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GFE - Giovani Federalisti Europei

Europa alla ricerca di se stessa Dalla chiusura della Conferenza sul Futuro dell'Europa alla proposta di aprire una Convenzione per la modifica dei Trattati, fino all'allargamento a est: un momento storico per l'Unione Europea e per i suoi cittadini


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La retorica pacifista sulla guerra in Ucraina

Storia minima di una tumultuosa primavera francese

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Una Conferenza e un’Europa alla ricerca del suo futuro

Rubrica Erasmus: Bruxelles (Belgio)

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Il ruolo dei diritti all’interno dell’Unione

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Ucraina più vicina all’UE con lo status di Paese candidato, e ora? Stampato da

Per collaborare con noi, contattaci a: gfe.verona@gmail.com! Rivista del gruppo studentesco GFE - Giovani Federalisti Europei Con il contributo dell’Università degli studi di Verona. Responsabile del gruppo studentesco: Maddalena Marchi. Co-direttori: Maddalena Marchi, Salvatore Romano. Collaboratori: Gianluca Bonato, Carlo Buffatti, Paolo De Gregori, Lea Dietzel, Gabriele Faccio, Francesco Formigari, Andrea Golini, Oleh Opryshko, Filippo Pasquali, Filippo Sartori, Andrea Stabile, Alice Tommasi, Alberto Viviani, Filippo Viviani, Sofia Viviani, Andrea Zanolli. Redazione: Via Poloni, 9 - 37122 Verona • Tel./Fax 045 8032194 • www.mfe.it • gfe.verona@gmail.com • Progetto grafico: Bruno Marchese. GFE - Giovani Federalisti Europei

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La retorica pacifista sulla guerra in Ucraina di lli And rea Zano

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• Tempo di lettura: 3 minuti

el dibattito pubblico italiano sulla guerra in Ucraina, spesso ci si imbatte in particolari giri di parole per definire l’invasione russa. Molti commentatori, infatti, tendono a non chiamare l’ingresso armato dell’esercito russo sul territorio ucraino con il suo vero nome: invasione armata. Questa è la definizione inevitabile che andrebbe data all’operazione militare dell’esercito russo. In che altro modo potrebbe essere chiamato l’ingresso offensivo di un esercito nel territorio di uno stato sovrano se non invasione o aggressione? Tuttavia, nonostante la banalità sconcertante di tutto questo, il dibattito pubblico italiano si sta dimostrando intossicato da una propaganda russa che si inserisce surrettiziamente – alle volte, a dire il vero, anche in maniera palese – nel giornalismo, nei partiti, nel mondo accademico e nelle associazioni di vario genere. Accanto a questa difficoltà nel descrivere l’invasione con i giusti connotati, si notano altre due tendenze traviate. La prima è puramente retorica e riguarda il sostenere che si vuole la pace, punto e basta. Vale a dire definirsi pacifisti senza esprimersi su che tipo di pace si vuole, come se una Ucraina distrutta, invasa, piena di morti e soppressa autoritariamente, ma senza bombe e carrarmati, rappresentasse una situazione di pace accettabile. Niente di più retorico. La pace non è solo assenza di conflitto armato, ma è un insieme complesso di fattori che un paese democratico come l’Italia non può ignorare: dalle libertà civili e politiche fino ai diritti e al rispetto delle minoranze. In altri termini, tutto quel complesso di valori che l’esercito russo sta cercando di sopprimere e che il mondo occidentale preserva. Un sistema di valori verso cui, liberamente e democraticamente, nel corso degli ultimi anni il popolo ucraino ha scelto di avvicinarsi. E allora, che senso ha richiedere la pace a ogni costo, senza soffermarsi sulla vita futura degli ucraini, sulle loro scelte e sui valori fondanti di tale pace? Davvero ci andrebbe bene che le armi smettessero di scoppiare anche se questo significasse la resa ucraina e la soppressione della libertà di chi ci abita? Semmai, se davvero abbiamo a cuore la libertà e i diritti del popolo ucraino, dovremmo appendere alle finestre la scritta “Stop invasione” e concentrare la nostra battaglia contro la classe dirigente russa, la vera responsabile di questo conflitto. Esprimersi per la pace senza comprendere che non tutte le paci sono ugua-

li è banale e semplicistico. E non fa bene alla vera pace per il popolo ucraino. La seconda tendenza, invece, riguarda l’interpretazione del conflitto e delle sue origini. Non è qui mia intenzione soffermarmi e approfondire il tema delle cause, ma solo sottolineare l'assurdità di alcuni stucchevoli discorsi che spesso vengono diffusi nel dibattito pubblico e politico italiano. Mi riferisco agli ormai classici riferimenti alla NATO che avrebbe abbaiato contro la Russia. Per smontare una tale scemenza, basterebbe sottolineare che nelle settimane precedenti all’invasione russa, i vari capi di governo europei giunti a Mosca per dialogare con Putin avevano garantito che l’entrata dell’Ucraina non era in agenda: Putin non invade, l’Ucraina non entra nella NATO. Niente da fare, richiesta rifiutata dalla Russia. E Putin ha invaso comunque, a dimostrazione del fatto che l’aggressione russa ha altre motivazioni e che la parte del cane che abbaia non è della NATO. In secondo luogo, la NATO è e rimane un’alleanza difensiva e, peraltro, anche se l’Ucraina avesse voluto entrarvi, la scelta sarebbe stata autonoma e democratica da parte del paese e non imposta dall’Occidente. Infine, non va dimenticato che il desiderio di Ucraina, Moldavia, Georgia e pure dei Paesi Baltici e Scandinavi di entrare – o restare – nella NATO e nell’Unione Europea è dovuto anzitutto alla paura che l’esercito russo invada i propri territori. Paura che, nonostante le stancanti retoriche del putinianesimo, si è tristemente dimostrata fondata. Per concludere, la posta in gioco in Ucraina è molto più della pace per quei popoli martoriati. Si tratta, fra le molte altre cose, di raggiungere un certo tipo di pace, di difendere quei valori democratici e liberali che vengono messi in discussione e che sono alla base anche della nostra società civile, di mostrare al mondo la debolezza e l’autoritarismo della classe dirigente russa che segue Putin. Così come si tratta di aiutare il popolo russo ad acquisire migliori condizioni di vita e di comprendere qual è il ruolo dell’Unione Europea sul continente europeo. In tutto questo, non si deve dimenticare che in Ucraina sono state attaccate quelle libertà democratiche che fondano la nostra società e l’intera Unione Europea. Ed è quindi a maggior ragione nostro dovere operare in ogni modo per difendere quei valori e per far vincere l’apertura e la democrazia sulla chiusura e sull’autoritarismo. Luglio 2022•GFE - Giovani Federalisti Europei

