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• Mantova

settembre

gioiosa

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entra nelle case

SOMMARIO

Foto Giorgio Bergomi

Carte in tavola Un polittico, quattro santi, due battenti Quando il “marangòn” era solo un uccello Per amore o per forza Maestro Giorgio Tedesco: un grande ebanista fra Urbino e Mantova? A ferro di cavallo Se la tavola è rotonda Non si sa ancora per quant o Domus lignea librorum Lupus in tabula Un ...abete di tipo due! Solo un palco di legno ?

Associazione di Promozione Sociale iscritta al Registro dell’Associazione della Provincia di Mantova negli ambiti: civile-sociale, culturale e attività sociale. Decreto n. 17/2007

Curato da Associazione Cultural e Ca’ Gioiosa • Via Trieste, 44


Carte in tavola Altro supporto per l’arte, altro tema monografico. Questo terzo numero di “Ca’rte” indaga la tavola lignea, in senso stretto e in senso lato. Eccola come elemento di base per la pittura ma anche materiale per la scultura e tutta una serie di arti decorative, entro cui si oscilla dall’artigianato al mestiere, dall’ebanista al falegname. Ma, naturalmente e al solito, meritano spazio pure gli usi figurati del termine, primo fra tutti quello che rimanda alla cucina, al cibo, al banchetto – con declinazione al presente e al passato; un piacere materiale che però eleva un bisogno a desiderio, raffina il gusto, favorisce le relazioni sociali. Né poteva mancare l’assito del palcoscenico, quindi il teatro, manifestazione fisica (il corpo, la voce) e insieme spirituale (le allusioni simboliche, le morali); oppure la riflessione sulle scaffalature da biblioteca, veri edifici di legno ove ricoverare e ordinare quella babele che sono i libri – oggetti concreti in quanto volumi, ma anche fenomeni astratti perché opere dell’ingegno. Eccetera. Allora, tutti a tavola; il menù è ricco e vario. Questo era solo l’aperitivo. Claudio Fraccari

Un polittico, quattro santi, due battenti

Polittico di Acquafredda, Mantova, Museo diocesano

Oggi i quadri, per la maggior parte, sono dipinti su tela. Un tempo invece i pittori preferivano il legno, un bel tronco d’albero da cui si ricavava una robusta tavola ben levigata. Quando poi il dipinto voleva essere grande – un albero, si sa, più di tanto grande non è – si univano tra loro tante tavole quante occorrevano. E a volte un artista accostava tra loro, mediante elaborate cornici, più dipinti di soggetto affine: ad esempio, al centro una tavola su cui figurava la Madonna col Bambino; ai lati, altre tavole con figure di santi; sopra, tavolette con angeli; sotto, tavolette con scene della vita di Maria. Nasceva così quello che chiamiamo un polittico. È capitato, purtroppo, che in seguito qualche polittico sia stato smembrato: o per vandalismo, o perché col tempo si era rovinato, o perché era considerato vecchio, dipinto in uno stile ormai non più di moda. Ma il legno non passa di moda; le robuste tavole che lo componevano erano ancora buone per altri usi. Ne abbiamo a Mantova un esempio interessante. Chi visita il Museo diocesano, a un certo punto si trova davanti a quanto resta di un polittico del secolo XV, con le figure di quattro santi. Gli altri quadri sono tutti appesi a una parete; di proposito questo no, per poterci girare intorno: e chi si prende cura di guardarlo dietro trova una sorpresa. Due tavole dell’antico polittico sono state riutilizzate per farne i battenti di una porta, con tanto di catenaccio in ferro. Sorpresa a parte, conviene tornare al dipinto per osservare almeno le due figure in basso. Quello a sinistra è l’inconfondibile ritratto di San Bernardino da Siena, il famoso predicatore che venne due volte anche a Mantova. Quello a destra presenta San Rocco, con l’abito allora usato dai pellegrini di cui è il protettore: lo ricordano le insegne di pellegrinaggio che egli porta sulla mantellina, tra le quali si riconoscono la conchiglia di chi era andato a Santiago di Compostela, o la Veronica e le chiavi di San Pietro di chi era stato a Roma. Roberto Brunelli

Quando il “marangòn” era solo un uccello È un mestiere umile e fondamentale, antico quanto moderno; fu proprio del Giuseppe evangelico e del Geppetto di collodiana memoria – entrambi, guarda il caso, padri putativi di figli dal destino metamorfico. Il falegname possiede innumerevoli peculiarità, ma qui importano quelle linguistiche: se il termine attuale è un trasparente composto di “fare” e “legname”, prima del XVI secolo al suo posto vigeva legnaiolo, che ancor oggi persiste nel toscano. Un sinonimo sarebbe carpentiere (dal latino tardo carpentarius, derivato di carpentum ‘carro’), benché esso sia andato presto specializzandosi per indicare un operaio del settore industriale piuttosto che un artigiano. Interessante è l’equivalente dialettale marangòn, diffuso in molte parlate dell’Italia settentrionale fra cui il mantovano. Il significato della parola ha destato perplessità e discussioni fra gli studiosi, soprattutto per la sovrapposizione con marangone, inteso come uccello (una specie di cormorano, ovvero corb mareng, in francese antico ‘corvo marino’). Di sicuro marangonus è attestato fin dal XIII secolo a Venezia e doveva riferirsi a vari mestieri svolti nei cantieri navali, dal ‘maestro d’ascia’ al ‘palombaro’. È proprio quest’ultima attività ad aver suggerito che sia avvenuto un passaggio metaforico: forse chi si immergeva per riparare gli scafi delle imbarcazioni veniva scherzosamente assimilato a un uccello marino che si tuffava per catturare le sue prede. In seguito, la parola estese il suo significato fino a designare chiunque lavorasse il legno con l’ascia (detta appunto marangona) o altri attrezzi, anche al di fuori dell’ambito marinaresco. Resta da dire che, mentre in inglese ‘falegname’ si dice carpenter e il francese annovera charpentier, in area mediterranea è prevalsa la forma di probabile origine veneziana, come attestano il greco moderno marankós e il turco marangoz. (C.F.)

