Codice 602 anno 2017

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Istituto Musicale “Luigi Boccherini”

Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 8 - anno 2017 - nuova serie

ISBN 978-88-8347-981-6

€ 16,00

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CODICE 602

n. 8 - anno 2017

CODICE 602

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CODICE 602


«Codice 602»

Nuova serie Il titolo della Rivista è un omaggio ad una delle più antiche tradizioni musicali lucchesi. Risale, infatti, all’XI secolo il prezioso Antifonario noto come Codice 602, custodito nella Biblioteca Capitolare Feliniana di Lucca. Rivista annuale dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” di Lucca N. 8 - Ottobre 2017 Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 867, del 20.10.2007 Direttore responsabile: Sara Matteucci Responsabile editoriale: Fabrizio Papi Comitato di redazione: Giulio Battelli, Sara Matteucci, Fabrizio Papi Comitato scientifico: Giulio Battelli, Marco Mangani, Guido Salvetti In questo numero hanno collaborato: Roberto Calabretto, Stefano Campagnolo, Renzo Cresti, Massimo Lombardi, Marco Mangani, Gregorio Nardi, Gabriella Biagi Ravenni, Alice Tavilla, R. Larry Todd. Realizzazione editoriale: Sillabe s.r.l. Scali d’Azeglio 22/24 57123 Livorno www.sillabe.it Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”: Fabrizio Papi Presidente: Paolo Cattani Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini” Piazza del Suffragio, 6 55100 - Lucca Tel. 0584 464104 www.boccherini.it La Rivista «Codice 602» Nuova serie è realizzata grazie al contributo di: Fondazione Banca del Monte di Lucca ISBN 978-88-8347-981-6


CODICE 602 Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca n. 8 - anno 2017 - nuova serie

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Indice Editoriale 7 di Sara Matteucci La pagina del direttore 11 di Fabrizio Papi

Contributi Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4) and the Search for Stylistic Identity di R. Larry Todd John Williams e la tradizione hollywoodiana di Roberto Calabretto

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Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles: riflessioni di un interprete 53 di Gregorio Nardi Urtext, Autografo, Originale: il problema del testo in alcune opere per chitarra di Mario Castelnuovo-Tedesco di Stefano Campagnolo

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Il suono di Sciarrino, fra soffio e forma di Renzo Cresti

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La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini: uno “spettacolo veramente degno di quelle massime scene” di Alice Tavilla Tra formazione classica e ispirazione jazz. Intervista a Alessandro Lanzoni di Marco Mangani

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Studi sulla Musica a Lucca “Ero refrattario alla musica”: storie di formazione e di iniziazione di Giacomo Puccini di Gabriella Biagi Ravenni Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774 di Massimo Lombardi

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Editoriale

di Sara Matteucci

La stagione artistica dell’Istituto Musicale “Boccherini” ha offerto anche in questo 2017 ottime occasioni di approfondimento per una nuova edizione di «Codice 602», la presente rivista musicologica, creata 11 anni fa e oggi all’ottava uscita della sua nuova serie, distribuita in tutta Italia dalla casa editrice Sillabe. In attesa del riconoscimento quale periodico di fascia A, «Codice 602» è quest’anno presentato nel contesto del XXIV Convegno della Società Italiana di Musicologia che si tiene proprio nella città di Lucca dal 20 al 22 ottobre. Con grande orgoglio apriamo il volume con l’intervento straordinario di R. Larry Todd, professore di Musicologia alla Duke University del North Carolina (USA), nonché il maggior studioso di Mendelssohn e del suo tempo. Il contributo disserta sul percorso stilistico del celebre compositore tedesco e le influenze musicali ricevute durante la sua giovinezza, che portarono infine al compimento di due capolavori come l’ottetto per archi e l’ouverture da Midsummer Night’s Dream. Come esempio del processo che portò Mendelssohn alla scoperta della sua identità compositiva, Todd analizza qui il Concerto in Re minore per pianoforte e violino (MWV O4), brano che è stato anche interpretato lo scorso 7 aprile dall’Orchestra del nostro Istituto diretta dal maestro GianPaolo Mazzoli con i solisti Paolo Ardinghi e Federico Rovini, in abbinamento con la Sinfonia n. 1 in Do minore. Coro e Orchestra dell’Istituto “Boccherini” sono stati protagonisti inoltre del Festival LuccaClassica 2017, nel grande concerto del 4 maggio che ha visto l’esecuzione di alcune delle pagine più significative del repertorio di John Williams, tratte dalle colonne sonore di film quali Salvate il soldato Ryan, Harry Potter, Star Wars e Schindler’s list. E proprio al rinomato compositore americano, con un panorama sulle caratteristiche stilistiche della sua musica per film, è dedicato il secondo articolo della rivista a firma di Roberto Calabretto, professore associato di discipline musicologiche all'Università degli Studi di Udine, noto specialista delle funzioni del linguaggio sonoro negli audiovisivi. Codice 602

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Il saggio successivo è rivolto alla letteratura pianistica. Nel contesto del Festival OPEN Piano, gli allievi dell’Istituto lucchese hanno avuto l’opportunità di partecipare alla masterclass del pianista Gregorio Nardi, il quale è stato anche protagonista dell’acclamato concerto del 31 marzo. Accanto alle musiche di Beethoven, Listz e Gershwin figurava nel nutrito programma musicale anche la Sonate Mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles. A questa sorprendente Sonata lo stesso Nardi dedica il suo testo: insolitamente composta da un solo movimento, è la quarta e ultima della produzione di un musicista appena ventenne, e per quanto scritta apparentemente prima delle Sonate di Schubert e delle ultime sei di Beethoven, Nardi ne osserva i tratti già pienamente romantici, e quindi la sua connaturata proiezione verso il futuro. A seguire, l’articolo di Stefano Campagnolo cerca di fare ordine intorno ad alcune questioni filologiche relative a una delle composizioni più note di Mario Castelnuovo Tedesco, il Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini) op. 85. Sulla musica del compositore fiorentino era infatti improntata la “maratona musicale” del Guitar Festival 2017, una lunga serie di concerti in cui è stato proposto l’integrale delle sue composizioni per chitarra, con alcune opere raramente eseguite prima. L’autore del testo, esperto di filologia musicale e chitarrista, aveva inoltre tenuto presso il “Boccherini” una conferenza dal titolo Castelnuovo-Tedesco: una vita di musica. Nel giorno del settantesimo compleanno del compositore Salvatore Sciarrino (4 aprile) l’Istituto ha voluto rendergli omaggio con un concerto dedicato alle sue musiche, e con un contributo a cura di Renzo Cresti, musicologo e docente di Storia della Musica presso il nostro Conservatorio. Durante gli anni Settanta la figura di Sciarrino ha assunto una statura monumentale, tanto da rendere questo maestro uno dei più rilevanti compositori del mondo musicale internazionale. Poco più che ventenne è riuscito a mettere a punto una rinnovata modalità della percezione dei suoni, azzerando l’ascolto tradizionale e alzando il livello di una percezione sottilissima, indagando una dimensione di confine fra silenzio e suono. Con Il suono di Sciarrino, fra soffio e forma Cresti ci accompagna quindi nella comprensione di questa dimensione “ecologica” della musica del compositore palermitano, «apparentemente immobile sulla soglia del grado zero dell’ascolto». Un altro doveroso omaggio riguarda invece Giovanni Pacini, di cui ricorre quest’anno il 150° anniversario della scomparsa: compositore e didatta di origini catanesi particolarmente caro alla nostra città, fu uno degli esponenti principali della vita musicale lucchese del XIX secolo, fondatore e direttore dell’Istituto musicale cittadino. Per Codice 602 la giovane ricercatrice Alice Tavilla si propone lo studio di un’opera che fu a lungo considerata come uno dei capolavori di Pacini, il dramma eroico-mitologico Niobe su libretto di Andrea Leone Tottola. Nonostante il successo degli esordi l’opera non godette di una effettiva diffusione, e la sola cavatina di Licida, Il soave e bel 8


contento, poté vantare uno straordinario successo e una eccezionale circolazione in Italia e all’estero. L’ultimo contributo della prima parte della rivista è del professor Marco Mangani. A seguito del concerto jazz del quartetto formato da Alessandro Lanzoni, Daniele Tittarelli, Joe Sanders e Tobias Backhaus del febbraio scorso – un fresco e moderno progetto che vede la fusione fra un jazz di matrice europea con le nuove tendenze statunitensi – il pianista Alessandro Lanzoni ci racconta attraverso le domande di Mangani il proprio profilo artistico, le influenze musicali e la sua attività in qualità di pianista e autore. La seconda parte del presente volume è come di consueto dedicata agli Studi sulla Musica a Lucca. Prendendo le mosse rispettivamente dalla prima ripresa in epoca moderna di 25 brani per organo di Giacomo Puccini interpretate nel maggio scorso da Liuwe Tamminga, e dal concerto di aprile “Non si può suonar se non si suona in compagnia” con l’esecuzione di villanelle e canzonette su strumenti barocchi, questa sezione ospita un saggio di uno dei maggiori esperti pucciniani, Gabriella Biagi Ravenni, e uno di Massimo Lombardi, ricercatore specializzato in musica antica e barocca, il quale già aveva lasciato un suo prezioso contributo alla rivista lo scorso anno. Con “Ero refrattario alla musica”: storie di formazione e di iniziazione di Giacomo Puccini Gabriella Biagi Ravenni getta una nuova luce sul periodo lucchese del grande operista, conseguentemente alla recente riscoperta di una cinquantina di sue composizioni per organo. Gli anni della giovinezza e adolescenza di Giacomo Puccini, epoca in cui egli stesso afferma di esser stato refrattario alla musica, sono qui ripercorsi attraverso la sua formazione musicale, le esperienze esecutive, l’impiego di organista e l’avvio dell’attività compositiva, fino a quando ascoltando Aida a Pisa egli si sentì «aprire lo sportello musicale». Massimo Lombardi ritorna dunque a un anno di distanza sull’analisi del Manoscritto 774 conservato presso la Biblioteca Statale di Lucca, stavolta con la convinzione che nella genesi delle intavolature vi siano frammenti di quotidianità tradotta in notazione. Il risultato va ben oltre la raccolta di danze: è una narrazione di uno spaccato sociale e umano di assoluta autenticità. Così, come rileva l’autore stesso, il Passo in mezo che non si può suonare se non si suona in compagnia, il Passo in mezo che si suona quando si va alla Veglia con Christo, la Gagliarda che si suona all’Hostaria della Campana, ecc., divengono molto più che forme di danza; esse, oltre a rappresentare un anello di congiunzione tra l’oggi e il passato, ci narrano di ciò che da sempre ha spinto gli uomini a creare musica. Questi, in sintesi, i numerosi e sfaccettati spunti di riflessione musicologica che raccoglie questa edizione di «Codice 602». Ancora una volta esprimo un sentito ringraziamento a tutti coloro che collaborano alla realizzazione della Rivista, constatando anche con un Codice 602

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pizzico di orgoglio come l’Istituto Musicale “Boccherini”, non senza fatica e nonostante la crisi e le incertezze che hanno colpito in particolare tutti i settori dedicati all’arte e alla cultura, con grande volontà ed entusiasmo continua imperterrito il suo percorso, cercando di distinguersi tra i migliori Conservatori d’Italia. Buona lettura.

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La pagina del direttore

Nella Pagina del Direttore del numero scorso della nostra rivista avevo riferito in merito al disegno di legge 322 Disposizioni in materia di statizzazione degli Istituti musicali pareggiati e delle Accademie di belle arti legalmente riconosciute di Bergamo, Genova, Perugia, Ravenna e Verona, nonché delega al Governo per il riordino della normativa in materia di Alta formazione artistica, musicale e coreutica (AFAM) allora in discussione alla VII Commissione del Senato. Il testo, sul quale si riscontrava una convergenza politica molto ampia, sembrava avviato a una rapida approvazione, accendendo le speranze di una soluzione definitiva al problema del futuro delle istituzioni non statali. Vicende politiche varie, dal mancato reperimento di fondi a copertura della legge, all’esito del referendum costituzionale tenutosi nel dicembre 2016, hanno di fatto bloccato il cammino del disegno di legge che attualmente stenta a ritrovare il suo spazio all’interno dei lavori parlamentari. A fronte di questo stallo, oggettivamente preoccupante, l’avvento del ministro Valeria Fedeli al MIUR ha invece segnato un importante punto di svolta per il futuro dei Conservatori non statali. L’impegno del ministro si è concretizzato nella manovra correttiva della legge di bilancio dello Stato (Decreto Legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96) con il reperimento di 20 milioni di euro finalizzati, come recita l’art. 22 bis, alla Statizzazione e razionalizzazione delle istituzioni AFAM non statali. L’aspetto più significativo di questo intervento risiede nell’aver previsto stabilmente per legge il processo di statizzazione degli istituti come il nostro, pur realizzato attraverso un processo graduale e diluito in quattro anni. Il fondo di 20 milioni è infatti messo a regime per tappe successive solo nel 2020 (7,5 milioni sono previsti per il 2017, 17 per il 2018 e 18,5 per il 2019). Tutto bene, quindi? Ahimé no, perché il legislatore è ben consapevole che i fondi necessari per la statizzazione dei 18 Conservatori non statali ammontano a circa il doppio della cifra reperita nel bilancio del MIUR, tant’è che l’art. 22 bis della citata legge si apre con le seguenti parole: “A decorrere dall’anno 2017, una parte [il corsivo è nostro] degli istituti superiori musicali e le accademie di belle arti non statali […] sono oggetto di graduali processi di statizzazione e razionalizzazione, nei limiti delle risorse di cui al comma 3 del presente articolo”. Nel comma successivo si fa rifermento poi a decreti ministeriali che disciplineranno “i graduali processi”. Codice 602

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La luce di speranza che si accende da una parte è quindi subito offuscata da una prospettiva quanto mai incerta circa i tempi e i modi del passaggio allo Stato del nostro come degli altri Conservatori non statali italiani. Le assicurazioni più volte ricevute circa la volontà politica di inserire nella prossima legge di bilancio la cifra mancante al completamento del processo di statizzazione non bastano a tranquillizzarci: è evidente che solo a legge pubblicata potremo verificare se i fondi saranno stati reperiti e se saranno sufficienti. Purtroppo quindi si apre (meglio dire, continua) una fase di incertezza alla quale gli organi direttivi di tutti i Conservatori non statali sono chiamati a rispondere attraverso una continua azione di confronto con gli organi di governo. Noi, al di là di tutte le azioni che stiamo intraprendendo coordinandoci con le altre istituzioni non statali, abbiamo anche altre armi con le quali dimostrare la nostra legittima aspirazione, direi il nostro diritto, a passare allo Stato: un’amministrazione corretta e trasparente, un trend positivo nelle iscrizioni, un’attività artistica intensa, riconosciuta come una delle più vivaci fra tutti i conservatori, statali e non. E quest’ultimo numero di «Codice 602» con la sua ricchezza e originalità di interventi lo sta a dimostrare perfettamente. Un grazie a chi ha contribuito anche quest’anno alla sua realizzazione1. M° Fabrizio Papi Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L. Boccherini”

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Nel momento in cui la rivista va in stampa, apprendiamo che il DDL 322, in una versione ampiamente modificata, ha ripreso il suo cammino alla VII Commissione del Senato. In esso sono inseriti, a regime, 20 milioni di euro a integrazione dei fondi previsti dal citato art. 22 bis, finalizzati alla statizzazione di tutti i Conservatori non statali. La statizzazione è però legata ad un complesso processo triennale di riordino del sistema, con l’istituzione dei politecnici delle arti. Ci si chiede legittimamente se i pochi mesi rimanenti alla fine di questa legislatura siano sufficienti alla sua approvazione.

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Contributi



Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4) and the Search for Stylistic Identity

di R. Larry Todd*

In most accounts of Mendelssohn’s development as a composer, the years 1825 and 1826 are singled out as his anni mirabiles, the time when the adolescent produced in remarkably short order the String Octet and Midsummer Night’s Dream Overture, released eventually in 1832 and 1835 as Op. 16 and Op. 21. These compositions announce in rather cogent fashion the emergence of Mendelssohn’s mature style, and mark with a startling degree of precocity his independence as a composer. Many of the distinctive elements we associate with his music are here prominently displayed—in the Octet, for example, the love of complex part writing and counterpoint (the finale begins as a fugato a 8); in the overture, the fleet-footed elfin style and coloristic use of orchestration extracted by the composer from a classical double-wind orchestra (notwithstanding—for Mendelssohn—the singular use of the ophicleide to depict Bottom’s boorish braying). If we seek to discover and explain the origins of this mature style, the search can be somewhat vexing. Surely one important precedent is the Third Piano Quartet in B minor, Op. 3, finished a few months before the Octet in 1825 and dedicated to Goethe. In its scope and ambitious design it presages the expanded design of the Octet; what is more, its capricious Scherzo in F-sharp minor surely prepares the way for the scurrying elves’ music in the overture. But if we examine Mendelssohn’s music of, say, 1822-1824, the years immediately preceding the Piano Quartet, we confront a different situation. Instead of the rich synthesis of ingredients that are masterfully blended and integrated in the Octet and Midsummer Night’s Dream Overture, we encounter works that present odd assortments of seemingly incompatible stylistic elements.

* R. Larry Todd was hailed in The New York Times as “the dean of Mendelssohn scholars in the United States.” A Professor of Musicology at Duke University, he has published widely on Mendelssohn and his time, and on nineteenth-century music. Codice 602

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R. Larry Todd

Thus, there are compositions that impress as extensions of Mendelssohn’s composition studies with Carl Friedrich Zelter, and as such privilege his decidedly eighteenth-century tastes that inclined decidedly toward J. S. and C. P. E. Bach, C. F. C. Fasch, Haydn and Mozart. For example, in the case of the chorale motet Jesus, meine Zuversicht (1824), likely written for the Berlin Singakademie, Mendelssohn places Johann Crüger’s chorale in three different voices, employing a migrating cantus firmus in a manner reminiscent of his chorale studies with Zelter.1 As Mendelssohn’s first substantial sacred work to employ a chorale, the motet may betray as well his immersion around this time in Bach’s St. Matthew Passion. In the case of the string Sinfonia No. 8 in D major (1822), on the other hand, Mendelssohn chose to emulate Mozart, and specifically the lustrous sound world of the Jupiter Symphony. Thus, the finale introduces in turn five thematic ideas that are ultimately combined in a stretto-like demonstration of quintuple counterpoint that strives to recreate the resplendent culmination of Mozart’s ultimate symphony. (To underscore the Mozartean modeling, Mendelssohn produced a second version of the sinfonia for full double-wind, classical orchestra.) The purpose of these and other student compositional essays—many other examples could be adduced—was thus to acknowledge and imitate dominant stylistic models from the past, whether the complex, chromatic counterpoint of Bach or refined classicism of Mozart. These student works essentially involve acknowledging stylistic debts rather than marking innovative stylistic departures. One sign of Mendelssohn’s quickening search for his own style in these student years was his increasing turn to contemporary models. Though the composer remained a lifelong devoté of the Thomascantor, Bach alone was not sufficient to satiate Mendelssohn’s compositional muse, nor were other eighteenth-century models, whether Handel, Haydn, or Mozart. Probably most decisive in the broadening of Mendelssohn’s stylistic horizons was his coming to terms with the music of Beethoven, which began to emerge in sharp relief in 1823 and 1824. The dramatic models of Beethoven’s middleperiod music left their mark on a range of Mendelssohn’s music from this time, including several piano and chamber works, and the finales of two string sinfonie (Nos. 9 and 11), culminating in the First Symphony Op. 11 of 1824, originally titled in the autograph Sinfonia XIII. These and other works display all the telltale signs of a new infatuation with Beethoven, including forceful syncopations and interruptions in the musical discourse, a heightened dissonance level, and, in the case of the Piano Sextet Op. 110 (1824), the use of triple forte and, in a nod to Beethoven’s Fifth Symphony, recall of the scherzo in the finale. In short, the music of Beethoven fired 1 See further R. L. Todd, Mendelssohn’s Musical Education: A Study and Edition of his Exercises in Composition (Cambridge, 1983), 34-35.

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Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4)

the poeticus furor of the young composer, and provided him with a powerful alternative to his Bachian ruminations, an equally critical element in the ultimate synthesis of the mature Mendelssohnian style. While Zelter did meet Beethoven (first in 1796 at the Singakademie in Berlin, and then in 1819 in Mödling, near Vienna), Mendelssohn did not; by the time he arrived in Vienna in 1830, he could only hear first-hand reports and reminiscences of the late Beethoven through members of his circle such as Carl Czerny, Josef Merk, and Adalbert Gyrowetz. Still, Mendelssohn surely proved himself as keen a student of Beethoven as of Bach. Mendelssohn eagerly acquired scores of Beethoven’s later piano sonatas and string quartets published by A. M. Schlesinger in Berlin, and counted among his intimate circle from 1823 on the theorist Adolf Bernhard Marx, a staunch apologist for Beethoven’s music. Along with Mendelssohn’s elder sister, Fanny, he was among the first generation of pianists to study and perform the Hammerklavier Sonata, a (admittedly) pale imitation of which can be found in the opening of Mendelssohn’s posthumous Piano Sonata in B-flat major, Op. 106 of 1826. Be that as it may, there were still other composers active during the 1820s who left stylistic marks on Mendelssohn’s music, even if in less profound ways. Thus, in the Piano Concerto in A minor (1822, MWV O2) Mendelssohn found inspiration in J. N. Hummel’s concerto in the same key, Op. 85 (published in 1821). And in the case of the Double Piano Concerto in A-flat major (1824, MWV O6), Mendelssohn seems to have turned to the work of another composer/pianist, John Field’s Piano Concerto No. 2, also in A-flat major (published in 1816). But next to Beethoven, the other German composer whose career culminated in the 1820s and who influenced Mendelssohn in a substantial way was Carl Maria von Weber. The sensational Berlin premiere of Der Freischütz, which fell on the anniversary of the Battle of Waterloo (June 18, 1821), offered the impressionable Mendelssohn a new, freeing vision of a romantische Oper, and of an aesthetic well removed from Zelter’s vision, which viewed Weber’s Singspiel as largely “nonsense and gunpowder.” Mendelssohn’s response was to write his own Singspiel, Die beiden Neffen, also known as Der Onkel aus Boston (1823), filled with coloristic touches and melodies reminiscent of Weber. Of no less import for Mendelssohn was Weber’s Konzertstück in F minor for piano and orchestra, Op. 79, premiered by Weber in Berlin just days after Der Freischütz. Not only did the work become a staple of Mendelssohn’s repertoire as a pianist, but its telescoped form and linking of movements through transitions provided a basic blueprint for his later, mature concertos. As a piano virtuoso and composer of piano music, Mendelssohn was thrust in a position at an early age to compete with the fashionable keyboard music of his own time, and to find viable creative spaces in which he could promote his own forming style. Perhaps not surprisingly, he produced no Codice 602

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R. Larry Todd

fewer than five early concerti, including one for piano, two for two pianos, one for violin (we should remember that according to Zelter, Mendelssohn was easily versatile enough to have become a professional violinist), and finally one for violin and piano. These works betray a tension between eighteenth and nineteenth-century models, as the young composer struggled to come to terms with his compositional identity. As one example in this process, we shall look at the still relatively unknown Concerto in D minor for piano and violin (MWV O4) of 1823, focusing in particular on its first movement. Remarkably little is documented about the genesis of this work other than that Mendelssohn composed it in 1823 and performed it the same year in Berlin on at least two occasions with his friend and violin teacher, Eduard Rietz (1802-1832). The autograph score, which bears at the end the date 6 May 1823,2 is ruled to accommodate staves for the two solo parts and a string orchestra. This was presumably the score that generated the now lost parts used at the private premiere on 25 May in the Mendelssohn Berlin residence at Leipzigerstrasse No. 3, an event noted in the correspondence of Lea Mendelssohn Bartholdy, the composer’s mother.3 Several weeks later, on 3 July, Mendelssohn and Rietz repeated the concerto, this time on a public concert presented at the Schauspielhaus by the Italian contralto Nina Cornega. For the occasion, Mendelssohn appears to have offered a fully orchestrated version by adding wind and timpani parts, an undated autograph score of which survives in the Bodleian Library at Oxford.4 One other autograph source, preserved in the Bischöfliche Zentralbibliothek in Regensburg, transmits an alternate version of the cadenza for the first movement, although why and when it was composed remains unclear.5 We may speculate that the separate second cadenza was used for the public performance on 3 July; the first cadenza, written into the original autograph score of 6 May, was presumably heard during the private premiere on 25 May. When, six years later, Mendelssohn undertook his first visit to London, he may have considered bringing with him the double concerto, along with his two double piano concerti.6 But no English performance materialized, there are no records of further nineteenth-century performances of the concerto, and Mendelssohn did not discuss the work further in his extensive correspondence. Instead, it fell into the substantial group of his unpublished 2 Staatsbibliothek zu Berlin—Preußischer Kulturbesitz, Mus. ms. autogr. F. Mendelssohn Bartholdy 4, 27-70. 3 Letter of 27 May 1823, from Lea Mendelssohn Bartholdy to Henriette von Pereira Arnstein, in Lea Mendelssohn Bartholdy, ‘Ewig die deine’: Briefe an Henriette von Pereira-Arnstein, ed. Wolfgang Dinglinger and Rudolf Elvers (Hanover, 2010), vol. 1, 97. 4 Bodleian Library, M. Deneke Mendelssohn b. 5, No. 17 (fols. 73-80). 5 Regensburg, Bischöfliche Zentralbibliothek, Proskesche Musikabteilung, Mus. ms. 726. 6 See Mendelssohn’s letter of 14 April 1829, in Felix Mendelssohn Bartholdy, Sämtliche Briefe 1816 bis Juni 1830, ed. Juliette Appold and Regina Back (Cassel, 2008), vol. 1, 263.

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Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4)

student compositions that remained in manuscript at his death in 1847. When Breitkopf & Härtel issued the first Mendelssohn “Gesamtausgabe” in the 1870s, the concerto and many other juvenilia were omitted. The revival and publication of the concerto had to await the twentieth century, and the launching of the Leipziger Mendelssohn Ausgabe in the 1960s and 70s. The resumption of that project in 1997 finally laid the foundation for the first critical edition of the concerto, edited by Christoph Hellmundt two years later, in 1999.7 Like Mendelssohn’s other concertos, MWV O4 falls into three movements, in the traditional order of fast, slow, fast. Far and away the weightiest of the three is the first movement, an Allegro that fills fully 529 measures (in contrast, the finale runs to 371). An overview of the movement reveals that it comprises five orchestral tutti and five solo sections. In brief, they include: Tutti 1 (bars 1-74): an orchestral exposition that presents the first theme in D minor and the second theme in the mediant F major, before closing in the tonic. Solo 1 (bars 75-147): beginning with a cadenza-like entrance of the soloists, this section then functions as the second exposition, leading from the first theme in the tonic to the second theme in the mediant. Tutti 2 (bars 148-156): here Mendelssohn inserts a short orchestral passage in the mediant, yielding to Solo 2 (bars 157-200): the closing section of the exposition for the soloists, paralleled by Tutti 3 (bars 201-242): the closing section of the exposition for the orchestra in the mediant, unexpectedly expanded by a brief diversion to D-flat major before approaching a definitive cadence in F major. This anticipated arrival, however, is frustrated by a deceptive cadence moving from V/III to (flat) VI/III, D-flat major, marking the arrival of the development. Solo 3 (bars 243-340): the beginning of the development, conceived initially as a free recitative for the two soloists, and then proceeding to virtuoso figurations that modulate briskly before eventually reaching a dominant pedal point, in preparation for Tutti 4 (bars 341-352): the return to the tonic and beginning of the recapitulation, paralleled by Solo 4 (bars 353-461): restoration of the first and second themes in the tonic minor and major, respectively, leading to Tutti 5 (bars 462-529), the closing orchestral passage in the tonic minor, interrupted by a cadenza for the soloists in bars 466-520. As Clive Brown has recently pointed out, the violin part, compared to that of the earlier Violin Concerto in D minor of 1822 (MWV O3), is “more extensively and intricately supplied with indications of slurring, articulation, 7 Leizpiger Ausgabe der Werke von Felix Mendelssohn Bartholdy, Serie II, Band 8. Codice 602

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R. Larry Todd

accents, and even the occasional fingering,” and suggests “a more mature and extensive knowledge of works by contemporary violinist-composers,”8 including Spohr, Kreutzer, and Baillot. But what arguably stands out most about this movement is its eclectic use of different styles of writing that seem to compete with one another for our intention, with no one in particular predominating. This process begins with the very opening orchestral tutti, cast in a distinctly conservative eighteenth-century style that seems to announce a fugal treatment. The theme, such as it is, is constructed from a compact two-bar figure that impresses as a fugal subject that Zelter might have assigned to his prize pupil. Rhythmically, it progresses from half notes to a quarter and eighths that impel the music forward. Its intervallic construction outlines the division of the octave into a fourth and fifth, a marker for fugal treatment (ex. 1). But as it happens, this subject is accompanied by a walking bass that persists for two more bars while the opening subject is repeated by an anticipated answer not on the dominant, as in a proper fugue, but unusually on the subdominant G minor. Taken together, the subject and bass line suggest more a brief flirtation with baroque counterpoint than the opening of a concerto. Two more entries on the tonic and subdominant appear a few bars later, leading up to the first forte passage, in which Mendelssohn inverts the subject to the bass voice, and again steers the music more closely to the world of fugal counterpoint: here the entry on the tonic D minor yields to one on the dominant A minor, as if a more academic fugal exposition begins to take shape in the familiar pattern of a subject and answer. But once again Mendelssohn chooses not to realize the fugal implications of his opening—nowhere do we hear a complete, formal exposition in four-part counterpoint. Rather, he seems interested in intimating the idea of a fugue, in raising the idea of counterpoint as a topic, as one stylistic option to explore before getting down to the real task at hand—writing a concerto, and an especially virtuosic one as that, a double concerto. If the compact first theme looks backward historically, the singing second theme unequivocally turns to Mendelssohn’s lyrical side (ex. 2), counteracts the contrapuntal implications of the first theme, and impresses as belonging to the 1820s. Setting the theme in the high register of the violin, Mendelssohn here crafts an expansive, romantic melody. One detail, involving a change of fingering on one sustained note (ex. 3), shows the young composer cognizant of contemporary performance practices. Clive Brown has suggested here the influence of Eduard Rietz, a student of Spohr, who discussed the technique of changing fingerings on a sustained pitch 8 “The Performance of Mendelssohn’s Chamber and Solo Music for Violin,” in Siegwart Reichwald, ed., Mendelssohn in Performance (Bloomington, Indiana, 2008), 64.

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Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4)

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R. Larry Todd

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unmistakably to the dramatic entrance of Max in the Wolfsschlucht scene that closes Act II, where, in a recitative introduced by fortissimo horns and accompanied by bristling string tremoli, Max arrives at the forested glen to join Caspar in the casting of the diabolical seven magic bullets (ex. 5). The precipitous descent and gaping textures of the music seem to have stimulated Mendelssohn’s imagination. In the concerto, the piano supplies the tremoli (and thus temporarily functions as the orchestra while the real orchestra is silent) as the violin initiates a descent from f3. As it happens, Mendelssohn’s recitative recalls another similar passage from Weber’s Grand Duo concertant for clarinet and piano (J204), composed in 1816, a few years before Der Freischütz. In the middle of the rondo finale of the Duo, Weber crafted a recitative like passage in D-flat major—the same key Mendelssohn visited in his concerto—with the piano again playing tremoli while the clarinet describes above a descending line that cascades to its low chalumeau register (ex. 6). Weber’s passage impresses almost as a preliminary sketch

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Mendelssohn’s Concerto in D minor for Piano and Violin (MWV O4)

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for Max’s entrance in the Wolfsschlucht scene. Mendelssohn, who almost certainly knew the Grand Duo, seems to have recalled the passage along with the pivotal scene of Der Freischütz. In the concerto the dramatic recitative appears roughly midway through the movement. It is the musical and emotional highpoint that effectively brings the composition firmly into Mendelssohn’s contemporary musical world. But as we progress through the development, images of Max and Samiel’s infernal black magic yield to an abundance of virtuoso figurations that effectively reverse the chronological narrative, bringing us to the recapitulation, specifically to Tutti 4, and the reinstatement of the first theme and its fugal play. Solo 4 subsequently revisits the fugal and lyrical topics of the first and second themes. What remains then is the concluding Tutti 5, interrupted by the cadenza for the two soloists. The two versions offer contrasting visions of the movement. In the first cadenza, Mendelssohn explores the second lyrical theme before reverting to the fugal first theme. Codice 602

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R. Larry Todd

In the second, slightly longer cadenza, virtuosity predominates—the second theme does not make an appearance at all, and the first theme is limited to a few brief interjections. What are we to make of the unusual trajectory of this movement, and what can it tell us about Mendelssohn’s search for his stylistic identity? In brief, the work begins by recalling an eighteenth-century fugal style of writing, set in opposition to the lyrical, more contemporary character of the second theme. The exposition (and recapitulation) highlight this contradictory stylistic dichotomy, leaving the central portion of the movement, the development, as the critical moment in which Mendelssohn sets aside his conservative training with Zelter to explore a third stylistic option, Weber’s romanticism. As we progress to the center of the movement, we thus approach the opera house and a musical style directly relevant to Mendelssohn’s own time. There is an almost confessional quality to the recitative, as if the composer here briefly declares himself a disciple of Weber. Then, the historical process of juxtaposing different styles resumes, leaving the recitative and its plunging melodic lines nothing more than fleeting memories. MWV O4 admittedly remains a student work that at once shows evidence of Mendelssohn’s allegiance to and rejection of particularist idioms and styles of writing. It is an impressive effort of a fourteen-year-old composer not quite on the threshold of discovering his mature voice. That would happen of course only two years later, when instead of remaining caught between stylistic dichotomies that separated the eighteenth and nineteenth centuries Mendelssohn achieved the masterful synthesis that allowed him to draw at will on various stylistic topics as he needed--to join effortlessly rich counterpoint with intense lyricism and elfin mischief, to offer not only the unbridled Beethovenian or Weberian dramatic moment but also classical restraint. Arguably none of this remarkable outcome would have been possible without the disciplined stylistic quest of works such as the Double Concerto.

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

di Roberto Calabretto*

Indissolubilmente associato alla musica hollywoodiana di cui rappresenta la sintesi estrema, John Williams è forse il compositore che più di tutti riassume le caratteristiche stilistiche di questa tradizione. In questi brevi appunti, dedicati alla sua figura e al suo operato, cercheremo così di mettere in relazione alcuni aspetti del suo linguaggio musicale con il cosiddetto “stile hollywoodiano”, mettendo in evidenza la singolare maniera con cui egli se n’è appropriato. Non vuole essere, questo articolo, un saggio “su” Williams – una simile impresa necessiterebbe di ben maggiori spazi – ma, al contrario, una piccola riflessione che aiuti a contestualizzare l’operato del compositore nell’ambito in cui la sua musica per film è venuta alla luce. Nel far questo si prenderanno in esame due piccoli segmenti della sua ricchissima filmografia, tratti allo stesso tempo da due colonne sonore che hanno immortalato il nome di Williams nella storia della musica per film, che a noi paiono estremamente rappresentativi della sua poetica1.

* Roberto Calabretto è professore associato di discipline musicologiche al Corso di laurea in Scienze e tecnologie multimediali e al D.A.M.S dell’Università di Udine di cui è stato Presidente dal 2009 al 2015. Da molti anni collabora anche con l’ateneo di Padova. I suoi studi vertono sulla musica del Novecento italiano e affrontano le problematiche inerenti alle funzioni della musica nei linguaggi audiovisivi con una particolare attenzione nei confronti di quella cinematografica. Ha pubblicato monografie su Robert Schumann, Alfredo Casella, Nino Rota, sulla musica nella poesia di Andrea Zanzotto e nel cinema di Pier Paolo Pasolini, Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkovskij, Luchino Visconti, Alain Resnais e altri registi. Recentemente ha edito il volume Lo schermo sonoro. La musica per film che ha ottenuto lusinghieri consensi dalla critica ed è stato adottato in molti corsi universitari. 1 Tra i tanti volumi dedicati a Williams segnaliamo, per la completezza e la mole di dati offerta, quello di Emilio Audissino, John William’s Film Music, Madison, Wisconsin, The University of Wisconsin Press, 2014. Si veda inoltre la voce di Jacques Amblard a lui dedicata nel sito BRAHMS dell’IRCAM di Parigi: http://brahms.ircam.fr/john-williams, apprezzabile per le riflessioni estetiche sul linguaggio del compositore. Codice 602

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Roberto Calabretto

Hollywood e la sua musica Si tratterà, allora e in primis, di definire le coordinate dello stile hollywoodiano e le principali caratteristiche della sua musica. Emilio Audissino, ad esordio al suo sopraccitato volume, suggerisce quattro aree attorno a cui è possibile circoscrivere tale quesito: “language, techniques, musical means, and typical formal functions”2. Schematizzando le sue argomentazioni, ai fini del nostro iter, abbiamo così queste quattro risposte: Besides influences, updates, and the composers’ idiomatic differences, Hollywood music language is basically tonal and romantic. In particular, the model is the late-romantic art music bridging the nineteenth and the twentieth centuries, the most prominent names being Richard Wagner, Richard Strauss, Gustav Mahler, Giacomo Puccini, Pyotr Tchaikovsky, and Sergei Rachmaninov. Linguistically, in the 1930s, Hollywood music was already old - drawing from a dialect that was already considered outdated and “conservative” […]. If film music cannot be said to have forms sensu stricto, it surely can be said to use structural techniques and formal strategies, the most widely used being theme and variations, leitmotiv, so-called Mickey-Mousing, and dialogue underscoring […]3. The classical Hollywood standard was the richly orchestrated sound of the late-nineteenth-century symphony orchestra. However, while Wagner’s, Richard Strauss’s, and Mahler’s orchestras had a hundred or more players, studio orchestras were assembled for recording, not for live performance, and consisted of a maximum of sixty players. The symphony orchestra was the characteristical musical means for the entire period of the classical Hollywood music style […]. Claudia Gorbman sees Max Steiner as the epitome of the classical style and illustrates his style in these terms: “So while illustration to the minutest detail was a hallmark of Steiner’s style in particular, our overall model of classicalera film music also must include the general tendency toward musical illustration” […]. For Kathryn Kalinak the fundamental characteristic of the classical Hollywood music is the “musical illustration of narrative content, especially the direct synchronization between music and narrative action”4.

Da questo seguito di risposte possiamo capire perché la musica hollywoodiana, nel corso del secolo ventesimo, più volte sia stata al centro di profonde critiche che ne hanno messo sotto accusa l’anacronismo e la distanza dalla musica coeva e dalla stessa musica cinematografica che, negli anni del dopoguerra, in Europa aveva conosciuto una nuova primavera. Lo stile hollywoodiano, al contrario, avrebbe contribuito al prolungamento e 2

Audissino, John William’s Film Music, cit., p. 26.

3 Questa seconda risposta ci appare generica e riduttiva. Sicuramente non è in grado di rappresentare l’ampio universo delle forme musicali a cui il cinema hollywoodiano ha fatto riferimento. 4 Ivi, pp. 26, 34, 36, 40.

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

alla sopravvivenza del sinfonismo ottocentesco e della musica a programma, creando un vero e proprio freno all’accettazione della musica del primo Novecento da parte delle vastissime platee che affollavano le sale cinematografiche, in quei decenni luoghi deputati anche alla fruizione della musica. Per capire la distanza che intercorreva fra la musica per film europea e quella americana, basti considerare quanto accadeva allora in Italia negli anni seguenti il secondo dopoguerra, quando gli scenari sonori della settima arte avevano iniziato una lenta, lentissima forse, azione di rinnovamento. Le partiture modellate sul sinfonismo tardo ottocentesco, con il costante ricorso al bozzettismo folclorico e alle canzoni alla moda, allora non erano più gli indiscussi punti di riferimento dei registi, per cui le tipologie musicali cinematografiche lentamente stavano mutando accogliendo al loro interno il jazz, la musica pop e addirittura il rock. Anche le funzioni dell’accompagnamento sonoro avevano conosciuto dei cambiamenti: il commento ridondante che aveva caratterizzato per lunghi anni le pellicole del cinema italiano risultava ormai essere logoro ed anacronistico. Compositori e registi ora propendevano verso partiture che fossero in grado di dialogare realmente con le immagini, anche in situazioni di asincronismo, per far scaturire nuovi percorsi audiovisivi. Il problema della musica nel film – commentava Luigi Chiarini, una tra le tante voci intervenute in questo dibattito – si avvia a soluzione in quanto il musicista si fa uomo di cinema, si sente concreatore di un’opera che è anche musica, ma musica non è, e si lascia dietro le spalle gli schemi e il peso dell’antica tradizione della sua nobile arte per dare un libero apporto con la sua particolare sensibilità all’opera filmica, che ha un suo specifico linguaggio e in cui le singole personalità si annullano per potenziarsi in un’unica Personalità e le differenti arti scompaiono solo apparentemente perché da esse rinasce l’Arte nella sua splendida unità5.

