Notiziario 1/2023

Page 1

IN QUESTO NUMERO

4

EDITORIALE

TRIENNIO 2022-2024

Dal ricordo delle origini alle prospettive future di Adriana Baruffini, presidente CAI Lecco

7 “QUANDO L’OMBRA SCENDE”

10

14

17

19

21

27

30

32

37

48

50

Una pagina intensa dedicata da Dino Buzzati alla nostra “Rassegna di montagna” a cura di Renato Frigerio

SENTIERI E PAROLE

RI-SKI AMBIENTALI

La sfida dell’andare sui monti nel nuovo millennio di Sergio Poli

IERI, OGGI E DOMANI

Fronte: Valvarrone occidentale di Raffaele Negri

UCCELLI DEI PASCOLI

Il suono dell’estate nelle praterie di montagna di Gaia Bazzi

GLI SPLENDIDI FIORI DEL GENERE “DAPHNE”

Cinque specie protette sulle nostre montagne di Annibale Rota

NON SOLO VERGELLA

Il lungo filo della transumanza a Lecco di Paolo Colombo

LA CHEMISE BLANCHE

Nel lontano 1960, alla Cabane du Montet (racconto del marzo 2020) di Mario Bramanti

I PERSONAGGI

RICORDO DI STEFANO VIMERCATI

Per decenni una presenza costante e operativa nella vita del CAI Lecco di Adriana Baruffini

GIORGIO REDAELLI, PERSONAGGIO INDIMENTICABILE

Sono tante le vie di arrampicata legate al suo nome di Renato Frigerio

ALPINISMO e ARRAMPICATA

“BROTHERS IN ARMS”, NUOVA VIA SUL CERRO TORRE

Luci e ombre, emozioni e pensieri di Matteo De Zaiacomo

LA SCUOLA DI ROCCIA DEI RAGNI

Le parole del direttore, pensieri e le impressioni di un’allieva di Stefano Bolis

QUELLA SPORCA DOZZINA

Rincocronache di un Corso A1 di Emiliano Alquà

55 BENTORNATA NORMALITÀ. FORSE.

Gita Sociale Alpinistica 2022 al Monte Disgrazia di Giorgio Mandarano

58 NUOVI RAGNI 2022

60

64

67

71

74

76

77

79

Il gruppo si arricchisce di cinque unità di Adriana Baruffini

ESCURSIONISMO

“ANIMA, SII COME LA MONTAGNA”

A Lecco il trekking letterario del CAI Città di Castello di Monica Grassellini

INTERSEZIONALE LECCO-MOLISE

Dai Resinelli al Resegone passando per i Piani di Artavaggio di Domenico Sacchi

TREKKING E SAPORI

Corsica: un’isola meravigliosamente saporita di Donatella Polvara

ALPINISMO GIOVANILE

ATTORNO ALLA MARMOLADA

Un trekking al tempo dei disastri ambientali di Tiziano Riva

SCI DI FONDO

ASPETTANDO LA PROSSIMA STAGIONE

Le ultime avventure dei fondisti nel 2022 di Giusi Negri e Pina Ietto

Notiziario quadrimestrale della sezione di Lecco “Riccardo Cassin”del Club Alpino Italiano N° 2/2022

Redazione: Adriana Baruffini, Alberto Benini, Angelo Faccinetto Direttore responsabile: Angelo Faccinetto

Impaginazione e Grafica: BitVark - Pavia

Tipografia: A.G.Bellavite Missaglia - Lecco

Testata di proprietà del Club Alpino Italiano sezione di Lecco “Riccardo Cassin”

Sede: via Papa Giovanni XXIII, 11 23900 Lecco

Tel: 0341363588 Fax: 0341284717

www.cai.lecco.it sezione@cai.lecco.it

Autorizzazione Tribunale di Lecco N. 5/78 del 20/06/1978

Spedizione in A.P. -45%- Art. 2 Comma 20/b legge 662/96

Tiratura 2300 copie Chiuso in redazione 30/11/202

In copertina: Matteo. De Zaiacomo sul traverso verso la parete nord del Cerro Torre, durante l’apertura della nuova via “Brothers in Arms”. Foto di Matteo della Bordella

GEO

UNA BREVE VACANZA

A Livigno dal 7 al 9 giugno di Angela Maggi

SETTIMANA VERDE DEL GEO

Escursioni, buona cucina e cultura nello scenario della Val di Fassa di Lina Astorino

TRENT’ANNI DI GEO

Un lungo percorso di montagna e solidarietà di Giovanni Valsecchi

APPUNTAMENTI 80

83

ALBERTO MARIA DE AGOSTINI

All’inizio della storia d’amore fra alpinisti lecchesi e montagne patagoniche di Serafino Ripamonti

DUE MOSTRE PER MONTI SORGENTI 2022

Le montagne di Paolo Punzo e l’alpinismo di Ginetto Esposito di Alberto Benini

Stampato secondo la filosofia GreenPrinting® volta alla salvaguardia dell’ambiente attraverso l’uso di materiali (lastre, carta, inchiostri e imballi) a basso impatto ambientale, oltre all’utilizzo di energia rinnovabile e automezzi a metano.

Stampato secondo la filosofia GreenPrinting® volta alla salvaguardia dell’ambiente attraverso l’uso di materiali (lastre, carta, inchiostri e imballi) a basso impatto ambientale, oltre all’utilizzo di energia rinnovabile e automezzi a metano.

ZeroEmissionProduct®

A.G. Bellavite ha azzerato totalmente le emissioni di Gas a effetto Serra prodotte direttamente o indirettamente per la realizzazione di questo prodotto.

ZeroEmissionProduct®

A.G. Bellavite ha azzerato totalmente le emissioni di Gas a effetto Serra prodotte direttamente o indirettamente per la realizzazione di questo prodotto.

85 RECENSIONI 87 VITA DI SEZIONE 37 21 67
IN ARMS”, NUOVA VIA SUL CERRO TORRE
SOLO VERGELLA TREKKING E SAPORI 32
REDAELLI PERSONAGGIO INDIMENTICABILE 17 UCCELLI DEI PASCOLI
“BROTHERS
NON
GIORGIO

Cari soci, mi rivolgo a voi per la prima volta in veste di presidente dalle pagine del nostro notiziario, e lo faccio volentieri attraverso questo spazio di comunicazione a cui sono particolarmente affezionata.

Nel breve momento di “celebrità” seguito alla mia nomina, giornali locali e social mi hanno presentato come la prima presidente donna del CAI Lecco, destinata fra l’altro ad accompagnare la sezione al traguardo dei 150 anni. Commenti che, dopo un iniziale

Dal ricordo delle origini alle prospettive future

sollecitazione di quella quota di membri del Consiglio direttivo che considerava assolutamente strategica per il futuro la messa a punto di un sistema di comunicazione articolato, in linea coi tempi, basato sul potenziamento degli strumenti virtuali.

Il gruppo di lavoro dedicato si è già messo all’opera e ha incominciato a costruire progetti sui quali bisognerà poi riflettere e discutere. Quella che auspico è una modalità di comunicazione che, dando visibilità all’operato della sezione, stimoli nel contempo la ripresa di forme di partecipazione attiva e trasversale, elemento caratterizzante di una associazione che non è e non può essere vissuta al pari di un’agenzia turistica o di un ente fornitore di servizi.

Il mondo giovanile

Futuro della sezione vuol dire prima di tutto attenzione al mondo dei giovani, in uno scorrere veloce di ritmi e di cambi generazionali fino a ieri impensabile. Per loro, innegabilmente, il sistema delle relazioni interpersonali tende a svolgersi online, mentre metaverso e avatar appaiono come scenari sempre meno remoti anche a chi, come me, istintivamente ne rifugge.

Psichiatri e sociologi denunciano in questa fascia della popolazione un disagio epocale, uno spaesamento forse imputabile al carattere fluido e ibrido del tempo in cui viviamo, fatto di relazioni e comportamenti sociali sempre meno definiti, individualismo e insicurezza verso il futuro.

intorno a noi, denunciare gli interventi che riteniamo dannosi per le nostre montagne e pensare delle alternative per uno sviluppo turistico che offra valori duraturi, rispettosi della montagna e di chi la abita o la frequenta con amore, in opposizione al modello “mordi e fuggi” destinato a creare spazi effimeri di divertimento, spesso già vecchi nel momento in cui nascono. Un impegno che ci dobbiamo assumere, se non altro per onorare gli scopi dell’associazione di cui facciamo parte, espressi dallo statuto, dal bidecalogo, dai tanti documenti della commissione Tutela Ambiente Montano nazionale.

sentimento di orgoglio, mi hanno fatto sentire soprattutto il peso di una grande responsabilità, quella di coniugare il ricordo delle origini (con tutto l’alone di poesia di cui il trascorrere degli anni le ha circondate) con le prospettive del futuro.

Mentre il cammino della sezione proseguiva su binari già tracciati (in primo piano i rifugi e sentieri, le Scuole di Alpinismo e Scialpinismo, Monti Sorgenti, i corsi e le attività sul campo dei vari gruppi sezionali), affinché la memoria del passato non si esaurisse in pura retorica, ho incominciato subito a pensare come dare ordine e corpo alle mie idee e agli stimoli che mi arrivavano dai compo-

nenti del Consiglio e da altri soci attenti e sensibili.

La comunicazione e le relazioni interpersonali

Il CAI Lecco è una sezione grande e complessa, con tante anime fra le quali talvolta appare difficile operare una sintesi. Vi convivono persone diverse per età, cultura, professione, appartenenza sociale e politica, tenute insieme come unico collante dall’amore per la montagna. E poiché informazioni e proposte devono arrivare a tutti i soci in modo adeguato e tempestivo, ho deciso di accogliere (con la gradualità imposta dalle risorse economiche e umane della sezione) la

Nell’ottica di ricreare forme di socialità basate su relazioni interpersonali di condivisione e anche di amicizia, ho pensato di mettere mano al riordino della biblioteca, dell’archivio e del polo museale, settori di vitale importanza in quanto racchiudono le basi culturali della nostra associazione. Per i primi due interventi ho colto la disponibilità di due socie con lunga esperienza di lavoro in biblioteca e di una studentessa dell’Accademia di Brera interessata a svolgere la propria tesi di laurea su documenti storici attinenti al mondo della montagna. Per la collezione museale si tratterà di riattivare e rimpolpare al più presto il già esistente gruppo di lavoro, ragionando su idee nuove.

Potrebbe essere, questo, l’inizio di un percorso virtuoso che spinga altri soci a mettere a disposizione competenze, creatività e un po’ del loro tempo: c’è veramente spazio per tutti, per attività sia manuali che intellettuali, in montagna o in sede.

Di tutto questo dovremo tenere conto nello stendere programmi di attività rivolte ai giovani (alpinismo giovanile, scuole, fasce di fragilità raggiunte attraverso la montagnaterapia): comunichiamo pure attraverso gli strumenti a loro più congeniali, ma con attenzione ai contenuti e alla costruzione di relazioni interpersonali “buone”.

L’ambiente

I fenomeni estremi di caldo, siccità, scioglimento dei ghiacciai e crollo di montagne a cui abbiamo assistito nel corso dell’ultima torrida estate hanno riportato alla ribalta, se mai ce ne fosse stato bisogno, il tema dell’ambiente. Sarebbe troppo lungo disquisire di cause e responsabilità, di intrecci fra economia e politica che a livello globale determinano le sorti del nostro mondo e ci fanno sentire impotenti. Però, così come ci sforziamo di adottare e trasmettere comportamenti individuali virtuosi, abbiamo anche il dovere di vigilare su quanto si svolge

Data l’evidente tendenza in atto all’innalzamento delle temperature e alla carenza di precipitazioni nevose, destano particolare preoccupazione progetti riguardanti Bobbio e Artavaggio, basati sul potenziamento in un caso, la ripresa nell’altro, dello sci su pista con innevamento artificiale.

Mi preoccupa anche la prospettiva di una rete diffusa di strade agro-silvopastorali che, sostituendosi talvolta alle vecchie mulattiere, rischiano di deturpare in modo grave e non recuperabile i boschi, gli alpeggi e i manufatti tradizionali. Serviranno davvero tutte a salvare la montagna, proteggendo i versanti e agevolando la vita dei pochi pastori che ancora popolano gli alpeggi, o saranno l’occasione per un afflusso di massa di turisti interessati ad arrivare fin là dove l’auto lo consente? Sicuramente non invoglieranno l’altra tipologia di turisti, quelli che optano per la lentezza, il godimento della salita nel mutare del paesaggio,

di Adriana Baruffini*
TRIENNIO 2022-2024
Editoriale 4
Fioritura di crocus ai Piani di Artavaggio. Foto di Mauro Lanfranchi
5 Editoriale

la possibilità di fruire di forme di ospitalità semplici, la valorizzazione della natura, della storia e delle tradizioni locali.

Occorre ragionare molto per offrire alternative valide e sostenibili ai miraggi dei finanziamenti a pioggia, delle prospettive di Milano-Cortina 2026 e delle promesse elettorali. Una sfida culturale a cui non ci possiamo sottrarre se non rinunciando ai valori dell’andare per monti che sono elementi fondanti del Club Alpino Italiano. Su questi temi abbiamo avviato un

dialogo con le istituzioni. Spero di riuscire a creare anche nella nostra sezione una Commissione TAM come strumento di salvaguardia del territorio e promozione di cultura sulle tematiche ambientali. Non mancano certo nella nostra base associativa persone competenti, sensibili e volonterose: le invito a farsi avanti.

Facendo mie le parole di Pietro Lacasella (curatore su Instagram della rubrica Alto Rilievo) che, nell’ottica di promuovere un modello di turismo alpino sostenibile, suggerisce di iniziare a “raccontare meglio le montagne […] per presentare le Alpi sotto una luce meno ludica e più culturale”, ho pen-

Nella ricorrenza dei cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta all’ospedale di Milano il 28 gennaio 1972 all’età di 65 anni ben pochi si saranno ricordati di uno scrittore di eccezionale importanza e di rara sensibilità quale fu Dino Buzzati. Conoscendo la sua passione per la montagna, unita alle sue doti di buon alpinista, nel 1965 avevo osato interpellarlo per ottenere un suo articolo per “Rassegna di Montagna”, rivista curata dalla Sottosezione di Belledo del CAI di Lecco. Rimasi quasi allibito per la sua pronta risposta positiva, e mi sembrò di poter interpretare questa disponibilità come un segno di apertura verso Lecco, città piccola in sé ma enorme dal punto di vista alpinistico.

Il primissimo richiamo della montagna lo ebbi che ero bambino piccolo, sotto il Passo della Staulanza, in Cadore. Mio padre alzò l’indice e disse “Lassù ci sono le nevi eterne”. In cima al Pelmo, glorioso di sole si distinguevano infatti delle strisce bianche.

Con l’andare degli anni le montagne, e specialmente le Dolomiti, divennero per me – il motivo non saprei spiegarlo – la materializzazione della felicità umana.

La loro apparizione, quando d’estate rItornavo lassù da Milano, mi dava una inesprimibile emozione fisica.

Mi pareva che non ci fosse nulla di più desiderabile al mondo che salire su per quelle guglie e quelle bianche pareti.

il quinto grado, come secondo di cordata si intende. Certo, sono tra le cose più belle che io ricordi.

Che cosa mi ha dato la montagna?

Anch’io una volta ho tentato di stabilire una teoria in proposito: la montagna invita l’uomo a immedesimarsi nella sua suprema immobilità e quiete, per conquistare la quale occorre superare ardue prove. Nell’alpinismo insomma agirebbe, non riconosciuta per lo più, la oscura tentazione della morte.

Penso che non fosse una stupidaggine, però si prestava a molte obiezioni; che infatti ci furono.

sato di sovvertire l’abituale impostazione della nostra rivista per regalarvi nelle pagine seguenti un pezzo d’autore: uno scritto di Dino Buzzati “quasi inedito” e praticamente sconosciuto fuori dal ristretto ambito lecchese (era ignoto perfino ai curatori delle opere di Buzzati!) che fu pubblicato nel 1965 sulla nostra “Rassegna di Montagna” e che mi sembra bello e beneaugurante rimettere in circolazione proprio sulle pagine del nostro notiziario.

*Presidente CAI Lecco

All’epoca la nostra città e gli appassionati di alpinismo furono colpiti dall’onore riservatoci da uno scrittore di fama internazionale, che aveva donato ad una rivista locale l’articolo “Quando l’ombra scende” che riproponiamo qui.

Si tratta di una pagina di intenso significato, pubblicata nel 1965, sulla seconda edizione dell’Annuario “Rassegna di Montagna”: è certamente una pagina che si adatta ad ogni periodo temporale, con profonde riflessioni originate da esperienze vissute e sofferte.

(Renato Frigerio)

Per lunghe ore, alla sera, leggevo e rileggevo la guida del “Berti” (Antonio Berti, l’alpinista vicentino che introdusse la scala a sei gradi fra gli scalatori dolomitici n.d.r.) ricostruendo con l’immaginazione le scalate metro per metro.

Nello stesso tempo le montagne mi facevano paura; forse per questo me ne ero innamorato.

Se un ostacolo, una proibizione, un contrattempo mi impedivano di partire per una progettata ascensione, erano grandi scene di lacrime.

Per molti anni ogni estate sono tornato alle Dolomiti e sono salito su una quantità di cime. Purtroppo non sono riuscito a diventare un bravo alpinista, forse avevo troppa paura. Al massimo

Si è sempre detto comunemente che “in montagna l’uomo si sente più vicino a Dio”, che la montagna purifica, che gli uomini della montagna sono più buoni e generosi.

Personalmente non saprei sottoscrivere questi luoghi comuni. Anche il mare, anche i deserti “avvicinano a Dio”, ma sono tutt’altra cosa. E purtroppo anche in grandi alpinisti ho riscontrato le stesse meschinità che si ritrovano nella gente della pianura.

Le gioie che dà la montagna derivano da una quantità di motivi: il senso della natura, il gusto della solitudine e dell’inesplorato, la soddisfazione di sentirsi vivi e forti, di vincere se stessi, di superare la paura, l’ambizione di fare ciò che gli altri non sono capaci

“QUANDO L’OMBRA SCENDE”
Una pagina intensa dedicata da Dino Buzzati alla nostra “Rassegna di montagna”
Editoriale 6 7
di Dino Buzzati Autunno ai Piani di Bobbio. Foto di Adriana Baruffini

di fare, il conforto della pace e del silenzio, il fascino del mistero, ci vorrebbero pagine e pagine per dire tutto quanto, ammesso anche che uno sia capace di dirlo.

Sull’argomento, Samivel (scrittore francese, artista e cartoonist, 19071992, il cui vero nome era Paul GayetTancrède n.d.r.) ha costruito un ingegnosissimo trattato filosofico, e non è sicuro che abbia risolto il problema.

Una cosa per esempio mi domando: come mai a una certa età passa la voglia? È un fenomeno generale, che ha le sue rare eccezioni (le quali lo confermano).

Sono le forze cha fatalmente vengono meno? Certo, la diminuzione delle possibilità fisiche contribuisce. Ma non basta a spiegare.

Certe arrampicate, anche bellissime, costano meno fatica che non certi tours-de-force che si affrontano quando si va a sciare (e lo sci di pista, intendiamoci, quale si pratica abitualmente, non ha proprio niente a che fare con l’alpinismo).

È proprio lo stimolo interno che a poco a poco si dilegua. Si guarda una meravigliosa parete che una volta ci avrebbe fatto battere il cuore all’idea di potervi salire. E il cuore non batte più.

Ci si domanda perfino come mai una volta si aveva tanta smania.

Ma la questione, forse, è tutt’altro che astrusa.

Le montagne, ahimè, erano semplicemente la nostra giovinezza. E giovinezza vuol dire una strada che si perde dinanzi a noi nella lontananza senza fine, una distanza pressoché inesauribile, dove si immagina di poter

fare una quantità di cose, di diventare sempre più bravi, di arrivare ai più alti traguardi.

E quando la giovinezza finisce, la strada dinanzi a noi, per quanto si possa essere ottimisti, si accorcia spaventosamente. L’orizzonte non è più lontano come prima. Si può sperare ancora, certamente, ma sperare delle cose modeste. Se sono arrivato a fare, poniamo, il quarto grado, so per sicuro che il sesto, e anche il quinto, mi sono ormai negati per sempre.

Penso che sia proprio questa decurtazione delle possibili speranze che diminuisca, o addirittura abolisca la voglia. Al termine di ogni difficile scalata una volta esisteva, anche se in-

consapevole, l’attesa di future imprese sempre più dure. E questo sentimento teneva accesa la fiaccola.

Oggi non più. So anzi che, se continuassi a tornare in roccia, ogni anno inevitabilmente farei un passo indietro. Di stagione in stagione sempre meno. E allora? Non è meglio smetterla oggi, di mia propria volontà piuttosto che essere umiliato domani?

Copyright Eredi Buzzati, per gentile concessione. Published by arrangement with The Italian Literary Agency

Dino Buzzati, nato a Belluno, località San Pellegrino, il 16 ottobre 1906, è morto a Milano il 28 gennaio 1972. Scrittore e giornalista, è autore di vari libri: Bàrnabo delle montagne 1933; Il segreto del bosco vecchio 1935, Il deserto dei Tartari 1940, capolavoro che si ispira all’altopiano delle Pale di San Martino, in particolare alla zona dove sorge il rifugio della Rosetta; I miracoli di Val Morel 1971.

Dino Buzzati è stato anche pittore. Tra i suoi quadri, ricordiamo La Piazza del Duomo di Milano interpretata come una cattedrale dolomitica, tempera su olio, del 1958; Le crode dei Marden sotto la luna del 1969; Le guglie del Focobòn del 1971.

Nelle Dolomiti occidentali troviamo la Pale di San Martino, fra il Primiero e l’Agordino, che segnano il confine tra la provincia di Trento e Belluno.

Qui, nel 1977, è stato inaugurato un Sentiero Attrezzato come omaggio a Buzzati, tra il Sass Maòr e la Cima della Madonna.

Il percorso da Sud, con molte roccette e poco difficile, parte dalla località Piereni,- Malga Fosne, in Val Canali, denominato “Alta Via Dino Buzzati”, tra l’altro porta alla scoperta delle Pale, alimentata dalla proposta allettante di poter salire ben 7 vie ferrate.

Il Monte Sperone ha un bel sentiero escursionistico dedicato a Dino Buzzati, che dalla frazione Sospirolo, a circa 15 km da Belluno, porta alla cima. Questa vetta di 1261 metri si trova nelle Vette Feltrine – Prealpi Bellunesi, di fronte ai selvaggi Monti del Sole e al gruppo dolomitico della Schiara, che circondano la vallata del Piave.

(Renato Frigerio)

[Pubblicità Bellavite]

8
Dino Buzzati, una scheda

RI-SKI AMBIENTALI

La sfida dell’andare sui monti nel nuovo millennio di Sergio Poli

La grande sete

Già, ma perché quasi tutte queste gloriose stazioni storiche hanno chiuso? Semplice, lo sappiamo tutti: perché a bassa quota non nevica più. E nemmeno in alta quota ormai, come tristemente testimoniato dall’inverno 2021-22.

Oltretutto fa anche sempre meno freddo in inverno, quindi diventa difficile persino disporre della “neve programmata”, cioè della neve artificiale, ottenuta grazie alla scorta idrica accantonata in bacini artificiali creati appositamente. La neve, semplicemente, si scioglie.

fuori scala e ben più pesanti di quanto il delicato ambiente montano può sopportare. Già l’allargamento, anni fa, della vecchia pozza d’abbeverata situata sotto il rifugio Lecco, sempre a scopo di accumulo idrico per la neve artificiale, aveva avuto un certo impatto (ce n’era già un’altra verso la Valtorta); ora però, con l’ulteriore ingrandimento del bacino, e soprattutto con gli impressionanti sbancamenti effettuati per rimodellare un intero settore dell’altipiano a servizio delle piste da sci è stato decisamente

sconvolto l’ambiente, che in ogni caso non sarà più quello di prima. E questo nonostante le opere di ripristino che senz’altro verranno realizzate. Il meraviglioso anfiteatro dolomitico dello Zuccone Campelli rimane defilato, non interessa: dovrebbe essere palcoscenico privilegiato, invece è quinta, sfondo.

Un investimento fuori tempo massimo Certo, lavori di sistemazione sono finanziati da una Società che si assu-

L’incanto di Artavaggio senza piste, inverno 2021

Una passione, tante opportunità Chi, come il sottoscritto, ha avuto in sorte di nascere negli anni ’60 del secolo scorso dalle nostre parti, ricorderà senz’altro come fosse facile allora andare a sciare nei dintorni di Lecco.

I primi rudimenti venivano impartiti sul pratone dei Piani Resinelli (1300 m), dove funzionavano un paio di skilift e, quando si era un po’ più sicuri sulle gambe, si poteva ambire a prendere il più impegnativo Coltignone, che consentiva una sciata piacevole e di una certa lunghezza.

Una volta acquisita una buona autonomia di movimento si passava alla

stazione successiva, soliva e non difficile, di Artavaggio (1500 m), meta di numerose scuole di sci per principianti, anche perché comodamente raggiungibile in funivia.

Ancor più comoda per lecchesi, ma un po’ più tecnica, veniva poi la stazione dei Piani d’Erna (1300 m), a portata di mano anche per i non patentati, grazie all’autobus di linea e alla funivia. Piste brevi, ripide, esposte a nord e molto mosse, e per questo divertenti, cui si poteva accedere velocemente, anche dopo la scuola, per un piacevole pomeriggio… lontano dai libri.

Infine, si approdava ai Piani di Bobbio (1600 m), da sempre la stazione più completa, anch’essa servita da funivia, che offriva piste di differente difficoltà, in ambiente grandioso, ga-

rantendo una sciata di sicura soddisfazione.

C’erano ancora altre stazioni alternative a diversificare l’offerta, per tutti i gusti: il Cainallo, Paglio, Pian delle Betulle, persino Morterone, tutte situate sotto i 1500 metri di quota.

Ebbene, di tutte le stazioni sciistiche lecchesi oggi sopravvive solo quella di Bobbio, che infatti è presa d’assalto – quando ci sono le condizioni- da frotte di famelici sciatori orfani delle altre, e che non siano disposti a sobbarcarsi ore di auto, code, stress per poter passare qualche ora sugli sci.

Anche il Pian delle Betulle c’è ancora, con un’unica seggiovia raggiungibile in funivia da Margno, e funziona quando può.

Un tempo questi laghetti – molto più piccoli e artigianali degli attuali- venivano creati per abbeverare il bestiame in alpeggio, questione fondamentale soprattutto nelle Prealpi calcaree, dove l’acqua non rimane in superficie. Anche un tempo c’era bisogno d’acqua, e l’uomo aveva escogitato questo sistema semplice ma efficace per fare scorta del prezioso elemento.

Il senso della misura

Ma la differenza la fa la misura: l’uomo si adattava al meglio all’ambiente, cercando di trarne di che vivere con interventi a scala adeguata. Non così, se mi posso permettere, viene fatto oggi: è l’ambiente che si deve adattare all’uomo e alle sue esigenze, costi quel che costi.

Si sta parlando di un caso concreto e attuale, non si sta facendo – non è nostra intenzione - solo della filosofia da circolo ambientalista: ci si riferisce infatti agli interventi di “miglioramento” in corso ai Piani di Bobbio. Questi lavori in corso sembrano decisamente

Dall’alto: Bobbio novembre 2019, col primo laghetto; Bobbio 2022, il nuovo bacino ai Piani di Bobbio

10 Sentieri e Parole

me il rischio d’impresa per creare una stazione sciistica più rispondente alle esigenze dello sci moderno: impianti più capienti, più veloci e sicuri, con piste più lunghe e regolari. Non vengono spesi direttamente soldi pubblici, anche se in realtà il Pubblico finanzia opere complementari (parcheggi soprattutto): quello che viene speso qui è il paesaggio, prima vittima certa dell’opera, ma viene anche compromesso quel secolare equilibrio fra uomo e Natura che ha fatto la fortuna delle nostre montagne, e della Valsassina in particolare.

Gli alpeggi con i loro prodotti caseari hanno consentito per secoli la vita delle popolazioni locali, che hanno anche saputo esportare questa loro arte ben oltre i confini della Valsassina (Locatelli, Invernizzi, Galbani…). Bobbio è ancora un alpeggio, nonostante tutto, e anche uno dei più importanti della Valle, ma ce lo stiamo dimenticando, in nome di una rincorsa al turismo invernale che, come abbiamo visto, è sempre più a rischio. Già, possibile che non riusciamo a cogliere i segni dei tempi, il fatto che quel tipo di sfruttamento turistico è ormai superato, e l’investimento necessario è anzi destinato a perdersi? Erna, Cainallo, Resinelli non ci hanno insegnato nulla? E i ghiacciai che muoiono non ci suggeriscono niente?

A quanto pare Regione Lombardia finanzierà anche un restyling di Artavaggio -altro splendido alpeggio, ricordiamo - costruendo una seggiovia che agevolerà il rientro dalle (ex) piste verso la funivia. Ci eravamo ormai abituati a considerare quell’altipiano come un posto tranquillo dove passeggiare, ciaspolare (quando nevica…), fuori dalla confusione dello sci di massa, e invece si torna indietro di

vent’anni, ancora alla cultura dell’assalto alle piste.

Per concludere la tirata – si chiede scusa per il tono un po’ apocalitticosuggeriamo di guardare cosa avviene in altre località: Alta Valtellina, Livigno, Trentino-Alto Adige stanno puntando -oltre che sullo sci, che ancora possono permettersi - sulla bicicletta, che richiede anch’essa un certo investimento e ha un certo impatto, ma consente la famosa destagionalizzazione dell’offerta, oltretutto al riparo dalle bizze climatiche. Quel tipo di turismo leggero sta pagando alla grande: semplice, ma efficace e redditizio. Hanno capito che ormai è ora di pensare al “piano B“; possibile che noi non l’abbiamo ancora capito?