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di to Gia nluca Bona

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Una Conferenza e un’Europa alla ricerca del suo futuro • Tempo di lettura: 3 minuti

l lancio della Conferenza sul Futuro dell’Europa era stato pensato prima che scoppiasse la pandemia da Covid-19. Il 16 luglio 2019, nel suo discorso di presentazione della propria candidatura al posto di Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen aveva ufficialmente proposto il lancio della Conferenza, che si sarebbe dovuta svolgere dal 2020 al 2022. È poi effettivamente iniziata il 9 maggio 2021, per terminare un anno dopo. Se nessuno nel 2019 si aspettava che la Conferenza sarebbe iniziata dopo lo scatenarsi di una pandemia come non se ne vedeva da un secolo, nessuno il 9 maggio 2021 nemmeno si aspettava che la Conferenza sarebbe finita dopo lo scoppio di una guerra fra due Paesi sovrani di proporzioni sconosciute dopo il 1945. Insomma, mentre l’UE con lentezza tenta di dare risposte sperimentando metodi nuovi di partecipazione, le domande che il mondo pone cambiano freneticamente. Ma nonostante i farraginosi e complessi meccanismi con cui la Conferenza sul Futuro dell’Europa ha prodotto le 49 proposte conclusive, vale la pena andare a leggersele. Si parla, fra le altre cose, di stretta condizionalità nel rispetto dei principi dello Stato di diritto per l’accesso ai fondi europei, di un sistema di salari minimi europei, di smettere gradualmente i sussidi statali ai combustibili fossili, di un bilancio dell’UE dotato di risorse proprie. Nel complesso, quindi, le cittadine e i cittadini europei presentano proposte più coraggiose del Consiglio europeo, bloccato da veti e controveti nazionali. Eppure, è proprio nel Consiglio europeo

che rischia di arenarsi questo che potrebbe essere un importante tentativo di riforma dell’UE, in un mondo che evolve molto rapidamente. Con il potere di veto, il governo di Orban e qualunque governo voglia fermare tentativi di riforma ha gioco facile a frenare. È così che l’UE non riesce a dare risposte ai cittadini. I cittadini però si muovono anche nelle piazze, oltre che nelle sessioni ufficiali della Conferenza sul Futuro dell’Europa, per chiedere un’Europa più unita. Il 7 maggio scorso a Strasburgo, proprio in coincidenza della chiusura della Conferenza, una March for Europe molto partecipata si è diramata da Place Kléber, la principale piazza di Strasburgo, fino alla sede del Parlamento europeo. Al grido di «Federazione europea subito!» (sì, in italiano, e sì, anche i francesi cantavano in italiano). È il grido di speranza per una Unione europea sempre più esposta in un mondo che le si fa sempre più ostile. Priva di una difesa europea da contrapporre allo spietato e sanguinario esercito russo, senza competitor rispetto ai giganti del digitale che stanno negli USA e in Cina, scarsa di risorse energetiche e naturali che deve importare da Algeria, Russia, Africa. Divisa al proprio interno fra opposti interessi dei governi nazionali. All’Europa serve uno scatto d’orgoglio, un fremito nel processo di integrazione che dura ormai da 75 anni, per arrivare a quell’Europa federale propugnata da Spinelli e Rossi nel Manifesto di Ventotene del 1941. La Conferenza sul Futuro dell’Europa può essere la giusta scintilla, la storia non aspetta.

Cos’è (stata) la Conferenza sul Futuro dell’Europa? Si è trattato del primo esperimento di democrazia partecipativa dell’Unione europea, messo in piedi dopo anni di recriminazioni sullo scarso coinvolgimento dei cittadini da parte delle istituzioni dell’UE. I due principali canali da cui sono state raccolte le idee della cittadinanza dal basso sono stati: una piattaforma digitale, futureu.europa.eu (una sorta di social network dell’UE), e i Panel dei cittadini, dove persone selezionate in modo casuale provenienti da tutta l’UE hanno espresso le proprie opinioni nell’ambito di quattro Panel tematici. Dalle discussioni sulla piattaforma e nei Panel, sono state redatto un testo di 49 conclusioni che, passando per gli altri organi ufficiali della Conferenza (dove sedevano parlamentari, membri della società civile e delle istituzioni europee), è stato infine approvato ufficialmente.

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Il ruolo dei diritti all’interno dell’Unione di i Pao or lo De Greg

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• Tempo di lettura: 3 minuti

el contesto storico in cui viviamo, con lo scoppio della guerra in Ucraina e la crisi delle democrazie liberali (come emerge dai dati raccolti da Freedom House, una ONG statunitense che monitora l’andamento delle libertà nel mondo), è molto probabile essersi imbattuti almeno una volta nel paradigma dei diritti umani. Ormai noi cittadini europei li diamo quasi per scontati, ma sono sempre più numerosi gli agghiaccianti rapporti di ONG e Comitati specializzati delle Nazioni Unite che svelano le più crudeli violazioni di essi. Siccome sappiamo che i diritti, una volta consolidati, possono essere anche rimossi (basti pensare ai diritti sociali negli anni del neoliberismo totale della Thatcher e di Reagan), è quindi lecito chiedersi se ci sono delle effettive basi giuridiche all’interno dell’Unione Europea che tutelano quei principi preposti alla protezione della dignità umana, oppure se sono solamente dei valori che possono sfumare da un momento all'altro in base alla dubbia morale di qualche governante. Innanzitutto, l’intera costruzione europea si fonda proprio su determinati valori comuni, che sono fondamento della sua azione interna ed esterna. Sono enunciati nell’art.2 TUE e consistono nel rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e dei diritti umani. Questi ultimi ricevono addirittura uno specifico riconoscimento nell’art.6 del medesimo Trattato, che attribuisce alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Carta di Nizza) lo stesso valore giuridico dei Trattati. Per quanto riguarda gli altri principi, il più minacciato anche all’interno dei confini comunitari è il rispetto dello Stato di diritto, ossia il dover agire nei limiti previsti dalla legge, anche da parte del governo. Esso inoltre vincola le istituzioni e gli organi dell'Unione all'effettiva osservanza del diritto comunitario, grazie all’esistenza di un controllo giurisdizionale, effettuato dalla Corte di giustizia, che garantisce una vera e propria “Comunità di diritto”. Dopo aver capito l’importanza dei diritti nell’acquis comunitario, si deve affrontare la questione più importante, ovvero cosa succede in caso di violazione dei valori dell’Unione da parte di un Paese membro. Gli strumenti a disposizione sono due. Il primo è il sistema di controllo previsto dall’art.7 TUE, per il quale il Consiglio può constatare l’esistenza di una violazione

