, ci aveva presentato alcuni suoi altolocati amici fra i quali spiccava una giovane signora molto carina e, come scoprii subito, intelligente e spiritosa.

Il Nano Operti ne fu folgorato. Senza esitare si mise a fare il “piacione” che per lui vuol dire piegare il capino di lato, sbattere le ciglia e contrappuntare di sorrisetti maliziosi e allusioni a sfondo sessuale il dialogo con la possibile preda. La signora era compiaciuta, non si lasciava andare più di tanto

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ma qualche tenue segnale finì per lanciarlo. La sera l’intera compagnia si sarebbe ritrovata in un locale notturno lungo la costa.

Ero perplesso perché il “target” della bella signora sfuggiva alle nostre informazioni sulle inclinazioni sessuali del Nano, fino ad allora ritenuto da noi una sorta di “pedofilo”, visto come insidiava le giovanissime del Parioli. Celebre una sua battuta quando gli fu presentata una splendida 25enne. Il Nano si lasciò sfuggire un accorato: “Eh, se avessi dieci anni di meno”. Al che, gentilmente, la ragazza aveva replicato: “Guarda che gli anni che c’hai te li porti bene”.

Il Nano di rimando: “Io non stavo parlando dei miei anni ma dei tuoi”. La sortita marchigiana sulla bella signora trentenne ce lo faceva diventare diverso: non più pedofilo ma sessualmente “onnivoro”. Meritava un bello scherzo.

Quando mi trovai solo con la bella signora le proposi di attirare il soggetto in trappola, facendo credere che le sue esibizioni avessero fatto definitiva breccia. Al resto ci avrei pensato io. Si dichiarò d’accordo un attimo prima che il Nano la prelevasse per invitarla a ballare. Il locale aveva diversi ambienti, ed il nostro Casanova conduceva la danza leggero, passando da una sala all’altra per sottrarsi ai nostri sguardi, alla ricerca di una sempre maggiore intimità. Più si allontanava da noi, più si stringeva alla donzella. Finì nell’ultima sala del night dove non c’era nessuno, abbarbicato alla dama come una cozza, convinto di poter toccare il cielo (e anche qualcos’altro) con un dito. Con gli occhi socchiusi,

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sussurrando parole dolci iniziò quella che poteva essere una marcia trionfale. Interrotta bruscamente da un uomo grande come un armadio che, poggiandogli sulla spalla con forza una mano delle dimensioni di un badile, gli intimò: “Adesso con mia moglie ci ballo io”. Un caso classico di “Nanus interruptus”, che lo costrinse a balbettare pietosamente: “ Scusi, prego, prego”, ed a mollare la preda in stato confusionale.

Avevamo pescato il più robusto e minaccioso degli sfaccendati locali, pregandolo di interpretare per noi la parte del marito che sorprende la moglie fra le braccia di un altro.

Lo aveva fatto da grande attore. Il Nano ancora se lo ricorda.

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Le carte La sala carte è uno dei luoghi più importanti di un Circolo sportivo. Il Parioli, sotto questo profilo, ha pienamente rispettato e rispetta la tradizione, mettendo spesso in mostra ottimi giocatori nel nobilissimo sport del bridge. Attualmente vanta la squadra Campione del Mondo, della quale non ci occuperemo. Siamo nell’Empireo del bridge e questo non rientra nello spirito del nostro racconto. Non parleremo dei campioni veri ma dei giocatori di tutti i giorni che fanno la loro partita libera. Qui ci sono le migliori occasioni di divertimento.

Come nel tennis, anche nel bridge fra i dilettanti avviene una selezione naturale ed i giocatori si accordano a seconda del proprio livello nonché, elemento fondamentale, del “tasso” di gioco, vale a dire la posta in palio. Un’altra somiglianza rispetto al tennis è la presunzione: quasi tutti i bridgisti dilettanti si considerano più bravi di quello che in realtà sono, e impartiscono lezioni agli altri. Il bello, per chi gioca, ma soprattutto per chi guarda, è assistere alle discussioni frequenti ed ad alta voce, sull’errore del compagno nella dichiarazione, sull’uscita per il contro gioco, su un impasse sbagliato e via litigando. Pochissime mani di bridge si concludono senza commenti, poche senza una discussione o un litigio. A completare il quadro una figura ricorrente nel bridge dilettantistico: lo “Spiegatore”. Si tratta di un

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giocatore unto del Signore che non si limita a commentare le giocate, ma le spiega con dovizia di particolari e dotti consigli al proprio compagno ed ai suoi avversari. Un vero rompicoglioni.

Storicamente lo Spiegatore più celebre è stato il generale Longobardi, simpatico militare abruzzese in pensione, che non sopportava gli errori del compagno e s’infervorava progressivamente diventando sempre più rosso in volto. Sua la tiritera pronunciata in crescendo: “ Hai sbagliato tutto. Dovevi giocare fiori, fiori! Poi asso di quadri, piccola fiori e taglio, vai di morto e tutte le cuori buone”... Oggi la razza degli Spiegatori non si è affatto estinta ma la classe non è più quella di una volta.

Lasciamo stare il bridge ed i suoi “fissati” per ricordare gli altri giochi che nel tempo sono stati in voga, alcuni noti, altri nati addirittura al Parioli. Ci riferiamo al “C’è o non c’e”, al Sintetico ed al Prandale. Il “C’è o non c’è” era una scommessa sulla sequenza delle carte. Si mischiava il mazzo che veniva tagliato e poi si scoprivano le carte, una dopo l’altra. Chi aveva scommesso sul “C’è” vinceva se una carta era al proprio posto nella sequenza. Ad esempio un asso come prima carta, un cinque come quinta, un dieci come decima. Se nessuna carta era al suo posto vinceva il “Non c’è”. Era un gioco di pura fortuna.

Il “Sintetico” era una sorta di Teresina ma con due file di cinque carte coperte sul tavolo, da combinare con le due in possesso di ciascun giocatore. Si scopriva partendo dalla

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prima carta della fila sopra e dalla prima carta della fila sotto. Le puntate crescevano ad ogni carta, ma il rilancio era limitato. Scoperte le ultime due carte delle due file c’era l’ultima possibilità di puntare fra i giocatori rimasti. I due con il punto più alto dividevano il piatto, salvo che non ci fosse stato un giocatore, dotato di particolare fortuna, che con le proprie carte aveva ottenuto il punto maggiore su entrambe le file. In quel caso si faceva “Sottosopra Marchesano” e il giocatore ben dotato incamerava l’intero piatto. Marchesano dal cognome di un consocio al quale spesso era riuscita quest’impresa. Chiudiamo con i giochi “made in Parioli” e ormai non più praticati, con il Prandale, una Teresina faccia a faccia fra due soli giocatori che deve il suo nome Giorgio Prandi (“Socetto”).

Peppa (soprattutto nella versione a coppie) e Poker hanno imperversato per anni. Oggi non sono più praticati. La Peppa singola si prestava ad una serie di scherzi. Il più frequente consisteva nell’accordo fra tre giocatori, con un semplice cenno o un’occhiata d’intesa, per “mettere in mezzo” il quarto partecipante. Una vittima frequente era il simpaticissimo Costante Frigo, dei cui occhiali acustici abbiamo già parlato. Costante iniziava a giocare pieno d’entusiasmo e deliziando tutti con le sue battute in veneto. Nel giro di poche mani si trovava ad aver ricevuto quasi sempre la Peppa e una buona parte delle carte di cuori. Avvedutosi della trappola, da vero gentleman dichiarava: “Cari Siori: se è così faccio fronte e me ne vado”, cioè pago, ma non gioco

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più. Ovviamente tutto finiva con una risata.