La montagna come un luna-park Si coglie qui l’occasione per allargare un po’ il discorso su come viene oggi fruita la montagna, soprattutto quella a portata di mano come le nostre Prealpi. É sotto gli occhi di tut-

ti il recente, importante aumento del numero di persone che frequentano monti, e la cosa potrebbe anche venire letta come positiva… se non fosse per il modo. Giustamente, gli Enti che sovrintendono al governo della montagna hanno cercato di attrarre le persone con iniziative e progetti più moderni e accattivanti, ma forse ora abbiamo un po’ passato il segno. Siamo sicuri che creare attrazioni in un ambiente così severo e nobile (passatemi il temine retrò…) come quello alpino sia il modo giusto per fare economia in montagna, e dare impulso al turismo? Ponti tibetani, passerelle-belvedere, panchine giganti, funivie notturne sono la proposta giusta per attirare le persone in modo consapevole? Non è un modo di svilire questo ambiente solenne e delicato, creando fra l’altro anche qualche problema logistico (traffico, inquinamento, rumore)?

É vero, con queste iniziative si è riusciti a portare ai monti persone che

prima, ai tempi dei pantaloni alla zuava e della lotta con l’Alpe, non ci sarebbero mai venute, tuttavia rimane un senso di disagio che non passa per la piega che sta prendendo la fruizione dei monti.

L’Europa, forse in modo poco comunicativo e con norme senz’altro complicate, ha cercato di tutelare l’ambiente in generale, e quello montano in particolare, con vincoli e regole per conservare quanto ancora di naturale è rimasto nel nostro affollato Continente.

Siamo convinti però che il turismo leggero, rispettoso e sostenibile (scusate, parola un po’inflazionata ultimamente) sia quello che, alla lunga, paga, potendo convivere con le pratiche tradizionali- che hanno funzionato egregiamente per secoli – consentendo anche un dignitoso ritorno economico per chi in montagna vuole continuare a vivere. Come sempre, è una questione di misura.

12 Sentieri e Parole
Dall’alto: La passerella aerea al Belvedere dei Resinelli; Lo sbancamento verso l’Orscellera, ai Piani di Bobbio Piani di Bobbio 2022: movimenti terra, Capanna Lecco, Campelli sullo sfondo

Ieri…

“Una discreta strada scendeva direttamente da Piazzo in testa alla Val Casargo a Tremenico svolgendosi lungo il versante sinistro del Varrone. Anziché varcare il torrente sul ponte (di Piarolo ndr) per Tremenico, si poteva da Piazzo scendere alle alpi di Lentree e da quelle passare a Tremenico, che sta di fronte, sopra l’alto ponte ben impostato e quindi non soggetto a crolli, o scendere, sempre lungo il versante sinistro della Valle, sino a Pianezzo sopra Dervio e da qui al borgo, sboccando nella piana presso l’antica chiesetta di San Quirico. Que-

Sentieri e Parole

IERI, OGGI E DOMANI

Fronte: Valvarrone occidentale di Raffaele Negri

sto percorso fu probabilmente il più antico tra ValCasargo e Dervio.”

Pietro Pensa, “Le antiche vie di comunicazione del territorio orientale del Lario e le loro fortificazioni” in Il sistema fortificato dei laghi lombardi in funzione delle loro vie di comunicazione Cairoli, 1977

C’era una volta, ma c’è ancora, una selvaggia vallona parallela alla linea dorsale delle Orobie Occidentali. Essa prende il nome dal Varrone, l’impetuoso torrente che per intere ere geologiche ha scavato la stretta V del suo alveo. Nei pressi del corso d’acqua i fianchi si fanno orribilmente ripidi tanto che la rigogliosa vegetazione, nata dalla sua favorevole disposizione da oriente ad occidente, vi sembra

appesa. Questa lunga e difficile Valle però è stata da tempo immemore calcata da piede umano allo scopo di raggiungere Piazzo, e quindi la Valtellina, dalla Bocchetta di Trona posta alla sua testata. Un astuto e difficile camminamento fu ricercato e poi steso sfruttando le naturali vulnerabilità e la maggior regolarità del Monte

Muggio rispetto all’ostilità dei dirupati fianchi del Legnone. Data l’importanza e la frequentazione di questo passaggio nacquero, al suo inizio ed al suo termine, le medioevali chiese dei Santi Quirico e Giulitta a Dervio e di Santa Margherita a Casargo. Pure il coevo Castelvedro, sorto a presidio del Lago, e le perdute torri di Piazzo e Somadino sembrano esser legate alla Via. Terminata l’importanza strategica la Via restò comunque una fondamentale arteria di comunicazione tra Lago e Valsassina; essa diede uno spunto alla futura permeante colonizzazione agricola di tutta la Valle, seguita all’aumento di popolazione e ai massicci disboscamenti della rivoluzione industriale. Gran parte del suo tracciato venne allargato e selciato, accomodato alle necessità del duro lavoro di montagna. L’Alpe di Lentree, a metà cammino, si ampliò con l’apertura delle vicine cave; il suo ponte e le sue mulattiere per Tremenico ed Avano portate a piena funzionalità e splendore. Per ultima, ad inizio del secolo scorso, sul versante opposto, venne la carrabile Strada Militare a servizio della Linea Cadorna; la quale, nel dopoguerra, accelerò il deflusso della vita della Valle altrove, verso le città e verso un futuro che si credeva migliore di quello che si abbandonava. Questa è una storia. Come lei ce ne sono molte; ma non le ricordiamo più.

sembrare anno dopo anno sempre più bianca. I toponimi si perdono irrimediabilmente e nessuno ricorda dove prendere e come seguire le antiche Vie. Molte si sono fatte estremamente difficili e recondite e l’antica Via Medioevale, oggi, grazie anche all’ampliamento dell’attività estrattiva in Lentree e ad una distruttiva piena in Valgrande, può essere tranquillamente considerata chiusa. Anche i paesi, serviti dalla strada, stentano a trovare pure la di-

senza; una cicatrice che, mi sembra giusto, almeno per la porzione più antica e ad oggi dismessa, potrebbe venir riconsegnata alla collettività. Da quel verde nulla, che ora sappiamo non essere affatto tale, potrebbero, anzi dovrebbero, ritornare storici ed interessanti itinerari escursionistici per raggiungere gli abitati di Tremenico ed Avano che tornerebbero, allora sì, a poche ore di intelligente cammino da Dervio, dalle superbe mulattiere dei suoi monti e dal celebre Sentiero del Viandante. Itinerari, questi, una volta recuperati e fatti tornare com’erano, di sicuro fascino per l’incomparabile bellezza di vedute e di incontaminata natura; forti soprattutto della loro potente ed autentica suggestione d’origine medioevale.

Tale zona e tali percorsi sono la vera chiave di volta di un’intera porzione di Val Varrone e l’unica possibilità d’una viabilità pedonale, lontana dalle sovraffollate cime, veramente alternativa agli automobilistici accessi tramite la fragile Strada Provinciale 67.

…oggi…

Il continuo mutamento di ogni cosa ed il moderno ripudio verso tutto ciò che costa o che ricordi una fatica lontana da logiche di sport e di guadagno hanno portato la carta di quei luoghi a

mensione di un’appartata e sorniona villeggiatura perché, almeno nei centri storici, i suggestivi angusti spazi e le classiche proporzioni mal si sposano con le necessità d’oggi. Le loro vie di accesso poi, così come quelle per le più alte località basi di partenza alle cime, soffrono irrimediabilmente di intrinseca mancanza di spazio. Tra tutto questo, la sinistra idrografica del Torrente Varrone rappresenta il sommo culmine dell’abbandono.

L’oscena ferita delle cave di feldspato sembra l’unico segno d’umana pre-

…e domani Nelle montagne risiede la nostra più preziosa ricchezza. I loro immensi spazi liberi ed incontaminati sono ormai gli ultimi di questo bellissimo pianeta, soprattutto alle nostre latitudini, dove riscoprire la nostra umanità tramite il profondo, ridimensionante ed arricchente, dialogo con la Natura. Ma se come i nostri vecchi, non possiamo esimerci dallo sfruttare queste bellissime montagne per il no-

14
Dall’alto: Scorci sul Legnone dalla perduta Via Medievale; Cave di Feldspato nei pressi di Lentree
15 Sentieri e Parole
Chiesa dei Santi Quirico e Giulitta a Dervio

stro sostentamento, cerchiamo di farlo tentando di esserne almeno alla Loro altezza. La profonda intima conoscenza del territorio, l’obbligato senso di rispetto e l’estrema dura umile necessità han permesso a quella gente di raggiungere soluzioni specifiche e funzionali per la propria vita. Queste nostre terre sono state, anche nei lembi più inaccessibili, teatro dell’unica dimensione autenticamente antropica della montagna. Ora, lungi da visioni nostalgiche e autocommiseranti, la risorsa più preziosa che posseggono risiede proprio nella loro storia umana di antichissime terre di passaggio e di confine, ricche del vastissimo campionario di saggezza e operosità popolare montanara. Una storia, anzi, la Storia; che va raccontata, passo dopo passo, per non dimenticarci chi siamo e da dove veniamo. Per tornare ad indicare agli altri, con il buon esempio, la strada giusta da seguire.

Ripudiamo quindi ogni affannosa rincorsa dietro ad idee di sviluppo irrimediabilmente superate e a modelli di “valorizzazione” posticciamente preconfezionati, agghindati ad arte per richiamare un avvilente turismo di massa. Dei nostri vecchi adoperiamo la fantasia con la stessa intelligenza, la stessa antica conoscenza e rispetto. Ci riapproprieremo così di questo sfuggente presente tornando ad amare le nostre Belle Terre; garantendoci un futuro ed onorando degnamente il nostro glorioso passato.

UCCELLI DEI PASCOLI

Il suono dell’estate nelle praterie di montagna di Gaia Bazzi*

Disegni di Raffaele Negri

Dalla foresta alla prateria

L’aria fresca del mattino che si fa strada nella faggeta asciuga il sudore della salita. È una giornata tersa ma all’ombra delle chiome è ancora piuttosto buio; sprazzi di sole danzano sui tronchi ricamati di licheni, si posano sui sassi muscosi, illuminano qua e là il tappeto di foglie, facendo risaltare i modesti fiori del sottobosco. Eppure manca poco all’aria aperta; il canto dell’allodola, appena udibile tra gli incessanti gorgheggi dei tordi bottacci e i richiami acuti dei rampichini alpestri e dei regoli, è un incoraggiamento a proseguire, avida di luce e di paesaggio.

Il passaggio dalla foresta alla prateria è brusco nella sua banalità: un ultimo albero e poi un vivido mare di erba brillante di rugiada, profumata, pungente. Nessun arbusto contorto, nes-

sun albero reso bonsai dalle intemperie ad indicare la linea invisibile dove il bosco si arrende alle difficili condizioni della montagna e cede il testimone a piante più umili e basse ma resistenti. Solo alcuni aceri sparsi, qualche rododendro ai lati di una vecchia pista da sci, una macchia di ontani verdi a spezzare la monotonia della prateria. Se si sa dove guardare, in questo limite abrupto si può riconoscere la mano dei nostri avi che, chissà quanti secoli fa, hanno tagliato e bruciato gli alberi per ricavare pascoli per il bestiame.

Vita selvatica e vita rurale, uno scenario antico

L’estate, qui, ha il suono delle molte specie di uccelli che hanno seguito la diffusione dell’agricoltura attraverso

l’Europa e si sono stabilite dove l’uomo ha creato habitat aperti a spese

della foresta. Il volo canoro di un prispolone termina sulla cima di un larice solitario; un canto flautato cattura la mia attenzione sui rododendri, dove brilla uno zigolo giallo; un suono ripetitivo svela una bigiarella nascosta nei cespugli; schermandomi gli occhi dal sole, riesco a scorgere un’allodola, altissimo puntino nella vastità azzurra del cielo, che reclama il suo territorio sovrastando campanacci delle vacche; una voce aspra mi indica la presenza di uno stiaccino, fragile bellezza che ondeggia su un’infiorescenza di bistorta. C’è anche molto da vedere: una coppia di averle piccole caccia insetti da un cespuglio di rose selvatiche. Gruppi di vociferi fanelli vagano sul pascolo in cerca di semi. Un merlo dal collare cattura lombrichi ai margini

16 Sentieri
e Parole
Dall’alto: Tremenico, dal Catasto Teresiano; Edicola votiva nel borgo alto di Lentree; Chiesa di Santa Margherita a Casargo
17 Sentieri e Parole
Fanello (Linaria cannabina). Foto di Roberto Brembilla

di un laghetto.

È uno scenario dal sapore antico, la vita rurale che si intreccia con quella selvatica in un equilibrio apparentemente senza tempo.

Il declino delle specie dei pascoli Purtroppo, però, le cose stanno cambiando velocemente. In pianura, il mosaico di campi bordati di siepi ha ceduto il passo alle monocolture, dove sopravvive solo qualche specie molto adattabile come la cornacchia grigia. Più in quota, il bosco sta prendendo il sopravvento, annullando il lavoro dei nostri nonni e sottraendo spazio a tutti quegli uccelli, ma anche insetti, erbe e altri organismi, che dipendono strettamente dagli ambienti aperti per sopravvivere. Sono due facce della stessa medaglia: le terre più produttive e facili da coltivare vengono spremute per ricavarne il massimo raccolto pos-

sibile; l’intensificazione agricola comporta un appiattimento del paesaggio e la scomparsa di tutti quegli elementi marginali che supportano la biodiversità. L’abbandono delle aree meno redditizie e più difficili da coltivare da un lato favorisce la riforestazione e, di conseguenza, le specie di bosco; dall’altro determina il drammatico declino delle specie dei prati e dei pascoli. Così, il cervo e il picchio nero, lo scoiattolo e il pettirosso, il lupo e la poiana ritornano con forza dove mancavano da tempo, mentre il re di quaglie e la bigia padovana scompaiono inesorabilmente. Questo processo è iniziato nel secondo dopoguerra, promosso anche dalle politiche europee di miglioramento della produttività agricola e da allora ha causato la diminuzione di numerose specie di uccelli. In alcuni casi, persino dell’80% in pochi decenni. Anche i cambiamenti climatici non

aiutano: con l’aumento delle temperature, il limite naturale della vegetazione arborea sta salendo velocemente, accelerando ulteriormente l’espansione del bosco e costringendo le specie di ambiente aperto a ritirarsi a quote sempre maggiori.

Torno a camminare, più in alto mi aspettano nuovi uccelli, altri incredibili adattamenti a quell’ambiente stupendo e difficile che è la montagna. Scendendo mi fermerò a comprare del burro e un po’ di formaggio. Un piccolo contributo all’economia locale, che fa bene anche alla Natura. La malga è gestita da gente giovane. Se tutto va bene, almeno qui, il canto della quaglia risuonerà per qualche anno ancora.

GLI SPLENDIDI FIORI DEL GENERE “DAPHNE”

Cinque specie protette sulle nostre montagne

di Annibale Rota

Dalla mitologia alla scienza

Accingendomi a descrivere le specie presenti sulle montagne lecchesi, devo anteporre una premessa mitologica relativa al nome dato ad un genere della famiglia delle Thymelaeaceae. Nella mitologia greca Dafne era una Naiade, Ninfa delle acque, talmente bella da far innamorare il dio Apollo.

Lei però rifiutò l’amore divino e cominciò a fuggire. Apollo la inseguì, ma quando stava per raggiungerla, Dafne chiese ai genitori, due divinità dei fiumi, di salvarla. Essi esaudirono la sua supplica e la trasformarono in un albero di alloro, sottraendola così alle brame di Apollo.

La vicenda è stata narrata anche dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi ed ha ispirato artisti famosi, scultori

come Gian Lorenzo Bernini e pittori come Gian Battista Tiepolo.

Il famoso scienziato svedese Linneo, autore della prima fondamentale classificazione botanica, visto che le foglie di un gruppo di specie assomigliavano a quelle dell’alloro, decise di chiamare “Daphne” il genere di quelle specie.

Sui nostri monti

Le Dafne alpine sono piccoli arbusti con fusti legnosi, hanno fiori profumati e frutti velenosi.

In Lombardia sono presenti sette specie, cinque sulle nostre montagne, tutte protette.

Praticamente su tutti i nostri monti è comune la Daphne mezereum L volgarmente chiamata “Fior di stecco”, perché i suoi rami sottili, prima delle foglie, si adornano di fiori di co-

lore rosso purpureo. Alto fino a 70 centimetri, questo cespuglio sale fino a 1.800 metri e fiorisce da marzo a maggio a seconda dell’altezza. I suoi frutti sono brillanti velenose drupe rosse.

Decisamente più rara è la Daphne laureola L. un cespuglio alto fino a 120 centimetri con foglie sempreverdi e fiori di colore verde-giallastro. Sale fin quasi a 1.000 metri e fiorisce da febbraio ad aprile. Personalmente l’ho vista e fotografata sulle pendici del Barro, sul sentiero che da San Tomaso traversa a Sambrosera e poco sotto Montalbano sui bordi di un sentiero dove, nei pressi di un cespuglio ben formato, ci sono anche alcune piccole

*Ornitologa Da sinistra in senso orario: Pascoli al Pian delle Betulle. Foto di Gaia Bazzi; Allodola (Alauda arvensis). Foto di Roberto Brembilla; Bigiarella (Sylvia curruca). Foto di Roberto Brembilla; Averla piccola (Lanius collurio). Foto di Roberto Brembilla; Zigolo giallo (Emberiza citrinella). Foto di Roberto Brembilla; Prispolone (Anthus trivialis). Foto di Roberto Brembilla
19
Daphne cneorum Sentieri e Parole

piantine.

Rara è anche la Daphne alpina L che ha fiori bianchi profumati di vaniglia. È un cespuglio alto fino a 100 centimetri con rami contorti. Sale fino a 1.700 metri e fiorisce da aprile a giugno. L’ho vista una sola volta sui Corni di Canzo, ma è data presente anche sulle Grigne.

Facile da vedere sul Moregallo, specialmente dal Sasso di Preguda all’an-

NON SOLO VERGELLA

Il lungo filo della transumanza a Lecco

tecima, ma rara altrove, è la Daphne cneorum L. (Dafne odorosa). È un mini cespuglio alto 10-20 centimetri con i fiori rossi molto profumati. Sale fin quasi a 2.000 metri e fiorisce, a secondo della quota, da aprile a luglio, formando cuscinetti, anche estesi, molto belli.

Preferisce le quote alte la Daphne striata TRATTINICK (Dafne delle rocce), che si attesta da 1.500 a 2.700 metri, sia su terreni calcarei che acidi, e fiorisce da giugno ad agosto. È un cespuglio minimo, alto 10-12 centimetri, con fusti legnosi e fiori rosso-porporini. Nel nostro territorio è presente sul Legnone, dove l’ho fotografata nei pressi della Porta dei Merli, e ad Artavaggio. La si trova anche in

altre zone delle Alpi e personalmente l’ho vista anche sul Piz Languard in Engadina.

Termino illustrando una dafne non presente sul nostro territorio, ma si tratta di un rarissimo endemismo con un areale limitato a poche montagne attorno al lago di Garda: la Daphne petraea LEYBOLD, che parecchi anni fa ho fotografato su Cima SAT, un monte affacciato sopra Riva del Garda. È un piccolo arbusto alto fino a 15 centimetri, che sale fino a 2.000 metri su dirupi calcarei e fiorisce da maggio a giugno con fiori roseo-rossi.

di Paolo Colombo

I bergamini, nomadi tra valli e pianura

La pratica della transumanza, inserita nella lista del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco nel 2019, sembra disgiunta dalla storia e dall’identità dei nostri territori, e invece fino agli anni ‘50 del ‘900 era una pratica diffusa e articolata su un sistema di luoghi e relazioni che si perdono nella notte dei tempi e di cui le prime tracce risalgono al 1400.

La gran parte delle famiglie rurali della Valsassina, come di gran parte dell’arco prealpino e alpino, vivevano con una o due mucche, un maiale e qualche animale da cortile, negli spazi ristretti di stalle e pascoli offerti dalla tradizione insediativa della montagna; le aree meno scoscese delle valli

erano coltivate a segale, orzo, grano saraceno, rape, fagioli, patate e mais in una parte dei prati che venivano a rotazione arati.

Bergamino diventava chi riusciva ad allargare la mandria a dieci, venti bovini, passando da un’economia di sussistenza a un’economia di produzione. Questi allevatori di montagna si trovarono a dover iniziare la pratica della transumanza per garantire una quantità di foraggio adeguata ai propri animali, dato che la produzione estiva di fieno non garantiva una fornitura sufficiente per superare il lungo inverno delle valli; avrebbero continuato a sfruttare pascoli e monti di proprietà nel periodo estivo.

La permanenza delle mandrie in pianura nei mesi invernali si tradusse in un arricchimento reciproco fra sistemi rurali diversi, e il ruolo del con-

cime organico (insieme alla presenza di risorgive, fontanili e vie d’acqua navigabili naturali e artificiali) sarà cruciale per l’affermarsi di un’agricoltura intensiva basata su rotazioni, che farà grandi le produzioni agricole della Pianura Padana.

I bergamini spiccavano nella scala sociale dei luoghi di origine, collocati ai vertici dell’economia locale come persone benestanti; al contrario in pianura venivano considerati spesso una sorta di zingari, in virtù dei loro continui spostamenti. Essi portavano avanti una pratica arcaica che nella prima metà del ‘900 si è incrociata con economie e stili di vita moderni: un modello di relazione con le risorse naturali antico, ma fino agli anni ‘50

Foto di Annibale Rota
20 Sentieri e Parole 21 Sentieri e Parole
Dall’alto in senso orario: Daphne mezereum; Daphne laureola; Daphne alpina; Daphne striata Immagine aerea del Vincanino di oggi. Da https://earth.google.com/

ancora conveniente e proficuo.

In molte aree i bergamini solevano abbandonare gli alpeggi dopo la festa di San Michele (29 settembre) per passare l’inverno in pianura, nel basso milanese, nel cremonese e nel lodigiano, tornando sui monti, spesso di proprietà, solo dopo la metà di aprile. A seconda del tragitto le carovane potevano viaggiare per oltre una settimana, coprendo distanze dai 50 ai 150 km e sostando spesso nelle piazze dei paesi o intorno ad alcuni cascinali che nel tempo diventeranno

Sentieri e Parole

tappe obbligate di questi lunghi viaggi.

Si stima che oltre 20 mila capi in 700-800 mandrie, accompagnate da più di 6 mila persone, si spostassero tra pianura e montagna ancora agli inizi del ‘900, generalmente a tappe di 20 km. I bergamini con grandi numeri di capi dovevano dirigersi verso la bassa pianura irrigua, dove le cascine avevano grandi stalle e grandi produzioni di fieno, quelli con mandrie più piccole, potevano fermarsi nella fascia di alta pianura e di collina tra Varese e Brescia.

Tra arcaismo e innovazione

A partire dal 1880, con il boom dei formaggi molli, la Valsassina conobbe

In alto: In una foto dei primi anni ’50, le marcite della Località Vincanino nel rione di San Giovanni alla Castagna viste dal tratto centrale di Via Cimitero.

Immagine di proprietà della Famiglia Colombo (Vincanino);

Qui a lato: Bergamini lombardi con il tipico carro dotato di centine per coprire il carico e la gimbarda appesa sotto il pianale per riporre oggetti particolari e persino i neonati Fotografia di Paul Scheuermeie, 1927, tratta da www.ruralpini.it

un’epoca di splendore, trasformandosi in un settore innovativo e propulsivo della moderna industria casearia.

In questo periodo si distinguono due flussi: da un lato i bergamini che scendevano ancora verso la pianura per la transumanza (anche se sempre più spesso molti di essi finivano per stabilirsi nella “Bassa” divenendo agricoltori o contribuendo alla nascita di industrie casearie su scala industriale); dall’altro lato, sempre più formaggio prodotto in pianura anche dagli ex bergamini, veniva portato in Valsassina per la stagionatura nelle grotte naturali, dove la temperatura costante e molto bassa, rappresentava l’unica garanzia per prodotti di qualità.

Così si innescò il commercio internazionale di formaggi quali il gorgonzola, che portò ditte milanesi, codognesi, piemontesi e anche lecchesi a realizzare grandi casere in Valsassina e non solo; i nomi dei marchi delle industrie casearie più note, sono tutti

di famiglie di origine bergamina come Galbani, Invernizzi, Cademartori, Mauri. Ad esempio, a Melzo nel 1906 sorgerà, per opera di Egidio Galbani, il primo stabilimento caseario con impianti moderni, in una posizione strategica per le vie di comunicazione, ma anche perché storicamente terra di passaggio di molti bergamini, data la fertilità e la ricchezza d’acqua dei suoli.

Il “Vincanino”, memoria lecchese della transumanza

L’evoluzione vorticosa che ha subito

di pianura. Valicato il Ponte Azzone Visconti, prendevano la direzione di Lecco, poi quella dell’attuale Corso Matteotti, attraverso il centro del Rione di Castello imboccavano l’attuale Via Mentana, lambendo di fatto prati del Vincanino

Gli anziani raccontano di giorni frenetici, dove a rotazione centinaia di animali e grandi numeri di persone si assiepavano per tutta Via Mentana, Via Carlo Mauri e risalivano Via Cimitero e Corso Matteotti. Un’attesa paziente, destinata a provocare non pochi dissapori con i molti operai delle officine che quotidianamente usavano questa strada, la più trafficata, per raggiungere i rioni alti della Valle del Gerenzone. Possiamo credere che questa località fosse da innumerevole tempo usata

del Marchese Serponti, poi dall’800 nelle grandi proprietà della famiglia Sala che da qui si estendevano oltre il Seminario di Castello. Nel 1911 divenne affittuario Enrico Colombo della Cuntrada” di San Giovanni, padre di Elviro ed altri figli, i quali seguirono in parte le attività agricole e di allevamento, in parte quelle di produzione e commercio di legna e carbone negli spazi del “Conventino” di Castello.

Quelli che oggi sono proprietari dell’antica cascina di Via Plinio e

Pubblicità Galbani Bel Paese 1925, si noti il volto dell’Abate Antonio Stoppani, autore de Il Bel Paese nel 1876 e primo presidente della nostra sezione nel 1874. Da curiosando708090.altervista.org

la città di Lecco, lo sviluppo dell’industria e l’esplosione dell’urbanizzato, rendono incredibile parlare di Lecco come città di transumanza e di mandrie. Ebbene fino agli anni ‘50 del ‘900, Lecco ha rappresentato uno dei valichi obbligati per quanti transumavano dalla pianura alle valli e viceversa. Lecco ed in particolare la località Vincanino del Rione di San Giovanni alla Castagna rappresentava il punto in cui terminava l’ultima tappa del lungo viaggio dalla Pianura e aveva inizio la salita verso i pascoli della Valsassina.

Le molte mandrie lasciavano Airuno, penultima tappa della transumanza

Il viale di accesso da Via Mentana, percorso lateralmente da una derivazione della Fiumicella che permetteva l’irrigazione costante delle marcite. Foto di Paolo Colombo

come zona di sosta, per la ricchezza

d’acqua, le dimensioni notevoli degli stalloni, nonché per la presenza di prati irrigui, che grazie al sistema delle marcite garantivano erba dalla primavera precoce al tardo autunno. L’origine del toponimo Vincanino è poco limpida, di certo si sa che nei primi decenni del ‘700 era nelle proprietà

Immagine aerea dell’ex “Convento degli Zoccolanti” di Castello, dove nell’ala destra aveva sede la Ditta “Fratelli Colombo - legna carbone” negli spazi del “Conventino” di Castello.

Da: https://earth.google.com

di quel poco che resta della grande tenuta, sono nipoti di quell’Enrico Colombo che scese dalla località Cuntrada” di San Giovanni, attuale Via Rusconi, nel 1911, come affittuario della famiglia Sala: sono loro la fonte diretta della storia che qui si vuole raccontare.

Ogni spazio disponibile era sfruttato per depositare i grandi carri da pianura, non adatti alle impervie e ripide strade di montagna, carri sui quali veniva trasportato ogni genere di bene

22
23 Sentieri e Parole

che sarebbe servito alla famiglia di bergamini per tutta la stagione estiva. Si racconta, come la chiesa sconsacrata ed oggi non più esistente, parte dell’ex “Convento degli Zoccolanti”, detto “il Conventino”, venisse riempita di questi carri, poi ripresi in autunno per il viaggio verso la pianura.

Come già detto, lunghe code di animali affollavano Via Mentana, in attesa di valicare il viale di accesso alla cascina. Una volta entrati, gli animali si abbeveravano alla grande fontana tutt’ora esistente e ad altre vasche predisposte per quelle settimane; la mandria poteva riposare per qualche tempo nelle stalle dove le vacche venivano munte e sfamate. Terminato questo tanto atteso “pit stop” la carovana poteva prendere la strada per la Valsassina e aveva così inizio la stagione estiva; l’autunno si percorreva il cammino inverso fino al ritorno nei

grandi “stallazzi” di pianura.

Una storia che si arricchisce di aneddoti, narrati nel tempo dagli anziani del Vincanino che all’epoca delle ultime transumanze erano poco più che ragazzi. Si racconta ad esempio di quella volta che una grande mandria proveniente dalla bergamasca e guidata da un solo e temerario uomo detto Giuan “Cua” e dai suoi fidati cani, venne spaventata dalle liti tra i suoi cani pastore e quelli dei residenti di Pescarenico, per cui decine di manzette presero a correre in tutte le direzioni.