“grave e persistente” e sospendere di conseguenza alcuni dei diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati, fino a sospendere il diritto di voto dello Stato in seno al Consiglio stesso. Il problema di questo strumento? Richiede l’unanimità all’interno del Consiglio europeo per essere applicato. Ungheria e Polonia, i Paesi con più criticità, sono quindi tutelate a causa della loro alleanza con altri Stati all’interno del cosiddetto Gruppo di Visegrad (alleanza che si è però molto allentata, se non sgretolata, a causa del conflitto in Ucraina). Il secondo strumento, entrato in vigore a gennaio del 2021, è noto come “regolamento sulla condizionalità”, e consente all’UE di adottare misure come la sospensione dei pagamenti o le rettifiche finanziarie per proteggere il bilancio. Finora Bruxelles ha già sospeso l’iter di approvazione del Pnrr di 36 miliardi di euro per la Polonia e di 7 miliardi di euro per l'Ungheria. Il rischio per Budapest e Varsavia è quindi di vedere sfumare non solo questi fondi ma almeno una parte di quelli normalmente ricevuti dal bilancio Ue. La Corte di giustizia europea ha già respinto il ricorso dei due paesi contro questo meccanismo, affermando che «il rispetto da parte degli stati membri dei valori comuni sui quali l'Unione si fonda […] definisce l'identità stessa dell'Unione quale ordinamento giuridico comune» e «giustifica la fiducia reciproca tra tali stati» e pertanto «l'Unione deve essere in grado, nei limiti delle sue attribuzioni, di difendere tali valori». La disputa tra il governo di Varsavia, guidato dal partito conservatore di destra Diritto e Giustizia (PiS), e Bruxelles riguarda diversi ambiti: la primazia del diritto comunitario su quello nazionale, la libertà di informazione, i diritti delle donne e delle minoranze e la riforma del sistema giudiziario polacco, che ha progressivamente eroso l’indipendenza dei tribunali e della magistratura. Quanto all’Ungheria, il braccio di ferro con la Commissione riguarda, oltre che l’indipendenza della magistratura, la libertà di stampa e di pensiero, i diritti delle minoranze, i conflitti di interesse e la corruzione diffusa nel paese. In conclusione, la lotta per il riconoscimento e la tutela dei diritti non può mai dirsi conclusa, deve essere costante e continua. Una cosa però è certa: in questo ambito così delicato, fondamentale e conflittuale un’Europa federale è molto più efficace di un’organizzazione intergovernativa, con poteri sovranazionali e coercitivi molto limitati. Luglio 2022•GFE - Giovani Federalisti Europei

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di o Ole h Opryshk

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Ucraina più vicina all’UE con lo status di Paese candidato, e ora? • Tempo di lettura: 5 minuti

Articolo pubblicato su Eurobull.it

l 23 giugno il Consiglio europeo ha concesso lo status di Paese candidato alla piena membership UE all’Ucraina e alla Moldova. Come siamo arrivati a questa decisione storica e quali conseguenze avrà? Il 24 febbraio del 2022 rappresenta uno spartiacque nella storia contemporanea dell’Ucraina e dell’Unione europea. Quello che la maggior parte degli esperti di relazioni internazionali consideravano come un bluff da parte di Putin ha portato alla guerra d’invasione più importante dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa ha riportato alla memoria degli europei una realtà che sembrava essere sepolta nel XX secolo. Inoltre, ha messo al centro dell’attenzione delle cancellerie europee e dell’opinione pubblica il tema dell’allargamento dell’Unione europea, soprattutto quando pochi giorni dopo l’inizio della guerra su larga scala, il Presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj ha firmato la richiesta per l’adesione all’UE, seguito poi da Moldova e Georgia. Per poco tempo si è addirittura parlato di una procedura velocizzata, tecnicamente non

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esistente, per permettere l’ingresso immediato dell’Ucraina nell’UE. Una chiara strategia del Presidente ucraino che chiedeva quasi l’impossibile alle Istituzioni europee per riuscire a conseguire obiettivi più realistici ma allo stesso tempo importanti. Se per i Paesi dei Balcani occidentali una prospettiva europea era chiara, per i tre Paesi dell’ex URSS non era così. All’interno dei membri UE non c’era mai stato un manifesto piano per l’espansione dell’Unione ai tre Paesi dell’Europa Orientale. I sostenitori più accesi di un ulteriore allargamento ad Est erano soprattutto la Polonia e i paesi Baltici per quanto riguarda l’Ucraina, e la Romania per quanto riguarda la Moldova. I Paesi dell’Europa Occidentale hanno sempre sottovalutato la minaccia dell’espansionismo russo e la volontà di Ucraina, Georgia e Moldova di essere parte della famiglia europea. Questo ha spinto Zelens’kyj nei mesi precedenti l’invasione a trattare direttamente con i Paesi membri dell’Unione, in modo da garantirsi un riconoscimento e un impegno concreto per l’integrazione europea dell’Ucraina. Accordi di intesa bilaterali furono firmati con i tre Paesi


baltici - Lituania, Lettonia ed Estonia - oltre che con Polonia, Slovacchia, Croazia, Slovenia e Bulgaria. La diplomazia ucraina stava anche lavorando per le firme della Cechia e della Romania. Zelens’kyj in questo modo ha cercato di diventare il leader di quello che era ormai conosciuto come “Association Trio”, chiedendo alle Istituzioni europee un ulteriore passo in avanti perché per Ucraina, Moldova e Georgia fosse attivata la procedura di adesione all’UE. La risposta delle Istituzioni europee era sempre la medesima: prima le riforme. Questo atteggiamento, insieme allo scetticismo di vari Paesi membri, non dava delle vere garanzie a Kyiv, facendo così crescere il malumore della classe dirigenziale e la disillusione dei cittadini ucraini. L’invasione su larga scala di Putin ha portato i Paesi più scettici a rivalutare in maniera netta la loro posizione sull’Ucraina, schierandosi apertamente con il Paese aggredito. Anche il Parlamento europeo, da sempre l’Istituzione europea più favorevole all’ingresso di nuovi membri, ha preso seriamente la questione; il primo marzo del 2022 ha approvato una risoluzione nella quale chiedeva alle Istituzioni europee di adoperarsi per concedere all’Ucraina lo status di candidato alla piena membership dell’Unione europea con la procedura in linea con l’articolo 49 del Trattato sull’UE e in base al merito. La risoluzione è stata approvata con 637 voti favorevoli, 13 contrari e 26 astenuti. Un mese dopo, la Presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, in visita a Kyiv, ha consegnato al Presidente ucraino Zelens’kyj il questionario per la procedura di elaborazione del parere della Commissione. Il questionario era stato consegnato anche a Chisinau e Tbilisi. In tempi record l’Ucraina ha inviato i risultati compilati alla Commissione, così come la Georgia e la Moldova. Dopo solamente due mesi, il parere della Commissione è stato favorevole per l’Ucraina e la Moldova con delle condizioni e sfavorevole per la Georgia. Da ultimo, è toccato al Consiglio europeo esprimersi