La Peppa a coppie era fonte di ancor maggiore divertimento. Praticata con assiduità dai Nani, dal Sire, dal notaio Mazza, da Alipietto e da Bambokan, cioè Mario Savini, che in questo caso assumeva il soprannome di “Sous” perché quando andava sotto ad una carta giocata dagli avversari pronunciava questa fatidica parola. Fra i praticanti di spicco Cicci Olivieri e Gianni Spanò. Cicci passava la gran parte del tempo a stropicciarsi il mento con le mani per cercare l’ispirazione giusta sulla carta da mettere in tavola e sgranava gli occhi quando (e gli capitava spesso) la sbagliava.

Gianni, uno dei soci più simpatici e divertenti nella storia del Circolo, aveva ottenuto il soprannome da come battezzava le carte: il Re per lui era un “Kappaccione” e “Kappaccione” veniva chiamato. La Peppa la chiamava la “Cagona”, ma questo soprannome, per mancanza d’informazioni attendibili, non fu affibbiato a nessuna consocia.

Gianni era un validissimo industriale tipografico, proprietario della Rotocolor, dove si stampava il settimanale L’Espresso. Per prenderlo in giro, alludendo a inesistenti tracolli finanziari, noi gli dicevamo che in realtà era proprietario della “Rotolocolor”. È un vero peccato che il poker non sia più giocato al Club. Perché fonte d’emozioni e di episodi assolutamente divertenti, a partire dal famoso “Entroe” del Barone. A poker giocavano con noi anche le donne e la loro partecipazione era un motivo d’attrazione in più, anche per il loro

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modo aggressivo di stare al tavolo. Come la deliziosa principessa Branciforte (detta “Brancipessa”) e la bella Nelly Calderai. Quest’ultima una volta, su un piatto molto consistente fece il massimo consentito del rilancio, vale a dire si chiamò “il resto”, mettendo sul tavolo tutte le fiches che aveva davanti. Tutti gli altri giocatori passarono, tranne Ugo Fumasoni. Nelly aveva bluffato e ci rimase male. Si rivolse ad Ugo contrariata, quasi accusandolo di aver mancato di cavalleria: “Perché sei venuto a vedere? Io sono una signora”. Ugo di rimando: “Al tavolo verde vedo solo uomini con i baffi”.

Domenico Corsi, conte di Modigliana, è stato fra i protagonisti della vita del Vecchio e del Nuovo Parioli. Memorabili le sue sfide tennistiche col Barone ma anche le sue performance al poker, dove era soprannominato “Mai ti lascio”, per l’abitudine di non abbandonare il piatto, anche dopo un forte rilancio. Aveva un umorismo tutto suo, assai divertente ma comprensibile esclusivamente da parte dei Frati del Parioli. Spesso prima del poker ci ritrovavamo a mangiare in qualche ristorante vicino al Club e lui faceva diventare matto il cameriere di turno con la seguente comanda: “Prima di tutto, pomodoro centrale e acqua di serpentina”.

Nicola Maurizi era un uomo discreto e un giocatore assai abile. Per lui il poker era qualcosa vicino al lavoro. Era bravo non solo nel giocare ma anche nel limitarsi per non risultare sgradito agli altri: se aveva brutte carte perdeva

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sempre poco. Se la fortuna gli sorrideva si conteneva: vinceva “medio”. Per lui l’importante era giocare sempre e non essere tagliato fuori dal tavolo, cosa che magari sarebbe potuta accadere se avesse vinto sempre e troppo. Il Nano ne centrò le aspirazioni con una battuta, quando alla domanda “Che cosa si fa alle isole Mauritius”? rispose senza esitare: “Si gioca a pokerius”.

Eppure una volta il buon Maurizi riuscì a stupire ed a far parlare di sé tutto il circolo. Si presentò al Club amorosamente accompagnato da un’eroina delle televisione. Si trattava di Maria Luisa Garoppo, assurta a fama nazionale nel corso della trasmissione “Lascia o raddoppia”, alla quale aveva partecipato con successo attirando l’attenzione unanime non solo per la propria abilità nel rispondere alle domande di Mike Buongiorno, ma per due attributi fuori ordinanza. Aveva due seni “over size” che, nell’Italia bacchettona di quei tempi, maliziosamente inquadrati dalle telecamere, erano diventati celebri. Le battute fuori luogo e le occhiate di Mike avevano fatto il resto.

La coppia formata dall’esile avvocato Maurizi e dalla prosperosa Maria Luisa finì al centro dei commenti e dei pettegolezzi. C’era chi sosteneva che la Garoppo arrivava sempre “Cinque minuti dopo le tette”, e chi faceva allusioni anche meno eleganti, sostenendo che l’attempato pokerista di notte andava “al Garoppo sfrenato”. Lei stava al gioco, parlava sempre e comunque, rideva forte ed era tutto sommato decisamente simpatica, anche se un po’ inva-

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dente. L’unica volta che è stata zitta, solo per qualche decina di secondi in verità, è stato quando ci siamo conosciuti.

Prima che avessi tempo di aprire bocca mi rivolse un sorriso smagliante e mi disse: “Salve, io sono Garoppo e tu?” Mi limitai a rispondere: “Io no”.

Il Gin Rummy è invece uno dei giochi ancora preferiti dalle signore del Club. Abbiamo avuto anche una squadra che ha partecipato a dei tornei, composta da simpatiche consocie e guidata dal mitico Paolo Frascella, in veste di Capitano non giocatore. Paolo è un uomo di grandi qualità umane e professionali ma è anche campione del mondo di distrazione e sbadataggine. Tanto preciso e attento quando svolge la professione di dentista (faccio questa turpe sviolinata perché mi cura lui ed ho una paura fottuta di sue rappresaglie) quanto svagato nelle attività di contorno come il gioco delle carte.

Ebbene, resta fra i momenti memorabili del Gin Rummy pariolino, l’incontro fuori casa nei locali della Tevere Remo.

Capitan Frascella si presenta puntuale ed elegante, ma una delle giocatrici del Parioli dà forfait all’ultimo minuto utile.

Si rischia di perdere un punto senza nemmeno giocare: le signore convincono Paolo a prendere il posto della giocatrice assente ed a scendere in campo, in coppia con Carmen Valentini, eventualità contemplata nel regolamento di gara.

La coppia loro avversaria è formata da una gentile signora e da un ultrasettantenne asciutto ed elegante, che si muove

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appoggiandosi ad un bastone e che ha tutta l’aria del militare in pensione. Infatti si tratta di un Colonnello dallo sguardo severo. Dopo le presentazioni, Capitan Frascella impugna il mazzo di carte e comincia a distribuirle, dimenticando che gli avversari avrebbero dovuto “tagliarlo”.

Il Colonnello non si lascia sorprendere e gli dice secco: “Scusi, mi fa alzare?” Pensando che fosse una richiesta d’ausilio a riprendere la posizione eretta, magari per l’improvvisa necessità di andare in bagno, Capitan Frascella scatta in piedi e sorridente accoglie la richiesta: “Ma certo, l’aiuto subito”, e così dicendo afferra un braccio del vegliardo. “Ma che fa? Ma che fa?” ribatte inviperito il Colonnello, “Le ho solo chiesto di alzare il mazzo di carte”.

L’equivoco è così chiarito e la partita può iniziare regolarmente. Ma il Colonnello è sconvolto dalla brutta esperienza e dalla clamorosa gaffe di Capitan Frascella, che invece si è distratto di nuovo e, magari proprio per questo, prende a giocare alla grande. Risultato: il Parioli vince la partita e la coppia Valentini-Frascella si classifica al primo posto. Felice conclusione, dunque, ma da allora c’è chi si arrovella al Club nel cercare di indovinare che cosa avrebbe fatto mai Paolo se il Colonnello gli avesse chiesto: “Scusi, mi fa tagliare”?