Qualcuno corse al Vincanino per cercare aiuto, ma gli animali scapparono per tutta la città ed il giorno seguente i più lontani furono ritrovati sulla ferrovia ad Abbadia Lariana. Una tragedia fu inoltre sfiorata: infatti, poco prima del passaggio della mandria impazzita davanti al Teatro della Società, centinaia di persone erano appena rincasate dopo lo spettacolo serale.

Molte sono le storie, gli aneddoti e le curiosità che si ricordano di quel tempo ormai lontano, tra le tante si vuole riportare il nome di qualche berga-

mino che passava abitualmente per il Vincanino fino agli anni ’50: Ambrös e Giuan detti “Briscola”, Giovanni Invernizzi detto “Gepo”, “Romanel” Valsecchi, Innocente Locatelli detto “Cent”, la Famiglia Maroni di Primaluna, Ambrös detto “Pelu” di Morterone che passava l’inverno a Fara D’Adda, Marco detto “Gatelèt” e altri ancora.

I Somaini e l’ultima transumanza ferrata

Negli anni ’50 divenne gradualmente poco sostenibile la pratica della transumanza in territori sempre più urbanizzati e moderni. Per qualche anno si continuò questa pratica secolare sfruttando le strade ferrate, grazie alle quali potevano giungere a Lecco mandrie provenienti anche da molto lontano. E’ il caso delle mandrie della famiglia Somaini, negozianti di tessuti di Como, poi fondatori nel 1893 del grande Cotonificio di Lomazzo: famiglia di industriali, parte dei quali decisero in epoca fascista di andare ad investire nelle terre bonificate dell’Agro Romano, dove la grande disponibilità di spazio e forme di agricoltura e allevamento moderni permisero la fioritura di un redditizio allevamento intensivo di manzi.

La Tenuta Somaini era una proprietà fondiaria di 600 ettari, colonizzata da

90 famiglie venete e non solo, estesa sui due lati della Via Portuense a ridosso dell’attuale Raccordo Anulare; si esercitava la coltura del latifondo (grano e ortaggi) e l’allevamento di bovini da latte e da carne. La società venne sciolta nel 1954.

Il legame con la Valsassina era forte in quanto la famiglia Somaini, nella figura dell’Amministratore rag. Gino Larghi, aveva incaricato Giuseppe Locatelli quale bergamino di fiducia. Lo spostamento dei capi dall’Agro Romano a Lecco avveniva già su strada ferrata durante gli anni della guerra, e proprio sul finire di questa accadde un episodio che di seguito si vuole raccontare.

La guerra era alle battute finali, il pericolo di bombardamento delle linee ferroviarie era più che mai elevato e fu così che capi dei Somaini dovettero fermarsi per più di una settimana al Vincanino perché appunto le linee ferroviarie per Milano e il centro Italia erano interrotte. Possiamo immaginare che trovarsi a sfamare d’improvviso più di 120 manzette non dovesse

essere attività da poco, tutto il fieno prodotto nei mesi precedenti si stava consumando.

Il rag. Larghi avrebbe certo pagato qualsiasi cifra per il benessere degli animali che amministrava, e così non fu difficile convincere qualche parente di Varigione che faceva fieno magro per i conigli nelle selve del “Simunàsc” (Montalbano) a liberarsi delle scorte invernali: il prezzo pagato superava di gran lunga il valore stesso di fieno e animali.

I Somaini caricavano le bestie su vagoni ferroviari, giungevano alla “Piccola” per riprendere il secolare tragitto che passava dal “Vincanino”. Si racconta di come alla lo scalo ferroviario si vivessero momenti di caos dovuti all’incrocio di mandrie di vacche con i carri e poi con i primi motocarri carichi di vergella o di prodotti delle tante minuterie metalliche e trafilerie, sparse ormai non più solo lungo il Gerenzone. Si racconta di come la miseria del dopoguerra portasse a liti tra i lavoratori dello scalo per chi sarebbe riuscito ad accaparrarsi un po’ di paglia pulita

o di letame, lasciati nei vagoni dopo il lungo viaggio dalla campagna romana. Le mandrie passavano l’estate nei monti di proprietà dei bergamini o in altri presi in affitto sempre in Valsassina, come quelli verso la Culmine di San Pietro e oltre, in località come Musciada” e “Redundèl” intorno ai 1300 – 1400 metri. Finita la stagione ai monti e fatto il consueto passaggio per il Vincanino le mandrie riprendevano la strada ferrata verso sud, tenendo viva anche se con mezzi più moderni una pratica secolare che univa uomini e animali nella costante ricerca di cibo.

Una storia diversa è quella della transumanza ovina, che negli ultimi anni è tornata a farsi vedere per le vie della città, una storia non certo recente, ma che tendeva a nascondersi, attraversando la città di notte, quasi di nascosto.

Negli ultimi anni invece pare esse-

Fronte sud dell’ex Convento degli Zoccolanti con la sagoma dell’abside della chiesa non più esistente, complesso costruito nel 1530 da Giacomo de Medici detto il Meneghino Foto di Paolo Colombo
24 Sentieri e Parole
La storica fontana del Vincanino che utilizza ancora le acque della Fonte Resica ex Proprietà Sala, oggi localizzata nel Parco di Via Tirabagia, nel quartiere di San Giovanni. Foto di Paolo Colombo
25 Sentieri
Francesco Somaini, fondatore del Cotonificio di Lomazzo nel 1893, oggi con grande cura ristrutturato e adibito a funzioni terziarie e residenziali Immagine tratta dalla pagina Facebook “Archeologia Industriale a Lomazzo-Cotonificio e Villaggio Operaio”
e Parole

atteso dai tanti che si dispongono lungo il tragitto dal Ponte Vecchio a Montalbano per vedere il passaggio di oltre tremila pecore. Un’attività favorita dallo spopolamento delle montagne e dalla crescita delle superfici di pascoli bovini incolti.

Le greggi alle quali una volta era permesso il pascolo solo nei terreni brulli e incolti inadatti anche al taglio del fieno più magro, oggi possono più liberamente pascolare le pendici erbose ai piedi delle Grigne o dei Piani di Artavaggio. Protagonisti di questa transumanza più recente sono i componenti della famiglia Galbusera, una famiglia appassionata che vive ancora in relazione ai bisogni dei propri animali, la cui storia potrà essere narrata in un prossimo numero.

Conclusione

Un racconto, quello della transumanza a Lecco che emerge come una delle tante facce dimenticate del passato della nostra città, forse un monito ad avere più cura della nostra memoria, raccogliere i ricordi dai nostri anziani, per guardare con occhi diversi gli spazi che attraversiamo tutti i giorni.

Poche righe per provare a dare onore a generazioni di uomini e donne, vissuti nella fatica e nel sacrificio, in simbiosi con la terra e le risorse naturali, con il primario obbiettivo della sopravvivenza.

Conoscere chi siamo stati, per comprendere molte delle ragioni del nostro vivere nella contemporaneità, assicurandoci un futuro, quanto meno di maggior consapevolezza.

e Parole

LA CHEMISE BLANCHE

Nel lontano 1960, alla Cabane du Montet (racconto del marzo 2020)

di Mario Bramanti

Con un mio antico collega di lavoro, appena appena maggiore di me, una bella famiglia, una bella casa, posizione tranquilla, con cui ho lavorato gomito a gomito da tutti gli anni sessanta a quasi tutti gli ottanta, e con il quale i percorsi si sono in seguito divisi, ho riallacciato i contatti alcuni anni fa inviandogli qualche mia raccolta e poi alcuni miei racconti sciolti. Si è fatto un mio attento lettore, e dal suo splendido eremo del Montorfano mi spedisce i suoi commenti. Sono soprattutto rivolti ai miei scritti di contenuto più tecnico, dove mi espone il suo punto di vista che coincide quasi perfettamente col mio, entrambi risa-

lendo a certa sana teoria e a criteri di buon senso progettuale e costruttivo che sono rimasti gli stessi e che valevano per noi tanti anni prima. Mostra di apprezzare anche i miei racconti di montagna, che in verità, proprio di montagna non sono, ma semplicemente la narrazione di particolari episodi e sensazioni che durante quel mio andare per monti successero.

Ricordo invece che “ai tempi” mi mostrava talvolta un certo pacato rimprovero per certe mie mani massacrate, certe mie scottature sul volto, certi rientri strepenati del lunedì. Recentemente, in una di quelle sue poste mi faceva notare il diradarsi nei miei racconti dell’argomento “montagna” rispetto a quelli di contenuto generale

o di cronaca o di commento a certi eventi odierni.

Naturalmente ha colto nel vero, e la risposta che intendo mandargli è l’unica che ritengo plausibile ed è quella che intendo rivolgere anche a me stesso.

Per raccontare di montagna, in montagna bisogna andarci. Ed io, già da diversi anni ho cominciato ad andarci per gioco; ultimamente, e si può ben capire, a non andarci quasi più.

Solo per tirare alcuni esempi e senza la minima idea di formare confronti,

re
evento
un
26 Sentieri
Alcune pagine del quaderno dei conti del Vincanino sul quale è riportato quanto era dovuto per la permanenza della mandria del Somaini. Foto di Paolo Colombo
La Cabane du Montet, 2886 m, alta valle di Zinal, Vallese
27
Sentieri e Parole

se mai per trarne ispirazione, penso qui a È buio sul ghiacciaio dove Hermann Buhl racconta dal noviziato alla tragica fine, la sua carriera di immenso alpinista; a I giorni grandi o a Le mie montagne con le più prestigiose imprese raccontate in diretta da Walter Bonatti; alle 342 ore sulla parete nord delle Grandes Jorasses dove Renè Desmaison riporta della sua terribile avventura su quella montagna; a Peter Boardman e alla sua Montagna di luce il Changabang; alla Morte sospesa di

seppero corredare le loro relazioni alpinistiche con una narrazione di alto livello emozionale, con preziose informazioni sulla storia, sulla geopolitica, sul clima e sull’orografia di quelle loro montagne. Pensando questa volta a George Mallory, Giusto Gervasutti, Spiro Dalla Porta Xidias, Reinhold Messner, Kurt Diemberger, Reinhard Karl, Silvia Metzeltin, Bianca di Beaco, ...Dino Buzzati, e dimenticandone altri cento.

o al momento immediatamente successivo hanno coperto la precarietà di situazioni anche pericolose.

Dunque, per fare seguito a queste considerazioni e dare risposta alla sommessa domanda di quel mio vecchio collega, lontano nel tempo e nei luoghi ma vicino nella memoria e nel cuore, ecco questa mia nuova pagina che nasce, appunto e guarda caso, da uno di quei ricordi legati alla mia passione per la montagna.

verifica delle strutture di una gru in corso di costruzione, un po’ perché mi teneva d’occhio per il prossimo futuro, un po’ per sgravarsi di un noioso lavoro. Era un tipo stravagante e particolare, rustico e duro che non insegnava niente se non con l’esempio.

Ma bastava saperlo guardare con l’occhio giusto per imparare: era ingegnere anche in montagna, nell’arrampicare, nello sciare fuori dalle piste, nella preparazione fisica, nella scelta dei materiali, nel progettare e nel realizzare le sue uscite.

Quell’anno, la combriccola aveva programmato per la settimana delle ferie la permanenza alla Cabane du Montet, 2886 metri, nell’alta valle di Zinal, in Vallese. Paradiso delle scialpinistiche di tarda primavera e base di partenza per le salite estive, dalle più semplici come il Mont Durand, il Trifthorn, la Wellen Kuppe, alle più complicate pareti e creste dello Zinal Rothorn, del Besso, dell’Ober Gabelhorn, della Dent Blanche. Eravamo saliti lassù in una dozzina.

per un tempo minore (!). Oggi quell’itinerario è stato totalmente variato: troppo instabile il sempre più affilato filo della morena, troppo pericoloso, d’estate come di primavera, passare sotto il ghiacciaio del Gran Cornier.

Oggi, alla fine della piana iniziale si sale per il ripido pendio di sinistra fino a prendere una lunga traccia, in parte scavata e protetta artificialmente che corre sotto le pendici del Besso a una quota di 2700 metri circa, alla fine della quale, con un ultimo saliscendi, si perviene alla Cabane.

Joe Simpson; a Stelle e tempeste di Gaston Rebuffat. A tanti fortissimi alpinisti del passato che aggiunsero al racconto del loro grande alpinismo, importanti riflessioni su tutto il lavorio interiore che di quel grande alpinismo stava alla radice. Ad altri ancora, meglio attrezzati in materia di scienza, di storia, di filosofia, di letteratura, che

Io, che mi sono dovuto accontentare di un alpinismo più limitato per qualità e quantità, e che neppure sono un vero scrittore, ho preferito virare sulla narrazione di episodi, su considerazioni collaterali, su ricordi di momenti speciali, semplici o complicati, che di quel mio alpinismo hanno fatto parte, evitando di entrare in descrizioni esagerate per cose normali, che facilmente scadono in retorica o in autocelebrazione. Episodi semplici, a volte buffi di cose che al momento

Correva l’anno 1960 ed erano i tempi del mio noviziato. Tenevo nell’ambito della compagnia i miei precisi punti di riferimento e cercavo di imparare il massimo da loro, e quelli già mi avevano preso in buon conto e qualche volta mi avevano già portato appresso in montagna. Uno di questi era il Giuseppe; con lui tenevo un’amicizia diversa e cominciavano a correre anche rapporti professionali: ingegnere affermato lui, studente d’ingegneria in dirittura d’arrivo io, mi aveva impegnato in certi calcoli di stabilità e di

Si lasciavano le automobili poco dopo Zinal, a 1800 metri circa di quota. Si percorreva un lungo e noioso fondovalle pianeggiante fino a montare sopra il lunghissimo filo, destro alpinistico, della morena del ghiacciaio di Zinal, poi si traversavano in mezzacosta ascendente ripidi pendii nordorientali di base del Gran Cornier, e a quota 2600 circa si traversava a sinistra il ghiacciaio, raggiungendo le balze di terra e di roccia sotto il rifugio. Sono mille e duecento metri di dislivello su una lunga distanza. Avevamo tutti pesantissimi zaini, e qui nacque la teoria secondo la quale più svelti si andava meno fatica si faceva (?) nel senso che si teneva in spalla il sacco

Era originale, direi geniale, il Giuseppe, nella pratica dell’allenamento, e anche nelle abitudini alimentari, e nel vestire. Si faceva confezionare da non so quale sarto, certi pantaloni di tela grossa che non erano alla zuava e nemmeno aderenti, con un lungo elastico alla caviglia ed un tascone laterale sulla gamba sinistra per il martello, perché lui era mancino; indossava sempre una camicia bianca, maniche lunghe, collo abbottonato, arrampicando o sciando che stesse. Ma anche andando al lavoro, in treno e in ufficio, quella, si capisce, lavata e stirata a puntino tutti giorni.

Così, quella sera: si doveva essere verso la fine dalla vacanza, le salite più importanti in programma erano state fatte, e si era tutti un po’ stanchi, logori, piuttosto sporchi, alla fine delle scorte portate da casa. Mentre tutti noi, camicioni scozzesi pesanti e bisunti o maglioni, si aspettava la “souppe” che il capannaro passava dalla cucina, mentre anche gli altri ospiti, svizzerotti di lingua tedesca o francese aspettavano la stessa cosa all’incerta luce delle lampade a gas, il Giuseppe, con la sua bella camicia bianca abbottonata, aveva portato in cucina una sua

confezione speciale di ravioli al sugo di pomodoro in scatola, perché venisse riscaldata sulla stufa. Anche il capannaro e il suo staff, rinforzato per il periodo, guardavano con curiosità quel nostro compagno, in particolare un ragazzotto grosso e rosso addetto al servizio ai tavoli, forse un po’ semplice e impiccione, lo guardava da giorni con una punta di soggezione. Fu pronta la cena e venne portato al nostro tavolo una grande zuppiera fumante, e su un vassoio metallico la scatola bollente di ravioli del Giuseppe. Il ragazzotto-inserviente tirava in lungo curioso e impertinente. C’era nella sala un’ilarità sommessa e diffusa. La brodaglia fumava nelle nostre scodelle mentre il Giuseppe, ancora in piedi davanti al suo posto armeggiava con l’apriscatole ai suoi ravioli. D’un tratto un terribile schizzo di sugo rosso lo investì in piena faccia e sulla camicia. Forse qualche schizzo avanzò per chi gli stava di dietro o accanto. “...La chemise blanche, ...la chemise blanche!...” ripeteva ad alta voce il ragazzotto, e pareva che se lo fosse aspettato. L’intera sala si mosse a guardare ridendo curiosa, al nostro tavolo non dico, e anche il Giuseppe rise di gusto. Poi si fece più serio, guardò come sapeva fare lui il ragazzotto che continuava a ridere indicando con l’indice la sua camicia, trasse di tasca una buona porzione di carta igienica, ne portava sempre con sé, la distese ben bene e reggendola con la sinistra, gli fece con la destra e senza parlare quell’eloquente gesto, come di andare... “anda”. Facile per tutti intuire dove intendesse. Poi si pulì accuratamente il volto e cominciò la sua cena.

28 Sentieri e Parole
I fumanti ravioli al sugo del Giuseppe
29 Sentieri
Disegni di Paolo Colombo e Parole

RICORDO DI STEFANO VIMERCATI

Per decenni una presenza costante e operativa nella vita del CAI Lecco

Stefano con la moglie Fausta festeggia i 20 del gruppo Sci di Fondo al S.Martino nel 2009

di Adriana Baruffini

Stefano Vimercati ci ha lasciato il 10 maggio 2022 all’età di 88 anni.

E’ una figura che quanti hanno frequentato la sezione a partire dagli anni Settanta devono per forza avere presente, non solo e non tanto per gli incarichi istituzionali da lui svolti in più mandati come vicepresidente e consigliere, ma anche e soprattutto per la continuità della sua presenza in ogni momento della vita della sezione. Al CAI Lecco Stefano si è dedicato con intelligenza e passione, occupandosi sia dei problemi più complessi che

della quotidianità: la sede era per lui una seconda casa, la frequentava ogni giorno e si teneva informato su tutto, padroneggiando la segreteria e l’archivio fino a diventare un’imprescindibile memoria storica.

Ma non era solo un uomo dedito a compiti d’ufficio, amava anche molto andare in montagna.

Finché le condizioni fisiche glielo hanno consentito, ha partecipato alle attività escursionistiche, dalle gite sociali alle settimane verdi di Santa Fosca, e per oltre 30 anni ha profuso un grande impegno nella sua disciplina preferita, lo sci di fondo escursionismo, per dare una struttura alla Scuola e al gruppo di appassionati che ancora vive sulle solide basi da lui poste. Si può dire che lo sci di fondo, con una progressiva riduzione della lunghezza

e della difficoltà dei percorsi, Stefano è riuscito a praticarlo fino agli ultimi anni di vita attiva. Quando poi è stato costretto a smettere, sul pullman del sabato è mancato a lungo il suo “Buongiorno” che dopo circa un’ora di viaggio destava i partecipanti dal torpore del precoce risveglio per informarli sul programma della giornata, ogni volta definito in ogni particolare.

Moltissimi i messaggi che mi sono pervenuti dai soci fondisti alla notizia della scomparsa di Stefano. Messaggi che parlano di sensibilità, disponibilità, gentilezza, generosità, schiettezza, attenzione ai bisogni di tutti. Messaggi che esprimono affetto, stima e gratitudine.

Nella lettera di condoglianze alla famiglia ne ho riportati alcuni, inviati da persone che per un maggior numero di anni avevano condiviso con Ste-

fano l’amore per le piste di fondo. Mi piace riportarli anche qui, certa di interpretare il pensiero e i sentimenti di quanti altri in ambito CAI hanno avuto la fortuna di trovare questa persona sul loro cammino.

“La scomparsa di Stefano mi lascia orfano di una persona che ho sempre ammirato e con la quale mi intendevo alla perfezione. Di lui mi mancheranno i commenti pratici, la schiettezza e la sincerità. Resterà nel CAI il ricordo di un uomo intelligente che si è speso con passione per tutti, con amore particolare per i soci dello sci di fondo, al quale teneva molto” (Domenico Pullano)

“Quando ho saputo della morte di Stefano ho sentito dolore. Un dolore profondo come non ricordo per la morte di un amico. Un rapporto di stima reciproca, di amicizia e anche di affetto ci legava, dopo tanti anni di sci di fondo insieme. Porgo le mie sentite condoglianze alla famiglia e alla

Signora Fausta che mi riprometto di incontrare quando sarò sicuro di non dover essere io consolato (Massimo Di Stefano)

La morte di un amico è sempre una mutilazione di qualcosa di noi. Stefano, sei stato parte della nostra vita fin dal quarto corso di Sci di fondo. Guida premurosa, preciso e attento a ogni dettaglio organizzativo nell’attività CAI e pure alle esigenze personali. Ci avevi abituati ai tuoi comunicati scritti a mano in perfetto stampatello corsivo, segno di ordine mentale frutto di una cultura rispettosa dell’altro. Ci sentiamo vicini a Fausta, paziente segretaria quando ci si permetteva di disturbarti pure a casa. Grazie ancora Stefano, hai lasciato una profonda traccia del tuo passaggio” (Chiara e Raimondo Brivio)

Se l’emozione suscitata dalla scomparsa di Stefano nel mondo CAI è stata profonda, è doveroso ricordare che il lutto ha coinvolto in modo diffuso la comunità lecchese. Era infatti

noto a tutti l’impegno di Stefano a favore della Fondazione Enrico Scola di Lecco, di cui era stato presidente dal 2001, sostenendo progetti e attività a favore di persone bisognose. Proprio per il suo impegno nel mondo del volontariato, dello sport e dell’assistenza, il Comune di Lecco nel 2019 gli aveva conferito la benemerenza civica. Mi piace chiudere questo ricordo con un richiamo alla lunga vita lavorativa di Stefano presso le Officine Badoni di Lecco dove si era impegnato fra l’altro nell’ambito della scuola aziendale. Una storia da lui raccontata in un’intervista raccolta nel 2019 dal Politecnico di Lecco in occasione della mostra “Un archivio in-vita. Famiglia e lavoro nelle carte di Giuseppe Riccardo Badoni”.

31 Personaggi

30 Personaggi
Val Pusteria 2011: da sinistra Mimmo Pullano, Giacomo Piazza, Stefano e Paolo Piazza Foto di Chiara Spinelli

GIORGIO REDAELLI, PERSONAGGIO INDIMENTICABILE

Sono tante le vie di arrampicata legate al suo nome

tivi, non ha esitato a mettere nel conto rischi, sofferenze e insidie di ogni genere.

Dalla Grigna alle grandi montagne delle Alpi

Giorgio Redaelli era nato il 30 luglio 1935 a Molina, frazione a monte di

ha anche l’opportunità di conoscere a fare amicizia con i grandi dell’alpinismo che frequentano le Alpi. Con alcuni di loro riesce anche ad effettuare importanti ripetizioni di vie lunghe ed estremamente difficili sulle imponenti pareti del Monte Bianco, dove nel 1956 inserirà il suo nome insieme a quelli di Cesare Giudici, Dino Piazza e Carlo Mauri nella prima ripetizione della via Bonatti sul pilastro Sudovest al Petit Dru. Ancora qui, nel 1957, insieme a Partini guadagna la prima ripetizione della via Rébuffat all’Aiguille de la Brenva, e la prima ripetizione, con Giuseppe Conti, della via Ottoz all’Aiguille Croux.

La passione per la Civetta

di Renato Frigerio

Si va inesorabilmente riducendo al lumicino l’invidiabile schiera degli alpinisti lecchesi che nell’ultimo trentennio del secolo scorso hanno continuato a tener viva la gloriosa tradizione che per lungo tempo ha portato ai vertici dell’ammirazione nazionale il nostro territorio. L’ultimo doloroso colpo è stata la perdita del mandellese Giorgio Redaelli, guida alpina e istruttore nazionale di alpinismo, che silenziosamente se n’è andato nelle ore mattutine di domenica 27 febbraio, all’età di 86 anni e 7 mesi, staccandosi, come sempre

succede, dal corteo di amici e conoscenti, senza proferire una parola di addio. Non ci si sbaglia invece a pensare che molta gente avrebbe avuto più di un motivo per esprimergli un ultimo cenno di riconoscenza per le tante emozioni che aveva regalato sia al momento dell’esecuzione sia al successivo racconto delle sue superbe e affascinanti arrampicate. Ma è solo per queste che lui si è acquisito ammirazione e simpatia? Se lo rimpiangiamo ora amaramente è soprattutto per avere conosciuto l’intensità e la concretezza della sua passione per la montagna, cui ha dedicato fino all’ultimo la sua vita e le sue iniziative. Per giustificare l’elogio che gli attribuiamo si dovrebbe ricorrere ad un lungo elenco di prestazioni che, pur se completo, solo a stento riusci-

rebbe a disegnarne l’aspetto alpinistico e umano, che più semplicemente potrebbe venire definito, dal gergo non più in uso, come “uomo d’altri tempi”. In questo modo lasciamo libero lo spazio al ricordo personale della sua figura che sta al di sopra di dati e vocaboli. Del resto, come si potrebbe condensare in un ridotto articoletto il diffuso racconto autobiografico con cui lui stesso si è ampiamente descritto, partendo dalla sua infanzia, fino al 2004, l’anno in cui ha dato alla stampa il suo volume Momenti di vita: conquiste ed esperienze…? Qui fortunatamente veniamo a scoprire tutto di lui: vale a dire, oltre alla realtà di avvincenti racconti di avventurose conquiste e di suggestive situazioni esistenziali, la personalità ed il carattere deciso di un uomo che, puntando al successo dei suoi straordinari obiet-

Mandello del Lario. Crescendo ai piedi delle Grigne, proprio sotto la maestosità monolitica del Sasso Cavallo, non doveva essere troppo difficile per un ragazzo venire attratto dalla passione per l’arrampicata. Così fu anche per lui, che dopo il versante settentrionale delle Grigne volle presto sperimentare le frastagliate torri e le pareti della Grignetta. Per chi è destinato a più grandi cose, è innato il senso di andare alla ricerca di emozioni sempre più gratificanti, che per lui significava approdare dove la salita porta alle quote più elevate e la scalata diventa più impegnativa. Ormai non è più un alpinista sconosciuto, e sembra che per lui si stia aprendo un periodo di particolare fortuna. Questo succede quando i lunghi mesi del servizio militare di leva li va a svolgere ad Aosta, come istruttore nella Scuola Militare Alpina. Qui trova l’ambiente ideale per sbizzarrirsi a scalare tutto quello che vuole, ma

Sono però le candide rocce delle Dolomiti a imporsi come teatro prediletto per le sue arrampicate, dove si afferma soprattutto nella veste di uno dei più quotati protagonisti dell’alpinismo invernale tra gli anni ’50 e ’60. In particolare la sua preferenza cade decisamente là dove si svolgono le vie storiche sulla Civetta. Non può esserci dubbio alcuno che questa sia la montagna che lo ha letteralmente stregato, dove si è espresso al massimo delle sue potenzialità e dove ha conquistato proprio quei tanti successi che hanno fatto di lui uno degli alpinisti più eminenti della sua generazione. Ma se il suo nome è legato strettamente alla Civetta, alla Torre Trieste, Torre Venezia, Pan di Zucchero, Cima del Bancòn, Torre delle Mede, Cima di Terranova e Cima Su Alto, altrettanto si può asserire che il nome Civetta riconduce immancabilmente a lui. Per questo motivo, pur rinviando alla cronologia della sua più significativa attività alpinistica nel riassunto che segue a parte, a questo punto non è possibile evita-

re di indicare quali siano le orme più indelebili che ha lasciato sulle pareti di questa montagna: una via nuova direttissima sulla Torre Trieste, realizzata con Ignazio Piussi nel 1959; una via nuova sullo spigolo Sudovest della Torre Venezia, realizzata nel 1960; una via nuova sulla parete Est della Torre delle Mede, realizzata nel 1961; la prima invernale della parete Nordovest – diedro Livanos – sulla Cima Su Alto, realizzata nel 1962; una nuova via sulla parete Nordovest al Pan di Zucchero, direttissima (con variante alla via Tissi) realizzata nel 1962; la prima invernale della via Solleder sulla parete Nordovest della Civetta – una vita aperta nel 1925 e considerata autorevolmente importante per aver segnato l’inizio del sesto grado nelle Dolomiti – realizzata nel 1963, in cordata con Ignazio Piussi e Toni Hiebeler, in 8 giorni e con 7 bivacchi; la prima invernale della via Gabriel-Da Roit sulla Cima del Bancòn, realizzata nel 1967; la prima invernale della via Tissi sullo spigolo Ovest della Torre Trieste, realizzata nel 1967; una via nuova sulla parete Est dello Spallone del Bancòn, realizzata nel 1968.

Amore e impegno per la montagna a 360 gradi Era necessario dilungarsi su queste, che sono comunque solo alcune delle assidue frequentazioni di Giorgio Redaelli nella sua Civetta, per evidenziare che la sua presenza nel gruppo dolomitico del Civetta tra l’Agordino e la Valle di Zoldo, nel Bellunese, non è sfuggita e tanto meno dimenticata

Invernale Solleder, Giorgio Redaelli
32 Personaggi 33 Personaggi
Giorgio Redaelli in una foto del 2007

dalle associazioni locali, così che perfino a distanza di molti anni, nel luglio del 2016, a Santo Stefano di Cadore gli era stato conferito “alla carriera” il celebre premio alpinistico “Pelmo d’Oro”, giunto alla sua diciannovesima edizione. Analogo riconoscimento era comunque stato preceduto nel 1999 dall’assegnazione del “Premio SAT” per l’alpinismo, attribuito dalla S.A.T. –Società Alpinisti Trentini.