sul parere della Commissione. Tentennamenti arrivavano da diversi Stati membri, quali la Danimarca, I Paesi Bassi e la Germania, ma l’inequivocabile volontà della concessione dello status di candidato all’Ucraina espressa dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz, dal Presidente francese Emmanuel Macron, dal Presidente rumeno Klaus Iohannis e dal Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi durante la loro storica visita a Kyiv, la strada appariva in discesa. Una delle richieste dei Paesi Bassi per Kyiv riguardava la ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, conosciuta come Convenzione di Istanbul. La Verkhovna Rada - il Parlamento ucraino - l’ha subito ratificato, con il Presidente ucraino che ha posto la sua firma completando l’iter legislativo. Il 23 giugno 2022, il Consiglio europeo ha concesso ufficialmente lo status di Paese candidato a Ucraina e Moldova e riconosciuto la prospettiva europea della Georgia. Ci vorranno anni per portare a termine l’adesione completa, anche perché la guerra per ora sembra lontana dalla conclusione, ma un primo importante e simbolico passo in avanti è stato fatto. Le Istituzioni europee hanno lanciato un forte segnale politico a Vladimir Putin riconoscendo apertamente le aspirazioni europee di Kyiv, Chisinau e Tbilisi. L’Unione europea deve procedere per due grandi linee: rinnovamento e rafforzamento interno nell’ottica federale, sperando che gli esiti della Conferenza sul futuro dell’Europa possano dare l’input necessario all’allargamento. I sei Paesi dei Balcani, Albania, Macedonia del Nord, Serbia, Montenegro, Kosovo e Bosnia ed Erzegovina con i già citati tre Paesi dell’Europa Orientale, Ucraina, Moldova e Georgia devono essere aiutati nel processo per la piena adesione, non creando scetticismo e disillusione. Solo così si potrà arrivare a una Europa chiaramente federale con all’interno tutte le nazioni europee. Luglio 2022•GFE - Giovani Federalisti Europei

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di ri Fra ga i nces m co For

Storia minima di una tumultuosa primavera francese • Tempo di lettura: 13 minuti

Atto primo: One More Time! Non più il Louvre, bensì lo Champ-de-Mars sul quale incombe l’iconica presenza della Tour Eiffel. All’arrivo le grandiose note dell’Inno alla gioia di Beethoven, segno di ribadita vicinanza alla dimensione europea. Al termine la risoluta melodia della Marsigliese, emblema del nuovo corso. Durante l’attesa, in seguito ai primi annunci di vittoria, la folla dei sostenitori ha potuto avviare i festeggiamenti cantando One More Time, tra i maggiori successi dei Daft Punk – duo di DJ francesi scioltosi nel 2021. Ecco lo scenario nel quale, il 24 aprile 2022, Emmanuel Macron, con la moglie Brigitte al proprio fianco, ha potuto celebrare la rielezione alla carica di presidente della Repubblica francese. Tale impresa, conquistata guidando la medesima compagine politica che nel 2017 gli aveva consentito di pervenire per la prima volta all’Eliseo, ossia La République En Marche!, ha inscritto il suo nome all’interno di un registro tanto ristretto quanto prestigio-

Il presidente Francese Emmanuel Macron

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so: oltre a Macron, infatti, soltanto tre altri presidenti della Quinta Repubblica sono stati in grado di ottenere due mandati – Charles de Gaulle (1959-1969), François Mitterand (1981-1995), Jacques Chirac (1995-2007). Non tutto è oro quel che luccica, recita un adagio popolaresco: il successo raggiunto da Macron, quantunque caratterizzato da storica rilevanza, necessita di alcune precisazioni. Non si deve dimenticare, a tal proposito, che il quadro nel quale si è concretizzato lo stesso è stato ed è tuttora segnato da profonde inquietudini – tra le più visibili, le aspre proteste dei gruppi “antifas” verificatesi nel giorno della rielezione in città come Parigi, Rennes, Nantes, Tolosa e Caen. Tre, in particolare, sono i punti ai quali è bene rivolgere lo sguardo per assumere una visuale non ingabbiata nel puro événement costituito dalla vittoria. In primo luogo, pare opportuno considerare le cifre che maggiormente hanno segnato la tornata elettorale in questione. Macron, giunto al ballottaggio dopo aver vinto con il 27,8% delle preferenze il primo turno,


Marine Le Pen e Éric Justin Léon Zemmour

ha riconquistato la carica presidenziale con il 58,55% delle preferenze (ossia: 18.779.809 voti). Nel 2017, invece, aveva vinto con il 66% delle preferenze (ossia: 20.743.128 voti). In sostanza, la vittoria recentemente conseguita non è associabile a un incremento dei consensi; rappresenta, piuttosto, un consistente calo di popolarità. In questo senso, è bene rammentare l’opinione espressa dal politologo Olivier Roy (intervistato per La Repubblica dalla giornalista Anna Lombardi), il quale ha coniato la formula “paradosso di Macron”: una situazione nella quale il presidente vince perdendo. Accanto a queste considerazioni, poi, si devono affiancare i numeri relativi alla principale avversaria di Macron: Marine Le Pen, carismatica leader del Rassemblement National, formazione a cavallo tra destra e destra estrema. Ebbene: Le Pen, dopo essersi guadagnata l’accesso al ballottaggio sconfiggendo con un solo punto percentuale di vantaggio Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise), ha raggiunto il 41,45% delle preferenze (ossia: 13.297.728 voti): si tratta di un netto aumento rispetto al ballottaggio delle elezioni svoltesi nel 2017, quando la stessa Le Pen aveva guadagnato il 34% delle preferenze (ossia: 10.638.475 voti). Più generalmente, pare possibile sostenere che nel corso degli ultimi vent’anni la destra nazionalista legata alla dinastia Le Pen abbia registrato un rilevante incremento dei propri consensi: Jean-Marie, padre di Marine e leader del Front National, nel 2002 era riuscito a raccogliere il 17,79% delle preferenze nel ballottaggio contro Chirac; oggi, la figlia gode di un consenso più che raddoppiato in termini percentuali. Non si possono considerare prive di motivazione,