Vittorio Gelmetti, d’altro canto, aveva sottolineato come le tecniche della musica sperimentale presentassero aspetti operativi del tutto simili alla ripresa e al montaggio cinematografico. Motivo per cui la collaborazione tra regista e compositore poteva risultare favorita, secondo quanto lui stesso affermava, […] da certe tecniche della musica di oggi, direi la musica elettronica, la musica concreta (la musica elettromagnetica tout-court) che hanno a che fare con nastro magnetico, con dei montaggi che sono tecnicamente la stessa cosa del montaggio del film; a questo punto, realizzando una stretta collaborazione e avendo degli schemi razionali molto precisi davanti, si possono ottenere risultati eccezionali; ad esempio in certe sequenze, contrastandone o seguendone l’andamento si può lavorare veramente in maniera perfetta. Io auspico questo tipo di collaborazione […]6. 5 Luigi Chiarini, Nota dell’Editore, in La musica nel film, a cura di Enzo Masetti, Roma, «Bianco e Nero», 1950, p. 5. 6 Vittorio Gelmetti, Aspetti della musica per film, «Filmcritica», XV, 143-144, marzo-aprile 1964, p. 147. Codice 602

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Posizioni ribadite dal gruppo raccoltosi attorno alla rivista Filmcritica nelle cui pagine aveva ospitato un interessantissimo dibattito e che nel 1968 si era fatta promotrice di un convegno dedicato al Film sonoro, noto come ‘Amalfi 2’, che aveva segnato una svolta nel dibattito condotto fino ad allora in Italia. La riflessione sul rapporto suono-immagine dei diversi relatori, non solo, aveva messo in risalto aspetti e problemi tuttora poco approfonditi, ma aveva consentito di valutare l’importanza dei nuovi strumenti che i teorici avevano da poco introdotto nell’analisi del linguaggio filmico7. A partire da questi momenti, erano nati fortunati sodalizi ad arricchire il cinema italiano in cui lavoravano assiduamente compositori come Carlo Rustichelli, Benedetto Ghiglia, Bruno Nicolai, Angelo Francesco Lavagnino, Piero Piccioni, Piero Umiliani, Carlo Savina, Teo Usuelli, Luis Bacalov e Armando Trovajoli. Sarà poi la volta di Nino Rota e Giovanni Fusco, rispettivamente voci del cinema di Federico Fellini e Michelangelo Antonioni e portatori di atteggiamenti stilistici e di universi sonori differenti, e infine di Ennio Morricone, indiscusso protagonista della musica per film italiana della seconda metà del Novecento. Registi particolarmente illuminati, come Antonioni, avevano espressamente rifiutato il tradizionale rapporto tra musica e immagini che il cinema aveva seguito fino a quegli anni. Un rapporto convenzionale, i cui limiti già erano stati smascherati da Theodor Wiesegrund Adorno e Hanns Eisler nel loro celebre manuale8, e che al regista ferrarese giustamente appariva estraneo alle leggi del cinema. Il regista ferrarese negava così l’utilizzo della musica al fine di suscitare “emozioni” nel pubblico: sono le stesse immagini che devono essere in grado di farlo, senza il sostegno di particolari temi e accordi. Le sue perplessità nei confronti delle tradizionali partiture cinematografiche nascevano così da una serie di motivazioni, quali l’esigenza di rigore stilistico, sostenuta dalla convinzione di utilizzare il minor numero di mezzi possibile, il rifiuto di essere troppo espliciti, per cui spesso il regista lavorava per sottrazione rispetto alle consuetudini del tradizionale commento sonoro, e la constatazione della problematicità del rapporto fra l’elemento visivo e il commento sonoro. Date queste premesse, è ovvio che il bersaglio polemico della propria riflessione fosse proprio la musica del cinema americano e le funzioni a cui era chiamata che ad Antonioni risultavano essere anacronistiche e avulse al linguaggio delle immagini in movimento. Molti altri registi, più o meno in quegli stessi anni, avevano espresso analoghe perplessità. Posizioni simili a quelle di Antonioni erano state sostenute 7 Il convegno aveva anche fornito l’occasione per proporre nuovi modelli di indagine del rapporto audio-visivo, come l’applicazione degli studi della teoria dell’informazione (in particolare quelli di Abraham Moles), l’indagine sulle correlazioni tra suono e immagine, l’esposizione degli studi semiologici e strutturalistici applicati in ambito cinematografico. 8 Cfr. Theodor Wiesegrund Adorno Hanns Eisler, La musica per film, traduzione italiana di Oddo Piero Bertini, Roma, Newton Compton editori, 1975.

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autorevolmente dalla nouvelle vague francese e soprattutto da Robert Bresson che, ancor più di quelle antonioniane, rivelano la distanza dai modelli hollywoodiani. Nelle sue celebri Note sul cinematografo, il regista francese aveva asserito categoricamente: «Nessuna musica di accompagnamento, di sostegno o di rinforzo. Niente musica»9, chiarendo poi i motivi di questo suo rifiuto. “La musica prende tutto il posto e non accresce il valore dell’immagine alla quale si aggiunge”10, per cui il linguaggio sonoro, posto a commento delle immagini in movimento, risultava essere un’«esaltazione che impedisce le altre esaltazioni»11 oppure «un potente modificatore e persino distruttore del reale, come l’alcol e la droga»12.

Hollywood secondo Adorno Le invettive più forti nei confronti della musica hollywoodiana erano comunque state scagliate da Adorno e Eisler che, nel condurre in pieno accordo la loro battaglia per l’ingresso della “musica nuova” nel cinema, avevano rivolto espressamente la loro polemica nei confronti di Hollywood e, nella fattispecie, della musica che veniva prodotta all’interno dei suoi studi13. Una musica che, a loro avviso, espressamente rinunciava ad avere una ben precisa dignità, assumendo una posizione subordinata nei confronti delle immagini e divenendo una “quinta sonora” che il pubblico non doveva percepire14. Già il primo paragrafo del volume, che non a caso reca come titolo Pregiudizi e cattive abitudini, appare fortemente condizionato da questa polemica e mette in risalto i presunti stereotipi musicali hollywoodiani. Questi consisterebbero, innanzitutto, nella consuetudine di realizzare il tessuto connettivo sonoro ricorrendo alla pratica del Leitmotiv, motivo fondante di queste partiture, che Eisler e Adorno interpretano come banale assunzione della cifra maggiormente importante della drammaturgia wagneriana, qui ridotta a semplice motivo da segnaletica stradale, incapace di strutturare il discorso musicale. Il carattere costruttivo del Leitmotiv, la sua pregnanza e brevità erano sin dall’inizio in rapporto con la grandezza dei giganteschi drammi musicali dell’era wagneriana e post-wagneriana. Proprio perché il Leitmotiv non è in sé musicalmente sviluppato, esso – per acquisire un senso compositivo 9 Robert Bresson, Note sul cinematografo, traduzione italiana di Ginevra Bompiani, Venezia, Marsilio, 1992, p. 31. Il corsivo è presente nel testo originale. 10 Ivi, p. 46. 11 Ivi, p. 47. 12 “Musica: isola il tuo film dalla vita del tuo film (voluttà musicale). È un potente modificatore e persino distruttore del reale, come l’alcol o la droga” (Ivi, p. 81). 13 In questo testo, molto datato e criticabile, i due autori mettono in discussione proprio uno dei parametri che maggiormente caratterizza la scrittura di Williams, ossia il melodismo, e la maniera con cui si rapporta alle immagini in movimento, ossia la prassi leitmotivica. 14 “Uno dei pregiudizi più largamente diffusi nell’ambito dell’industria del cinema è che la musica non si dovrebbe sentire” (Ivi, p. 25). Codice 602

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che travalichi la sua mera funzione indicativa – richiede spazi musicali ampi. L’atomizzazione del materiale corrisponde alla monumentalità della costruzione. Questa corrispondenza viene meno nel cinema, poiché la tecnica cinematografica è in sostanza una tecnica di montaggio. Il cinema richiede necessariamente interruzioni, non la continuità. Il ricambio continuo degli obiettivi fotografici dice abbastanza a proposito della struttura del film. Anche sotto il profilo musicale, si tratta pur sempre di forme brevi che non ammettono affatto la tecnica del Leitmotiv perché, proprio a causa della loro brevità, devono essere formate in sé medesime15.

Vi erano, poi, delle ragioni estetiche a rendere inadeguato l‘utilizzo del Leitmotiv nel cinema. La funzione, infatti, che esso aveva all’interno della drammaturgia wagneriana di elevare gli avvenimenti scenici nella sfera dei significati metafisici, nelle immagini in movimento veniva meno in quanto il linguaggio cinematografico, secondo Eisler e Adorno, doveva prefiggersi «esatte illustrazioni della realtà»16. Un’affermazione molto precaria che studiosi come Christian Metz, Roland Barthes, André Bazin, Jean Mitry, Gianfranco Bettetini, Étienne Souriau hanno smentito nei loro scritti. Elevando questi procedimenti di carattere narrativo a motivo fondante della musica per film, ne derivava la messa in risalto del parametro melodico che contribuiva ulteriormente ad identificare i personaggi e a sottolineare la loro presenza nel corso del racconto ma che, ancora una volta, risultava essere un espediente in contrasto con le leggi del cinema17. Non a caso, proprio questo parametro era divenuto il bersaglio polemico del rinnovamento della musica per film in Europa nel secondo dopoguerra18. Condizionata pesantemente da questi retaggi, agli occhi di Adorno 15 Ivi, p. 22. 16 «La funzione del Leitmotiv si riduce a quella di un cameriere musicale che, con aspetto compreso, presenta il suo signore, mentre tutti sanno chi è. La tecnica altre volte efficace, diviene mero raddoppiamento, inefficace ed antieconomico» (Ivi, p. 23). A questo passo fa indirettamente riferimento D’Amato quando, in una sua riflessione sulla musica nel cinema di Antonioni, esclama: «Nel cinema antonioniano il ‘cameriere musicale’ è licenziato, anche quando l’elaborazione della colonna sonora passa dalla composizione specifica di musica per film, al mélange di musica d’avanguardia ‘tecnicamente riproducibile’» (Giuseppe D’Amato, Antonioni: la poetica dei materiali, «Bianco e Nero», LXII/1-2, gennaio-aprile 2001, p. 153). 17 Lo scorrimento delle immagini, infatti, non procede di pari passo con una melodia articolata in maniera convenzionale. “Nessuna frase di otto battute è veramente sincrona con il bacio fotografato” sentenzia ancora Adorno (Ivi, p. 25). 18 Nel corso di un’intervista, durante la quale il compositore ha manifestato la sua distanza dai consueti procedimenti tematici, Morricone ha esclamato: “Direi che oggi il tema non ha più l’importanza che aveva nell’Ottocento o nel primo Novecento. Il fatto tematico è diventato anche nel cinema una cosa talmente ovvia e scontata che deve essere sempre riscattata dall’orchestrazione. La cosa importantissima è il meccanismo all’interno del quale risuona il tema; il funzionamento di questo meccanismo caratterizza il tema stesso e gli dà importanza. […] Dunque la possibilità è quella di compensare la mancanza di novità assoluta in un tema tonale mediante l’orchestrazione” (Ennio Morricone, Quello che la musica ancora non può svelare, in Luca Bandirali, Musica per immagine, Net Art Company, Frosinone, 2003, p. 33).

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e Eisler la musica hollywoodiana sarebbe ridotta a semplice tappezzeria sonora e i suoi tratti distintivi risiederebbero nella creazione di situazioni realistiche, in grado quindi di giustificare il suo utilizzo, nella banale illustrazione di quanto già le immagini mostrano e nella contestualizzazione, da un punto di vista geografico e storico, del racconto. Per fare questo, doveva così ricorrere a forme di standardizzazione e di clichés che impoverivano enormemente il suo linguaggio, rendendolo incapace di interagire efficacemente con le immagini.

Una particolare prassi produttiva Queste considerazioni vanno prese con le dovute cautele e sono molto condizionate dalla prospettiva ideologica con cui i due autori guardano e interpretano la musica hollywoodiana. È, infatti, vero che all’interno del sistema produttivo americano, la musica di fatto si adeguava ai suoi ritmi, assestandosi su una serie di stilemi codificati, a volte banali, ma pur sempre estremamente congeniali all’identità complessiva del film. Queste colonne sonore, in bilico tra doverosa eloquenza e vocazione esornativa, molte volte non erano così in grado di andare oltre le convenzioni assodate. Il loro allestimento, in secondo luogo, era solo in parte riconducibile alla volontà del singolo compositore che doveva piuttosto adeguarsi alle regole del sistema che a volte dipendevano dalla volontà del produttore. Il dipartimento musicale di uno studio hollywoodiano comportava una distribuzione dei ruoli molto complessa e ben definita19. In America, contrariamente a quanto accadeva in Europa, l’atto compositivo rientrava in una complessa pianificazione, in cui la figura dell’orchestratore – citato o meno nei credits – assumeva un ruolo determinante, mentre alle scelte musicali si arrivava attraverso un progetto collettivo in cui il produttore, o per meglio dire i molti che ne facevano le veci, avevano voce in capitolo più del regista e senza dubbio molto più del compositore. Ma il fondamentale anello di congiunzione fra i diversi aspetti produttivi che qui interessano era il direttore del dipartimento musicale, da sempre importante all’interno di quel sistema e ora fondamentale a causa della produzione diretta della colonna musica. Si trattava, infatti, di gestire una grande orchestra, talvolta con coro annesso, e una serie nutrita di collaboratori; direttori d’orchestra, più d’uno a seconda del genere utilizzato; orchestratori, come collaboratori diretti del compositore firmatario della colonna musica; arrangiatori e songwriters, ovvero specialisti di popular music; vocalists; consulenti musicali, chiamati in causa nel ricorso a musiche di tradizione; lyricists, copisti, tecnici del suono di ripresa e di post-produzione e via dicendo.

19 Il lavoro del dipartimento musicale, ovviamente, era collegato a quello degli altri dipartimenti nei cui confronti godeva di minore indipendenza. Codice 602

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Es. 1: Organigramma del Dipartimento musicale di una grande casa di produzione hollywoodiana degli anni ’30 e ’4020

Proprio questa struttura infastidiva e risultava incomprensibile ai musicisti europei, in particolar modo a coloro che non avevano mai lavorato nel cinema. Esemplare, da questo punto di vista, il caso di Mario Castelnuovo Tedesco, uno dei maestri di Williams. Il compositore italiano, emigrato in America in seguito all’avvento della dittatura fascista, aveva lavorato alla MGM nutrendo però sempre delle critiche nei confronti del cinema. Entrato a far parte di questo complesso sistema di produzione – «ero ormai l’impiegato n. 11694: un numero fra i tanti», scriverà – egli si era reso conto che, nell’industria cinematografica, «il musicista non è che una vite in una macchina ben oleata»21, pronto ad adattarsi alle necessità dell’allestimento della pellicola, spesso subordinando le 20 Immagine tratta da Ennio Simeon, Per un pugno di note, Milano, Rugginenti, 1995, p. 166. 21 Mario Castelnuovo Tedesco, Una vita in musica (un libro di ricordi), a cura di James Westby, Cadmo, Fiesole 2005, pp. 340-341.

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proprie idee e la propria personalità22. Ne consegue la disillusione sulla musica da film23, tipica del resto nella gran parte dei musicisti europei di “tradizione colta”, in primis Schoenberg, che in quegli anni erano giunti in America e si erano confrontati con la complessa realtà delle immagini in movimento24. Williams, allo stesso tempo, dopo aver mosso i suoi primi passi in questa realtà, era entrato a far parte di un nuovo universo produttivo. Most of Williams’s career would be spent as a freelance composer in the poststudio-era “package-unit” system - each film project is a team-up of freelance artists and technicians assembled and contracted for that single project, unlike the typical in-house staff of payrolled people that used to work on each film of their studio in the old system. Yet Williams moved his first steps into the business during the last days of the studio system and in-house music departments, and he acquired an extensive training in the high-pressure schedules of television production. The relevance of this early “imprinting” within the old practice was of enormous importance in shaping Williams’s neoclassical approach; it had a considerable influence on his work habits, which retain a number of old-school characteristics - as we shall see25.

22 «Sta di fatto che durante il periodo ch’io rimasi alla MGM, il mio nome non apparve mai sullo schermo; non solo, ma non mi fu mai affidata un’intera pellicola da musicare: questo per delle curiose consuetudini di ‘collaborazione’ che allora erano in uso (so che poi sono, almeno parzialmente, mutate) per cui ben di rado un solo musicista componeva (e tanto meno orchestrava) la musica per tutto un film; ma, più spesso, il lavoro veniva diviso fra diversi compositori (senza contare gli orchestratori, ed altri aiutanti vari: rammento che una volta eravamo, di soli compositori, a lavorare per un film, in tredici! praticamente senza sapere l’uno che cosa scrivesse l’altro, e con quali risultati di coerenza e di omogeneità è facile immaginare): sullo schermo poi appariva un solo nome, generalmente quello di un oldtimer (e spesso di quello che al lavoro aveva contribuito meno). Questo strano sistema era reso necessario (dicevano) dalla rapidità con cui il lavoro doveva esser compiuto (ma mi sono reso conto poi io stesso, per esperienza, che, malgrado la ristrettezza del tempo, è possibilissimo per un solo musicista non solo comporre, ma anche orchestrare l’intero commento). La realtà era un’altra: e cioè che, prima di me (e prima di altri europei recentemente scritturati) si erano installati nell’industria alcuni musicisti (generalmente venuti su dal vaudeville) i quali erano (come del resto è logico, in un lavoro di concorrenza) pronti a difendere le loro posizioni (essendo amici dei produttori e direttori era facile per loro mantenerle), e non erano affatto disposti a favorire i “nuovi venuti”: questi erano bene accolti, sì, purché si trattasse di aiutare e di contribuire, ma a condizione che il loro nome non figurasse mai! Così si era iniziato e stabilito quest’uso dei ghostwriters, degli scrittori-fantasma, ed io ero uno di quelli!» (ivi, pp. 341-342). 23 Non va dimenticato che, in tutti questi atteggiamenti, agiscono retaggi di natura ottocentesca, come la rivendicazione dell’indipendenza dell’atto creativo musicale, il carattere di originalità che ogni composizione dovrebbe mantenere, il non asservimento nei confronti di obblighi esterni da parte del compositore che invece il sistema hollywoodiano elevava alla massima potenza. 24 «Avevo sognato che il cinema si impadronisse della Seraphita di Balzac, o di Till Damaskus [Verso Damasco] di Strindberg, o della seconda parte del Faust di Goethe, o addirittura del Parsifal di Wagner, tutte opere che, in quanto rinunciano alla legge dell’‘unità di spazio e di tempo’, si sarebbero potute realizzare nel cinema sonoro. Ma l’industria continuò a soddisfare solo i bisogni e le richieste della gente comune che riempiva le sale» (Arnold Schoenberg, L’arte e il cinema in Analisi e pratica musicale, traduzione italiana di Giacomo Manzoni, Torino, Einaudi, 1974, p. 226). 25 Audissino, John William’s Film Music, cit., p. 89. Codice 602

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In un simile contesto egli ha dato vita alla sua sconfinata produzione musicale cinematografica.

Le tre generazioni dei musicisti hollywoodiani La lunga tradizione musicale hollywoodiana è abitualmente suddivisa in tre epoche ciascuna delle quali comprendenti una delle cosiddette “generazioni” di compositori. La prima – che sommariamente annovera al proprio interno i maestri nati sul finire del secolo diciannovesimo, fra il 1880 e il 1900, e operanti dal 1927 e il 1940 – comprende Max Steiner, indubbiamente la principale figura di riferimento, Dmitrij Tiomkin, Erich Wolfgang Korngold, Frank Skinner, Adolph Deutsch e altri26. Molti di questi erano di origine mitteleuropea, formatisi all’interno del sinfonismo ottocentesco e tardo-ottocentesco ed eredi, allo stesso tempo, della concezione drammaturgica ereditata dal cinema muto. Proprio loro saranno i primi protagonisti della scena hollywoodiana dove cercheranno di operare una singolare fusione fra questi due ambiti dando così vita al cosiddetto “stile Hollywood”.

26 In questo contesto, una posizione di prim’ordine va attribuita a Erich Korngold e, in particolar modo, a Max Steiner, due musicisti europei approdati in America in quegli anni che contribuiranno alla codificazione del linguaggio musicale hollywoodiano e che sono stati di fondamentale importanza per lo stesso John Williams. Nato a Vienna, Max Steiner si era formato in un ambiente artistico e musicale di grande rilievo, frequentando Felix Weingartner e Gustav Mahler. Circostanza che contribuisce a chiarire il suo ricorso alle grandi masse orchestrali e la sua concezione della musica cinematografica come un lungo ed ininterrotto fluire sonoro. La sua partitura maggiormente nota è sicuramente quella per Gone with the Wind (Via col vento, Victor Fleming, 1939) che esemplifica al meglio le caratteristiche della musica hollywoodiana. La sua lunghezza, la musica giunge ad occupare più di metà dell’intero film, il costante ricorso alla tecnica del motivo conduttore, l’orchestrazione di derivazione wagneriana fanno di questa partitura un vero e proprio modello, in positivo e in negativo, di quella musica. «Al di là di questi dati, e della inevitabile discontinuità dei risultati, Steiner incarna per primo, nelle luci e nelle ombre, la nuova tendenza musicale hollywoodiana che diviene con lui una “scuola” comportamentale e stilistica e i cui caratteri possono essere così riassunti: abbandono delle compilazioni a favore di scores interamente composte ad hoc; ripartizione sinergica dei compiti produttivi ed emergenza del ruolo degli orchestratori; uso prevalente di organici orchestrali di genere sinfonico; espansione quantitativa del commento fino a coprire buona parte del film (Wall to Wall, come si diceva); onnipresenza della funzione leitmotivica; ricorso pressoché sistematico all’underscoring, ovvero alla sottolineatura degli eventi filmici anche più circostanziati, con relativa adozione della tecnica del click track, già in uso nel cinema d’animazione per garantire l’esattezza dei sincroni espliciti» (Sergio Miceli, Musica per film. Storia. Estetica. Analisi. Tipologie, Firenze, Pagani e Book, 2007, pp. 163-164). Anche lo stile di Korngold si innesta nella tradizione del tardo Romanticismo tedesco e, negli anni in cui venne coinvolto nella produzione cinematografica, dal 1935 al 1946 circa, seppe offrire dei notevoli contributi, in particolar modo nell’orchestrazione protesa verso la direzione di un ricco sinfonismo europeo. Per quanto riguarda la musica per film di Korngold, si veda Roberto Calabretto, Erich Wolfgang Korngold musicista cinematografico, Die tote Stadt, Venezia, Teatro La Fenice 2009, pp. 2744. Nella vasta mole di volumi dedicati al cinema hollywoodiano, in merito a questo fenomeno va segnalato quello di John Russel Taylor, Strangers in paradise. The Hollywood Émigrés 1933-1955, London, Faber and Faber, 1983, pp. 56-72.

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Già Korngold, parlando del proprio stile compositivo, però sottolineava: I am told that my method of composing is entirely different from that employed by other Hollywood composers. I am not composing at a desk writing music mechanically, so to speak, for the lengths of film measured out by an assistant and accompanied with sketchy notes on the action of those sections, but I do my composing in the projection room while the picture is unrolling before my eyes. And I have it run off for me again and again, reel by reel, as often as I need to see it. It is entirely up to me to decide where in the picture to put music. But I always consult thoroughly with the music-chief whose judgment, based on years of experience, I consider highly important. I also keep the producer well informed and always secure his consent for my musical intentions first. But in none of my assignments have I ever “played” my music first to either the musicchief, the director or the producer. And the studio heads never make the acquaintance of my music until the day of the sneak preview. The executive producer always calls me in for the running of the picture’s final cut and I am invited to voice my opinion for or against proposed changes, and I may make suggestions myself. The actual composing of the music is not begun until the final cut of the picture is ready. But most of my leading themes and general mood motifs suggest themselves to me on reading the manuscript. Only when the picture has reached the stage of the final cut can I proceed to compose the exact lengths needed for the different music spots. Changes after the preview are often painful although, fortunately, I have not suffered any particularly smarting musical losses27.

Parole molto eloquenti che stanno a testimoniare come all’interno dei parametri della scuola hollywoodiana i compositori di maggior rilievo riuscissero comunque a trovare una loro precisa identità. Saranno, comunque, il jazz e il rock a contribuire alla destabilizzazione di questa tradizione, favorendo indirettamente l’apertura della musica per film nei confronti di stilemi più attuali anche d’area colta. Fra il 1900 e il 1920, si affacciano così sullo scenario hollywoodiano compositori come David Raksin, Victor Young, Alfred Newman, Hugo Friedhofer, Franz Waxman, Miklós Rózsa, Alex North e Bernard Herrmann, attivi all’interno del biennio che va dal 1940 al 1960. Grazie al loro operato, le caratteristiche della musica per film ora mutano radicalmente. Dotati di una personalità molto più spiccata rispetto a quella del gruppo precedente, questi compositori «portano un contributo non indifferente al distacco più o meno progressivo dalla concezione steineriana, con un’attualizzazione del linguaggio e una nuova attenzione agli aspetti psicologici della narrazione»28. In questo contesto, la figura di Bernard Herrmann svolge 27 Erich Wolfgang Korngold in Tony Thomas, Film Score: The Art & Craft of Movie Music, Riverwood Press, Burbank, California, 1991, pp. 88-89. 28 Miceli, Musica per film, cit, p. 177. Codice 602

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un ruolo estremamente importante e di primissimo piano per la svolta che determina dagli anni ’40 in poi, al punto che la sua musica esula dalle categorie stilistiche e drammaturgiche hollywoodiane. La profonda vocazione antimelodica del proprio linguaggio («Non sono un compositore di canzoni», era il suo celebre motto), lo porta ad utilizzare i parametri in maniera diretta, “premusicale”, non sottoposti a legami di tipo melodico o contrappuntistico, permettendo alla sua musica cinematografica di assumere fortissime valenze psicologiche. A ragione Lothar Prox sostiene che la musica di Hermann si basa sul fatto che egli ha scoperto «non solo la pura sensualità del suono, ma soprattutto la forza affettiva di mezzi espressivi acustici elementari (ritmi, spettri sonori, registri acuti e gravi, timbri orchestrali, volumi) che egli usa in maniera più possibile diretta, per così dire premusicale (cioè non sottoposta a legami di tipo melodico o contrappuntistico»29. Quanto di più lontano dai parametri hollywoodiani. Basti pensare, a tal fine, alla celebre scena dell’omicidio sotto la doccia di Marion in Psycho (Psyco, Alfred Hitchock, 1960). Qui la musica sembra nascere dall’urlo della vittima, con una sovrapposizione progressiva di intervalli di seconda minore e glissandi nel registro sovracuto che creano una fortissima tensione. Quando poi Marion, morente, con la schiena al muro e lo sguardo immobile si accascia al suolo, la musica scende anch’essa verso un registro più grave accompagnando la sua agonia fino alla morte.

Es. 2: Bernard Hermann, Psycho, scena dell’assassinio di Marion sotto la doccia

29 Lothar Prox, Fundamentale Erweiterung ihrer Wirkungsmöglichkeiten. Eine biographisce Stizze zu Bernard Hermann, «Filmbulletin», XXII/114, maggio 1980, p. 30.

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Anche David Raksin può essere legittimamente ritenuto come uno dei rappresentanti più significativi di questa generazione. Musicista estremamente eclettico – strumentatore, arrangiatore, compositore di un centinaio di scores, incluso il cinema d’animazione – egli lavorava come clarinettista nell’orchestra di Benny Goodman, scrivendo anche arrangiamenti, tra cui quello fortunatissimo di I Got Rhythm che gli farà avere l’apprezzamento di Gershwin, e orchestrando le musiche per Modern Time di Chaplin (1936)30. Nell’universo della musica americana, Raksin contribuirà ad emancipare il linguaggio musicale hollywoodiano dai suoi topoi ormai consunti, attingendo ad una serie di stilemi appartenenti alla popular music e alla musica colta, spesso coniugandoli in una sintesi efficace. Negli anni seguenti, dal 1960 al 1980, la musica a Hollywood va incontro ad ulteriori cambiamenti che, in particolar modo, risentono di una serie di eventi che si erano fatti notare nell’universo cinematografico. Accanto alla presenza sempre più forte ed incisiva della popular music va sottolineata quella della musica rock e, non ultimo, di quella colta che, quale conseguenza di grande interesse, aveva portato a qualche comparsa della musica elettronica nello scenario del cinema31. Tutto questo comportò inevitabilmente una rivoluzione per la musica cinematografica che iniziò ad utilizzare dei linguaggi sino allora ignoti, facendo tesoro di alcune esperienze maturate in area colta e aprendosi alle contaminazioni provenienti da universi talvolta distanti. All’interno della terza generazione hollywoodiana, in cui troviamo alcuni nomi notissimi dell’universo musicale cinematografico nati fra il 1920 e il 1940 (Henry Mancini, Leonard Rosenman, Jerry Goldsmith, Elmer Bernstein e John Williams), la figura di Elmer Bernstein occupa una posizione di primissimo rilievo e si impone all’attenzione del pubblico con The Man with the Golden Arm (L’uomo dal braccio d’oro, Otto Preminger, 1955), da cui prende inizio un cammino pressoché inarrestabile di successi32. L’utilizzo del jazz, elemento stilistico rilevantissimo dell’intera pellicola, qui si unisce ad altri linguaggi musicali più prettamente cinematografici e ad altri provenienti dalla musica contemporanea, realizzando una sintesi efficace che rende il jazz molto più diretto, immediato, in grado di stabi30 Una celebre foto del 1936 lo immortala con Arnold Schoenberg, da cui Raksin ha ricevuto alcune lezioni. 31 La presenza della popular music non ha in sé i caratteri della novità, ma, a partire dalla metà degli anni cinquanta, si era fatta sempre più sentire. “Il ‘caso’ del song Laura di Raksin per il film omonimo [Vertigine, Otto Preminger, 1944] impone ormai continue repliche e imitazioni, più o meno giustificate dal contesto narrativo; in alternativa o in aggiunta c’è sempre la possibilità di collocare il song nei titoli di coda, magari anticipandone nei titoli di testa i connotati melodici in forma solo strumentale. È comunque rilevante il fatto che la presenza di un song riguardi non solo la commedia rosa o brillante, ma si estendono ormai al dramma psicologico e sociale” (Miceli, Musica per film, cit., p. 209). 32 Anche Thomas annovera questa partitura come una tra le migliori scritte da Bernstein per il cinema (cfr. Thomas, Music for the film, cit., p. 249). Codice 602

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lire un contatto molto forte con il pubblico, senza per questo giungere a diventare semplice musica d’atmosfera33. Come lo stesso musicista ha precisato: In the case of The Man with the Golden Arm, I used the rhythmic elements, I used certain of the harmonic limitations that are inherent in jazz, but I never gave that free rein to the players, which is the thing that becomes jazz. So it was really a score that used jazz to color it. It’s extremely difficult for jazz in the pure sense to become a film score because one of its greatest assets is its improvisatory quality, whereas a film score is one that must be very carefully thought out. However, there are times in scoring pictures when the kind of primitive excitement that is created by jazz can indeed be an asset34.

Ci siamo soffermati a delineare alcune caratteristiche e tipologie della musica hollywoodiana in quanto esse sono mirabilmente riassunte nella figura di John Williams che, non solo, è il rappresentante di maggior rilievo della terza generazione hollywoodiana ma, allo stesso tempo, risulta essere il compositore che meglio sintetizza e incarna i valori di questa tradizione tout-court. Non a caso, molti hanno ricondotto il suo nome e la sua scrittura a compositori di questa tradizione, soprattutto a Steiner e Korngold, a lui distanti cronologicamente, sottolineando le influenze che ripetutamente si fanno sentire nelle sue colonne sonore. Motivo per cui John Williams sarebbe inevitabilmente una sorta d’icona di quella scuola.

John Williams e la sintesi della musica hollywoodiana Autore delle colonne sonore di alcuni film popolarissimi – ricordiamo, tra i tanti, Images (Robert Altman, 1972), The Sugarland Express (Steven 33 «The score for The Man with the Golden Arm is not a jazz score. It is a score in wich jazz elements were incorporated toward the end of creating an atmosphere, I should say a highly specialized atmosphere, specific to this particular film» (Elmer Bernstein, The Man with the Golden Arm, in “Film Music”, XV/3 1956, p. 54). 34 Parole di Elmer Bernstein in Thomas, Music for the film, cit., p. 255. Tutte le analisi della musica di questo film convergono attorno a questo punto. “Elmer Bernstein a introduit le jazz dans sa partition, ce qui ne veut pas dire pour autant qu’il s’agit d’une partition d’essence jazzistique. Bernstein évite les charmes d’une évidence fatale. Le profil jazzistique de la partition est d’ordre symphonique, une formation de jazz étant inserite dans une masse orchestrale plus traditionelle” (Alain Lacombe, Claude Rocle, La musique du film, Paris, Francis Van de Velde, 1979, p. 60). Pertinenti, a tal fine, risultano essere le parole di Gilles Mouëllic. “Preminger semble prendre à contre-pied l’amalgame jazz-drogue: la passion de la musique est la planche de salut du héros, le chemin vers sa rédemption. Mais deux éléments viennent troubler cette lecture: jamais le mot jazz n’est prononcé, et l’orchestre qui auditionne Frankie (il s’agit des Giants de Shorty Rogers) est exclusivement composé de blancs. Pourtant le jazz est omniprésent, notamment à travers la radio, mais en évitant de le nommer (l’ambition de Frankie est de devenir musicien et non jazz-man) et en excluant les musiciens noirs, Preminger partecipe à ce qu’il faut bien nommer une usurpation, sur fond, une fois de plus, de ségrégation” (Gilles Mouëllic, Jazz et cinéma, Paris, Cahiers du Cinéma, 2000, p. 40).

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Spielberg, 1974), Close Encounters of the Third Kind (Steven Spielberg, 1977), 1941 (Steven Spielberg, 1979), E. T. The Extra-Terrestrial (Steven Spielberg, 1982), Empire of the Sun (Steven Spielberg, 1987), Presumed Innocent (Alan J. Pakula, 1990), JFK (Oliver Stone, 1991), Schindler’s List (Steven Spielberg, 1993), Sleepers (Barry Levinson, 1996), Saving Private Ryan (Steven Spielberg, 1998) – Williams ha anche firmato le partiture di alcuni sequels parimenti conosciutissimi, come l’esalogia di Star Wars o la trilogia di Indiana Jones35. Nei confronti della tradizione hollywoodiana, Williams ben esemplifica innanzitutto la vocazione all’artigianato, che lo porta a musicare pellicole differenti e di conseguenza ad adottare stili diversi, ma allo stesso tempo si contraddistingue per alcune caratteristiche che, come ben sottolinea Miceli, lo rendono “capace di assumere gli stilemi più rappresentativi della propria generazione, ma smussandone gli eccessi”36 guardando alla tradizione della seconda e perfino della prima generazione. Quanto ai debiti diretti nei confronti del repertorio colto – tipici di un qualsiasi compositore cinematografico – essi sono parimenti notevoli, per quanto talvolta sfumati, a causa delle notevoli capacità assimilatrici tipiche del nostro. Quanto di più lontano dalla “sfacciata ‘archeologia musicale’” che gli è stata attribuita in maniera superficiale37. Ciò che a noi maggiormente interessa mettere in risalto in queste pagine è indagare la natura dei temi delle sue colonne sonore e le specifiche funzioni da essi esercitate. Nel fare questo, faremo riferimento a due situazioni, a nostro avviso esemplari nei confronti dell’enorme corpus delle partiture cinematografiche del compositore americano.

Il «tematismo esteso» della musica di Williams La felicissima invenzione melodica della musica di Williams nelle sue colonne sonore si unisce a una grande abilità nell’orchestrazione, suffragata dal ricorso alla tecnica del Leitmotiv. Nel rappresentare la miglior tradizione del sinfonismo hollywoodiano, la sua scrittura pone in relazione i modelli consegnati dalla tradizione operistica tardo-romantica con quelli del sinfonismo coevo. Motivo per cui, taluni hanno ingenuamente comparato

35 In merito a queste ultime, Miceli precisa: “Ma occorre distinguere tra sequels in cui le musiche composte da Williams per il primo titolo della serie sono state riutilizzate senza la sua presenza attiva, con l’aggiunta di altri compositori, e sequels interamente curati da Williams, nonostante la prevedibile ripresa dei materiali principali (si tratta dell’esalogia di Star Wars e della trilogia di Indiana Jones)” (Miceli, Musica per film, cit., pp. 220-221). 36 Ivi, p. 222. 37 Si veda, a tal fine, un articolo di Giuseppe Rausa in cui il linguaggio di Williams viene definito come «spudoratamente tonale e tradizionale» e la sua musica animata da un «beffardo spirito giocoso» a dar vita a «partiture roboanti e magniloquenti» (Giuseppe Rausa, Ma c’è un ritornello anche per il fantasy, «Segno Cinema», IV/15, novembre 1984, p. 27). Codice 602

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la sua partitura per Star Wars con la tetralogia wagneriana38. Proprio per questi motivi, come anticipavamo nelle primissime battute di questa nostra riflessione, egli è un punto d’arrivo della musica hollywoodiana, una sintesi suprema in quanto egli […] ha recuperato abilmente le funzioni leitmotiviche e con esse il tematismo più esteso e articolato, unitamente alla dialettica tematica e alle simbologie implicite. La differenza di maggior rilievo rispetto all’operato dei predecessori più remoti sta nella metabolizzazione degl’influssi derivanti dal blues e dal jazz, per cui le forme “risuonano” con lui molto più attuali39.

Andiamo allora alla saga di Star Wars del regista Georg Lucas, un’opera cinematografica composta da due trilogie. La prima, prodotta dal 1977 al 1983, è la cosiddetta trilogia originale (Star Wars, IV; Empire strikes back, V; Return of the Jedi, VI), mentre la seconda venne alla luce dal 1999 al 2005 e costituisce il prequel degli altri episodi girati vent’anni prima. Al suo interno abbiamo The Phantom Menace, I; Attack of clones, II e Revenge of Sith, III. Catalogata all’interno delle coordinate del genere fantascientifico, questa saga contiene allo stesso tempo elementi molto eterogenei, dal western al fantasy per sconfinare al romanticismo melodrammatico. Non a caso, come abbiamo visto, alcuni hanno intravisto in Star Wars addirittura elementi di affinità con i drammi musicali wagneriani e con i racconti mitologici che li ispirano. Come ben avverte Miceli, che parimenti a Chion saggiamente invita a non voler forzare la mano nella direzione di questi paragoni esteticamente improponibili, resta il fatto che a noi maggiormente interessa in questa sede, ossia che la funzione leitmotivica qui si potenzia e trova senza dubbio il terreno di maggior legittimazione in quanto la saga ambisce a presentarsi come un evento di portata neomitologica. L’identità dei personaggi e i loro rapporti risultano così notevolmente potenziati dalla dialettica tematica che attraversa la pellicola, per cui può anche accadere che “il portato simbolico si proietti sui personaggi e sulla situazione in scena come manifestazione traslata del loro stato d’animo e della loro condizione”40.

38 Nel trattare uno dei consueti problemi della musica cinematografica – Wagner musicien de film – Michel Chion riprende le argomentazioni di Peter J. Weise per sostenere questa affinità (presenza della tecnica leitmotivica, dimensioni dell’orchestra, utilizzo del cromatismo e via dicendo). Chion, allo stesso tempo, smaschera questa tesi sostenendo giustamente come molti compositori cinematografici abbiano fatto uso di queste situazioni linguistiche. Cfr. Michel Chion, La musique au cinéma, Paris, Fayard, 1995, pp. 255-56. 39 Ibidem. 40 Ivi, p. 615.

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Come ben puntualizza Chion: La conception narrative du film s’appuie sur de costants changements de lieux d’action entre différentes scènes parallèles, nécessitant des effets très nombreux de transition rapides, visualisées par des effets de volets (balayages de l’écran, de droite à gauche, ou de haut en bas, pour substituer une image à un autre), très à la mode dans les années trente et remis en honneur à cette occasion. Ces transition, très caractéristiques de la forme dramatique de l’œuvre, sont “doublées” par des nombreuses ponctuations sonores et musicales qui nous transportent très vite dans un nouvel univers, sur une nouvelle planète ou dans un nouvel astronef41.

Consideriamo ora lo scorrimento dei titoli di testa che ben può essere considerato come un ben preciso manifesto della tradizione musicale hollywoodiana. Il compositore ha descritto i primi momenti del film con queste parole. The opening of the film was visually so stunning, with that lettering that comes out and the spaceships and so on, that it was clear that music had to kind of smack you right in the eye and do something very strong. It’s in my mind a very simple, very direct tune that jumps an octave in a very dramatic way, and has a triplet placed in it that has a kind of grab. I tried to construct something that again would have this idealistic, uplifting but military are to it, and set it in the brass instruments, which I love anyway, which I used to play as a student, as a youngster. And try to get it so it’s set in the most brilliant register of the trumpets, horns and trombones so that we’d have a blazingly brilliant fanfare at the opening of the piece. And contrast that with the second theme that was lyrical and romantic and adventurous also. And give it all a kind of ceremonial … it’s not a march but very nearly that. So you almost kind of want to [Williams laughs] [pat] your feet to it or stand up and salute when you hear it - I mean there’s a little bit of that ceremonial aspect. More than a little I think42.