Sembra del tutto superfluo voler precisare che il suo rapporto con la montagna è andato oltre l’alpinismo e non è rimasto limitato al periodo della sua intensa attività. La sua pas-

sione per la montagna si è espressa continuamente nelle varie iniziative, che vanno dall’organizzazione delle sue serate illustrate con diapositive e filmati, alla cura formativa indirizzata alla pratica dell’alpinismo. Sotto questo aspetto il suo impegno è risultato incisivo nella fondazione di scuole per l’alpinismo, precisamente nel 1959 per la scuola “Gino Carugati” del CAI Mandello e nel 1966 per la scuola “Attilio Piacco” del CAI Valmadrera, diventando in entrambi i casi il direttore per alcuni anni.

La montagna l’ha infine potuta godere serenamente nella pace del suo rifugio “Aurora”, che aveva costruito

all’inizio degli anni settanta ai Piani di Artavaggio, sopra Moggio, in Valsassina, e che gestì insieme alla moglie Aurora fino al 2006, dopo che nel 2002 era stato accolto nel Gruppo Ragni della Grignetta come socio onorario. Per lo straordinario modo come Giorgio Redaelli ha amato la montagna e praticato l’alpinismo, c’è da augurarsi che la memoria di lui possa resistere al tempo e alle mode, soprattutto riguardo al territorio che lo ha applaudito in vita e che ancora si vanta di una tradizione davvero speciale.

Foto da Archivio ModiSca

Hiebeler, Ignazio Piussi, Roberto Sorgato e Giorgio Redaelli; Invernale Solleder, Piussi scioglie la neve con il fuoco dei cunei di legno; Invernale Solleder, Piussi in azione

• 1955 – Cima di Terranova in Civetta – parete Nordovest – via Livanos-Gabriel-Da Roit – prima ripetizione – con Cesare Giudici, nei giorni 3 e 4 settembre, con 21 ore di arrampicata effettiva.

• 1956 – Sasso Cavallo in Grignone – parete Sud – Via Cassin-Corti – terza ripetizione e prima invernale – con Annibale Zucchi

• 1956 – Petit Dru al Monte Bianco – pilastro Sudovest – via Bonatti – prima ripetizione – con Cesare Giudici, Carlo Mauri e Dino Piazza

• 1956 – Torre Trieste in Civetta – parete Sud – via Carlesso-Sandri – ottava ripetizione – con Robert Wohlschag

• 1956 – Cima del Bancòn in Civetta – parete Est – via Da Roit-Gabriel – seconda ripetizione – con Robert Wohlschag

• 1957 – Aiguille de la Brenva al Monte Bianco – parete Ovest - via Rèbuffat-Deudon-Pierre, prima ripetizione – con Partini

• 1957 – Aiguille Croux al Monte Bianco – parete Sudest - via Ottoz-Nava – prima ripetizione – con Giuseppe Conti

• 1958 – Aiguille du Midi al Monte Bianco – parete Sud –via Rèbuffat-Baquet - quarta ripetizione e prima solitaria

• 1958 – Grand Capucin al Monte Bianco – parete Est –Via Bonatti-Ghigo (1951) – con Gigi Alippi, che l’anno successivo con Tenderini e Merendi ne compirà la prima invernale.

• 1959 – Torre Trieste in Civetta – parete Sud – direttissima – via nuova – con Ignazio Piussi, dal 6 al 10 settembre.

• 1960 – Torre Venezia in Civetta – spigolo Sudest –via nuova – con Pierlorenzo Acquistapace e Corrado Zucchi, dal 17 al 20 giugno.

1961 – Torre delle Mede in Civetta – parete Est –via nuova – con Pierlorenzo Acquistapace e Giuseppe Lafranconi, nei giorni 12 e 13 aprile.

1961 – Cima Grande di Lavaredo – parete Nord – direttissima (via aperta nel 1958 da Hasse, Brandler, Low e Lehne) – prima ripetizione senza bivacco – con Roberto Sorgato

1962 – Cima Su Alto in Civetta – parete Nordovest – diedro Livanos-Gabriel – prima invernale – con Giorgio Ronchi e Roberto Sorgato, 4 giorni, dal 19 al 22 febbraio.

1962 – Pan di Zucchero in Civetta – parete Nordovest –direttissima (con variante alla via Tissi) – via nuova – con Josve Aiazzi, Bepi Pellegrinon e Vasco Taldo, dal 23 al 26 agosto.

1963 – Monte Civetta – parete Nordovest – via SollederLettenbauer – prima invernale – con Toni Hiebeler e Ignazio Piussi, dal 28 febbraio al 7 marzo.

1965 – Sasso Cavallo in Grignone – parete Ovestsudovest – via nuova – con Pierantonio Cassin e Alberto Dotti

1967 – Torre-Venezia in Civetta – spigolo Sudovest –via Andrich-Tissi-Faè - ripetizione invernale – con Massimo Achille, il 12 dicembre.

1967.- Cima del Bancòn in Civetta – parete Est – via Da Roit-Gabriel - prima invernale – con Massimo Achille e Alberto Dotti, dal 18 al 20 febbraio.

1967 – Torre Trieste in Civetta – spigolo Sudovest –via Tissi-Andrich-Rudatis – prima invernale – con Massimo Achille, dal 18 al 20 marzo.

1968 – Spallone del Bancòn in Civetta – parete Est –via nuova – con Ezio Molteni e Adriano Trincavelli, dal 2 al 4 dicembre.

• 1960 – Sasso Cavallo in Grignone – parete Sud – via Oppio – prima ripetizione – con Giuseppe Conti

Da sinistra in senso orario: Giorgio Redaelli sugli strapiombi della Torre Trieste; Invernale Solleder, da sinistra, Toni Renato Frigerio
Note sull’attività alpinistica di Giorgio Redaelli (fonte libro Momenti di vita)

“BROTHERS IN ARMS”, NUOVA VIA SUL CERRO TORRE

Luci e ombre, emozioni e pensieri di Matteo De Zaiacomo

La Patagonia è terra leggendaria per gli alpinisti di tutto il mondo. Non a caso già alla fine degli anni ‘50 alcuni alpinisti son stati rapiti dal fascino e dalla bellezza delle sue pareti. Non era un discorso legato alla quota o a un cronometro da battere, era semplicemente una ricerca esa-

sperata della bellezza e della perfezione a far sì che il desiderio di arrivare in cima si facesse così forte.

Esattamente come negli anni ‘50, basta vedere il Fitz Roy e specialmente il Cerro Torre per provare lo stesso irrefrenabile desiderio avvolto da tanta incertezza di voler salire in cima. Per-

ché è proprio così. A rendere ancora più effimere queste vette sono le particolari condizioni meteorologiche che caratterizzano i posti dove risiedono le più belle cattedrali di granito al mondo, ovvero la possibilità di salirle si riduce a brevissime finestre di bel tempo tra una perturbazione e l‘ altra,

Pagine precedenti:

questa pagina:

a fronte,

un gioco psicologico talvolta logorante per gli alpinisti ma che non fa altro che amplificare il desiderio. Per questo il paese di El Chalten è meta storica per gli alpinisti e ogni anno i migliori al mondo hanno tappa fissa in paese, ad attendere la finestra di bel tempo giusta, ognuno con i suoi progetti. La città si popola di una passione e di un amore palpabile per la montagna, il paese è cresciuto velocissimamente negli ultimi cinquanta anni, tutto al servizio del turista e dell’alpinista, c’è anche una palestra bouldering per le giornate di pioggia.

Un sogno irrinunciabile

Ho sognato innumerevoli volte di andare in Patagonia, per una serie di motivi ho sempre preferito altre destinazioni ma con la coscienza che prima o poi doveva succedere, anche io sarei dovuto andare a vedere queste pareti, avevo timore onestamente di non esserne all’altezza e avevo paura di rimanere bloccato in paese per tutta la permanenza a El Chalten.

Avevo sentito le migliori storie di alpinismo alternarsi alle peggiori esperienze di spedizioni fallite proprio per le condizioni meteo avverse. Non sapevo cosa aspettarmi da questo viaggio ma avevo la certezza che il nostro progetto era quello giusto, non importava se ci avremmo impiegato

una stagione o cinque anni, era una cosa che altrimenti avrei rimpianto tutta la vita. Il progetto era semplice: scalare la parete est del Torre cercando di risolvere lo storico e incredibile tentativo di Phil Burke e Tom Proctor che nel 1981 sfiorarono il successo a poche lunghezze dalla cima.

Ed è con questa semplice idea che siamo partiti! Motivati più che mai ma anche coscienti che questa poteva essere soltanto la prima stagione di tentativi e quante ne avremmo impiegate poteva essere un mistero, soltanto la Patagonia poteva decidere.

Il 9 gennaio siamo partiti io, David Bacci e Matteo della Bordella dopo aver compilato una pila infinita di

M. Della Bordella nel diedro degli inglesi. Foto di M. De Zaiacomo In Foto di vetta dal drone. Foto di M. De Zaiacomo
38 Alpinismo
Pagina dall’alto: L’ombra del Torre che al tramonto risale il Fitz Roy infuocato. Foto dal drone di M. De Zaiacomo; David Bacci verso la parete est. Foto di M. Della Bordella

scartoffie e form legati alla pandemia COVID. Siamo arrivati a El Chalten alla mattina e abbiamo preparato subito gli zaini per partire il giorno seguente con un carico di materiale fino al campo dei norvegesi. La mattina dopo camminiamo fino alla laguna Torre, poi scopriamo le condizioni di semiabbandono del sentiero che prosegue verso il ghiacciaio. Complice la stagione alpinistica mancata a causa del lockdown e la solita velocità con la quale le morene cambiano e crollano,

ci troviamo a camminare su un ripido pendio dissestato e la melodia cambia immediatamente. Vediamo il Torre avvicinarsi e gli zaini pesanti sembrano leggeri al pensiero di scalare questa montagna. Le pareti sono già in condizione e tutto sembra funzionare, mi sembra strano! Infatti la notte al Nipo Nino conferma la brutalità dei venti patagonici, la tenda sopravvive al limite delle sue prestazioni e la mattina dopo la tempesta ci fa scappare a gambe levate. I giorni successivi son stati spietati per il maltempo e a turno siamo stati male. Io, proprio la sera prima della finestra di bel tempo, ho iniziato a non sentirmi bene e i giorni di bel tempo successivi son rimasto a

nord del Torre negli stessi giorni e andiamo da loro per un confronto, per fare gli auguri, parliamo della nostra salita e loro della loro, Korra Pesce ha una quantità di foto sul suo telefono estremamente dettagliate della parete nord, conosce ogni singola fessura, lama, placca, passaggio e formazione di ghiaccio. La nostra attenzione si focalizza su un fungo pensile enorme e spaventoso, sospeso nel vuoto proprio sopra la via di salita di tutti noi. Mi si è gelato il sangue quando l‘ho visto, sfidava ogni regola della gravità ma era lì da un bel po’ ed è stato proprio Korra a trovare le parole per allontanare la paura, aveva una teoria per la quale quel fungo stava sospeso perché avvolgeva una struttura rocciosa strapiombante, non so perché ma mi ha tranquillizzato.

Con David Bacci non avevo mai

scalato prima di questo viaggio in Patagonia. Ho un profondo rispetto e ammirazione per quello che è stato il suo percorso alpinistico, ho invidiato alcune sue ascese come penso lui abbia invidiato alcune mie, o forse più semplicemente avremmo soltanto voluto condividerle ma non si era mai presentata l‘occasione fino a quella mattina del 24 gennaio, quando stavamo camminando verso la montagna delle montagne, insieme, fidandoci l’uno dell’altro come avessimo scalato insieme da una vita, senza parlare e in silenzio ognuno nel rispetto dei pensieri del compagno.

Arriviamo al campo dei norvegesi e la parete è piena di neve. Mi tornano in mente le parole di Matteo Pasquetto nel video del loro primo

tentativo di tre anni prima: “la parete si presenta ricoperta da un candido manto di neve che ne rende di fatto la scalata impossibile”. Anche Teo (Matteo Della Bordella n.d.r.) è un po’ nervoso perché sperava di trovare la parete in condizioni migliori: il piano per la mattina successiva sarebbe stato di attaccare il prima possibile, ma con queste condizioni sarebbe inutile. Andiamo a dormire rimandando tutti i dubbi all’indomani. Ci alziamo con la calma dei boulderisti e facciamo colazione. La parete è al sole e la neve si sta sciogliendo, partiamo senza la certezza di poter attaccare, ma una volta alla base la situazione è ormai accettabile e non potrà che migliorare nelle ore successive. Attacchiamo la parete tardissimo ma Teo conosce la via e guida la cordata veloce come

letto, mentre Teo e David finivano di portare il materiale alla base del Torre e si godevano una prima via sul granito patagonico. Ero furioso con me stesso, eravamo arrivati da una settimana e mi ero perso la prima finestra di tre giorni. Ma sembrava che il bel tempo sarebbe tornato la settimana successiva.

“La finestra”

È il 23 gennaio e davanti a noi sembrerebbe proprio esserci la finestra, non una finestra, proprio “la finestra”! Quella della stagione o forse della vita. Sappiamo che un altro team (Corrado Pesce “Korra” e Thomas Aguilo “Tomy” n.d.r.) è pronto ad attaccare la parete

40 Alpinismo
In questa pagina: David Bacci in portaledge e ciò che resta del box degli inglesi Pagina a fronte: Matteo Della Bordella con con Thomas Aguilo sulla parete nord. Foto di Matteo Della Bordella

un fulmine. Teo è al top della forma!

Arriviamo al box degli inglesi e mi sarebbe piaciuto dormire sul tetto come avevano fatto Pasquetto e Teo l’ultima volta, ma in questi anni le condizioni del box sono peggiorate ed è già una fortuna non prendere in testa qualche lamiera spostata dal vento.

Quando stai lavorando nel montare la portaledge o nello sciogliere acqua non ti accorgi di dove sei, ma appena ti fermi e ti siedi e vedi l’ombra del Torre risalire la parete del Fitz Roy infuocato dalle ultime luci della sera, e ti basta allungare il braccio per toccare

il box, capisci che sta succedendo per davvero, che ormai sei lì, a vivere quel sogno che per più di un anno ti ha accompagnato.

Il diedro degli inglesi

Il giorno dopo è il 26 gennaio, un giorno di per sé speciale per me. Festeggio il mio compleanno allacciandomi le scarpette e iniziando la scalata verso il diedro degli inglesi. Sta succedendo! David prende il comando e inizia a scalare le off width (fessura fuori misura n.d.r.) del diedro. Anche lui è al top della forma, mi complimento per l’incredibile scalata appena compiuta. Poi è il turno di Teo. Come se non avesse fatto altro nella vita, scala le strapiombanti off width pro-

teggendosi con gli enormi friend del sette e dell’otto, un fardello che ci è costato qualche sacrificio portare fin qua ma senza il quale non saremmo stati in grado di salire. Arriviamo alla fine del diedro sfiniti, questa parete non ci ha mai regalato niente, tutte le soste appesi come cinghiali, ogni tiro una lotta, un’esposizione a confronto della quale un viaggio nell’iperspazio sarebbe niente.

Ebbene, niente cengia e niente neve da sciogliere. Il mio morale precipita ma non c’è tempo per pensarci, sistemiamo la portaledge mentre David armato di piccozza raggiunge qualche pezzettino di ghiaccio in fondo ad una fessura. Andiamo a dormire assetati e dentro la nostra portaledge i dubbi

42 Alpinismo
In questa pagina: David in sosta sulla parete nord. Foto di Matteo De Zaiacomo Pagina a fronte: M. De Zaiacomo in discesa lungo la Via del Compressore. Foto di M. Della Bordella

sono tantissimi per il giorno successivo. Il tiro in “artif” a uscire sulla nord è un’incognita, potrebbe essere un’agonia in termini di tempo, e poi dovremmo fare un traverso orizzontale, che è la situazione peggiore quando il secondo e il terzo si muovono con sacconi pesanti, non sappiamo quanto tempo potremmo impiegare ma sappiamo che trovarci sulla nord nelle ore più calde del giorno è una pessima idea.

Prima di “addormentarci” dico soltanto che forse è meglio alzarsi un po’ prima domani. Non spiego il perché

ma è chiaro.

Sulla parete Nord

Il 27 è di nuovo il mio turno per il tiro in “artif”, fila tutto liscio è abbastanza velocemente facciamo capolino sulla nord! Anche il traverso non ci dà troppi problemi e alla fine della nostra sezione orizzontale troviamo

Tomy e Korra. Manco ci fossimo organizzati! Analizziamo la situazione e la nostra idea di salita lungo la nord ci appare subito l’idea sbagliata. Non è in condizione, troppo ghiaccio e dove c’è roccia è bagnata. Allora ci uniamo a Korra e Tomy che ci precedono di una lunghezza, sono già passati di lì tre anni prima e sembra l’unica porzione di parete in condizione. Inizia a far caldo e inizia a cadere ghiaccio.

minabili per noi là sotto, accettiamo il compromesso di farci fissare la corda per quel tratto e risaliamo quei metri di placca appoggiata come dei fulmini, passando proprio sotto questa vela di ghiaccio attaccata alla roccia per uno sputo soltanto in un punto.

L’ultimo tiro sulla via dei Ragni Tiriamo un sospiro di sollievo! Siamo sfiniti ma ci colleghiamo all’ultimo tiro della Via dei Ragni.

La via dei Ragni! Con un orgoglio infinito di far parte del gruppo, altri tre Ragni raggiungono quello stesso punto aprendo una via nuova esattamente 48 anni dopo. David sale il fungo finale dando ancora una volta prova del formidabile alpinista che è. Siamo in cima!

Siamo in cima al Cerro Torre, proprio in cima!

Questo è il momento in cui il destino e una serie di piccole decisioni hanno determinato una scelta che si è rivelata giusta.

Korra e Tomy avevano lasciato il loro materiale da bivacco in parete all’altezza del box e avevano sempre scalato di notte, tranne che in quest’ultimo pomeriggio insieme a noi, proprio per abbattere il rischio di crolli di ghiaccio dovuti alle temperature. Avevano già deciso di scendere quella stessa notte lungo la Nord protetti dal freddo, e più volte ci hanno chiesto se volessimo scendere insieme.

L’idea era anche allettante perché avevano lasciato le soste e sapevano

dove andare, ma noi eravamo stanchi, come loro del resto, e avevamo trascinato fino in cima tutto il materiale da bivacco e portaledge. Eravamo pesantissimi rispetto a loro e semplicemente ci saremmo sentiti un peso per loro che agili sarebbero scesi molto più velocemente rispetto a noi e al nostro fardello. Noi di contro non avremmo potuto insistere perché dormissero con noi sulla cima perché non avevano materiale da bivacco. E poi avevamo portato con noi un piccolo drone e volevamo farlo volare sulla vetta, non ci sarebbe stata altra occasione.

Il saluto agli amici e la discesa Ci salutiamo e vedo Korra col viso pieno di crema e un sorriso infinito fare la prima doppia. Non aveva un

David prosegue prima in scarpette poi in una goulotte, con i ramponi ai piedi e le picche, è felice come un bambino, entusiasta di salire. Poi Teo segue sui tiri ancora di roccia fino a dove il granito lascia definitivamente posto al ghiaccio.

Siamo tutti e cinque in sosta sotto quel fungo pensile visto sullo schermo del telefono di Korra qualche sera prima. E in quel momento non siamo due team diversi, siamo solo cinque persone esposte ad un pericolo enorme. È questione di tempo e l’acqua che scorre ai suoi bordi lascia intendere che è meglio scappare il prima possibile da lì. È Korra a guidare, e il tempo di cambiare le scarpette e mettere gli scarponi sono attimi inter-

44 Alpinismo
In questa pagina: Ultime calate nella discesa lungo la Via del Compressore. Foto di M. Della Bordella Pagina a fronte: In vetta, da sinistra M. Della Bordella, David Bacci, M. De Zaiacomo. Foto di M. Della Bordella

discensore, si calava con un eccentrico rosa usato a mo’ di secchiello. Non avevo mai visto fare una cosa del genere, ho pensato che potesse essere un modo per risparmiare peso avendo discensore e protezione per la scalata in un colpo solo. Continuava a non essermi chiaro, e avevo pensato di chiedergli delucidazioni una volta arrivati in paese. Lo saluto ringraziandolo e promettendo di offrire una cena in un qualche ristorante a Chalten, non pri-

inizia a farsi largo la soddisfazione. Il giorno dopo prendiamo a scendere lungo la Via del Compressore. Arriviamo al compressore e anche solo vederlo per me è qualcosa di incredibile, i rivetti di Jim Bridwell e la linea di David Lama. Siamo sulla headwall del Torre!

È vero, stiamo scendendo, ma la potenza della storia dell’alpinismo in quel preciso punto del pianeta è al massimo livello percepibile e che la roccia può raccontare.

Trenta doppie ci dividono dalla base della parete. Un giorno intero a tirare le corde e sperare che non si incastrino da qualche parte, ancora una volta come in un sogno non abbiamo mai un problema nonostante tutte le lame che ci sono.

sapevamo che Korra e Tomy erano ancora in parete, infortunati perché investiti dalla valanga durante la notte, in due posizioni diverse e non c’era nessun team di soccorso in grado di raggiungerli. Capisci in quel momento che sei tu il team di soccorso insieme a quei quattro alpinisti che sono saliti di corsa, anche loro stanchi come noi della scalata dei giorni precedenti, per provare a fare qualcosa.

Avevamo ancora una batteria carica del drone e siamo riusciti a individuare Tomy all’altezza del nevaio triangolare, Korra era al limite delle possibilità del nostro drone che oltre i 500 metri non va. Non siamo riusciti a vederlo e nemmeno ha mai risposto alle nostre urla.

ma di aver bevuto qualche birra. Salutiamo lui e Tomy come si salutano gli amici dopo una giornata in falesia. Mi tolgo finalmente l’imbrago, se non fosse che mi servirà per scendere lo butterei giù! Non c’è un filo di vento, facciamo volare il drone. Abbiamo tutto il cibo risparmiato la sera prima e tutto il ghiaccio del fungo da sciogliere per dissetarci. Una delle cene migliori di sempre, un tramonto memorabile e l’ombra del Torre che ancora una volta risale il Fitz infuocato. Non vogliamo ancora dirlo che è finita perché la discesa sarà ancora una bella prova di nervi, ma dentro di noi

Il sogno diventa incubo Arriviamo alla base e vediamo un team di quattro persone salire velocissime dal ghiacciaio. Pensiamo che qualcuno sta preparando il materiale per la prossima finestra. Continuiamo a scendere. Più in basso David vede sul nevaio alla base segni di un’evidente valanga ed è il primo a immaginare la situazione che poi si è fatta chiara quando alla base abbiamo incontrato quattro accorsi in soccorso, dopo un SOS lanciato con le luci frontali durante la notte.

Il sogno appena concluso da pochi minuti, quando appoggiati piedi a terra allontani tutte le tensioni e la mente finalmente si rilassa e già pensi di mettere il cervello in stand by e camminare fino al paese, ecco che in quell’esatto momento tutto diventa grigio come in un incubo e tutto cambia.

In trenta per soccorrere Korra e Tomy Nel frattempo altre squadre di alpinisti e soccorritori sono arrivate alla base della parete esponendosi coscientemente ai rischi di un’altra valanga o alle insidie del ghiacciaio. L’energia di tutti noi ci ha ricaricato le batterie in un mix di adrenalina e paura. Eravamo il team con più materiale per la scalata ovviamente, e tutto è stato utilizzato per la salita e per fissare tiri fino al nevaio triangolare, ma soprattutto c’era Teo. Ho visto in quel momento Teo cambiare in un istante mentalità, mentre ancora si discuteva su cosa fare, aveva già iniziato a togliere dall’imbrago il superfluo e ad attaccarsi il materiale necessario per la scalata. Io penso sapesse che l’unico veramente in grado di salire velocemente i primi tiri era lui. E di fatto era così: avendo già scalato pochi giorni prima quella sezione ha sentito il dovere di farlo. Non c’è stato da parte sua neanche un se-

condo di esitazione e, accompagnato da Roger Shaeli, ha guidato la cordata in tempo record fino al nevaio. Un grande alpinista non è per forza un grande uomo ma in quel momento ho visto tanti bravi alpinisti diventare grandi uomini e fare il possibile con tutte le loro forze per salvare la vita di un amico. Thomas Huber è stato il leader di queste operazioni in parete e ha saputo fare consapevolezza anche sui rischi che questa decisione comportava. Abbiamo tutti dato il massimo per aiutare in questa terribile avventura. David ha portato le corde da fissare fino al punto più alto e una squadra di trenta persone ha trasportato Tomy in barella sul ghiacciaio e poi sulla morena. Aveva un polmone bucato, spalla e costole rotte. Gli alpinisti in quel momento a Chalten erano tutti lì, alla base della montagna che ho sentito dire essere la più pericolosa del mondo, e questo abbraccio di energia è di per sé l’aspetto più umano e migliore che il mondo degli alpinisti può offrire.

Pensieri Questo episodio ha cambiato per tutti il vissuto della spedizione e forse anche l‘amore per le montagne patagoniche. Ho solo pensato che quando senti dire “è morto facendo quello che gli piace” è soltanto una magra, anzi magrissima consolazione magari per i parenti. Ma se dovessi trovarmi io su una cengia a metà del cerro Torre con la colonna vertebrale o il bacino rotto e incapace di muovermi di un millimetro, non sarei nelle condizioni di convincere me stesso che son morto facendo quello che amo fare, perché se ti trovi in quelle condizioni è chiaro che sei morto anche se sei ancora cosciente. Chiederei al mio compagno

di andarsene e di salvarsi la vita, ma una volta lì da solo, col pensiero dei miei cari a casa ad aspettarmi, sarei consumato nel profondo dai più terribili sensi di colpa, ed è chiaro che non ne è valsa la pena.

Questo è solo quello che mi è passato per la mente, e pensare che sia successo veramente e che sia stata la decisione di far volare un drone a fare da bilancia nel nostro destino è qualcosa che va oltre l’apertura di una nuova via al Cerro Torre.

Il giorno dopo ogni speranza per Korra si è perduta con il vento e le raffiche di neve che ci investivano al campo dei norvegesi. Il Torre era tornato nella sua nuvola nera e tempestosa e con il peso di questa avventura siamo tornati silenziosamente a El Chalten.

In silenzio esattamente come quattro giorni prima ci eravamo incamminati.

Il nome della via è una dedica a tutti i compagni che abbiamo perso in montagna, a tentare di raggiungere la propria felicità! Tante guerre son state inutili e tanta gente è morta sul campo di battaglia e forse anche salire una montagna non è la cosa più utile che una persona possa pensare di fare nella propria vita, ma viviamo di emozioni e per un alpinista arrivare in cima può essere l’unica cosa che può dare senso ad una vita altrimenti inutile.

E allora lo fai! Brothers in arms.

Avevamo poche informazioni ma 46 Alpinismo
Tracciato della via Brothers in arms
47 Alpinismo

LA SCUOLA DI ROCCIA DEI RAGNI

Le parole del direttore, i pensieri e le impressioni di un’allieva

di Stefano Bolis

pronte a preparare con noi lo zaino culturale indispensabile per la salita. E sì, perché troppe sono le variabili da tenere in considerazione quando ci si approccia alla montagna, soprattutto quando la si vuole affrontare con la mentalità di un alpinista, pronto ad ogni evenienza e difficoltà. Questo necessita di attenta preparazione ed è proprio rapportandoti con i migliori che ne capisci l’estrema importanza. Siamo pronti, concentrati, abbiamo allacciato il casco, indossato l’imbrago e messo in sicurezza il nostro compagno primo di cordata. Lo guardiamo attentamente progredire con sicurezza ed eleganza sui primi metri di parete, osserviamo con scrupolo e

ammirazione ogni singolo movimento ed è con questa stessa curiosità e cura che ho cercato di acquisire l’esperienza, i saperi tecnici, le movenze accurate degli istruttori durante tutte le uscite pratiche. Ora è il mio turno, finalmente appoggio le mani sulla roccia ed è il momento di divertirmi, la corda mi tiene ben salda dall’alto, mi sento sicura, penso ai consigli e ai suggerimenti del mio compagno già in sosta, lo sento mentre mi incoraggia e passo dopo passo mi ricongiungo a lui. Forse non si direbbe ma quei pochi centimetri di spazio, sospesi nel vuoto, creano un terreno fertile per stringere legami sinceri e di fiducia, alimentati dalla passione in comune e smisurata

per l’avventura e il divertimento. Così come per noi, sedici persone sconosciute, ognuno con la propria unicità ed esperienza, differenti per tanti aspetti ma simili per altri, stretti in un gruppo come su quei pochi centimetri di sosta, guidati e spronati da istruttori volenterosi di trasmettere le proprie conoscenze, personali e tecniche, con la voglia di mettersi continuamente in gioco. Tiro dopo tiro la fine si avvicina, la stanchezza si fa sentire ma insieme arriva anche la soddisfazione di aver portato a termine una nuova sfida e l’immensa gioia di poterla condividere con i nostri compagni davanti ad una immancabile birra fresca! Grazie Ragni, grazie compagni.

Il resoconto del direttore di Stefano Bolis

La Scuola di Alpinismo del CAI Lecco “Ragni della Grignetta”, come di consuetudine, ha organizzato il Corso Roccia Base AR1.

Il Corso, arrivato alla 69° edizione, si è svolto nel mese di maggio e ha visto la partecipazione di un gruppo eterogeneo di 16 allievi che si sono applicati nell’apprendere le nozioni base di questa disciplina: in sede al giovedì per imparare la teoria, il sabato in ambiente per metterla in pratica, e poi la due giorni finale che tradizionalmente chiude il corso.

Le lezioni teoriche sono state tenute dagli stessi istruttori della scuola e da docenti esterni qualificati per le materie più specificamente professionali.