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Il biliardo Con la costruzione della nuova sala carte è stato possibile trovare lo spazio per due tavoli da biliardo, uno di serie A e uno di serie B. Nel primo i giovani giocano all’americana ma il piatto forte è la boccetta, dove si ritrovano i fratelli Operti (Nano e Turco), Aragona (la Rana), Damiani (Joe Strapippa) Forti (Il Sindaco dotato di telefonino col canto del gallo) Zibì Boniek (Kuurva), il roscio Marco Mencaglia formidabile picchiatore, il professor Scalzo (privo di soprannome oltre che di altre doti significative) e numerosi comprimari. Ma la vera star della boccetta è Massimo Notarbartolo di Villarosa, detto Pippardone o, per il suo attraente aspetto paesaggistico, Bomarzo. Una star non solo perché gioca piuttosto bene, ma perché al biliardo si trasfigura.

Chiede il massimo silenzio con fare imperioso, intima che nessuno deve muoversi, apostrofa avversari e compagni di gioco con insulti spesso sanguinosi, s’innervosisce alla minima contrarietà, inveisce contro tutti e contro tutto, minaccia di scagliare una palla verso chi per lui trasgredisce, fuma di continuo e perde la brocca. È accaduto che, irritato per una giocata maldestra della Rana, abbia afferrato una blusa dall’attaccapanni mettendosela sotto i piedi e calpestandola a lungo, prima di accorgersi (con tante scuse) che apparteneva all’incolpevole Polazzo.

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La picchiata di Pippardone

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Noi che lo conosciamo da una vita assistiamo da sempre con il massimo del divertimento alla trasformazione radicale da gentiluomo a teppista che avviene sotto i nostri occhi, da persona divertente e simpatica, come è lontano dalla boccetta, a vociante dittatore della sala biliardo. Uno spasso. Anche perché, un personaggio come lui tutti si divertono a vederlo perdere. Succede sempre qualcosa.

Pippardone (ma i suoi compagni di scuola lo chiamavano anche Forbicione) fa parte da anni degli arredi fissi del Club. Oltre alla passione per il biliardo ha quella per gli animali e non è raro vederlo al mattino circolare nelle zone attorno al parcheggio, nonostante sia proibito introdurre bestie al Circolo. Lui trasgredisce e non gli si può dare del tutto torto, perché in realtà animali di diverse specie al Parioli non sono mai mancati.

Cani e sigarette hanno portato spesso il buon Notarbartolo a confrontarsi con il Collegio dei Probiviri, che lo considera ormai uno di casa. Più volte sono fioccate punizioni.

Raccontiamo solo l’ultima in ordine di tempo, in attesa delle altre che inevitabilmente seguiranno. Pippardone è al biliardo e sta fumando di continuo. Arriva il direttore del Circolo, Marco Alciati, e gli contesta con il solito garbo la trasgressione al regolamento del Club. Invece di scusarsi, il nostre eroe se n’esce con questa frase: “Abbiamo comprato il circolo, quindi è anche mio e faccio quello che mi pare”.

Risultato: 15 giorni di sospensione.

Una pena assai crudele perchè Notarbartolo non viene

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estromesso temporaneamente dal Circolo ma solo dalla sala biliardo. Poteva arrivare fino alla sala attigua, per sentire il rumore delle picchiate, le voci giocatori, le risate e le battute alla quali non poteva partecipare. Un supplizio da lui sopportato con gran dignitĂ , facendo finta di leggere i giornali su un divano per poi spostarsi su un altro di continuo. Sembrava la lupa del Campidoglio.

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Villa Ada e la palestra Avere come confine Villa Ada (o se preferite, Villa Savoia) e la pineta di Forte Antenne, offre ai soci del Parioli un’opportunità straordinaria: correre o passeggiare in una delle più belle zone verdi della Capitale. Qui risiedeva la famiglia reale durante la stagione calda e qui, dopo un ultimo colloquio con Vittorio Emanuele III, fu arrestato e portato via in ambulanza Benito Mussolini, nel luglio 1943. Ad attrarre i romani e, nel caso specifico, i soci pariolini non è tanto la storia patria, quanto la voglia di muoversi liberamente nel cuore della città. La differenza, non da poco, è che gli altri, i cittadini comuni, corrono per Villa Savoia e poi tornano sudati a casa; mentre i soci rientrano al Club e si trovano subito sotto la doccia. Correre o passeggiare nel verde è diventata una tradizione e non sono pochi i soci che s’iscrivono alle maratone, intere o mezze, che si disputano nella Capitale.

Roberto Valerio, che abbiamo già incontrato più volte nel corso del nostro racconto, oltre al tennis (era prima categoria e arrivò ad essere numero sette d’Italia), al calcio e al calcetto, per mantenere la sua invidiabile forma atletica correva spesso per Villa Savoia. Una volta si presentò con un socetto nuovo di zecca, che gli scodinzolava attorno con deferenza. Un personaggio allora sconosciuto ma oggi molto noto che, nonostante la partenza ad handicap e gli sfottò

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subiti al suo ingresso nel Club, è diventato a pieno titolo un vero Frate: il professor Franco Chimenti.

Roberto, di ritorno da una corsa nel verde, ce lo presentò in questo modo: “Lui è il mio aprifrasche”, per indicare che lo precedeva per spianargli la strada nella boscaglia. Scoppiammo a ridere e su questo particolare aspetto i Nani ricamarono una serie di definizioni e battute. Franco e Bruno Chimenti, anche lui socio, furono battezzati, per la loro palese provenienza dalla “Calabria Saudita”, “I fratelli Katanzarov”. Il Nano Tommasi sparse la voce che tutte le auto avevano ormai il “servofreno”, ma quella di Roberto Valerio aveva anche il “servocalabro”.

Ci voleva ben altro per smuovere la determinazione di un uomo di spirito come “Frenghe” (altro soprannome) che s’inserì benissimo nel Club partecipando da protagonista, come ama essere, alla vita sociale. Perché oltre alla grande simpatia noi andavamo scoprendo fin d’allora una caratteristica unica di Franco Chimenti. Uno che in un certo senso (e fatte le debite proporzioni) ricorda Enrico Berlinguer, del quale Giancarlo Pajetta diceva che “si era iscritto fin da piccolo alla segreteria del PCI”. Ebbene Franco fin da piccolo - vale a dire ancora oggi se ci riferiamo alla sua statura - si è proposto come presidente di qualcosa. In gioventù sarà stato sicuramente capo classe e capo branco delle Giovani Marmotte. Da grande è stato Presidente della Lazio, dell’associazione dei calabresi esuli in Italia; Preside della Facoltà di Farmacia; presidente del Golf Club “Le Querce”,

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della Federazione del Golf e membro della Giunta Esecutiva del Coni. Mentre scriviamo aspira a diventare il numero uno dello sport italiano, cioè presidente dello stesso Coni. Per uno partito come “aprifrasche” non c’è male.

Altro palcoscenico di sana attività fisica è la palestra del Club. Frequentata da due diverse categorie di soci e socie: gli assidui ed i saltuari. I primi fanno ginnastica con regolarità, quasi quotidianamente e sono i veri padroni della scena. Gli altri si riconoscono per l’aria smarrita con la quale si presentano, guardano le macchine e le affrontano dalla parte sbagliata e sottoponendosi a sforzi eccessivi.

Rossi in volto si guardano attorno per cercare solidarietà.

Dopo il primo stiramento inguinale in genere desistono.

Storicamente uno dei primi assidui è stato l’avvocato Paolozzi, che ha affrontato per anni macchine e bilancieri con grande intensità, con il chiaro obiettivo di tonificare e aumentare la propria massa muscolare. Per questo Sergio Scozzese aveva preso a chiamarlo “Scarsenegher” ed il soprannome gli è rimasto.