Questa narratività dalle caratteristiche epiche, simile per certi versi a quella dei compositori della prima generazione hollywoodiana, manifesta allo stesso tempo delle cifre stilistiche che quei musicisti non possedevano ancor più arricchite ed evidenziate dalla presenza di effetti sonori richiesti dal genere della fantascienza. Dopo un breve silenzio, appare sullo schermo il titolo Star Wars in sincrono con il fortissimo dell’accordo in si bemolle maggiore (Maestoso sffz reca scritto la partitura). A questo segue un episodio con una fanfara strutturata in canone che poi porta ad uno dei temi principali affidato alle trombe, il Leitmotiv di Luke Skywalker, e poi all’esposizione di un tema secondario per 41 Chion, La musique au cinéma, cit., p. 160. 42 Craig L. Byrd, The Star Wars Interview: John Williams, «Film Score Monthly», January/ February 1997, p. 20. Codice 602

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archi. Il tema compare diverse volte soprattutto durante il primo film, ed è associato alla figura di Luke. Tende ad evidenziare la natura eroica, desiderosa di avventura e sognatrice del giovane eroe per poi venir a poco a poco sostituito nei capitoli successivi seguendo l’evoluzione del protagonista dal sognatore ragazzo di campagna al potente guerriero capace di cambiare le sorti della galassia. Sin da queste prime battute la musica di Williams sembra trovare la propria fonte d’ispirazione in quella di Korngold, nello specifico in quella di Captain Blood (Michael Curtiz, 1935), The Adventures of Robin Hood (La leggenda di Robin Hood, Michael Curtiz-William Keighley, 1938) e soprattutto The Sea Hawk (Lo sparviero del mare, Michael Curtiz, 1940). In riferimento ad un momento della partitura di questo film, non a caso Royal Brown avverte che “if this figure seems familiar, it is because it much later became one of the principal motifs in John Williams’s various Star Wars scores”43. Del resto, anche quando i riferimenti non sono espliciti, le atmosfere sonore fra i due film rivelano spesso delle affinità sin a partire dai titoli di testa.

Es. 3: Erich Wolfgang Korngold, The Sea Hawk. Temi dei titoli di testa

Es. 4: Erich Wolfgang Korngold, The Sea Hawk. Temi dei titoli di testa

43 Royal S. Brown, Overtones and Undertones. Reading Film Music, Berkeley – Los Angeles – London, Univertsity of California Press, 1994, p. 100. Le affinità della musica di Williams con quella di Korngold sono state ravvisate da più parti. “Traditional scoring was enduringly revived in the 1970s by the blockbusters of the ‘New Hollywood’, most indelibly associated in the popular imagination with the long-standing and fertile collaboration between director Steven Spielberg and composer John Williams. Williams cannily updated the lush romantic musical language of Golden Age film composers such as Erich Wolfgang Korngold (who was in the 1930s that exceptional rarity: a celebrity film composer with an impeccable classical pedigree) and produced – and at the time of writing continues to produce – a steady stream of memorable film scores that consistently top the soundtrack record charts internationally. If the structural and technical challenges tackled by Williams are essentially similar to those familiar to Steiner, Waxman, and Herrmann, younger composers have since the 1980s tapped elements of pop, folk, and jazz to create less emotionally explicit scoring methods that owe a great deal to the hypnotic minimalism introduced to the concert hall and opera house in the 1970s by composers such as Steve Reich and Philip Glass” (Mervyn Cooke, The Hollywood Film Music Reader, New York, Oxford University Press, 2010, p. 53).

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Idealmente suddiviso in due sezioni, anche l’inizio di Star Wars si muove all’interno della consolidata tradizione del cinema hollywoodiano ponendosi come l’ouverture del film. «Mi fu subito chiaro che la musica doveva essere di forte impatto» ha detto Williams a tal fine chiarendo le funzioni a cui la musica era chiamata44.

Es. 5: John Williams, Star Wars, titoli di testa. Primo tema45

Gli ottoni, strumenti come al solito prediletti dal compositore, conferiscono alle battute iniziali un carattere marziale ma anche solenne ed eroico che visibilmente contrasta con il secondo tema, dal carattere lirico e romantico.

Es. 6: John Williams, Star Wars, titoli di testa. Secondo tema 44 John Williams in An interview with John Williams, in http://industrycentral.net/content/ music/williams.shtml. Qui tratto da Giancarlo Guarrera, Le librerie orchestrali a campionamento, Tesi di laurea in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, Università degli studi di Udine, a.a. 2015-2016, p. 11. 45 Questo e il seguente esempio sono tratti da Miceli, Musica per film, cit., p. 560. Codice 602

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Queste battute, inoltre, sono caratterizzate dalla comparsa dell’intervallo di quarta che poi pervade la linea melodica del tema.

Es. 7: John Williams, Star Wars, titoli di testa46

L’intervallo di quarta, allo stesso tempo, si unisce ad uno di settima a dar vita a dei piccoli motivi di tre note che si ripetono con una certa insistenza e da cui nasce la melodia principale, caratterizzata dal continuo ricorrere delle terzine, ulteriore elemento che connota la melodia in termini marziali ed eroici. Il tema che nasce da una simile costruzione si basa sulla tipica estensione di otto battute, che da sempre appartiene alle forme compositive della musica d’intrattenimento.

Es. 8: John Williams, Star Wars, titoli di testa

Es. 9: John Williams, Star Wars, titoli di testa

46 Questo e i seguenti esempi musicali della partitura di Star Wars sono tratti da Mark Richards, John Williams Themes. Film Music Notes, in http://www.filmmusicnotes.com/john-williamsthemes-part-2-star-wars-main-title.

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

Il secondo tema, dai toni maggiormente lirici grazie alla presenza degli archi e non più degli ottoni, presenta una melodia maggiormente scorrevole che comunque continua a fare riferimento al motivo di tre note sopraccitato.

Es. 10: John Williams, Star Wars, titoli di testa

In questa pagina, allo stesso tempo, è molto facile ravvedere un seguito di influenze riconducibili ad istanze appartenenti alla musica del primo Novecento oppure contemporanea che, all’interno di questa partitura, s’integrano in maniera efficace con le movenze del linguaggio hollywoodiano. Come ben sottolinea Jacques Amblard: Le thème du générique initial de Star Wars, dédié aux trompettes, comme bien d’autres pages de Williams, dépasse la seule émancipation wagnérienne des cuivres. Il intègre un autre procédé de la première modernité : les notes (transposées en Do majeur) Do... Sol... Fa Mi Ré Do... Sol, ne seraient que très banales si le Do n’était déplacé à l’octave supérieure, par rapport à ce que l’oreille prévoirait compte tenu du petit bout de gamme descendante qui le précède et dont ce Do, en principe, constituerait l’aboutissement inférieur. Prokofiev (encore lui) mais aussi Varèse, Bartók, les Viennois, parfois Stravinsky avaient l’habitude d’accidenter le chromatisme de Wagner – comme pour tenter désespérément de le dépasser – par octaviation brusque de la ligne. Williams adapte ceci à la mélodie tonale traditionnelle, à la ligne diatonique, antérieure au chromatisme wagnérien. Il propose donc un « diatonisme octavié », à défaut du « chromatisme octavié » des modernes. Ce simple détail de facture projette soudain la mélodie williamsienne dans un ailleurs qui tranche avec l’univers plus roboratif, simplement romantique, de bon nombre de musiques de films orchestrales hollywoodiennes. Korngold, qui inventa la musique de film orchestrale pour Hollywood avant-guerre en tant – ce sont ses mots – qu’« opéra sans chant » et sur le modèle dynamique du poème symphonique straussien, auteur des partitions de Captain Blood (1935) ou des Aventures de Robin des bois (1938), était déjà coutumier de ces lignes instrumentales tonales mais accidentées. La mélodie y faisait des expériences, disjointe par arpèges, instabilisée par le jeu des appoggiatures47. 47 Jacques Amblard, John Williams, Parcors del l’œuvre, in http://brahms.ircam.fr/john-williams. Amblard, forse esagerando, prosegue continuando a sottolineare le influenze ravvisabili in questa colonna sonora: “Ce qui suit, dans son illustration musicale, est encore un atout dans le jeu de Williamsravenn l’emprunt à l’impressionnisme, à Debussy et Ravel, soit à un autre grand courant du premier XXe siècle. Cet emprunt bref mais remarquable accompagne, Codice 602

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Roberto Calabretto

Dopo lo scorrimento dei titoli di testa, subentra un sincrono nel momento in cui le immagini propongono un campo lungo dello spazio con i pianeti. Un ottavino delinea un fraseggio su un delicato accompagnamento di arpa, vibrafono, celesta e violini. Dopo la quiete momentanea delle rapide terzine degli archi introducono le immagini di un combattimento spaziale fra due astronavi. Accordi pesanti e dissonanti sottolineano la drammaticità della scena e accompagnano l’assordante rumore dei cannoni laser. Il tematismo esibito nel corso di Star Wars ben può rappresentare quello che Miceli chiama “tematismo esteso”, ossia che abbraccia gran parte del racconto e, nel caso dei sequel, può ricorrere da un episodio all’altro. [Questi temi sono] concepiti in modo da mettere in scena i mezzi della retorica musicale, attraverso un citazionismo giocoso, non letterale, bensì nello spirito, che rappresenta la migliore risposta al citazionismo narratologico sul quale si basa la saga stessa. Non si tratta quindi di semplici «marcette», secondo una definizione ben riduttiva di Morricone riferita alle musiche di Star Wars, bensì di una naïveté solo apparente e capace di offrirsi a livelli diversi di fruizione. Il sequel è sufficientemente noto da non richiedere spiegazioni ulteriori, ma un suggerimento per verificare il meccanismo delle concatenazioni è rivedere uno o più film prestando particolare attenzione alla colonna musica, con una memorizzazione preventiva dei temi principali qui esemplificati. Benché nel sequel assumano titoli diversi a seconda del contesto, possono essere definiti come Main Theme o Main Title (Maestoso, diviso – o divisibile – in due segmenti); The Imperial March o Darth Vader’s Theme (Alla Marcia); Force Theme (Maestoso)48.

I procedimenti di concatenazione tematica possono però giungere a dei vertici di applicazione considerevoli, e particolarmente efficaci alla struttura narrativa nonché ai valori a cui si ispira il racconto cinematografico. Basti pensare ad Adventures On Earth2 da E. T. The Extra-Terrestrial di Steven dans chaque volet de la saga, la première vue traditionnelle du grand vaisseau spatial. La flûte apparaît et c’est alors celle, si l’on veut, du Prélude à l’après-midi d’un faune (1892-4) ou de Syrinx (1913) de Debussy ; les cordes se divisent, cherchent un mode de jeu délicat, des trilles, des batteries pianissimo, à la manière de Ravel, s’étagent au gré d’accords “à notes ajoutées”. L’impressionnisme s’associait souvent à une prétextuelle description de la nature, notamment de l’eau en mouvement, ce que remarque Daniel Durney. Et ce dernier de citer La Mer, Une barque sur l’océan, Jeux d’eau, L’isle joyeuse, Poissons d’or, La Cathédrale engloutie, Sirènes, les deux Ondine. Williams, selon un langage proche dans certains passages, globalise ce programme. Il l’étend au cosmos. On peut penser au Messiaen de Turangalîla-Symphonie, créée en 1949 par l’orchestre de Boston, en bordure du festival de Tanglewood, ville qui deviendra d’ailleurs familière à Williams. Messiaen constitue-t-il un relai pour le passage de l’impressionnisme à l’espace, avec les ondes Martenot accompagnant les accords debussystes du “Chant d’amour 1”? En tout état de cause, se dessine alors une promesse de bonheur, de ces “nouvelles aventures” qu’offre la perspective cosmique identifiée à l’avenir. Ce n’est plus “La mer” ou “l’Isle joyeuse”. C’est au-delà, “L’espace” ou “L’astéroïde joyeux” (on pense à L’Empire contre-attaque, 1980, et sa scène fameuse dans un champ d’astéroïdes) » (Ibidem). 48 Ivi, pp. 558-559.

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

Spielberg (1982). In questo caso le concatenazioni tematiche e la dilatazione sono ottenute attraverso un ricorso sistematico alla tecnica delle variazioni orchestrali che contribuiscono alla loro efficacia nel contesto della colonna sonora del film. Concepita in questo modo, la musica per film costituisce un lungo accompagnamento sonoro delle immagini in movimento e asseconda uno dei principali modelli della tradizione hollywoodiana.

L’ostinato del terrore Il tematismo esibito all’interno della saga di Lucas, allo stesso tempo, non esaurisce le caratteristiche delle scelte stilistiche del compositore che non sono del tutto inquadrabili all’interno di parametri ben definiti ma piuttosto abbraccia tipologie differenti tra loro. Il riferimento, in questo caso, ricade su un altrettanto celebre colonna sonora di Williams composta per il film Jaws di Steven Spielberg (Lo squalo, 1975) che presenta caratteristiche esattamente opposte a quelle di Star Wars. Tra le tante recensioni che il “tema” di questa colonna sonora, per usare un’accezione impropria, ha ricevuto, varrà la pena segnalare quella di Timmothy Scheurer che ha intravvisto al suo interno richiami della Sagra della primavera di Igor Stravinskij, in particolar modo dell’inizio dell’Adorazione della terra, e non a caso di Psycho di Bernard Hermann49. Nel film di Hitchock, come abbiamo visto, la musica segnala la presenza di un pericolo utilizzando delle situazioni musicali ridotte alla minima essenza. Ancora una volta, Williams si rivela capace di recuperare la storia della musica hollywoodiana nella sua interezza, sia i momenti ispirati alla massima magniloquenza, come in Star Wars, che quelli all’essenzialità, come accade nello Squalo50. Il “tema” del film non è propriamente tale e non è nemmeno identificabile con un “motivo”: è piuttosto un ostinato che viene associato al sopraggiungere dello squalo. Il regista, a tal fine, ricorda simpaticamente la maniera con cui gli fu proposto questo tema. I had actually cut in one of John’s own pieces of music for the opening titles. That was John’s title theme from Robert Altman’s film Images. So I cut in a section that was a lovely piano solo with 49 Cfr. Timothy E. Scheurer, John Williams and film music since 1971, «Popular Music and Society», XXI, 1, Spring 1997, pp. 59-72. Ci sfugge, invece, il senso di questa affermazione contenuta in una biografia dedicata a Spielberg. «Williams si rifà al cosiddetto ‘atonalismo romantico’, capace di mediare tensioni moderniste d’avanguardia con un neo-romanticismo imponente e strabocchevole: il suo audace neowagnerismo comincia, proprio con Lo Squalo, a imporre l’uso spregiudicato [sic] del Leitmotiv sinfonico» (Valerio Caprara, Steven Spielberg, Roma, Gremese, 1997, p. 28). 50 Per la stesura di questo paragrafo ci siamo parzialmente avvalsi di una tesi di laurea che abbiamo avuto il piacere di seguire. Matteo Brigo, La musica nel cinema horror. Alcuni casi di studio, Tesi di Laurea in Scienze dello spettacolo e della produzione multimediale, Università degli studi di Padova, a.a. 2009-2010. Codice 602

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Roberto Calabretto

some very ominous strings in the background that would probably have been wonderful for a movie about a hunting. And I thought it was playing against the obvious primal feelings that run very deep through Jaws. When Johnny heard it, though, he just didn’t go for it at all… I expected to hear something weird yet still melodic. But what he played instead, with two fingers on the lower keys, was dun, dun, dun-dun, dun-dun, dun-dun. At first I began to laugh, and I thought “John has a great sense of humor!” But he was serious - that was the theme for Jaws. So he played it again and again, and suddenly it seemed right. Sometimes the best ideas are the most simple ones and John had found a signature for the entire score51. Tale ostinato consta semplicemente di due soli suoni e affiora talvolta all’interno di un commento sonoro articolato ma privo di spiccate connotazioni motivico-tematiche, assecondando una consuetudine hollywoodiana che spesso prevede situazioni sonore molto dense. In tal modo, si contraddistingue per la sua notevole forza cinetico-motoria che lo porta ad assumere delle funzioni che propriamente appartengono ai temi tradizionali. Questa situazione musicale giunge ad assumere delle connotazioni tribali che lo rendono estremamente efficace nell’associare la musica alle immagini che raffigurano il terrore nei confronti dello squalo.

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Es. 11: John Williams, Jaws, tema dello squalo. Ostinato

Andiamo allora ai titoli di testa. Le note dell’ostinato si fanno sentire dopo alcuni secondi per poi scomparire e ricomparire nuovamente. Sin dalle prime inquadrature la musica sembra voler avvertire lo spettatore di un pericolo imminente che si sta sempre più avvicinando, divenendo in tal modo il veicolo privilegiato per avvicinare lo spettatore al protagonista del racconto e ai suoi movimenti. In merito all’efficacia del tema, alcuni hanno individuato nelle due note che compongono l’ostinato la mimesi del battito cardiaco dello squalo: il suo inizio lento corrisponderebbe ai momenti in cui il predatore osserva e si avvicina mentre il crescendo subentrerebbe quando la preda viene ghermita e divorata. Altri, con una considerazione sicuramente più banale, hanno associato l’ostinato allo scricchiolare di una barca in partenza per poi aumentare di intensità quando prosegue tra le onde52. 51 Laurent Bouzereau, Jaws, CD booklet di Jaws: The Collector’s Edition Soundtrack, Decca, 2000, p. 7. 52 Cfr. Alexandre Tylski, A study of Jaws Incisive Ouverture, in http://www.filmscoremonthly.com/ articles/1999/14_Sept---A_Study_of_Jaws_Incisive_Ouverture.asp

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

Esaminiamo ora una delle sequenze maggiormente importanti del film, quella in cui lo squalo fa una delle sue comparse nei primi minuti del film. Tempo

Luogo

Situazione

15’52’’

Mare

Alcuni ragazzini giocano facendo il bagno.

Musica

Voci e rumori Rumore dell’acqua e vociare indistinto dei bambini.

15’52’’

Mare

Alcuni ragazzini giocano facendo il bagno.

Rumore dell’acqua e vociare indistinto dei bambini.

15’59’’

Spiaggia

Un bambino sta giocando con la sabbia in riva al mare. Un ragazzo sulla riva guarda il mare preoccupato.

Sul rumore dell’acqua emerge il canto del bambino e i richiami del ragazzo al fratello in sottofondo.

16’04’’

Spiaggia

Il ragazzo preoccupato guarda verso il mare.

Ancora il rumore del mare mentre il ragazzo chiama per nome il fratello.

16’10’’

Mare

S’intravvede un oggetto indistinto che galleggia in acqua.

Il ragazzo continua a chiamare il fratello con il rumore delle onde del mare in evidenza.

16’13’’

Sotto acqua

Lo squalo osserva i bambini. Tema dello squalo in Abbiamo una soggettiva del crescendo eseguito dagli predatore. archi in leggero sottofondo.

Continua il rumore dell’acqua. Le voci dei bambini sono attutite.

16’19’’

Sotto acqua

Lo squalo osserva la preda da lontano.

Tema dello squalo in crescendo eseguito dagli archi. L’intensità si fa leggermente più forte.

Il rumore delle onde è attutito.

16’21’’

Sotto acqua

Lo squalo si avvicina alla preda.

Tema dello squalo eseguito dagli archi. Iniziano i “fraseggi” del pianoforte. L’intensità si fa sempre più forte.

Il rumore delle onde è attutito.

16’23’’

Sotto acqua

Lo squalo si avvicina sempre Tema dello squalo eseguito di più alla preda. dagli archi. Iniziano i “fraseggi” e i glissandi del pianoforte. L’intensità si fa sempre più forte e il tempo crescente.

Il rumore delle onde è attutito.

16’26’’

Sotto acqua

Lo squalo sta per raggiungere la preda.

Tema dello squalo eseguito dagli archi. Iniziano i “fraseggi” e i glissandi del pianoforte. L’intensità è molto forte e il tempo crescente.

Il rumore delle onde è attutito.

16’30’’

Lo squalo raggiunge la preda.

Tema dello squalo eseguito dagli archi. Iniziano i “fraseggi” e i glissandi del pianoforte. L’intensità è fortissima e parimenti il tempo.

Il rumore delle onde è attutito.

Codice 602

49


Roberto Calabretto

Tempo

Luogo

Situazione

16’32’’

Mare

Lo squalo attacca i bagnanti. Il tema dello squalo è sempre più forte.

Musica

Voci e rumori

16’34’’

Spiaggia

16’36’’

Mare

Un bambino viene divorato dallo squalo. Glia altri cercano di scappare impauriti.

16’37’’

Sotto acqua

Un bambino viene divorato dallo squalo.

Tema dello squalo in crescendo.

Rumore dell’acqua e gemiti del bambino.

16’42’’

Spiaggia

Zoom sul primo piano di Martin. I bagnanti iniziano a capire quanto è successo.

Melodia degli archi.

La gente impaurita continua a vociare.

16’44’’

Mare

I bambini in mare sono impauriti.

Tema dello squalo.

Rumore dell’acqua e urla dei bambini.

16’47’’

Riva al mare.

Un bagnante intima a tutti di uscire dall’acqua.

Orchestra.

Rumore dell’acqua e urla delle persone.

17’11’’

Riva al mare.

La madre non trova il proprio figlio.

Onde del mare, vociare delle persone urlo della madre che chiama il proprio figlio.

17’24’’

Riva al mare

Un materassino insanguinato.

Onde del mare e cinguettio di uccelli.

Urla dei bambini impauriti. Scroscio dell’acqua. I bagnanti impauriti iniziano ad urlare e ad agitarsi. Onde del mare. Urla dei bambini.

Consideriamo ora come vengono trattati i parametri ritmico e melodico in questa situazione. Il ritmo viene modulato sulla base dei movimenti dello squalo e aumenta nel momento in cui si avvicina alla preda. Non a caso, a partire dal minuto 16’23’’, quando inizia l’avvicinamento dello squalo alla vittima, si passa dai 93 a 150 battiti per minuto nel momento in cui avviene l’attacco raggiungendo, di conseguenza, il punto di massima intensità di paura. Il punto di vista dello squalo non è solo visivo, pertanto, ma anche acustico. Anche l’intensità cresce in base ai movimenti dello squalo. A differenza del ritmo, però presenta un crescendo costante dalla soggettiva dello squalo per giungere al fortissimo finale. La tensione, pertanto, è suggerita dapprima dall’intensità crescente e poi dall’aumentare del ritmo. I fraseggi melodici sono tremolanti ed acuti, con degli arpeggi che emergono improvvisamente dal contesto sonoro.

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Es. 12: John Williams, Jaws, tema dello squalo

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John Williams e la tradizione hollywoodiana

Il tema dello squalo, pertanto, fa riferimento a dei codici universali, non semplicemente riconducibili ai topoi e ai retaggi della cultura musicale occidentale. Questo aiuta a capire le ragioni della sua efficacia. Le funzioni a cui la musica è chiamata nel corso del film, pertanto, sono molto importanti per quanto la colona sonora assuma delle caratteristiche che sembrano essere diametralmente opposte da quelle di Star Wars.

Una possibile conclusione Al termine di questi brevi appunti abbiamo cercato di dimostrare come John Williams, nome di rilievo assoluto della musica hollywoodiana e di quella cinematografica tout court, possieda per antonomasia le virtù e le qualità del musicista cinematografico. Un’affermazione, questa, senza dubbio elementare ma che abbiamo voluto verificare mettendo a confronto due situazioni cinematografiche appartenenti a due generi differenti, il cinema di fantascienza e l’horror, e in situazioni parimenti diverse. Come più volte abbiamo ribadito nel corso di queste pagine Williams, da un lato, è memore della lezione dei musicisti della prima e seconda generazione hollywoodiana a cui la propria poetica ha sempre guardato ma, dall’altro, recupera un’altra lezione parimenti importante, come quella di Hermann, ch’egli proprio nella partitura dello Squalo dimostra di aver pienamente assimilato. Tra i tanti lasciti che la lezione stilistica di Williams ha a sua volta lasciato, ci piace citare velocemente quella esercitata su Michael Giacchino, compositore noto nell’universo dei videogiochi, nella cui musica frequentemente ricorrono citazioni testuali di temi di Williams oppure riferimenti indiretti alla sua texture o alla sua strumentazione. All’interno di una celebre intervista, il compositore parlando dei propri riferimenti musicali ha associato il nome di Williams a quello di altri compositori che abbiamo citato. I love Jerry Goldsmith, because he did so many different kinds of things. […] John Williams, just because of his command of melody and ability to come up with a theme. I love Max Steiner, from way back. I love Benny Goodman. […] I love Louis Prima, John Philip Sousa. […] I was obsessed with The Twilight Zone as a kid, and one of those things I didn’t realize until I was in college was that I had been listening to Bernard Herrmann all my life53.

Parole, queste, che nel migliore dei modi si pongono come testimonianza eloquente dei valori universali che la tradizione hollywoodiana e la musica di John Williams possiedono. 53 Michael Giacchino in Alan Sepinwall, More from TV composer Michael Giacchino and Bear McReary, in http://www.nj.com/entertainment/tv/index.ssf/2008/06/more_from_tv_composers_michael. html. Codice 602

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Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles: riflessioni di un interprete

di Gregorio Nardi*

Da qualche parte, Rousseau si domanda cosa significhi una sonata. Vorrei rispondergli: un romanzo. Christian Gottfried Körner a Friedrich Schiller1

Che la forma sonata classica potesse svincolarsi da una suddivisione in movimenti di andamento vario, solitamente in numero di tre, proponendo invece la tipologia in un solo movimento, non pare sia stata esigenza prioritaria per i musicisti del Settecento. Pure, fu ben presente alla loro fantasia una molteplicità di soluzioni concepite per diversificare l’apparente fissità dell’impianto; in primis, di volta in volta, riduzione della quantità di movimenti oppure accrescimento. L’esempio della sonata italiana in due tempi, affermatasi con l’immenso successo di quelle di Pietro Domenico Paradisi (1754), fu evidente modello per le sonate in due movimenti composte da Haydn tra il 1766 e il 1795; non fu estraneo a Beethoven, da qualche Leichte Sonate insino all’immenso volo dell’op. 111; lo si avverte nell’op. 61 di Jan Ladislav Dussek, Elégie Harmonique (1806). All’opposto, l’inserimento di sezioni preliminari o conclusive, o lunghi passaggi intermedî, o ulteriori movimenti, talora di danza, sembra memore di forme barocche: Suites, vasti impianti di Toccata, Sonate da Chiesa, archetipi ai quali si guardò con crescente interesse dopo la riscoperta e definitiva affermazione del magistero haendeliano e bachiano e col sorgere di un certo qual gusto archeologico. Mentre il dilatarsi piacque e prevalse in quanto soluzione colta (e con * Gregorio Nardi, pianista, discepolo della grande scuola dei nonni Rio e Gregoria Nardi, è stato premiato ai concorsi A. Rubinstein a Tel Aviv e F. Liszt a Utrecht. Ha recentemente celebrato a Budapest il suo cinquecentesimo concerto. Incide per Limen. Nel 2015 ha ricevuto il Fiorino d’Argento del Premio Firenze per il suo libro Con Liszt a Firenze edito da LoGisma. 1

«Die Horen», n. 12, Tübingen, 1796, p. 115. Codice 602

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Gregorio Nardi

ciò si giunge di lì a poco ai Quartetti op. 130, 131, 132 di Beethoven), la struttura in due movimenti parve piuttosto un prodotto alla moda, adatto per un pubblico dilettante, e fu accantonata: non mi riferisco ai capolavori haydniani o beethoveniani, bensì alla moltitudine di brevi composizioni pedagogiche o di svago, ivi compresi deliziosi apocrifi e falsi e pastiches, com’è il caso di alcune presunte sonatine di Beethoven o di squisiti assemblaggi di preesistente materiale mozartiano, talmente ben riusciti da meritarsi un posto ancora nell’odierno repertorio. Ipotesi con poco fondamento quella che vede la sonata in un solo movimento collocarsi laddove si spegneva la precedente tradizione in due parti; né sapremmo sostituirla con miglior parere. I presupposti settecenteschi a nostra disposizione sono infatti sporadici e problematici, e in nessun modo promettono un humus favorevole alla nascita del nuovo genere. Eppure la tipologia s’impose: eccome! Dalle sonate di Liszt, Reubke e Wagner a quelle di Berg e Scriabin, dagli Allegri da Concerto di Chopin e Schumann alle prove giovanili di Prokof’ev e Šostakovič, fino a basilari opere cameristiche e orchestrali: su tutte, la prima Kammersymphonie op. 9 di Schönberg. Gli esemplari settecenteschi sono viceversa fortuiti. Molte le Sonatensätze, reliquie di sonate incompiute o versioni accantonate. Se ne conservano di Mozart e di Schubert, ma non è da ricercarsi nel loro status di cimelio per dotti intenditori l’origine della nostra forma. Semmai da riconsiderare è l’estremo, commovente capolavoro di Haydn, quell’Andante con Variazioni Hob. XVII/6 che l’edizione Artaria (1799) intitolava Variations, e la copia stilata per la prima interprete, Barbara von Ployer, nomina Un piccolo divertimento! forse scherzosamente; mentre nell’autografo del 1793 leggiamo il titolo veritiero, Sonata, presente anche nell’inventario redatto in inglese dallo stesso Haydn: e di sonata infatti si tratta, in un solo movimento, nella quale è conseguita l’estrema riduzione di un alternarsi (adopero la terminologia tradizionale) del gruppo del primo tema e di quello del secondo, senza ponti modulanti o codette e soprattutto privo di sviluppo; ossia, quest’ultimo adattato a ulteriore variazione. Come che sia, per due secoli nessuno riconobbe nello stupendo brano una simile potenzialità, cosicché gli conviene la veste d’eccezione, di unicum, come s’addice purtroppo a quasi tutto l’immenso, straordinario (“fuori dell’ordinario”), misconosciuto catalogo haydniano. Tali en gros i precedenti compositivi quando nel 1814 Moscheles, appena ventenne, inizia a scrivere la Sonate mélancolique op. 49, finalmente in un solo movimento; può darsi, come ebbe a confessare a Wilhelm von Lenz, nel turbamento per la perdita di un caro amico. Isaac Moscheles – il nome quindi mutato in Ignaz – era nato a Praga il 23 maggio 1794 e morirà a Londra il 10 marzo 1870, venerato dagli allievi e stimato dai colleghi. Si era stabilito a Vienna nel 1808, vi aveva studiato con Johann Georg Albrechtsberger e Antonio Salieri, maestri anche di Beethoven. Di quest’ultimo 54


Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles

era divenuto discepolo, amico, celebrato interprete. Considerato all’epoca del Congresso di Vienna uno dei massimi pianisti al mondo, la sua fama segnò un importante rinnovamento sociale: Moscheles era il primo compositore ebreo ammesso nel novero dei grandi, precedendo di ben dieci anni il successo di Giacomo Meyerbeer. Se noi tra i sommi non lo contiamo più, ciò è dovuto al confronto tra l’apprezzabile longevità e, al contrario, la breve durata di una fase inventiva di reale valore: il tempo del fervore creativo – quello, per intenderci, di otto notevoli concerti – non oltrepassa la pubblicazione dei celebri Studî op. 95, del 1837. Dopo tale data, una cinquantina di numeri d’opera aggiunge al suo catalogo null’altro che un paio di pregevoli conseguimenti. Negli ultimi trent’anni di vita, insomma, Moscheles fu – per citare lo strale rivolto da Dallapiccola a un suo collega anziano – un “sopravvissuto”. Anche fino al 1814 la sua produzione era stata di alta qualità ma di basso profilo: voglio dire che era musica bella e ben stilata, che si manifestava però in una serie di rondeaux, variazioni, danze, marce e divertissements dei quali il repertorio pianistico odierno – per limitato che sia divenuto – non sente un urgente bisogno. Né emergono per particolari virtù le altre sonate: irrilevante la prima op. 22; prevedibile e graziosa la seconda op. 27 del 1814, “L’emozione di Vienna per il ritorno di Sua Maestà” ecc., che avrebbe potuto serenamente esser composta in pieno Settecento; la Grande Sonata op. 41 del 1816 dedicata a Beethoven, che di beethoveniano ha ben poco, se non una vistosa Romanza di carattere sinfonico; mentre quella a quattro mani op. 47, forse del 1819, è sapida e brillante, rifinita nella spiritosa polifonia, capace di suscitare l’entusiasmo di Chopin che la suonava spesso e volentieri con Moscheles, a ragione considerata un gioiello nel suo genere, ma gioiellino da intrattenimento, un amabile fiore di serra. Niente, insomma, lasciava presentire l’apparizione del capolavoro di Moscheles, la Sonata op. 49. La mélancolique è – lo esamineremo tra poco – una composizione affascinante, molto articolata, straordinariamente compatta. I temi sono cupi, le modulazioni drammatiche, la preparazione dei più intensi passaggi è infallibile e trascinante, un’inquietudine che dovette sembrare misteriosa attraversa il brano. La sfera letteraria romantica al suo sorgere – Ossian, Sénancour, Coleridge, Novalis – affiora per intero da una scrittura energica e persuasiva. La grafia, invero, di primo acchito non si impone per particolare originalità; ma uno sguardo approfondito ci rivela poi come non derivi da modelli evidenti. E quali, d’altronde, avrebbero potuto essere? La mancanza di una dedica, alquanto sorprendente, mette in luce la singolarità di un siffatto lavoro. Prendendo per attendibile il 1814 quale anno della genesi (vedremo in qual modo tale data sia però suscettibile d’una rilettura), dalle ultime due sonate recentemente compiute da Beethoven – l’opera 81 e quella in due movimenti op. 90, non ancora pubblicata – si può desumere qualche eventuale intuizione tecnica; altre Codice 602

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premesse risalirebbero alla prima Sonata op. 24 di Carl Maria von Weber. In apparenza improbabile un ascendente di Johann Nepomuk Hummel, la cui romanticissima Sonata op. 81 è del 1819. Nessuna analogia con E.T.A. Hoffmann, le cui cinque sonate composte tra il 1805 e il 1808 presentano un romanticismo embrionale di vaga eredità mozartiana, né con Johann Baptist Cramer, lontanissimo nel gusto. Nessuna suggestione da Heinrich Marschner o Carl Loewe o dall’amico Carl Czerny: le loro sonate datano dagli anni Venti; né da Franz Schubert, la cui prima sonata è del 1815 e le prime pubblicate, a partire dal 1825/26, sono le opere 42 e 53. Un confronto con altri musicisti della cerchia beethoveniana offre pochi risultati: Moscheles non poteva certo tener conto degli stilemi di Ferdinand Ries, la cui musica è indivisibile dalla grande maniera beethoveniana, fin anche la coinvolgente ottava Sonata op. 26 (1808) e la Fantasia The Dream op. 49 (1813). Piuttosto, sono riconoscibili specifici connotati operistici che non erano approdati al pianoforte se non per via liminare; ma di un operismo maturo, post-weberiano/spontiniano, già prossimo alle tensioni armoniche del Fliegende Holländer (Wagner inizierà a comporlo nel 1840!). Forse è questa la maggior sorpresa, un emozionante incedere tematico annunciatore di parafrasi pianistiche, quelle evolute e sontuose rivelatesi sul finire degli anni Venti. Il presagio ci meraviglia, ed è comunque spiegabile se consideriamo un impegnativo lavoro di trascrizione intrapreso proprio in quel 1814 da Moscheles, lo spartito del Fidelio commissionato dall’editore Artaria e affidato da Beethoven al suo nuovo, geniale allievo. La Sonata op. 49, uscita dai programmi concertistici nei tardi decenni del diciannovesimo secolo, non incontrò fautori tra gli interpreti novecenteschi: al contrario, per esempio, dell’op. 81 di Hummel, presente nelle sale fino agli anni Venti grazie a Moriz Rosenthal, questa di Moscheles fu dimenticata. Riapparve dopo una pausa di cento anni, nel 1980, in una registrazione Arion, pregevole lettura di Noël Lee, ma non si può dire sinora abbia riconquistato le scene. Ciò nondimeno, al suo iniziale apparire il brano s’impose e l’accoglienza fu ottima: sebbene poco di preciso si possa dedurre dalle fonti, la mélancolique fu sempre considerata il capolavoro solistico di Moscheles, che a buon diritto ne andava fiero da quando, nel 1824, il quindicenne suo allievo Felix Mendelssohn l’aveva eseguita a prima vista tra lo stupore dei famigliari e del maestro. Questi la ascoltò suonare da Liszt a Weimar nel 1858. Hans von Bülow la presentò a Lipsia nel 1863. Nella stessa città Carl Reinecke la scelse nel 1870 per commemorare la morte del compositore. Schumann le rende omaggio imitandone il Gestus (lo nota con perspicacia Arnfried Edler) all’inizio della propria Sonata op. 11 (1832-1835); laddove, riguardo a molte altre peculiarità che il giovane Schumann trae dalla musica di Moscheles, l’insegnamento sembra piuttosto risiedere nei Concerti per pianoforte. Ancora nel 1861, quando Eduard Bernsdorf intese menzionare nel suo Lexicon un esemplare di sonata in un 56


Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles

movimento, ricorse a Moscheles, trascurando ogni altro autore. Casomai, sorprende che l’esecuzione di Mendelssohn segni un terminus post quem, visto che in precedenza le notizie sul pezzo sono pressoché inesistenti. Dieci anni di silenzio – un piccolo giallo che merita di essere risolto. La datazione al 1814 non è stata messa in questione: è quella proposta da Moscheles e pare confermata dalla moglie Charlotte nell’edizione dei Diari del musicista (Aus Moscheles’ Leben: nach Briefen und Tagebüchern, Leipzig, 1873). A ben rileggere i commenti della signora Moscheles, però, un dubbio nasce: nella recente attività di quest’anno Charlotte elenca “infine, il tema della Sonate mélancolique, da lui stesso e da competenti giudici considerata uno dei suoi migliori lavori. Il diario prova che questo soggetto, immaginato mentre dava una lezione, fu da lui elaborato con speciale piacere”. Lo splendido tema in Fa diesis minore, dunque; non l’intera sonata che fu infatti pubblicata anni dopo da Schlesinger a Parigi, da Artaria a Vienna, e da André a Offenbach – questa edizione probabilmente databile al 1820 –, partiture segnalate nella Bibliographie musicale de la France et de l’étranger (1a serie, 10a annata, n. 29 del 21 luglio 1821); e si tratterebbe allora della prima citazione del brano. Non sarebbe un caso isolato di antidatazione: spesso i Romantici considerano il momento della folgorazione, dell’epifania della figura tematica, come atto di nascita di un componimento. Qualsiasi pubblicazione specialistica sulla Sonata op. 22 di Schumann, per esempio, affermerà che l’Andantino è del giugno 1830. La data autografa di Schumann – poi ripresa nelle edizioni di sua moglie Clara – è apposta negli Skizzenbücher conservati a Bonn sotto un brevissimo Papillotte: montaggio di poche misure divenute in seguito il tema e la coda dell’Andantino; la cui stesura completa in forma di variazioni è invece contemporanea allo Scherzo e al Finale della Sonata, giugno 1833. Per quel che riguarda la mélancolique, la nuova ipotesi è una gestazione significativamente lunga. Dapprima assistiamo alla comparsa di un motivo “moderno”, in tono con l’arte e la letteratura più attuale. Scelgo più o meno a caso, per evocare lo spirito di quella stagione, la pittura visionaria di Johann Heinrich Füssli, Philipp Otto Runge, William Turner, Caspar David Friedrich; Dei Sepolcri di Foscolo è del 1806, Der Prinz von Homburg di Kleist del 1810, la pubblicazione del Childe Harold’s Pilgrimage di Byron inizia nel 1812, Queen Mab di Shelley è del 1813, e del 1814 sono i Fantasiestücke in Callots Manier che segnano l’inizio della produzione letteraria di E.T.A. Hoffmann. Per inusitata che fosse l’atmosfera di questa melodia tematica, richiedeva ora uno sviluppo adeguato, altrettanto “moderno” (si legga: romantico, svincolato dai modelli beethoveniani); ma in effetti – visti i precedenti qui elencati – a vent’anni Moscheles non aveva affatto gli strumenti per affrontare il compito. Li forgia di lì a poco, dopo che Beethoven ha pubblicato le Sonate op. 101 (1817) e op. 106 (1819), Hummel la Sonata op. 81 (1819) e soprattutto Weber, nel 1816 e 1817, la seconda e terza Sonata, op. 39 e op. 49, vertici Codice 602

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del primo Romanticismo. Alla luce di questi elementi, una datazione al 1819/1820 sembra ragionevole: toglie alla mélancolique la patina di mistero, di eccezionalità storica all’origine di potenziali fraintendimenti; non ultima una disposizione interpretativa caliginosa, affettata, da tardo graveyard poet, di sicuro escludibile se il brano è stato composto al tempo del noviziato musicale dei Romantici maturi. Secondo lo scenario prospettato, la Sonate mélancolique prende forma alla fine del periodo viennese di Moscheles, contraddistinto dalle lunghe tournées pianistiche e dall’amicizia con Beethoven. Ed è alla pratica concertistica – non a un chimerico predecessore – che dobbiamo la scelta di racchiudere l’ispirazione in un solo movimento. La consuetudine nei primi anni dell’Ottocento, ereditata dal secolo precedente, permetteva una certa disinvoltura nel trattare le parti di una sonata, eseguendole anche separate; licenza non per forza estranea alla volontà del compositore, basti pensare a quelle di Clementi, spesso assemblate con sezioni nate disgiunte, in momenti diversi, e accomunate appena appena dai rapporti tonali: una delle fondamentali debolezze di questo mirabile artista, dovuta appunto al fatto che il più delle volte non immaginava doversi filologicamente eseguire l’intero brano, ma che si scegliesse fior da fiore. Assumiamo che a Moscheles non fosse estranea tale soluzione, e magari la applicasse persino a grandi capolavori, com’era divenuta prassi. Quando – mi si perdoni la romanzesca ricostruzione – si trovò nella necessità di accostare a un entusiasmante Allegro con passione una successione di movimenti altrettanto riusciti, preferì desistere, fece ricorso all’esperienza dell’esecutore e concluse la composizione al suo emozionante culmine: decisione ispirata e anzitutto accorta, inaspettatamente destinata a dischiudere una grande tradizione. Né si esaurisce qui l’eccezionalità del pezzo: se pure fosse stato portato a compimento un lavoro in più parti, la mélancolique si conferma uno dei più bei primi movimenti di sonata realizzato da un autore “minore” classico; superiore, a mio avviso, alle migliori prove di Dussek, Hummel, Ries, o dei più giovani Jan Václav Vorisek, Ludwig Schuncke, Norbert Burgmüller. Soltanto le due Sonate op. 3 di George Frederick Pinto (1803) possono misurarsi con l’avvincente tensione di queste pagine, presentando altrettanto ingegno nell’evocazione di timbri orchestrali ottenuti con sobri espedienti pianistici. Uno dei maggiori pregi della sonata di Moscheles è il magistrale equilibrio fra la semplicità dei mezzi che garantiscono la coesione del discorso, e la spedita mutevolezza delle elaborazioni. Uno sguardo all’Esposizione ci rivela una traccia che all’occorrenza non ricusa d’essere schematica, ma vivificata dalla ponderata libertà di espansione dei temi. Il bel soggetto iniziale si esaurisce in otto misure. È il segnale di discontinuità tra lo spunto del 1814 e la presente sistemazione, a lungo rinviata. L’andamento melodico potrebbe svolgersi estesamente (e chissà che non fosse previsto a tal modo); invece, dopo l’interruzione, quel che procede si basa su un 58


Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles

elemento diverso che solo all’apparenza richiama la cellula iniziale, ed è pretesto per un serrato susseguirsi di magnifici effetti timbrici. Anche il breve richiamo che funge da secondo tema, e deriva velatamente dal primo, si presterebbe alla formazione di vaste frasi romantiche. Al contrario, viene reiterato otto volte con disposizioni armoniche sempre variabili; e proprio in questo suo incedere ripetitivo si precisa una tipologia di remota fanfara di gusto sinfonico. Nessun rischio di eccessiva fissità, grazie a un ricco germogliare di figure d’accompagnamento in cui si esprime, con somma discrezione, l’accesa fantasia del compositore. Sono fregi estranei al manierismo – Moscheles ha imparato bene la lezione dei grandi classici – né scadono in mera consuetudine, com’è purtroppo di tanti splendidi lavori minori del tempo: si veda il pianismo di Ries, nel quale spettacolari traiettorie armoniche ci farebbero trattenere il fiato se non posassero su figurazioni tecniche ordinarie, suddivise tra le mani con sconfortante prevedibilità. In questo senso, rispetto a precedenti modelli, persino il passo considerato meno innovativo nella mélancolique, la leggera e affrettata codetta in maggiore che avvia la conclusione dell’Esposizione, introduce una vigorosa esuberanza ritmica che preannuncia la condotta virtuosistica di Mendelssohn e accende lo slancio. Infine un epilogo intimo, placato, nondimeno accorato e sontuosamente polifonico: espediente di rara trepidazione, non sfoggio di abilità, il canone riecheggia in una palpitante effusione melodica, poggiata su solide basi strutturali, come si addice a un irreprensibile – seppur romantico – seguace beethoveniano. Se la schematicità era fin qui servita ad agevolare la comprensione del materiale dispiegato, nello Sviluppo è occasione di un versatile sfoggio di competenze. Il Moscheles pianista, interprete del repertorio classico, non si lascia sfuggire l’opportunità – il piacere – di rendere omaggio a Mozart nel La minore che apre la sezione: la reminiscenza dell’Allegro maestoso nella Sonata KV 310 fa prova di scrittura dotta, autorevole. Un fittissimo crescendo polifonico, dapprima serioso poi emblematicamente sinfonico, si muove verso un contesto di drammaticità beethoveniana: l’intensa progressione armonica che porta alla ripresa non sfigurerebbe nelle ultime sonate del maestro; persino, in analoga posizione, nell’Allegro con brio ed appassionato dell’op. 111, che è un po’ più tarda. E se altrimenti ammettessimo si tratti nient’altro che di sensazioni, queste si provano capaci di confondere e meravigliare senza tregua l’ascolto. Nella Ripresa si manifesta tutta la sagacia, il buonsenso dell’autore. Il ritorno dei gruppi tematici è dimezzato rispetto all’Esposizione; e non è questione solo di abbreviare il tragitto. Il soggetto iniziale e la variazione seguente sono pressoché immutati: illusione rassicurante che dura pochi istanti, d’improvviso interrotta da un’enfatica sospensione armonica. Questa volta il secondo tema è preceduto da un interludio di carattere operistico (di presagio belliniano, se mi si accetta l’anacronismo), un’incantata melodia Codice 602

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di redenzione; scaturita, parrebbe, da un’opéra à sauvetage: alla Lodoïska di Cherubini, o alla sua più recente Faniska, o al Torvaldo e Dorliska di Rossini o, appunto, proprio al Fidelio. Dopo questo fuggevole sogno, il significato della fanfara è trasfigurato: una risposta confortante, brevissimo accenno di quiete; e subito il richiamo si altera in impetuosa, tragica cadenza. Con inattesa rapidità siamo già all’ultima codetta, alla “catastrofe”, nella quale riconosciamo la grande maestria del Moscheles concertista: se la prima, in La maggiore, si librava con tratti di scale uniformi verso gli acuti sfavillanti (non troppo, però, in un pianoforte dell’epoca…), questa in Fa diesis minore indugia piuttosto nella parte centrale della tastiera, più potente. Moscheles asseconda la meno luminosa sonorità con una linea tortuosa, irrequieta, per quanto agevole per la mano, così da permettere al pianista un crescente effetto di bravura. A chi ascolta, forse, scorrono inosservate le differenze: i passaggi si fondono nel ricordo ai precedenti – la ripetizione identica di quattro battute serve infatti a marcare l’illusione – ma l’impressione è ora di febbricitante abbandono, di ispirata, travolgente partecipazione attribuita dal pubblico magari al carisma dell’interprete, e invece tutta contemplata nella costruzione drammatica, progettata con sapienza tra le righe. Il meraviglioso epilogo polifonico, il cui parallelismo con il primo è accuratamente studiato eppure privo d’artificio, in sostanza dissimile nello svolgimento delle involuzioni, sfuma verso i bassi tenebrosi dell’Adagio, eco sommessa di un corale: il Fa diesis maggiore conquistato dopo tante peripezie in un patetico pianissimo, fatal quïete nella quale sopisce lo spirto guerrier dell’artista: davvero uno dei più bei finali del repertorio pianistico, di poco precedente l’incorporeo dissolversi della Sonata op. 109 di Beethoven; e anche questo non è merito marginale. Un’ultima riflessione, sull’indicazione originale di metronomo: 100 alla semiminima puntata. Decifrare oggi le informazioni agli albori del metronomo non è cosa agevole. Soprattutto, siamo fuorviati da una lettura neoclassica novecentesca (imponente – ma la si pretende filologica, e assolutamente non lo è) che esige il rispetto di un’andatura uniforme dalla prima all’ultima nota di un movimento. Tutte le testimonianze d’epoca, al contrario, portano a ritenere che le sezioni venissero modellate su velocità deliberatamente mutevoli, evidenziando così l’evolversi della struttura; ferma restando la generale e giusta condanna di scriteriati arbitrî. Vale per i metronomi di Beethoven, vale per quelli dei suoi allievi. L’indicazione stabilisce allora un limite estremo – di lentezza o di sveltezza. Sebbene non sia questo il luogo dove approfondire l’argomento, tra gli innumerevoli casi giovi a generico esempio quanto segnato per la Sonata op. 54 di Beethoven. A metà degli anni Trenta, nel Tempo d’un Menuetto Moscheles propone un 126 alla semiminima, auspicabile per l’iniziale carattere di danza ma irrealizzabile nelle riprese ridondanti di agili abbellimenti: è da presumersi che queste andassero gradatamente rallentate, l’ampliamento della dimensione 60


Una breve introduzione alla Sonate mélancolique op. 49 di Ignaz Moscheles

ornamentale mantenendo immutata la sensazione del passo, in una sorta di anamorfosi ritmica. Altre volte il metronomo non era inteso per l’attacco: qualche anno prima, Czerny raccomanda nell’Allegretto della stessa sonata un 152 alla semiminima, senz’altro inavvicinabile; perché l’indicazione, seppur posta in apertura, vale in tutta evidenza per la pagina finale, nella quale anzi è imprescindibile. Ora, adattandosi fin dal principio al metronomo della mélancolique, l’Allegro con passione richiesto da Moscheles risulta assai rilassato: un vagheggìo sognante, fievole, senza dubbio melancolico, ma che stenta a sollevarsi fin nei passaggi di preparazione alla coda. Si voglia privilegiare questa lettura elegiaca, sommessa, domata; la s’intenda capace eventualmente di comunicare uno spontaneo fascino romantico; ciò malgrado si finisce per rinunciare sia all’Allegro, sia al con passione. Resto convinto quindi che l’indicazione si addica agli episodi virtuosistici, non all’impeto veemente nell’avvio dell’Esposizione e dello Sviluppo. Meglio muoversi con calcolata programmazione degli effetti entro un lasso che dal 100 segnalato, nec minus ultra, giunga fino a un ragionevole 132. L’alternativa, certo, per sé è opinabile e può apparire inessenziale. Eppure, aggiustata la visuale, qui sta la necessità e validità di ricorrere all’opera di Moscheles per cogliere le sue intenzioni anche in veste d’inestimabile curatore delle sonate di Beethoven. Perché non va trascurato il fatto che le preziose indicazioni tramandateci in ben tre sue edizioni provengano sì da un testimone delle scuole pianistiche di inizio secolo, e da un interprete raffinato che eseguì molti di quei capolavori; ma soprattutto da un allievo che più di chiunque altro seppe esprimere nella propria musica consapevolezza e padronanza di stile, conseguite con l’esperienza personale e con la premurosa osservazione dell’arte del suo grande maestro2.

2 Nel 2016 ho avuto occasione di registrare – in audio e in video – la Sonate mélancolique: il cofanetto, Limenmusic CDVD063C063, rientra nella collana di mie interpretazioni intitolata Percorsi nel recital/Visioni oltre il repertorio. Codice 602

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Urtext, Autografo, Originale: il problema del testo in alcune opere per chitarra di Mario Castelnuovo-Tedesco

di Stefano Campagnolo*

Da quando c’è stato modo, grazie alla meritoria opera di Angelo Gilardino, di disporre del fondo dei manoscritti che furono di Andrés Segovia, sono tornate in luce molte importanti opere che si credevano scomparse, o di cui non si sospettava l’esistenza, arricchendo sensibilmente il repertorio novecentesco della chitarra classica. Si è inoltre fatto accesso a capolavori già noti, spesso veri e propri capisaldi della letteratura per lo strumento, in una inedita versione con importanti divergenze rispetto al testo conosciuto, in versione autografa del compositore1. È stato così possibile penetrare da vicino il metodo di lavoro – già parzialmente intravisto attraverso altre composizioni e gli epistolari di cui si disponeva, come quello fra Segovia e Ponce2 –, che contraddistingueva il maestro spagnolo nel suo rapporto con i musicisti che scrivevano sotto la sua sollecitazione. In sintesi, Segovia disponeva molto liberamente dei testi che venivano per lui predisposti. Gli interventi spaziavano da minime modificazioni volte a rendere scorrevole un

* Stefano Campagnolo, dottore di ricerca in Filologia musicale, è direttore della Biblioteca statale di Cremona. Al suo attivo ha numerose pubblicazioni in ambito nazionale e internazionale sulla musica profana del Cinquecento e del Trecento italiano. È membro del Comitato scientifico del Centro studi dell’Ars nova italiana di Certaldo. 1 Gli inediti e le revisioni di pezzi già noti sono pubblicati in una collana (The Andrés Segovia Archive) curata da Angelo Gilardino per l’editore Bèrben di Ancona a partire dal 2002. A compimento ideale della collana di 32 volumi è stato aggiunto un trentatreesimo numero con una composizione dello stesso Gilardino dedicata a Segovia (Colloquio con Andrés Segovia). Per Andrés Segovia si faccia riferimento ad Angelo Gilardino, Andrés Segovia: l’uomo, l’artista, Milano, Curci, 2012, anche per ulteriori riferimenti bibliografici. 2 The Segovia-Ponce Letters, ed. by Miguel Alcazar, trad. by Peter Segal, Columbus, Editions Orphée, 1989. È particolarmente centrata su tali tematiche e su quelle di questo studio la tesi di dottorato di Dario Leendert Van Grammeren, The Guitar Works of Mario Castelnuovo-Tedesco: Editiorial Principles, Comparative Source Studies and Critical Editions of Selected Works, PhD. Diss., University of Manchester, 2008. Le composizioni analizzate in dettaglio e di cui si propone l’edizione sono: Suite op. 133, Tonadilla (da Greeting Cards, op. 170, n. 5), Serenatella da Tre Preludi Mediterranei op. 176. Codice 602

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passaggio o ad incrementarne la cantabilità – trasporti d’ottava, lievi trasformazioni di figurazioni di accompagnamento, anticipazione di un basso o un accordo a sostegno del canto, eliminazione di raddoppi, disposizione a parti strette, etc. –, o modificarne il colore – introduzione di effetti strumentali e di legature e glissati, suoni armonici, staccati ed étouffée, etc.3 –, in poche parole modificazioni indirizzate, con un armamentario tipico, a piegare la pagina alla così caratteristica maniera di fraseggiare segoviana, una modalità già deducibile dalle sue celebri trascrizioni in relazione al modello di partenza. In alcuni casi però gli interventi si sono spinti apparentemente molto più in là nella manipolazione, giungendo a sopprimere interi passaggi, a modificare armonie e linee melodiche, a eliminare ripetizioni e ritornelli o introducendone di nuovi. Segovia tendeva insomma innegabilmente a impossessarsi delle composizioni scritte per lui, e non è raro il caso in cui, tenendole in repertorio per lungo tempo, introducesse in diversi momenti piccole variazioni rispetto al testo edito, come dimostra ad esempio uno dei pezzi favoriti quale la Sonatina (1923) di Federico Moreno Torroba (18911982), più volte incisa negli anni e di cui esistono molteplici riprese video4. Trattandosi di musica di contemporanei, una tale prassi chiama in causa la relazione compositore-esecutore, e la scoperta dei testi cosiddetti ‘originali’, i testi cioè che Segovia ha utilizzato per le sue revisioni strumentali, impone allo studioso, all’editore e anche al semplice concertista, di chiarire la natura e il rapporto che intercorre fra questi testimoni e l’edizione, o le edizioni, a stampa, definendone lo statuto autoriale, collocandoli in una prospettiva ecdotica e facendo una scelta critica. 3 Un esempio eclatante di tali modificazioni ‘coloristiche’ è dato dal Fandanguillo, op. 36 (1926) di Joaquin Turina (1882-1949): il manoscritto autografo (conservato presso la Fundación Juan March) è privo di tutti gli effetti strumentali, dalla tambora al rasgueado, che rendono il pezzo tanto caratteristico. 4 Tale disinvoltura nei confronti del testo era considerata accettabile in un’epoca in cui si producevano pastiche sotto nomi fittizi, in cui si mescolavano liberamente movimenti di diverse composizioni, anche pezzi di secoli passati e parti scritte nel Novecento, senza tema di anacronismi. Una simile mancanza di sensibilità ‘filologica’ era perlopiù comune a tutti i grandi esecutori e direttori a quel tempo, con rare lodevoli eccezioni, ma nell’ambito chitarristico è rimasta in vita ben oltre gli anni ’70, e talune pratiche sopravvivono ancor oggi. Ho assistito personalmente pochi anni or sono alla master class di uno dei più celebrati interpreti contemporanei in cui il Maestro spiegava all’allievo, a proposito del Concerto op. 30 di Mauro Giuliani (1781-1829), che “ci sono due versioni di tale concerto, una più lunga dell’altra”, ma che la sua preferenza andava senza dubbio alla più breve: come noto, esiste una sola versione con orchestra del Grand Concerto in la maggiore, con archi e fiati, capolavoro assoluto del repertorio della chitarra, mentre quella cui faceva riferimento il Maestro non è che la versione mutila e con i soli archi e una parte di timpani aggiunta che si deve a Romolo Ferrari (1894-1959) e al compositore Ennio Porrino (1910-1959), in cui l’intera sezione dello sviluppo sonatistico del primo movimento, circa tre minuti di musica, è stata soppressa (cfr. Massimo Agostinelli, Le composizioni dell’Ottocento nel Fondo Ferrari, in Romolo Ferrari e la chitarra in Italia nella prima metà del Novecento, a c. di Simona Boni, Modena, Mucchi, 2009, pp. 81-94: 82-84). Sarebbe quasi a dire che Maurizio Pollini abbia affermato di preferire all’originale una delle tante versioni semplificate del Notturno op. 9, n. 2 di Chopin.

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Le versioni autografe del compositore prima dell’intervento segoviano sono più vicine alla volontà dell’autore? Le modificazioni introdotte da Segovia sono quindi da considerarsi arbitrarie e superate dal nuovo testo recuperato? È giusto attribuire alle versioni dei compositori la qualifica di ‘originali’? Per dirimere tali questioni possiamo contare spesso su documenti che contribuiscono a stabilire il rapporto fra i testimoni, nonché sui dati biografici dei protagonisti e qualsiasi altra notizia utile, oltre allo strumentario classico della filologia del testo. Lo studio delle musiche di uno dei musicisti preferiti da Segovia, Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968)5, è particolarmente stimolante in tal senso e adeguato a stabilire delle direttrici metodologiche, e in specie si dimostra adatta una delle opere maggiori per chitarra sola, il Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini), op. 85. *** Le opere per chitarra di Castelnuovo-Tedesco sono senza dubbio «il contributo più cospicuo dato da un musicista del Novecento alla letteratura6» 5 Gli studi su Mario Castelnuovo-Tedesco, su cui hanno pesato gli orientamenti ‘adorniani’ della critica novecentesca, come su tutti i compositori che hanno continuato a scrivere musica tonale, hanno ricevuto un importante contributo con la pubblicazione della sua autobiografia, scritta fra il 1952 e il 1955 e ritoccata fino al 1966, che l’autore cercò vanamente a più riprese di pubblicare in vita: Mario Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica: un libro di ricordi, a c. di James Westby, intr. di Mila De Santis, Fiesole, Cadmo, 2005. All’autobiografia bisognerebbe aggiungere i vari e numerosi epistolari in archivi privati e pubblici e il fondo principale dei manoscritti di Castelnuovo-Tedesco depositato presso la Library of Congress (una descrizione e un indice sono recuperabili a questo URL: http://infomotions.com/ sandbox/liam/pages/httphdllocgovlocmusiceadmusmu010012.html) in via di dissodamento. Gli studi su Castelnuovo-Tedesco possono contare su una datata monografia collegata alla chitarra: Corazon Otero, Mario Castelnuovo Tedesco su vida y su obra para guitarra, Lomas de Bezares (Mex.), Ediciones Musicales Yolotl, 1987 (in ed. inglese: Mario Castelnuovo-Tedesco: his Life and Works for the Guitar, Newcastle, Ashley Mark, 1999) e sulle voci biografiche dei principali dizionari, musicologici e non solo. Per fortuna sono disponibili due studi critici accurati: quello di Alberto Compagno, Gli anni fiorentini di Mario Castelnuovo-Tedesco: 1895-1939, s.n., 2000, rielaborazione di una tesi di laurea (Università degli studi di Firenze, 1995), che ha l’unico limite, programmatico, di arrestarsi al periodo italiano; e l’ottimo Cosimo Malorgio, Censure di un musicista: la vicenda artistica e umana di Mario Castelnuovo-Tedesco, Torino, Paravia, 2001. Un utile compendio recente, con ulteriore bibliografia, è il medaglione di Roberto Brusotti, Ritratti critici di contemporanei: Mario Castelnuovo-Tedesco, «Belfagor», LXVII/4 (2012), pp. 403-421. Numerosi gli articoli apparsi sulle riviste del settore chitarristico (Il Fronimo, Soundboard, Guitart, Seicorde), fra i quali si segnala particolarmente il ciclo di Lorenzo Micheli, Mario Castelnuovo-Tedesco: Una vita di musica. Nuovi approfondimenti biografici e storia di Morning in Iowa op. 158, «Il Fronimo», XXXV/137-XXXVI/142 (2007-2008), pp. 33-42; 20-27; 1524; 41-50; 13-22; 33-51, di fatto una piccola monografia in sei puntate in cui si ripercorre, autobiografia alla mano, l’intera vicenda biografica e artistica di Castelnuovo-Tedesco con particolare riguardo alle composizioni chitarristiche. Numerosissimi i lavori accademici perlopiù americani reperibili facilmente in Internet. È in preparazione, a opera di Angelo Gilardino, una nuova biografia del compositore. 6 Malorgio, Censure di un musicista, cit., p. 3. Castelnuovo-Tedesco, Manuel M. Ponce e Joaquin Rodrigo sono i tre, fra i ‘maggiori’ compositori del ’900, nella cui produzione musicale la chitarra ha avuto il peso più rilevante. Codice 602

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per lo strumento. Tanto quanto il compositore fiorentino è considerato un conservatore nel linguaggio, è stato invece un innovatore nei confronti della chitarra, inserendola negli ensemble strumentali e vocali più singolari e in opere di largo respiro, non cessando mai di utilizzarla per farne campo di sperimentazione anche linguistica. Da tanta dedizione ha ricavato la sopravvivenza all’oblio cui la critica novecentesca l’aveva condannato, poiché le opere per chitarra non hanno mai cessato di incontrare il favore dei concertisti e vengono tuttora programmate con crescente interesse. L’intera opera chitarristica di Castelnuovo-Tedesco è legata a Segovia, ma in un certo senso ne prescinde: per quanto la maggior parte delle composizioni siano state il frutto di richieste e sollecitazioni dello spagnolo, solo le opere scritte anteguerra e poche altre entrarono stabilmente nel repertorio del grande chitarrista, con esecuzioni ed incisioni; molte altre furono da Segovia ‘concesse’ ad altri allievi e amici, altre nacquero su richiesta di altri concertisti, e altre ancora infine per personale esigenza e scelta del compositore7. Le origini del rapporto fra Segovia e Castelnuovo-Tedesco sono narrate dallo stesso compositore nella sua autobiografia8: si incontrarono a Firenze in case private e Castelnuovo-Tedesco ebbe modo di sentir suonare Segovia in concerto nella stessa città, ma l’incontro che stabilì la collaborazione fra i due avvenne poi al Festival Internazionale di Venezia, nel 1932, dove Segovia si era recato ad accompagnare Manuel de Falla che seguiva l’esecuzione del suo Retable de Maese Pedro, mentre Castelnuovo-Tedesco vi eseguiva il suo primo Quintetto in Fa maggiore op. 69, con il quartetto Poltronieri ed egli stesso al pianoforte. Rafforzata la familiarità nei giorni veneziani, nelle settimane seguenti proseguirono i contatti epistolari a seguito della esplicita richiesta che Segovia aveva rivolto alla moglie di Castelnuovo-Tedesco affinché componesse per lui. In quei tempi, Mario Castelnuovo-Tedesco era pressoché al vertice della propria carriera, vertice che avrebbe toccato nel 1935-36 con l’importante commissione delle musiche di scena per il Savonarola, op. 81 – su libretto di un giornalista, Rino Alessi, che sarebbe stato rappresentato in Piazza della Signoria a Firenze e per il quale pare ci fosse stata l’esplicita scelta di Mussolini in un 7 Tra le opere incise da Segovia, tra quelle composte dopo il 1939, contiamo: Segovia, da Greeting cards op. 170, n. 5, il Quintetto per chitarra e archi op. 143, una parte del Platero y yo per narratore e chitarra op. 190; tra quelle suonate in concerto: il Rondò, op. 129, la Suite op. 133, la Fantasia per chitarra e pianoforte op. 145. Dopo Segovia, il maggior interprete di musiche di Castelnuovo-Tedesco, in termini di prime esecuzioni, è stato Siegfried Behrend. Il Secondo Concerto in Do maggiore per chitarra e orchestra op. 160 fu eseguito da Christopher Parkening su suggerimento di Segovia. Le opere per due chitarre sono invece nate per il duo Presti-Lagoya; gli incompiuti Appunti op. 210, per Ruggero Chiesa; le Greeting cards per i vari dedicatari. Sono da considerarsi invece più schiettamente legati al compositore i grandi cicli vocali implicanti la chitarra, dal Romancero gitano, op. 152 (con il coro), a Die Vogelweide, op. 186, a The Divan of Moses-Ibn-Ezra, op. 207, allo stesso Platero y yo. Si tenga poi in conto, a testimoniare il ruolo avuto dallo strumento nell’opera di Castelnuovo-Tedesco, che alcune Greeting Cards per chitarra sono dedicate a non chitarristi. 8 Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., pp. 261-266.

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elenco di musicisti comprendente Zandonai e Respighi, probabilmente a causa della fiorentinità del compositore e, in relazione al soggetto della pièce, delle sue origini ebraiche9 – e de I giganti della montagna, op. 95, di Luigi Pirandello10. Era quindi perfettamente inserito e organico alla vita culturale nazionale e internazionale ed era stato uno degli autori italiani maggiormente eseguiti all’estero negli anni ’20, grazie ad Alfredo Casella, suo grande estimatore, e alla sua Società Italiana di Musica Moderna11. Già in relazione o in procinto di entrarvi con alcuni dei principali interpreti del sempre più sviluppato star system (inteso nell’accezione più moderna) della musica mondiale – quali il violinista Jascha Heitfetz, il pianista Walter Gieseking, il violoncellista Gregor Piatigorsky, i direttori Sergei Koussevitzky, Arturo Toscanini, John Barbirolli –, era normale che Castelnuovo-Tedesco aggiungesse ai collaboratori un altro protagonista di tale firmamento (che vi si era intruso con uno strumento inusuale in forza di eccezionali capacità), cioè il chitarrista Andrés Segovia. Tra il 1932 e il 1939 il rapporto fra Segovia e Castelnuovo-Tedesco si concretizzò in composizioni di grande importanza: Variazioni ‘Attraverso i secoli’, op. 71, 1932, Sonata ‘Omaggio a Boccherini’, op. 77, 1934, Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini), op. 85, 1935, Tarantella, op. 87/1, 1936, culminando nel Concerto in re maggiore, per chitarra e orchestra, op. 99, 193912. 9 Cfr. ibid., pp. 273-278. 10 L’esecuzione al Maggio fiorentino in forma di concerto delle musiche preparate per Pirandello (che era nel frattempo scomparso) «fu un successo trionfale, il più grande forse che io abbia avuto a Firenze», (Ibid., pp. 286-291: 290). 11 Rispetto ai precocissimi esordi, la critica cominciava a rimproverargli una certa qual involuzione stilistica e di aver in un certo senso tradito le speranze che molti, come Guido M. Gatti, riponevano in lui per il futuro della musica italiana. Non c’è dubbio che ci sia una modificazione dello stile di Mario Castelnuovo-Tedesco dalle opere giovanili degli anni Dieci-Venti – come i pianistici Questo fu il carro della Morte op. 2 (1913), Il Raggio verde op. 9 (1916), o Cipressi op. 17 (1920) –, alla produzione degli anni Trenta. La produzione anteriore, quella maggiormente influenzata da Ravel e gli impressionisti, suona in un certo senso più moderna di tutto ciò che ha scritto successivamente: «(…) uno dei problemi aperti, per il giorno in cui la musicologia riterrà opportuno aprire un dibattito serio e circostanziato su Castelnuovo-Tedesco, è proprio quello sul rapporto tra gli esordi del compositore e la sua “maniera” matura, e se abbia senso nel suo caso parlare in termini di involuzione/evoluzione» (Brusotti, Ritratti critici, cit., p. 411). Quest’ultima osservazione di Brusotti rappresenta certamente un interessante campo d’indagine per chi si interessi di musica italiana novecentesca, poiché ho l’impressione che una tale involuzione/evoluzione riguardi non solo il nostro fiorentino. 12 A testimoniare precocemente il ruolo che lo strumento avrebbe assunto nella poetica di Castelnuovo-Tedesco a prescindere dal rapporto con il chitarrista spagnolo, un pezzo d’occasione nato non per Segovia (anche se ne fece poi la diteggiatura per la pubblicazione, ma senza mai suonarlo), ma per il chitarrista dilettante e poi editore musicale Aldo Bruzzichelli (19081982), Aranci in fiore, op. 87/2, del 1936. Nel 1937 inoltre vide la luce, ancora per Segovia, un altro gruppo di variazioni concluse da una fuga Variazions Plaisantes sur un petit aire populaire ‘J’ai du bon tabac’, op. 95, pubblicate solo molti anni più tardi (Ancona, Bèrben, 1969, con la revisione di Angelo Gilardino). Le circostanze in cui sono state concepite queste composizioni sono narrate in Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., rispettivamente a pp. 278-280 e p. 264. Codice 602

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Secondo uno schema consolidato, per mostrare al compositore le possibilità tecniche della chitarra, Segovia inviò inizialmente un paio di pezzi del suo repertorio: uno dei suoi cavalli di battaglia, le Variazioni su un tema di Mozart, op. 9 di Fernando Sor e un’altra delle sue preferite, le Variazioni e Fuga sul tema della Follia di Spagna, op. 45 di Manuel M. Ponce, che aveva appena parzialmente inciso su disco. L’invio portò alla creazione delle Variazioni op. 7113. Il metodo di lavoro inaugurato con le Variazioni e che si sarebbe replicato per le altre composizioni, è così sintetizzato da Angelo Gilardino e Luigi Biscaldi: Non essendo istruito sulla tecnica della chitarra, Castelnuovo-Tedesco confidava nell’aiuto che Segovia gli offriva per mettere a punto le sue composizioni chitarristiche. Dalla corrispondenza tra i due maestri riguardo le Variazioni del 1932 e la Sonata del 1934 apprendiamo quale fosse il loro modus operandi: l’autore realizzava una stesura “ideale” dell’opera e la inviava a Segovia, il quale gliela rimandava corretta. Su questa seconda versione aveva luogo un’ulteriore messa a punto del testo, processo che comportava uno scambio di lettere e di fogli di musica, con confronti tra diverse possibilità. La successiva pubblicazione era basata non sul manoscritto dell’autore, ma su quello che Segovia realizzava di proprio pugno, e che veniva inviato all’editore14.

Nel 1934 arrivò l’impegnativa Sonata ‘Omaggio a Boccherini’ 15, e l’anno successivo, per completare il pantheon dei grandi nomi della storia della 13 «Gli scrissi: “[...] Sarei molto felice di scriver qualche cosa per Lei [...], ma devo confessarLe che non conosco il Suo strumento, e che non ho la più vaga idea di come si scriva per Chitarra!”. Allora Segovia, rispondendomi, mi mandò un fogliettino in cui era segnata l’accordatura della Chitarra, e due pezzi (le classiche Variazioni di Sor, sopra un tema di Mozart, e le Variazioni di Manuel Ponce sul tema de “La Folía de España” [...]; tanto per mostrarmi (mi disse) quali fossero le maggiori difficoltà tecniche che si potevano affrontare sulla Chitarra. Con questi ‘precedenti’ mi misi al lavoro; e, poiché mi erano stati dati per ‘modelli’ due gruppi di Variazioni, pensai di fare qualche cosa del genere anch’io; ma con uno schema un po’ diverso, che intitolai Variazioni attraverso i secoli (e che era del resto simile a quello da me già usato nelle Variazioni Sinfoniche per violino e orchestra); trattai quindi la chitarra prima alla maniera del liuto (com’era stata ai tempi di Bach) con una Chaconne e Preludio, poi alla maniera romantica (com’era stata ai tempi di Schubert) con tre Walzer, e infine alla maniera moderna (tipo jazz), con un Fox-Trot. Quando finii il primo gruppo di Variazioni (quello, diciamo, alla Bach) lo mandai a Segovia per sapere se era eseguibile!, ma (poiché generalmente, quando lavoro, scrivo con molta rapidità) mentre aspettavo la risposta, completai tutto il pezzo. Giunse la risposta di Segovia, che mi diceva che quel che gli avevo mandato andava bene; sicché gli spedii subito il pezzo completo, con grande meraviglia di Segovia, il quale mi scrisse: «È la prima volta che trovo un musicista che capisce immediatamente come si scriva per la Chitarra!». Difatti cambiò in tutto il pezzo, credo, tre o quattro accordi, e lo eseguì in tutti i suoi concerti di quella stagione.» (Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., p. 262). 14 Mario Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione fondata sui manoscritti originali a cura di Angelo Gilardino e Luigi Biscaldi, Milano, BMG Ricordi, 2006, p. 5. 15 La cui vicenda compositiva insieme a un facsimile del manoscritto dell’Archivio Segovia di Linares è esposta nell’introduzione a Id., Sonata (Omaggio a Boccherini), a cura di Angelo Gilardino, Luigi Biscaldi, Lorenzo Micheli, Ancona, Bèrben, 2007.

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musica che tangenzialmente avevano incontrato la chitarra, Segovia chiese un capriccio ispirato a Paganini. Nacque così il Capriccio diabolico, e il momento è descritto in questo modo nelle memorie di Castelnuovo-Tedesco: L’anno seguente (1935) Segovia tornò alla carica, e questa volta con un nuovo suggerimento: «Ma anche Paganini era un grande ammiratore della chitarra! Perché non scrivi un “Omaggio a Paganini”?». Questa volta mi ci misi (se è possibile) anche con maggiore impegno, e scrissi il Capriccio diabolico, un lungo e intricatissimo pezzo, di vero virtuosismo; Segovia ne fu addirittura entusiasta, a tal punto che, venti giorni dopo averlo ricevuto, lo suonò in concerto a Londra: mi scrisse poi di non aver mai studiato nessun pezzo con tanta passione e in così breve tempo16.

La composizione è un notevole tour de force per l’interprete: di struttura libera, è basata su due temi principali variamente rielaborati (in forma di variazione, piuttosto che sonatistica, anche se non manca un solido impianto di correlazione tonale) che sono ricapitolati e fusi in conclusione; inoltre, come sempre nella musica di Castelnuovo-Tedesco, sono rielaborati anche degli spunti che, pur non assurgendo al livello di tema, assumono una grande importanza nel tessuto connettivo del pezzo17. Al di là dell’esplicita citazione paganiniana presente alla fine18, ad essere evocato è soprattutto il Paganini cantabile, creatore di melodie indimenticabili, più 16 Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., p. 263. 17 Castelnuovo-Tedesco distingueva molto nettamente i concetti di tema e melodia: il tema è una cellula che in sé si presta a essere sviluppata e può diventare motore generatore della composizione; la melodia è in sé compiuta: nulla si può togliere né aggiungere e tuttalpiù si presta alla variazione. Musica, per Castelnuovo-Tedesco, significava sempre espressione (questo insegnava ai suoi allievi), nella convinzione che tutto può essere espresso con la musica: un’impressione, un paesaggio, un libro, che il musicista traduceva in quelli che chiamava ‘simboli’, idee musicali connotate da significato testuale. Per questo, per comprendere appieno la sua musica, è fondamentale la musica vocale, per voce e strumento, centrale nella sua opera, un po’ perché i riferimenti extramusicali sono evidenti e forniscono una immediata chiave di lettura, e un po’ perché è tutta la sua concezione della composizione musicale a ruotare intorno a un ‘paratesto’, esplicito o mascherato che sia, che a volte può configurarsi come un semplice problema tecnico-musicale, ma che può sempre essere riportato a una base filosofica, a una idea extramusicale. Egli stesso in un articolo del 1944 (Mario Castelnuovo-Tedesco, Music and Poetry. Problems of a Songwriter, «The Musical Quarterly», XXX/ 1, (1944), pp. 102-111) chiarifica questa concezione. Anche gli strumenti possiedono una natura propria e un proprio spiccato carattere. Per la chitarra, credo Castelnuovo-Tedesco avesse mutuato la concezione segoviana della chitarra come ‘piccola orchestra’ (da cui la difficoltà concettuale di scrivere per chitarra e orchestra, oltre quella determinata dal debole suono dello strumento) in cui si alternano una molteplicità di suoni e perciò di ‘strumenti’ diversi che sono da scegliersi in base al carattere della musica. È anche per questo che le composizioni di CastelnuovoTedesco – vale in generale, ma lo si vede bene nella musica per chitarra –, sono così ricche di indicazioni espressive, in qualche caso singolari e inusitate. 18 Il tema de ‘La Campanella’, cfr. oltre. Potrebbero essere frutto di letterale citazione da Paganini anche gli spunti delle battute 192-199, ma non sono riuscito a trovare concordanze al proposito: certo, i rapidi arpeggi e le veloci scale discendenti che seguono, alternandosi, corrispondono a un cliché paganiniano. Codice 602

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che il virtuoso. Nell’interpretazione segoviana è proprio questo aspetto che veniva esaltato, ma ciò non toglie che il pezzo sia irto di difficoltà e tenda ad esaurire le risorse tecniche dello strumento, ponendosi, all’epoca, ai limiti dell’eseguibilità per i chitarristi. Segovia non amava l’attributo di ‘diabolico’ del titolo (come aveva evidenziato qualche recensore dei suoi concerti, il ‘diavolo’ evocato appariva piuttosto ‘benigno’)19, ma molti interpreti moderni sono riusciti a rendere davvero ‘indiavolata’ l’esecuzione, scendendo parecchio sotto i nove minuti complessivi di durata. Dieci anni dopo la composizione, nel 1945, l’autore realizzò una versione per chitarra e orchestra (op. 85/2) del Capriccio diabolico, rimasta inedita ed eseguita la prima volta solo nel 199520. *** Fino a quindici anni fa del testo del Capriccio non si conosceva che l’edizione Ricordi del 1939 [da adesso siglata Ricordi 1939], n. lastra 124371, che non mi risulta sia mai stata reincisa successivamente, ma nel dicembre del 2002 presso Sotheby’s di Londra è stato messo all’incanto un folto gruppo di cimeli segoviani, comprendenti due chitarre e numerosi manoscritti e abbozzi con opere di Manuel M. Ponce (il Concierto del Sur) e autografi di Castelnuovo-Tedesco, fra i quali il Capriccio e la Tarantella. Il manoscritto del Capriccio è stato acquistato dalla Yale University Library, dove è attualmente conservato con segnatura Misc. Ms. 517 [da adesso Yale 517]21. Il manoscritto Yale 517, di 11 carte – cinque bifogli completi, con il primo non numerato che fa da cartellina con il solo frontespizio22 e quelli interni numerati da 2 a 16 con numerazione originale ad inchiostro (non numerata la prima pagina), più un’altra carta non numerata –, definito nella descrizione d’asta «a working manuscript», è autografo di CastelnuovoTedesco, ma sono visibili diverse fasi di stesura, e aggiunte di mano di Andrés Segovia; il compositore, come sempre in questi casi, ha scritto in bella copia in inchiostro nero alternando sopra e sotto la musica dei pentagrammi 19 Da una lettera del gennaio 1954 di Segovia a Castelnuovo-Tedesco apprendiamo che la battuta sulla benignità del diavolo ispiratore si doveva a un critico del Times di Londra (cfr. Otero, Mario Castelnuovo-Tedesco: his Life and Works, cit., pp. 92-94). 20 Per la prima esecuzione, cfr. Leendert Van Grammeren, The Guitar Works of Mario CastelnuovoTedesco, cit. p. 242. 21 Cfr. Sotheby’s. Music and Ballet: Including the Papers of Serge Lifar. London, Friday 6 December 2002, London, Sotheby’s, 2002, lotti 160-169: 168. Non so attraverso quali vicissitudini sia passato il manoscritto, ma penso che provenga dall’eredità dello stesso maestro spagnolo e che sia transitato quindi dalla Fondazione Segovia di Linares. Chi si occuperà di fare un’edizione critica del Capriccio diabolico non potrà esimersi dal tracciarne la storia. 22 «Mario Castelnuovo-Tedesco/ Capriccio diabolico/ (Omaggio a Paganini)/ per chitarra/ per Andrés Segovia/ (1935)». Sull’ultima carta con musica, a p. 16, c’è l’explicit con la data cronica e topica di composizione che non necessariamente deve coincidere con la datazione del manoscritto: «Mario/ ‘Il Ginepro’- Castiglioncello/ 19-23 settembre 1935».