dunque, le parole pronunciate da Le Pen nel giorno della sconfitta: «Il risultato è di per sé stesso una vittoria». Altra cifra meritevole di considerazione è, poi, quella relativa all’astensionismo, pari al 28% dei potenziali elettori: si tratta della percentuale più elevata dal 1969, quando l’astensionismo aveva toccato il 31,15% degli iscritti. Roy, nell’intervista precedentemente menzionata, ha collegato tale dato a una generale crisi dei partiti legati al territorio e ha parlato di un’epoca ormai segnata da movimenti volatili che spesso incassano numerosi consensi facendo leva sui malcontenti della cittadinanza. Non si deve dimenticare, inoltre, che ampie fasce della popolazione hanno palesato un elevato grado di insoddisfazione nei confronti dei due candidati giunti al ballottaggio. Come sottolineato da Riccardo Sorrentino sulle pagine de Il Sole 24 Ore, al primo turno il 57,8% delle preferenze era stato rivolto a partiti dalle proposte radicali. Sia sufficiente pensare, in questo senso, al fatto che tanto Le Pen quanto Mélenchon, benché in posizioni opposte sullo scacchiere politico, si definiscono favorevoli all’inaugurazione di una Sesta Repubblica. Anche Éric Zemmour, discutibile leader di Reconquête nonché massimo esponente dell’estrema destra francese, può essere annoverato tra coloro che sostengono la necessità di profondi mutamenti istituzionali. Il parere del politologo Marc Lazar (riportato da Il Fatto Quotidiano) ben inquadra la situazione in esame: lo studioso, infatti, ha parlato di «[...] due progetti di Paese nel programma di Le Pen e Macron, ma anche di due rigetti che oggi si confrontano nel voto francese: il rigetto di Le Pen e il rigetto di Macron». Luglio 2022•GFE - Giovani Federalisti Europei

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In secondo luogo, è bene esaminare la Francia della quale dovrà occuparsi il presidente rieletto durante il prossimo lustro. Si tratta di una Francia internamente divisa, come hanno sostenuto numerosi commentatori. Macron, infatti, ha ottenuto consensi pressappoco plebiscitari all’interno di varie realtà urbane: a Parigi l’85,10% dei voti, a Nantes l’81,15%, a Lione il 79,80%. Le Pen, invece, ha incassato un rilevante sostegno nelle aree rurali e nei piccoli comuni. Generalmente, il Rassemblement National si è rafforzato nelle proprie aree di debolezza (cioè l’ovest e il sud-ovest del Paese) e si è preservato o migliorato nelle proprie aree di forza (cioè il nord e il nord-est del Paese). Più specificamente, Le Pen ha conquistato trenta dipartimenti (al contrario dei due ottenuti nel 2017) e oltre il 60% dei voti in più di 6.500 comuni. La Francia odierna, tuttavia, non si esaurisce nelle sole figure di Macron e Le Pen. Mélenchon, principale esponente della sinistra radicale, al primo turno aveva conquistato il 22% delle preferenze: segno del fatto che, nonostante le prismatiche scissioni relative all’elettorato di sinistra registratesi prima delle elezioni, esisteva ed esiste tuttora una consistente fazione lontana tanto da Macron quanto da Le Pen. Arrivato il ballottaggio, i voti inizialmente destinati a Mélenchon sono in parte confluiti tra i voti indirizzati ai due contendenti finali: secondo un sondaggio curato da Ipsos, il 42% di tali voti sarebbe finito tra le mani di Macron; il 17%, invece, tra quelle di Le Pen. Di là dalla mera contingenza relativa al ballottaggio, ciò che rileva è il punto seguente: come illustrato dal giornalista Marco Cesario sulle pagine di “MicroMega”, la Francia è oggi politicamente divisa in tre blocchi. Al centro, sottoposto a pressioni di ordine tettonico, Macron. Ai poli esterni, mossi dal proposito di scardinare il sistema a suon di consultazioni referendarie, due schieramenti incompatibili: da una parte, una sinistra antiglobalista, ecologista e movimentista che ha trovato in Mélenchon una figura intorno alla quale condensarsi; dall’altra, una destra nella quale è oggi possibile riconoscere due linee: la linea Le Pen, che coincide con una destra nazionalista e conservatrice approdata a un certo grado di normalizzazione politica, e la linea Zemmour, in cui si sono rapprese tutte le tendenze tipicamente ascrivibili alla destra estrema. L’esistenza di questa struttura a blocchi pare confermata da un sondaggio di Ipsos relativo alle incombenti elezioni legislative del 12 e il 19 giugno, per eleggere la futura dell’Assemblea Nazionale: a fronte di una quota di partecipazione stimata al 47%, l’indagine attribuisce il 28% delle preferenze alla formazione di Macron (conferendogli così una posizione di forza), il 27% all’alleanza delle sinistre trainata da Mélenchon (che vorrebbe sfruttare proprio le elezioni in esame per agguantare il titolo di primo ministro e costringere Macron a una difficile coabitazione), e un altro 27% al Rassemblement National (al quale si vorrebbe associare in una patriottica coalizione il più debole Zemmour). A incrementare il grado entropico dello scacchiere, la singolare configurazione della vittoria conseguita da Ma-