Prima del trasferimento nella sede provvisoria di “Scarfioland” (ne parleremo in seguito, quando arriveremo al Parioli di oggi), la palestra era diventata un punto di incontro e di divertimento. È a tutti noto che fare ginnastica, con o senza istruttore, è una cosa estremamente pallosa. È purtroppo altrettanto noto che la ginnastica fa bene e che, dopo averla fatta, ci si sente meglio. Il problema è superare lo stadio iniziale, trovare il coraggio di mettersi in tuta e af-

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Achtung achtung Zanzarohnen

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frontare cyclette, tapis roulant, macchine e bilancieri. Ad aiutare il ginnasta dubbioso a vincere la propria innata ritrosia contribuisce il fatto che in palestra s’incontrano alcuni soggetti assolutamente divertenti e si possono verificare momenti d’autentica ilarità, come quando Peluche Castelnuovo si esibisce nelle sue celebri imitazioni o quando alcuni sprovveduti si lanciano in una discussione sui temi caldi della giornata politica.

Ogni ambiente del Club ha un suo personaggio di riferimento, nella palestra sociale si chiama Zanzarone. Tutti lo conoscono con questo nome, pochi sanno che nella vita dovrebbe chiamarsi, se non andiamo errati, Francesco Jovene.

Si presenta quotidianamente con l’immancabile golf bianco senza maniche bordato rosso e blu, pantaloncini blu e sorriso furbetto. Prima di entrare in palestra esegue un’accurata perquisizione proibita nei cassetti di alcuni consoci, in particolare prelevando derrate alimentari da quello di Marco Mascioli (Tozzo). Una volta fatto il suo ingresso, passa il tempo ad infastidire tutto e tutti staccando le cuffie a chi pedala sulla cyclette, spacciandosi indebitamente per tifoso romanista, mentre in realtà è un deplorevole “gobbo” juventino, e affrontando temerariamente discussioni impegnate sui temi più importanti della giornata, sui quali fornisce la sua inutile opinione. Il nome di Zanzarone gli sta a pennello.

Si è distinto anche al di fuori dell’ambito del Club. Ha contribuito, con la sua dannosa presenza quotidiana in un

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ufficio di un’importante multinazionale, ad uno dei più gravi dissesti della telefonia mondiale. Tronchetti Provera (non il nostro, quello vero!) ancora piange. Non pago, attualmente sta insidiando la solidità aziendale di una delle più rinomate griffe della moda italiana. Eppure nella vita qualcosa di assolutamente importante è riuscito a farla, quando ha appioppato il fantastico soprannome di “Bialetti” ad un altro simpatico frequentatore assiduo, Giancarlo Palmieri, un medico assolutamente identico all’omino con i baffi della celebre caffettiera.

La palestra del Parioli non è però tutta rose e fiori. La metafora è calzante perché ci stiamo riferendo agli odori che alcuni frequentatori emanano indossando colpevolmente sempre lo stesso abbigliamento. Uno, in particolare, detto “la Figlia di Totti”, cioè Chanel, è campione del mondo della categoria. Invano gli è stata recapitata, nel cassettino dello spogliatoio, una cortese ma ferma lettera nella quale lo s’informava che: “Una direttiva dell’Assessorato per l’Ambiente del Comune di Roma, invita i Circoli della Capitale a prendere iniziative adeguate per diminuire, nei luoghi chiusi, la presenza di odori irritanti e nauseabondi, gravemente dannosi per la salute, olfattiva e psicologica, della popolazione. Aderendo all’invito dell’Autorità comunale, il Tennis Club Parioli stabilisce, a partire dal 1 marzo 2008, l’entrata in vigore delle “MUTANDE ALTERNE”, con l’obbligo per i Soci di cambiare con la massima frequenza l’abbigliamento indossato per accedere alla palestra

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del Club. I trasgressori, purtroppo facilmente percepibili, saranno deferiti al Collegio dei Probiviri”. L’autorevole missiva era firmata addirittura dal “Consigliere ecologico” del Club, la consocia Rosetta Profumo.

Non c’è stato nulla da fare. La lettera era per la verità assolutamente falsa, ma la puzza è rimasta assolutamente vera.

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Scherzi celebri Chiudiamo la seconda parte del nostri libro ricordando alcuni “scherzi d’autore” che hanno gaiamente movimentato la vita del Sodalizio. Partiamo da quello che potremo definire uno scherzo “nobile” perché perpetrato, violando grottescamente le regole del tennis, ma in difesa del buon nome del Parioli contro una turba di frusinati presuntuosi.

Ve lo descriviamo con le parole del principale protagonista, Federico Peluche Castelnuovo, che ha fatto e farà ancora parlare molto di sè.

“Nel 1993, in un freddo e inutile martedì di febbraio, la squadra B del Parioli di Coppa Italia - competizione riservata a giocatori non classificati - composta da Ferdinando Rebecchini (detto “Lupin”), Umberto Rosato, Paolo Filppucci (“Pablo Escoalbar”), Gianfilippo Saglieni (“Il Saggio”), Daniele Berliri (“Indiro”) e dal tredicenne Claudio Cozzi, doveva recuperare una partita contro il Tennis Frosinone, rinviata per pioggia dalla precedente domenica.

La compagine pariolina, più simile all’armata Brancaleone che ad una squadra di tennis, dopo un’ora e mezza era già sotto per 3 a 1 nei singolari (forse aveva vinto solo Pablo Filippucci con i suoi colpi circensi, alternati a ciclici doppi falli).

I componenti dell’ A.T. Frosinone, nel decidere le formazioni per i doppi, si lasciavano uscire, ad alta voce, la se-

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guente frase, assai offensiva per il nostro beneamato Club: “Ma che devi studia’ le formazioni, ce potemo mette puro Stevie Wonder tanto co’ ste seghe del Parioli se vince uguale”.

Di qui la nobile reazione. “ I poveri frusinati - prosegue il racconto - non avevano torto ma i consoci Alessandro Filippucci (detto “Alacchia) e Federico Castelnuovo, a quel tempo classificati C1 e promesse (mai mantenute!) del tennis italiano, sentendo quella frase arrogante e spocchiosa decidevano di giocare sotto falso nome i doppi, per lavare l’onta di quell’offesa. Alacchia andava quindi a giocare col Saggio, dicendo di chiamarsi Rosato e Peluche, spacciandosi per Rebecchini, affiancava il ragazzino tredicenne. Va precisato che Rosato e Rebecchini non si erano presentati ai singolari, ma erano iscritti nella formazione del Parioli e ciò permetteva, in assenza del giudice arbitro, l’inganno.

Prima di scendere in campo Peluche dice a bassa voce al proprio complice: “Mi raccomando Alessa’, tira piano e fai finta de esse un non classificato che qui senno’ ce beccano”.

“Sì, sì non te preoccupà” fu la risposta.

Dopo mezz’ora Filuppucci e Saglieni conducevano 6-0 30. Ma, secondo il racconto di Peluche, le cose non promettevano del tutto bene e così le descrive: “ L’irruento Alacchia, pur fingendo la battuta della signora Duca e il dritto di Polazzo, si distingueva per tuffi improvvisi a rete alla Boris Becker e contro smash alla Paolo Canè. Un povero frusinate fu anche colpito al fegato da una terribile pallata di Alacchia,

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ed emise un rumore sordo per il quale si temette che dovesse sputare il cuore”.

Dopo due ore il Parioli aveva raggiunto l’A.T. Frosinone sul punteggio di 3 a 3. Ma il doppio di spareggio non sarà mai disputato perché “due maligni consoci”, ignari che quello voleva essere solo un atto d’amore, denunciarono l’inghippo. Squadra del Parioli squalificata e Peluche, Alacchia e il Saggio denunciati ai Probiviri che li punirono con una squalifica di 20 giorni, non ritenendo motivo valido la sanguinosa offesa fatta al nostro Sodalizio. Tipico esempio di come a volte il diritto entra in contrasto con i sentimenti più nobili.