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La pittura su tavola, ovvero su supporto ligneo, è stata costantemente utilizzata fino al XVI secolo quando fu sostituita, a partire dal ’400 nei Paesi Bassi, da quella su tela. La tecnica era già conosciuta in antico Egitto, Grecia e Roma, ma in Italia conobbe la sua massima diffusione nel Medioevo. Per la tavola si prediligeva legno accuratamente stagionato di pioppo, castagno, cipresso, tiglio che non presentasse troppi nodi o asperità. Dopo averla piallata e levigata, veniva steso uno strato di colla animale e poi la tavola, avvolta con tela vecchia e morbida, era imbevuta con almeno due strati di gesso, uno ruvido e uno fine su cui stendere la base pittorica oppure la foglia d’oro (applicata con molta attenzione, data la sua fragilità e valore, su uno strato di bolo: un’argilla rossa sciolta in acqua e albume). (M.P.)


Carlo Bonfà mi accoglie affacciandosi sorridente alle scale che introducono al suo ampio studio. Uno studio che è anche un museo. Anzi che è soprattutto dedicato, stanza dopo stanza, all’esposizione delle sue opere: scoprirò che, al confronto, lo spazio dedicato al laboratorio è piuttosto esiguo. Non ci siamo mai incontrati prima d’ora e mi accompagna in giro parlando con tono pacato: con molto garbo introduce se stesso attraverso le sue opere. Come ha avuto inizio la sua carriera artistica? Con un trauma. Nel 1969 il gallerista Gian Enzo Sperone, interessato al mio lavoro con l’arte povera (movimento artistico nato negli anni ’60 che utilizzava materiali poveri come la terra, il legno, il ferro, la plastica, in polemica con l’arte tradizionale), mi aveva invitato a partecipare a una mostra collettiva a Torino. La sera dell’inaugurazione andò tutto bene, ma il giorno successivo un gruppo di Movimento Studentesco distrusse le opere in mostra perché erano stati esclusi gli artisti locali. Sconfortato, interruppi tutti i rapporti con Torino: se fossi rimasto là il mio percorso artistico probabilmente sarebbe stato diverso. In seguito cosa accadde? I primi anni sono stati esaltanti; si lavorava tanto a guadagno zero, ma ero ingenuo e convinto della solidarietà tra gli artisti e della nostra importante funzione sociale! Cominciai lavorando molto sulla concettualità pura: segni minimi, scritture, performances in pubblico…. Qualche esempio? Cominciai a svolgere una grande tela (va a cercarla e me la mostra srotolandola con emozione) e, senza conoscerne le misure, cominciai a tracciare questi piccoli segni: otto ore al giorno per un anno e mezzo. Tra un segno e l’altro lasciavo trascorrere cinque secondi ascoltando il mio respiro: con costanza e precisione, dipingendo sdraiato sulla tela in un contatto fisico continuo. Era un lavoro con cui intendevo allungare il tempo! Come mai, così giovane, era ossessionato dal tempo? Lo sono sempre stato, lo sono ancora. Mi piace stare sopra l’operazione che compio per un tempo lungo, a volte lunghissimo. Ho bisogno di sapermi impegnato a lungo in un progetto: un tempo vuoto mi spaventa. Da bambino ho dovuto lasciare gli amici per un trasferimento della mia famiglia e mi sono sentito sradicato. I paletti che mi impongo nel mio lavoro, la misurazione del tempo, la ritualità mi rassicurano. Interessante il concetto di ritualità... Sono sempre stato affascinato dal “comporre il rito”. Alcune installazioni (oggetti di qualsiasi tipo installati in un dato ambiente) poste in mezzo alla natura per esempio restavano lì finché non venivano inglobate dalla natura stessa nel suo divenire. Prima di iniziare un lavoro preparo un piccolo prototipo e quindi so precisamente quello che vado a fare. E poi disegno sempre prima di dipingere come facevano gli antichi artigiani, gli artisti medioevali. Quando entra il colore nella sua sperimentazione artistica? Alla fine degli anni ’70: fino ad allora avevo lavorato solo con il bianco e nero. Sa, io creo sempre per serie e quando sento che una serie di opere è finita sono molto nervoso: c’è qual-

cosa che mi frulla in testa, come un ronzio. Nel momento in cui arriva la scintilla comincio a fare degli schizzi e piano piano si crea una nuova strada, comincia una storia, un’avventura. Disegno per giorni e giorni dandomi il tempo per meditare, di passeggiare con la mente nel nuovo progetto. A questo punto terminare gli ultimi lavori diventa faticoso, noioso. Ma necessario! Lo capisco. Tornando al colore… Qualche piccolo accenno di colore, oro, qualcosa di naturale messo a interagire con chiocciole vere e frammenti di specchi, per esempio, era già presente nelle mie opere prima dell’introduzione dei colori primari: colori usati puri, mai mescolati anche quando sono passato a tutta la gamma cromatica. Ci sono molte persone intimorite dall’arte contemporanea. La nascita della psicanalisi ha fatto sì che l’arte non si trasmetta più, come in passato, solo con la rappresentazione visiva: ma la rappresentazione della mente, di pensieri e concetti, è molto difficile da rappresentare e far capire. Questo perché le persone sono abituate a riconoscere ciò che vedono e quando ciò non avviene diventa molto difficile comprenderlo. Dopo la rivoluzione freudiana tutto è cambiato e tuttavia oramai non è possibile eluderla, anche in campo artistico. Vedo che nella sua opera spesso utilizza il legno. Sì, tuttavia non uso la tavola come supporto, come facevano anticamente: scelgo il legno per