Ringraziamo per questo Alberto Benini con la Storia dell’Alpinismo, il dott. Gianpaolo Schiavo con le nozioni di Primo Soccorso, Matteo Tegas con la Topografia e orientamento e Donatella Polvara con la Fisiologia e alimentazione.

Le lezioni pratiche si sono svolte in diverse località, con l’obbiettivo di insegnare agli allievi tecniche di arrampicata diverse in base alla tipologia di roccia: il calcare del gruppo delle Grigne, il granito della Val di Mello, e lo gneiss della Corna di Machaby in Val d’Aosta.

Una bellissima e logica via d’apprendimento

di Elena Vigo

Il corso di roccia tenuto dal gruppo Ragni di Lecco è paragonabile a una di quelle classiche e storiche vie alpinistiche che tutti ambiscono salire perché in grado di lasciare molto

di più di quello che ci si possa aspettare. Oltre a trasmettere i fondamentali tecnici dell’alpinismo e dell’arrampicata, insegnano a vivere e vedere la montagna con gli occhi innamorati e appassionati di chi non smette mai di sognare e di spingersi al limite.

I Ragni, come una primordiale via, hanno fatto e vissuto la storia dell’alpinismo, rimanendo ancora oggi di importante attualità. Per alcuni di noi il loro avvicinamento è stato faticoso, per altri, i più allenati e attenti, è stata solo questione di individuare e seguire la traccia per farsi guidare alla base della parete.

Ed eccoci qui, come in cordata, pronti a prepararci con gesti quasi rituali, a sintonizzarci con i nostri compagni e a organizzare il materiale utile per proteggerci e per portarci al termine dell’avventura.

Così sono state le serate di lezioni teoriche, materiale utile alla nostra preparazione e alle nostre conoscenze, interazioni con persone qualificate

Nelle immagini alcuni momenti del corso. Foto di Dante Barlascini
48 Alpinismo

QUELLA SPORCA DOZZINA

Rincocronache di un Corso A1

Sono trascorsi un paio di mesi dalla fine del corso di sci alpinismo SA1 e poche settimane da quello avanzato SA2. Malgrado la stagione sia stata alquanto magra, la scuola è riuscita a organizzare delle uscite ugualmente spettacolari. E se non si stanno a guardare crateri e squarci sotto gli sci, le aspettative per i

cinquanta e più allievi sono state ampiamente ripagate. Dopo aver ricaricato le pile e sfogato le voglie represse, per noi istruttori è invece giunta l’ora di concludere l’anno didattico in bellezza con l’A1. Il corso base di alpinismo si pone come obbiettivo quello di insegnare le tecniche e le manovre fonda-

mentali per la progressione in parete e in ambiente alpino, oltre a fornire le conoscenze teoriche per una buona pianificazione delle gite e una corretta valutazione dei rischi. È rivolto a tutte quelle persone che amano andare in montagna e vogliono alzare l’asticella, passando dalle semplici escursioni alle vertiginose avventure che inizia-

no là dove finiscono i sentieri. Cinque uscite, tre delle quali di due giorni, inframmezzate da lezioni teoriche. Un percorso graduale che si snoda attraverso le diverse discipline legate alla progressione su roccia e ghiaccio. In omaggio nel pacchetto, la passione e il rispetto per la montagna, tanto calore umano e un po’ di baldoria; di quella sana!

lei evidentemente entusiasta, lui entusiasta forzatamente. La seconda coppietta: “No, ma siamo solo amici”. E poi la Milanese, quello che ha fatto l’SA2, quello che ha fatto il corso dei Ragni e quello che si è iscritto ma non sa perché. L’ennesimo gruppo da inquadrare, addestrare e dare in pasto alla montagna. Insomma, “Quella sporca dozzina”.

Gli allievi

Le iscrizioni si sono aperte e chiuse in un lampo. I posti sono pochi e le richieste tante. I dodici aspiranti allievi che si sono aggiudicati il posto rispecchiano fedelmente un campione medio di umanità. Ci sono l’ingegnere e il taglialegna, quello agitatissimo e la ragazza silenziosa. La coppietta:

Il sentiero attrezzato

“(…) lo sparuto gruppo avanzava a fatica sulla cresta aguzza. A destra e a sinistra si apriva il baratro, e le vertiginose pareti parevano finire nel nulla …”.

Questa è la più probabile delle immagini che uno sogna allorché si iscrive ad un corso di alpinismo. Nella realtà la prima uscita prevede il percorso di un

sentiero attrezzato e qualche manovra in falesia. Giusto per rompere il ghiaccio e per valutare di che pasta sono fatti gli allievi. Ma la montagna può nascondere infinite sorprese e anche un banale sentiero può trasformarsi in una bella avventura. Di fatti quest’oggi il meteo ha toppato e ci ritroviamo al “Galli” sotto la pioggia. Dobbiamo rinunciare al colatoio Belasa e ripiegare sul più confortevole sentiero dei Pizzetti. Da qui la vista è spettacolare. Avvolti nel nebbione e perseguitati da un incessante pioggerella, noi la possiamo solo vagamente immaginare. Il morale è però alto e il gruppo allenato.

di Emiliano Alquà In questa pagina: Il Direttore, Emiliano Alquà, chiude le doppie sul Badile. Foto di Alessandro Borgolotto
51
Alba alla Casati. Foto di Alessandro Borgolotto
Alpinismo

del direttore del corso. Boh, chi lo sa.

Rapidamente raggiungiamo il rifugio Piazza. Il meteo è ancora ballerino e di far manovre sotto l’acqua nessuno ha voglia. Si avanzano alcune proposte: tornare a casa, giocare a nascondino, una gara di barzellette, sbronzarsi, andare ai Resinelli per la Val Verde. Vince l’ultima. Dopo aver raggiunto i Resinelli ed esser ridiscesi dalla Val Calolden, il fato decide di premiarci e giunti alle macchine il sole fa capolino sulle nostre teste. Giornata conclusa? Non sia mai! Tutti a Galbiate a fare manovre e buona la prima.

La ferrata

Il fatto che oggi siano presenti tutti gli allievi significa che la prima uscita non è andata malaccio. Ma il fascino irresistibile di noi istruttori può aver giocato un ruolo fondamentale. Forse, anche solo l’autorevole presenza

Questi i pensieri che affollano la mente di tutti mentre risaliamo le pendici del Resegone alla volta del Pass del Fò. Obbiettivo della giornata il concatenamento del “Centenario” e della “De Franco Silvano”. Il meteo stavolta sembra attendibile, il sole troneggia in cielo. Unico vincolo, un temporale verso le quattro di pomeriggio. Alla guida del serpentone c’è Ale che si prende subito una badilata di insulti per aver cannato il sentiero. L’eco dei rimproveri non si è ancora spenta che già ci ritroviamo al Fò, imbragati e pronti per la ferrata. Una spiega veloce, le raccomandazioni di rito e via a mangiar scalette e pioli. La Sporca Dozzina procede spedita, servono solo un po’ di incoraggiamenti per dubbiosi e qualche spintarella agli indecisi. Le corde rimangono negli zaini e ci godiamo l’ombra del Centenario e la cresta soliva della De Franco. Giunti alla croce, immancabile arriva la nebbia ad oscurare il panorama, ma un paio di battute e altri insulti gratuiti ad Ale aiutano a riscaldare l’atmosfera. Salutiamo il Resegone, resta il tempo di tornare al Piazzale, bere una birra da Toni e puntuale arriva la tempesta. Svizzero? No, Club Alpino Italiano.

Uscita bassa montagna

È con immenso godimento che riporto di seguito le cronache di questo weekend. Non tanto perché sia successo qualcosa di diversamente strabiliante rispetto alle altre uscite. È solo per il fatto che finalmente quest’anno si è infranta quella regola non scritta per la quale il weekend di “bassa” si debba per forza svolgere a Finale Ligure. A nulla son servite le minacce di sodomia da parte della vecchia guardia, inutili tentativi di corruzio-

ne con casse di birra artigianale. Per questa uscita, che prevede il primo vero approccio alla roccia dei nostri cari neofiti, si è optato per la ridente, quanto impronunciabile, Val Champorcher, laterale destra della Val d’Aosta.

Le Placche di Oriana offrono un ambiente che ben si adatta alle esigenze del corso, al contrario di quel porto di mare che lasciamo volentieri ai corsi di patente nautica.

Il mattino è dedicato alle lezioni sulla progressione in cordata, le soste, il metodo Caruso e la discesa in doppia. Le semplici falesie che si trovano in loco si prestano allo scopo e il panorama appaga corpo e anima. All’orizzonte nessuna bisunta focaccia o turista in tanga che possa distrarci dai nostri propositi.

Con spirito di sacrificio e abnegazione gli allievi assorbono e fanno propri gli insegnamenti. Le stazioni didattiche si susseguono come le tappe della Via crucis ma alla fine è la redenzione. Il pomeriggio lo passiamo a scalare in una bella falesia di recente apertura, uniti assieme in una litica comunione.

Domenica il sole splende come da accordi presi. Le cordate e le vie sono state stabilite in una pacata e sobria discussione tra istruttori la sera prima. Non ci resta altro che far colazione e raggiungere la base delle nostre pareti e spigoli. È questo forse il primo e vero battesimo della roccia e tra le fila della Sporca Dozzina, serpeggia forte un ardore che scalda nel profondo l’animo. O forse sono solamente vapori del vino. Fatto sta che l’aria è carica di tensione, quella buona, quella che ti fa sentir vivo. E così, tacca dopo tacca, sosta dopo sosta, guadagniamo la cima di queste semplici pareti che a molti di noi potranno

sembrare banali, ma che per gli allievi ci auguriamo possano rappresentare l’inizio di un’avventura ben più lunga ed emozionante. Con buona pace dei panettieri liguri.

Ghiaccio

Il weekend che dedichiamo al ghiaccio ha lo scopo di avvicinare l’alpinista in erba alle gite che prevedono percorsi su ghiacciaio e tutto quello che comporta la sicurezza di tali escursioni. Come anticipato all’inizio dell’articolo, quest’anno la stagione invernale è stata un vero disastro, quella estiva un vero inferno, e quando ci si appresta a organizzare questo tipo di uscite per corsi, si inizia a rimpiangere la solida sicurezza che infondono gli itinerari su roccia. L’apertura dei crepacci e il più recente e tristemente noto problema dei crolli, sono fattori che ogni anno sempre più pesano sulla pianificazione di queste gite. Ma l’obbiettivo della scuola è anche quello di affrontare con preparazione e lucidità questi cambiamenti.

Il Cevedale è una bella montagna che offre un itinerario abbastanza agevole e, anche se non privo di rischi, di facile approccio per il nostro corso. Quindi il sabato vede il drappello di istruttori trainare la Sporca Dozzina su per l’assolata valle dei Forni (nome quanto mai azzeccato oggi). Obbiettivo della giornata è raggiungere la Casati dove si terrà l’ennesima lezione prodromica all’uscita del giorno dopo. Qualcuno si lamenta per il caldo e lo zaino pesante, qualcun altro si domanda del perché si sia iscritto al corso. Ma nel momento in cui Gran Zebrù e Cevedale iniziano a stagliarsi alla vista ogni dubbio è fugato, la fatica diventa un piacere e la Casati è presto raggiunta. Il soggiorno in rifugio sembra la paro-

dia di una delle scene iconiche di “Non ci resta che piangere”, l’unica cosa che non si paga è l’aria, ma la notte è breve e l’alba sorprende i nostri già prossimi al ghiacciaio. Le legature, e in particolar modo i nodi, sono per il neofita una materia alquanto ostica da digerire ed è sempre un piacere notare con quanta facilità l’allievo dimentichi un nodo spiegato poche ore prima. Si distribuiscono insulti gratuiti alla Sporca Dozzina e via su per crepi. Alle otto e

mezza la vetta è conquistata, mancano solo cornetto e cappuccino.

Il Badile È da tempo che aspettiamo l’occasione giusta per proporre questa meta in qualcuno dei nostri corsi. Quest’anno una serie di fortuite circostanze pare favorire il buon esito del nostro progetto. È l’anno della Tigre, Venere e Saturno orbitano intorno al Sole, ma soprattutto il meteo è ottimo e la neve

Arrampicando sulla punta Enrichetta
52 Alpinismo
Dall’alto: Cena alla capanna Gianetti. Foto di Emiliano Alquà Il gruppo fuori dalla capanna Casati. Foto di Alessandro Borgolotto

“in alto” poca. Le condizioni giuste per la normale al Badile.

È mattina presto ai bagni di Masino, l’aria frizzante e il sudore di bosco ci

avvolgono. La Sporca Dozzina scalpita, pare una mandria di tori furiosi pronta a invadere le strade di Pamplona. E pensare che a inizio corso facevano

fatica ad appendere rinvii all’imbrago.

Il sentiero è un bel calvario, ma i nostri son belli carichi e difficili a domarsi. Alla Gianetti giusto per un saluto al Fiorelli e una birretta contro crampi, e siamo già alla volta della Punta Enrichetta per servire il prelibato Granito all’affamata Dozzina. Tra un tiro di corda e l’altro ci concediamo del tempo per ammirare il sublime paesaggio e qualcuno non si nega un meritato pisolino.

“Partire presto per tornar presto” non ce lo manda a dire nessuno, e l’alba ci coglie nuovamente intenti a risalire la traccia che rapida porta alla base del Supremo. Fa fresco e le dita gelano. La Sporca Dozzina pare particolarmente intimorita dalla mole di Roccia che le si para dinanzi, sorgono un po’ di ansia e qualche dubbio. Ma sono solo impressioni fugaci, il tempo di assaporare il granito ed è già acqua passata. La Via si snoda comoda ed elegante ed ora anche i più timorosi iniziano a godere della bella sensazione che dona lo scalare questa magnifica Montagna.

Ed è solo adesso, dopo aver raggiunto e festeggiato la vetta, ridisceso la parete sani e salvi e riconquistato il sentiero, che noi della Scuola tiriamo un gran bel sospiro di sollievo e ammiriamo la Sporca Dozzina come Geppetto il suo burattino, divenuto bambino.

BENTORNATA NORMALITÀ. FORSE.

Gita Sociale Alpinistica 2022 al Monte Disgrazia di Giorgio Mandarano

Siamo quasi giunti alla conclusione di questa avventura. Le tante ore passate assieme hanno contribuito a formare un bel gruppo.

Dopo due anni di interruzione torna l’appuntamento della gita sociale alpinistica della nostra sezione, quantomeno nella sua formula originaria di due giorni. Per le ragioni che noi tutti conosciamo legate alla pandemia, nel 2020 l’appuntamento è completamente saltato, mentre lo scorso anno la gita è stata effettuata in forma “ridotta” organizzando una salita in giornata senza appoggiarsi a rifugi per il pernottamento.

Pertanto il ritorno in versione integrale di questo appuntamento, che si ripete ormai da diversi anni nel primo fine settimana di luglio, è sicuramente una nota positiva.

infauste vicende legate a precedenti salite su questa montagna come si potrebbe pensare, ma deriva dal termine lombardo “des’giascia” ovvero “disghiaccia”, malamente interpretato dai cartografi. Rappresenta zona di confine tra la Val Masino e la Valmalenco e con i suoi 3678 metri di altezza rappresenta una delle montagne di riferimento di tutta la zona insieme al vicino gruppo del Bernina.

Al rifugio Ponti

La via normale prevede la partenza dalla piana di Preda Rossa in Val Masino (parcheggio contingentato), con l’eventuale appoggio (come da noi scelto) al rifugio Cesare Ponti a quota

2.559 metri per alleggerire il dislivello del giorno della salita in vetta.

L’avvicinamento al rifugio Ponti è

sin da subito molto piacevole sia dal punto di vista panoramico sia come impegno fisico, senza nessuno strappo iniziale ma con una morbida risalita della piana tenendo il lato sinistro (destro orografico). Sin dall’inizio del sentiero, sempre ben tracciato, è visibile all’orizzonte la vetta del Disgrazia con, sulla sinistra, la cresta ovest percorsa dalla via normale.

Successivamente il sentiero, caratterizzato anche da camminamenti in legno e ponticelli, abbandona il fondo valle per proseguire prendendo quota sino al rifugio Ponti, in ambiente granitico tipico della zona e di questa quota.

Dall’alto: Sulla ferrata De Franco, Resegone. Foto di Alessandro Borgolotto; Il Badile. Foto di Emiliano Alquà; In vetta al Badile. Foto di Emiliano Alquà
Il Disgrazia, non deve il suo nome ad
Traverso sotto il filo di cresta
55 Alpinismo

Con il gruppo raggiungiamo rapidamente il rifugio, ma il caldo delle ore centrali della giornata in questa particolare torrida estate (si spera anomala) ci costringe ad una rapida, e perché no, piacevole re-idratazione ammirando il panorama e la via che andremo a percorrere l’indomani mattina. Dal rifugio è infatti possibile osservare molto bene tutto l’invaso del ghiacciaio con la relativa morena. Drammatiche le considerazioni dei nostri compagni che hanno già avuto in passato l’occasione di fare questa salita riguardo il ritiro del ghiacciaio. Osservazioni, ahimè, che si possono applicare, con diversa intensità, a tutto l’arco alpino da decenni. Ma questa stagione così calda, preceduta da un inverno così secco, ha sicuramente reso ancora più visibile ad occhio nudo la dimensione del fenomeno.

Verso la vetta

All’indomani, di primissimo mattino, con le frontali iniziamo l’escursione perdendo qualche metro di quota dal rifugio e percorrendo sul filo della dorsale morenica tutta la conca glaciale sino a quando la via suggerisce di proseguire sempre sul fianco sinistro seguendo gli ometti visibili tra gli enormi massi granitici.

Con le prime luci dell’alba le frontali non sono più necessarie. Giungiamo ai bordi inferiori del ghiacciaio e ci prepariamo formando tre cordate guidate dai soci più esperti. Risaliamo ormai il breve, ma ripido tratto di ghiacciaio per raggiungere la Sella di Pioda a quota 3.387 metri dove iniziano le prime soddisfazioni dal punto di vista panoramico. Istanti sempre magici quelli dell’alba, soprattutto se di una giornata estiva senza una nuvola.

Il cielo si schiarisce lentamente tingendosi per istanti di tinte violacee e azzurre tipiche dell’aurora.

Ad ovest si apre tutto d’un tratto la vista sull’enorme anfiteatro della Val

so è lunga, pertanto come suggerisce Silvano: “Sarà mej sbasass”. Il rientro di tutte le cordate procede regolarmente per la via di salita, ciascuno con propri tempi grazie anche all’assenza di preoccupazioni legate al meteo che si presenta perfetto per tutta la giornata.

Riflessioni

La gita sociale si conclude in maniera più che positiva: per soci che non avevano mai in precedenza partecipato insieme a gite alpinistiche è stata anche l’occasione per conoscersi, altri invece hanno avuto l’opportunità di rivedersi dopo tanto tempo.

stioni su cui riflettere per le generazioni future.

https://giorgiomandarano.smugmug.com/Montagne/Disgrazia/

Per questo motivo mi vien da pensare: “Ben tornata normalità, oppure no?”

Dall’alto: Lo sperone centrale della cresta; Davanti al rifugio Ponti, 2559 m.; Il sentiero di avvicinamento con il Disgrazia sullo sfondo

Porcellizzo contraddistinta dal Pizzo Badile e ancora più in là la Valle dell’Oro. Anche fermandosi in questo punto, lo sforzo sarebbe già ripagato.

A est si slancia la lunga cresta per la vetta che attacchiamo superando una crepacciata e risalendo un breve canalino. La via, nonostante l’esposizione, non è difficile: passaggi di 2° e talvolta 3° grado che si riescono a superare in conserva o assicurandosi in relazione alla propria predisposizione. Il ghiaccio lascia quindi spazio alla roccia, con una salita classica che permette di essere affrontata con un buon livello di continuità senza particolari “filtri” di difficoltà. Come spesso accade, le criticità più forti in questo caso sono i rallentamenti causati dall’incontro delle altre numerose cordate nei passaggi obbligati.

Alle 8.30 la prima delle nostre cordate raggiunge la vetta, seguita a breve dalle altre. La giornata è incredibile e come spesso accade verrebbe voglia di rimanere in vetta a godere del panorama, ma la discesa nel comples-

Tuttavia non posso non ricordare che la nostra gita si è svolta in concomitanza con la tragedia accaduta sulla Marmolada. La sera prima, mentre si discuteva in rifugio del fatto che in questi anni non ci si fosse diretti spesso molto verso est per le nostre gite sociali, Silvano Arrigoni, organizzatore della gita, indicava che una possibile meta ad oriente avrebbe potuto essere proprio la Marmolada, dove di lì a poche ore si sarebbe verificata la tragedia che tutti sappiamo. Dico “avrebbe potuto” proprio perché si metteva in evidenza quanto ormai il ghiacciaio versasse in condizioni sempre più pietose.

Queste tragedie, come sempre, riaccendono un dibattito, più a livello mediatico che di contenuti reali, soprattutto fra chi la montagna non la conosce e non la frequenta in maniera sistematica. Chi invece ha un rapporto più consapevole e attento con l’ambiente montano sa bene che certi temi legati all’innalzamento delle temperature e ai relativi mutamenti degli ambienti in quota non sono una novità legata ad una stagione come questa del 2022, ma ormai da decenni pongono que-

Accesso alla cresta da un canale laterale Foto di Giorgio Mandarano
56 Alpinismo

L’Assemblea dei Ragni, lo scorso 15 giugno, ha votato l’ammissione al gruppo di cinque nuovi componenti. Come soci ordinari sono stati eletti Anna Aldé, Simone Manzi, Giacomo Regallo e Marco Zanchetta. L’accademico Mario Burini è entrato nel gruppo come socio onorario. Sui 4 giovani riporto alcune note desunte dal Comunicato stampa del 17 giugno.

NUOVI RAGNI 2022

Il gruppo si arricchisce di cinque unità

in Valtellina, è uno dei ragazzi usciti dall’Academy dei Ragni. Ha ripetuto diverse vie lunghe su roccia di alto livello, soprattutto fra le montagne del Masino, dedicandosi all’apertura di nuovi itinerari, a progetti di chiodatura di nuove falesie e allo sviluppo di nuove aree per il bouldering.

Anna Aldé 20 anni, lecchese, è stata avviata alla scalata dal padre Carlo, anche lui Ragno, e ha frequentato fin da bambina la palestra di arrampicata gestita dal gruppo. Ancora giovanissima, ha incominciato a dedicarsi all’attività agonistica, raggiungendo ottimi risultati in ambito nazionale e partecipando ai Campionati europei e mondiali. Negli anni più recenti si è appassionata all’arrampicata su roccia, in particolare al bouldering, salendo passaggi fino all’8a.

Simone Manzi 30 anni, di Chiavenna, frequenta la montagna fin da ragazzino e da poco ha conseguito il titolo di Aspirante Guida Alpina. Ha ripetuto molti itinerari classici di ghiaccio e misto in alta montagna, grandi vie di roccia del Monte Bianco, delle Alpi Centrali e delle Dolomiti e ha un’ottima esperienza nella scalata su cascate di ghiaccio. Sulle montagne di casa, quelle della Bregaglia e del Masino ha ripetuto alcune importanti vie sulle pareti del Badile, riattrezzandole con modalità rispettose della roccia e del valore storico degli itinerari

Mario Burini finalmente “Ragno” di Renato Frigerio

attualmente residente in Val di Mello. Si è avvicinato da pochi anni al mondo della scalata, ma si è già cimentato su vie estremamente impegnative sotto l’aspetto tecnico e psicologico, rivelando una predisposizione innata all’arrampicata e una decisa propensione alla ricerca di un rapporto intenso e intimo con la natura e la montagna.

Per quanto riguarda Mario Burini illustre rappresentante della tradizione alpinistica lecchese, la ricostruzione della sua carriera da scalatore è affidata a Renato Frigerio nella scheda a fianco.

La recente entrata (onoraria) nel Gruppo Ragni di Mario Burini, classe 1936 da Calolziocorte, per compagni “Barba” ci offre l’occasione per delinearne sommariamente la figura, senza perderci in troppe chiacchiere, rendendo così omaggio al suo stile ruvido e riservato, concreto ed efficace.

Alpinista del CAI Sezione di Calolziocorte, forte e determinato, ha all’attivo un considerevole curriculum di salite un po’ su tutto l’arco alpino, che ne fanno uno tra gli alpinisti lecchesi più attivi negli anni ’60 e ’70.

Ha iniziato a svolgere l’attività alpinistica sul Resegone e sulle Grigne dal 1959, per poi passare progressivamente a praticarla con ottimi risultati e alcuni successi principalmente sulle Dolomiti.

Ha dedicato molta attenzione alla parete Fracia (Monte Spedone), un po’ la sua parete di casa, tanto da guadagnarsi il titolo di “Signore della Fracia”, per qualcuno addirittura “Il re della Fracia”.

Nel 1960 è degno di rilievo il suo exploit sulla Grignetta, al Torrione Magnaghi Centrale, parete Sud, dove compie la prima

integrale con prima ripetizione della “direttissima” (o “via dei Ragni”), via aperta da Casimiro Ferrari e Giuseppe “Peppo” Conti. Le prime scalate oltre le nostre Prealpi vengono effettuate nel gruppo del MasinoBregaglia, e successivamente sulle Dolomiti, per passare di seguito al Monte Bianco e quindi sul fronte delle Alpi Occidentali. A coronamento della sua ricca attività viene ammesso nel 1964 nel Club Alpino Accademico.

Le più rilevanti “prime” di Mario Burini in ordine cronologico sono:

1962 – dal 18 al 20 marzo: prima ripetizione invernale alla parete Sud del Sasso Cavallo, nelle Grigne, via Oppio, aggiudicandosi pure la terza assoluta;

1963 – prima ripetizione del Gran diedro Nord della Brenta Alta, via Zucchi-AlippiTenderini - Merendi;

1964 – prima ripetizione invernale del diedro Sud-est ai Mugoni, nel Catinaccio, via De Francesch-Innerkofler, settima assoluta;

1964 – seconda ripetizione invernale della parete Sud della Torre Trieste, in Civetta, via Carlesso-Sandri, con bivacco in cengia il 2 febbraio;

1965 – prima ripetizione invernale della

parete Sud-ovest al Croz dell’Altissimo, in Brenta, via Oppio;

1969 – prima ripetizione sulla parete Nord-est della Brenta Alta, via dei Francesi; 1970 – prima ripetizione sulla parete Estnord-est del Pizzo Badile, via del Fratello.

Anche l’elenco (pressoché completo) dei suoi compagni di cordata è di qualche interesse, perché attesta la sua disponibilità a muoversi con compagni diversi pur di sfruttare tutte le occasioni per una grande scalata. Esso annovera: Alfredo e Pietro Papini, Giorgio Bonfanti, Giacomo Ghislandi, Enrico Arrigoni, Claudio Ferrari, Ettore Bonacina, Giovanni Castagna, Ennio Rotella, Giacomo Balossi, Dario Berizzi, Giancarlo Bolis, Andrea Bogliani, Giuseppe Ravasio, Pierlorenzo Acquistapace, Romano Perego, Casimiro Ferrari, Pierantonio Cassin, Giuseppe Fumagalli, Alessandro Locatelli, Felice Anghileri, Ernesto Panzeri, Aldo Anghileri, Roberto Ratti, Giulio Tavola, Gianni Stefanon, Luigi Bosisio, Dario Mozzanica, Tino Albani, Andrea Cattaneo.

A questi scalatori lombardi vanno aggiunti i nomi di Claude Barbier, Gianni Mazzenga, Mase Kasganer e Bepi Pellegrinon.

Giacomo Regallo 31 anni, originario della Brianza e oggi residente Marco Zanchetta 27 anni, varesino L’impressionante parete del Monte Spedone (“La Fracia”) vero reame di Mario Burini di Adriana Baruffini
58 Alpinismo

Partiamo Adele? Dopo quasi un anno da una rinuncia causa Covid, quest’anno ce la facciamo!

Adele ed io abbiamo pensato e immaginato questa due giorni per tanto tempo, l’abbiamo pregustata e preparata con passione e divertimento ed ora eccoci pronte per cominciare.

Finalmente l’8 di aprile, nel primo pomeriggio, il nostro gruppo parte in pullman alla volta di Lecco. Siamo in 25, il meteo benevolo e l’umore alto. Abbiamo in programma due escursioni: il Sentiero del Viandante da Varenna a Corenno Plinio lungo le sponde del sospirato lago di Como e poi Pasturo e luoghi di Antonia Pozzi, con salita al rifugio Riva in Valsassina.

Antonia Pozzi è l’ispiratrice del nostro

“ANIMA, SII COME LA MONTAGNA”

A Lecco il trekking letterario del CAI Città di Castello

mo una meritata sosta per il pranzo con vista magnifica sulle acque dal lago; arriviamo fino al Santuario di Lezzeno. Ci accompagnano i racconti di arte e di storia di Raimondo e lo scambio di esperienze con gli amici di Lecco. Il cammino è lungo e a Dervio ci arrendiamo: arriveremo a Corenno Plinio in pullman ma non perderemo la visita al piccolo e incantato borgo, adagiato sulle acque del lago e illuminato dal sole limpido e ventoso del pomeriggio.

Sulle tracce di Antonia Pozzi

viaggio, a lei abbiamo voluto dedicare i nostri passi per poterla conoscere meglio e respirare con lei la sua amata Grigna, le montagne del suo cuore e della sua poesia, le montagne dell’infanzia, rifugio e conforto nei momenti più difficili della sua breve vita.

Siamo state fortunate, che supporto speciale abbiamo avuto dagli amici della Sezione di Lecco!