Di scherzi meno nobili, se vogliamo, ma assolutamente spassosi e dei quali si è parlato per lungo tempo è autore Fabrizio Berliri. Un Frate che impiega la propria acutissima intelligenza non solo nella professione di avvocato, ma nel praticare lo sport (in doppio mette sempre la palla nel posto giusto) e nel prendersi beffe degli altri.

Il primo ha come vittima Vincenzo, detto Pisello, inserviente dello spogliatoio maschile, e come teatro lo studio del dentista Verdozzi, anche lui socio del Club. Pisello doveva farsi vedere un dente e Verdozzi lo visita accuratamente, ma scuote di continuo la testa assai preoccupato.

Cominciano i primi sudori freddi. Il consocio dentista conclude la diagnosi rivelando che il caso è piuttosto grave, spara qualche definizione scientifica, ma tranquillizza il paziente. “Sei fortunato perché oggi è qui con me un grande

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scienziato tedesco, un vero mago e ti posso far vedere da lui”.

In regolare camice bianco e con il volto parzialmente coperto da una mascherina entrano il luminare, Berliri, insieme con l’assistente Alberto Casucci. Nuovo attento esame nella bocca dello sventurato Pisello e poi il verdetto in un italiano con forte accento crucco: “Confermo sua tiagnosi, caro gollega. Il caso è crave. Qui bisogna interfenire subito ed estrarre. Non c’è tempo per anestesia”. L’assistente Casucci prende un enorme pinza da idraulico e la porge al professore. Prima dello svenimento di Pisello i tre scoppiano a ridere...

A volta succede che la vittima di uno scherzo offra lui stesso il pretesto. Capita così che al buon Casucci arrivi una raccomandata del Tribunale di Roma nella quale lo s’informa che era stato inserito nell’elenco dei giudici popolari. Una raccomandata assolutamente autentica. Alberto chiama Berliri e gli dice: “Vedi un po’ se puoi togliermi questa rottura di coglioni”. Da buon avvocato Fabrizio gli spiega che a questo alto dovere civico non ci si può in alcun modo sottrarre. La cosa finisce lì.

Un paio di mesi dopo una nuova raccomandata informa Casucci che era stato scelto come giudice popolare in Corte d’Assise per il processo a Raffaele Cutolo e ad altri suoi amici degni compari camorristi, accusati di reati gravissimi.

Il Tribunale precisava che, data la nota pericolosità degli imputati, a partire da 15 giorni prima dell’inizio del pro-

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cedimento e fino alla sentenza, i giudici popolari potevano ottenere dal Ministero dell’Interno una scorta armata. La raccomandata era falsa ma su carta intestata ed era contenuta nella classica busta verdina per la notifica degli atti giudiziari.

Il buon Casucci è disperato ed inizia una straziante serie di angosciosi colloqui telefonici con l’avvocato Berliri, nei quali invoca di essere messo in salvo. Per 10 giorni di fila prosegue il tormentone. con il perfido Fabrizio che promette ma trova sempre una nuova difficoltà. Per altrettanti giorni Alberto non si allontanerà dalla stanza da bagno della propria casa. Poi la beffa svelata e la liberazione...

Scoppia a Roma lo “scandalo di Piazza Euclide”. I giornali titolano in prima pagina su un noto parrucchiere che, oltre al taglio di barba e capelli, offriva ai propri clienti le prestazioni a pagamento di avvenenti massaggiatrici. A quel parrucchiere si rivolgevano diversi soci del Club, fra i quali il Nano Tommasi che, per la verità, ignorava assolutamente le opportunità di carattere sessuale che quel vivace esercizio artigianale poteva offrire. Berliri decide di entrare in azione.

Arriva al Nano Tommasi una telefonata della Procura della Repubblica nella quale, come persona informata dei fatti, lo s’informa che deve presentarsi a Piazzale Clodio. In realtà la telefonata è opera di una segretaria dello studio Berliri, sapientemente istruita per l’occasione. Carlo chiama Fabrizio che gli spiega che la situazione è assai complessa perché la stampa romana sta dando molto risalto alla vi-

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cenda. “Ma io mi sono solo fatto fare i capelli, che c’entro”? È la preoccupata replica. “Lo so, lo so. Vedrò di farti ascoltare al mattino presto, quando magari i giornalisti ancora non sono arrivati. Chiamo io il procuratore. Lo conosco.

Però è uno che vuole qualche risultato. Il mio consiglio è che tu ammetta qualche cosa, non sei imputato, a lui interessa incastrare il parrucchiere. Ammetti magari qualcosa di piccolo”. “Ma che piccolo? Io non ho fatto niente”. “Si va bene, ma il mio consiglio resta valido. In ogni caso chiamami domani e ti dico l’ora del colloquio”.

Il giorno seguente, al campo di calcetto il perfido Berliri rivela la vicenda ai suoi compagni di gioco e arriva, puntuale, l’angosciata telefonata di Tommasi. Ad alta voce, mentre gli altri sghignazzano, Berliri ripete i suoi turpi consigli: “Ammetti qualcosa di piccolo”. Poi passa il telefonino agli altri e lo scherzo si conclude alla grande.

Anche il mitico Papero è stato vittima di uno scherzo divertente. Giancarlino ha molta cura del proprio fisico e si sottopone con costanza ad esercizi atletici per tenersi in forma. Diverse volte ha seguito un atleta vero, Maurizio Dello Schiavo, nelle sue performance sulla corsa o nelle ascensioni in montagna. Nell’estate 2004 decise di tentare l’ascensione del Monte Velino che presenta alcuni passaggi di media difficoltà. Mentre Dello Schiavo saliva agile come un camoscio, il Papero incontrava crescenti problemi, finendo per trovarsi “incrodato” su un punto delicato, senza sapere come andare avanti o tornare indietro. Le amiche-

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voli sollecitazioni ed i buoni consigli del suo esperto compagno non valsero a nulla: il Papero non intendeva più muoversi. Fu necessario chiamare soccorso ed un elicottero lo raggiunse dopo ardita manovra per trasportarlo all’Ospedale di Avezzano dove gli fu diagnosticata una crisi di “panico da montagna”.

Al Club si venne a conoscenza dell’accaduto e questo non poteva non avere serie conseguenze. Pochi giorni dopo Giancarlino si vide recapitare a casa una raccomandata su carta intestata della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile che aveva come oggetto la “operazione di salvamento a mezzo elicottero”.

Dopo un abbondante citazione di commi di legge e regolamenti, la missiva faceva rilevare che “l’intervento non è stato causato dal verificarsi di eventi imprevedibili e/o da causa di forza maggiore”, quindi il signor Fumasoni Giancarlo era tenuto a pagarne il costo: 6.432,80 euro. Dopo un primo momento di grande e totale sconforto, grazie ad un numero verde fasullo che l’autore della lettera (il Nano Operti) aveva stoltamente indicato, il Papero si rese conto dello scherzo.

Se capitate al Circolo non potete non notare Ernesto Donato. Un uomo, come si dice, di peso. Compagnone, amante della buona tavola, ha una predilezione per i tartufi e periodicamente si reca, in buona compagnia pariolina, nella zona di Acqualagna per acquistare i preziosi tuberi.