levigarlo, assemblarlo e colorarlo in modo da creare forti contrasti tra gli elementi. Inoltre io cerco il contatto con il pubblico e il legno, con la sua tridimensionalità, coinvolge lo spettatore anche in presenza di elementi astratti. Oggi, a differenza di un tempo, i materiali non sono importanti per me, ma il legno sì perché mi consente di creare oggetti gradevoli anche per uno spettatore sprovveduto, per incuriosirlo affinché si chieda perché una persona le ha fatte. Perché? Perché mi sono divertito a farle. C’è una forma ludica in quest’arte. Io a lavorare mi diverto e la sera, quando finisco, sono soddisfatto del mio lavoro. L’artista non riposa mai, la creatività non timbra il cartellino perché quando nasce l’ispirazione bisogna seguirla! Quando intravedi quello che hai davanti a te senti una forte emozione, come una scossa, perché capisci che sei di nuovo vivo: il colore fondamentale è la passione!

Faccio fatica a interrompere questo incontro. Accompagnandomi alla porta il professore propone di darci del tu: sento che è una dimostrazione di fiducia e che probabilmente ho superato un esame! Mara Pasetti

Foto Mara Pasetti

Intervista all’artista Carlo Bonfà

Carlo Bonfà, Senza titolo, installazione

Per amore o per forza

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Il piano del Duca di Urbino eseguito verso il 1597 da Maestro Giorgio Tedesco e da Giulio Lupi (courtesy Mario Tavella e Sotheby’s, Londra)

Maestro Giorgio Tedesco: un grande ebanista fra Urbino e Mantova? Nel mese di luglio 2010 è andato all’asta a Londra un tavolo impiallacciato di ebano e intarsiato di avorio appartenuto all’ultimo Duca di Urbino, Ferdinando Maria II della Rovere, eseguito alla fine del Cinquecento. Si tratta di un caposaldo della storia delle arti decorative europee, straordinario non solo per l’illustre provenienza ma anche per l’incanto del disegno e l’impeccabile qualità. Dal punto di vista tecnico infatti il tratteggio dell’avorio consegue effetti chiaroscurali lievemente tridimensionali mentre sul piano trionfa un viluppo di quattro rami di quercia che, pur seguendo un ordine prestabilito, sembrano quasi trattenuti a forza espandendosi con una violenza non priva di eleganza: si direbbe di vedere steso un drappo in cui si omaggia la natura diventata simbolo della famiglia. Ho già discusso i pochi documenti d’archivio che consentono di attribuire a due artigiani, l’ebanista Maestro Giorgio Tedesco e l’intagliatore Giulio Lupi, l’esecuzione di quell’opera eccezionale. Giulio Lupi si occupò della lavorazione dell’avorio mentre a Maestro Giorgio venne affidata la costruzione vera e propria del mobile. Questa divisione della fattura degli arredi di grande classe non ebbe luogo solo ad Urbino: anche in altre città italiane come Napoli e Firenze lo stipettaio o ebanista non era quasi mai lo stesso artigiano a cui spettavano gli abbellimenti. L’architettura da una parte, la decorazione da un’altra.

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Le sole menzioni che abbiamo fino ad oggi sull’intagliatore Giulio Lupi sono quelle fornite dai documenti riguardanti alcuni mobili di Urbino. Lo stesso si dovrebbe dire di Maestro Giorgio a meno che una lettera di Virgilio Gonzaga del 12 marzo 1611 indirizzata al Cardinale Gonzaga si riferisca proprio al nostro artigiano: “Ho addimandato a M.ro Giorgio Todesco il quadro di V.S.Ill. e R. ma non è ancora incornigiato et dolendomi seco di non haverlo accontio m’ha detto che l’ornamento che ha adesso è tanto serrato con la pietra del paragone che dubita in mettervi il scalpello di giettarlo tutto in pezzi. E però lo darebbe più tosto quando V.S. Ill. R.a restasse così servita che si dasse a quel legno dell’ornamento che lo giudica bellissimo, bello come d’hebbano. Egli non ha vero hebano. Attende la decisione”. Antonio Bertolotti, benemerito ricercatore dei documenti artistici dell’Italia, rintracciò più di cent’anni fa questa lettera negli archivi di Mantova senza specificare la sua ubicazione esatta: la trascrisse come qui la riporto lasciando adito a qualche dubbio. Il Cardinale Gonzaga a cui la lettera era indirizzata (scritta apparentemente nella stessa Mantova) era Ferdinando Gonzaga (1587-1626) che aveva avuto il cappello cardinalizio nel 1607 e poi divenne Duca di Mantova alla morte del fratello sul finire del 1612 col nome di Ferdinando VI. Il Maestro Giorgio Tedesco di cui si parla nella lettera doveva accomodare o rifare la cornice di un quadro dipinto su pietra di paragone, ma giudicava il lavoro di difficilissima esecuzione. Ferdinando Gonzaga era imparentato col Duca di Urbino, quel Ferdinando Maria II per cui il tavolo come abbiamo visto era stato eseguito nel 1597. Sappiamo anche che fra il 1610 e il 1612 il Cardinale passò più volte da Pesaro dove il Duca di Urbino risiedeva. Ciò consente di pensare che questo Maestro Giorgio, in relazione con i Gonzaga nel 1611, sia lo stesso uomo che aveva lavorato per il Duca di Urbino qualche anno prima come risulta dai documenti? È possibile ma non certo: conosciamo altri artefici stranieri (tedeschi, fiamminghi, francesi) noti in Italia solo col nome di battesimo seguito dalla cittadinanza d’origine, così che i casi di omonimia potevano essere frequenti. Un contemporaneo, il medico senese Giuliano Mancini, ben noto nella Roma di quell’epoca, riferendosi a quegli artigiani d’oltralpe, così annotava: “vanno e vengono, non li si può dar regola”. Tre fatti comunque restano certi: Urbino e Mantova non erano lontanissime, i Gonzaga e i della Rovere erano parenti stretti, sia Ferdinando Maria sia il Cardinale Ferdinando amavano le opere d’arte e i bei mobili e ambedue ebbero al loro servizio un Maestro Tedesco chiamato Giorgio. Alvar Gonzalez-Palacios