Accolti dalla Presidente, Adriana Baruffini e dal Presidente regionale Emilio Aldeghi e accompagnati dalla stessa presidente e dai soci Raimondo Brivio, Alberto Benini, Chiara Brivio, Domenico Pullano, Sergio Poli e Laura Vesentini. Vogliamo per prima cosa ringraziare tutti loro per la passione, l’amicizia, la disponibilità e le conoscenze che ci hanno dedicato, le storie che ci hanno raccontato, i passi che hanno fatto insieme a noi a rendere tangibile il significato del CAI come sodalizio di ideali e valori condivisi.

Da Varenna a Corenno Plinio sul sentiero del Viandante

La mattina del 9 Aprile è splendida, luminosa e frizzante, il vento scompiglia le chiome degli alberi e la compagnia è motivata e ansiosa di partire. Raggiungiamo con il pullman il paesino di Varenna, piccolo gioiello con le sue viuzze strette, il castello, la piazza elegante e la romantica passeggiata che si affaccia sulle acque del lago. Sono con noi Adriana, Raimondo, Mimmo e Laura, Sergio. Da qui prendiamo il sentiero del Viandante che, costeggiando le verdi sponde ed addentrandosi nella collina, regala scorci di bellezza pura. La maggior parte di noi non conosceva questi luoghi e la novità del paesaggio, il fascino del lago circondato dai monti, un’eco manzoniana discreta ma intuibile, il cielo blu e l’atmosfera gioiosa hanno conquistato e inebriato tutti. Tocchiamo Vezio con il suo Castello, Bellano e la Chiesa di Sant’Andrea di Bonzeno dove faccia-

Domenica è il giorno dedicato ad Antonia Pozzi. Siamo emozionate e felici di poter vivere i luoghi della sua poesia e la sua montagna. Con noi ancora Adriana, Raimondo e Chiara, Alberto Benini.

Raggiungiamo Pasturo: qui il padre aveva comprato nel 1917 una grande villa settecentesca dove, sin da bambina, Antonia si recava per trascorrere le vacanze estive. Fu così che il piccolo paese della Valsassina diventò un luogo per lei caro sin dall’infanzia, lo considerava il suo rifugio:

“Giungere qui – tu lo vedi- dopo un qualunque dolore – è veramente tornare al nido

Ci fermiamo alle porte del paese, vicino al cimitero. Entriamo silenziosi e ci avviciniamo alla tomba della poetessa.

Sono rimasta molto tempo con la testa appoggiata alle sbarre del cancello. Ho visto un pezzo di prato libero

Ai Piani di Nava, verso il rifugio Riva. Foto di Chiara Spinelli. di Monica Grassellini*
60 Escursionismo
Dall’alto: Davanti alla tomba di Antonia Pozzi. Foto di Chiara Spinelli; Foto di gruppo a Gittana. Foto di Sauro Gorbi; Guido Agostoni racconta ‘Antonia Pozzi’ davanti alla casa di lei a Pasturo. Foto di Sauro Gorbi

che mi piace. Vorrei che mi portassero giù un bel pietrone della Grigna e vi piantassero ogni anno rododendri, stelle alpine e muschi di montagna. Pensare d’esser sepolta qui non è nemmeno morire: è un tornare alle radici” scrive nel suo diario un anno prima di morire suicida, nel 1937 a soli 26 anni. La sua tomba si trova esattamente nel posto dove lei aveva desiderato, in fondo al piccolo cimitero. La scultura in bronzo del Cristo delle Beatitudini di Giannino Castiglioni ci accoglie a braccia aperte, e qui ci raccogliamo per iniziare il racconto e leggere alcuni versi:

Novembre

E poi – se accadrà ch’io me ne vada –resterà qualchecosa di me nel mio mondo –resterà un’esile scìa di silenzio in mezzo alle voci –

Ed una sera di novembre una bambina gracile all’angolo di un strada venderà tanti crisantemi e ci saranno le stelle gelide verdi remoteQualcuno piangerà chissà dove - chissà doveQualcuno cercherà i crisantemi per me nel mondo quando accadrà che senza ritorno io me ne debba andare.

alla pubblicazione completa delle sue opere.

Confesso la mia commozione, il senso di comunione con il luogo e le parole, la percezione di una sospensione dal tempo, l’immergermi in una dimensione altra della vita.

Siamo partiti dall’epilogo, ma ad attenderci alla Villa di Antonia abbiamo trovato Guido Agostoni, referente del comune di Pasturo per questo luogo e profondo conoscitore della vita e della poesia della Pozzi. Non lo ringrazieremo mai abbastanza per il racconto appassionato e ricco di aneddoti e dettagli sulla vita a Pasturo della famiglia Pozzi; racconti che derivano dalla conoscenza diretta dei protagonisti, dei genitori di Antonia, di chi l’aveva conosciuta e di Suor Onorina Dino, colei che dopo la sua morte si è interessata alle sue poesie fondandone l’archivio e operando uno studio lungo e meticoloso che porterà alla rivalutazione della poetessa e finalmente

Veniamo accompagnati nelle stanze della casa e possiamo accedere alla sua camera, con il tavolo di scrittura e la finestra da cui poteva vedere l’amata Grigna: sono così ricche di ricordi, fotografie di lei con i suoi amici e conoscenti e suoi scatti, oggetti personali, libri, edizioni delle opere, ritratti, souvenir riportati dai suoi viaggi e poi la sua attrezzatura da montagna; insomma tutto ciò che rappresenta le sue grandi passioni, la poesia, la fotografia e la montagna. Non si può non pensare, con le sue parole, a questo luogo come al suo rifugio, il suo porto: “Caro Remo, ti scrivo dal mio vecchio tavolo, dalla mia vecchia cara stanza .... qui, a questo tavolo che io chiamo il mio porto” Quando dico che qui sono le mie ra-

dici non faccio solo un’immagine poetica... qui io ritrovo la più completa me stessa” (Lettera a Remo Cantoni -14 aprile 1935).

Non si può non pensare a quante volte abbia guardato da queste finestre, quante volte sia partita da qui per i suoi specialissimi incontri con le rocce, prati, i sentieri, con essi in comunione di spirito e profonda ricerca di sé. Perché l’amore per la montagna, insieme alla poesia, sono stati la più pura espressione del suo essere, del suo cammino in questo mondo.

Epilogo al rifugio Riva

Purtroppo il tempo scorre ed anche noi dobbiamo riprendere il cammino per sentieri della Grigna fino al Rifugio Riva, mentre ancora nel nostro intimo riecheggiano pensieri e le immagini, affiora il percorso di un’anima sensibile e nuda.

Il percorso attraversa boschi e prati con una salita piacevole e alleggerita dalla conversazione allegra e dal camminare insieme.

Arriviamo alla magnifica terrazza sulla Valsassina del rifugio Riva. Resta solo il tempo per una polenta in compagnia sotto un magnifico faggio secolare, albero monumentale di addirittura 150 anni, circondati dall’abbraccio della cornice dei monti.

Sono stati giorni intensi e ricchi di emozioni, di condivisione e amicizia. Grazie Adele, ispiratrice, artefice e compagna di viaggio.

Da sinistra in senso orario: Scendendo verso Dervio. Foto di Sergio Poli; Sul sagrato di San Domenico a Pendaglio, sopra Bellano. Foto di Sergio Poli; Monica e Adele con gli accompagnatori lecchesi in Piazza Era. Foto di Sauro Gorbi.

La splendida Verginate, ultima frazione di Bellano. Foto di Sergio Poli *Socia Cai Città di Castello Foto di Sauro Gorbi
62 Escursionismo

“IMolise non esiste” ormai è un mantra riconosciuto dagli stessi molisani, tanto da farne anche delle magliette ironiche. Sarà perché si tratta di una regione piccola piccola, solo due capoluoghi di provincia di cui Isernia abitata da solo 24 mila abitanti, sarà perché la popolazione è tranquilla e non si presta a troppe occasioni di cronaca eclatante, certamente i numeri ridotti fanno sì che il Molise non appaia spesso alla ribalta nazionale.

Ma, come sempre, le persone si muovono e si incontrano. L’anno scorso io e il mio amico Emilio abbiamo trascorso una bella settimana, la prima di agosto, in quel di Montaquila, dove il cognato di Emilio, Don Paolo, esercita il suo ministero di parroco, e

INTERSEZIONALE LECCO-MOLISE

lì abbiamo avuto contatti con la sezione locale del CAI. Dopo l’invito ad una bella festa sul Monte Piano, con adeguata cena al barbecue, abbiamo manifestato la volontà di misurarci con le montagne vicine, le Mainarde, che costituiscono la coda estrema dell’Appennino Abruzzese. Si tratta di quote fino ai 2.300 m, che abbiamo avuto modo di apprezzare per l’assoluta wilderness durante un’escursione durata undici ore, alla ricerca di una via d’uscita dai boschi in basso, non troppo trafficati.

Chiusura in bellezza con fiumi di birra ai tavolini dell’unico bar di Pizzone, dove a qualcuno è venuto in mente che sarebbe stato bello venire a conoscere le montagne di Lecco.

Perché no?

Emilio continuava a mettermi ostacoli: guarda che non è una cosa così facile, ti prendi una responsabilità, dovrai valutare diverse cose, se qualcosa non andrà bene… Ma non mi pareva

così difficile, altre volte avevo organizzato eventi e tutto aveva trovato la sua via. Così ci siamo scambiati numeri di telefono con Marilena e Valerio, raccomandando loro di muoversi con molto anticipo per poter scegliere le soluzioni migliori. Saluti e baci e tutti a casa. Chissà…

Tentativo “Rosalba” e percorso culturale in città

Vuoi vedere che a ottobre la Marilena si fa sentire davvero? “Per fare un programma dovrei sapere i costi e i prezzi!”. Naturalmente, parlo con l’Emilio e decidiamo che la miglior base (location!) dove appoggiarli è il rifugio

S.E.L. Rocca Locatelli ai Piani Resinelli, sia per la posizione rispetto alle mete da raggiungere sia per il mangiare, di solito ottimo e abbondante. Prendo contatti con la sig. Isabella e trasmetto i dati alla Marilena, che abbozza il programma e raccoglie le adesioni entro Natale. Trascuro gli aggiustamenti nei

mesi successivi (basta qualche telefonata), ma devo sottolineare che la sig. Isabella decide di mantenere i prezzi concordati a ottobre fino alla fine, nonostante gli innumerevoli rincari dovuti alle crisi internazionali: chapeau!

E finalmente giunge il fatidico dì. La comitiva di 15 persone, dopo circa 800 km su un pullmino, arriva ai Resinelli giovedì sera 23 giugno. Gran cena di benvenuto durante la quale ci accordiamo per l’indomani per la prima escursione al Rosalba.

Con l’aiuto di Domenico Pullano, ci avviamo per il sentiero delle Foppe attraversando la bella faggeta, ma al primo guado senz’acqua ci sono le prime difficoltà a superare alcuni massi un po’ voluminosi; una coppia decide di rinunciare e rientra. Proseguiamo inerpicandoci sul sentiero accidentato che ora aumenta la sua pendenza, fino a sbucare fuori dal bosco avendo davanti il crinale libero con il Rosalba in vista, e qualche camoscio che pascola più su. Il movimento dei nuvoloni fa sì che ci interroghiamo sull’evoluzio-

ne del meteo: calcoliamo che il forte temporale previsto ci troverebbe sulla cima o appena sotto, e il ritorno sarebbe molto pericoloso. La decisione di rientrare subito viene presa con qualche malumore, ma senza dubbi.

Peccato veramente aver perso il bellissimo colpo d’occhio dal Rosalba!

Rientrati alla base, assistiamo allo scatenarsi degli elementi, meno male che siamo al coperto!

E poi che si fa? Sono solo le 14,30 e il temporale è passato, anche se avrà ancora una coda. Decidiamo di visitare Villa Manzoni. Emilio, che nel frattempo ci ha raggiunto, trascina poi tutto il gruppo alla visita del Museo della Montagna a Palazzo delle Paure, attraversando la città a piedi. Gli amici del Molise apprezzano anche la mostra su Carlo Mauri e quel poco che si fa in tempo a vedere della città, perché è ora di rientrare al rifugio.

Dai Piani di Artavaggio al rifugio Gherardi

Ci diamo appuntamento per il mattino successivo alla funivia di Moggio

per andare in Artavaggio.

Il programma iniziale prevedeva Bobbio e l’anello dei Mugoff ma abbiamo convenuto con Emilio che la maggioranza dei partecipanti non fosse in grado di affrontare percorsi troppo impegnativi, e che bisognava fare qualcosa tutti insieme per cementare un po’ il gruppo.

Così abbiamo stabilito di andare al rifugio Gherardi. Con l’aiuto dell’Emilio e della Carla Pozzi, sotto un cielo limpido, con un verde che risaltava ricco di fiori, siamo passati accanto agli antichi cippi che dividevano lo Stato di Milano dalla Repubblica di Venezia e abbiamo raggiunto tutti il rifugio Gherardi senza particolari difficoltà, pranzando sul prato. Al ritorno il grosso del gruppo ha ripercorso il comodo sentiero dell’andata, mentre con i più esperti siamo risaliti attorno al Sodadura arrivando al rifugio Nicola e ricongiungendoci con gli altri alla bella chiesetta molto affrescata, dove

65 Escursionismo
di Domenico Sacchi Dai Resinelli al Resegone passando per i Piani di Artavaggio Alla funivia di Erna
64 Escursionismo
All’inizio del sentiero delle Foppe

al mattino si era celebrato un matrimonio.

Chiusura in bellezza al Resegone

Durante la camminata ho cercato di sapere che aspettative avessero per l’indomani. I più attivi hanno espresso chiaramente il desiderio di torna-

re a casa con qualcosa di importante. Quindi abbiamo deciso di andare tutti al Resegone partendo dalla Bocchetta di Olino e abbiamo ripreso il programma iniziale di andare sul Resegone per il sentiero n. 1 per scendere poi dalle Forbesette e Passo del Giuf. Così, al mattino, tutti in funivia ai Piani d’ Erna, dove il gruppo dei tranquilli è stato intrattenuto da Emilio ed Enrico con brevi camminate qua e là per poi finire ai tavoli del Rifugio Marchett, mentre la minoranza più attiva ha gustato l’ascensione attraverso i boschi, qualche passaggio con le catene, qualche passaggio a gattoni, soprattutto con la vista sul nostro panorama incredibile: Pasquale a un certo punto si è seduto su uno spuntone e non avrebbe voluto staccarsene. Tra i primi a raggiungere la cima c’era un signore di 82 anni, ex veterinario, che ha voluto esprimere così il suo apprezzamento per I Promessi Sposi e Alessandro Manzoni. Il ritorno si è concluso al bar Da Tony con un aperitivo.

La tre giorni era al termine, e quale modo migliore di celebrarla se non con

una cena tutti insieme? Come sempre, la S.E.L. ha fatto le cose in grande. Al termine, il presidente del CAI Montaquila, Roberto D’Alessio, ha regalato il gagliardetto della sezione, un orologio da parete in tecnica raku (che adesso batte le ore nella nostra sezione) con lo stemma del CAI Lecco realizzato da un artigiano locale, una scatola di bottiglie di vino Tintilia (unico vitigno autoctono del Molise) per la sezione, una confezione di due bottiglie per il Presidente del CAI Lombardia Emilio Aldeghi un’altra per il sottoscritto come organizzatore e un’altra per la sig. Isabella, molto apprezzata, che, inizialmente restia, alla fine si è commossa.

Una signora del gruppo si è riunita col marito, che lavora in Svizzera; si è aggiunto il fratello con moglie di altri due del gruppo, e la domenica anche il loro figlio pure lui in Svizzera.

Lunedì il rientro per tutti.

È andato tutto bene, qualcuno mi ha riferito che sono ripartiti entusiasti.

TREKKING E SAPORI

Corsica: un’isola meravigliosamente saporita di Donatella Polvara*

Quando parliamo di montagna non pensiamo al mare, invece nel Mediterraneo possiamo trovare questo connubio perfetto fra sentieri escursionistici e spiagge incantevoli, come in Corsica: qui gli amanti del mare e del trekking possono fantasticare, così come i buongustai, trovano l’incontro perfetto fra il gusto acceso dei salumi e dei formaggi e il sapore delicato delle varietà di pesce. Un intreccio di aromi, che acquistano tutto il loro valore con le spezie, il buon vino e l’inconfondibile birra locale. Attraverseremo quest’isola meravigliosa alla ricerca di un trekking divertente e alla scoperta di sapori autentici.

Nella selvaggia valle della Restonica Ci troviamo nel Parco Naturale Regionale della Corsica. Lasciata Corte, principale centro abitato, capitale sto-

rica e culturale, crocevia strategico fra la parte orientale e quella occidentale dell’isola, proseguiamo verso nord, lungo la Valle della Restonica, una valle chiusa che si snoda lungo il fiume omonimo. Si viaggia lenti, i precipizi sono importanti, chi non guida può permettersi di osservare le magnifiche selvagge montagne che circondano la valle. Il paesaggio è davvero suggestivo, la strada è tortuosa, molto stretta e permette di vedere dall’alto il canyon, con tutte le sue gole e le pozze d’acqua dal colore verde blu. Siamo immersi in un bosco di larici che lasciano presto il posto ai pini neri che sembrano sorvegliare come delle sentinelle l’intera vallata. Qua e là, la macchia mediterranea ci regala le ginestre fiorite di un giallo acceso, a contrasto con le rocce illuminate dai primi raggi del sole e con gli ultimi ciuffi di erba ancora verde. Per chi volesse intraprendere questo trekking consigliamo di partire il mattino molto presto, onde evitare il caldo, buona

parte del percorso, infatti, è privo di vegetazione con il sole a picco. Lungo il sentiero, non ci sono fonti d’acqua, si dovrà partire attrezzati di beveraggio. Terminata la strada tortuosa, arrivati al piccolo ripiano della Bergerie de la Grotelle caratteristico per i suoi massi rocciosi di granito, troviamo il primo segnavia che indica l’inizio del sentiero.

Prima di iniziare il vero e proprio cammino che ci porterà al lago Melo, notiamo, non distante dal percorso, un piccolo ristoro, posto al riparo di grandi massi, portati da un’antica frana. Incuriositi ci fermiamo per scoprire di cosa si tratta. È un piccolo alpeggio ricavato nella roccia, con adiacente un locale ricolmo di attrezzi per fare il formaggio: fusti appesi ai rami degli alberi, secchi in acciaio, un grande fornello, caraffe e pentole. Il proprietario

Escursionismo

67

Foto di Domenico Sacchi Il lago Melo Dall’alto: Davanti al rifugio Gherardi; In vetta al Resegone

ci chiede in francese se vogliamo della birra fresca di grotta e una assiette di formaggi. Di prima mattina, dopo aver fatto la tipica colazione leggera per poi camminare di buona lena ed affrontare dislivelli importanti, non ci sembra il caso, ma ci spiace deluderlo. Accettiamo. Ci fa sedere su sgabel-

li di legno cigolanti, ricoperti con pelo di pecora, ci sediamo attorno ad un tavolo di ciliegio molto antico. Accende la stufa e prepara la tavola come se dovesse sfamare un reggimento di soldati affamati, poi inizia a raccontare la sua storia. Intanto ci offre del pane nero caldo, formaggi di varie stagio-

Dall’alto: Attrezzature per la produzione del brocciu; Donatella con il casaro; Forme di brocciu in stagionatura

nature, birra, miele, marmellata di fichi… cogliamo l’occasione per intervistarlo.

È nato e cresciuto nella Valle e fin da piccolo mungeva le capre e le pecore, preparando il formaggio con il nonno, ora è anziano e lo aiutano la figlia e il genero, che ogni giorno scendono in paese per fare rifornimento di viveri. Così si continua la produzione del tradizionale formaggio tipico della zona. Ci troviamo a 1400 metri di quota, in un luogo selvaggio e poco raggiungibile, circondati da massi, e da un tipo di vegetazione che, per sopravvivere, si aggrappa alla poca terra che si trova fra le pareti rocciose. Un torrente dall’acqua cristallina scorre impetuoso fra le pendici delle montagne, così ripide, che solo le capre e gli stambecchi riescono a farsi spazio per stare in equilibrio. Egli ci dice che possiede circa 50 capi tra pecore e capre. Ora gli animali sono sparsi per la montagna, ma la sera il cane li recupera e li porta all’ovile. Capre e pecore vengono munte ogni giorno manualmente, o con l’aiuto di un sistema assai rudimentale, ma molto efficiente. Incuriositi gli chiediamo qualcosa in più del buonissimo formaggio.

Il formaggio brocciu Si chiama brocciu chi non conosce questo formaggio non può dire di essere stato in Corsica!

Prende origine dal siero del latte di pecora che viene mischiato con quello di capra. Durante la lavorazione, il siero viene addizionato con latte intero di pecora e di capra. La coagulazione avviene a temperature molto alte, di circa 75-80°C, il brocciu sale in superficie e viene travasato manualmente negli stampi appositi, dove viene lasciato a scolare. Dopo solo 2 o 3 ore potrebbe già essere consumato.

È denominato il formaggio nazionale, il suo nome infatti deriva dalla parola francese brousse (formaggio fresco), che in dialetto corso si pronuncia brocciu. La sua tecnica di produzione è stata tramandata di generazione in generazione, dall’Ottocento fino ai giorni nostri. Questa famosa prelibatezza corsa viene utilizzata in ogni sua forma per fare dolci, per condire cannelloni, per arricchire piatti di salumi. Può avere vari livelli di stagionatura, fresco o più stagionato, è ricco di sali minerali, proteine e calcio; spesso arricchito con miele, è molto leggero da portare nello zaino, l’ideale per uno spuntino ricco e appetitoso. Usato per la preparazione di insalate, omelette, torte, cannelloni, polenta e dolci, ha un sapore molto delicato, per questo è un elemento assai versatile in cucina. Ne esiste una versione maggiormente stagionata, dal colore più scuro, di un giallo intenso che al palato si presenta piccante; viene in genere servito con salumi, accompagnato da miele, o confetture di fichi o di castagne.

Al lago Melo

Dopo aver assaggiato il brocciu vera e propria leccornia corsa, iniziamo il trekking nella Riserva naturale del Massiccio del Monte Rotondo, che ci porterà al lago Melo, a 1711 metri di quota. Il sentiero, ben segnalato con cartelli visibili, inizia subito a salire, con una bella pendenza, procediamo lentamente, anche per il fatto che abbiamo la pancia piena! Tra un blocco di granito e l’altro, prendiamo quota, aiutati anche dalle mani, grazie al supporto di grosse catene fisse e una scaletta in ferro. Al nostro fianco scorre il torrente, di tanto in tanto ci rinfreschiamo, in quanto il caldo inizia a farsi sentire. Il percorso

in molti punti è privo di vegetazione e il sole scalda i sassi, aumentando notevolmente la temperatura dell’aria circostante. Il percorso è davvero divertente e in poco più di un’ora, la nostra salita giunge al termine. Davanti ai nostri occhi, come d’incanto, si apre la vista del lago, in tutto il suo splendore. Una pozza d’acqua cristallina, dal colore verde smeraldo, che riflette le cime delle montagne, in tutte le loro forme. Questo lago è di origine glaciale, e rifornisce il principale torrente chiamato Restonica. Nonostante l’acqua sia molto fredda, un piccolo bagno ai piedi ci apporta una sensazione di piacevole recupero. Notiamo che dal lago è possibile proseguire, grazie ad un sentiero ben segnalato. Infatti, chi, ben allenato, volesse cimentarsi in un tragitto più lungo, può raggiungere, in poche ore, l’impegnativo itinerario GR 20 che, in più tappe, attraversa l’intera isola, da Nord a Sud, indicato

con segnalazioni bianco/rosse, simili a quelle del CAI. Per questa volta il nostro percorso si ferma qui, tuttavia promettiamo di tornarci, per esplorare la zona oltre il lago. Ora ci resta solo il tempo per un piccolo spuntino fugace, a base di salumi speziati, acquistati in una delle salumerie montane nei pressi del deserto di Agriates, e birra corsa, famosa per il retrogusto di castagne. Lasciamo il lago Melo, iniziamo la discesa verso valle. Ci attendono allo stagno di Diana.

Trekking e ostriche allo stagno di Diana

I panorami più belli di mare sono quelli che si ammirano al tramonto, i loro colori lasciano un ricordo indelebile nella mente e nel cuore. Questa volta però, a nord di Aleria, una laguna risalente all’epoca romana, poco frequentata e selvaggia, ci regalerà, al calar del sole, grandi emozioni di sa-

Dall’alto: Lo stagno di Diana; Rocce e foreste di pini nella valle Restonica

pore.

L’appuntamento è allo Stagno di Diana. Iniziamo subito il percorso ad anello che in poco più di un’ora ci porterà a destinazione. Il sentiero dapprima si snoda lungo i campi di papavero e poi, diventando più sabbioso, prosegue lungo la spiaggia, fiancheggiando vigneti e la classica vegetazione della macchia mediterranea, composta da mirto e ginestre. Il percorso, questa volta, non è ben tracciato, ci aiutiamo grazie alle indicazioni del GPS, per non perdere la rotta, così facendo, in alcuni tratti, ci facciamo strada anche fra l’erba incolta. Siamo immersi completamente nella natura, possiamo ammirare magnifici scorci sul mare e sulla riserva d’acqua. Nonostante questo tragitto sia considerato una semplice passeggiata, non impegnativa, per via dell’assenza di dislivello, la mancanza completa di fonti d’acqua potabili, richiede di mettere nello zaino l’adeguato beveraggio. In circa un’ora e mezza raggiungiamo il punto di ritrovo, il ristoro galleggiante dello stagno, non lontano dall’allevamento dei crostacei.

Lo stagno di Diana è incantevole: uno specchio d’acqua nel quale si riflette il sole, ormai sceso all’orizzonte. In lontananza, illuminati dagli ultimi

bagliori del giorno, spiccano i tralicci di legno, supporti necessari, per fissare le reti che, immerse in acqua, assicurano la coltivazione delle ostriche. Le origini di questo stagno sono molto antiche; venne realizzato dai Romani, allo scopo di allevare crostacei, per arricchire le portate dei rituali banchetti dell’epoca. Ancora oggi l’ostricoltura è molto fiorente, e vanta il fatto che le acque dello stagno sono alimentate sia da importanti affluenti, che dalle correnti del mare. Il continuo ricambio d’acqua assicura la completa ossigenazione e la biodiversità delle specie ittiche presenti. Questo luogo è un vero e proprio ecosistema. Il tutto può essere apprezzato dal sapore delle ostriche di Diana che viene considerato dagli intenditori qualcosa di eccezionale. Il loro sapore cambia, in funzione della stagione, così anche la consistenza del mollusco, carnosa e ben addentabile è completamente diversa da quella dei crostacei del mare del Nord. Il loro sapore è molto più dolce e, nei periodi invernali, assume un retrogusto di nocciola. Queste caratteristiche uniche ed inconfondibili, non trovano una spiegazione scientifica, ma allietano il palato, anche dei più esigenti.

Ricordi da mettere nello zaino

Lasciamo la Corsica, arricchiti di grandi emozioni. Alte vette che si stagliano nel cielo blu, in mezzo ad un mare cristallino. Spiagge solitarie, raggiungibili solo a piedi, dai colori accesi: ocra, grigio brillante, nero e arancio. Una miriade di tonalità a regalare grandi emozioni agli occhi dei numerosi turisti che, ogni anno, raggiungono questi luoghi, per ammirare lo splendore della natura, camminare, immergersi in un mare blu ed assaggiare prodotti locali. Fra le isole del Mediterraneo, qui abbiamo trovato il connubio perfetto fra dieta mediterranea e dieta alpina. I numerosi sentieri escursionistici, con più di 200 chilometri di percorsi che attraversano scenari suggestivi, con vette che arrivano a toccare i 2.700 metri di quota, ci hanno permesso di raggiungere alpeggi e piccoli ristori abbarbicati, dove viene preparato un ottimo miele, del formaggio speziato e dei salumi locali dal sapore unico. Mentre, verso il mare, nelle numerose spiagge raggiungibili solo a piedi, abbiamo scoperto trattorie locali “di fortuna” che servono, oltre a fresche insalate arricchite con uova, tonno, acciughe, capperi, pomodori e cumino, anche dell’ottimo pesce, cotto alla brace. Ci sarebbe stato ancora tanto da scoprire, ma come si dice: “è bene lasciare sempre qualcosa di inesplorato per la prossima avventura!”

Foto di Donatella Polvara

ATTORNO ALLA MARMOLADA

Un trekking al tempo dei disastri ambientali

*Socia del CAI Lecco, consigliere del CAI Regione Lombardia, biologa nutrizionista, divulgatrice scientifica e autrice di saggi sull’alimentazione. Presente sui social con pagina FB: Alimentazione in ambiente estremo.

Canale youtube: Donatella Polvara.

di Tiziano Riva

Per il gruppo di Alpinismo Giovanile del CAI Lecco, ormai da 19 anni, il mese di luglio è tempo di trekking.

La meta scelta per il 2022 era la Marmolada, ma gli eventi funesti dei crolli sul ghiacciaio e la conseguente chiusura di molti sentieri ci hanno fat-

del trekking to capire da subito che sarebbe stato impossibile realizzare il programma così come era stato pensato.

D’altra parte la meta era stata scelta da tempo, i rifugi prenotati e gli accordi presi: decidiamo di partire comunque, con l’idea che se non sarà possibile seguire il percorso programmato, si camminerà su percorsi alternativi.

Il gruppo è il solito, ormai affiata-

to, di accompagnatori e ragazzi che partecipano da anni; mancano nuovi iscritti per la carenza di allievi dei corsi nei due anni dopo la pandemia, specie del corso di perfezionamento, solitamente vivaio di ragazzi dell’età giusta per questa attività.