Ama stupire tutti con effetti speciali, e quella volta che condusse con sé Joe Strapiappa Damiani e Carlo Tommasi fu

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pari alla sua fama, accaparrandosi una “breccola” che pesava due etti e mezzo, spendendo una fortuna. Incartato con cura, il tartufo fu posto in auto religiosamente ed il nostro, per natura diffidente, invitò i suoi compagni di merende e di viaggio a non fare scherzi. I tre si fermarono sulla via del ritorno in un ristorante tipico dove Ernesto diede, come al solito, il meglio di sé. Eccitato dalle libagioni, Joe Damiani decise di passare all’azione. In cucina si fece consegnare una patata delle stesse dimensioni del tartufo, riuscì a impossessarsi delle chiavi dell’auto e attuò la sostituzione dei tuberi, riponendo quello prezioso nella propria borsa. Il diffidente Ernesto prima di ripartire si volle accertare che tutto fosse a posto: mise le mani nella sua borsa, toccò l’involucro il cui contenuto era stato sostituito e disse soddisfatto: “C’è”. Allegro rientro nella Capitale con accompagno di Joe e Carlo presso le rispettive abitazioni. Il prode Ernesto rientra a casa trionfante ed ha la fortuna di esibire la sua preda a Maurizio Riganti, che era passato a trovarlo. “Guarda che meraviglia ho comprato”. Interrotto da una telefonata consegna l’involucro. Torna con un sorriso a trentadue denti e chiede: “Che te ne pare”? Riganti stupito risponde: “Perché hai comprato una patata”? Ernesto va in deliquio ma si riprende presto : sa chi è stato. Telefona a Joe e, senza dargli il tempo di parlare, gli dice: “Adesso vado al Parioli e ti faccio a pezzi, una per una, tutte le racchette”. Joe conclude lo scherzo: “Il Parioli a quest’ora è chiuso. Mo’ vengo”. Inforca la moto e restituisce il maltolto.

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Conclusioni Parioli Oggi

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La gran vittoria dei pizzettari Aprile 2005: una data storica per il Parioli. Dopo mesi di riunioni, più o meno carbonare, di tentativi d’accordo andati a male e di chiacchiere di ogni genere, si arriva allo scontro che codifica una divisione irreparabile fra i Frati.

Da una parte si schierano, per confermare alla presidenza Giancarlo Mazza, i giovani guidati da Augusto Orsini e alcuni Frati doc, a cominciare dal Nano Operti. Dall’altra, per un ritorno alla presidenza del Marchigiano, cioè Emanuele Scarfiotti, il mitico Sire, si presentano alcuni illustri esponenti dell’ala “pizzettara” del Sodalizio. Per singolare contrappasso, come abbiamo ricordato, proprio Emanuele Scarfiotti aveva per primo importato anni fa la definizione “pizzettari” nel Club: adesso sono al suo fianco.

C’è un’inutile e tempestosa assemblea in un clima da stadio. Il Parioli si trova di fronte a tre fondamentali emergenze: acquistare dal Comune di Roma il terreno sul quale sorge; dare il via ai lavori di ristrutturazione della ormai vetusta Casina sociale (gli spogliatoi, in particolare, sono da terzo mondo); definire un nuovo statuto. Ce ne sarebbe abbastanza per ritrovare un minimo di concordia e arrivare ad un governo “unitario”, rappresentativo di tutte le anime del Sodalizio. Chi, come l’avvocato Fabrizio Berliri e il vostro Autore, fa proposte in questa direzione, è sommerso da fischi e ululati. Certi ormai di stravincere, i pizzettari,

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anche contro il consenso del Sire che preferirebbe magari un accordo, vogliono lo scontro. Hanno purtroppo ragione: la loro vittoria va perfino oltre le previsioni. Portano a casa non solo Scarfiotti alla presidenza ma 13 consiglieri su 14.

Della lista vittoriosa, l’unico trombato risulterà Enrico Marchiori (“Santiddiaz”!).

Dal punto di vista strettamente politico (si fa per dire) la vittoria ha un protagonista assoluto. Vincenzo Stipa. Gran tessitore di trame, Iago staziona stabilmente al Circolo per tutto il periodo che precede la fatale Assemblea e con straordinaria abilità trova quotidianamente nuovi proseliti. In piccolo la vicenda elettorale pariolina ne richiama un’altra, assai famosa, che i soci più colti ricordano ancora: il 18 aprile 1948, quando i Comitati Civici di Luigi Gedda si mobilitarono contro il pericolo “rosso”. Non ci sono stati, questa volta, manifesti del tipo “Nella cabina elettorale Dio ti vede, Togliatti no”, com’era successo allora, ma ci è mancato poco. Lo stesso dicasi per la mobilitazione e il trasporto alle urne di soci ottuagenari di cui molti di noi avevano perfino dimenticato l’esistenza. Gedda non avrebbe saputo fare di meglio.

Il vostro Autore, che notoriamente non ne azzecca mai una, ha come sempre votato per la lista perdente. E gli è tornata in mente l’incauta frase da lui rivolta al notaio Barca nel lontano 1985, quando la prima offensiva pizzettari era stata respinta. Come gli austriaci nel 1918, nella descrizione del Generale Armando Diaz, i resti di quello che fu uno dei

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piĂš potenti gruppi di Frati del Club sono stati costretti, nel 2005, a risalire “ in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezzaâ€?. Avevamo perso e di brutto.

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Il “Pizzettaro dell’anno” Come reagire alla batosta? Nello stile del Parioli, vale a dire accettando il verdetto delle urne, promettendo collaborazione se il nuovo Governo avesse fatto cose giuste ma garantendo la critica per quelle sbagliate. Ma lo spirito pariolino Doc va oltre. Sulla sconfitta e sui vincitori avremmo scherzato e ironizzato a piacimento. La novità rispetto al glorioso passato, sarebbe stata l’adozione anche dei moderni mezzi di comunicazione. Quindi sì alle canzoni e agli sfottò, ma utilizzo delle grandi opportunità offerte da Internet.

Nasce un indirizzo di posta (parioliciao@virgilio.it) sull’onda della canzone che illustra la vittoria dei pizzettari.

Seguendo la tradizione, la canzone viene composta sulle note della celebre “Bella ciao” intonata dai partigiani durante la Resistenza. “Parioli ciao” è diffusa per Internet non solo fra i perdenti ma inviata per conoscenza anche all’indirizzo di posta elettronica del grande vincitore, Vincenzo Stipa. E così tutte le comunicazioni successive.

La canzone, che è in romanesco, ha come sottotitolo “Canto post elettorale”. Spiega che “Der Marchigiano, c’è il gran ritorno, co’ li pizzettari attorno”, e sottolinea che lui ha inventato i pizzettari, ma adesso se li deve “trastullà”. Finisce con una previsione fosca e un invito: “O marchigiano, fatte coraggio, aprile è duro e vedrai maggio”.

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Previsione azzeccata perché, smaltita la sbornia iniziale della vittoria, emergono nel nuovo governo pariolino i primi dissapori. Con una tempestività degna del miglior Fazio, si dimette il consigliere Maurizio Picca, la cui proposta di un campo di calciotto viene bocciata. Questo dà vita su Internet ad un serial (“Piccafoul”) nel quale vengono irrise le mosse del gruppo dirigente, spesso molto goffe, e raccontati alcuni episodi salienti. Fra questi un dialogo fra il vostro cronista e il consigliere addetto agli spogliatoi, conte Carlo Siciliani.

Tutto nasce dalla cattura di un ragguardevole esemplare di topo nello spogliatoio maschile da parte dell’intrepido Galal, voluminoso e simpatico inserviente di religione mussulmana, l’unico al mondo che riesce ad ingrassare anche durante il Ramadan. Ecco il dialogo che ne segue: Cronista: “Caro conte, i topi dello spogliatoio vanno considerati soci o sono solo ospiti”?

Siciliani: “Ci sono topi negli spogliatoi? È vero o si tratta di una delle tue solite cattiverie”?

Cronista: “Chiedi a Galal che ne ha catturato uno proprio ieri”.

Galal annuisce con un vigoroso movimento del capo e, allargando le mani, mostra le grandi dimensioni di quello che i professori di scienze definiscono “Mus musculus”.

Siciliani, dopo un attimo d’esitazione: “Anche a casa mia a Punta Ala c’è qualche topo”.

Cronista, chiudendo il dibattito: “Il fatto è che a casa tua

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non sono socio, mentre qui pago le quote”.