Se la tavola è rotonda

A ferro di cavallo Nello spumeggiante contesto del convivio acquisiscono rilievo elementi paralleli alla questione gastronomica eppur convergenti con essa, che si caricano di un fascino dal quale il banchetto stesso non può prescindere; tra questi l’aspetto organizzativo afferente credenze e tavole. Le suppellettili, d’oro, d’argento, di cristallo che la tavola ospita esprimono lo status sociale del potens; gli arazzi o le decorazioni pittoriche sulle pareti divengono parte integrante del progetto di spettacolarità; i raffinati tappeti sottolineano lo splendore. La componente scenografica riveste la medesima importanza dei protagonisti del convivio, ai quali riesce perfino a rubare la scena. In Italia, dal Medioevo al Rinascimento si apparecchia la sala a “ferro di cavallo”, per consentire la rappresentazione di balli, commedie, suonatori, giocolieri, poeti. Le tavole – assi disposte su cavalletti – vengono ricoperte da cinque, sei, sette o più tovaglie (mantili), a seconda del numero dei servizi, scandite da un sottile strato di cuoio tra l’una e l’altra (corami), per evitare che si macchiassero. Ogni volta che si sussegue il servizio si cambia la tovaglia, la quale è sempre candida. Sarà il caso di ricordare come il banchetto sia fondato sull’alternanza di “servizi di credenza”, ossia di vivande o preparati freddi, quali dolciumi, confetture, insalate, pesci o pasticci, con “servizi di cucina”, ossia piatti caldi. Le cronache del tempo ci svelano ogni segreto: «Era la prima tavola apparecchiata con quattro tovaglie sottilmente lavorate, e sotto ciascheduna tovaglia vi era il suo corame, acciò non s’imbrattassero le tovaglie. (…) E quivi si levò uno mantile e ogni cosa da tavola, e levata si partirno [divisero] le posate, cucchiari, forcine, coltelli dorati, con le sue salviette profumate, (…) tazze d’oro e d’argento bellissime, che ve n’era in gran copia». E ancora: «La tavola del duca era servita da primari gentiluomini e da paggi di Corte in piatterie d’argento e d’oro; ed i cristalli da bere erano legati in oro. La piatteria era tutta di porcellane maioliche soprafine, le quali ogni volta che cangianvansi erano per segno di giovialità e di grandezza spezzate, sottentrandone altre non meno belle». La tavola dunque, intesa come elemento fisico, ospita la prima e più immediata fase conviviale, quella che spalanca la finestra su un universo di straordinaria suggestione.

Giancarlo Malacarne

Una bella tavolata, tutti insieme, condividere buone cose, passarsi il sale, e tutti chiacchierano parlandosi uno sopra l’altro: un’immagine da “Amarcord”. Ci sembra così ovvio e facile. Se la tavola è rotonda poi, si sta ancora meglio: quella rettangolare esprime gerarchie: chi sta a capotavola? Chi ci pensa al significato di mangiare assieme, intorno a un tavolo? Forse ci pensa chi è spesso da solo: ci sono persone che se son sole non si fanno nemmeno da mangiare, e non si siedono a tavola. Mangiano col frigorifero, per cosí dire, standoci in piedi davanti. Mia figlia mi raccontava anni fa, di ritorno dal Canada dove era stata ospitata per qualche mese da una famiglia, che le persone lí tornavano a casa tutte a orari diversi, per cui appunto mangiavano così, in buona compagnia del frigo. Per cui il rito del mangiare seduti assieme intorno al tavolo implica la risorsa, implicita e ritenuta troppo ovvia per poter sentire gratitudine per questo, di condividere gli orari e quindi la presenza dei nostri cari. Di incontrarci e di poterci perfino contare, di veder strutturata la cadenza della giornata dal rito del pranzo e della cena. Un rito che in Italia mi pare più importante che in altri paesi. Una delle cose che mi ha stupito di più, nei miei primi anni a Berlino, era proprio legato al come lì si sta a tavola: spesso ci capitava di mangiare con la famiglia tedesca del padre dei miei figli, con i loro nonni tedeschi, e di farlo in silenzio. Le prime volte mi sembrava strano e un poco inquietante, a noi in Italia il silenzio fa impressione (o sono solo io fatta così?); mi scoprivo a chiedermi: “Che sia successo qualcosa di triste? C’è qualcosa che non va?” In Italia chiacchieriamo per abbattere il silenzio, ci diciamo, implicitamente, “Sai, ti voglio intrattenere”, per darci l’un l’altro segnali di riconoscimento e affetto. E quando non ci viene da dir nulla, cerchiamo di riempire lo spazio di silenzio che altrimenti si creerebbe con strani antiestetici mugolii: gli “uhmmm, ahhhh, ehhhh, veroooo?, allora..., dunque..., magari...”, e altre pseudo-parole che non hanno altro scopo che il riempimento del silenzio che ci fa paura. Eppure è così bello, se ci proviamo, stare in silenzio assieme, a tavola e non. Se la prossima volta ci provate, a tavola, a NON voler intrattenere gli altri a tutti i costi, bene, scommetto che qualcuno presto dirà: “Dal silenzio intento con cui tutti mangiamo si capisce quanto è buono!...”. E potrete almeno annuire, con un “uhmmmm” soddisfatto. Ludovica Scarpa