20 luglio: al passo delle Selle attraverso la valle dei Monzoni Si parte dalla sede CAI la mattina del 20 luglio, destinazione Val di Fassa, con tappa a Nova Levante per recuperare il fedelissimo Stefano, O.N.C. (Operatore Naturalistico Culturale) del CAI di Fortezza che ormai da 15 anni partecipa alle nostre attività; la zona della Marmolada è pregna di testimonianze storiche e particolarità geologiche che speriamo di approfondire con il suo aiuto.

Scorcio dell’abitato di Corte Dall’alto: Davanti al rifugio Falier; Sotto: Francesco Nolasco e Tiziano Riva, responsabili 71 Alpinismo Giovanile

Arrivati a Pera risaliamo su sterrato la valle dei Monzoni sotto una lieve pioggerella fino alla malga omonima, per salire poi al rifugio Taramelli e al passo delle Selle, con omonimo caratteristico rifugio, meta della nostra prima tappa.

Serata bellissima, grande eccitazione e paesaggio stupendo sulla terrazza del rifugio posto a 2.500 metri sulla valle del passo San Pellegrino; scambio di informazioni col gestore che ci conferma la chiusura dell’itinerario da noi previsto per ritardi nella sostituzione delle corde di sicurezza.

21 luglio: dalla valle di San Nicolò al rifugio Contrin

La mattina seguente cambio di itinerario: niente Creste di Costabella e Cima dell’Uomo, ci incamminiamo invece lungo il Sentiero Badia sull’Ort per discendere nella Val San Nicolò che percorreremo sino a salire all’omonimo passo e rifugio per poi scavallare e scendere al rifugio Contrin, proprietà dell’Associazione Nazionale Alpini, seconda tappa del nostro giro.

22 luglio: sulla cima dell’Ombretta

Il terzo giorno ci aspetta la vetta! Partenza di prima mattina verso il Passo delle Cirelle e deviazione per la Ferrata dell’Ombretta, breve itinerario attrezzato che ci permette di risalire i bastioni rocciosi del Sasso Vernale e proseguire nella ghiaiosa conca glaciale verso la cima dell’Ombretta, ambiente molto selvaggio alle spalle della Marmolada.Da questa cima la parete Sud della “Signora delle Dolomiti “è così vicina che sembra di toccarla; davanti a noi il Passo di Marmolada, che porta a scavallare verso il lago

Dall’alto: I ragazzi lungo il sentiero G. Badia sull’Ort; Il rifugio Passo delle Selle; La Ferrata dell’Ombretta

Fedaia: sarebbe stato la nostra meta del giorno seguente se il sentiero per raggiungerlo non fosse stato chiuso.

Ovunque intorno e sotto di noi manufatti della Grande Guerra: sentieri di cresta, gallerie e, scendendo verso il passo omonimo, un castelletto e ancora gallerie scavate alla base della Sud della Marmolada: erano servite agli Italiani per presidiare e difendere il passo da un eventuale sfondamento delle truppe austriache che occupavano la val Contrin e la Marmolada.

Prima di scendere al Rifugio Falier, terza meta per la notte, i ragazzi si sono divertiti ad esplorare le gallerie e i sentieri di arroccamento alla ricerca

di reperti della guerra, scattando foto suggestive a ricordo della giornata.

23 luglio: in bus al lago Fedaia, ancora sulle tracce della Grande guerra

La mattina seguente, scesi a Malga Ciapela, abbiamo preso il bus di linea che ci ha condotto al Lago Fedaia dove abbiamo passato il resto del sabato a scambiarci impressioni sul giro compiuto e sui tragici avvenimenti delle settimane precedenti che ci avevano costretto a una serie di cambiamenti di itinerario.Nel pomeriggio abbiamo visitato il museo della guerra oltre la diga, mentre una fredda nebbiolina avvolgeva la montagna,

presagio della copiosa pioggia serale che avrebbe degnamente coronato la festa per la conclusione del nostro diciannovesimo trekking.

Un commento sulla zona frequentata è del tutto superfluo: ottima l’accoglienza nei rifugi così come lo stato dei sentieri e della segnaletica.Malgrado i problemi logistici determinati dalle modifiche di percorso, l’esperienza è stata estremamente positiva e grande la voglia di iniziare a preparare il ventesimo trekking, tappa importante per il nostro gruppo, nella speranza di coinvolgere nuovi ragazzi e, chissà, qualche nostalgico che per l’occasione decida di ritornare a farci compagnia in questa bella avventura.

Foto di Tiziano Riva Dall’alto, in senso orario: Ragazze e ghiaioni; Marmolada dal rifugio Castiglioni; Sulla cima dell’Ombretta 3011 m.

ASPETTANDO LA PROSSIMA STAGIONE

Le ultime avventure dei fondisti nel 2022

di Giusi Negri e Pina Ietto

Maratona sul percorso della Engadin

Skimarathon

E’il 27 febbraio e il corso di addestramento si conclude come da tradizione con la “Maratona”: ognuno dei partecipanti decide se affrontare il percorso completo della Engadina Skimarathon o cimentarsi su tratte più brevi. L’arrivo previsto per tutti è Zuoz.

E’una bellissima giornata e indipendentemente dai chilometri che percorreremo sulla neve sarà sicuramente una giornata di divertimento.

Così è stato. A Zuoz, dopo la foto di rito con tutti i partecipanti, si riparte per quel di Lecco.

La Tre giorni in Alto Adige

IGruppo Sci di fondo del Cai Lecco, oltre ad aver organizzato le uscite del sabato e della domenica, ha riproposto come di consuetudine la tre giorni di febbraio (18-19-20).

I fondisti e i camminatori sono pronti per questa nuova avventura in un territorio ben conosciuto per vari sport, dallo sci alla bicicletta al trekking e altro.

Partiamo venerdì sull’autobus di Linee Lecco guidato dal nostro autista

Saverio per raggiungere San Vigilio di Marebbe, dove a piccoli gruppi sciamo sulla pista verso il rifugio Pederù a quota 1.500 m, in un contesto bellissimo e su un percorso molto vario. E come si dice: “buona la prima”.

Si parte poi verso il nostro Hotel Millanderhof ***s a Bressanone (Bri-

xen) gestito splendidamente dal Signor Markus.

Saliamo nelle nostre camere, ci riposiamo, leggiamo e gustiamo un’ottima cena tipica del luogo.

Al sabato dopo una ricca colazione siamo pronti per raggiungere l’Austria dal Passo del Brennero: sciamo nella regione della Wipptal su vari facili percorsi, siamo a bassa quota (1.200 m), la neve non è molta ma il divertimento è assicurato; il gruppo delle camminatrici raggiunge in funivia la zona del Plose sopra Bressanone.

L’hotel ci attende. Prima di cena ci rechiamo in centro per una visita al Duomo, alle Piazze, acquistiamo prodotti locali, qualcuno si reca in piscina; dopo una lauta cena giochiamo a carte.

Al mattino della domenica al seguito della buona colazione prepariamo i bagagli, passiamo per Bolzano e raggiungiamo la Val di Pennes. Il tempo è molto bello, le piste sono varie e assolate.

Quest’anno a causa delle restrizioni

del Covid 19 non è stato organizzato il consueto momento conviviale a base di buon cibo e in allegria.

Partiamo da Asten e arriviamo a Lecco alle 20, un viaggio molto tranquillo.

Anche questa tre giorni (che aspettavamo da due anni) è stata una bella avventura, tra sciate, risate, luoghi montani, vento, sole, divertimento e molto altro.

Rimane per me una bellissima esperienza all’aria aperta e lontano dalla quotidianità da condividere in compagnia, oltre che allenamento per la prossima Engadin Skimarathon di domenica 13 marzo.

Ringrazio i nostri accompagnatori: Pina, Giovanni, Salvatore e Daniele per l’organizzazione, e tutti gli sciatori e i camminatori.

Per concludere, ecco il motto: ma dove vai? Vieni al CAI

Il pensiero di tutti è che abbiamo vissuto una stagione bella e divertente, nonostante le difficoltà ancora imposte dalla pandemia e l’obbligo di indossare la mascherina a bordo del bus

Un pensiero di affetto e di ringraziamento va sicuramente a Stefano Vimercati che purtroppo ci ha lasciato quest’anno. Stefano è stato il nostro mentore, ha saputo gestire e far crescere questo gruppo per tanti anni con grande dedizione, capacità organizzativa e precisione… grazie Stefano.

La gara finale del Corso di Addestramento

E’una giornata come le altre?

Assolutamente no, è la giornata della “Gara”: saliamo sul bus e nell’aria c’è un misto di eccitazione e di adrenalina.

Si parte per Surlej. Il percorso sarà di 10 chilometri a tecnica classica da Surlej a Sils.

Arriviamo a Surlej e c’è un pochino di agitazione perché, pur trattandosi solo di una gara sociale, ognuno dei partecipanti si mette alla prova e met-

te in pratica quello che ha imparato durante il corso.

Cruciale il momento della sciolinatura, perché è lì che si gioca il tutto.

Ci portiamo alla partenza, e arriva il momento del Viaaa!

Il gruppo degli istruttori ha il compito durante la gara di assistere e fare il tifo.

Giovanni attende all’arrivo e da buon informatico è molto preciso a prendere i tempi.

Con grande entusiasmo arriva il primo, Michele Andreotti con un tempo di 50:31,99, poi la prima, Maria Grazia Castelletti, con un tempo 1:04,52, e via via tutti gli altri.

E’stata una bella giornata. Tutti insieme ci ritroviamo presso la sede del CAI per la premiazione, con i premi gentilmente offerti Fulvia e Giorgio, nostri sponsor da diversi anni.

Grazie davvero a tutti

75 Sci di Fondo
Giusi Negri
74 Sci di Fondo
Zuoz, all’arrivo della Maratona. Foto di Marta Bucca Pina Ietto Pina Ietto Dall’alto: In Val Sarentino. Foto di Marta Bucca; Un momento della Gara Sociale di Sci di Fondo. Foto di Pina Ietto

La pioggia non è mai stata un problema per i seniores del GEO e quindi nonostante il tempo non sia stato benevolo (solo un giorno dei tre è stato bello) abbiamo ef-

A Livigno dal 7 al 9 giugno

SETTIMANA VERDE DEL GEO

Escursioni, buona cucina e cultura nello scenario della Val di Fassa

di Lina Astorino

fettuato lo stesso tutte le escursioni previste.

La prima in Val Nera è stata condotta sotto la pioggia, ma ciò non ha impedito di ammirare lo splendido

paesaggio della valle e di attraversare l’omonimo fiume su un ponte tibetano. Inaspettatamente all’Alpe Vago abbiamo trovato aperto l’annesso agriturismo aperto, dove abbiamo potuto ripararci dall’acqua battente e assaggiare alcune delle specialità offerte. L’indomani l’escursione in Val Federia è stata piacevole e non difficoltosa. Siamo arrivati quasi in fondo alla valle e nell’omonimo agriturismo abbiamo potuto apprezzare i piatti tipici della cucina valtellinese.

La breve vacanza si è conclusa con l’escursione al Crap de la Paré un percorso su un crinale a 2.390 metri di quota da cui si gode una impagabile vista su Livigno e sulle montagne circostanti. Sono stati con noi per tutto il tempo della vacanza gli amici svizzeri del CAS Piero e Therèse.

Un grazie di cuore a Gianni e Vasco la cui conoscenza dei luoghi ha permesso di vivere appieno questa vacanza.

La “settimana verde” è una delle tre settimane che annualmente si ripetono, insieme a quella “bianca” e “azzurra”, nel programma escursionistico del GEO, Gruppo Età d’Oro della sezione CAI di Lecco. Quest’anno lo scenario è stata la Val di Fassa, con base a Soraga. Dal 26 giugno al 2 luglio i 31 partecipanti hanno avuto modo di condividere escursioni e momenti conviviali e di “fare gruppo”, in particolare con i nuovi seniores da poco avvicinati

al GEO e con due amici del CAI di Catania, Pinuccia e Luigi, che hanno voluto partecipare a questa nostra esperienza.

Il giorno dell’arrivo è stato subito utilizzato per sgranchirsi le gambe dopo il viaggio, raggiungendo Moena, mentre il secondo giorno ha visto il gruppo raggiungere il Passo San Pellegrino e il rifugio Fulciade, con una splendida una fioritura di stelle alpine.

Il programma del 28 giugno prevedeva di raggiungere la Malga Venegia, sot-

to le Pale di San Martino, ma le previsioni meteo erano piuttosto incerte e, consigliati dalla nostra guida Sabrina e dagli albergatori della famiglia Zanon, abbiamo prudentemente deciso di cambiare programma per compiere un’uscita da Soraga a Vigo di Fassa, guidati da Matteo Zanon. Lungo il percorso abbiamo avuto modo di ammirare le Terre Rosse di Soraga e di conoscere anche l’aspetto storico e ambientale della zona, da lui illustrati con grande passione. Il meteo continua ad essere avverso anche il 29 giugno, sconsigliando escursioni in quota: dopo un rapido consulto, modifichiamo il programma e ci dirottiamo su una visita a Bolzano, dove, grazie all’impegno di Gianni, prenotiamo una visita guidata al Museo Archeologico cittadino che ospita la celebre mummia di Otzi, l’uomo venuto dal ghiaccio.

77 Geo
Sopra: Alla Roda di Vael; Sotto: Nella valle di Contrin Foto di Lina Astorino Sopra: Crap da la Paré Sotto: Val Fedaria

Escursione in quota con passaggio al lago di Carezza

Il 30 giugno, con un meteo clemente, ci rifacciamo con gli interessi e, condotti dalla nostra guida Sabrina, partiamo per una bellissima escursione. Poco dopo il Passo di Costalunga prendiamo la seggiovia che ci porta in quota al rifugio Paolina (2.127 m); dopo un tratto in salita raggiungiamo i 2.280 metri e il monumento dedicato al pioniere del turismo sudtirolese

Theodor Christomannos, ovvero una possente aquila in bronzo. Proseguiamo senza particolari dislivelli con una vista mozzafiato sulle cime circostanti e con la flora alpina al massimo del suo splendore.

Raggiunto il rifugio Roda di Vael facciamo sosta, mentre un gruppetto prosegue fino a Pael (2.330 m). Prima del rientro facciamo il giro del lago di

Carezza, ritenendoci fortunati di averlo visto, ma con la speranza che ritorni quello che era in passato.

L’indomani da Alba di Canazei percorriamo la valle di Contrin fino a raggiungere l’omonimo rifugio, sul versante ovest della Marmolada. Purtroppo, non possiamo fermarci troppo perché il tempo non promette bene e ridiscendiamo la valle facendo una piccola deviazione con il bus fino al Passo del Pordoi, giusto in tempo per ammirare lo spettacolare panorama e fare qualche foto.

Non solo escursioni

Il 2 luglio è giorno di ritorno, con la mattinata dedicata allo shopping. Con l’occasione riceviamo i ringraziamenti di Cinzia rivolti a tutte le persone che, nello spirito del GEO, l’hanno aiutata a superare alcune difficoltà, consenten-

dole di partecipare a tutte le uscite.

Si ritorna a casa contenti, grazie anche alle serate in albergo, con musica dal vivo, dove il nostro Franco Zocchia si è fatto apprezzare per le sue doti canore. Interessante l’incontro con il geologo Maurizio Farinetti, grande esperto che ci ha intrattenuti sugli aspetti geologici delle Dolomiti, arricchendo il suo racconto con aneddoti sulla sua vita e su personaggi del territorio.

I ringraziamenti per la “settimana verde” vanno al presidente del GEO Enrico Roncaletti, al vice Gianni Valsecchi nonché alle infaticabili Lina Astorino e Angela Ratti che hanno contribuito all’ottima organizzazione della settimana.

Foto di Lina Astorino

Nei pressi del rifugio Fulciade

Trent’anni di GEO

Un lungo percorso di montagna e solidarietà di Giovanni Valsecchi

Grazie alla intuizione di soci CAI, e in particolare di Anna Clozza, nell’ormai lontano 1991/92 nacque il GEO, Gruppo Età d’Oro ovvero Seniores, della sezione di Lecco del CAI.

Come formazione professionale Anna era un’assistente sociale. La domanda che le si presentò fu probabilmente questa: una persona che ha superato la soglia degli “anta” cosa può ancora fare? E la risposta che si diede è tuttora valida: con l’aiuto di alcuni amici è possibile scoprire che dopo questa soglia si è ancora in grado di fare

molte cose e, innanzitutto, che ciascuno può mettere al servizio di tutti l’esperienza di vita e di montagna accumulata nel corso degli anni.

Cosi è partito il progetto GEO che col passare del tempo ha portato a risultati allora impensabili. Oltre alle gite settimanali, con sempre una numerosa partecipazione, vennero poi organizzate durante l’anno settimane di vera e propria vacanza. Nacquero in questo modo le settimane bianche, verdi e azzurre, che sono servite, e servono, ad amalgamare ancor più le amicizie destinate a nascere all’interno del gruppo.

È proprio in questo rapporto che molti di noi trovano sostegno e conforto in momenti di particolare bisogno (perdita di

persone care, affronto di severe malattie…).

È in questa dimensione di amicizia e solidarietà che uno ritrova il desiderio di una ripresa per superare momenti difficili. Questo impegno è stato riconosciuto a livello cittadino con l’attribuzione al GEO, il 2 Dicembre 2018, del “Nicolino d’Oro”, benemerenza attribuita nel lecchese a persone e gruppi per il loro impegno nel sociale. Purtroppo in questi ultimi anni molti amici ci hanno lasciato, ma la loro presenza continua ad essere sentita sempre viva. Grazie ai loro insegnamenti infatti la voglia di “fare GEO” permane, anzi è sempre in aumento, e ciò si riscontra nel sensibile incremento di nuovi iscritti.

Nelle foto il gruppo GEO ai Resinelli nel 5° anno di attività. Al centro con una coppa in mano Anna Clozza. Giugno 1996

ALBERTO MARIA DE AGOSTINI

All’inizio della storia d’amore fra alpinisti lecchesi e montagne patagoniche

di Serafino Ripamonti

Per gli appassionati lecchesi di montagna quello di Alberto Maria De Agostini è un nome noto, legato a doppio filo con la nostra storia alpinistica.

Fu infatti il grande geografo, esploratore e missionario salesiano ad accendere la prima scintilla dell’infinita storia d’amore fra gli alpinisti lecchesi e le montagne della Patagonia.

Nel 1956 De Agostini invitò Carlo Mauri, giovane talento emergente dell’alpinismo lecchese, a partecipare alla spedizione al Monte Sarmiento, una delle “sfingi di ghiaccio” che svettano sopra i fiordi della Terra del Fuoco, perennemente tormentate dalle tempeste.

Da quell’esperienza Mauri tornò con una splendida vetta conquistata in cordata con la guida alpina di Pinzolo Clemente Maffei, e con un carico di stupore e ammirazione per le selvagge montagne australi.

I suoi racconti e le fotografie scattate nel corso della spedizione incantarono anche gli amici lecchesi e cominciarono a diffondere a Lecco il sogno di quelle terre lontane, con i loro spazi immensi e le loro cime: bellissime, difficili e ancora in gran parte da salire!

Fu proprio Mauri, nel 1966 a guidare la spedizione lecchese al Monte Buckland, sempre nella Terra del Fuoco, impresa che segnò il primo incontro del giovane Casimiro Ferrari con le montagne che diventeranno il suo regno. Da lì in avanti, sino ai giorni nostri, i lecchesi sarebbero tornati ancora e ancora in Patagonia e nella Terra del Fuoco, spesso inseguendo sogni di vette e pareti sorti proprio leggendo le descrizioni che De Agostini ne faceva nei suoi libri, rese puntuali, chiare e dettagliate dal suo sguardo lucido e razionale di geografo, ma anche piene dell’incanto e della meraviglia suscitati dal suo cuore di alpinista.

Viste queste premesse potete ben immaginare l’entusiasmo con cui io e Giuliano Maresi abbiamo aderito

all’invito a partecipare in rappresentanza del Gruppo Ragni al convegno dal titolo “Alberto Maria de Agostini - Immagini di un mondo scomparso”, svoltosi alla fine dello scorso mese di aprile presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma.

Al primo momento di euforia però è presto seguito un po’ di smarrimento: cosa potevamo raccontare noi due semplici alpinisti nel contesto di un convegno scientifico, al quale prendevano parte ricercatori, storici, esperti di geografia e antropologia, direttori di musei, critici letterari e poeti?

A toglierci d’impaccio ci ha pensato don Francesco Motto, deus ex machina del convegno e direttore dell’Istituto Storico Salesiano, che, oltre alle sue evidenti competenze accademiche, ha indubbiamente anche una certa conoscenza di cose di montagna: originario di Missaglia, in Brianza, don Francesco ha, infatti, ben presente chi siano i Ragni e quale il loro rapporto con la Patagonia. Una cordiale telefonata ha chiarito ogni nostro dubbio: “Mi piacerebbe che voi veniste a Roma

per parlare del De Agostini alpinista e delle grandi salite dei Ragni, raccontandoci in particolare cosa significhi fare alpinismo fra quelle montagne, e cosa poteva significare farlo ai tempi di Alberto Maria De Agostini”.

Questa la missione a cui abbiamo cercato di dare riscontro con il nostro intervento. Da parte mia ho tentato di tracciare un profilo storico delle prime ascensioni compiute da De Agostini e dalle sue guide alpine nel corso delle campagne di esplorazione geografica delle aree interne dell’estremo sud del continente americano. Scalate come quella del 1913 al Monte Olivia (1326 m), nei pressi di Ushuaia, oppure quella della bella piramide del Monte Mayo (1486 m), nel 1931. Poi la fantastica prima traversata della gigantesca distesa glaciale dello Hielo Continental e della Cordillera Patagonia Australe, conclusasi sulla vetta inviolata del Monte Torino, ad un passo dalle coste del Pacifico. Infine la sua più bella e difficile ascensione: quella dell’impressionante mole del Monte San Lorenzo, con i suoi 3706 metri la seconda vetta

per altezza di tutta la Patagonia. Tutte imprese il cui valore può essere meglio compreso contestualizzandole negli anni in cui si sono svolte e mettendo in risalto il fatto che, nonostante l’attività alpinistica del sacerdote salesiano fosse troppo in anticipo sui tempi per poter aspirare alle vette più simboliche della Patagonia come il Cerro Torre o il Fitz Roy, è stata proprio la sua infaticabile attività esplorativa e di documentazione, nonché le sue narrazioni, ricche di un patos che va ben oltre la fredda descrizione scientifica, a costruire il mito di quelle grandi vette di granito e ghiaccio verticali, che diverranno l’obiettivo degli scalatori delle epoche successive.

L’intervento che ha avuto maggior successo è stato però quello di Giuliano. Il suo racconto pieno di aneddoti gustosi e di esperienze vissute in prima persona, spesso letteralmente ricalcando le orme di De Agostini, toccando i luoghi remoti che lo stesso esploratore aveva per primo visitato, hanno avvinto e affascinato tutta

la platea. Quel mondo di spazi infiniti, di vento implacabile, tempeste e ruvida bellezza che molti avevano fino ad allora conosciuto solo attraverso i libri, Giuliano, con parole solo apparentemente semplici, è stato in grado di materializzarlo lì davanti alla platea.

Il breve tempo a nostra disposizione ci ha costretto ad un’esposizione succinta ed essenziale, ma, dopo la conclusione della giornata di lavori, Giuliano ha avuto il suo bel da fare per intrattenere tanti curiosi, fra relatori e spettatori, che lo hanno avvicinato per conoscere da lui altri aneddoti e particolari sui luoghi lontani ed affascinanti che ha tante volte visitato.

Le giornate del convegno, che entrambi abbiamo voluto seguire interamente, sono state per noi l’occasione per approfondire la conoscenza dell’incredibile e poliedrica personalità di De Agostini. Relazioni come quella di Daniela Berta, direttrice del Museo

Serafino Ripamonti e Giuliano Maresi in rappresentanza del gruppo Ragni al convegno “Alberto Maria de Agostini - Immagini di un mondo scomparso”, Roma 25-27 aprile 2022
81 Appuntamenti
Alcuni relatori del convegno. In maglione rosso due rappresentanti del gruppo Ragni
80 Appuntamenti

della Montagna di Torino, che ha portato all’incontro la versione restaurata dello splendido film “Terre Magellaniche”, quella di Tommaso Sardelli, che ha approfondito il tema del De Agostini fotografo, oppure quella di Francesco Surdich dell’Università di Genova, focalizzata sulle esplorazioni condotte dal sacerdote, hanno messo in risalto i diversi aspetti e interessi di una personalità che non è esagerato definire geniale.

Esploratore, geologo e antropologo dilettante - ma capace di osservazioni e intuizioni profondissimepioniere della fotografia di montagna e della cinematografia naturalistica, De Agostini è stato sicuramente un uomo capace di vedere molto lontano, non solo sull’orizzonte geografico, ma anche su quello temporale. Tutta la sua opera è infatti permeata da una sensibilità davvero sorprendente per i

suoi tempi. Nel pieno splendore dell’economia delle estancias egli è stato ad esempio in grado di denunciare i gravi danni ambientali e lo stravolgimento del paesaggio naturale patagonico causati dalla deforestazione e dagli incendi dolosi appiccati per creare sempre nuovi pascoli. Ha difeso i diritti degli ultimi indios fuegini e ha compreso l’importanza di testimoniare, attraverso straordinarie riprese cinematografiche, gli usi e costumi tradizionali delle ultime tribù native, pochi anni prima che scomparissero per sempre.

Come spesso avviene anche De Agostini ha subito il destino dei profeti in patria. Della sua figura e della sua opera poco si sa in fondo nel nostro

Paese, eppure, come ha testimoniato Pavel Oyarzun Diaz, poeta e docente presso l’Università Magallanes del Cile, l’immaginario stesso dei popoli suda-

mericani, il modo in cui essi si rapportano e si identificano con la natura e il paesaggio della Patagonia è deriva da De Agostini e dalla sua opera e il suo nome è sicuramente uno fra i più conosciuti e ammirati anche nel contesto della più ampia cultura popolare.

Alberto Maria De Agostini è scomparso il 25 dicembre del 1960 a Torino ed è venuto al mondo il 2 novembre del 1883 a Pollone, vicino a Biella, l’anno prossimo ricorrerà dunque il 140esimo della sua nascita... sarebbe bello trovare un modo per celebrare questo grande italiano anche nella nostra città, che in fondo ha un enorme debito di riconoscenza nei confronti di questo primo esploratore e ispiratore dell’alpinismo patagonico.

DUE MOSTRE PER MONTI SORGENTI 2022

Le montagne di Paolo Punzo e l’alpinismo di Ginetto Esposito

DON ALBERTO MARIA DE AGOSTINI (1883-1960)

Fratello minore di Giovanni, fondatore della Casa Geografica De Agostini, arrivò in Cile nel 1910 e si prodigò come missionario nelle case salesiane della Patagonia meridionale e in favore degli indios.

Per quasi 50 anni — con nove attraversate oceaniche — trascorse molti periodi estivi in luoghi poco esplorati, dove fu scalatore, cartografo, fotografo e produttore di documentari straordinari, che negli anni fra le due guerre fecero conoscere agli Italiani monti, laghi, flora, fauna della natura antartica e pure la lenta agonia degli indigeni. Le sue fotografie per molti anni illustrarono manuali di geografia in uso nelle scuole italiane. Volumi e articoli scientifici gli procurarono prestigio e riconoscimenti in Europa e America.

Gli furono dedicati: un grande parco nazionale, un lungo fiordo, la cima più alta della massiccio del Paine, piazze e vie. Il suo nome è legato alle grandi imprese dell’alpinismo andino, soprattutto alla conquista del monte Sarmiento, del monte Italia e del Cerro Torre.

La diffusissima toponomastica italiana della “fine del mondo” è dovuta alle sue scoperte.

Anche l’ultima edizione di Monti Sorgenti ha presentato due mostre di diversa fattura e impostazione, ma entrambe interessanti per aver riportato sotto i riflettori personaggi non sempre presenti alla memoria di chi si occupa di montagne e alpinismo.

La prima ospitata alla Torre Viscontea esponeva una scelta selezione di MONTAGNE DI LOMBARDIA opera di Paolo Punzo (Bergamo 1906-1979) una carrellata ricchissima (tant’è che

anche un piccolo “Cervino” ha pensato di insinuarvisi, travestito da Cresta Guzza) perfettamente rappresentativa dello stile di Punzo, fatto di una grande abilità, certamente derivante anche da una assidua frequentazione della montagna, di restituirne le pieghe più nascoste, i chiaroscuri rivelatori. Di offrire vedute riconoscibili, ma sempre impreziosite da un chiaroscuro, da un particolare che ne riscatta l’apparente semplicità, svelando una capacità di individuare aspetti peculiari e in qualche modo inattesi.

La mostra era completata dall’esposizione di oltre 30 singolari sculture in bronzo e legno, provenienti da una

collezione privata e che spaziano dalla fine del Settecento ai primi anni del Novecento, raffiguranti una serie di animali della fauna alpina. Una raccolta veramente affascinante e curiosa che sembrava dialogare con la tridimensionalità propria delle opere del pittore bergamasco.

A impreziosire la mostra un importante catalogo a stampa, vera chicca per appassionati e intenditori.