La serie Piccafoul riporterà agli internauti del Club anche le successive dimissioni del consigliere Giorgio Forti, che quando non infastidisce gli abitanti di Pietracamela, simpatico paesino abruzzese del quale è stato sindaco, staziona nella sala del biliardo del Club deliziando tutti con le sue mirabolanti giocate e con un telefonino fastidiosissimo.

Forti è stato sostituito dal conte Darwin, al secolo Patrizio Vannutelli. La comunità scientifica, forse, ne ha guadagnato.

Internet è stato utilizzato anche per scegliere il “Pizzettaro dell’anno”, vale a dire il personaggio più rappresentativo della nuova situazione creatasi al vertice del Circolo. È stata fatta un’accurata selezione di dodici candidati, messi in votazione via e mail in una serie di scontri individuali. In finale, come logica voleva, si sono trovati di fronte Scarfiotti e Stipa e il Sire ha prevalso. Il titolo spettava a lui, insieme con una cena gratis a spese della lista perdente.

Sono state poste delle condizioni. Etichettato come “pizzettaro” il Sire ha preteso non solo la cena gratis ma anche il rimborso della spesa per la corriera che dalle Marche lo avrebbe trasportato fino a Roma. La risposta è stata positiva e, per dimostrare la prodigalità dei perdenti, sono stati invitati alla cena anche due illustri personaggi come Stipa (“Iago”) e il vice presidente del Club De Lieto Vollaro (detto “Lorenzo” perché “Chi vuol esser De Lieto sia, del doman non v’è certezza”).

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La cerimonia si è svolta il 22 settembre 2005 e bisogna riconoscere il grande spirito dei tre ospiti (Scarfiotti, Stipa e De Lieto) che si sono sottoposti di buon grado ai frizzi e ai lazzi dei Frati presenti ed hanno ascoltato divertiti la canzone “Nella vecchia pizzeria” composta per l’occasione. Il Sire è stato nominato campione al termine di un vibrante discorso del Presidente dell’Accademia Italiana della Pizza, anche lui nostro ospite, che ha concluso la sua orazione con il celebre motto “Pizzettari di tutto il mondo, unitevi”!

Scarfiotti, sportivamente, si è messo in testa un cappello bianco ed ha indossato il grembiule che riportava la motivazione della sua vittoria. È stato fotografato a lungo: sono immagini commoventi. Nel corso della cena è stata raccolta una rispettabile cifra per beneficenza, suddivisa equamente fra la vicina Parrocchia e il personale dello spogliatoio maschile per l’impegno dimostrato per la lotta contro i topi che, ci è stato assicurato, non sono da considerare soci.

Quella cerimonia ha, in un certo qual senso, segnato una svolta. Era finito il momento del dileggio, iniziava la fiduciosa attesa della raccolta dei copiosi frutti derivanti dalla laboriosa e impegnata attività del Consiglio Direttivo. Non c’è stato molto, per la verità. Anche la celebrazione del centenario del Parioli nel 2006 è stata, nel nostro giudizio, un’importante occasione perduta. Si poteva far meglio.

Ci sono voluti tre anni per acquistare dal Comune di Roma il terreno del Club e presentare un progetto di ristrutturazione della Casina sociale. Il nuovo Statuto che ci

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vedrà proprietari è ancora da completare. Va detto, per correttezza, che i ritardi nella procedura d’acquisto derivano da alcune complicazioni delle quali il Parioli non è responsabile.

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Benvenuti a “Scarfioland” o, se preferite, al “PalaSire” Siamo alla conclusione della nostra storia. Mentre il testo del nostro lavoro viene consegnato alla tipografia, la Casina sociale è stata chiusa e la vita del circolo si svolgerà, per almeno un anno, in una tendopoli attrezzata che ricorda un parco dei divertimenti di paese, una rivendita d’auto usate e un’esposizione di prodotti tipici regionali. L’abbiamo battezzata “Scarfioland” dal nome del nostro beneamato Presidente, e siamo sicuri che non vi mancheranno le attrazioni, come in ogni parco di divertimenti che si rispetti. Dalla “donna barbuta” all’uomo sandwich. Quanto agli animali, non ci sarà che l’imbarazzo della scelta. Altri suggeriscono anche di chiamare “PalaSire” la costruzione provvisoria, che ha coperto il famoso “prato-Sanna”. Lasciamo la scelta ai lettori.

Stando alle promesse che ci sono state fatte, la nostra permanenza a “Scarfioland” dovrebbe durare come detto un anno, mese più o mese meno. Nel frattempo la nuova Casina sociale, dovrebbe per la seconda volta risorgere, come la Roma di Ettore Petrolini, “Più bella e più splendente che pria”. La Snai accetta scommesse. Le quote sono interessanti. Se le previsioni sui tempi dei lavori sono azzeccate come i preventivi di spesa, a “Scarfioland” finiremo per invecchiare...

In attesa di rinnovare il Club, abbiamo rinnovato i ver-

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Hic manebimus optime...

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tici: presidente e Consiglio Direttivo. Lo abbiamo fatto, come sempre, nel modo peggiore, con un percorso lastricato di buone intenzioni. C’era stata un’improvvida lettera di 200 soci che proponeva ad Emanuele Scarfiotti un traguardo prestigioso: rimanere presidente per traghettare il Parioli in una fase delicata con il consenso di tutti. Doveva solo presentare una lista di consiglieri “decente” che rappresentasse tutte le diverse anime presenti nel Club. Sarebbe diventato la nostra Angela Merkel e ricordato nei secoli.

Non solo, ma avrebbe costituito un ottimo esempio per Berlusconi e Veltroni, anche loro impegnati nella contesa elettorale.

Non è stato così. Invece di 14 nomi il Sire ne ha presentati 18 con un’overdose di personaggi collegati a Topograsso, al secolo Paolo Piperno. Questo ha suscitato fortissime reazioni in diversi settori del Club e moltiplicato gli aspiranti consiglieri. Tutti si sono gettati nella mischia.

Per qualche momento nel salone del Circolo si trovavano più candidati che soci. Le “larghe intese” sono saltate ed il buon Sire ne ha pagato le conseguenze.

Anche perché c’è stato un importante fatto nuovo, che il vostro Autore ha considerato non solo interessante ma anche un segno dei tempi che lascia bene sperare: si sono fatti avanti giovani interessanti. Uno di loro, Maurizio Romeo (Rambo) si è presentato per la carica di presidente, in contrapposizione al Sire.

Ad alcuni è sembrato un sacrilegio. Un “giovane” di 44

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anni che vuole fare il presidente del Parioli, dove da sempre sono gli ottuagenari a dire l’ultima parola! Inutile far loro presente che, pur essendo più giovane di Rambo, un certo Barak Obama è in corsa per la presidenza degli Stati Uniti.

Altrettanto inutile - sempre per gli stessi ottusi destinatari - cercare di far loro capire che sono i giovani a rappresentare il futuro del Parioli e che è ora che ne prendano in mano le sorti.

A Rambo è stato perfidamente suggerito di fare il consigliere per un triennio in modo da prepararsi meglio alla carica di presidente, dimenticando che con lo stesso invito sono stati intortati ed emarginati molti giovani che aspiravano all’incarico. E così si è andati a votare con due candidati contrapposti per la presidenza e uno stuolo di candidati al Consiglio. Il risultato è stato clamoroso: su 745 votanti il Sire ne ha ottenuti 380 e Rambo ben 329. Un successo incredibile! Che è costato a Scarfiotti un soprannome in più: “Anatra Zoppa”, coniato da Iago.