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bianchi, che sono stati utilizzati dal compositore stesso con delle versioni alternative di alcune battute a matita (forse in un secondo momento?)23, introdotte dal francese «ou» per oppure24. Gli interventi successivi di Segovia sono chiaramente distinguibili perché fatti con una penna rossa. Sul foglio singolo non numerato si possono leggere tre raccomandazioni generali a matita per Segovia da parte del compositore, in francese, la lingua di corrispondenza dei due: (1) si les octaves repetées ne sont pas possibles, on pout faire les notes repetéees sans octaves ou les octaves sans les notes repetées! (2) si possible, à l’octave haute (3) si possible mais pas necessaire

Le raccomandazioni sono presenti poi in vari punti del pezzo, richiamate dal numero fra parentesi, sempre a matita25. Le aggiunte segoviane sono rappresentate da annotazioni pure in lingua francese, a commento, (spesso di approvazione26, o per sottolineare la difficoltà o l’impossibilità di eseguire un passo)27, e da correzioni del testo, talvolta (piccole cose, perlopiù singole note)28, fatte direttamente sul pentagramma principale o correggendo la versione a matita dell’autore, talaltra utilizzando il pentagramma superiore o inferiore29. 23 L’annotazione di Segovia a p. 5 relativa alle battute 84-85 riferita sia alla versione nel testo principale, sia all’alternativa a matita («ni l’un ni l’autre, seule la voix superior») fa ritenere che tutt’e due le soluzioni siano state presentate insieme dal compositore. 24 Non c’è dubbio che tali lezioni alternative siano autografe di Castelnuovo-Tedesco: lo dimostra l’identità della grafia e particolarmente la tipicissima chiave di violino e il bemolle in chiave. Inoltre, l’annotazione di Segovia di cui alla nota precedente non si spiegherebbe altrimenti. 25 L’indicazione (1) è presente e riferita solo a battuta 1, dove, nel testo autografo, le ottave che caratterizzano il primo tema sono ribattute sia per la nota superiore sia per l’inferiore (Segovia trovò una soluzione intermedia, raddoppiando al basso solo la prima nota delle ottave ribattute): Castelnuovo-Tedesco avrebbe quindi preferito, se tecnicamente possibile, questa soluzione, forse per l’intero pezzo; l’indicazione (2) è presente alle battute 40-41 e 44-45 (ma a testo le note sono all’ottava bassa); la (3) alla battuta 54, ma probabilmente da riferirsi alla lezione alternativa della battuta 53 che prevedeva le note sopracute tutte ribattute e con un diverso profilo melodico. Non è escluso che un’analisi da vicino del manoscritto possa rivelare la presenza di queste indicazioni in altri punti, poiché la matita è scarsamente leggibile. 26 «Très joli», «très bien», «Ici très bien», «Très, très bien», «Tout ceci est toujours bien», «Très bien, et d’un grand effet», «Très bien les deux themes», etc. 27 «Ces volutés sont possibles et jolies dans cette positions d’accords, mais difficiles plus loin», «encore possibles», «Ici seulement la première note d’au bas est possible», «assez difficile déjà», «Plus difficile encore », «même chose», « Si vous doublez la figuration de tout ce trait ce sera peut etre plus brilliant a condition de ne pas monter jusq’au si mais au la», «impossible vivace, lente etre un degre de moins», «possible une 8e au dessus», «trop haut», «même chose pour éviter que la main fasse deux grands sauts», «très difficile», «difficile et par conséquence “le brio” au souffre», «pour prendre l’accord qui suit», «difficile pour augmenter la force», etc. 28 A battuta 4, 106, 195. 29 A battuta 1-2, 119-121, 192, 196. Codice 602

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Il confronto con Ricordi 1939 mostra che nella stampa è stato accolto il testo base con alcune delle battute alternative a matita (tutte quelle ripassate o modificate a penna da Segovia)30. Inoltre, ci sono ulteriori piccole modificazioni (raddoppi, disposizione di qualche accordo cui viene aggiunta o tolta una nota, armonici aggiunti, eliminazione dell’acciaccatura d’ottava nel tema conservata solo nella parte finale del pezzo, etc.) e tre varianti significative. La principale è la soppressione di un’intera sezione: 24 battute contrassegnate dall’indicazione Coda (Alla Marcia) Ritmico che si pongono tra le battute 235 e 236 (Sostenuto)31. In questo punto Segovia aveva annotato: «difficile à cause des accords superieurs», estendendo l’indicazione alle battute 253-259 (Y) della sezione soppressa. La seconda variante significativa è la modifica della sezione in tremolo, che si presenta in Yale 517 in 4/4, in semicrome, con le note inferiori come crome inframmezzate da pause di croma, e in Ricordi 1939 in 2/4, in biscrome, con le note inferiori senza pause: differenza più per l’occhio che per l’ascolto, in quanto la velocità della scansione della sezione può o meno renderle equivalenti. Oltre al profilo ritmico, è stato modificato però anche quello armonico, con una percepibile alterazione, della maggior parte di questa sezione (Malinconico ma piuttosto mosso, battute 168-191), e che ha implicato il cambiamento anche delle battute di congiunzione colla sezione precedente. Il passo pone una questione di non facile lettura: nella prima delle due pagine occupate dalla sezione, lungo il bordo esterno della p. 10, Segovia scrive: «Cette periode est très bien. Seulement, est ce dommage que la basse ne soit pas une note a vide, peut etre/ [cancellato: en Mi mineur ou] au La mineur… Mais!…». Sotto, nel pentagramma libero, invece del Sol che fa da pedale nella prima parte della sezione (che è in Sol minore), e deve per forza di cose essere tastato sulla sesta corda, è annotato, a matita e ripetuto per tutte le battute interessate, il Re su corde a vuoto (la IV la prima volta e la VI poi) che si ritroverà nella stampa. Se attribuissimo a Segovia questo Re, si tratterebbe dell’unica occasione in cui sarebbe intervenuto a matita sul testo, prerogativa invece del compositore, cui potrebbe anche in questo caso essere dovuta la soluzione al problema tecnico posto dal chitarrista (che avrebbe preferito una corda a vuoto), che peraltro pensava, a giudicare da quanto scritto, a una improbabile soluzione modulante in Mi minore o La minore. La terza macrovariante è nel finale: Yale 517 riporta alla battuta 276 [252 R] un Mi sul cantino al XII tasto, con acciaccatura iniziale all’ottava sotto, ribattuto in quartine di semicrome per tre misure di 2/4 con indicazione 30 Quelle poi accolte sono state rimarcate e a volte modificate da Segovia a penna rossa. Le lezioni rigettate sono alle battute n. 53, 114-115, 118-119, 231-235, cfr. inoltre la nota seguente; le lezioni accolte ma modificate sono alle battute n. 76, 81, 84-85, 88-91; quelle accolte nella stampa senza modificazioni sono le battute n. 77, 80, 86-87, 92-99. 31 Da adesso si dà doppia numerazione per la parte finale: la numerazione di Ricordi 1939 viene contraddistinta dalla R, quella di Yale 517 dalla Y. Anche la Coda ha delle battute alternative autografe: 241-243 Y.

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dinamica da ff a p e relative forcelle. Inoltre, sopra al pentagramma, come fosse una indicazione espressiva, è scritto: «La Campanella!... lungo ad libitum»�, volendo evocare, in conclusione all’omaggio, il tema omonimo del celebre rondò conclusivo del secondo concerto op. 7 in si minore per violino e orchestra di Paganini. Nello stesso punto Segovia ha aggiunto: «Ñ’aimeriez-vous pas rendre l’apparition de ce theme plus concrete?». A diretto riscontro di questa richiesta segoviana, in Ricordi 1939 compare una esplicita esposizione del tema paganiniano, in semicrome ribattute a terzine in sei battute di 3/8, che conduce alla subitanea cadenza conclusiva. *** A giudicare dal testo edito e dalla sommaria descrizione della fonte, Yale 517 dovrebbe essere il testimone che è stato utilizzato per la nuova edizione moderna del Capriccio ‘fondata sul manoscritto originale’ a cura di Gilardino e Biscaldi32, per quanto gli editori dichiarino di essersi rifatti a un manoscritto presente presso la Fondazione Segovia di Linares, ma si tratta certamente della copia eliografica proprio di Yale 51733. L’edizione Gilardino-Biscaldi appartiene al genere Urtext34, ovverosia, etimologicamente parlando, a una revisione condotta sul ‘testo originario’. Un’edizione pratica, adatta all’esecuzione in quanto provvista di diteggiatura e ogni altra indicazione utile a tal proposito, ma affatto sprovvista di apparato critico e della possibilità di poter ricorrere al facsimile del testo edito, come invece avviene nelle belle edizioni Bèrben dell’Archivio Segovia. 32 Cfr. nota precedente. 33 «Presso la Fondazione Segovia di Linares (la città natale del grande chitarrista), sono conservati alcuni manoscritti musicali di Castelnuovo-Tedesco, in originale o in copia eliografica. Tra essi, quello del Capriccio diabolico (…)», Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 5. Per la Tarantella più oltre si parla esplicitamente di ‘copia del manoscritto originale’. 34 Si faccia riferimento per la definizione a Maria Caraci Vela, La filologia musicale. Istituzioni, storia, strumenti critici, 3vv., v. I: Fondamenti storici e metodologici della Filologia musicale, Lucca, LIM, 2005. Ecco parte del capitolo dedicato all’edizione Urtext: «Questo tipo di edizione non ha veri riscontri fuori dall’ambito musicologico. Urtext è parola tedesca che vuol dire testo originario, ma proprio per questo è un termine quanto mai confuso. Come tale potrebbe infatti essere inteso un testimone d’autore (autografo, stampa autorizzata), ma di fatto l’Urtext non è quasi mai questo; oppure un testo ricostruito criticamente, ovvero una edizione critica (che almeno idealmente si avvicina a un ipotetico ‘originale’ o ad un archetipo), ma Urtext non è propriamente neppure questo. Questa tipologia di edizione nasce all’inizio dell’Ottocento come diplomatica di un singolo testimone d’epoca correlato da indicazioni utili alla prassi. Il termine ha poi finito per applicarsi a edizioni musicali molto diverse fra loro, che vanno da diplomatico-interpretative di testimoni cronologicamente o geograficamente vicini all’autore, a edizioni didattiche o addirittura a ristampe di edizioni pratiche tardo-ottocentesche, fino ad edizioni basate sul confronto fra più testimoni (condotto spesso in forma selettiva e non sistematica con ciò assumendo su di sé le peggiori contraddizioni e goffaggini che affliggono la filologia musicale). Nella migliore delle ipotesi una edizione Urtext è quindi una diplomatico interpretativa ben fatta; più spesso si rivela nient’altro che una edizione pratica, o un’edizione con pretese scientifiche ma condotta con metodo eclettico; in qualche caso coincide con un’edizione critica a tutti gli effetti.» (p. 177). Codice 602

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Ricostruendo il lavoro fatto dagli editori si può dire che si attengano da vicino al testo ‘principale’, cioè quello in inchiostro nero, adottando soluzioni originali nei casi di impossibilità tecnica di esecuzione, talvolta coincidenti con quelle segoviane, in rarissimi casi deviando dal manoscritto senza ragione apparente35. Vengono ignorate del tutto le lezioni alternative dello stesso Castelnuovo-Tedesco che non sono state riconosciute come autografe nel caso del Capriccio36. In un convegno del 2004, infatti, Gilardino affermava: Il compositore scrisse il testo primario con la consueta maestria compositiva: ogni dettaglio vi è rifinito alla perfezione. Tale testo fu però oggetto, da parte di Segovia, di numerose e rilevanti correzioni e di una drastica abbreviazione: ben 24 battute della Coda (da 236 a 259) furono eliminate. Le modifiche di Segovia sono annotate parallelamente al testo originale, come degli “ossia”37.

Evidentemente interpretando le aggiunte a matita come di mano segoviana. In realtà le modifiche al testo in questo manoscritto operate da Segovia sono pochissime: le più rilevanti le troviamo nel passaggio all’edizione a stampa. Gilardino-Biscaldi non hanno tenuto in considerazione neanche le soluzioni che Castelnuovo-Tedesco avrebbe ritenuto preferibili, indicate dalle raccomandazioni numerate poste sulla carta singola38. La domanda di fondo è però questa: perché preferire la stesura di base di Yale 517 rispetto a Ricordi 1939? Può quella essere considerata ‘il testo originale’? L’edizione Ricordi 1939 giunse quattro anni dopo la composizione del Capriccio, per quanto, come racconta lo stesso Castelnuovo-Tedesco, Segovia appena venti giorni dopo aver ricevuto il manoscritto tenne a battesimo il 35 Per quest’ultimo caso, a battuta 52-54, 106, 122, 195. 36 Avrebbero consentito, ad esempio, di adottare una eseguibilissima lezione a battuta 243 Y, nella Coda poi soppressa in Ricordi 1939, invece di correggere quella presente sopprimendo un si ineseguibile sull’ultima croma puntata. Si noti la coerenza di Castelnuovo-Tedesco: nella lezione in inchiostro (si può vedere nell’edizione Gilardino-Biscaldi) c’è il basso che ascende per gradi da battuta 241 a 243 Y (re-mi-fa-sol-la-si: il si è soppresso nella revisione, spezzando tale disegno). Nella versione alternativa a matita il basso segue comunque un disegno coerente per quarte e quinte (re-sol-re-sol-re-sol). Per la Tarantella invece, compresa nella stessa edizione moderna di Gilardino-Biscaldi, le aggiunte d’autore nel manoscritto sono correttamente identificate come tali, poiché sono così commentate: «Non è chiaro il senso delle poche alternative indicate come “ossia” dallo stesso autore: esse non rispondono ad alcuna necessità, perché la stesura primaria è eseguibilissima e musicalmente preferibile (e infatti Segovia la mantenne)» (Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 6). 37 Angelo Gilardino, Il repertorio segoviano alla luce degli ultimi ritrovamenti. Capriccio diabolico e Tarantella: nuove fonti per una messa a punto del testo musicale, in 9° Convegno Internazionale di Chitarra, Alessandria, 2 ottobre 2004, Teatro Comunale - Sala Ferrero, atti a c. di Marco Pisoni, (disponibili all’URL: http://www.seicorde.it/convegno2004.php), pp. 2-6: 4. Il testo della comunicazione è stato poi ripreso quasi integralmente nell’introduzione all’edizione del 2006. 38 Sarebbe possibile, ad esempio, eseguire le battute 40 e 45 all’ottava alta, come da indicazione «(2) si possible, à l’octave haute» raggiungendo, rispettivamente, il la sul cantino al XVII e il si al XIX e ultimo tasto.

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pezzo sulla prestigiosa piazza di Londra: quale versione avrà interpretato? Non lo sappiamo, ma è impensabile che fosse il testo riprodotto in Ricordi 1939. La prima registrazione venne solo molti anni più tardi39. Le ragioni del ritardo nella pubblicazione le spiegano Gilardino e Biscaldi: (…) dipese principalmente dagli eventi che sconvolsero la vita di Segovia nel 1936. In giugno, infatti, il grande concertista dovette fuggire precipitosamente da Barcellona, dove viveva, e dove era da poco rientrato al termine di una lunga tournée in Unione Sovietica. La sua sicurezza personale, allo scoppio della guerra civile spagnola, era gravemente minacciata. Segovia si rifugiò temporaneamente in Italia, a Genova, ma fu soltanto con il successivo trasferimento a Montevideo che la sua vita poté riassestarsi in condizioni tali da permettergli di riprendere il lavoro di revisore di musiche scritte per lui40.

Per rigettare come spuria Ricordi 1939, Gilardino e Biscaldi fanno riferimento a un avvenimento ben noto, occorso molti anni dopo, ovverosia lo screzio intervenuto nel rapporto fra Segovia e Castelnuovo-Tedesco, in cui si cita espressamente il Capriccio diabolico. In una lettera non datata, ma certamente del 1959, Segovia annunciava a Castelnuovo-Tedesco (per quanto premettesse che queste decisioni non mutassero i suoi sentimenti di amicizia, né la sua stima) che non avrebbe più interpretato le sue musiche, né in concerto, né le avrebbe registrate su disco, poiché alcuni comuni conoscenti, in Italia e Germania e fra loro indipendenti, gli avevano riferito che egli “disapprovava la sua interpretazione”41. Castelnuovo-Tedesco rispose il 3 maggio dello stesso anno, dicendosi da una parte sorpreso che l’amico avesse dato credito a tali calunnie e affermando di non aver mai criticato la sua arte in generale, giudicando le sue esecuzioni “eccellenti” e i suoi dischi “magnifici”, con l’eccezione del Capriccio diabolico (“come tu già sai”), di cui avrebbe amato “la sonorità”,

39 Nel 1955 (registrazione dell’aprile 1954), con il Long Playing, An Evening with Segovia (Decca DL 9733 / Brunswick AXTL 1070 / DGG 618544), che include la prima registrazione del Capriccio diabolico. 40 Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 5. 41 La lettera è stata pubblicata in Otero, Mario Castelnuovo Tedesco su vida, cit. e più volte riportata da altri, ma non sono a conoscenza né di dove sia l’originale, né in quale lingua sia scritto. In spagnolo il passo è riportato in questo modo: «En Italia y en Alemania algunas personas, que no se conocen entre ellas, me han dicho que ya no te hace feliz escucharme ejecutar tus obras. Que tú desapruebas mi interpretación, pero que no osas hacerme observaciones por miedo a irritar la enorme vanidad que el éxito ha desarrollado en mí», e in conclusione della lettera: «no tendré ya el placer de tocar tus obras puesto que no estás satisfecho de la forma en que yo las interpreto». Questi stessi passi nella versione inglese del libro di Otero: «In Italy and German some people, not known to one another, have told me that it no longer makes you happy to hear me performing your works. That you disapprove my interpretation, but you dare not make such observations to me for fear of irritating the enormous vanity that success have developed in me». «I will no longer have the pleasure of playing your compositions since you are not satisfied with the way I interpret them» (Otero, Mario Castelnuovo Tedesco: his Life, cit. pp. 107-108). Codice 602

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ma non “l’interpretazione”42, ed elencando poi in modo puntuale una serie di rimostranze sul comportamento di Segovia, colpevole di avergli richiesto molte composizioni (talvolta con urgenza, come per il secondo concerto con orchestra, nel 1953; lo stesso per la Passacaglia op. 180 del 1956) e non averle mai eseguite, ma più ancora di aver promesso più volte di preparare revisione e diteggiatura di numerose opere, quali Escarramán op. 177, e anche alcune continuamente eseguite e nel repertorio del chitarrista, come la Suite, la Fantasia, il Rondò, il Quintetto e la Tonadilla e addirittura il Concerto in Re. Castelnuovo-Tedesco comunicò infine che non avrebbe atteso oltre e aveva deciso di pubblicare questi pezzi senza la revisione segoviana, opere che uscirono infatti in questa forma. Il rapporto si sarebbe poi rinsaldato dopo la chiarificazione. Inequivocabilmente, nel loro carteggio Castelnuovo-Tedesco e lo stesso Segovia fanno riferimento non all’edizione del Capriccio di venti anni antecedente, ma alla recente incisione su disco che ne aveva fatto Segovia. Malgrado Gilardino e Biscaldi condividano questa opinione, dando anzi dell’interpretazione segoviana su disco una appropriata chiave di lettura43, estendono le riserve dell’autore al testo stampato nel 1939, concludendo che: È verosimile che Castelnuovo-Tedesco avesse infine accettato l’intervento di Segovia – lo fece anche in altri casi –, ma questo non significa che preferisse il testo modificato alla sua redazione primaria: chi scrive [Gilardino] è stato destinatario di lettere in cui il compositore manifestava la sua volontà di far conoscere al maggior numero possibile di chitarristi i testi originali delle sue composizioni poi pubblicate con la revisione segoviana, da lui sempre subita obtorto collo, anche se, ovviamente, la sua stima per 42 «Yo respondo a todas simplemente: 1- Que yo jamás he criticado tu arte en general, que es (como todo mundo sabe) fuera de serie. 2- Que yo encuentro tus ejecuciones de mi música excelentes y tus discos magníficos, con excepción del Capriccio Diabolico, que tú ya lo sabes. En él amo la sonoridad aunque menos la interpretación»; e in inglese: «I respond to all of them simply; 1- That I never criticised your art in general, which (as the whole worlds knows) is out of the ordinary. 2. That I find your performance of my music excellent and your records magnificient, with the exception of Capriccio Diabolico, as you already know. I love his sonority, the interpretation not so much». (Otero, Mario Castelnuovo Tedesco: his Life, cit. pp. 108-109). Nulla di tutto ciò compare nell’autobiografia di Castelnuovo-Tedesco, ultimata nel 1955 e poi solo ritoccata fino al 1966. 43 «Eppure, quel pezzo era uno dei cavalli di battaglia del maestro spagnolo, e non sono pochi i suoi estimatori che tuttora collocano quell’incisione ai vertici dell’arte segoviana. La verità è che Segovia aveva individuato nel brano moltissime possibilità per rivelare la magia del suo suono e l’eleganza forbita del suo fraseggio, interpretando il Capriccio con l’allure libera e fantasiosa nella quale era inarrivabile, ma non aveva esitato, per favorire la piena espressione di tali valori, a sacrificare la coerenza formale e armonica che, agli occhi del compositore, risultava invece essenziale. Dai rispettivi punti di vista, entrambi i maestri avevano le loro ragioni!» CastelnuovoTedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 6. Effettivamente nell’interpretazione del pezzo Segovia si prende molta libertà, accentuando la cantabilità a scapito della pulsione ritmica, libertà che trasforma il Capriccio (che per sua natura non possedeva di già l’architettura, che so, di un tempo di sonata), in una liberissima fantasia composta di sezioni giustapposte, perdendo di solidità, ma dubito che anche rifacendosi al primo abbozzo del pezzo, stante la scelta interpretativa, la solidità strutturale sarebbe stata recuperata.

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Segovia era incondizionata. Gli interventi di Segovia – volti a conferire ad alcuni singoli passi del brano quella cantabilità scorrevole che egli prediligeva – condussero a una sorta di destrutturazione del brano, ed essendo Castelnuovo-Tedesco compositore che non scriveva una sola nota senza una precisa ragione, si può ben comprendere come l’indebolimento della forma complessiva del pezzo determinasse nel compositore quello stato di insoddisfazione che lo spinse a tentare, nel 1945, un recupero dell’opera, con una versione per chitarra e orchestra, rimasta inedita (op. 85/2)44.

Al di là delle rispettabilissime opinioni degli editori, e del carteggio cui si fa cenno e che speriamo di poter presto conoscere, molti elementi si oppongono a questa ricostruzione. Anzitutto l’idea, fondata solo sui propri convincimenti, che le sostanziali varianti che ho illustrato fra Yale 517 e Ricordi 1939 si debbano a Segovia. Nessuna delle tre varianti significative della stampa è attestata in Yale 517, né la cancellazione della Coda, né la citazione de La Campanella, né la riscrittura della variazione in tremolo (se non per la sommaria indicazione del basso, peraltro a matita come usato dal compositore). È palese come fra il working manuscript Yale 517 e Ricordi 1939 debbano esistere dei testimoni interpositi, e su questo sono concordi anche Gilardino e Biscaldi, laddove affermano che «l’autore realizzava una stesura “ideale” dell’opera e la inviava a Segovia, il quale gliela rimandava corretta» (questa fase di elaborazione corrisponde molto bene alla natura di Yale 517) e che poi «su questa seconda versione aveva luogo un’ulteriore messa a punto del testo (..) che comportava uno scambio di lettere e di fogli di musica, con confronti tra diverse possibilità», e che infine «la successiva pubblicazione era basata non sul manoscritto dell’autore, ma su quello che Segovia realizzava di proprio pugno, e che veniva inviato all’editore». Prima di arrivare dunque alla bella copia con diteggiatura che Segovia avrebbe inviato all’editore45 – il tedesco Schott di solito, ma Ricordi in questo caso per via delle origini 44 Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 6. 45 Questo modus operandi, come appropriatamente definito da Gilardino-Biscaldi, è derivabile in particolare da una lettera di Castelnuovo-Tedesco che accompagna un autografo delle Variazioni op. 71: «Florence, le 12 Janvier 1933/ Mon Cher Segovia,/ Excuse-moi si je n’ai pas reponder plus toit a Votre lettre, et si me Vous aripres encore remerciè de la copie des Variations que Vous m’avez envojé; mais j’ai été assent plusieurs jours pour des executions de mon Quintette. J’ai fait moi-meme une copie de Votre manuscript (pour quelle fuit exacte) et je l’ai envojée a Schott. Ja n’ai que quelques petit doutes que je Vous sonmets pour pouvoir eventualment faire des corrections sur les graveurs. J’avais, dans mon manuscript, ecrit les mesures 21-24 de la Chaconne […]», seguono alcune battute con discussione della lezione, di estremo interesse per la ricostruzione del testo critico. Nel caso delle Variazioni op. 71 quindi, a giudicare da questa lettera (che testimonia dello «scambio di lettere e di fogli di musica, con confronti tra diverse possibilità»), fu Castelnuovo-Tedesco a inviare all’editore Schott di Mainz la copia fatta di propria mano della versione già diteggiata dal chitarrista. Non so purtroppo comunicare l’ubicazione del manoscritto e della lettera allegata (sono diffusi e scaricabili in rete), ma Leendert Van Grammeren, The Guitar Works of Mario Castelnuovo-Tedesco, cit., p. 241, elenca l’esistenza di due manoscritti del pezzo: uno presso l’archivio della Schott (e potrebbe essere questo) e uno presso la Biblioteca del Congresso di Washington. Codice 602

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ebraiche del compositore – intercorrevano vari altri passaggi. Del resto è ben difficile immaginare che da Yale 517 si passi a Ricordi 1939 con un solo ulteriore testimone: è probabile che siano esistite almeno un’altra copia del compositore, parziale o totale, e una dello strumentista. Le occasioni di lavorare insieme non sarebbero mancate, senza contare la possibilità usuale di interagire per corrispondenza: già l’anno successivo Segovia era a Firenze per un breve periodo, durante il quale Castelnuovo-Tedesco scrisse e gli recapitò la Tarantella46, poi Segovia, costretto dagli eventi, soggiornò qualche tempo a Genova: soprattutto, l’occasione certa di incontro fu il Natale del 1938, uno dei momenti più significativi per la vita di Castelnuovo-Tedesco, che stava meditando di lasciare per sempre l’Italia dopo l’approvazione delle leggi razziali e averne provato sulla propria pelle i primi amarissimi effetti. Quel periodo viene così rievocato nelle sue memorie: Intanto gli eventi precipitavano: nel 1938 s’accese la campagna razziale, ed io mi preparavo a lasciare l’Italia (con quale strazio nell’anima nessuno può immaginarlo!): pieno d’angoscia e di preoccupazioni, da sei mesi non componevo più (cosa insolita per me, in genere così attivo). Allora Segovia compì un gesto squisito, che non dimenticherò: in quel periodo in cui tanti colleghi mi voltavan le spalle (o almeno mi evitavano accuratamente), Segovia venne a Firenze apposta per passare le vacanze di Natale con me, e per incoraggiarmi a sperare in un migliore avvenire: mi disse che non dovevo disperare, che avevo talento e che in America avrei saputo rifarmi una vita; insomma mi confortò grandemente. Ed io rimasi così commosso da quel suo gesto amichevole, che gli promisi che il primo lavoro che avrei scritto sarebbe stato il Concerto in re per chitarra e orchestra, che tante volte gli avevo promesso. Anzi, durante il suo soggiorno a Firenze, scrissi senz’altro, tutto d’un fiato, il primo tempo, e lo collaudammo insieme; dopo Segovia partì per l’America del Sud (io, qualche mese dopo, per l’America del Nord); ma, nel gennaio del 1939, composi gli altri due tempi, e, prima di lasciare l’Italia, glieli spedii47.

È ipotizzabile con ragionevole certezza che nelle giornate trascorse insieme – in cui prendeva forma il primo tempo di quello che CastelnuovoTedesco considerò poi forse il proprio capolavoro assoluto e di sicuro sta fra i più significativi, cioè il Concerto in re per chitarra e orchestra –, in cui i due amici trovavano reciproco conforto nella musica – l’uno provato dalla guerra civile in corso nel proprio paese ed esule, l’altro assai più ferito e in procinto di diventare esule, senza saperlo, per sempre –, Segovia ripercorresse con l’autore tutti i pezzi scritti per lui fino a quel momento e che facevano parte del suo repertorio, e massime quelli che sarebbero 46 «(…) nel 1936, durante una breve permanenza di Segovia a Firenze, composi la Tarantella, un pezzo agile e brillante (di sapore lievemente rossiniano) che è diventato il pezzo più noto della mia produzione chitarristica; (…)», Castelnuovo-Tedesco, Una vita di musica, cit., p. 264. 47 Ibid., pp. 264-5.

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stati pubblicati di lì a pochi mesi. Insomma, ci sono pochi dubbi che sia l’edizione a stampa a conservare la versione d’ultima mano (fassung letzter hand)48 di Castelnuovo-Tedesco, e per rimuovere una tale certezza occorrerebbero delle assai solide prove, che al momento mancano. Anche un’altra delle argomentazioni portate da Gilardino-Biscaldi depone al contrario di quanto pensino i proponenti, ovvero che per rimediare alla revisione di Segovia il compositore tentasse un recupero del pezzo dieci anni dopo realizzandone la versione per chitarra e orchestra (op. 85/2). La versione con orchestra, di fatto un accompagnamento orchestrale per la parte solistica, dove all’orchestra è riservata la sola ricapitolazione finale dei temi, è basata integralmente su Ricordi 1939. Se avesse voluto, Castelnuovo-Tedesco sarebbe stato liberissimo, potendo contare sulle risorse orchestrali, di risolvere tutte le problematiche tecniche evidenziate in Yale 517 e ripristinare così la soppressa Coda o il passaggio in tremolo, cosa che si è guardato bene dal fare. Viene mantenuta anche la citazione de La Campanella, anzi, viene chiarita ulteriormente l’intenzione del compositore, che mescola le versioni di Yale 517 e Ricordi 1939: il Mi sovracuto, infatti, è tenuto, come nel manoscritto, in associazione con il triangolo a creare propriamente l’effetto strumentale che ha reso famoso il concerto paganiniano e poi, dopo l’efficace sospensione così realizzata, c’è l’enunciazione del tema. Ritengo questa soluzione estremamente felice e la citazione esplicita del tema paganiniano niente affatto forzata49, così come penso che la Coda, eliminata nella versione finale, fosse sovrabbondante e pletorica. In poche parole, penso che la versione Ricordi 1939 sia musicalmente superiore, più ricca di contenuti musicali, maggiormente concisa ed essenziale, di quella che possiamo leggere in Yale 517, così come è mia convinzione che le scelte infine tradotte nel testo a stampa, anche se suggerite da Segovia nella forma che abbiamo visto espressa in Yale 517, siano integralmente di Castelnuovo-Tedesco. Come considerare allora il testo di Yale 517? Solo una recensio completa dei testimoni del Capriccio e il vaglio degli altri autografi, lo studio della prassi compositiva di Castelnuovo-Tedesco, il ricorso alla ricca documentazione oggi conservata alla Library of Congress, così come ai numerosi carteggi 48 Cfr. Georg von Dadelsen, Die “Fassung letzter Hand” in der Musik, «Acta Musicologica», XXXIII/1 (1961), pp. 1-14 (in trad. it. La ‘versione d’ultima mano in musica’, in La critica del testo musicale. Metodi e problemi della Filologia musicale, a c. di Maria Caraci Vela, Lucca, LIM, 1995, pp. 47-62). 49 «A noi, quella citazione è sempre parsa pretestuosa e imbarazzante: nel 1967, non esitammo a scrivere al compositore che tale citazione ci sembrava una battuta da Hellzapoppin, e non ricevemmo alcuna smentita. Leggendo il manoscritto, constatiamo che non fu farina del sacco di Castelnuovo-Tedesco» (Castelnuovo-Tedesco, Capriccio Diabolico, Tarantella, Nuova edizione, cit., p. 6). La ‘non smentita’ non può essere catalogata ad assenso, anche perché al compositore potrebbe non aver fatto piacere la critica ricevuta ed essersi perciò elegantemente defilato con un silenzio. Codice 602

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sparsi in archivi pubblici e privati, che conduca alla realizzazione di una edizione critica del pezzo possono dare una risposta definitiva50. Al momento, dati gli elementi presi in esame, Yale 517 non può che essere considerata una versione iniziale e precaria – certo non un abbozzo, essendo completa di tutte le sue parti –, e, soprattutto, come tale considerata dal suo autore in attesa dell’approvazione segoviana. CastelnuovoTedesco infatti ricercava la revisione dell’amico Segovia: non è un caso che le mancanze del chitarrista spagnolo in questo ambito costituiscano il punto centrale del cahier de doléance rappresentato dalla lettera del 1959. Castelnuovo-Tedesco era perfettamente consapevole che i suoi pezzi, anche se sotto l’egida segoviana in quanto a lui dedicati, anche se pubblicati nelle sue collezioni, difficilmente si sarebbero imposti così come concepiti dal compositore, senza diteggiatura e con notevoli incongruenze tecniche che ne rendevano asperrima l’esecuzione. Sarebbero state assai meno attrattive per il pubblico dei fruitori, e che Castelnuovo-Tedesco fosse nel giusto lo dimostra la scarsa fortuna delle opere pubblicate da Schott senza la revisione segoviana, come, ad esempio, la difficile Suite, o il Rondò. Il termine originale va inteso nel senso proprio di «ciò che risale all’autore»51, ma non basta che un testimone sia autografo perché conservi l’originale. Va tenuto in conto come «i testimoni d’autore possono presentarsi problematici e incompleti o», come in questo caso, «risalire a livelli redazionali provvisori e superati»52. Ricordi 1939, per le ragioni esposte, è quello che può essere definito il testimone autorizzato che reca l’originale del testo, ovvero la versione d’autore nella sua forma definitiva. Ciò non toglie che Yale 517 – oltre a costituirsi come insostituibile fonte per lo studio della prassi compositiva di Castelnuovo-Tedesco, e del suo rapporto con Segovia, inserendosi in questo senso nell’ampio filone dello studio degli schizzi (definito, nella filologia dei testi letterari, Critica degli scartafacci) –, possa essere essenziale anche nella ricostruzione del testo: un testimone di questo tipo può essere utilissimo per correggere errori nel testimone portatore della fassung lezter hand: un esempio viene dalla Sonata ‘Omaggio a Boccherini’, in cui l’autografo, tra le altre cose, consente di ripristinare la corretta indicazione espressiva Come 50 Esiste un utile lavoro accademico di una chitarrista olandese, che ha operato un confronto (non accurato) fra Yale 517 e Ricordi 1939 al fine di realizzare una ulteriore nuova edizione, sedicente critica, del Capriccio: Rosemarie Vermeulen, Mario Castelnuovo-Tedesco’s Capriccio Diabolico: een herziene, kritische editie, April 2014 Research Report, Coach: Patrick van Deurzen. La nuova edizione, a detta dell’autrice, sarebbe quella che «die Segovia ervan had kunnen maken, mits hij zich wat bescheidener had opgesteld» (in traduzione: lo stesso Segovia avrebbe potuto fare, se fosse stato un po’ più modesto/umile [!!!]). La Vermeulen mescola liberamente Ricordi 1939 e Yale 517. Sugli esiti di un tale approccio si veda quanto affermo in conclusione. 51 Caraci Vela, La filologia musicale, cit., p. 132. 52 Ibid.

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una Fanfara, diventata nella stampa per errore di trascrizione un inopinato Come una Fantasia53. Un esempio come quest’ultimo dimostra come sia fallace l’uso della pratica musicale di elevare un singolo testimone a testo, riproducendone tutti gli eventuali errori e incongruenze in una deriva di fedeltà ‘diplomatica’ in realtà assai poco filologica; un errore di grado appena inferiore a quello di mescolare liberamente diverse versioni senza alcun criterio, in un ‘fai da te’ talvolta incoraggiato da alcuni didatti. L’edizione critica non deve porre delle alternative tra le quali liberamente scegliere, ma deve stabilire un testo, sottoponendo nello stesso tempo al vaglio del lettore l’intero tragitto percorso per ricostruirlo, mettendolo a parte di ogni scelta critica, con un apparato che renda ragione di tutte le lezioni accolte o rigettate secondo i criteri stabiliti preliminarmente a seguito di operazioni ineludibili quali recensio, collatio e valutazione dei testimoni. Inseguendo invece un originale senza un credibile orizzonte metodologico si rischia di cadere nel più imperdonabile dei restauri testuali pseudo-filologici: la creazione di un falso storico. Tale bisogna considerare l’edizione Gilardino-Biscaldi (nel pur lodevole intento di diffondere un prezioso documento) del Capriccio diabolico, edizione che deroga al testimone autorizzato rivolgendosi a una redazione provvisoria e superata, senza perdipiù riprodurla nella sua forma integrale. Una redazione peraltro priva di un requisito che per altri repertori e altre opere può avere almeno un elemento che ne rende, se non accettabile, almeno plausibile l’esistenza, ovverosia quello di essere storicamente attestata, meglio ancora coincidendo con la vulgata, che, per quanto possa essere scorretta, ha il merito di essere un testo che ha interagito con la storia, che vale a dire, in ambito musicale, si è concretizzato in una performance, cosa di cui nel caso di Yale 517 non abbiamo alcuna certezza. Questa disamina del testo del Capriccio diabolico non è automaticamente estensibile ad altre opere, edizioni o autori: sicuramente può essere di aiuto – e vuol essere di esortazione –, a valutare criticamente i testi cui rivolgersi, poiché l’uso di testi credibili, le scelte di repertorio consapevoli, il lavoro per produrre edizioni critiche secondo principi scientificamente consolidati, sono strade obbligate affinché si riesca a tenere lungi la chitarra classica dai suburbi musicali da cui l’hanno emancipata l’arte di Andrés Segovia e la splendida musica di Mario Castelnuovo-Tedesco.

53 Cfr. Luigi Attademo, La Sonata di Mario Castelnuovo-Tedesco: ecco il manoscritto, «Seicorde», 76 (luglio-settembre 2003), pp. 16-19. Anche il testo delle Variazioni op. 71 potrebbe essere emendato sulla base della lettera citata a nota 46, che sembra portare varianti che si pongono nelle intenzioni dell’autore come correttive rispetto al testo poi edito (ma valutazioni di questo tipo non possono essere improvvisate). Codice 602

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Il suono di Sciarrino, fra soffio e forma

di Renzo Cresti*

Il profilo artistico di Sciarrino ha in chiarezza, unicità, novità e moltiformità solo pochi pari. (Laudatio di Peter Hagmann, Salzburger Musikpreis, 2006) Sentiamo la necessità di strumenti critici che non possediamo, di nuovi collegamenti. (Salvatore Sciarrino, Le figure della musica) Il nostro alfabeto musicale deve arricchirsi […] La materia prima della musica è il suono. (Edgar Varèse, Il suono organizzato) Il compositore appartiene alla categoria degli esploratori: superare se stessi, correre dei rischi, inventare, proiettarsi in altre dimensioni. (Salvatore Sciarrino, intervista a Sandro Cappelletto)1

* Renzo Cresti è docente di Storia della musica presso il Conservatorio di Lucca (dove è stato anche direttore e dove tiene un corso di Storia del jazz). Come musicologo ha scritto o curato oltre 40 libri, fra i quali si ricordano l’ipertesto didattico La vita della musica (VI ed. Panzano in Chianti, 2008), l’Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei (3 voll., 10 cd, Napoli, 2000), L’arte innocente, con cdrom (Milano, 2004), Firenze e la musica italiana del secondo Novecento (Premio Firenze, 2005), Puccini e il Postmoderno con English Version e in traduzione giapponese, ecc. È stato direttore della rivista «Il Pasquino Musicale» e della Collana I linguaggi della musica contemporanea (Milano, 1990-2000, per la quale furono pubblicati 14 volumi); ha diretto il Progetto musica per l’editore Del Bucchia. La sua monografia wagneriana, Richard Wagner, la poetica del puro umano, LIM, Lucca, 2012 (seconda edizione 2016), è uscita contemporaneamente anche in edizione inglese. Collabora con molte riviste anche straniere (tiene un rubrica fissa sulla rivista “FaLaUt”), alcuni suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, francese, portoghese, spagnolo e giapponese. Ha al suo attivo anche racconti letterari e saggi di critica d’arte (il romanzo La terra che canta è stato finalista al Premio Pisa 1998). Il suo ultimo libro s’intitola Ragione e sentimenti nelle musiche europee dall’inizio del Novecento a oggi, LIM, Lucca, 2016. Il suo sito web è www.renzocresti.com 1 http://www.lastampa.it/2016/08/26/cultura/salvatore-sciarrino-indago-il-confine-tra-suonoe-silenzio OmdM8o3mbFAXuRENLuSG3O/pagina.html Codice 602

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Il Leone d’oro 2016 alla carriera per la musica è stato assegnato a Salvatore Sciarrino dalla Biennale di Venezia l’8 ottobre 2016, anticipando di qualche mese il suo settantesimo compleanno. La figura di Sciarrino ha assunto, fin da giovane, durante gli anni Settanta, una statura monumentale, tanto da rendere questo maestro uno dei più rilevanti compositori del mondo musicale internazionale. Poco più che ventenne è riuscito a mettere a punto una rinnovata modalità della percezione dei suoni, azzerando l’ascolto tradizionale e alzando il livello di una percezione sottilissima, indagando una dimensione di confine fra silenzio e suono. È una musica che sta apparentemente immobile sulla soglia del grado zero dell’ascolto, evocando una dimensione ecologica, dove la superficie si fa vibrazione dell’essere e dell’esserci. Come disse Peter Hagmann, nella sua Laudatio in occasione del Premio musicale a Salisburgo nel 2006, la musica di Sciarrino è multiforme e chiara, legata a una filosofia eolica, fra silenzi e soffi, che però non sono evocati in maniera istintuale, non è con l’imprecisione e la vaghezza che Sciarrino realizza il flou, ma, come Debussy, consegue l’immagine fuggevole e la temporalità sospesa attraverso una costruzione coerente e precisa. In tal senso egli è l’erede di una linea e(ste)tica e compositiva che medita sul suono e sul tempo musicale che inizia con il Parsifal di Wagner2, prosegue con Debussy e Webern3, fino alla Momentform di Stockhausen, linea alla quale se ne intrecciano molte altre che hanno come minimo comun denominatore la riflessione sul suono e sulla temporalità�4. L’unicità di Sciarrino consiste nell’essersi posto in maniera originale in queste prospettive di ricerca, un’originalità che, come lui stesso sottolinea, abbisogna di nuovi strumenti critici, di nuovi collegamenti. Ezra Pound, nel suo Trattato di armonia, lamentava che «l’elemento più grossolanamente omesso dai trattati di armonia è il tempo»5, non solo dai trattati ma gli stessi compositori continuavano a intendere il tempo come 2 Wagner esplora, con lo scorrimento sonoro, il flusso di coscienza, gli oscuri stati psichici, inconsci, onirici, fantastici, dove il tempo è sospeso e la temporalità effettiva si annulla nell’Urzeit, un tempo primordiale che sottostà anche al suono sciarriniano. In Parsifal si presenta quel tempo bloccato, non lineare e verticale che diverrà il tempo amorfo di Debussy: ècutez la leçon du vent qui passe è una frase che potremmo riferire anche a Sciarrino. 3 La musica di Webern fu definita una costellazione sonora proprio perché dis-posta in modo spaziale, le note sono paragonabili a una sorta di mappa stellare, punti luminosi che appaiono e scompaiono nel cielo; seppur in maniera diversa, la musica di Sciarrino ha la stessa forte coerenza, una similare attenzione al suono e alla sua ricchezza interna. 4 Da Stravinskij a Skrjabin, da Jolivet a Scelsi, da Varèse a Messiaen, da Ligeti a Grisey e molti altri, autori molto diversi fra loro ma con i quali, per le tematiche del tempo e del suono, ma pure per quelle di un rito religioso che lega l’uomo a ciò che lo oltrepassa, si aprono strade nuove che vanno a confluire nella filosofia, più che nella musica in senso tecnico-formale, di Sciarrino. 5 Ezra Pound, Trattato di armonia, Passigli, Firenze, 1988, pp. 27.