Istituto Storico Salesiano IMMAGINI DI UN MONDO SCOMPARSO DON ALBERTO MARIA DE AGOSTINI (1883-1960) 25-27 APRILE 2022 CONVEGNO INTERNAZIONALE DI STUDIO L’UOMO LA NATURA L’ARTE LA SCIENZA SEGRETERIA 0687290760 FMOTTO@SDB.ORG ISS.SDB.ORG UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA PIAZZA DELL’ATENEO SALESIANO 1 00139 ROMA L’EVENTO SARÀ TRASMESSO IN STREAMING SUL CANALE YOUTUBE DELL’UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA
CON IL PATROCINIO DI PROMOTORI SOCIETÀ DI SAN FRANCESCO DI SALES ISTITUTO STORICO SALESIANO UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA COMITATO SCIENTIFICO FRANCESCO MOTTO (COORDINATORE) NICOLA BOTTIGLIERI CLAUDIO CERRETI ANTONIO SALERNO ANTONIO TAGLIACOZZO SALVATORE CIRILLO
83 Appuntamenti
Un dipinto di Paolo Punzo di Alberto Benini La locandina del convegno

L’altra mostra, ospitata a Maggianico dal Circolo Fratelli Figini, ci ha raccontato la profonda passione per la montagna del grande Ginetto Esposito, forse il più significativo fra i “secondi di cordata” della grande scuola alpinistica lecchese degli anni ’30-’40. L’ufficiale navigatore delle cordate di Cassin che ha espresso il suo talento migliore sulle pareti dove l’imperativo

era “primo non perdersi” ovvero il Badile e le Jorasses, ma ha saputo anche essere il collante di quelle cordate, l’elemento di equilibrio e saggezza in un mondo fatto di caratteri non sempre facili.

I curatori Marta Cassin e Alberto Benini si sono limitati a riprendere l’album fotografico realizzato da Esposito e a riproporlo, corredandolo delle in-

dispensabili integrazioni. Un modo di restituire anche il suo modo di raccontarsi e di interpretare la singolare temperie della quale è stato uno dei protagonisti.

Ginetto Esposito in arrampicata. Foto archivio Famiglia Esposito, CAI Lecco

L’ESTANCIA DEI MASTERS

Da principio il libro di Patrizia De Crescenzo La estancia Cristina una storia all’ombra della cordigliera può mettere un po’ di paura con le sue oltre 500 pagine. D’altro canto l’argomento è ghiotto: molti conoscono o almeno hanno sentito parlare di questo luogo fra i più rappresentativi della Patagonia, punto di partenza di grandi ascensioni o meta di epiche traversate. Luogo dove una natura straordinaria e vicende umane singolari, si danno la mano per creare un’atmosfera unica e non solo in Patagonia. Grazie all’opera della De Crescenzo riusciamo a seguire la storia di questa dimora, impastata ancora prima che di sassi, cemento e legno, dei sogni della famiglia gallese Masters. La narrazione si insinua nelle pieghe del tempo e sembra volerne restituire uno scorrere con un ritmo tutto diverso da quello cui siamo abituati: giornate lunghissime, segnate da lunghe, a volte interminabili attese. Ci familiarizziamo così con le vicende della famiglia Masters a cominciare dai capostipiti Perceval e Jessie per arrivare praticamente ai nostri giorni.

Installati sul braccio settentrionale del Lago Argentino Masters condividono con gli altri coloni qui giunti fai il XIX è il XX l’avventura dell’allevamento, gli inverni terribili sempre con lo sfondo di sconfinati, evocativi paesaggi. Ma la loro vicenda umana è fatta anche da un’etica rigorosa, da una ospitalità ispirata a una profonda condivisione con chi si trova in difficoltà. E così ci ritroviamo fra alpinisti, esploratori, indios in fuga, cercatori di libertà e personaggi che sfuggono a qualsiasi classificazione. Non possono mancare gli alpinisti e anche se qualche credito di troppo è concesso a qualche personaggio per così dire “discutibile” almeno dal punto di vista alpinistico, i ritratti di alcune “vecchie conoscenze” sono realizzati con finezza psicologica e attenzione al dettaglio. Insomma il libro si legge volentieri, malgrado qualche lunghezza di troppo per le nostre affollate agende e si fa apprezzare anche per l’amore per quei luoghi belli e difficili che traspare da ogni pagina.

Patrizia De Crescenzo

L’Estancia Cristina. Una storia all’ombra della Cordigliera (2022), Torino, Robin edizioni

LA SEM, MISCUGLIO E GLI ALTRI

Chi si ricorda più di Mimmo Miscuglio? O (almeno per l’anagrafe) di Domenico Maida che sarebbe il titolare del simpatico soprannome con cui era noto nel mondo alpinistico degli anni ’50 e ’60? Stiamo parlando di quel giovane alpinista e guida la cui parabola si svolse fra la nativa Sesto San Giovanni, i Piani Resinelli e Ballabio fino al 1963 quando un incidente stradale notturno mise tragicamente fine alla sua vita. Un libro opera della sorella Milvia ne fa rivivere oggi la memoria ricostruendo una vicenda a suo modo unica nel nostro ambiente alpinistico. La vicenda di uno di quei pochi che percorsero al contrario il percorso montagna-città negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando i montanari si inurbavano, attratti dal lavoro fisso nella fabbrica e uno sparuto numero di rari, rarissimi “cittadini” affamati di libertà e di grandi spazi lasciavano la città per gestire rifugi, intraprendere la professione di guida alpina e/o maestro di sci o per avviare minuscole attività commerciali legate al mondo della montagna, magari mescolando fra di loro in percentuale variabile questi ingredienti.

Mimmo fu uno di questi: istintivamente simpatico, intraprendente, ben deciso a mettere in gioco il suo talento di alpinista per riuscire a vivere di montagna, Maida si segnala fra coloro che gravitavano intorno alla SEM di Romano Merendi negli anni ‘50 e ‘60. E si segnala per uno spirito di iniziativa di cui il piccolo negozio di articoli sportivi aperto a Ballabio sembra rappresentare l’aspetto più concreto e tangibile. Un negozio che molti ricordano per la raffinata qualità dei materiali che vi si potevano trovare, fossero i chiodi angolari francesi o i piumini Moncler (marchiati Terray) arrivati a Ballabio dopo rocambolesche incursioni in territorio francese. Silvia Metzeltin nelle pagine iniziali delinea da par suo quell’ambiente che avrebbe meritato un libro che ormai è forse troppo tardi per scrivere e i vari alpinisti intervistati (davvero tanti, complimenti all’autrice) aggiungono ciascuno il suo pezzo. Alla fine il personaggio prende una sua evidenza e si stacca dallo sfondo di “quelli della SEM”

come li definisce e li descrive Silvia.

Peccato che l’autrice, la sorella Milvia abbia giustapposto fra di loro le interviste alle

RECENSIONI 85
Recensioni

persone che avevano conosciuto Mimmo senza rifonderle in una narrazione organica, per cui molte vicende marginali alla storia di Mimmo finiscono per prendere troppo spazio, e peccato manchi una registrazione (se non occasionale) della sua attività alpinistica che lo portò a diventare guida alpina e a “farsi un nome” in un ambiente che non è mai stato molto generoso con chi veniva da fuori. E il “fuori”, per esser chiari iniziava a Valmadrera, figurarsi Sesto San Giovanni.

Però fa piacere ritrovarsi in mezzo a quelle vicende, ormai vecchie, ma piene di vita e di uno spessore che rimanda a quel laboratorio che fu la SEM di quegli anni. Fa piacere ridare lo spazio che merita a una delle persone che hanno fatto un pezzo di quel mondo.

Alberto Benini

Milvia Maida

Domenico Maida. La storia di un giovane alpinista negli anni ‘50 e ‘60 e della sua Grigna (2022), Stresa, AMB Advertising

MONTAGNATERAPIA: DALLO SPONTANEISMO DELLE ORIGINI ALLA COSTITUZIONE DI UNA SOCIETÀ SCIENTIFICA

La Montagnaterapia nasce verso la fine degli anni Ottanta dal desiderio di alcuni operatori sanitari di portare in ambito lavorativo la propria passione per la montagna, con l’idea che la frequentazione di un ambiente naturale carico di bellezza e privo di stimoli artificiali possa essere rigenerante e portare giovamento a pazienti con varie patologie.

Il libro racconta l’evoluzione di questa disciplina: le prime isolate e autonome esperienze riabilitative nate dal basso; l’affacciarsi nei primi anni Duemila di un “movimento” di confronto fra le varie realtà sulle modalità operative e le tecniche adottate, la formazione degli operatori, la qualità degli interventi e dei risultati ottenuti; il progressivo consolidamento delle conoscenze e arricchimento del dibattito scientifico attraverso convegni nazionali e pubblicazioni su riviste accreditate, fino alla fondazione nel 2019 della società scientifica di montagnaterapia(SIMonT). In quest’ottica la montagnaterapia si configura, non “come un’opzione in più da aggiungere alla cassetta degli attrezzi del buon riabilitatore, ma ha l’ambizione di promuovere un approccio innovativo all’agire terapeutico”.

Scorrendo l’indice del libro appare evidente che il settore privilegiato di intervento è quello della salute mentale, dove “l’obiettivo della cura non può essere esclusivamente la riduzione dei sintomi, ma è anche e soprattutto la riduzione della disabilità e il reinserimento dell’individuo nella società”.

La cornice di riferimento concettuale per questo tipo di approccio è ampiamente delineata nel terzo capitolo, con un excursus filosofico fra le correnti di pensiero che esplorano la posizione dell’uomo nella natura, colgono lo stretto rapporto di interdipendenza dell’uomo con i suoi simili e l’intero universo, fino a trovare un nesso fra ecologia dell’ambiente ed ecologia della mente. Nella sintesi conclusiva, le motivazioni di tipo estetico, scientifico ed ecologico assumono una valenza “politica”, in continuità ideale con il movimento di riforma della psichiatria italiana di Franco Basaglia: il “terreno di gioco” si allarga valicando limiti non solo dell’istituzione ma anche della ristretta comunità di appartenenza, diventa condivisione di valori con la comunità diffusa e si estende all’ambiente naturale. Ampiamente riconosciuto è il ruolo attivo svolto dal CAI con la partecipazione di accompagnatori a specifiche attività nell’ambito delle sezioni e con la diffusione di idee, programmi e iniziative attraverso la stampa nazionale e sezionale. Il ruolo centrale del CAI fu sancito nell’ormai storico convegno (fortemente voluto dall’allora presidente nazionale Annibale Salsa) che si svolse nel 2006 al Passo Pordoi e pose le basi istituzionali per una collaborazione con le strutture sanitarie e sociali. Di particolare interesse il tema “Montagnaterapia e minori”, sviluppato nella quarta parte del libro, che propone fra l’altro un’interessante antologia di esperienze condotte negli ultimi anni attraverso l’escursione, l’arrampicata, il soggiorno in rifugio, le uscite sulla neve, il trekking di più giorni, i lunghi cammini. A seguire, alcune pagine sul tema delle disabilità intellettive, dedicato all’accompagnamento in montagna di ragazzi autistici. Alcuni capitoli hanno un carattere francamente tecnico e possono essere di utilità per operatori dei servizi sanitari. Non entro nel merito di questa specifica materia, limitandomi invece a segnalare i contenuti del capitolo dedicato alla qualità dei progetti. Si parla di progetti di gruppo e individuali, di analisi, competenze, pianificazione, risorse, scale di valutazione dei risultati: aspetti metodologici fondamentali nella cui definizione potrebbero essere in parte coinvolti anche gli accompagnatori CAI.

Adriana Baruffini

Angelo Brega e altri

MONTAGNATERAPIA Edizioni Centro Studi Erikson, marzo 2022

IL CAI LECCO È DIVENTATO ENTE DEL TERZO SETTORE

Abbiamo recentemente ricevuto dalla Provincia di Lecco la notifica dell’avvenuta iscrizione della nostra sezione al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (RUNTS), registro telematico istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in attuazione degli artt. 45 e segg. del Codice del Terzo Settore (Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117), per assicurare la piena trasparenza degli enti che vi fanno parte.

L’iscrizione al RUNTS riguarda le organizzazioni di volontariato e di promozione sociale, gli enti filantropici, le reti associative, le associazioni riconosciute o non riconosciute, le

società di mutuo soccorso che non hanno l’obbligo di iscrizione nel Registro delle Imprese, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società, “costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”. (Decreto Ministeriale 15 settembre 2020, n. 106 e relativi allegati).

Il RUNTS è pubblico, consultabile telematicamente da tutti gli interessati e

dalle Pubbliche Amministrazioni.

L’iscrizione a questo registro consente di beneficiare di agevolazioni anche di natura fiscale, di accedere al 5 per mille e, per specifiche tipologie di ETS, a contributi pubblici, di stipulare convenzioni con le pubbliche amministrazioni.

Dobbiamo aspettarci un aggravio di lavoro nella tenuta della contabilità e nella registrazione del bilancio, ma la nostra segreteria e il collegio dei revisori dei conti sono pronti ad affrontare le complessità di questo nuovo scenario.

Aseguito del sopralluogo effettuato il 24 maggio 2022 dal funzionario dott.ssa Lucia Ronchetti, la Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Lombardia ha fatto pervenire alla nostra sezione la notifica di “avvio del procedimento di dichiarazione dell’interesse storico particolarmente importante per l’archivio del CAI sezione di Lecco”, ai sensi degli articoli 10 e 14 del D.Lgs. 42/2004 (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio) e dell’articolo 44 del DPCM 169/2019.

L’archivio, comprendente anche materiale fotografico, è riconosciuto come un fondo documentario impor-

tante per lo studio dell’alpinismo italiano con estremi cronologici compresi tra la fine del XIX secolo e oggi. Viene segnalato in particolare l’interesse della serie dei verbali del consiglio, della corrispondenza, della documentazione relativa ai soci, alle spedizioni alpinistiche (vedi Mc Kinley 1961) e ai rifugi di pertinenza del CAI Lecco.

Le condizioni di conservazione sono giudicate non ottimali e vengono rilevate evidenti lacune, dovute alla scomparsa di molti documenti.

“E’ pertanto necessario – si legge nella parte conclusiva del testo di notifica – procedere a un riordino ed inventariazione della documentazione

secondo criteri archivistici per precisarne quantità e contenuti”.

L’intervento della Soprintendenza, che abbiamo valutato essere un atto necessario per la salvaguardia e la valorizzazione dei beni archivistici in possesso del CAI Lecco, assoggetta la sezione stessa agli obblighi connessi al regime vincolistico previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio in materia di protezione, conservazione, circolazione dei beni. Tutti gli in-

NOTIZIE IN BREVE
86 Recensioni
87 Vita di Sezione
VERSO IL RIORDINO E L’INVENTARIAZIONE DELL’ARCHIVIO SEZIONALE

terventi di riordino e inventariazione, restauro e digitalizzazione o riproduzione fotografica, nonché spostamento, trasferimento o scarto dovranno essere autorizzati dalla Soprintendenza. Un vantaggio previsto dallo stesso

Codice è che il possessore dei beni possa usufruire di agevolazioni fiscali e dei contributi per archivi assegnati dal Ministero della Cultura.

Il primo passo della sezione è stato quello di affidare i compiti di riordi-

no e inventariazione a un archivista abilitato che a breve svolgerà il lavoro richiesto.

QUANDO RIVEDREMO LA NOSTRA VETRINETTA DI VIA ROMA?

E’il tardo pomeriggio del 25 maggio 2022. Sceso in centro con Chiara, come il solito, passiamo alla vetrinetta della sezione per vedere le ultime novità.

Sorpresa! Tre amici stanno armeggiando con trapano e cacciaviti per lo smontaggio. Pensiamo sia per qualche modifica o ad un rifacimento. “No” ci dicono; “dobbiamo smontarla perché ci è stato richiesto dal Comune”. La contigua vetrinetta della SEL è già scomparsa. Non so che fine farà quella molto usata dai cugini dell’ANA. Immortalato l’attimo col telefono di Chiara restiamo fino a che la gloriosa vetrinetta viene caricata in auto e se ne va verso un deposito sperando nel suo riutilizzo, ovviamente in una posizione centrale. L’edificio di proprietà comunale era in vendita da decenni a prezzi sem-

pre più ribassati e mai si presentava un acquirente. Finalmente, qualcuno lo aveva comperato pagandolo un prezzo vergognosamente basso. Ma così gira il mondo…

Non voglio tediare, ma quanti ricordi sono legati a quell’edificio e all’umida scala in fondo al cortile interno dove, fin dalla mia prima giovinezza, erano ubicate le sedi del CAI e della SEL.

Non so quale fastidio potessero dare due decorose vetrinette che erano lì da forse un secolo, visitate da moltissimi cittadini, escursionisti, appassionati di montagna e occasionali passanti anche stranieri. Situate a venti passi dal cantun di ball”, dove tradizionalmente stazionavano capannelli di uomini a raccontarsi e commentare gli ultimi avvenimenti o i pettegolezzi di città, su di un passaggio pressoché obbligato

Da sinistra Tiziano Riva, Stefano Riva e Gianni Valsecchi impegnati nello smontaggio. Foto di Raimondo Brivio

per i frequentatori del centro, scandivano l’attività e l’avvicendarsi delle stagioni nell’anno e degli anni.

La nostra aveva l’angolo in basso a sinistra stabilmente occupato dalle informazioni settimanali del GEO Gruppo Età d’Oro; la primavera la rassegna Monti Sorgenti e i corsi di Alpinismo Giovanile, dalla primavera all’autunno le proposte delle gite sociali, l’autunno e l’inverno i corsi di sci di fondo e di sci alpinismo, l’estate la scuola di roccia dei Ragni; inoltre le assemblee e tutta una vasta serie di attività culturali che si spalmavano durante l’intero anno. Insomma un’attività formativa, di istruzione e di svago che coinvolge qualche migliaio di persone, dai bambini e relative famiglie agli anziani. Non ho mai fatto il conto, ma a spanne, penso che siano più di duecento giorni dell’anno in cui ci sia almeno una attività CAI. Vi pare poco?

Confesso che mi sento un po’ orfano nel passare per Via Roma e sapere che lì l’interesse di chi ha comperato un bene comune privi cittadini di una fonte di informazione storica. L’auspicio è che la nostra vetrinetta a lavori ultimati possa ritornare al suo posto o quanto meno trovare una collocazione ugualmente centrale e ben visibile.

Il lavoro di riordino della biblioteca sezionale è stato avviato. Dedicando per ora un pomeriggio alla settimana, un gruppetto di volontari CAI costituito da due bibliotecarie professioniste (Mariarosa Frigerio e Camilla Galbusera) e da altri due soci (Antonella Cameroni e Domenico Sacchi) sta scorrendo gli scaffali ed esaminando uno ad uno, libri e periodici. Col passare degli anni alcuni di essi erano sfuggiti all’accurata inventariazione a suo tempo realizzata da Annibale Rota, ed era diventato difficile ritrovarli. Inoltre mancava l’aggiornamento per le nuove acquisizioni. Le operazioni di riordino vanno di pari

passo con la riflessione sulle scelte per il futuro. L’idea su cui si sta lavorando è di accentuare il carattere di biblioteca specializzata sulla montagna che possa suscitare l’interesse di studiosi e ricercatori, tenendo conto che una grossa quota dei volumi, delle cartine e delle pellicole sono antecedenti al 1970 e quindi da classificare come storici.

Senza però trascurare i soci appassionati di libri ai quali dovrebbe essere regolarmente dedicato un certo numero di nuovi acquisti, magari privilegiando autori locali e volumi che parlano delle nostre montagne.

Ancora da definire criteri che dovranno guidare il successivo momento

di catalogazione online. Si sono ripresi i contatti con il sistema bibliotecario del CAI nazionale e si sono valutate altre esperienze consolidate, come quella del CAI Bergamo, che lavora invece in rete con il sistema bibliotecario locale. Vantaggi e svantaggi dell’una e dell’altra scelta sono in fase di studio. La motivazione dell’impegno che ci siamo presi (e che potrebbe apparire obsoleto nei tempi di oggi) è di salvare la biblioteca non solo come spazio di custodia dei libri, ma come luogo di aggregazione e centro propulsore di iniziative culturali riguardanti la montagna.

Siamo venuti a conoscenza della scomparsa negli ultimi mesi di:

Vitalino Cogliati del GEO, che a distanza di meno di sei mesi ha raggiunto la moglie Mariadele, anche lei socia storica e assidua frequentatrice del gruppo. Vitalino per molti anni si è prestato a “fare il passo” nelle escursioni, manifestando tratti di garbo, cortesia e disponibilità veramente unici

Stefano Vimercati, a cui abbiamo dedicato un ricordo nella sezione “Personaggi”

Peppo Rota, frequentatore di lungo corso del Gruppo Sci di fondo Escursionismo, gentile e disponibile durante le escursioni, conversatore colto, arguto e piacevole durante le trasferte in pullman

Giuliano Mantovani, presenza lunga e costante nella sezione di Lecco del CAI a cui ha dedicato tanto tempo ed energie, ricoprendo fra l’altro gli incarichi di consigliere e vicepresidente. La sua prima e più lunga passione è stato l’Alpinismo Giovanile. Con i ragazzi di ogni età comunicava in modo istintivo toccando le corde giuste per far loro tollerare la fatica delle salite e la durata dei percorsi più lunghi. Due messaggi di ex ragazzi diventati poi accompagnatori di Alpinismo Giovanile (Paolo e Mario) esprimono bene le sue modalità di comportamento durante i corsi: “Quanto ci faceva ridere Giuliano” e “Hai portato la tua semplicità nel gioire insieme”. Senza avere letto trattati di pedagogia Giuliano intuiva che per entrare in relazione con i ragazzi e trasmettere loro dei contenuti autentici di formazione sulla montagna e sui corretti comportamenti da tenere nel gruppo, occorreva saper sorridere, stemperando così insicurezze, tensioni e paure. Le gite sociali, e collateralmente la scuola, hanno costituito l’altro suo grande impegno.

I molti messaggi pervenuti anche da questo fronte alla notizia della scomparsa parlano di generosità, disponibilità nei confronti di tutti e soprattutto dei più deboli. Con la stessa generosità e spirito di servizio Giuliano si è prestato per anni a dare una mano al CAI Lecco in qualsiasi momento e per qualunque necessità che riguardasse la sede, l’incontro di persone o l’organizzazione di eventi. L’impegno per lui non era mai disgiunto dalla capacità di ridere o almeno sorridere, di trasmettere buonumore: con lui ci si sentiva davvero “amici nella montagna”.

Ai famigliari delle persone scomparse le condoglianze più sentite e un abbraccio affettuoso dall’intera sezione del CAI Lecco

BIBLIOTECA LUTTI

MEDINMOVE

CLINICA SAN MARTINO - MALGRATE

Malgrate, Lecco. Via Selvetta angolo via Paradiso - tel. 0341 1695111 - Internet: clinicasmartino.com

Prezzi convenzionati sulle prestazioni concordate (vedi www.cai.lecco.it).

Garanzia delle prestazioni di diagnostica per immagini in 12/24 h dalla richiesta.

Lecco via Balicco, 109 - Internet: www.medinmove.it

Centro di Medicina Preventiva, Riabilitativa, Genetica.

Prezzi convenzionati sulle prestazioni concordate (vedi www.cai.lecco.it).

PALESTRA DI ARRAMPICATA - RAGNI di LECCO

Via C. Mauri 1 Lecco. Per informazioni, Ragni di Lecco ASD tel. 0341-363588. Internet: www.ragnilecco.com

Sconto del 5% sugli abbonamenti stagionali. Sconto del 10% sui corsi di arrampicata sportiva

df SPORT SPECIALIST

via Figliodoni 14 Barzanò (LC) - Internet: www.df-sportspecialist.it

Presso tutti i punti vendita sconto del 15% ai soci CAI, con esclusione degli articoli in promozione o già scontati

STUDIO OSTEOPATICO COPPI

via Lucia 10 Lecco (LC) - tel. 393.1646699

Sconto del 20% per trattamenti osteopatici.

STUDIO DI PSICOLOGIA E RISORSE UMANE - SVILUPPO E FORMAZIONE

STUDIO DI PSICOLOGIA E SESSUOLOGIA - DR SILVANO SALA

Lecco, Lungo Lario Cadorna 10 - tel. 0341 1761009 - 3478773720

Incontro di consulenza gratuita e sconto del 20% sugli appuntamenti successivi

STUDIO PROFESSIONALE DI FISIOTERAPIA/OSTEOPATIA BARUTTA

Corso Matteotti 9/B 23900 Lecco. Tel. 338-7337496; 349-3702913; 338-1131813; Internet: www. studiobarutta.com

Sconto del 20% per servizi di fisioterapia, consulenza fisioterapica, valutazioni fisioterapiche e trattamenti osteopatici.

INFORMAZIONI DALLA SEGRETERIA - TESSERAMENTO

QUOTE SOCIALI 2023

Le quote sociali per il 2023 sono le seguenti:

Socio Ordinario €46,00

Socio Ordinario Juniores* €24,00

(nati dal 1997 al 2004)

Socio Familiare** €24,00

Socio Giovane*** €16,00

(nati nel 2005 e anni seguenti)

Socio Vitalizio €20,00

Tessera per i nuovi Soci € 5,00

Duplicato Tessera € 2,00

Massimale integrativo polizza infortuni € 4,60

*Al Socio ordinario di età compresa tra i 18 e i 25 anni viene applicata automaticamente la quota dei soci familiari. Tale Socio godrà di tutti i diritti del socio ordinario.

** Possono essere soci familiari solo i residenti al medesimo indirizzo del socio ordinario di riferimento.

***Socio giovane: a partire dal secondo figlio giovane in poi, il socio giovane verserà la quota di € 9,00. Si precisa che per poter usufruire dell’agevolazione prevista, il socio giovane dovrà avere un socio ordinario di riferimento in regola con il tesseramento dell’anno in corso ed appartenere ad un nucleo familiare con due o più figli giovani iscritti alla Sezione.

A partire dal 1 novembre 2022 si è aperto il tesseramento 2023. Per non perdere i benefici dell’iscrizione al CAI il rinnovo deve essere effettuato entro il 31 marzo di ogni anno. Per procedere con il rinnovo è possibile passare in segreteria oppure attraverso bonifico bancario o paypal (vedi “Come effettuare il rinnovo”).

IL RINNOVO DELLA TESSERA PUÒ ESSERE EFFETTUATO:

SPAZIOTEATRO INVITO

Lecco, via Ugo Foscolo 42 tel. 0341 158 2439

Ai soci CAI riduzione del 20% sul costo del biglietto per tutti gli spettacoli e concerti della propria stagione, quindi da € 15 a € 12. Info al sito: http://teatroinvito.it/spazio-teatro-invito/calendario-stagione/

Per ottenere gli sconti indicati è necessario esibire la tessera del CAI Lecco regolarmente rinnovata. Possono usufruire delle convenzioni anche i soci delle sottosezioni del CAI Lecco: CAI Barzio, CAI Ballabio, Strada Storta.

NB: Per le società commerciali o aziende che volessero attivare iniziative di promozione o sponsorizzazione con il CAI Lecco telefonare allo 0341-363588 (orari apertura sede) o al 3393216291 oppure scrivere un’email a sezione@cai.lecco.it.

In sede:

Il martedì dalle 20.30 alle 22.00 e il venerdì dalle 18.00 alle 22.00 (tranne giorni festivi).

In alternativa, il pagamento potrà essere effettuato:

a) con bonifico bancario - BANCA POPOLARE DI SONDRIO, Agenzia di Piazza XX Settembre a Lecco, sul conto corrente intestato a C.A.I. Sezione di Lecco IBAN IT07 J056 9622 9020 0000 2154 X06.

Si ricorda di indicare nella causale il nome e la data di nascita di tutti i soci per i quali viene effettuato il tesseramento. Il pagamento tramite Bonifico Bancario prevede un contributo, per socio o per nucleo familiare, di € 2,00 per spese postali (Esempi - Singolo socio: quota + 2,00€ - Nucleo Familiare: somma delle quote + 2,00€).

b) Con pagamento Paypal, accedendo con le proprie credenziali al sito www.soci.cai.it e seguendo la pro cedura alla voce “rinnovo”

Il bollino verrà spedito per posta al domicilio del socio.

AGEVOLAZIONI E BENEFICI PER I SOCI

- Agli associati è garantita la copertura assicurativa per infortuni che si verifichino nell’ambito di iniziative organizzate dal Sodalizio, ivi compresi i corsi e le scuole, oltre alla copertura assicurativa del Soccorso Alpino per attività sia sociali che personali.

- I soci possono essere assicurati per gli infortuni e per la responsabilità civile verso terzi in attività personale richiedendo la specifica copertura assicurativa presso la sezione di appartenenza.

- Il socio ordinario riceverà al proprio domicilio la rivista mensile del CAI “Montagne 360” e la rivista sezionale “CAI Lecco 1874”.

- Tutti gli associati, con la presentazione della tessera riportante il bollino relativo all’anno in corso, potranno usufruire degli sconti previsti dalle convenzioni indicate nell’apposito riquadro.

- Tutti gli associati potranno usufruire gratuitamente dei servizi offerti dalla sezione: accesso alla documentazione presente nella biblioteca sezionale, lettura dei periodici e delle riviste presenti in sede.

- Tutti gli associati otterranno sconti sull’acquisto di libri o pubblicazioni del CAI.

CALENDARIO CHIUSURA SEDE

La sede resterà chiusa per le festività natalizie dal 23 dicembre al 6 gennaio compresi.

DIMISSIONI E MOROSITA’

Il socio può dimettersi dal Club Alpino Italiano in qualsiasi momento; le dimissioni devono essere presentate per iscritto al Consiglio Direttivo della Sezione, sono irrevocabili ed hanno effetto immediato, senza restituzione dei ratei della quota sociale versata.

Il socio è considerato moroso se non rinnova la propria adesione versando la quota associativa annuale entro il 31 marzo di ciascun anno sociale; l’accertamento della morosità è di competenza del Consiglio Direttivo della Sezione; non si può riacquistare la qualifica di socio, mantenendo l’anzianità di adesione, se non previo pagamento alla Sezione alla quale si era iscritti delle quote associative annuali arretrate. Il socio di cui sia stata accertata la morosità perde tutti i diritti spettanti ai soci.

CONVENZIONI
91 Vita di Sezione
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.