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cron: come suggerito in precedenza, il partito del presidente rieletto ha subito un calo di popolarità e la vittoria dello stesso è stata consentita anche dai voti che, seppur con disgusto, gli elettori di altre fazioni (soprattutto gli elettori della sinistra e della destra moderata) gli hanno affidato con l’intento di contrastare la deriva sciovinista e anti-europeista rappresentata da Le Pen. Consapevole di ciò, nella serata dei festeggiamenti Macron non ha dimenticato di ringraziare chiunque lo avesse votato, e ha poi dichiarato, con ambizioni universalistiche: «Non sono più il candidato di un campo, ma il presidente di tutti». Benché Macron sia riuscito a raggiungere risultati rilevanti in ambito internazionale (favorito, in questo senso, dalla Brexit e dall’uscita di scena di Angela Merkel), un’affermazione simile pare piuttosto pretenziosa. Nel corso del suo primo mandato, infatti, Macron non è riuscito a guadagnarsi il favore di ampie fasce della popolazione: le sue riforme interne sono parse spesso incompatibili con il sistema francese (un sistema tendenzialmente generoso sul piano sociale), sovente è stato accusato di scarsa sensibilità nei confronti dei disagi socio-economici, e i suoi detrattori hanno bollato come spregiudicato il suo ricorso alla Gendarmerie. A incrinare ulteriormente il quadro, l’indifferenza lamentata dai territori più esterni ai grandi nuclei urbani e una rilevante impopolarità tra i giovani e le periferie, il cui voto – in unione a quello delle comunità musulmane – è stato prevalentemente indirizzato a Mélenchon. Come sottolineato da “Politico”, due terzi dei voti rivolti a Macron sono provenuti da chi non ha difficoltà ad arrivare a fine mese. Sul piano anagrafico, la componente della popolazione rivelatasi più fedele a Macron è stata quella degli over-65. Complessivamente, immaginare un Macron “presidente di tutti” pare un’impresa piuttosto ardua. In terzo luogo, una domanda: quale governo attende la Francia divisa in cui Macron ha vinto? La formazione assemblata dal presidente rieletto presenta sia elementi di continuità sia elementi di novità: generalmente, come nel caso del primo mandato, tenta di realizzare una miscela bilanciata secondo una logica centrista. Se nel primo governo era tuttavia rilevante la presenza di tendenze legate al centro-destra (si pensi alla figura del primo ministro Édouard Philippe), nell’attuale pare significativa la presenza di figure che in passato appartennero alla sinistra. È sufficiente considerare colei che, dopo i controversi tentennamenti relativi a Catherine Vautrin (scartata perché di orientamento eccessivamente tradizionalista), Macron ha nominato come nuova prima ministra: Élisabeth Borne, in passato socialista, già ministra del Lavoro, della Transizione ecologica e dei Trasporti. Secondo l’ala sinistra del partito, Borne rappresenterebbe l’emblema del nuovo corso inaugurato da Macron; inoltre, seppur considerabile come uno spauracchio nei confronti di certe aree dell’elettorato conservatore, Borne potrebbe acquisire plausi preziosi occupandosi del dossier relativo alle pensioni. In sostanza, volendo riprendere il parere esternato da Le Monde, una figura capace di


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rabbonire la sinistra senza spaventare la destra. Tra i suoi primi impegni vi sarà quello riguardante l’approvazione di un pacchetto di misure in favore del potere d’acquisto dei francesi, attualmente eroso dall’inflazione. Oltre alla nomina di Borne, pare interessante quella di Pap Ndiaye al Ministero dell’Istruzione: quest’ultimo, di origini senegalesi, è stato direttore del Museo dell’Immigrazione e il ruolo attribuitogli ha scatenato ampie proteste da parte di figure come Le Pen, che ha maliziosamente tacciato Macron di volersene servire per costruirsi un’immagine capace di mietere consensi tra i giovani legati alla sinistra. Certe nomine, poi, hanno coinvolto alcuni dei giovani esponenti della “generazione macronista” forgiatasi durante gli ultimi anni: in particolare, si pensi a Rima Abdul Malak, divenuta ministra della Cultura. Nonostante i ruoli cruciali siano stati affidati ad alcuni tra i più fedeli collaboratori di Macron (Le Maire all’Economia, Darmanin agli Interni, Beaune agli Affari europei, Dupond-Moretti alla Giustizia), pare che il prossimo governo sia realmente destinato a esplorare nuove direzioni. In conclusione, è lecito sostenere che la Francia abbia deciso di scacciare le ombre della destra e di optare per il programma di Macron, all’interno del quale l’europeismo si pone come uno dei pilastri portanti. Certo, l’Europa rientrante nei piani di Macron non è identica a quella immaginata dal premier Mario Draghi: come ricorda lo studioso Sergio Fabbrini in Democrazie sotto stress (2022), Macron possiede una «visione quasi-statale» dell’Unione, mentre Draghi è più incline a una concezione «federale» della stessa. In ogni modo, l’elezione di Macron garantisce il fondamentale ruolo della Francia

all’interno del consesso europeo rispetto ai prossimi anni, anni di determinante ricostruzione post-pandemica e di cruciali sfide geopolitiche. Sul piano interno, invece, che cosa attende i cittadini francesi? Ancora presto per dirlo. Il quadro sarà completo soltanto dopo le venture elezioni legislative. Allora si capirà se la Francia potrà tentare la strada dell’unità o se sarà costretta ad anni di difficili lacerazioni. Atto secondo: Tutti giù per terra Chiamare a consulenza una teoria di aruspici a ben poco sarebbe servito. L’esito delle elezioni legislative francesi, svoltesi il 19 giugno 2022, ha rivelato un quadro i cui lineamenti erano stati già sufficientemente preannunciati dai fatti legati alle elezioni presidenziali. Che la coalizione di Macron, ossia Ensemble!, non sarebbe riuscita a procacciarsi la maggioranza assoluta dei seggi di cui si compone l’Assemblea Nazionale pareva prevedibile da diverso tempo, soprattutto a causa della struttura trimodulare costituitasi in seno all’elettorato francese. Un discorso d’impianto analogo può essere formulato a proposito del significativo grado di affermazione raggiunto dalla coalizione di sinistra capitanata da Jean-Luc Mélenchon, ossia NUPES (Nouvelle Union populaire écologique et sociale): non per caso Mélenchon, nei frangenti immediatamente successivi alla rielezione di Macron, aveva lanciato un appello agli elettori affinché gli permettessero di assurgere alla carica di primo ministro. Quanto alla destra, le legislative non l’hanno condotta al conseguimento di un elevato numero di seggi; tuttavia, Luglio 2022•GFE - Giovani Federalisti Europei