Ho pensato subito che questa parola ha una sua allegria quando è gridata, da una voce dietro una zuppiera fumante, in un “A tavola!” perentorio come un ordine, ma eccezionalmente ricco di promesse felici. Questo mobile al femminile, protagonista di molte belle atmosfere familiari (non si sa ancora per quanto) se lo volgete al maschile può ancora servire alla consumazione del cibo, ma dovete spostarvi al ristorante, eventualmente dopo aver prenotato “un tavolo” non una “tavola”, vestirvi come si deve, mangiare in punta di forchetta, pagare il conto. I nostri neuroni una volta punzecchiati vanno avanti per conto proprio, così ho scoperto che “tavola” è un mobile di genere e su questo binario procedo per vedere l’effetto che fa. “Calcare le tavole del palcoscenico” è un’altra tavola al femminile protagonista del Teatro (non si sa ancora per quanto) e poi l’antica pittura su “tavola di legno” e ancora le “tavolozze” dei pittori fino all’altro ieri. La controprova al maschile segnala il “tavolo da lavoro”, “il tavolo anatomico” e il “tavolo operatorio”, importanti, utilissimi, ma non molto allegri. Fra i tavoli testimoni di perdite e rovinose tragedie segnalo il “tavolo da gioco”. Politicamente la “tavola rotonda” segna un altro bel punto a favore del genere femminile, ma dopo Re Artù è passata di moda tanto che oggi si sente da più parti raccomandare di sedersi intorno a un “tavolo” per concludere poco o niente (non si sa ancora per quanto). Ci sarebbero altre annotazioni se non avessi le battute contate, ma posso aggiungere la tavola da surf sopra la quale chiunque può godere della libertà dei gabbiani e così concludere che “tavola”, declinata al femminile, è allegra, concreta e solida.

Foto Claudio Compagni

o t n a u q r e p a r o c n a a s i s Non

Non a caso il poeta Edoardo Sanguineti, nella sua Ballata delle donne, recita: «[…] Femmina penso se penso una gioia / pensarci il maschio ci penso la noia. […] Femmina penso se penso la pace / pensarci il maschio pensare non piace». Giuliano Parenti

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m u r o r b i l a e n g i l s u m o D

Dopo il recente intervento di restauro, le maestose librerie in noce biondo-miele che foderano le alte pareti delle due sale storiche della Biblioteca Teresiana di Mantova (la prima biblioteca pubblica cittadina, voluta dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria nel 1779 e aperta il 30 marzo 1780) si presentano ora nella loro solenne e rigorosa magnificenza, vere opere di architettura ebanistica. Infatti, fu un architetto, Paolo Pozzo, a progettare la prima sala, un vero e proprio edificio di legno su due livelli, dotato di lunghi ballatoi e scalette interne agli angoli. La seconda sala venne arredata successivamente, adattando in parte materiali provenienti da biblioteche già esistenti. La grandiosità del complesso ligneo si coniuga con le linee sobrie e razionali del disegno. Pensate per ospitare i libri che andavano via via arricchendo la biblioteca pubblica, le scaffalature delle due sale, normalmente denominate “prima e seconda sala teresiana”, furono realizzate a distanza di alcuni anni tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Dovevano consentire di conservare ordinatamente e rendere facilmente reperibile la conoscenza, dando così concretezza allo spirito razionalistico e agli ideati illuministici dell’epoca. Le numerose biblioteche barocche e rococò realizzate tra i secoli XVII e XVIII in monasteri e palazzi nobiliari (solo per fare qualche esempio, quelle dei monasteri di Melk, San Gallo, Praga, Novacella) si mostravano ricche di sovrastrutture – cornici, volute, festoni, putti, mascheroni, colonne, capitelli – ed erano state pensate per stupire, oltre che per contenere i volumi collezionati, i quali risultano soverchiati da tanta profusione di decorazione lignea e di stucco. Anche le librerie di oggi suscitano qualche riflessione. Realizzate con materiali vari, dal cartone pressato alla plastica, dal cristallo alla muratura, quando sono di legno assumono aspetti i più diversi a seconda che le tavole esaltino le venature delle essenze con le quali sono realizzate, o siano verniciate, colorate, laccate. Fanno bella mostra di sé sulle riviste di arredamento quali oggetti desiderabili, inseriti nel contesto più con la funzione di esporre e ostentare il possesso di suppellettili, utensili, oggetti decorativi o apparati televisivi e musicali, che con la funzione propria della libreria. Ma se si spinge lo sguardo all’interno delle abitazioni contemporanee, soprattutto se si osservano quelle recentemente arredate dalle giovani coppie, frequentemente si scopre che la libreria non c’è o è oggetto subordinato e relegato in ambienti secondari. È, dunque, un elemento di arredo domestico che sta mutando con il mutare dell’approccio alla cultura scritta e alla carta stampata. Speriamo solo che ciò sia sintomo dell’avanzare dell’informatica, che consente di disporre di enormi banche dati dematerializzate, le quali di conseguenza non abbisognano di contenitori fisici voluminosi. Tornando alle scaffalature delle biblioteche, in queste settimane si stanno scegliendo quelle nuove, da collocare nelle sale di consultazione, che completeranno l’arredo della Biblioteca Teresiana fresca di restauri. Anche qui si imporranno delle scelte che dovranno necessariamente ispirarsi al contesto attuale, ma anche alla lezione di Paolo Pozzo: efficace utilizzo degli spazi disponibili per poter contenere e mettere a disposizione quanti più libri possibile direttamente al pubblico. Al termine di queste riflessioni sulle architetture di legno, mi torna in mente però che quasi trent’anni fa, quando si cominciò a pensare alla realizzazione di una nuova biblioteca, in sostituzione della Teresiana, da collocare nell’ex macello (diventato l’attuale centro Baratta), qualcuno propose seriamente di disfarsi delle armadiature antiche, ritenendole inutili. Per fortuna quella scellerata ipotesi non è stata perseguita e presto potremo tornare ad ammirare queste eccellenti Irma Pagliari opere di legno alla riapertura della Biblioteca Teresiana.