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uno scorrere rettilineo, basandosi sulla vettorialità insita all’interno del sistema tonale. Goethe vedeva in un quartetto d’archi musicisti intenti a dialogare fra loro, a narrarsi una storia. Ma sant’Agostino diceva che se qualcuno gli chiedeva cos’era il tempo non sapeva rispondere, perché, oltre al tempo cronologico vi è un tempo psicologico o metafisico che non rispecchia le lancette dell’orologio, quella temporalità non misurabile che avvolge i personaggi delle opere teatrali di Sciarrino, un tempo a spirale che accoglie le emergenze che salgono dall’inconscio, dall’onirico, dal visionario e che rimandano a un tempo librato. Parsifal fu il punto di partenza sul tempo spazializzato che sonda l’oscuro, l’imperscrutabile e la luce abbagliante dei misteri sacri. L’interesse di Sciarrino per Wagner, per il rito e il concetto di religio, è confermato, fra l’altro, dall’opera teatrale sul soggetto del Lohengrin. Anche la natura sospende il tempo, nel suo esser così e Parsifal è un “selvaggio” figlio dell’eterno ritorno della natura. Il tempo circolare, che come una spirale entra nella psiche e ne coglie i segreti più reconditi, è il tempo rotante della musica di Sciarrino6. Nella musica di Debussy sorge il silenzio e alberga in ogni anfratto musicale, in maniera ancor più decisiva che in Parsifal, in molte composizioni di Debussy regna una quiete piena di senso che raccoglie l’esperienza dell’assenza/essenza, una serenità che si estende al tentativo di dominare il tempo e con esso la morte; il dominio sul tempo avviene abbandonandosi all’istante, al momentaneo, all’immediatezza di un quid sfuggente che ha il valore di uno stop rivolto a Chronos, bloccandone il flusso. In Sciarrino, come nel Preludio al pomeriggio di un Fauno, si sospende la vettorialità; un elemento che ferma lo scorrere del tempo è quello delle emergenze, di un tempo esistenziale che emerge e che crea una finestra sullo scorrere della temporalità (il concetto di finestra è importante per Sciarrino). Le emergenze irrompono nel tessuto musicale, proprio perché è discontinuo, con insenature psicologiche–esistenziali e aperture nell’intreccio dei suoni che permettono il loro ingresso. L’emergenza è un evento saliente, per esempio una figurazione o un colore che rivestono un significato specifico, è imprevedibile e interrompe la narrazione lineare, per aprire una fenditura, nella quale si inseriscono riflessioni diverse e, nello stesso tempo, intrecciate con il racconto principale, creando un legame dinamico fra temporalità differenti. La forma delle composizioni di Sciarrino risulta dall’organizzazione organica delle diverse parti temporali. Una tipologia organizzativa utilizzata da Sciarrino è la forma a finestra ossia il far ricorso contemporaneamente a due diverse prospettive temporali, 6 Il discorso è generale, quindi non può prendere in considerazioni le ovvie differenze fra opera e opera, si basa, in senso etimologico, si fonda, viene impostato su una tematica sostanziale, basilare appunto. Codice 602

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in una il tempo scorre e rimane sullo sfondo mentre nell’altra il tempo si immobilizza e diviene in primo piano (un po’ come le finestre in un ipertesto); la finestra è una forma spaziale che interagisce con la temporalità, ritaglia il tempo, creando una discontinuità temporale e spaziale, da una parte si vuol narrare e dall’altra si vuole fermare il racconto sonoro per far risaltare alcuni particolari; un buon esempio di questo metodo di procedere è Cadenzario (1991) realizzato attraverso la messa in forma di una serie di tagli che corrispondono alle cadenze prese in esame, le quali vengono assemblate come le finestre di una casa, nella quale il muro corrisponde al contesto da cui tali cadenze vengono estrapolate. Ogni stacco costituisce una riflessione parallela, creando un vortice di significati fra loro uniti. Altro esempio è il pezzo per flauto Come vengono prodotti gli incantesimi (1985), dove numerose finestre interrompono il susseguirsi dei suoni deboli e potenti, infine, finestre e processo continuo dei suoni si sovrappongono creando, per accumulo, la forma conclusiva. Visioni oniriche, fantasmagoriche, metafisiche, mitologiche che appartengono al pre-categoriale sono evocate dai fruscii e dal silenzio, che è il silenzio degli oracoli, fondamento di ogni possibile dire. Se nella musica di Sciarrino il tempo non scorre in maniera continuativa e regolare, ma discontinua e relativa, anche lo spazio si fonda su una irregolarità primaria, spezzando le leggi della prospettiva classica. Si sfugge al concetto di continuità spaziale grazie all’immobilità dell’istante, ad attimi fugaci, alla rivelazione di un hic et nunc, al fatto gratuito dell’esserci, e si mette in gioco la prospettiva centrale attraverso significanze diverse, spostamenti dei punti di vista, riflessi, aloni misteriosi, rarefazioni di senso. La coscienza del tempo è una relazione fra istanti. […] La mente esce dal presente, va nella memoria, mette in relazione con gli eventi precedenti l’evento che ha ascoltato, rientra nel presente e così via. […] La continuità temporale è dunque fatta di piccole discontinuità di coscienza. La nostra mente integra i momenti di vuoto. L’intermittenza è continua e serve a confrontare ogni istante di musica con gli istanti già passati. […] Tale processo di interazione fra istante e memoria rende possibile percepire e concepire la forma musicale, rende possibile percepire e concepire lo stesso divenire musicale. […] Ordinare gli elementi di un linguaggio significa metterli in relazione, cioè organizzarli.7

Quello di Sciarrino è un linguaggio trans-discorsivo, basato su inafferrabili corrispondenze, un po’ come nella poesia simbolista; un vedere altrove che si sostanzia di misteri di angoscia e morte, di voluttà e piacere, evocati nelle ore più sfuggenti della mezzanotte e del mezzogiorno, nell’incanto delle ore più misteriose e ricche di attese, le ore senz’ombra eppur ricche di aloni e barlumi, di spiriti e fantasmi, di silenzi carichi di segreti. 7 Salvatore Sciarrino, Le figure della musica, Ricordi, Milano, 1998, pp. 60-61.

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Molti suoi lavori sembrano evocare il respiro silenzioso della natura, si pongono nell’arcaica dimensione dello stupore, dell’incanto panico. La creazione nell’arte dovrebbe essere come la creazione in natura, quodlibet ossia l’essere tale e quale è, con tutti i suoi predicati, il quale in quanto è tale. Lo stupore che la musica esile e impalpabile di Sciarrino comunica ha qualcosa da condividere con il concetto di religio, come il relegare dell’uomo al Tutto, a qualcosa che l’oltrepassa, con la natura appunto. Le veloci e fruscianti figurazioni della musica di Sciarrino richiamano i paesaggi all’aperto, le distese naturalistiche che sono pure spazi psichici, il vento, i soffi, la brezza, le folate che sembrano trasportare spiritelli, ma – forse – il simbolo che meglio esprime la creatività sciarriniana è la luce, in opposizione o intrecciata all’oscurità. Heidegger, nel suo saggio del 1935 L’origine dell’opera d’arte, intende il termine Lichtung come ‘radura’: «Luce che filtra dal bosco laddove la vegetazione si dirada e il sacro, secondo le credenze degli antichi culti, si manifesta fra il fremere delle foglie e la misteriosa danza dei raggi colorati. L’opera d’arte ha per Heidegger funzione fondativa, è porsi in opera della verità che getta fasci luminosi obliqui nella radura dell’essere, disboscandone e chiarendone alcune zone»8. Nella musica di Sciarrino ha luogo un’apertura che, proprio come una radura, raccoglie la luce che passa tra i rami degli alberi e illumina la dimora, è uno svelamento della verità. La riflessione sul lato oscuro dell’umano appartiene alla filosofia sciarriniana, ma vi è anche la gioia dell’evangelium, del bagliore inaspettato di una luce, la possibilità di un nuovo sguardo sulla realtà, non intesa in modo familiare, banale, seguendo mode e strizzando l’occhio ai gusti del pubblico, ma affidandosi a una continua ricerca, intendendo la sua attività di compositore simile a quella di un esploratore, come dice lo stesso Sciarrino, nella citata intervista: superare se stessi, correre dei rischi, inventare, proiettarsi in altre dimensioni. La musica di Sciarrino, come la clarière, corrisponde all’Aperto (Heidegger) ed è già presente prima che si faccia chiarore, compito del musicista è quello di raccoglierne il chiarore: la bellezza dell’opera è la luce che arriva nella radura e tale luce collega l’oscuro e il chiaro, l’infinito e il presente, la verità e la vita quotidiana. La contingenza, croce e delizia dell’artista, diventa un (ac)cadere dell’opera nell’operare, un precipitare del tempo (infinito) nell’accidentalità, creando l’Ereignis, l’evento che cade da un contesto pre-compreso. L’evento è ciò che ha preso luce, è l’illuminazione dell’Aperto oscuro che ci circonda, è quel qualcosa che dal tutto silenzioso sorge, proprio come nell’universo sonoro dei suoni di Sciarrino. L’Aperto è anche l’inconscio e il sogno che attraversa lo specchio e ci mette in contatto con le profondità dell’essere, più si accetta questa realtà 8 Remo Bodei, Le forme del bello, Il Mulino, Urbino, 2002, p. 55. Codice 602

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intima e infinita e più ci si inoltra nell’incavo dell’esser nostro e dei suoi problematici rapporti con la materialità della vita quotidiana. Nel risveglio si riattraversa lo specchio e si riprende contatti con l’ovvietà dell’ambiente, con la tangibilità e la fissità del mondo delle cose. Se l’artista non si affida al flusso di coscienza, alla dinamicità dell’immaginazione, alla vivacità della fantasia, alla velocità delle immagini sognate abbandona l’utopia e si addormenta nel luogo comune. Se l’arte restringe il suo orizzonte alla banalità della realtà conosciuta e scarta ogni aspirazione a illuminare con luce nuova gli avvenimenti e le cose, quest’arte è ben poca cosa, si colloca fra gli oggetti ordinari, diventa un soprammobile, un ninnolo per borghesi soddisfatti, non si tratta di fare sociologia a buon mercato ma certificare la mancanza del desiderio di andare oltre per soddisfare quello per la piacevolezza, il confortevole, il già ascoltato ossia l’assecondare il vivere pacifico nell’ovvietà. La clarière corrisponde anche alla memoria, inconscia o consapevole, come la Lichtung giace nella nostra psiche e attende di essere portata alla luce, illumina il presente e poi rientra nel labirinto dell’inconscio; non è rêverie romantica ma lampo improvviso che si avvinghia al presente, creando una discontinuità. Nell’estetica di Sciarrino, la musica è meno rispetto alla cultura, alla filosofia, alla concretezza del linguaggio comune, ma questo meno si rivela essere un di più; essa è una riduzione rispetto alla determinatezza e alla concettualità delle parole ma proprio questa riduzione consente un’apertura, un’amplificazione di quegli aspetti indefinibili e misteriosi che appartengono al nocciolo nascosto dell’essere. Dunque, la musica è pure un’eccedenza che si svolge in verticale, in un dire archetipo che allude a cosa lontane e nascoste. Questo non vuol dire rinunciare alla parola, anzi, vi è una complementarietà fra parola poetica e filosofica e suono, come dimostrano i testi scelti o scritti direttamente da Sciarrino e musicati e rappresentati, dove alla complementarietà partecipano anche la gestualità, i movimenti, la messa in scena, in un unicum sonoro sferico. Nel suo sito internet, lo stesso Sciarrino «si vanta di essere nato libero», una libertà ben evidente nella sua sovrana creatività, un’indipendenza da ogni scuola e tendenza, di essere un autodidatta, anche se ha studiato privatamente con Turi Belfiore e Antonino Titone; «considera di apprendistato acerbo i lavori anteriori al 1966. […] C’è qualcosa di veramente particolare che caratterizza la sua musica: essa induce un diverso modo di ascoltare, al centro viene posto non più l’autore o la partitura ma l’ascoltatore»9, dunque, ciò che caratterizza la sua musica è la volontà di indurre il fruitore a un diverso modo di ascoltare e a una nuova presa di coscienza della realtà e di sé. 9 www.salvatoresciarrino.eu. I primi brani risalgono a uno Sciarrino diciannovenne, quali Sonata per 2 pianoforti del 1966 e Berceuse composta nell’anno successivo, rivelando, seppur in maniera ancora da sviluppare, quella tendenza ai suoni fantasmagorici che gli sarà propria.

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Il giovane Sciarrino aderì a quella tendenza che si volse alle ricerche di notazioni particolari, come in Prélude (1970), sperimentazioni sulla notazione che portarono a soluzioni foniche nuove e che saranno importanti per la scrittura personale che Sciarrino metterà a punto negli anni seguenti. Una ricerca grafica non fine a se stessa ma come rimando simbolico. Si rivelò all’attenzione generale nella seconda metà degli anni Settanta, praticando anche le arti figurative, una pratica poi abbandonata ma che formerà in lui un senso del segno esile e raffinato e una sensibilità al colore sottile ed evanescente. La scrittura di Sciarrino individuò presto una peculiarità di effetti che fece scuola, infatti, molti furono i compositori che cercarono di imitare questa caratteristica che consiste nella realizzazione di una schiuma di suoni ondeggiante, aerea e diafana, una polvere sonora rarefatta che si espande dal silenzio, inteso non come vuoto, ma come involucro che abbraccia tutti i suoni; è una scrittura costruita su suoni pulviscolari, formata da figurazioni veloci e impostate su armonici che rendono il frusciare della musica simile a un soffio, impalpabile e ai limiti di un silenzio panico. Una musica che si pone in regioni liminari che richiedono una percezione sottile, perché il suono è sempre ai limiti del silenzio, involucro cosmico dal quale provengono e nel quale subito rientrano; il suono che emerge dal silenzio e vi ritorna viene visto come un fenomeno epifanico, come la bellezza della nascita. Gli eventi sonori sono echi della memoria, una risonanza dell’inconscio, un’eco di quella profondità che si nasconde in superficie. Tecnicamente si richiedono modalità particolari, spesso virtuosistiche, come l’emissione di armonici agli archi e ai fiati, risonanze secondarie, utilizzo di registri particolari, fantasmagorici arabeschi che fluttuano nell’aria, un tessuto musicale vibratile, fluttuante e ricco di sfumature cromatiche e dinamiche, ai limiti col silenzio, il tutto all’interno di profili formali netti e chiari. I brani composti fra gli anni Settanta e Ottanta hanno tutti queste caratteristiche, da Sonata da camera (1971) a Il paese senz’alba (1976), da Il paese senza tramonto (1977) a Che sai, guardiano, della notte? (1979), brani che esprimono l’impalpabilità di forme in continuo movimento, da Introduzione all’oscuro (1981) alla polifonia liquescente di Let me die before I wake (1982) a Fra i testi dedicati alle nubi (1989), una poetica rivolta al notturno e alle forme-non forme delle nuvole, sempre cangianti e in movimento; inoltre, le sonate pianistiche, iniziate nel 1965 (la bellissima quinta è del 1995). Durante la metà degli anni Settanta iniziò a mettersi a punto una sorta di koiné ai minimi termini, un piccolo dizionario di suoni minimali o nascenti, di silenzi e di riverberi, di micro-intonazioni e soffi, di leggeri rumori e gesti raccolti; si trattava di un lessico musicale che era il risultato, involontario e inconsapevole, di un enigmatico incontro fra esperienze differenti, fra cui quelle dell’ultimo Nono, di Pärt, Gorecki, Andriessen, del Lachenmann di Accanto, del Kagel di Nord-Ovest e del giovane Sciarrino, nella musica del quale si riscontra un melos decomposto ma organico, note trepidanti, Codice 602

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arabeschi e armonie enigmatiche, un’oceanografia del silenzio e soprattutto la creazione del senso fra le vibrazioni nascenti e quelle morenti. La fragilità del suono avvolto dai silenzi, l’allusività e il tratto tanto elegante quanto fuggevole avvicina Sciarrino a Francesco Pennisi, anche lui attratto dal particolare prezioso, dalla pittura, dotato della sensibilità del colorista, affascinato dall’ombra e dalla luce, anche lui siciliano e profondamente legato a una cultura antropologica che sposa quella del Barocco, dove, dietro all’arabesco prezioso si cela la paura del vuoto, il dubbio10. In Sciarrino si aggiunge un tratto utopico, legato agli strumenti e alla percezione, che fa sì che il colore diventi capace di costruire il pezzo, per cui l’arabesco diventa elemento costruttivo (un po’ come in Castiglioni). Nel 1977, anno che dimostra la straordinaria precocità dell’auto-riflessione, in occasione delle sue Variazioni (1974) per violoncello e orchestra alla Biennale di Venezia, Sciarrino descrisse la sua poetica in modo esatto, erano gli anni in cui la sua scrittura si era perfezionata. Non si deve confondere una delle caratteristiche principali della mia musica, l’aspetto utopico, con un semplice fatto virtuosistico: fondamentale è la tensione ai limiti della percezione auditiva, massimamente al limite di velocità, l’approssimarsi cioè al punto in cui si percepisce non più una successione di suoni ma un unico evento sonoro, sfruttando il fenomeno definibile come inerzia auditiva. […] Il timbro non è percepito più soltanto come colore ma determina la struttura linguistica e le prassi esecutive: siffatta concezione restituisce al suono, nell’inscindibilità delle sue componenti, una nuova organicità. […] Il suono è massimamente articolato in unità figurali di grande ricchezza interna, è privo di attacco (viene sempre come da lontano), così come l’intera figura non ha contorni e compare fluttuando. Le unità si articolano quasi sempre in una sorta di hoquetus. […] Ciò che imprime dinamismo a un decorso altrimenti statico è il ricorrere a unità di maggior peso dinamico, diverse timbricamente, a unità più dense o l’affondo nel grave di una musica tutta tessuta ai registri superiori11.

Con la parola ‘virtuosismo’ non s’intendono modalità esecutive di bravura, non si fa ricorso a passaggi tecnicamente trascendentali e fine a se stessi, si tratta più di sensibilità che di destrezza tecnica, una perizia che è saggezza nell’affrontare gli aspetti costitutivi dello stile sciarriniano, per esempio nel suonare i molteplici p, fino ai limiti del silenzio; a non far percepire l’attacco del suono, che deve sembrare nascere dal nulla (un po’ come il suono nascente nell’ultimo Nono); all’intonare in maniera velocissima una lunga serie 10 Se appare il dubbio s’intitola una composizione di Pennisi, dove una figura musicale ritorna in maniera sempre più interrogativa; nella sua Autobiografia, in Autobiografia della musica contemporanea, Lerici, Cosenza, 1979, p. 175, Pennisi dichiara: “La mia musica non è decorata né decorativa ma solo costruita con briciole, frammenti di decorazione, anzi, decorazione pura, senza la pietra, l’intonaco, il legno sotto”. 11 Salvatore Sciarrino, Autobiografia, in Autobiografia della musica contemporanea, cit., pp. 169, 173.

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di armonici, espressi in figurazioni fruscianti; all’individuazione timbrica, cangiante e iridescente. Il senso, per Sciarrino, può essere solo insorgente, mai già affermato; ontologicamente oscuro, per questo deve essere richiamato alla luce, appunto come in una raduna, come un’emergenza. Per ascoltare bisogna svuotare la mente, disintossicarla dalle incrostazioni degli ascolti omologati. Si assiste a un crollo dell’io, a tutto ciò che rimanda alle incrostazioni culturali, al sentimentalismo romanticheggiante, all’omologazione del sentire comune, l’ascolto deve volgersi a intensità lievissime, deve essere in grado di seguire le minime trasformazioni dei suoni, concentrarsi sul suono, come se questo provenisse da distanze infinite, in realtà si tratta della lontananza dalla percezione comune; meditare sui vuoti risonanti e non sulla propria individualità; le passioni vanno espunte e l’orecchio purificato, in una percezione ancestrale. Vi è un titolo di un brano per orchestra, Soffio e forma (1995) che potrebbe riassumere la poetica e la prassi compositiva di Sciarrino: refoli sonori che alitano all’interno di sagome formali trasparenti ma precise. Gli interventi musicali sono brevi, di bisbigliante sottigliezza coloristica, in un’impostazione a incastro, composta da un ingegnoso congegno di sussurri fonici. Sciarrino dice che «il problema compositivo non è tecnico o teorico, bensì un problema di trasformazione del pensiero» e che questo comporta il travaglio dell’artista: «Il principio della scelta, che rende morale lo stile, è di fatto la base cosciente della cosiddetta creazione artistica»12. Seppur le peculiarità dell’originalissima scrittura siano state espresse nella musica strumentale, è nel teatro che Sciarrino esprime la sua filosofia musicale e anche al teatro giunge presto, a 26 anni scrive Amore e Psiche, opera basata su una concezione teatrale atematica e volatile. La linea incorporea, la ricerca timbrica evanescente, i vibrati, i trilli, i glissati, gli echi e i passaggi virtuosistici (affrontati in un nuovo rinascimento strumentale) rimangono una prassi costante anche nei lavori successivi. Dagli anni Ottanta in avanti, il maestro abbina la polverizzazione dei materiali a una ricomposizione, che potremmo definire ‘alchemica’, con altri suoni elaborati minuziosamente, in cui l’ambito delle frequenze si contrae e si dilata velocemente, come nella Sonata II, la quale dimostra la convivenza fra una sonorità liquescente e una più compatta13. In ogni caso, la musica 12 Salvatore Sciarrino, Carte da suono, CIDIM, Roma, 2001, pp. 63, 40. 13 Salvatore Sciarrino, Le figure della musica, cit., sulla sua Sonata II il maestro così si esprime (pag. 75): «Gli accordi disarmonici dapprima scandiscono il silenzio. Da quando sgorga il flusso cangiante, divengono motivo di frammentazione e verranno sostituiti da generazioni di altri elementi: grappoli densi di suono, poi accordi armonici trasparenti. Gli accordi armonici suonano un po’ come campane e sorgono gradualmente dal basso, infine, invadono l’intero campo sonoro rispondendosi dagli estremi registri. […] Il tessuto fluido è come una marea poco afferrabile. Su di esso le interruzioni giocano una doppia funzione di punteggiatura e di propulsione. […] La composizione viene immersa nelle risonanze, e ne ricava un timbro Codice 602

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rimane sostanzialmente monodica, esclude la dimensione ritmica e quella armonica, un monodia che occupa lo spazio. Per il teatro, dopo la giovanile Amore e Psiche, seguono altre prove che segnano sia l’attitudine teatrale di Sciarrino, la sua vocazione alla lieve e labile narrazione, sia l’affermazione del suo personalissimo modo di raccontare e di nascondere, di evocare e di tacere, di rievocare e di favoleggiare. Dal 1973 a oggi, con l’ultima opera Ti vedo, ti sento, mi perdo (2017) sono 17 i lavori teatrali, quasi tutti molto importanti da richiedere approfondimenti a parte. In generale, il ricorso a una narrazione con testo, gesti e scene, viene effettuato per allacciarsi al concetto di racconto, seppur sui generis, racconto che si appoggia su un’esposizione visiva e su una semanticità che la sola musica non può garantire, e soprattutto, perché temporalità e spazialità sono sospese o interrotte, fra descrizione ed evocazione, fra rappresentazione e relazioni intertestuali. Nel teatro si consolida la segmentazione fra vari piani della storia e la differenza del loro peso psicologico ma, contemporaneamente, proprio il susseguirsi e l’accavallarsi degli avvenimenti crea un intreccio dove i fattori di senso si riuniscono, frammentazione e, allo stesso tempo, aggregazione sotto il segno del teatro, della sua natura costitutiva che porta al senso collettivo, dove la parcellizzazione degli elementi si ricompatta infine. In pochi anni si susseguono Aspern (1978), Cailles en sarcophage (1980), Vanitas (1981) e Lohengrin (1983). In Vanitas predomina un’atmosfera appannata, realizzata attraverso arpeggi che progressivamente si svuotano. «È una gigantesca anamorfosi di una vecchia canzone – Stardust – della quale conserva, in modo misterioso, un profumo effimero. […] Le canzoni, sul piano della musica, rappresentano un po’ l’equivalente dei fiori: belle sì, ma effimere. […] Vanitas è un Lied di proporzioni mai udite. […] Un’ipotesi di teatro povero».14 Lohengrin è su libretto dello stesso Sciarrino e di Pier’Ali, ripreso da Laforgue, il testo segue l’ironico racconto di Lohengrin figlio di Parsifal, da cui vengono estratte frasi e parole affidate pressoché totalmente alla figura di Elsa che deve affrontare vari effetti vocali che s’intrecciano con quelli strumentali (16 solisti), in una dimensione onirica che, insieme a quelle mitologiche e fantasmagoriche, è quella più congeniale allo stile musicale e drammaturgico di Sciarrino, perché consente la sospensione del tempo e l’evocazione di uno spazio interiore. Il primo nucleo dell’opera Macbeth risale al 1976 e verrà completata nel 2001, porta come sottotitolo ‘tre atti senza nome’, innominabili perché incentrati su azioni violente e criminali: «Orrore, orrore, orrore / Ah né lingua né cuore / possono darti nome» recita il inconfondibile e un ambiente artificiale. Eccetto che un istante centrale emozionante, di silenzio vero, anche la Sonata II galleggia nel vuoto echeggiante, a cui la musica di oggi fa continuo riferimento». 14 Salvatore Sciarrino, Carte da suono, cit., pp. 79-80.

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libretto dello stesso Sciarrino. Due sono i gruppi strumentali/vocali che disposti vicino o lontano dal pubblico hanno il compito di creare effetti di adiacenza e separazione dalle figure allucinate che volteggiano nello spazio. Del momento della creazione, Sciarrino dice: Avvengono elaborazioni mentali o balenii di idee o semplici desideri che precipitano sulla carta e diventano appunti cartacei talvolta succinti, talvolta voluminosi. A me non succede di cominciare dalla prima nota e finire con l’ultima: metto a fuoco prima le parti principali e poi l’inizio; l’ho potuto verificare perché ricordo la nascita di tutte le mie composizioni. Seguo un percorso di prospettiva generale, che non è assolutamente rettilineo. Per questo motivo posso avere in testa il punto di arrivo, la zona centrale o il culmine, e camminare a ritroso. Per Lohengrin, per esempio, ho scritto prima la canzone finale e poi tutto dall’inizio. La forma è determinata dalla fisionomia del materiale, strettamente connessa alle caratteristiche di esso. Per concepire la forma mi creo dei punti di riferimento, che posso modificare lungo il percorso15.

Un incontro che contribuì ad allargare l’orizzonte musicale, fu quello, avvenuto nel 1986, con Alvise Vidolin, dal quale Sciarrino apprende l’uso del live electronics come elemento progettuale, al tempo stava iniziando a lavorare all’opera Perseo e Andromeda (1991) che sarà il suo primo lavoro basato su suoni generati in tempo reale da quattro computer che operano per sintesi sottrattiva ossia agiscono attraverso filtri che selezionano i suoni dal suono bianco. Il riferimento alla mitologia consente a Sciarrino quella stessa lontananza che gli permette il ricorso al sogno, ai ricordi, alla notte, alla luce o alle nubi (Nuovolario, 1995) ossia di non affrontare in maniera diretta e vicina un argomento ma di trattarlo come assenza, separato dalla concretezza della contingenza, tecnicamente questo avviene grazie al ricorso a profilature leggerissime e a risonanze. Il teatro è anche vocalità, e una ricerca di Sciarrino riguarda l’uso nuovo delle modalità del canto, aspetto evidente in Perseo e Andromeda ma ancor più in Luci mie traditrici (1998) dove il fulcro dell’opera sono proprio le voci, attorno alle quali girano i suoni strumentali, creando un interrotto flusso di coscienza. Luci mie traditrici è l’opera più rappresentata, ben 41 edizioni ed è ispirata al tragico episodio di Carlo Gesualdo principe di Venosa, che fece uccidere la moglie e l’amante di lei, una vicenda assai simile a quella narrata nell’ultima opera, incentrata sull’assassinio di Alessandro Stradella e della sua donna, ad opera di sicari al soldo di un amante geloso abbandonato: amore, morte, tradimento, l’irrazionale e il pazzesco che diventano motori delle storie. Un tempo straniero accompagna la dilatazione allucinatoria di molte storie raccontate da Sciarrino, non orientate, che si appoggiano ad aspetti narrativi che presto svaniscono, lasciando l’ascoltare in sospeso, sarà lui stesso a completare la trama di quelle che sono principalmente fiabe, un teatro interiorizzato e favolistico. 15 www.susannapersichilli.it/salvatore-sciarrino.html (2017). Codice 602

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Non potendo fare un resoconto organico dei tanti capolavori di Sciarrino, sono almeno da ricordare il balletto in due atti su musiche di Bach, Morte a Venezia (1991), l’estasi in un atto, Infinito nero (1998), l’originale musica per pupi siciliani Terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999), l’opera Da gelo a gelo16 e il ‘quasi monologo circolare’ La porta della legge (2009). Il tempo è apparentemente immoto, in una riflessione sul suono nel tempo e sul tempo nel suono, come direbbe Lachenmann, ma questa esteriore immobilità è soggetta a trasmutazioni17 continue di funzioni, direzioni e tensioni, ora verso la stasi vera e propria ora verso un leggero movimento, in un temporalità che alterna continuità e discontinuità, con trazioni e rilassamenti appena percepibili, con espansioni o restringimenti del tessuto musicale e conseguentemente della percezione. Come sempre in Sciarrino occorre vedere/ascoltare al di là dei segni, ponendosi domande più che risposte. Infine, Superflumina (2010), opera in un atto su libretto dello stesso Sciarrino, e Immagina il deserto (2016), per mezzosoprano e dieci strumenti: balenii di idee che vanno a comporre una prospettiva generale, attentissima alla forma che prende consistenza dalle connessioni dei materiali utilizzati, con punti di riferimento all’interno del percorso sonoro che possono cambiare ma che sono comunque fulcri su cui si appoggiano gli aspetti formali. Le ragioni di Sciarrino sono quelle d’indagare il nascere della creazione musicale e i meccanismi della conoscenza, con sentimenti che si rifanno a una sorta di navigazione notturna, fra la mistica del silenzio e dell’ignoto e il razionale legame con un passato di tipo archetipico sia esso personale (memoria) sia storico (le forme barocche che vengono trasfigurate da una mente visionaria), ma a Sciarrino non interessa il passato storiografico ma il presente del passato. Si tratta di un nuovo recitar cantando filtrato attraverso un’immaginazione quasi surrealistica, questo avviene nel teatro ma anche le composizioni strumentali rimandano a una scena virtuale, a un teatro della memoria. L’ultimo suo brano strumentale, per soprano e ensemble, è Immagina il deserto, in prima esecuzione alla 50ma Biennale di Venezia; in attesa dell’opera nuova, Ti vedo, mi sento, ti perdo, per la Scala e per la Staastoper di Berlino, possiamo senz’altro concludere che la musica di Sciarrino si pone quale alto punto di riferimento nel panorama internazionale del mondo musica.

16 “Scrivere anche i libretti delle mie opere è stato un esercizio durato molti anni. […] Il testo Da gelo a gelo si è evoluto con un’enorme velocità, nel momento in cui ho cominciato a metterlo in musica, mentre prima era quasi un’opera letteraria, poi ha preso la sua fisionomia proprio perché la musica può dare tutte le sfumature dei personaggi, la parola deve servire a questo. E in qualche caso viene modificata in ragione della drammaturgia”, in Ricciarda Belgiojoso, Note d’autore, Postmedia book, Milano, 2013, p. 47. Cfr., Renzo Cresti, Ragioni e sentimenti nelle musiche europee dall’inizio del Novecento a oggi, LIM, Lucca, 2016. Inoltre, su Sciarrino cfr. www.finnegans. it/salvatore-sciarrino-percezioni-sottili-fra-sogno-veglia-renzo-cresti. 17 Il concetto di trasmutazione venne esposto da Varèse nel 1927 nel brano Arcana.

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Il suono di Sciarrino, fra soffio e forma

La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini: 1 uno “spettacolo veramente degno di quelle massime scene”

di Alice Tavilla*

Il 19 novembre 1826 va in scena al Teatro San Carlo di Napoli il “dramma eroico-mitologico”2 Niobe, musicato da Giovanni Pacini su libretto di Andrea Leone Tottola. L’opera fu espressamente composta per essere messa in scena il giorno dell’onomastico di Maria Isabella di Borbone – da non molto divenuta regina consorte delle Due Sicilie3 – eseguita da una compagnia che annovera alcuni tra i più importanti cantanti in circolazione sulle piazze teatrali italiane ed estere: Giuditta Pasta, Giovanni Battista Rubini, Carolina Ungher e Luigi Lablache. Il quadro della ricezione dell’opera appare piuttosto complesso; al suo esordio Niobe ottenne un buon successo di pubblico, testimoniato tanto dal numero delle rappresentazioni in quella stessa stagione4, quanto dalle parole del compositore: *

Alice Tavilla è laureata in Cinema, Teatro e Produzione Multimediale all’Università di Pisa con il massimo dei voti e lode. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Musicologia presso l’Università di Pavia. Attualmente è Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali di Cremona (Università di Pavia) con un progetto di “Edizione di musiche vocali non operistiche di Vincenzo Bellini”. Si occupa di storia dell’opera italiana della prima metà dell’Ottocento e filologia musicale operistica. Collabora con Casa Ricordi per la preparazione delle riduzioni per canto e pianoforte delle edizioni critiche e con la Fondazione Rossini di Pesaro.

1 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, Firenze, Guidi, 1865, p. 53. 2 Cfr. il libretto della prima rappresentazione (di qui in avanti NI1819): NIOBE | dramma eroicomitologico | da rappresentarsi | NEL REAL TEATRO DI S. CARLO | La sera del 19. Novembre 1826 | festeggiandosi il fauso giorno onomastico | di | SUA MAESTÀ | MARIA ISABELLA | REGINA DEL REGNO DELLE DUE SICILIE. | NAPOLI, | dalla tipografia flautina, | 1826. 3 Maria Isabella di Borbone-Spagna aveva sposato nel 1802 Francesco principe di Napoli e della Sicilia che, nel gennaio del 1825 – alla morte di re Ferdinando I – salì al trono del Regno delle Due Sicilie. 4 Stando ai dati riportati nella cronologia del Teatro di San Carlo, l’opera andò in scena per 10 rappresentazioni (cfr. Il Teatro San Carlo di Napoli, 2 voll., Napoli, Guida, 1987, II: La cronologia 1737-1987, a cura di Carlo Marinelli Roscioni, p. 201). Secondo Hilary Poriss invece non è chiaro se le rappresentazioni effettive dell’opera nel corso della stagione furono otto o nove (cfr. Hilary Poriss, Changing the Score: Arias, Prima Donnas, and the Authority of the Performance, Oxford, Oxford University Press, 2009, p. 82). Codice 602

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Anche questo mio lavoro godè degli onori del trionfo, ricevendo io di bel nuovo lettera di congratulazione da parte del Re, e non poche altre dimostrazioni di onorificenza5.

A questo promettente inizio non fece seguito, tuttavia, una fortunata circolazione: dopo le prime rappresentazioni, l’opera scomparve dalle scene e non venne mai più ripresa; ciononostante, la storiografia ci ha consegnato l’immagine di un’opera “considerata uno dei capolavori di Pacini”6. Le ragioni per le quali si è generato il paradosso di un’opera-capolavoro che di fatto non venne ascoltata – se non dal pubblico napoletano del 1826 – sono diverse: la prima e più importante risiede nel fatto che se l’opera nella sua interezza sparì poco dopo il suo debutto, il brano di maggior successo – la cavatina di Licida “Il soave e bel contento” – fu scelto come aria di baule da una lunga schiera di cantanti che la fecero circolare in Italia e all’estero7. Pacini, nelle sue Memorie artistiche, dedica a questo brano alcune pagine che possono aver influito sulla creazione del ‘mito’ di Niobe come operacapolavoro: il compositore narra delle vicende che lo portarono a scontrarsi con l’impresario dei Reali Teatri di Napoli, Domenico Barbaja, e col tenore Giovanni Battista Rubini che – uscito insoddisfatto dalla prova – ebbe a lamentarsi perché la musica gli appariva scritta “per uno istrumento e non già per una gola umana”8. Il compositore sostiene di aver rifiutato con forza l’ipotesi di modificare l’aria, assicurando Rubini e Barbaja del successo del pezzo. Alla prima esecuzione la cavatina fu accolta con tale clamore da indurre non solo il pubblico ad applaudire, ma anche la Corte che solitamente non elargiva lodi ai cantanti appartenenti alla Reale Cappella. Alla fine dell’atto Pacini sta per salire sul palcoscenico per ricevere i suoi onori quando si imbatte in Rubini che con ingenuità mi dice: “Maestro, scusami, ero veramente un grand’asino nel rifiutarmi di cantare la cavatina”. Al che rispondo: “Avendo sempre avuta per te molta stima, non posso contraddirti”. Ecco che cosa sono i cantanti! Non conoscono mai le proprie forze. Rubini, come dissi, divenne d’allora in poi il primo tenore del mondo9. 5 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, cit., p. 57. 6 Oscar Chilesotti, I nostri maestri del passato, Milano, Ricordi, 1882, p. 423: “Quest’opera, che viene considerata come uno dei capolavori di Pacini, fu rappresentata al S. Carlo il 19 novembre 1826, ed ebbe interpreti la Pasta, la Ungher, Rubini e Lablache; essa fu calorosamente applaudita”. 7 Si veda a questo proposito Saverio Lamacchia, Pacini, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, <http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-pacini_%28Dizionario-Biografico%29/> (consultato il 13 agosto 2017), ad vocem: “Nel complesso, la recezione delle opere di Pacini al di fuori dei teatri italiani non ebbe straordinaria rilevanza: fu in effetti il solo tra i maggiori operisti italiani del secolo a non creare neppure un’opera in un teatro d’Oltralpe. All’estero, come in Italia, ebbe enorme fortuna una singola aria, Il soave e bel contento, cavatina di Licida nella Niobe, il cui primo interprete fu Giovanni Battista Rubini; l’aria, trasposta, fu cantata anche da soprani e contralti fino agli anni 1840”. 8 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, cit., p. 54. 9 Ivi, pp. 56-57.

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La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini

Al di là dei toni romanzati e aneddotici del racconto, l’ipotesi che la fama di Rubini sia legata alla Niobe è giunta fino ai giorni nostri10; se invertiamo i termini di questa equazione appare evidente che l’associazione con Rubini ha contribuito non poco ad alimentare l’ipotesi dell’opera-capolavoro. Non solo: la ricostruzione di Pacini, ci informa tra le righe di un aspetto ben più significativo dell’aneddoto in se stesso: il compositore chiama la cavatina “I tuoi frequenti palpiti”, incipit della stretta dell’aria, e non “Il soave e bel contento”, primo verso del cantabile che dà nome al numero. Fu in effetti proprio la seconda sezione del brano ad attirare l’attenzione di pubblico, cantanti e compositori: la melodia divenne infatti talmente popolare da essere presa ad oggetto per una serie di trascrizioni strumentali eseguite poi all’interno di salotti privati11. La più celebre di queste trascrizioni è il Divertissement sur la cavatine “I tuoi frequenti palpiti” (1835-36), un’opera per pianoforte solo di Franz Liszt che la impiegò nel suo famoso duello pianistico contro Sigismund Thalberg, avvenuto nel salotto della principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso il 31 marzo del 1837. Hilary Poriss – nella sua dettagliata ricostruzione della fortuna di quest’aria – si domanda perché Liszt, per un evento così determinante per la sua carriera di virtuoso, selezionò proprio questa melodia e non, piuttosto, del materiale musicale tratto da opere più popolari: Having traced “Il soave e bel contento” through a variety of contexts, an answer begins to emerge: this piece may have been just as familiar to Liszt’s spectators as any of the tunes he drew from Bellini’s and Donizetti’s works. Just how popular this music was only becomes clear with a survey of its travel as a favorite insertion12.