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La Banda del buco All’inizio dell’estate 2008, superate felicemente le prime disavventure nella tendopoli di Scarfioland (pioggia sul biliardo, caldo eccessivo, aria condizionata virtuale), esplode il “buco”. Non quello dell’ozono, tuttora stabile, ma un buco colossale nelle previsioni di spesa per i lavori di ristrutturazione del Sodalizio. La prima deflagrazione avviene in Consiglio Direttivo dove i nuovi entrati chiedono di vedere i conti. Il botto è grosso: per la parte già appaltata, che riguarda la ristrutturazione della Casina sociale, si passa da 3,95 a 6,79 milioni di euro; per quella non appaltata (zona calcetto e scuola tennis) il costo rimane pressoché invariato: da 926 mila a 928mila euro. In assemblea si affermerà che il costo della vita è vertiginosamente aumentato senza spiegare perché non ha influito sulle opere ancora non appaltate. Mistero pariolino...

I nuovi consiglieri non hanno nessun’intenzione di accollarsi una responsabilità che ricade sul consiglio precedente, sul quale pesa anche il sospetto aver taciuto un aumento di spesa ampiamente prevedibile per poter vincere le elezioni. Chiedono quindi di convocare un’assemblea e la notizia del “buco” dilaga.

Il pomeriggio del 21 luglio 220 soci visibilmente contrariati si accalcano sotto la tenda del PalaSire. Gli umori sono pessimi. Scarfiotti apre i lavori ammannendo agli astanti

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una sua formidabile versione, tutta personale, della celebre fiaba di Lewis Carroll e si traveste da Alice nel Paese delle meraviglie. L’esordio è infelice: “ Il Parioli sta attraversando un momento storico della sua storia”. Il seguito è ammorbidente: le deficienze strutturali della Casina sociale sono state una scoperta recente e un pericolo sventato.

Dopo Alice/Scarfiotti è la volta del bronzeo Gustavo Orsini, membro della vecchia Commissione Tecnica con De Lieto e Badessi. Ammette che per i lavori a suo tempo erano stati chiesti ai soci 4 milioni “coscienti che potevano aumentare”. C’è stato dunque un “difetto di comunicazione” per il quale, loro, i dirigenti del Club adesso “chiedono venia”. La sua conclusione è subissata dalle contestazioni di una platea sempre più nervosa: “Un conto è dire che occorre spendere 4 milioni in più, altro conto dire che si tratta di 24 euro al mese in più a socio”(dileggi e ilarità generale).

Con gli interventi successivi il proposito di affermare che tutto era imprevisto e imprevedibile, si sgretola. L’ingegner Badessi, noto anche come “Iman di Forte Antenne”, mette un primo tassello dicendo di non essere d’accordo con Orsini. L’architetto Marsaglia, membro nuovo della Commissione Tecnica, non è d’accordo con nessuno dei due che l’hanno preceduto e sostiene: “C’erano le condizioni per prevedere maggiori costi”, si è trattato, dunque, di “una leggerezza probabilmente in buona fede”.

Si apre il dibattito e il vecchio Consiglio Direttivo in

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breve rimane in mutande. L’ingegner Giannini spiega che i sondaggi sulla stabilità della struttura erano stati fatti da tempo, e che la falda acquifera sotto la casina sociale non è stata per niente una sorpresa. A seguire altre chicche: nel preventivo non sono previsti gli arredi; l’assemblea precedente aveva autorizzato 3,1 milioni di spesa, ma ne sono stati appaltati 3,6; non è stata calcolata l’IVA sui lavori e via cazzeggiando.

A quel punto si verifica un primo distinguo fra i membri rieletti del vecchio CD, che sapevano, e quelli nuovi, entrati in funzione solo il 20 aprile 2008, non responsabili del famoso “difetto di comunicazione”. Se ne fanno portavoce Boniek e Berliri che fanno chiaramente capire che, se fosse dipeso dai vecchi consiglieri, i soci non avrebbero saputo nulla fino a settembre. Fioccano le bordate verso il CD. Ara propone il “Tutti a casa” pur non escludendo soluzioni meno cruente. Berliri chiede, con fermo garbo, che sia la sola vecchia Commissione (De Lieto, Orsini e Badessi) ad uscire dal CD. Il Sire si chiama fuori e comunica all’assemblea che il documento contestato porta la firma della Commissione e non del CD o del suo presidente. Più tardi, in pieno caos, ammetterà: “Anche io sono responsabile ma non mi sento colpevole”.

L’atmosfera si fa rovente e la scelta si radicalizza fra la proposta del “tutti a casa” e quella di licenziare la sola vecchia Commissione. Sparano bordate Giorgio Forti (“escludo la malafede, ma siete tutti responsabili. Vi dovete dimettere:

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facciamo nuove elezioni ad ottobre”), Ceci (“Chi ha approvato i lavori non poteva non sapere”) e Labella (“La squadra va a casa a cominciare dall’allenatore”). Punto sul vivo il prode Emanuele mette nobilmente a disposizione il proprio mandato, il che, da quando è presidente, gli capita abitualmente ogni 4-5 giorni.

Nella crescente confusione un sano momento d’ilarità arriva, quando la memoria del socio Borghini, come la sua candida chioma, va in bianco. Chiede la parola per comunicare “quattro fondamentali osservazioni”. Pronuncia la prima, poi si blocca per ammettere, candidamente: “La seconda me la sono scordata”. Dalla platea il Nano lo informa che “Esistono le badanti”...

L’ilarità passa presto e riprende la bagarre in vista della stretta finale. De Lieto preannuncia la volontà di dimettersi, ma definisce questo problema “secondario”. Ammette che i nuovi consiglieri non potevano sapere delle maggiori spese, ma aggiunge, con chiara allusione: “Quelli che sapevano stanno adesso scaricando tutto su di noi”.

Poi si vota con due scrutatori di lusso come Lucio D’Orsola e Jennifer Topez. Scarfiotti mette per prima in votazione la mozione di tale Obino che chiede le dimissioni dell’intero CD e il sostanziale blocco dei lavori. In un clima di robusta confusione viene gagliardamente bocciata. Passa la più razionale mozione Berliri/Carbotti che mette importanti paletti ed evita il blocco dei lavori e il rischio di nuovi “difetti di comunicazione”.

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Alla fine della serata, per gli accaldati soci che abbandonano l’assemblea, restano una certezza e molti dubbi. La certezza è che pagheranno di più per ritornare alla Casina sociale e abbandonare la tendopoli del PalaSire.

Qui chiudiamo sul serio, non il Club (speriamo...) ma il nostro più che fazioso racconto. Il nostro auspicio è che, questo momento delicato possa essere superato. Che si trovi una sintesi fra le generazioni; che la storia del Tennis Parioli, comunque esaltante e divertente, spesso bella, una storia di sport e di amicizia, di litigi e sfottò, di soci e socetti, di Frati e pizzettari possa continuare ancora a lungo.

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Saluto finale Uno dei quadri più famosi del pittore impressionista Paul Gauguin, conservato al museo di Boston, ha un titolo del tutto particolare: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo”? Non per buttarla in cultura - non ci sembra proprio il caso dato l’ambiente - ma questi interrogativi tanto importanti possono benissimo adattarsi anche al nostro beneamato Sodalizio. “Si parva licet componere magni”, vale a dire “Se le piccole cose possono essere paragonate a quelle grandi”. Noi ci proviamo.

Da dove veniamo lo sappiamo bene. Lo stesso dicasi per chi siamo. Frati, soci, socetti e pizzettari ognuno, in fondo al proprio cuore, sa chi è. La domanda alla quale è difficile rispondere è la terza: “Dove andiamo”?

Vogliamo concludere con la nota d’ottimismo che ha ispirato questo lavoro. Lo abbiamo intrapreso anzitutto per nostro bieco e partigiano diletto, ma anche perché crediamo nei giovani ed è bene che i giovani, se ne hanno voglia, abbiano l’opportunità di conoscere che cosa è stato e che cosa può ancora essere il Tennis Parioli. Quale lo spirito che lo ha reso unico e assolutamente diverso dagli altri Club della Capitale. Come detto, abbiamo individuato in molti di loro interessanti qualità “fratesche”. Che si diano dunque da fare.

Prima che il gallo canti...

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