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Foto Paolo Fiaccadori

Riflessioni sugli scaffali da biblioteca


a proposito di palcoscenico

Cosa c’entra il di-abete con il legno? Gioco di parole per introdurre il diabete di tipo 2, che rappresenta la forma più diffusa del gruppo di malattie metaboliche caratterizzate da aumento della glicemia (zucchero nel sangue) attribuibile a una carenza di insulina o a una resistenza all’insulina: oltre il 5% delle persone ne è affetto, soprattutto persone in eccesso di peso (85%), in genere in età adulta e dopo un lungo periodo senza sintomi. Oggi colpisce più precocemente: anche gli adolescenti obesi (soprattutto se hanno familiarità di primo grado) possono sviluppare questo tipo di diabete. Quali le cause? Al di là della predisposizione familiare, mangiare troppo e male e non fare una sufficiente attività fisica quotidiana. Se lo stile di vita non migliorerà da subito è previsto che fra 15 anni questa forma di diabete aumenterà del 47%. Quali i suggerimenti per prevenire e curare il diabete di tipo 2? L’attività fisica regolare a media intensità (camminare a passo veloce, salire le scale, andare in bicicletta, nuotare etc) è in grado di ridurre i livelli di zucchero e grassi nel sangue, e soprattutto le conseguenti complicanze cardiovascolari. Una alimentazione basata su alimenti vegetali è la più indicata per questa malattia. In particolare preferire i cereali integrali (pane, pasta etc.) a quelli normali. Recuperare le ricette contenenti legumi (2-3 volte alla settimana). Preferire le carni bianche a quelle rosse (1-2 volte/settimana). Abolire o ridurre i salumi e gli affettati (1 volta ogni 2 settimane). Assumere minimo tre porzioni di verdura (cruda e cotta) al giorno. Se lo stile di vita non consentisse, come invece è possibile, un drastico miglioramento dovuto soprattutto al calo di peso, è necessario intervenire con farmaci che migliorano la sensibilità all’insulina, oppure stimolano una sua maggior produzione ai pasti. Infine: per prevenire o curare il diabete di tipo 2 è necessario avere la testa maggiormente collegata alle gambe che al proprio palato/stomaco. Coraggio, le piste ciclabili dell’area Leonardo Pinelli mantovana vi aspettano!

Foto Mara Pasetti

Basta un sopralzo, un salto breve e il miracolo del teatro si compie. Una persona dall’aspetto comune sale sul palcoscenico e la commedia può iniziare. Estratto dalla massa dei suoi simili, che ora diventano pubblico più o meno silenzioso, l’attore inizia a giocare, to play appunto, come suona il corrispettivo inglese del nostro recitare. Ma il gioco è innanzitutto per lui, perché si tratta di sdoppiarsi in altre figure, al di là del travestimento e dei costumi. Diventare appunto un altro, che si muove in diretta davanti alla platea e agisce per conto dell’invisibile padrone del testo. Ancora etimologia: la parola dramma viene dal greco agire, come se i nostri antenati avessero pensato che ogni gesto dell’uomo si traduce inevitabilmente in destino e conflitto. Soltanto chi vive può compiere azioni: nasce così il legame tra la storia che si dipana di fronte agli occhi e il fisico dell’attore: che parla, suda, sputa e si torce, replicando come un ginnasta sequenze lungamente preparate, come già iniziarono a fare i protagonisti della Commedia dell’Arte, esercitandosi in volteggi e mimica. L’antenato dell’attore moderno è infatti il saltimbanco, termine che allude a colui che salta sul banco, ovvero che sale sulle tavole del palcoscenico. Tavole di legno opportunamente rialzate a significare il fragile trono su cui Amleto trova la sua tragedia. Forse per questa ragione il principe danese diviene emblema della storia del teatro moderno: è un principe che recita da attore, e si consuma nel dubbio nato dalla consapevolezza d’essere un fantoccio nelle mani altrui: l’invisibile regista, il tirannico autore, è un dio nascosto che abbandona i propri sudditi ad esplorare lo stretto mondo delle tavole di legno della scena. Nel Festival Teatro di Mantova 2010, due Amleti molto diversi sono stati proposti da due giovani e già famosi interpreti: Filippo Timi e Fabrizio Gifuni. Ma un’altra serata di conversazione e di studio, nel giardino rinascimentale della Casa della Beata Osanna, è stata dedicata alla presentazione di un libro in cui si indaga sui diversi rapporti tra Shakespeare e Mantova. Rita Severi racconta i legami tra la vicenda di Amleto e l’esempio storico della corte mantovana. Mantova intanto continua, nelle notti d’estate, a trasformarsi nella tavola invisibile su cui gli attori danzano. Giovanni Pasetti

Un... abete di tipo due!