Lo studio prosegue con un’approfondita analisi dell’aria volta ad individuare le motivazioni che permisero l’inserimento della stessa in numerosi e differenti contesti operistici: se dal punto di vista del testo verbale “most of the text is generic, making its introduction into a variety of dramatic situations a simple matter”13, da quello musicale 10 Si veda a questo proposito Bruno Cassinelli, Antonio Maltempi, Mario Pozzoni, Rubini. L’uomo e l’artista, Romano di Lombardia, Cassa Rurale ed Artigiana di Calcio e di Covo, 1993, p. 19: “L’opera che lasciò di Rubini un indelebile ricordo nei napoletani e che definitivamente lo consacrò il più grande cantante che avesse calcato le scene dei teatri partenopei fu la “Niobe” di Pacini. […] Sino ad allora […] Rubini era stato, nonostante i successi, muto ed umile testimone dei trionfi dei colleghi”. 11 Per una prima ricognizione delle trascrizioni strumentali sopra “Il soave e bel contento” si veda Hilary Poriss, Changing the score, cit. pp. 84-85. 12 Ibidem. Sul concetto di ‘favorite insertions’ si veda Ivi, p. 66: “My purpose, rather, is to introduce a second model that played an equally powerful role during the first half of the nineteenth century and perhaps earlier: the ‘favorite insertion’. Favorite insertions embodied a communal quality, performed as substitutes and/or interpolations by a host of different singers in an assortment of operatic contexts”. 13 Ivi, p. 85. Codice 602

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Alice Tavilla

Pacini’s musical setting may also have facilitated the incorporation of “Il soave e bel contento” into a variety of operatic contexts: […] its doublearia structure parallels that of many other aria composed at this time, thus allowing it to function well as replacement. Further, the presence of standard musical formulae – stock figures and gestures that become familiar to spectators either through Pacini’s own work through that of his contemporaries – may help explain why this aria had such a ubiquitous presence during the first half of the nineteenth century14.

Dal punto di vista testuale, non mi pare che la costruzione in due tempi (cantabile-stretta) possa costituire un elemento di effettiva facilitazione dell’operazione di estrazione di un aria da un contesto originario e la ricollocazione in un nuovo assetto: la storia delle tradizioni operistiche abbonda di esempi di numeri interpolati costruiti su una struttura differente da quella del brano che viene sostituito. Basterà qui ricordare, a titolo di esempio, il caso di un’altra fortunata aria paciniana: in occasione di una ripresa della Pietra del paragone al Théàtre Italien di Parigi nel 1821, la prima donna Giuseppina Ronzi de Begnis sostituì alla Cavatina di Clarice, la Cavatina di Amalia, “Cara adorata immagine”, nel Barone di Dolsheim di Giovanni Pacini; se l’originale rossiniano è un’aria in due tempi15, il brano paciniano è invece monopartito, un Allegro moderato in Re maggiore che ricorda la struttura di una stretta16. La stessa Cavatina di Amalia si trova inserita all’interno di alcuni testimoni musicali a stampa francesi e tedeschi del Barbiere di Siviglia in luogo dell’Aria di Rosina “Contro un cor”, meglio nota come Aria della lezione17. D’altro canto, l’impiego di formule musicali standardizzate familiari agli spettatori è in quest’epoca talmente diffuso da poter essere difficilmente considerato come fattore discriminante nella scelta di un’aria di baule. Assai più interessante mi pare invece l’ipotesi, avanzata da Poriss, circa le ragioni ‘sociali’ che possono aver spinto i cantanti ad appropriarsi di questo numero:

14 Ivi, p. 89. 15 Ringrazio Andrea Malnati e la Fondazione Rossini di Pesaro per avermi fornito i materiali relativi a questa ripresa dell’opera. L’edizione critica della Pietra del Paragone a cura di Patricia B. Brauner e Anders Wiklund è in corso di preparazione e sarà pubblicata a breve. 16 A proposito di “Cara adorata immagine” nel Barone di Dolsheim si vedano Tavilla Alice, «Trovare nuove forme» al tempo di Rossini: per un’analisi della prima produzione di Giovanni Pacini, in «Bollettino del centro rossiniano di studi», LIII, 2013, pp. 85-108: 97-100, e Id., Il barone di Dolsheim di Felice Romani e Giovanni Pacini. Fortuna e tradizione testuale (1818-1840), tesi di dottorato, Dipartimento di Musicologia e Beni culturali, Università di Pavia, 2013, pp. 28-29. La tesi di dottorato è in corso di pubblicazione e sarà edita a breve da LIM-De Sono. 17 Cfr. Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia (Almaviva o sia l’inutile precauzione), edizione critica a cura di Alberto Zedda, 2 voll. + commento critico, Pesaro, Fondazione Rossini, 2009 («Opere teatrali», 17), Fonti: 92, 102 e Commento critico: 23, 26-27, 153.

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La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini

Common sense might dictate, then, that singers whose not scaled the heights of Pasta’s and Rubini’s would steer clear of “Il soave e bel contento” to avoid inevitable, and pharaps unfavorable, comparision. But the reverse was true. Contemporary reviews suggest that performers often chose insertion arias intentionally to emulate these two legends and to encourage associations with them. […] Favorite insertions, therefore, often had direct links to one or two famous singers. These prima donnas and leading man set the “fashion” for their contemporaries, authorizing not only particular operatic moments, but also popularizing a sample of arias from which other singers occasionally drew18.

Al contrario di quanto saremmo portati a pensare, i cantanti tendevano ad impiegare arie di baule già rese note dagli esecutori più celebri in circolazione: l’eventuale confronto con esecuzioni memorabili veniva a configurarsi più come un vantaggio che come un rischio. In questo modo si creava una sorta di ‘grosso baule’ ad uso comune di tutti i cantanti che potevano attingervi selezionando uno dei tanti pezzi ivi contenuti, già resi celebri dai contemporanei divi del teatro d’opera. Questa interpretazione spiega, sul piano della storia sociale dell’opera, le motivazioni per cui “Il soave e bel contento” ebbe una così ampia circolazione: eseguita in occasione dell’esordio di Niobe da Giovanni Battista Rubini, venne da lui ripresentata in almeno cinque produzioni operistiche successive e in numerosi concerti19; contestualmente, la stessa operazione fu condotta anche da Giuditta Pasta che, interprete del personaggio di Niobe alla prima dell’opera, si appropriò della cavatina di Licida e ne fece uno dei suoi morceaux favoris. Resa celebre da due tra i più importanti cantanti dell’epoca, l’aria iniziò ad essere adottata anche da altri esecutori che si giovarono dell’inevitabile paragone con le eccezionali interpretazioni dei loro predecessori. Al di là delle possibili interpretazioni, mi pare che almeno un aspetto resti da chiarire: considerato l’altissimo livello di tutta la compagnia di canto che eseguì l’opera al suo debutto, perché solo “Il soave e bel contento” venne scelta come aria di baule e si guadagnò fortuna e circolazione negli anni a venire? L’analisi del testo verbale e musicale, come abbiamo visto, non fornisce una risposta pienamente soddisfacente a questa domanda; a ciò si aggiunga che l’indagine sui meccanismi sociali che governavano la circolazione di cantanti e brani elude in qualche modo questa domanda per concentrarsi sulle procedure che vengono messe in campo dopo che il numero è stato selezionato. Ritengo opportuno, a questo punto, fare un passo indietro e cercare risposte plausibili a questo quesito tanto nel contesto in cui Niobe vide la luce, quanto nelle caratteristiche dell’opera nella sua interezza. 18 Hilary Poriss, Changing the Score, cit., pp. 95-97. 19 Ivi, p. 95. Codice 602

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Il debutto di Pacini sulle scene partenopee risale al 1819, al Teatro Nuovo, con l’allestimento di Adelaide maritata e Comingio pittore (titolo alternativo di Adelaide e Comingio), scritta per il Teatro Re di Milano nel 181720. Ad essa seguirono nell’ordine il Barone di Dosheim (Milano, Teatro alla Scala, 1818) nel 1820 e Il falegname di Livonia (Milano, Teatro alla Scala, 1819) nel 1823, entrambe date sia al Teatro S. Carlo che al Teatro del Fondo, e nel 1824 una ripresa della Sposa fedele (Venezia, Teatro di S. Benedetto, 1817) al Teatro Nuovo. La musica di Pacini non era dunque sconosciuta ai napoletani, ma il vero e proprio esordio del compositore con un’opera espressamente scritta per Napoli avviene solo nel 1824 con l’allestimento di Alessandro nelle Indie al Teatro S. Carlo: grazie ad una non meglio precisata intercessione dello stampatore milanese Gaetano Pirola21, il compositore riesce a chiudere il contratto con l’impresario Glossop22. Pacini dedica al racconto della composizione e delle prime recite di quest’opera numerose pagine, in cui si trovano, con buona probabilità, alcune delle sue più note affermazioni: se da un lato il compositore manifesta l’entusiasmo di “esperimentare le massime scene partenopee, palestra di tanti celebrati uomini” – e come non esibire anche in quest’occasione il consueto paragone con Rossini!23 – al contempo mostra di sentire vivida la pressione del debutto in un “teatro di gran cartello” su cui ancora non aveva presentato alcun nuovo lavoro.

20 Per una ricostruzione degli allestimenti delle opere di Pacini a Napoli si veda Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Pacini a Napoli al tempo di Barbaja: percorsi di una carriera teatrale, in in Intorno a Giovanni Pacini, a cura di Marco Capra, Pisa, ETS, 2003 («Studi musicali toscani», 10), pp. 67-80. 21 Cfr. Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, cit., p. 40: “Il mio amico Gaetano Pirola fu quello che mi propose il contratto”. 22 In questi anni Domenico Barbaja aveva abbandonato la gestione dei Reali Teatri napoletani. Sulla carriera del suddetto impresario si vedano: Philip Eisenbeiss, Domenico Barbaja: il padrino del belcanto, Torino, EDT, 2015; Paologiovanni Maione, Francesca Seller, I Reali Teatri di Napoli nella prima metà dell’Ottocento. Studi su Domenico Barbaja, Bellona, Santabarbara, 1995 (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, «Ricerche Musicali»); Id., Domenico Barbaja a Napoli (1809-1840): meccanismi di gestione teatrale, in Gioachino Rossini 1792-1992: il testo e la scena, a cura di Paolo Fabbri, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994, pp. 403-429; Id., L’ultima stagione napoletana di Domenico Barbaja (1836-1840): organizzazione e spettacolo, «Rivista italiana di Musicologia», XXVII/1-2, 1992, pp. 257-325. 23 Rossini arriva a Napoli nell’autunno del 1815 e vi resta fino al 1822. Per un primo approfondimento sulla carriera di Rossini a Napoli si veda il paragrafo 4. Naples and the ‘opera seria’1815-1823 in: Philip Gossett, Rossini, Gioachino, in Grove Music Online, < http://www. oxfordmusiconline.com/subscriber/article/grove/music/23901pg4#S23901.4> (consultato il 14/08/2017). Per una prima indagine sui rapporti tra Pacini e Rossini si vedano Giovanni Carli Ballola, I pianeti e l’Astro maggiore: due fasi del rossinismo di Pacini, «Nuova rivista musicale italiana», 30/3-4, 1996, pp. 323-331 e Alice Tavilla, «Trovare nuove forme» al tempo di Rossini: per un’analisi della prima produzione di Giovanni Pacini, cit.

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Il buon successo di Alessandro nelle Indie induce Domenico Barbaja a scritturare Pacini per altre due opere da darsi nell’anno successivo; la prima, Amazilia, va in scena in prima assoluta il 6 luglio 1825, ma il vero successo napoletano di Pacini è L’ultimo giorno di Pompei che esordisce al S. Carlo il 19 novembre dello stesso anno; l’occasione per quest’opera nasce da circostanze fortuite: era infatti previsto per la stagione il debutto di Meyerbeer con Il crociato in Egitto, ma la partenza del soprano Josephine Fodor obbligò l’impresa a rinviare l’opera alla stagione successiva e scritturare Pacini24. Con lo straordinario successo dell’Ultimo giorno di Pompei il compositore si guadagna un “contratto per nove anni qual direttore dei suoi [di Barbaja] teatri ai medesimi patti e condizioni che il sommo pesarese aveva ottenuti”25. Il 1825 è un anno chiave per la carriera di Pacini a Napoli perché a quell’anno risale la composizione di un Inno per celebrare l’insediamento al trono di Napoli di Francesco I: si tratta della prima occasione in cui il compositore è incaricato di scrivere le musiche per officiare uno degli eventi della Corte. La famiglia reale in effetti mostrò in più di una occasione il privilegio e la protezione accordati a Pacini: è del 1829 la cantata L’annunzio felice per celebrare le nozze di Maria Cristina di Borbone con Ferdinando VII di Spagna, mentre al 1832 risale un’altra cantata, Il felice imeneo, composta per il matrimonio di Ferdinando II con Maria Cristina di Savoia26. A ciò si aggiunga che molte delle opere scritte da Pacini per Napoli vanno in scena in prima assoluta in occasione di altre ricorrenze e festeggiamenti reali27: il primo allestimento di Niobe ha luogo il 19 novembre, giorno dell’onomastico della regina Maria Isabella28; l’opera suscitò un tale gradimento nei reali da indurre il re ad inviare a Pacini – a seguito della prima esecuzione – una lettera di encomio29. L’aperto sostegno rivolto dalla famiglia reale 24 Per una dettagliata ricostruzione della vicenda si veda Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Pacini a Napoli al tempo di Barbaja: percorsi di una carriera teatrale, cit., pp. 69-70. 25 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, cit., p. 50. 26 Per un approfondimento si veda Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Pacini a Napoli al tempo di Barbaja: percorsi di una carriera teatrale, cit., pp. 68-69. 27 Le occasioni sono esplicitate – come spesso accade – nei frontespizi dei libretti a stampa per le prime rappresentazioni: Amazilia va in scena il 6 luglio in occasione del «fausto giorno natalizio | di | SUA MAESTÀ | MARIA ISABELLA»; come Niobe, L’ultimo giorno di Pompei e Margherita regina d’Inghilterra vanno in scena il 19 novembre per l’onomastico della Regina; Gli Elvezi o Corrado di Tochenburgo il 12 gennaio 1833 «ricorrendo il fausto giorno natalizio | di | SUA MAESTÀ | FERDINANDO II». 28 Si veda il frontespizio di NI1819. 29 Il documento, datato 21 novembre 1826, è conservato all’Archivio di Stato di Napoli, Teatri, fascicolo 5. Non avendo potuto visionare personalmente la lettera, rinvio ancora una volta a Paologiovanni Maione, Francesca Seller, Pacini a Napoli al tempo di Barbaja: percorsi di una carriera teatrale, cit., pp. 69-70. Codice 602

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in particolare a quest’opera ha di certo contribuito a far circolare l’idea di un capolavoro; Pacini, dal canto suo, non manca di ricordare l’episodio30, ma in un certo senso lo minimizza al fine di enfatizzare il curioso racconto di una visita al conservatorio, avvenuta il giorno seguente: [Zingarelli] volle condurmi nel refettorio degli Alunni. Nel vedermi quella gioventù, che aveva assistito alla prima rappresentazione della Niobe, proruppe in acclamazioni, gettando per aria piatti, bottiglie e quanto le veniva dinanzi. Fra costoro trovavansi il mio concittadino Bellini, il Petrella, Luigi Ricci […] ad altri ancora che poi salirono in rinomanza.

È evidente che, nel ricostruire la propria carriera a posteriori, Pacini – consapevole del cambiamento dei tempi e desideroso di essere inserito nella rosa dei grandi – è ben più interessato a promuovere se stesso come un compositore apprezzato dai colleghi per il proprio talento, che non come musicista protetto dai sovrani. Nella Napoli dell’epoca, tuttavia, l’opinione e il ruolo dei reali avevano non poca importanza tanto nella diffusione del gusto quanto nella carriera dei musicisti. È opinione ormai indiscussa che i compositori dell’Ottocento scrivessero – e dunque adattassero le proprie composizioni – tanto per la piazza cui le opere erano destinate quanto per la compagnia che le avrebbe eseguite: anche da questo punto di vista il contesto napoletano – in particolare il Teatro San Carlo, all’epoca una delle tre più importanti piazze italiane insieme alla Scala di Milano e alla Fenice di Venezia – era caratterizzato da una serie di peculiarità che spesso richiedevano ai compositori non nativi uno sforzo di adattamento maggiore che altrove: pensai […] che il gusto predominante di quella numerosa popolazione dovesse essere la melodia, ed in ciò mi rinfrancava ancora il sentire di continuo ripetere dolcissimi canti veramente originali e commoventi, accentati in modo meraviglioso. Mi applicai pertanto a rintracciare pensieri puri e semplici non tralasciando però di accurare la parte concertata e istrumentale nella quale era andato di mano in mano progredendo, studiando gli effetti delle varie famiglie degli strumenti, e facendo ognor più tesoro dei sommi musicisti alemanni.

Le parole di Pacini sono, a mio avviso, proprio da intendersi in quest’ottica: confrontarsi con il S. Carlo significava inevitabilmente adattare le proprie composizioni alle peculiari convenzioni di quel teatro e del suo pubblico. Dichiarazioni di questo tipo – incentrate indistintamente e in modo del tutto vago sul lavorio relativo agli aspetti più disparati della composizione – abbondano nelle Memorie artistiche del compositore e, a mio parere, è opportuno non caricarle di eccessivo significato31. 30 Si veda la prima citazione all’inizio del presente contributo. 31 Diversa da questo punto di vista è l’opinione di Giuseppina Mascari che, dopo aver preso in

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La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini

Pacini sembra accogliere quelle che sono le tendenze caratteristiche delle opere napoletane di quegli anni, rinunciando in primo luogo all’impiego dei recitativi semplici, sostituiti con recitativi strumentati con accompagnamento degli archi: Sempre più frequente era la scelta della variante “strumentata/obbligata” del recitativo, preferita via via che si saliva di genere (dal comico, al semiserio, al serio). […] Se il napoletano teatro S. Carlo, votato all’opera seria e per di più sotto l’influsso francese, richiese ai propri autori solo recitativi strumentati, non altrettanto accadde altrove32.

Il riferimento all’influsso francese è più che mai significativo, dal momento che nell’opera napoletana di questi anni sono molti gli elementi di diretta derivazione da quel contesto33. Gli aspetti desunti dalla tradizione francese nei primi anni del secolo erano poi stati ampiamente codificati dalle opere napoletane di Rossini – a quest’epoca considerati capolavori considerazione alcuni passaggi tratti dalle Memorie decisamente simili a quello qui citato, scrive: “Il merito delle opere di Pacini attorno alla metà degli anni Venti non va dunque rintracciato nella rottura degli schemi seguiti in precedenza, quanto piuttosto nel tentativo di infondere alle sue opere un tono omogeneo e coerenza drammatica, nell’evidente ricerca di uno stile melodico più espressivo, maggiormente aderente allo stato emotivo dei personaggi” (Giuseppina Mascari, Gli Arabi nelle Gallie di Giovanni Pacini: l’edizione critica, tesi di dottorato, Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo, Università degli studi di Torino, 2008, p. 19). Mi trovo perfettamente d’accordo con la studiosa nel ritenere che non vi sia nella prima produzione di Giovanni Pacini alcuna volontà – o evidenza – di rottura con gli schemi formali normalmente impiegati dai compositori dell’epoca; tuttavia, benché non si possa escludere a priori che effettivamente Pacini si concentrasse in quegli anni sull’elemento melodico, le sue dichiarazioni non possono essere considerate attendibili tout court: le numerose occorrenze con cui il compositore si autopromuove attraverso dichiarazioni come “pensiero melodico di qualche novità” o “studiava il modo di dare accento diverso ai metri della poesia onde non cadere in melodie che ricordassero qualche altro pensiero” e ancora “feci qualche progresso nel genere declamato e cercai d’immedesimarmi nell’argomento, onde dare qualche poco di unità allo stile della composizione”, sono tanto generiche quanto applicate (e applicabili) a tutte le opere di cui lo stesso Pacini tratta. A ciò si aggiunga che all’epoca la melodia e l’invenzione melodica erano il centro d’interesse tanto dei compositori (cfr. Fabrizio Della Seta, Italia e Francia nell’Ottocento Torino, EDT, 1993 («Storia della musica», a cura della Società Italiana di Musicologia, vol. 9), p. 172: “L’attenzione del compositore è tutta rivolta all’individuazione del ‘motivo’, lo spunto iniziale della melodia che deve fissare in maniera indelebile il carattere espressivo del pezzo”.) quanto della critica coeva (cfr. Renato di Benedetto, Lineamenti di una teoria della melodia nella trattatistica italiana fra il 1790 e il 1830, in Die stilistiche Entwicklung der italischen Musik zwischen 1770 und 1830 und ihre Bezeihungen zum Norden. Colloquium Rom 1978, a cura di Friedrich Lippmann, Volk-Laaber, Laaber 1982 («Analecta Musicologica», XXI), pp. 421-443 e Virgilio Bernardoni, La teoria della melodia nella trattatistica italiana (1790-1870), «Acta Musicologica», LXII, 1990, pp. 29-61). 32 Paolo Fabbri, Metro e canto nell’opera italiana, Torino, EDT, 2007, p. 116. 33 Per un approfondimento sull’influenza dell’opera francese e sulle caratteristiche dell’opera a Napoli nella prima metà del XIX secolo si vedano: Giovanni Carli Ballola, Presenza e influssi dell’opera francese nella civiltà melodrammatica della Napoli murattiana: il «caso» Manfroce, e Elvidio Surian, Organizzazione, gestione, politica teatrale e repertori operistici a Napoli e in Italia, 1800-1820 entrambi pubblicati in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di Lorenzo Bianconi e Renato Bossa, Firenze, Olschki, 1983, rispettivamente alle pp. 307-315 e 317-367. Codice 602

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indiscussi e inevitabili modelli da seguire – e divenuti quindi elementi tipici delle consuetudini compositive napoletane. Particolare rilievo era accordato alla componente scenografica e coreografica: in Niobe viene conservata l’abitudine – tutta italiana – di inserire “balli analoghi” tra i due atti dell’opera34, ma all’interno del secondo atto viene inserito anche un passo a sei “composto dal Signor Samengo”; non solo: Pacini introduce all’interno dei suoi numeri alcune sezioni che chiama “ballabili”35: non veri e propri balli dunque, ma brevi momenti strumentali in cui è verosimile ritenere che avvenissero sulla scena movimenti coreografici; che il compositore abbia rivolto molta attenzione agli aspetti visivi dell’allestimento è testimoniato anche dalla presenza nella partitura autografa36 di numerose indicazioni di natura scenica, generalmente assenti (o comunque meno dettagliate) nelle coeve partiture destinate a teatri non napoletani: si vedano a titolo di esempio le indicazioni, nel vol. 1 “Tutto il corpo di ballo” (c. 45v), “Niobe prende per mano Asteria” (c. 51r). Alla grandeur scenica si lega anche la straordinaria importanza assegnata al Coro, in Niobe sostanzialmente presente in tutto il corso dell’opera: lo troviamo infatti nel [N. 1] Introduzione, [N. 2] Coro, Ballabile, Cavatina Niobe e Duetto Niobe-Asteria, [N. 3] Ballabile, Coro, Marcia e Cavatina Licida, [N. 4] Quintetto e Finale primo, [N. 5] Coro Introduzione atto secondo, [N. 7] Coro, Rec[itativo] e Preghiera, [N. 8] Coro di cicliopi, [N. 10] Coro, [N. 11] Coro, [N. 12] Marcia, [N. 13] Coro e Ballabile, [N. 14] Aria di Niobe37, [N. 15] Finale secondo. Tutti questi aspetti concorrono alla formazione di quello che sembra essere, ai fini del nostro discorso, l’aspetto principale di quest’opera, e più in generale delle opere napoletane di Pacini e dei suoi contemporanei: la struttura di Niobe è costruita sulla concatenazione di grandi numeri compositi, formati cioè da più numeri tradizionalmente intesi. L’assenza dei recitativi secchi che generava la tradizionale alternanza pezzo chiusorecitativo viene qui a mancare e i numeri si innestano uno nell’altro fino a formare delle macro-unità che consentono l’entrata e uscita di diversi personaggi, tra cui anche ballerini e coro che creano grandi movimenti coreografici. La struttura a numeri resta ed è ben chiara, così come resta il recitativo strumentato con funzione di separazione dei pezzi chiusi; ma l’entità-numero si espande fino ad inglobare in sé stessa diversi numeri 34 Cfr. NI1819, p. 4: “I balli analoghi sono composti dal Signor Pietro Hus, Maestro della Reale Scuola Generale di ballo”. 35 Mi riferisco in particolare al [N.2] Coro, Ballabile, Cavatina Niobe e Duetto Niobe e Asteria, al [N. 3] Ballabile, Coro, Marcia e Cavatina Licida e al [N. 12] Coro e Ballabile. Si veda la partitura autografa (cfr. nota 36) rispettivamente alle cc. 38r-68v, 82r-93v e 149r-153r. 36 La partitura autografa (di qui in avanti A), in due volumi, è conservata alla Biblioteca di musica del Conservatorio San Pietro a Majella, 14.1.19-20. 37 L’Aria di Niobe manca in A. Ciononostante il libretto è sufficiente a determinare la presenza del coro con funzione di pertichino all’interno del numero.

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concatenati38. Ritengo che uno sguardo alla struttura dell’autografo possa essere utile a comprendere meglio questo aspetto39: 40 41 42

VOLUME 1 – ATTO PRIMO

[N. 1]

[N. 2]

[N. 3]

[N. 4]

[Preludio]40

c. 1r41 (c. 1v vuota)

Introduzione

cc. 2r-35v

[Recitativo] Dopo l’Introduzione

cc. 36r-37v

Coro, Ballabile, Cavatina Niobe e Duetto Niobe ed Asteria

cc. 38r-68r

[Recitativo]

cc. 68v-81r

Ballabile, Coro, Marcia e Cavatina Licida42

cc. 82r-93v

[Recitativo] Dopo la Cavatina di Licida

cc. 94r-95r (c. 95v vuota)

Quintetto e Finale atto P.mo

cc. 96r-150r (c. 150v vuota)

38 Si tenga sempre presente che numeri compositi di questa fattura non sono né una novità né, tanto meno, una innovazione introdotta da Pacini: come ho già avuto modo di evidenziare, era abitudine ormai consolidata, da Rossini in avanti, quella di comporre opere così configurate. Sarà sufficiente qui ricordare la struttura del N. 10 dell’Otello di Rossini, numero unico che occupa l’intero terzo atto dell’opera ed è costituito da: [Recitativo] – [Canzone del gondoliero] – [Recitativo] – [Canzone del salice] – [Preghiera] – [Scena e Duetto Desdemona – Otello] – [Scena ultima]. Cfr. Gioachino Rossini, Otello, ossia il Moro di Venezia, edizione critica a cura di Michael Collins, 2 voll. + commento critico, Pesaro, Fondazione Rossini, 1994 («Opere teatrali», 19). 39 La tabella qui presentata riproduce l’assetto di A nelle sue articolazioni interne; ciò non determina, naturalmente, una coincidenza con l’effettiva struttura dell’opera: in vista di una potenziale edizione critica, molte decisioni andrebbero prese sulla successione di numeri e recitativi. Nel caso, ad esempio, del [N. 5], si potrebbe ipotizzare una separazione del Coro Introduzione dal successivo Rec[itativo] (collocato alla fine del numero). 40 Non si tratta di una vera e propria sinfonia d’apertura, ma di un breve incipit di 4 battute costituite da accordi ribattuti con funzione di richiamo all’inizio dell’opera. Secondo Giuseppina Mascari si tratta di una altro elemento tipico del periodo napoletano: “In tutta la produzione [paciniana] successiva al 1824 notiamo inoltre la soppressione della Sinfonia d’apertura (in Niobe abbiamo un preludio assai conciso) sicché l’opera prende avvio direttamente con l’Introduzione” (Giuseppina Mascari, Gli Arabi nelle Gallie di Giovanni Pacini: l’edizione critica, cit., p. 21). 41 In A la numerazione, progressiva e continua per i due volumi si trova sul verso di ogni carta ed è stata apposta da una mano differente da quella di Pacini. 42 Il numero si interrompe con la conclusione della Marcia. A c. 94r, nell’angolo in alto a sinistra si legge “Manca l’aria di Licida | I tuoi frequenti palpiti | F. Florimo”. Codice 602

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VOLUME 2 – ATTO II [N. 5]

Coro Introduzione Atto 2.do [e Recitativo dopo l’Introduzione]

cc. 2r-19r (c. 19v vuota)

[N. 6]

Duetto Atto 2.do [Niobe-Licida]

cc. 20r-41r (c. 41v vuota)

Rec[itativo] Dopo il Duetto Atto 2.do

cc. 42r-43r (c. 43v vuota)

[N. 7]

Coro, Rec[itativo] e Preghiera

cc. 44r-67v

[N. 8]

Coro di Ciclopi

cc. 68r-81r (c. 81v vuota)

[N. 9]

Duetto [Niobe-Anfione] e Sestetto

cc. 82r-124v

[N. 10]

Coro Atto 2.do

cc. 125r-132v

Rec[itativo dopo il Coro]

cc. 133r-134r

[N. 11]

Coro43

cc. 134v-139r (c. 139v vuota)

[N. 12]

Marcia44

cc. 140r-147r (c. 147v vuota)

Rec[itativo dopo la Marcia]

cc. 148r-148v

Coro e Ballabile45

cc. 149r-153r

[N. 13]

Ballo – Passo a sei46 [Recitativo] Dopo il passo a sei [N. 14]

[N. 15]

cc. 154r-156v

Aria di Niobe47 [Recitativo] Dopo l’Aria di Niobe

cc. 157r-158r (c. 158v vuota)

Finale Atto 2.do

cc. 159r-163v

4344 45 46 47

43 A c. 134v Pacini non appone alcun titolo. Il titolo è ricavato da quanto indicato a c. 133v, al termine del Recitativo dopo il Coro: “Segue Coro”. 44 A c. 140r Pacini non appone alcun titolo. “Marcia” è ricavato dal titolo del recitativo che segue il numero. 45 A c. 149r Pacini non appone alcun titolo. Il titolo è ricavato da quanto indicato a c. 148v, al termine del Recitativo dopo la Marcia: “Segue Coro e ballabile”. 46 La musica per il ballo, composta da Samengo, manca in A e probabilmente non vi fu mai inserita. A c. 153r Pacini scrive “Segue passo a sei”, e a c. 153v “Ballo”. 47 L’Aria di Niobe manca in A. Deve tuttavia esservi stata presente perché a c. 156v Pacini scrive “Segue Aria” e a c. 157r: “Dopo l’Aria di Niobe Atto 2.do”.

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Come appare evidente dalla tabella, l’alternanza di recitativi-pezzi chiusi viene sostanzialmente sempre mantenuta: in alcuni casi – N. 5 e N. 10 – il recitativo che separa i numeri viene inglobato all’interno del brano precedente, ma questo non altera di fatto la sua funzione di separazione48. Le ragioni di questo modus operandi rispondono essenzialmente a esigenze pratiche: la scrittura continua sulle stesse carte, con gli strumenti già assegnati ai relativi righi, rendeva più agevole l’inclusione dei numerosi inserti strumentali che si trovano nel corso di questi recitativi49. Alla luce di quanto descritto finora possiamo tentare di fornire qualche risposta aggiuntiva alla domande che ci siamo posti all’inizio di questo contributo: perché un’opera consegnata ai posteri come ‘capolavoro’ non venne mai più eseguita dopo le prime rappresentazioni? Quali sono le ragioni che portarono al successo e alla circolazione della sola Cavatina di Licida “Il soave e bel contento”? Non vi è dubbio che replicare Niobe in un teatro diverso dal S. Carlo – e “niun teatro può esser rivale al S. Carlo in grandezza, in eleganza”50 – sarebbe stata impresa assai ardua: oltre all’ordinaria compagnia di canto, sarebbe stato necessario disporre di un coro considerevolmente numeroso, di un’ampia compagnia di ballo e di un palcoscenico sufficientemente grande da poter ospitare estesi movimenti di massa. Tutto questo significava, di fatto, avere un’ampia disponibilità economica estremamente difficile da avere per la maggior parte dei teatri dell’epoca. L’alternativa sarebbe stata quella di modificare l’opera e piegarla alle nuove esigenze: l’assenza del coro e dei balli avrebbe snaturato l’opera nella sua concezione originaria, ma di certo non fu uno scrupolo di questo tipo a frenare la circolazione dell’opera. Piuttosto mi pare che un’opera strutturata come Niobe mal si presti ad operazioni di manipolazione: la scarsità di numeri solistici rendeva già di per sé disagevole l’idea di estrapolare brani e farne arie di baule; al contempo la presenza di numeri così complessi avrebbe richiesto l’adozione di varianti di parte dei numeri – e non di numeri interi – operazione sensibilmente più complessa che rendeva necessaria una serie di aggiustamenti al fine di accomodare il cambiamento. Se capovolgiamo quest’ultimo ragionamento, possiamo forse trovare una ulteriore risposta, sul piano filologico, alla notorietà della cavatina di Licida: si tratta, prima di tutto, di uno dei pochissimi brani solistici dell’opera, fatto 48 Per questa ragione ho preferito mantenere il termine ‘recitativo’, evitando la dicitura ‘scena’ che allude a qualcosa di introduttivo anziché conclusivo e separatorio. A ciò si aggiunga che Pacini, in tutto il corso della partitura, non impiega mai il termine ‘scena’. NI1819 è costruito in maniera tradizionale, tanto che la lettura avrebbe fatto pensare ad una struttura musicale più ordinaria, basata sull’alternanza di recitativi e numeri ‘semplici’. 49 Nei recitativi separati dai numeri infatti si trovano nella stessa pagina più accollature, dal momento che solo gli archi accompagnano il canto. 50 Giovanni Pacini, Le mie memorie artistiche, cit., p. 55. Codice 602

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questo che ne rendeva più semplice l’appropriazione da parte del cantante come aria di baule. È pur vero che la cavatina, nell’autografo, non è un numero autonomo: ciononostante essa è posizionata al termine del N. 3, come ultima sezione; inoltre il fatto che l’incipit si sarebbe trovato, virtualmente, a c. 94r, sul recto di un foglio (o bifoglio), ne rendeva più semplice l’estrapolazione51. Questa considerazione è condotta naturalmente sulla base della struttura dell’autografo: non possiamo escludere con certezza che siano state fatte delle copie dall’autografo, ma dal momento che non ne sono pervenute e che l’opera non è mai più stata ripresa dopo le prime rappresentazioni, l’ipotesi appare assai improbabile. Non è un caso che il solo altro brano assente nella partitura autografa sia l’Aria di Niobe nel secondo atto, unico esempio di numero ‘semplice’ e solistico di tutta l’opera. A rigore dovremmo a questo punto chiederci perché la fortuna è toccata a “Il soave e bel contento” e non a “Se per voi la genitrice” (Aria di Niobe): in questo deve aver avuto non poco peso la scelta di Giuditta Pasta di cantare, trasposta per soprano, la cavatina di Licida. Ma questo è un aspetto della tradizione e della storia della ricezione di quest’opera ancora differente, che meriterebbe di essere approfondito nelle sue dinamiche specifiche in un contributo dedicato.

51 Generalmente i compositori impiegavano bifogli di carta pentagrammata, talvolta fogli singoli. La rilegatura in volumi è senza dubbio stata fatta tempo dopo, dunque estrapolare il numero dal suo principio significava, in questo caso, togliere il fascicolo o strappare il secondo foglio che componeva il bifoglio.

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Tra formazione classica e ispirazione jazz. Intervista ad Alessandro Lanzoni

di Marco Mangani*

A quattro anni dal conseguimento del “Top Jazz 2013” come miglior nuovo talento dell’anno, il pianista e compositore jazz Alessandro Lanzoni non è più una giovane promessa, ma un artista pienamente affermato. Presente in tutti i festival italiani più importanti e sempre più frequentemente impegnato all’estero (Austria, Germania, Spagna, Israele, Stati Uniti, Cina), Lanzoni ha al suo attivo collaborazioni con i più grandi nomi italiani e stranieri, da Enrico Rava a Lee Konitz, da Kurt Rosenwinkel a Roberto Gatto (solo per citare pochissimi tra gli innumerevoli jazzisti che lo hanno affiancato). Prestigiosa anche la sua produzione discografica, che ha ottenuto il plauso delle principali riviste internazionali. Lo abbiamo intervistato nella sua abitazione fiorentina. D. La prima cosa che ti chiederei è quali sono stati gli incontri fondamentali nella tua carriera artistica R. Gli incontri fondamentali sono stati tanti. Il primo che devo assolutamente ricordare è quello con la mia insegnante di conservatorio, Giovanna Prestia. Da lei è venuto un impulso fondamentale, soprattutto per la sua totale apertura mentale, che l’ha portata a rispettare sempre la mia inclinazione per il jazz, pur avendomi dato una solida formazione classica; e non si tratta affatto di un atteggiamento scontato. Questo ha fatto sì che la mia inclinazione per il jazz e la mia formazione classica siano state sempre complementari: pur nella loro diversità, si tratta di due dimensioni che non collidono, se si ha l’intelligenza di comprenderne le rispettive esigenze; alla fine, si tratta sempre di far musica. La mia gratitudine verso Giovanna Prestia, che oltre a darmi una completa preparazione tecnica mi ha insegnato come lavorare sul suono, è dunque assoluta. * Marco Mangani insegna Fondamenti della comunicazione musicale presso l’Università di Ferrara. È vicepresidente del Centro Studi Luigi Boccherini di Lucca, presso il quale dirige la rivista elettronica «Boccherini Online», e fa parte del comitato scientifico di «Philomusica», rivista elettronica del Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia. Ha scritto saggi sulla polifonia del Rinascimento, sulla musica strumentale italiana dei secoli XVIII e XIX e sul jazz; è autore di una monografia su Luigi Boccherini (Palermo, 2005). Codice 602

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Marco Mangani

D. E per quanto riguarda il jazz? R. L’esperienza fondamentale è stata il biennio di specializzazione a Siena nel 2009-2010. Erano moduli di due mesi, con frequenza di cinque giorni ogni due settimane, e per ogni modulo c’erano maestri diversi, tra cui molti americani. Ho avuto così l’occasione di lavorare proprio con i miei musicisti preferiti, quelli che seguivo da tempo e che già consideravo i miei idoli. D. Un nome tra tutti? R. Tra tutti farei due nomi. Il primo è quello di Roberto Gatto, con il quale suono e collaboro tuttora. All’epoca frequentavo la sua classe di musica d’insieme, e lì è nata la nostra collaborazione, perché ha cominciato ben presto a chiamarmi nei suoi gruppi. Roberto ha un’esperienza pazzesca e una passione sfrenata per il jazz, e te lo dimostra sempre quando suoni assieme a lui: stare con lui sul palco è bellissimo. Inoltre ha una conoscenza profonda della storia del jazz: suonare con lui significa aver a che fare con un musicista che ha suonato con alcuni dei più grandi, tra cui Chet Baker. Dovendo scegliere, poi, l’altro nome che farei è quello di Kurt Rosenwinkel, anche lui mio docente a Siena e col quale ho cominciato da subito a collaborare. È stata un’altra esperienza straordinaria, perché Kurt è tra coloro che hanno realmente rivoluzionato la storia del jazz: ha portato tante cose nuove nell’ambito ritmico e in quello armonico. D. Si può parlare di una sua influenza sul tuo modo di suonare? R. Assolutamente sì. D. E per quanto riguarda i classici? Mi riferisco sempre ai classici del jazz, e ti faccio una domanda diretta: un pianista e un non pianista che citeresti come tuoi punti di riferimento. R. Un pianista e un non pianista… è difficilissimo sceglierne soltanto due! Il primo nome che mi viene in mente, comunque, è Bill Evans. Evans è stato il mio primo amore, un amore totale. Anche perché, venendo dalla musica classica, non poteva non colpirmi il suo modo di suonare, molto classico, appunto, e molto elegante. Naturalmente poi c’è tutto il resto: un grande senso ritmico e un modo di armonizzare veramente complesso ed estremamente personale. Basta ascoltare poche note e il suo stile inconfondibile si riconosce subito. È stato lui il mio “ponte” verso il jazz, perché mi ha fatto scoprire cose che in realtà erano già parte della mia sensibilità, e poi mi ha condotto altrove. Quanto ai non pianisti, sceglierne uno, come dicevo, è difficile, ma direi Lee Konitz, un musicista che ho ascoltato e continuo ad ascoltare tantissimo e con il quale ho avuto la fortuna di collaborare. C’è qualcosa che mi affascina, nel suo modo di suonare: è uno 110


Tra formazione classica e ispirazione jazz. Intervista ad Alessandro Lanzoni

che improvvisa in maniera mai scontata, non riesci mai a prevedere quello che farà. Ed è uno che utilizza il suo strumento, il sax, senza esibire come una necessità il fatto che si tratti proprio di quello strumento. Nel jazz trovare un sassofonista che non suoni da sassofonista è molto difficile, data l’agilità dello strumento: i modelli (Charlie Parker, John Coltrane) sono inevitabili, chi studia si confronta necessariamente con loro, ma quelli che vanno oltre sono pochi. D. Hai citato due maestri (Evans e Konitz) per i quali è stato centrale anche il momento della composizione, il che rimanda ancora una volta, credo, alla tua doppia formazione, classica e jazzistica. E allora mi viene spontaneo chiederti qualcosa sul tuo rapporto con altri mostri sacri, meno connotati in tal senso (anche se nel jazz è sempre difficile scindere). Ho notato che in All The Things You Are tu alla fine citi il riff con cui apriva il brano Charlie Parker. È un tributo personale o una tua idea del brano? R. Quella cosa lì è ormai totalmente integrata con All The Things You Are, anche se il brano in sé non è di Parker. Con ciò non voglio dire che sia inevitabile suonarla, si può benissimo scegliere di non farlo. Ma quella cosa ormai c’è; dunque il mio non è un tributo, o meglio: lo è, ma in maniera indiretta; è riconoscere che con quel riff Parker ha inciso sull’identità del brano. D. Questo mi porta inevitabilmente a un’altra domanda. Tu sei anche un autore, hai composto alcuni dei brani su cui lavori. Ma non disdegni affatto di lavorare sugli standard, anche appartenenti alla più radicata tradizione jazzistica. Ne abbiamo appena ricordato uno, ma penso anche a Blue Monk o Along Come Betty. Mi viene da chiederti allora la tua posizione nei confronti della storia e dell’estetica del jazz, dato che in alcuni momenti del secolo scorso (nel Free, nel Jazz-Rock) lo standard è parso tramontare definitivamente. R. Il bello di questa musica è che ognuno può scegliere liberamente cosa fare e come farlo, rispetto alle proprie esigenze, ai propri gusti e a ciò che uno sente di dover proporre musicalmente. Adesso definire il jazz è diventato pressoché impossibile: è un calderone di tantissime cose ed è giusto che sia così, è il suo elemento di forza. Ciascuno, partendo dalle basi, dalle radici, può mischiare quel tipo di materiale con la propria cultura, con il proprio background musicale e trasformarlo in qualcosa di nuovo. Mi ritrovo in pieno nell’idea che il jazz è come suoni, e non tanto il modello da cui parti; anche se non tutte le operazioni mi paiono ugualmente convincenti. Comunque, andare a scavare nel passato è certamente una cosa fondamentale: è sempre un motivo di crescita. Il musicista jazz completo è qualcuno che ha studiato la tradizione e adesso è in grado di proporre qualcosa di nuovo. Codice 602

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Marco Mangani

D. Veniamo allora alla musica classica. La formazione classica si avverte molto nel tuo modo di suonare, ma ti è mai venuto in mente di lavorare a partire da qualche capolavoro del passato? R. Ci ho pensato più volte. C’è stato anche un momento in cui ho pensato seriamente di costruire un concerto alternando l’esecuzione di brani di Debussy e Ravel a improvvisazioni fatte a partire dai brani medesimi. Poi però non ne ho fatto di nulla. Non voglio dire che in sé sia un’operazione impossibile, fatto nel modo giusto tutto può avere un senso. Però generalmente ho delle difficoltà a snaturare un brano classico. Intendiamoci, dipende molto anche dal repertorio: più si va indietro nel tempo più diventa difficile. Operazioni come quella del Trio di Jacques Loussier, che lavora jazzisticamente sui brani di Bach, non mi convincono affatto. Ho anche ricevuto proposte che andavano in quella direzione, come per esempio lavorare sulle Variazioni Goldberg; per me si è trattato di un’occasione per studiare approfonditamente quel capolavoro, ma alla fine ho ritenuto che il progetto non andasse realizzato. Sono linguaggi davvero troppo distanti, e la loro fusione non funziona. L’unica cosa da fare sarebbe distruggere il brano di Bach per farne qualcosa di completamente nuovo: ma per il momento la cosa mi spaventa. D. È inevitabile, a questo punto, parlare del tuo rapporto con Gershwin. Tu hai eseguito più volte la Rhapsody In Blue, e una cosa che colpisce è che non hai mai rinunciato a proporre al suo interno delle cadenze improvvisate: una scelta che non aderisce alla lettera, ma certamente corrisponde allo spirito del brano così come Gershwin lo ha pensato. R. Ricordo di aver sentito in un’intervista di Stefano Bollani che era lo stesso Gershwin a consentire una cosa del genere. Del resto, la Rhapsody In Blue non è jazz per il fatto che è interamente scritta, ma la musica è quella: ritmo, armonia, profili melodici; tutto. Dunque suonandola mi ritrovo su un terreno familiare, e lì sono stimolato a fare di più e ad aggiungerci qualcosa di mio. Tornando al discorso di prima, per compiere certe operazioni devi comunque trovare qualcosa che sia adatto: la Rhapsody lo è. D. Come ultima domanda, di rito, ti chiedo qualcosa sui tuoi progetti futuri. R. Lavorerò con un trio d’archi di Firenze. Questa di lavorare con gli archi è una cosa a cui pensavo già da tempo. Suoneremo un repertorio misto: qualcosa di mio che esiste già e che arrangerò per l’occasione, qualcosa che comporrò ex novo, un brano del compositore americano Lowell Liebermann e uno di David Ludwig, un compositore molto interessante e originale. Non ho invece, per il momento, alcun nuovo progetto discografico. Non considero necessariamente il disco come un punto d’arrivo, ma credo che si debba scegliere accuratamente il momento nel quale si decide di immortalare una fase del proprio percorso artistico. 112


Studi sulla Musica a Lucca



La Niobe di Andrea Leone Tottola e Giovanni Pacini

“Ero refrattario alla musica”: storie di formazione e di iniziazione di Giacomo Puccini*

di Gabriella Biagi Ravenni**

Il 5 maggio 2017, nell’ambito di Lucca Classica Music Festival, Liuwe Tamminga ha presentato, in prima ripresa moderna 25 composizioni per organo di Giacomo Puccini (ma si potrebbe dire in prima esecuzione assoluta per quanto riguarda l’edizione dei brani, curata da Virgilio Bernardoni). Lo stesso giorno sono stati presentati anche una pubblicazione1 e un cd2.