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hanno confermato in forma inopinabile la netta crescita di partiti come quello guidato da Marine Le Pen: in perfetta corrispondenza, dunque, con l’incremento di consensi registratosi alle presidenziali. Ecco, allora, il nuovo arco parlamentare francese in cifre: dei 577 seggi totali, Ensamble! ne ha ottenuti 245 (38,6% dei voti), perdendo così la maggioranza assoluta e allontanandosi in misura consistente dai 350 seggi del 2017; a NUPES ne spetteranno 131 (31,6% dei voti); il Rassemblement National, infine, ne occuperà 89 (17,3% dei voti) – si ricordi, in tal senso, che nella precedente legislatura la formazione della Le Pen godeva di appena 8 seggi: l’incremento in questione, dunque, presenta un elevato grado di rilevanza e squilla come un segnale d’allarme. Altre due cifre, poi, meritano una segnalazione: i Républicains, il partito della destra moderata fondato nel 2015 da Sarkozy, sono riusciti ad agguantare 61 seggi (6,98% dei voti); l’astensionismo, invece, si è attestato al 47,51%, ribadendo la disaffezione della cittadinanza francese nei confronti delle vicende politiche che già in occasione delle presidenziali si era manifestata. Nei giorni successivi alla tornata elettorale i principali giornali francesi – da Le Monde a Le Figaro, passando per Mediapart – altro non hanno potuto fare che constatare la gravosa sconfitta subita da Macron. Una sconfitta ancora una volta segnata dai lineamenti del paradosso: pur avendo conseguito la più alta percentuale di voti attraverso la propria coalizione, Macron è stato costretto alla perdita della maggioranza assoluta. Di qui, la periclitante posizione nella quale il presidente rieletto attualmente si trova: riforme rallentate, se non impossibilitate, dalla necessità di individuare dei compromessi; tentativi traballanti di alleanza con partiti poco condiscendenti: si pensi alla scarsa disponibilità manifestata dai Républicains all’indomani delle elezioni; perplessità di difficile risoluzione intorno a scenari come quello della coabitazione, che Macron sembra deciso a evitare (così si può spiegare, ad esempio, la scelta di rigettare le dimissioni avanzate dal primo ministro Borne); rimpasti di governo non troppo soddisfacenti, perché segnati dall’assenza di alcuni tra i nomi che Macron avrebbe voluto; scandali scomodi e fastidiosi come quello relativo all’ex ministro Damien Abad, accusato di tentato stupro da parte di due donne; logoranti colloqui con gli esponenti delle varie fazioni rappresentate all’interno dell’Assemblea, i quali stanno procurando non pochi grattacapi al presidente rieletto; etc. Mentre questo insieme di vicende si consuma, Macron non può certo evitare di considerare anche i fatti legati alla dimensione internazionale: dal conflitto tra Russia e Ucraina, passando per l’emergenza climatica e la crisi energetica. In sostanza, l’inquilino dell’Eliseo in due mesi ha incassato due vittorie di Pirro, cioè due sconfitte: come sottolineato sulle pagine di “MicroMega” dal giornalista Marco Cesario, «Macron per governare non dovrà essere più Macron». Una certa forma di macronismo, d’ora in avanti, non sarà più possibile. In questo senso, pare più che legittimo domandarsi quale impatto avrà sulla ta-

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bella di marcia legata all’Unione europea l’aspra situazione politica in cui oggi versa Macron. Riuscirà a individuare una soluzione in grado di garantire alla Francia una posizione attiva e rilevante rispetto agli alti programmi politici che l’Ue si propone di perseguire nei prossimi anni? Sarebbe eccessivo, poi, scorgere nel risultato ottenuto da NUPES una netta vittoria. Lo stesso Mélenchon, nei giorni successivi alle legislative, ha moderato fortemente l’entusiasmo dimostrato nei primi momenti: la figura in grado di riunificare le varie correnti della gauche d’Oltralpe, infatti, ha definito il traguardo raggiunto dalla propria formazione come deludente. Parole condivisibili: se NUPES è riuscita a procurarsi una parte rilevante nel nuovo assetto dell’Assemblea Nazionale, è altrettanto vero che non si è rivelata capace di conquistare la maggioranza e di evitare, come evidenziato da Fabien Roussel (PCF), che una certa quantità di elettori si indirizzasse verso l’estremismo del Rassemblement National. La sinistra riunita, ora, dovrà mantenere la propria coesione e sfruttare le occasioni che il quadro magmatico del momento potrà offrirle: soltanto così riuscirà a ritagliarsi un ruolo rilevante e stabile. Anche in questo caso, non mancano domande dal carattere internazionale: che posizione eserciteranno i partiti di NUPES rispetto a questioni come quella della guerra in corso? Che atteggiamento manterranno in relazione ai programmi di matrice europea? Costringeranno Macron allo scioglimento anticipato dell’Assemblea, rendendo fragilissima la posizione della Francia? Forse soltanto a Marine Le Pen può essere concesso un pieno gesto di vittoria. A ben guardare, però, il ruolo conquistato dal suo Rassemblement National è quello dell’opposizione. Benché la destra lepenista abbia consistentemente incrementato il proprio peso politico, la Francia preferisce ancora mantenersi a buona distanza da certe derive di stampo sovranista e antieuropeista. Sul piano internazionale, ciò si configura indubbiamente come un dato positivo: in una congiuntura storica come quella attuale, una Francia stretta tra gli artigli del Rassemblement National rischierebbe una massacrante marginalizzazione, nonché un tracollo senza pari. Oggi più di ieri, infatti, il processo di integrazione legato all’Ue risulta di cruciale rilevanza: l’unico sistema nel quale le criticità del presente possano giungere a una luminosa composizione. Duri, dunque, sono i tempi nei quali vaga attualmente la presidenza di Macron, uscita in pessime condizioni da una primavera oltremodo tumultuosa. Proprio in questo momento di forte antitesi identitaria il primo esponente di Ensemble! è chiamato al dispiegamento delle sue migliori doti: soltanto un’accurata e brillante strategia politica potrà consentire a Macron, pur attraverso delle ineludibili metamorfosi, il mantenimento di una posizione di comando tale, da fuggire un immobilismo che la Francia, oggi, non può in alcun modo permettersi. Perché le fauci del presente, tanto nazionale quanto internazionale, sono pronte a mordere.


di Aur ini ora Avanc

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Rubrica Erasmus: Bruxelles (Belgio) • Tempo di lettura: 4 minuti

uando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa riguardante la mia esperienza Erasmus non avevo idea di cosa scrivere. Nemmeno ora potrei dire di avere una chiara idea di cosa raccontarvi, quindi partirò dall’inizio. Andare in Erasmus l’ho sempre vissuta come una necessità. Verona e l’università di medicina, per quanto ritenga siano una città bellissima ed un’ottima università, per diverse ragioni mi sono sempre state strette, come fossero dei vestiti usati che mi erano stati regalati e non fossero della taglia esatta. Quando ho dovuto scegliere le preferenze delle mete Erasmus avevo un solo criterio in mente: volevo andarmene per un anno. Sentivo questo desiderio sfrenato di cambiare totalmente ambiente e di conoscere persone nuove perché avevo bisogno di assaporare degli orizzonti e

delle dinamiche di vita che dalla mia stanza doppia in Borgo Roma non riuscivo a raggiungere. Sembra assurdo, ad oggi, in un mondo così globalizzato, sentire così tanto la necessità di dover lasciare un posto che abbiamo imparato a considerare come casa per diversi anni. Eppure, dal mio secondo anno di medicina, sapevo che sarebbe stato quello di cui avevo bisogno: creare disordine nella mia vita per poi cercare di rimettere tutto in ordine e ritrovare qualcosa. Avete presente quando cercate qualcosa disperatamente nella vostra camera e svuotate ogni cassetto, scombussolate ogni angolo per trovarla? Quante volte capita, in questo trambusto, di imbatterci in pezzi della nostra vita che avevamo dimenticato ma che per qualche motivo sembra così giusto averli tra le mani? Ecco, io potrei dire di essere partita con la speranza di imbattermi in qualcosa di me che pensavo di aver perso.