Foto Giovanni Fortunati

Lupus in tabula

Solo un palco di legno? Il palco, una piattaforma su cui si sale per fare teatro. Il palco, una struttura di legno che si anima quando l’attore sale per interpretare un racconto scritto da altri. Ma l’attore, davanti al pubblico, mette in gioco il proprio corpo e le proprie sensazioni insieme ai compagni di nar-

razione e al regista che li guida, e nel pubblico stesso trova uno specchio delle emozioni che in quel luogo scaturiscono. Quello che succede in quei momenti è qualcosa di strano e magico, una energia che se viene colta e ben indirizzata, se si evitano le trappole

della noia e della banalità, diventa favola. Il teatro è un po’ una metafora della vita, in cui recitiamo, sul palco della quotidianità, le nostre storie e le storie di chi ci passa vicino per strada. È una trama in parte già scritta, in parte incompiuta, atti che a volte si ripetono uguali e a volte cambiano direzione. Ancora di più questo succede quando invecchiamo: se da giovani ci spostiamo in prima persona nei nostri viaggi alla ricerca di occasioni, incontri, spunti per arricchire e rendere interessante il “romanzo” della nostra vita, col passare degli anni cambiano le abitudini, l’irruenza e le ambizioni; riduciamo sempre più i confini del nostro territorio, ritiriamo gli avamposti e i messaggeri, ci riavviciniamo al nostro nucleo interno. Ed è proprio in questo periodo che i nostri giorni e le nostre notti si riempiono di immagini, simboli che danno vita ai ricordi e alle ombre del passato. Il corpo rallenta ma le lunghe veglie diventano pregne di significati, stimoli, dimensioni profonde e sotterranee che albergano in noi. I vecchi con il loro sguardo interiore che arriva al cuore invisibile delle cose, con la loro gravitas, colgono ciò che sembra nascosto nel sepolcro delle coscienze, e invece è ancora vivo e forte. I vecchi che ascoltano le pause, fiutano il “fuori dalle regole“, colgono i sottintesi che mascherano la saggezza. E il loro ripetitivo raccontare è così pieno di paradossi, immagini e rimozioni, da avere un intenso profumo di teatro e di poesia. Marco Arvati

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Curato da Associazione Culturale

Ca’ Gioiosa • Via Trieste, 44

• Mantova

settembre

gioiosa

02 10

CALENDARIO EVENTI

CA’ GIOIOSA

entra nelle case

Redazione Valeria Borini Claudio Compagni Giovanni Fortunati Claudio Fraccari Carla Guerra Nicoletta Marastoni Laura Pasetti Mara Pasetti Raffaello Repossi Giuseppe Tripodo Nicola Zanella Testi di Marco Arvati Roberto Brunelli Claudio Fraccari Alvar Gonzalez-Palacios Giancarlo Malacarne Irma Pagliari Giuliano Parenti Giovanni Pasetti Mara Pasetti Leonardo Pinelli Ludovica Scarpa Fotografie di Giorgio Bergomi Claudio Compagni Paolo Fiaccadori Giovanni Fortunati Mara Pasetti Giuseppe Tripodo L’associazione Ca’Gioiosa è a disposizione degli eventuali aventi diritto per le fonti non individuate. Scriveteci i vostri commenti e visitate il nostro sito per conoscere l’elenco delle edicole che distribuiscono Ca’rte.

18 settembre Volta Mantovana Palazzo Gonzaga Guerrieri Mostra fotografica “Ivanoe Bonomi”

28 ottobre Mantova, Casa Pasetti Presentazione della mostra di Palazzo Strozzi a Firenze Bronzino. Artista & poeta a cura di Mara Pasetti 31 ottobre Firenze, Visita alla mostra

2 ottobre Progetto rivolto a non vedenti e ipovedenti Primo pomeriggio: la città al buio

4 novembre Bagnolo S. Vito, Le Tamerici Castagne grangourmet ricette dolci e salate tra racconti, aneddoti e leggende

14 ottobre Volta Mantovana Palazzo Gonzaga Guerrieri Storie di parole e modi di dire mantovani a cura del prof. Bruno Barozzi

25 novembre Virgiliana, MASTeR Storia del profumo a cura di Mara Pasetti

Info: – via Trieste 44 Mantova, il venerdì 17-19,30 tel. 0376 224150 – Via Calvi 51 Mantova, il martedì 10-12 tel. 0376 222583 - 3395836540

cagioiosa@libero.it • www.cagioiosa.too.it

Ca’ Gioiosa ringrazia per la sensibilità che sempre dimostrano a sostegno delle sue iniziative il Comune di Mantova, la Provincia di Mantova, Levoni spa, Banca Intesa San Paolo, Cleca S. Martino, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Pavimantova snc, Cantine Virgili, Gustus, Valle dei Fiori

SUL PROSSIMO NUMERO: PIETRA Sportello Sportello di di Promozione Sociale

guarda al lavoro

I volontari dello Sportello di Promozione Sociale del Comune di Mantova hanno deciso di ampliare i propri orizzonti occupandosi in modo più specifico delle tematiche relative al lavoro. A tal proposito informano che chiunque abbia perso il posto può rivolgersi ai Centri per l’impiego dislocati nel territorio provinciale (Mantova, Castiglione delle Stiviere, Ostiglia, Suzzara, Viadana). Presso il Centro il nominativo è iscritto in un elenco anagrafico in base alla residenza; tale iscrizione produce l’esenzione dal ticket sanitario e sostituisce liste, graduatorie, libretto di lavoro. A tutti gli iscritti viene proposto un colloquio di orientamento. Il Centro esamina le richieste pervenute dalle aziende per persone con determinati requisiti, cerca un punto di incontro con i propri iscritti e individua quelli potenzialmente idonei che contatta direttamente. L’azienda opera libera selezione delle persone proposte. C’è poi il sito Internet sintesi.provincia.mantova.it/portale, informano dallo Sportello, che permette di conoscere le offerte di lavoro in atto in ambito locale, nazionale, europeo. Si può consultarlo e candidarsi per un impiego seguendo le istruzioni fornite. Chi ha compiuto 16 anni e assolto l’obbligo scolastico può impiegarsi come apprendista: una categoria di lavoro regolarmente retribuita che va fino ai 24 anni (29 per i laureati). Ai giovani, soprattutto, viene offerta la possibilità del tirocinio. Il Centro per l’impiego stipula convenzioni in tal senso con le aziende della durata di non più di 6 mesi. Ma il Centro per l’impiego è solo uno dei canali per trovare lavoro. Circa le assunzioni stagionali o temporanee per attività agricole (raccolta frutta e ortaggi) è bene rivolgersi alle associazioni di categoria, Confagricoltura, Coldiretti e ai Centri per l’impiego di Viadana e Ostiglia. Le agenzie interinali o di somministrazione svolgono attività simile a quella del Centro per l’impiego, con la differenza che il lavoratore assunto è pagato dall’agenzia che riceve il danaro dalla ditta che lo impiega. Si tenga conto, per i giovani di ambo i sessi dai 15 ai 27 anni residenti nel Mantovano, dell’opportunità del Servizio Civile Nazionale, esperienza di formazione nelle organizzazioni di volontariato e negli enti. È previsto un rimborso spese di 433,80 euro netti mensili. Gli operatori dello Sportello precisano che il Centro per l’impiego di Mantova si trova in via Don Maraglio 4, tel. 0376/401874; orari: lunedì e giovedì 8.30/13.30 – 14.30/17; martedì e venerdì 8.30/13.30 SPORTELLO DI PROMOZIONE SOCIALE: via Tassoni 12 (primo piano) Mantova - tel. 347.6728025 email: sportellodipromozionesociale@domino.comune.mantova.it sito web: http://sportellodipromozionesociale.comune.mantova.it

Questa pagina ospita le associazioni di volontariato e promozione sociale mantovane e lo Sportello di Promozione Sociale

FOTOCINECLUB MANTOVA Il Fotocineclub di Mantova è un'associazione che raccoglie appassionati di fotografia e produzione audiovisiva, fondata nel 1961. Mezzo secolo di ininterrotta attività testimonia le solide basi culturali del club, con una costante ricerca evolutiva nei vari aspetti creativi e tecnici della fotografia. La frequenza del Fotocineclub permette di armarsi di mezzi e cultura per fissare e meglio capire gli avvenimenti che ci circondano e impegnarsi a sapere testimoniare, capire e trasmettere istanti fuggenti con documenti accessibili a tutti. Nel ritrovo settimanale presso la sede, alterniamo gli incontri con Autori di livello anche internazionale e con la produzione di lavori dei Soci, a tema libero o predefinito, a dibattiti di tecnica e nell’analisi di opere di grandi Autori. Caratteristica importante del nostro club è la convinzione che tra noi non esistono “maestri” né “discepoli”, e che si ha il diritto di produrre ed esporre ciò che si desidera, aspettandosi critiche o elogi costruttivi e paritetici. Incontri che migliorano le nostre qualità di fotografi: aumentiamo il volume e la diffusione delle nostre opere e, forse più importante di tutto, ci divertiamo. Siete tutti invitati. ASSOCIAZIONE FOTOCINECLUB MANTOVA Sala Civica di Via Facciotto, 7 – 46100 Mantova Sede aperta tutti i lunedì dalle ore 21,00 Presidente: GIANNI COSSU tel. 335.5220823

Foto Giuseppe Tripodo

Responsabile redazionale Claudio Fraccari Coordinamento artistico Raffaello Repossi Coordinamento editoriale Mara Pasetti

Il volontario è una persona di qualunque età che presta in modo libero e gratuito un’attività di solidarietà di qualsiasi natura rivolta a persone in difficoltà che hanno bisogno di aiuto, oppure alla conservazione e tutela del patrimonio artistico, storico culturale o naturale. Il volontario può agire individualmente o all’interno di un’associazione, mettendo generosamente a disposizione una parte del suo tempo libero. Ne sono un significativo esempio i giovani volontari di Festivaletteratura. Hanno scritto: ” …nessun uomo è un’isola.. ogni uomo è parte della terra intera… e ogni morte di un uomo mi diminuisce perché io sono parte vivente del genere umano” (J. Donne). E anche “Un’anima che si eleva, eleva il mondo” (E. Leseur). ”Tutto è dono: le idee, le cose che usiamo, la natura. Ogni persona è un dono, per se stesso e per gli altri…” (F. Paparone). È importante che i giovani possano fare proprie queste riflessioni: sta a noi adulti, con l’esempio, aprire il loro cuore all’esperienza del dono perché avere una maggiore consapevolezza dei bisogni e delle fragilità altrui fa crescere ed essere più tolleranti, in una parola ci arricchisce. Ca’ Gioiosa propone per questo autunno due progetti solidali: Diamo Ca’rte da leggere, lettura condivisa di questo foglio tra giovani, studenti e persone anziane e La città al buio un percorso dedicato a non vedenti e ipovedenti che sostituiranno le mani agli occhi per apprezzare molte opere d’arte presenti nel tessuto architettonico urbano. Inoltre abbiamo aderito, associandoci, a un progetto importante: il MAC, Museo d’Arte moderna e Contemporanea di Mantova. Mara Pasetti

con il patrocinio

3 settembre 2010 Copia omaggio supplemento straordinario a La Cittadella Editrice Ca’ Gioiosa-Mantova Fotolito e stampa: Publi Paolini


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