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È marzo 2021: devo scegliere l’ordine delle preferenze. Scelgo come prima metà l’università di Oulu, in Finlandia, nell’estremo nord, giusto sotto la Lapponia. Passare da Verona ad una città addobbata dalla neve quasi tutto l’anno, con delle temperature estreme e in cui si perde lo scandire naturale del giorno e della notte mi sembrava il modo migliore per creare casino nella mia vita. Ma quest’ultima, quasi sempre, non va come ci si aspetta e la meta viene cancellata causa COVID-19. Meta assegnata: ULB, Bruxelles. Sorge il primo problema: la lingua. L’università è in francese; i corsi, gli esami e i tirocini pure. Ero spaventata perché non avendo mai studiato francese l’unica cosa che sapevo dire era «Je suis Aurora et je ne parle pas français» (ed è stato così finché non mi sono effettivamente trasferita a Bruxelles. Protip: non fate come me, studiate la lingua prima). Spinta dall’idea maniacale di stravolgere completamente la mia vita volevo vivere in uno studio apartment: 15m2 di totale solitudine. Ma organizzare un Erasmus non è così semplice, la sessione estiva mi stava con il fiato sul collo e quando ho iniziato a cercare casa tutti i monolocali per studenti erano terminati. Ed eccoci al secondo problema: trovare una casa. Vedo un’offerta per una stanza singola in una casa enorme in cui vivevano altre nove persone e pago la caparra, senza pensarci due volte. In quel periodo mi piaceva spesso ricordare questa citazione «If you're not scared, then you're not taking a chance. And if you're not taking a chance, then what the hell are you doing anyway?». Con questo spirito, il 12 settembre 2021 salgo su un aereo di sola andata per Bruxelles. Dal posto finestrino guardo l’aereo decollare: di fronte a me solo tante incognite, aspettative e dubbi. Oggi scrivo questo pezzo dal soggiorno di Dethy house a Saint-Gilles, uno dei comuni centrali di Bruxelles. Sempre oggi, proprio come feci dieci mesi fa, ho comprato un biglietto di sola andata: la destinazione è Verona. Questo fast-forward di nove mesi, nella storia che vi sto raccontando, non è casuale. Mi sembra di non aver avuto nemmeno il tempo di abituarmi ad una stagione che subito ero nel bel mezzo della successiva. Eppure, allo stesso tempo, ho la parvenza che possa ricordare ogni singolo giorno come se l’avessi vissuto a rallentatore. Non sono certa che quello che sto per dire sia comprensibile a tutti, ma da amante della montagna è il parallelismo più calzante a cui possa pensare. Avete presente quando decidete di salire una cima che vedete dal fondo valle così distante da essere minuscola ma così chiara nella vostra mente che ogni volta che alzate lo sguardo sapete esattamente dove puntare i vostri occhi? E avete presente quando, arrivati in vetta, vi dimenticate di tutta la fatica fatta per raggiungerla perché l’aria in quota è così pulita che i vostri polmoni sono avidi di ossigeno e vi sedete, con una tazza di tè caldo ed un panino tra le mani, ad osservare quel nuovo panorama che avete conquistato? Tutta la scarpinata acquista un sapore diverso da lassù. Non è solo il senso di libertà e di soddisfazione che voglio richiamare con questa metafora. C’è

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un’altra cosa che amo della montagna: le persone che incontri durante il cammino. Per chi non lo sapesse, ogni volta che in montagna si incontra qualcuno, ci si prende sempre il tempo di salutare. Si attende il proprio turno per passare nei sentieri più stretti, ci si chiede sempre indicazioni quando non si è sicuri di come raggiungere la meta. Su quei sentieri che così tante persone stanno percorrendo si respira un senso di appartenenza e convivialità che è difficile da descrivere. Così, allo stesso modo, trovo difficile descrivere in poche parole il mio Erasmus. Sono certa che la mia esperienza non sia come quella di Mary, Gabriele o Riccardo; sono pure certa che la vostra esperienza sarà diversa dalla mia. Ognuno trova delle risposte che è disposto ad accettare e conformi alle domande che si sta ponendo. Forse la cosa più importante che questo Erasmus mi ha insegnato è l’importanza del prendersi cura di sé; del premere il pulsante pause nella vita frenetica di tutti i giorni. In quanto studenti di medicina, siamo inseriti in un ambiente così competitivo che la performance accademica assume un ruolo centrale nelle nostre vite, fino a nasconderci nell’ombra di un libretto abbellito da semafori stradali e valutazioni. La drammaticità di questo contesto è la banalità con cui questa competitività e quest’ambizione tossica siano normalizzate. Ma la verità è che siamo molto altro: siamo l’insieme delle nostre passioni; delle persone che desideriamo diventare; delle aspirazioni che abbiamo; della nostra rete sociale. Eccoci al dunque: ho trovato quei pezzi di me che pensavo di aver perso? Sì, credo proprio di sì. Ho scoperto che questa è la prima città che posso chiamare casa, senza che debba imparare, per forza d’abitudine, che sia tale. Ma non è tutto: ho scoperto che ci sono così tante altre cose di me che voglio scoprire. Vorrei poter vivere quest’esperienza fino a saziarmene totalmente, ma un mio amico mi ha detto «if you don’t move on, you won’t grow up». So, let’s grow up.


Questa nuova rubrica di Eureka nasce con l’intento di fornire un angolo sul faceto della politica europea. Eurelax - la parte relax di Eureka - come la tanto declamata marca di materassi, vi allieterà nei momenti di stanchezza regalandovi un sospiro di rilassatezza. Non perdetevi allora la nostra parte Eurelax!

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«[...] La grande posta in gioco non è un governo di sinistra o di destra in tale o tale paese. La posta è la rinascita della libera civiltà democratica europea che può avere luogo solo sulla base di una Europa unita.» Dal discorso tenuto da Altiero Spinelli al 1° Congresso UEF del 27 agosto 1947

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