* L’articolo si propone come una riflessione su una serie di problemi di studio sollecitati dalla recente riscoperta di una cinquantina di ‘sonate’ per organo, e come punto di partenza di una riconsiderazione sistematica del periodo ‘preoperistico’ di Giacomo Puccini, attraverso una nuova ricognizione delle fonti biografiche e di quelle musicali. Nel testo si è fatto uso delle seguenti abbreviazioni: I-La Lucca, Archivio di stato; I-Las Lucca, Archivio storico comunale; I-Lg Lucca, Biblioteca statale; I-Li Lucca, Istituto musicale «Luigi Boccherini». ** Gabriella Biagi Ravenni, professore associato di Musicologia all’Università degli studi di Pisa, ha sviluppato nel corso degli anni vari ambiti di ricerca, in particolare la musica vocale in genere, con particolare attenzione al rapporto testo-musica, e la musica a Lucca, con particolare attenzione all’indagine storica. Presidente del Centro studi Giacomo Puccini; socio ordinario dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti; dal 1995 al 2014 direttore e curatore del Museo Casa Natale di Giacomo Puccini (Lucca). È autrice e/o curatrice di vari volumi e ha pubblicato numerosi saggi su riviste nazionali e internazionali e in volumi miscellanei, ha ideato e curato mostre, ha ideato convegni, ha curato atti di convegni, ha scritto voci per dizionari italiani e internazionali. Nel 2015 le è stato conferito il Premio Illica per il volume Giacomo Puccini. Epistolario. I. 1877-1896, a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling (Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2015. 1 Giacomo Puccini organista. Il contesto e le musiche, a cura di Fabrizio Guidotti, Firenze, Olschki, 2017, con saggi di Aldo Berti, Gabriella Biagi Ravenni, Fabrizio Guidotti, Luigi Ferdinando Tagliavini, Virgilio Bernardoni; il volume è completato dal catalogo tematico delle composizioni ritrovate e dalla riproduzione della fonti della Collezione Della Nina. 2 Puccini Organ Works, organista Liuwe Tamminga, Passacaille Records, 2017, che contiene i brani proposti dal concerto, suonati su tre organi ‘pucciniani’: San Pietro Somaldi (quello del concerto), Piano di Conca e Farneta. Tamminga esegue anche sull’organo le riduzioni per pianoforte dell’Intermezzo di Manon Lescaut e dell’Intermezzo di Suor Angelica e la trascrizione per pianoforte della Grande Fantasia su Tosca per orchestra di Emile Tavan, più una Marcia di incerta attribuzione, presente nella Collezione Della Nina. Codice 602

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Si è trattato sicuramente di un evento, per vari motivi: la collocazione del concerto in un festival che, se pure creato di recente, si è guadagnato un posto considerevole nel panorama nazionale, l’eccellenza dell’esecuzione, ma soprattutto perché si offrivano al pubblico 25 composizioni pucciniane mai ascoltate prima (circa altrettante attendono ancora la prima esecuzione), a coronamento di un affascinante percorso di ricerca. È il caso di ripercorrerlo brevemente. Nel 2015 il Centro studi Giacomo Puccini – grazie a una concatenazione fortunata di eventi messa in moto dallo studioso lucchese Aldo Berti e dal direttore del coro di Porcari Giuseppe Della Nina – è venuto in possesso delle fotocopie delle composizioni per organo che Giacomo Puccini aveva affidato al suo allievo Carlo Della Nina e che sembravano definitivamente perdute (i manoscritti, descritti già nel 1927 da Alfredo Bonaccorsi3, erano transitati nel 1988 sul mercato antiquario, e poi erano scomparsi). Le fotocopie, messe a disposizione dal bisnipote di Carlo, Carl Della Nina, sono arrivate in due diversi invii, assemblate in modo incoerente. È stato necessario quindi un complicato lavoro di ricostruzione, condotto dalla scrivente insieme a Dieter Schickling e Virgilio Bernardoni, che ha fruttato 19 brani (1 incompleto) per organo di Giacomo Puccini e altri, attribuibili forse a Carlo Della Nina (Collezione Della Nina). L’entusiasmante ritrovamento ne ha provocati altri, in un vero e proprio effetto a catena. Nell’archivio privato di Andrea Toschi a Porcari, tra la fine del 2016 e gli inizi del 2017, sono stati individuati altri 9 brani (2 incompleti), attribuibili a Puccini sulla base della corrispondenza della grafia con quella degli autografi pucciniani giovanili e della coerenza stilistica con i brani della Collezione Della Nina. Toschi conserva nel suo archivio anche l’autografo di quella Marcia per organo, firmata e datata 12 aprile 1878, che aveva già messo a disposizione degli studiosi nel 2008. E ancora: mentre il volume Giacomo Puccini organista era già in bozze, la consultazione di un volume4 amorevolmente custodito dall’organista Eliseo Sandretti (Collezione Sandretti) ha fruttato altri 21 brani (1 incompleto) scritti dalla stessa mano già individuata nella collezione Toschi, e riconducibile anch’essa al giovanissimo Puccini. L’inserimento di 49 nuove composizioni nel catalogo delle opere di un compositore è da considerare anch’esso un vero evento, un arricchimento felice e inconsueto che impone d’altra parte una riflessione aggiornata. Il fondamentale catalogo pucciniano di Dieter Schickling5, che dall’epoca della pubblicazione è punto di riferimento imprenscindibile per ogni studioso 3 Alfredo Bonaccorsi, Inediti di G. Puccini, «Il secolo XX», XXVI/2, febbraio 1927, pp. 91-93. 4 Raccolta di Suonate Sacre Per Organo Composte da Diversi Autori, segnalato e sommariamente descritto in: Eliseo Sandretti, Alcune musiche cembalo-organistiche in archivi lucchesi: considerazioni sulla prassi esecutiva, in Recondita armonia. Gli archivi della musica. Atti del Convegno internazionale di studi (Lucca, 26-28 giugno 2014), «Actum Luce» XLIII/2, Lucca, Istituto storico lucchese, 2015, pp. 277-289: 283-286. 5 Dieter Schickling, Giacomo Puccini. Catalogue of the Works, Kassel, Bärenreiter, 2003.

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che sia interessato alle fonti, ne uscirà arricchito e rinnovato. Il Centro studi Giacomo Puccini già da tempo stava fra l’altro definendo un progetto di revisione e di edizione digitale del catalogo, con la supervisione di Dieter Schickling6. Precedenti ritrovamenti non avevano di fatto incrementato il numero complessivo delle composizioni. Nel 2014 la Fondazione Giacomo Puccini acquisì una collezione in cui erano presenti anche 5 fogli autografi, che furono oggetto di studio da parte del Centro studi Giacomo Puccini. In particolare la scrivente, Dieter Schickling e Virgilio Bernardoni vi individuarono i frammenti di due composizioni inedite. La ricomposizione con altre fonti già note (ma in precedenza non correttamente identificate) e la successiva edizione (e ricostruzione del Trio) da parte di Virgilio Bernardoni hanno reso possibile l’esecuzione di Scherzo e Trio per orchestra7 e di Ad una morta per baritono e orchestra (29 novembre 2014, Lucca Teatro del Giglio, Orchestra del Teatro Carlo Felice, baritono Massimo Cavalletti, direttore Giuliano Carella). Allo Scherzo è stato per il momento attribuito lo stesso numero di catalogo SC 34 di quello che era stato ritenuto fino ad ora un movimento di un quartetto completo, così come al Trio il numero SC 52 per coincidenza con un abbozzo già noto. La lirica Ad una morta per baritono e orchestra è versione sinfonica della omonima lirica per baritono e pianoforte SC 41. Il ritrovamento dei 49 brani per organo invece si traduce in un consistente incremento. Nel suo catalogo Schickling aveva assegnato prudentemente i numeri da 9 a 29 a “Student compositions for piano and organ”, sulla base della letteratura8 e del catalogo di un’asta Sotheby’s del 1988 che si riferivano entrambi a brani affidati/donati/venduti da Puccini all’allievo Carlo Della Nina. Prudentemente, perché il catalogo Sotheby’s elencava ‘solo’ 17 brani, assegnandoli all’organo o al pianoforte. Schickling aveva, sempre prudentemente, lasciato “free” i numeri da 57 a 59, contemplando la possibilità di un ulteriore incremento di titoli. In tutto 24 numeri di catalogo a disposizione dei ritrovamenti. Alla parafrasi su “Questa o quella per me pari sono” dal Rigoletto (di cui il catalogo Sotheby’s conteneva una riproduzione parziale) Schickling aveva assegnato il numero Appendix II.1, classificandolo tra gli arrangiamenti. Ma ora l’esame dell’intera composizione impone di considerarlo come un lavoro originale, e quindi di inserirlo a pieno titolo nel catalogo. Vari quindi i problemi da affrontare, tra cui la scelta del criterio per l’aggiunta di brani totalmente nuovi, o per segnalare ‘diverse versioni’ di 6 Il progetto prevede ovviamente di includere la segnalazione di tutte le nuove fonti (particolarmente schizzi e abbozzi) emerse dopo il 2003 e già registrate da Dieter Schickling. 7 Per la discussione sulle fonti e sulla loro ricomposizione vedi: Giacomo Puccini, Composizioni per orchestra, edizioni critiche di Michele Girardi, Virgilio Bernardoni, Dieter Schickling (Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini), Stoccarda, Carus-Verlag, 2015, pp. XIV-XV e 139-140. 8 Alfredo Bonaccorsi, Giacomo Puccini e i suoi antenati musicali, Milano, Curci, 1950. Codice 602

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una composizione (vedi l’esempio di Ad una morta, o anche dello Scherzo: versioni diverse, o composizioni distinte?). Accanto al problema di trovare nuovi numeri di catalogo (i brani ritrovati sono più del doppio dei numeri disponibili) c’è anche quello della collocazione temporale, essendo il catalogo ordinato cronologicamente. In certi casi, come per i Tre minuetti per quartetto d’archi SC 61, recenti ricerche impongono di anticiparne la collocazione: non dopo Le Villi, “probably between January and April 1884”9, ma sul finire degli anni lucchesi10, dato che è emersa la notizia di un’esecuzione orchestrale di un minuetto nel settembre 188111. I risultati di altre ricerche fanno luce sulle fonti della Messa a quattro voci con orchestra SC 6. Fino a non molto tempo fa si riteneva che questo primo capolavoro pucciniano non fosse mai più stato eseguito dopo il 12 luglio 1880 nella Chiesa di San Paolino12, ma di recente sono emerse notizie di altre esecuzioni. Il 22 novembre 1881 furono eseguiti un Kyrie e un Gloria di Puccini nel servizio patronale della Compagnia di Santa Cecilia, alla quale era stato ammesso fino dal 1877: difficile pensare che non fossero quelli della Messa SC 613. Il 29 settembre 189714, nella messa pontificale (composita, more antico) per San Michele i lucchesi ascoltarono Gloria, Sanctus e Agnus Dei (non si può fare a meno di chiederci se qualcuno abbia notato che l’Agnus Dei era stato trasposto nel II atto di Manon Lescaut). La cosiddetta ‘copia Vandini’, acquisita da Dante Del Fiorentino all’inizio degli anni ’50 del Novecento, potrebbe essere stata effettuata per quest’ultima occasione? (Guido Vandini, amico fedele, aveva solo 11 anni nel 1880!). E la cosiddetta ‘copia Spinelli’ è stata veramente fatta da Angelo Spinelli nel 189215, dopo la donazione che fece Giacomo Puccini di “una quantità di musica nella massima parte dei miei antenati […] all’archivio musicale dell’Istituto Pacini”16 ? 9 Schickling, Catalogue, cit., p. 149. 10 Scheda 2.22, a cura di Dieter Schicking, in Puccini e Lucca. «Quando sentirò la dolce nostalgia della mia terra nativa», catalogo della mostra (Lucca, Palazzo Guinigi, 14 giugno-22 dicembre 2008) a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Giulio Battelli, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2008, p. 229. 11 Marco Tovani, La Società del Quartetto e la Società Orchestrale Boccherini, ivi, pp. 64-71: 69. Erano state già segnalate parti «for performances with string orchestra» in Schickling, Catalogue, cit., pp. 149-150. 12 Giacomo Puccini, Messa a quattro voci con orchestra SC 6, edizione critica di Dieter Schickling (Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini), Stoccarda, Carus-Verlag, 2013, p. XII. 13 Fabrizio Guidotti, L’organista Giacomo Puccini nei documenti d’archivio, in Giacomo Puccini organista, pp. 25-54: 53. 14 Sara Matteucci, Lucca, 1896-1900: le prime di Bohème e Tosca, in Giacomo Puccini nei teatri del mondo. Cronache dalla stampa periodica, Atti del Convegno internazionale di studi (Lucca, 11-13 dicembre 2008), 3 voll., Lucca, Istituto storico lucchese, 2013, vol. 3, pp. 77-167: 86. 15 Messa, cit., edizione critica, p. 229. 16 Vedi la lettera del 26 novembre 1891 al Sindaco Enrico Del Carlo in Giacomo Puccini. Epistolario. I. 1877-1896, a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling (Edizione Nazionale delle

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Già, la donazione delle ‘musiche degli antenati’. Sappiamo che, per rispettare la volontà di Puccini – farne un catalogo per poter “togliere qualche cosa che mi possa esser di utilità artistica e di memoria, diremo, dinastica!!” – il Comune nel dicembre 189117 dette l’incarico ad Antonio Micheli (che custodiva la musica) e a Pietro Triaca (che fece il catalogo)18. Non è ancora stato appurato invece quando sia stato aggiunto alla collezione, oggi Fondo Puccini, il prezioso nucleo di autografi e manoscritti del periodo giovanile dello stesso Giacomo. In ogni caso sicuramente dopo il 1891, e quindi tra quegli autografi non si potevano trovare i pezzi per organo, dato che Puccini li aveva affidati/donati/venduti a Carlo Della Nina a conclusione del suo ‘magistero’ organistico al sarto di Porcari, collocato tradizionalmente tra 1874 e 1878, o intorno al 1880, all’epoca del suo trasferimento a Milano19. Quei 49 pezzi per organo sono tutti del periodo lucchese e il loro ritrovamento, insieme alle ricerche che sono state fatte in parallelo, indica la necessità di riconsiderare da nuovi punti di vista tutto il periodo giovanile ‘preoperistico’, e in particolare il periodo lucchese, in un incrocio sistematico tra fonti musicali e fonti d’archivio. Dalle ricerche confluite nel volume Giacomo Puccini organista. Il contesto e le musiche sono emerse anche nuove informazioni sulla formazione, sulle esperienze esecutive, sull’avvio dell’attività professionale e compositiva. Per individuare l’inizio della formazione musicale di Giacomo Puccini non si può fare a meno di citare ancora una volta l’episodio riportato come un virgolettato da Arnaldo Fraccaroli20 : Mio padre – dice il maestro [Puccini] – mi accompagnava spesso con sé quando saliva a provare l’organo della cattedrale, e anche in casa mi portava davanti alla tastiera. Ma siccome io non ero pronto a toccare i tasti, egli vi metteva sopra delle monetine di rame. E io subito a correre con le manine e raccoglierle, e intanto le dita battevano sulla tastiera, e l’organo emetteva i suoni, e io senza saperlo cominciavo a prendervi confidenza e a suonare.

L’episodio, come ho avuto già modo di sottolineare, ha in sé una valenza fortemente simbolica, ed è nel segno della trasmissione del mestiere ‘lungo li rami’ da padre in figlio, com’è naturale in una dinastia di musicisti. Dopo Opere di Giacomo Puccini), Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2015, n. 226, p. 174. 17 I-Las, Delibere giunta, n. 1581, 1 dicembre 1891. 18 I-Li. Cons. I. 22 (olim N I 3). L’elenco dei manoscritti e autografi di Giacomo jr è evidentemente di altra mano, precisamente di Alberto Cavalli, che è stato il primo studioso ad occuparsene sistematicamente. Vedi: Alberto Cavalli, Autografi e manoscritti musicali, in Mostra pucciniana, catalogo della mostra (Lucca, Palazzo Provinciale, settembre - novembre 1974), a cura di Gino Arrighi, Alberto Cavalli, Italo Pizzi, Carla Simonetti, Vito Tirelli, Lucca, Nuova Grafica Lucchese, 1974, pp. 11-27. 19 Vedi gli interrogativi che si pone al riguardo Virgilio Bernardoni, nel suo Il compositore e il ‘maestro’, in Giacomo Puccini organista, cit., pp. 55-72. 20 Arnaldo Fraccaroli, Giacomo Puccini si confida e racconta, Milano, Ricordi, 1957, p. 20. Codice 602

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la morte del padre Michele (23 gennaio 1864), si rese necessario affidare il piccolo Giacomo ad altri maestri, per l’organo e non solo. Nel dicembre di quello stesso 1864 fu iscritto alla Scuola musicale privata di un allievo di Michele: Luigi Nerici, organista, compositore, maestro di cappella, oggi conosciuto soprattutto come autore di un’importante Storia della musica in Lucca21. In quella scuola Giacomo apprese i ‘principi elementari di musica’ – il solfeggio si direbbe oggi – saldamente intrecciati con la pratica vocale, con particolare attenzione all’intonazione. Due volumetti contenenti le no­zioni elementari di musica, Guida per il Maestro dei principii elementari di musica conservati tra le carte della Scuola Nerici22, possono darci un’idea più precisa dell’insegnamento ricevuto. Merita notare anche che contengono una particolarità grafica che si riscontra poi in tutti i pezzi d’organo ritrovati e anche nella maggior parte degli autografi giovanili di Giacomo Puccini: la chiave di basso è scritta ‘al contrario’, ossia specularmente alla grafia corrente23. Pratica vocale: come voce bianca – prima soprano, poi, alla prima muta della voce, contralto – Giacomo partecipò verosimilmente ai tanti servizi musicali liturgici e più in generale alle esecuzioni musicali che si avvalevano anche dei bambini della Scuola Nerici. Tra i maestri di cappella che concertavano i servizi troviamo il Nerici stesso e Fortunato Magi, lo zio materno, tradizionalmente indicato come il primo insegnante di Puccini. E qui i documenti della Scuola Nerici, che segnalano, tra le altre occasioni, anche i funerali di Gioachino Rossini in Santa Croce a Firenze (14 dicembre 1868) con l’esecuzione del Requiem di Mozart24, si intrecciano con quanto riferivano i primi biografi, come Carlo Paladini25: lo zio Magi […] lo conduceva seco ai servizi religiosi della città e della campagna […]. Giacomo aveva un po’ di voce, voce di gola. Lo zio Magi volle che cantasse da contralto e lo espose perfino agli onori e ai pericoli del solista. Lo zio dirigeva e il nipote gli cantava vicino.

che aggiunge il noto e pittoresco particolare dei calci negli stinchi affibbiati a ogni stonatura. Mentre la presenza nel coro delle voci bianche della Scuola Nerici è soltanto verosimile, quella tra i soprani del primo coro per i servizi liturgici della Santa Croce del 1868 è documentata: Giacomo ricevette un compenso, £ 2.80, come tutti gli altri bambini. Quell’anno furono eseguite musiche di Fortunato Magi (Primo Vespro e Mottettone), 21 Luigi Nerici, Storia della musica in Lucca, Lucca, Tipografia Giusti, 1879 (ristampa ana­statica, Bologna, Forni, 1969), p. 167. 22 I-La, Archivio Tucci 337, n. 3. Il fondo è stato recentemente inventariato da Sergio Nelli. 23 Questa prassi si riscontra anche negli autografi del fratello, Michele jr: anche lui iniziò gli studi musicali alla Scuola Nerici. 24 I-La, Archivio Tucci 338, p. 335. 25 Carlo Paladini, Giacomo Puccini, «Musica e musicisti», LVIII/2-5, febbraio - aprile 1903, pp. 75-82, 161-168, 265-274, 361-366: p. 79.

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Andrea Bernardini (Messa), Massimiliano Quilici (Secondo Vespro), oltre a una «grandiosa Sinfonia» di Magi la mattina del 14 settembre. C’erano molti degli insegnanti di Giacomo, passati, presenti e futuri: Luigi Nerici (ispettore) Nicolao e Girolamo Tucci26 (assistenti), Carlo Giorgi (organista) e Augusto Michelangeli (primo violino e concertista)27. La formazione ricevuta da Giacomo alla Scuola Nerici rese possibile, nell’anno scolastico 1868/69, l’iscrizione ai ‘corsi medi’ dell’Istituto musicale Pacini, nelle classi di violino e viola di Augusto Michelangeli, vocalizzo e concerto di Carlo Angeloni e pianoforte di Alessandro Giovannetti28. L’iter scolastico all’Istituto sarà continuo e regolare, fino all’iscrizione alla classe di composizione e contrappunto nell’anno scolastico 1873/74, e al conseguimento del diploma nel luglio 188029. Iter costellato da primi premi (in armonia teorica e pratica, organo e composizione e contrappunto) e menzioni onorevoli (due in composizione e contrappunto, una marcia di avvicinamento al primo premio)30. A premi e menzioni vanno aggiunti i numerosi certificati e/o attestati rimasti31. Il più antico, rilasciato dall’Istituto, reca la data del 3 dicembre 187232: L’alunno dell’Istituto musicale Pacini in Lucca Giacomo del fu Prof. Michele Puccini ha frequentato sempre con lode e intelligenza le scuole di Principij elementari, solfeggio, Concerto e Pianoforte. Ed ha superato il Primo anno di Armonia teorica, e mezz’anno di Armonia prattica, pei quali studj dimostra una non comune attitudine [cancellato: intelligenza]. Prof di Armonia prattica. Prof. Di Arm teorica, Maestro di Piano-Forte Fortunato Magi Carlo Angeloni Alessandro Giovannetti

ed è sottoscritto dai suoi insegnanti, compreso lo zio materno. 26 I marchesi Tucci coadiuvavano il Nerici nella scuola, di cui poco tempo dopo diventarono co-titolari. 27 Ruolo presuntivo del personale e della Spesa per la esecuzione delle grandiose Musiche di S: Croce in Lucca anno corrte (I-Las, Protocollo generale 1868, n. 5888, 7 settembre), confermato dal successivo consuntivo (ivi, n. 6162, 27 settembre). Si tratta della prima prestazione professionale conosciuta. 28 Il primo anno di iscrizione all’Istituto musicale, tradizionalmente indicato nel 1873/74, poi corretto nel 1871/72 (classi di armonia pratica con Fortunato Magi, armonia teorica e vocalizzo con Carlo Angeloni; vedi Giulio Battelli, Giacomo Puccini all’Istituto Musicale «G. Pacini», in Giacomo Puccini. L’uomo, il musicista, il panorama europeo, Atti del convegno internazionale di studi su Giacomo Puccini nel 70° anniversario della morte (Lucca, 25-29 novembre 1994) a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Carolyn Gianturco, Lucca, LIM, 1997, pp. 3-21) è stato anticipato di recente grazie alle ricerche di Marco Tovani: vedi Luigi Nannetti, La formazione musicale di Giacomo Puccini, in Puccini e Lucca, pp. 99-124: 99. 29 Vedi la tabella La formazione musicale di Giacomo Puccini a Lucca: scuole, materie, maestri in Gabriella Biagi Ravenni, L’organo nella tradizione professionale dei Puccini, in Puccini organista, cit., p. 21. 30 Per il primo premio per la scuola d’organo (1875) vedi: Natale Gallini, Gli anni giovanili di Giacomo Puccini, «L’approdo musicale», ii/6, 1959, pp. 28-52: 29. Per gli altri vedi Battelli, Giacomo Puccini all’Istituto Musicale «G. Pacini», passim e Nannetti, La formazione musicale di Giacomo Puccini, passim. 31 Vedi Nannetti, La formazione musicale di Giacomo Puccini, p. 102 e le schede 3/8 e 3/10 a cura di Sara Matteucci in Puccini e Lucca, cit., p. 233. 32 I-Lmp, dono Mandoli, che ne comprende un altro analogo, rilasciato il 29 luglio 1874. Codice 602

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All’Istituto Puccini frequenterà la scuola d’organo dal 1872/73 al 1876/77, prima con Magi (soltanto fino alla fine del 187233, per l’abbandono del Magi di tutti gli incarichi lucchesi) e poi con Carlo Giorgi. La nuova notizia dell’impiego come organista titolare presso la chiesa di San Girolamo dal gennaio 1873 fino a tutto il 188234 impone di dare per certo che Puccini abbia avuto qualche insegnante d’organo prima dell’iscrizione all’Istituto. Forse lo zio Magi, forse il Nerici? Come si vede l’avvio dell’attività professionale si intreccia e si sovrappone con il proseguimento della formazione. È in questo contesto che si colloca anche il ‘magistero’ con Carlo Della Nina e il debutto come compositore, con le ‘Sonate per organo’ ritrovate che sembrano scritte per l’uso liturgico personale35. Le ‘Sonate’ presenti nell’Archivio Toschi e nella Collezione Sandretti si presentano d’altra parte come belle copie, forse per essere anche sottoposte ad un maestro36. I brani della Collezione Della Nina invece indicano più chiaramente, per la frettolosità e l’imprecisione della scrittura, la destinazione all’uso personale. Altre esperienze formative e professionali37 produssero altre composizioni, per lo più nell’ambito dell’“addestramento alla funzione di maestro di cappella”38, tradizionale nella scuola lucchese, senza dimenticare la presenza a Lucca della Società Orchestrale Boccherini, la cui promozione della musica strumentale coinvolse il giovane musicista39. Di questa molteplice attività cosa registrano le prime biografie? E quanto sono affidabili? In questa sede ci interessa rintracciare l’origine e la stabilizzazione di alcuni luoghi comuni, che si ripercuoteranno poi nella bibliografia più recente a volte con modifiche, quasi fossero musicali variazioni su tema. Nella primissima, quella scritta da Ferdinando Fontana40, l’esordio è 33 Per l’anno scolastico 1871/72 l’iscrizione alla classe d’organo di Magi era stata negata: «Non ammesso perché non fatto 1° Anno Armonia Prattica» (Statistica classificata degli alunni iscritti alle scuole dell’istituto musicale Pacini pel corso scolastico dell’anno 1871-72: I-Li, Archivio storico, 1871, protocollo n. 68). 34 Guidotti, L’organista Giacomo Puccini, cit., pp. 31-41. 35 Vedi Bernardoni, Il compositore e il ‘maestro’, cit. 36 Nel frontespizio di uno dei fogli dell’Archivio Toschi, oltre al titolo Sonate per Organo, compare la data 4 febbraio 1870 che anticiperebbe ancora il debutto di Puccini come compositore. 37 L’insegnamento di Carlo Angeloni, il coinvolgimento nei servizi liturgici (principalmente quelli per la festa di Santa Croce) come assistente al primo o secondo coro, le prestazioni come maestro di coro, quelle occasionali su vari organi della città, a partire da quello della Cattedrale di cui non riuscì mai a ottenere la titolarità. 38 Bernardoni, Il compositore e il ‘maestro’, cit., p. 60. 39 Molto materiale musicale manoscritto (partiture e parti staccate) presente nel fondo della Società (I-Lg) sembra essere stato copiato dal giovane Puccini. 40 Ferdinando Fontana, Giacomo Puccini, «Gazzetta musicale di Milano», XXXIX, 19 otto­bre 1884, pp. 381-382 e 2 novembre 1884, p. 399.

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folgorante e stabilisce il primo degli argomenti ricorrenti: Giacomo Puccini, il giovanissimo maestro lucchese, autore delle Villi, ha 172 anni; dico centosettantadue; poiché egli non è, infatti, che il fiore novello d’un ceppo di musicisti piantato a Lucca nel 1712. Per tessere la sua biografia convien dunque riassumere quelle di cinque generazioni di maestri, lui compreso.

Dopo le biografie dei primi quattro Puccini, quella di Giacomo inizia così: Impara la musica, si può dire, succhiando il latte, e la studia senza accorgersene, venendo su in mezzo a una nidiata di belle sorelle e di un fratello minore, tutti pestatori assidui di pianoforte. La sua casa è come una gran cassa armonica; v’è una specie di saturazione di note musicali nell’aria; tutto vi è pregno di musica. […] Il giovinetto Giacomo […] dà prova d’avere proprio un ingegno spiccato per la musica.

Naturalità del talento, non c’è che dire. Segue la storia del trasferimento a Milano (“è giunta l’epoca di mandarlo in qualche istituto di levatura”), del successo del Capriccio sinfonico fino a Le Villi. Già, erano imminenti gli allestimenti al Teatro Regio di Torino (27 dicembre 1884) e al Teatro alla Scala (24 gennaio 1885). L’intento promozionale dell’articolo emerge con chiarezza alla fine, quando Fontana si schernisce: Ma a me non spetta fargli degli elogi; essi potrebbero recargli, anzi, nocumento, poiché il pubblico, e a ragione, va molto guardingo circa i cosidetti taglierini fatti in casa.

Alfredo Soffredini, nell’articolo che Puccini definirà “pappolata biografica”41, cerca di correggere il tiro: la dinastia è importante – “qualche cosa di musicale nel sangue egli deve avercelo per forza” – ma il vero talento non si tramanda, anche se non si può mettere in discussione “una possibile influenza nel fatto di coltivare subito le prime disposizioni musicali del nostro Giacomo”. La seconda parte dell’articolo ripercorre, con accenti molto positivi, la carriera del suo amico soffermandosi sull’ultima opera composta, Manon Lescaut. Non è l’unico articolo di Soffredini, che sarà per tanti anni redattore della «Gazzetta musicale di Milano», su Manon Lescaut: per un altro Puccini ebbe a ringraziarlo42. Non una biografia, nonostante il titolo Giacomo Puccini, l’articolo di Eugenio Checchi43, ma quasi un reportage sulla composizione di Tosca. Ma l’accenno alla dinastia e al talento non manca:

41 Alfredo Soffredini, Giacomo Puccini, in «Natura ed Arte», II/XVIII (1894-95), pp. 407-411. La definizione in una lettera a Eugenio Checchi dell’ottobre 1897, inedita (vedi nota 45). 42 Giacomo Puccini. Epistolario. I. 1877-1896, lettera n. 510 (1895.01.19.a), p. 374. 43 Eugenio Checchi, Giacomo Puccini, in «Nuova antologia», xxxii/23, 1 dicembre 1897, pp. 470481. Codice 602

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Gabriella Biagi Ravenni

Figliuolo e nepote di musicisti, che lasciarono nella storia dell’arte un buon nome, egli succhiò, si può dire, col latte materno i primi germi della musica. Non dette prova fin dall’infanzia di quelle manifestazioni anticipate, che i compiacenti biografi non dimenticano mai di attribuire a chi, fatto uomo, sopravanza la folla, e sono bugie cortigiane quasi sempre; ma la casa sua, risonante ogni giorno delle austere armonie dei Canoni e dei Reponsi [sic] che dettero grande fama a Michele Puccini padre di Giacomo, quella casa ove convenivano maestri, professori d’orchestra e cantanti, fu il vasto teatro delle prime impressioni musicali che si ripercotevano alle attente orecchie del fanciullo.

Interessante, e insolito, l’accenno agli studi classici44, all’attrazione per la lingua latina, e alla predilezione per Virgilio. Interessante anche il racconto di come nacque il Puccini ‘uomo di teatro’: In famiglia sua […] si mantenne non interrotta la tradizione della musica sacra. [Giacomo] arditamente la ruppe: e non soltanto per la giovanile impazienza di raggiungere più presto, come che sia, un immediato successo, ma anche per la misteriosa e irresistibile attrattiva esercitata su lui, ancora adolescente, dalla cronaca artistica di quelli anni, da quelle trepide aspettative del nuovo, dall’improvviso silenzio del Titano della musica, che parve addormentarsi dopo l’Aida nel 1871, e riposò, qualunque ne fosse la ragione, fino all’anno 1887.

Interessanti perché questo articolo fu scritto dopo un fitto scambio epistolare con Puccini45 e anche dopo una visita a Torre del Lago di cui si parla esplicitamente nell’articolo. È da una lunga lettera autobiografica di Puccini che Checchi ha ricavato molte informazioni46. Conviene citare direttamente Puccini, per la parte che ci interessa ora: Tessere la mia storia? non saprei come cominciare! La mia infanzia è l’infanzia di tutti – ti dico solo che ero refrattario alla musica, e fu a 17 anni che udendo l’Aida a Pisa mi sentii aprire lo sportello musicale – Andai a Milano e mi presentai al corso di contrappunto facendo vedere i contrappunti e la messa tutti a Lucca sotto l’Angeloni e ottenni il lascia passare al conservatorio –

44 “Giovanetto frequentò le scuole ginnasiali […] poi dovette, per far presto, interrompere a mezzo gli studi classici”. Sulla formazione non musicale, al Seminario di San Martino dal 1871 al 1873 vedi Battelli, Giacomo Puccini all’Istituto Musicale «G. Pacini», cit. 45 Varie lettere di Puccini a Checchi, emerse di recente sul mercato antiquario, saranno pubblicate in Giacomo Puccini. Epistolario. II. 1887-1901, a cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling (Edizione Nazionale delle Opere di Giacomo Puccini), Firenze, Olschki, in corso di pubblicazione. 46 La lettera fu custodita con cura da Checchi, che, in occasione del successo de La fanciulla del West a New York, la pubblicò integralmente: Eugenio Checchi, Una lettera di Giacomo Puccini. La vera Bohème – Torre del Lago – La romanza del paletot, in «Giornale d’Italia» X/348, 12 dicembre 1910.

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“Ero refrattario alla musica”: storie di formazione e di iniziazione di Giacomo Puccini

Refrattario alla musica? Uno sportello che si apre? Forse refrattario a quella predestinazione – in altra occasione ho parlato di ‘peso della tradizione’ – di diventare un bravo maestro di cappella di provincia? Forse a Pisa, al Teatro Nuovo, Puccini assisté a uno spettacolo di livello inconsueto, tale da esercitare una fascinazione che i tanti spettacoli cui aveva assistito a Lucca non avevano esercitato? Un particolare ghiotto, che non poteva sfuggire, e difatti lo ritroveremo in molte delle biografie successive. Fu Edmondo De Amicis il primo a riprenderlo in un “lungo e importantissimo articolo” pubblicato da «La Prensa» di Buenos Aires47: Fu la musica di Verdi che d’un tratto fece fiorire il talento musicale del giovane Puccini. Aveva diciassette anni quando ebbe la combinazione d’udire per la prima volta Aida in Pisa, eseguita da un assieme di buoni artisti, provò una scossa profonda, sentì un tumulto di idee, sentì una febbre, non mai ancora provata, di desideri e di speranze che da quel giorno non lo abbandonò mai più. E quel giorno appunto decise del di lui avvenire.

Non manca l’accenno alla dinastia, e, quanto al talento e alla predestinazione: Perciò il piccolo Giacomo, che a sei anni cominciava già a pestare qualche nota sul pianoforte fu, ancora fanciullo, indirizzato dalla madre sulla carriera dell’organista da chiesa, perché poteva così guadagnarsi subito qualche modesta lira! Continuò intanto gli studi musicali col maestro Angeloni di Lucca, già discepolo di suo padre. Cresciuto in età, suonò il pianoforte nei caffèconcerto di Lucca e dei paesi vicini e compose persino una Messa. Però non sentiva grande passione per l’arte, e mai gli passò pel capo l’idea d’essere un giorno più di quello ch’era stato il padre suo.

L’articolo di Carlo Paladini del 1903 è il punto fermo da cui si diramerà la maggior parte delle biografie successive. Anche lo stile, romanzesco/ aneddotico, farà scuola. Nell’ordine: la dinastia, Celle da dove tutto parte, le biografie dei quattro antecedenti, la morte di Michele, la profezia di Giovanni Pacini ai funerali di Michele, la mamma e finalmente gli esordi di Giacomo che viene presentato come un monello svogliato, mandato a studiare prima al Seminario di San Michele poi a quello di San Martino. Abbiamo già citato il passo relativo alla partecipazione di Giacomo ai servizi musicali concertati dallo zio Magi. Si continua così48 : 47 Alcuni brani sono riportati in: Edmondo De Amicis, Giacomo Puccini, in «Gazzetta musicale di Milano», lv/22, 31 maggio 1900, pp. 298-300. È documentato un incontro tra Puccini e De Amicis a Torino nel 1900. 48 Paladini, Giacomo Puccini, cit., p. 79. Codice 602

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Gabriella Biagi Ravenni

Il maestro Magi avea poca fiducia nelle attitudini musicali del futuro autore di Manon Lescaut. […] La mamma, invece, era più ottimista. Gli occhi del cuore hanno sempre veduto meglio di quelli della mente! Ella volle che Giacomo seguitasse le tradizioni di famiglia. Non sperava di tirarne su una cima, soltanto di cavarne fuori un organista che potesse alla peggio o alla meglio sbarcare il lunario.

E si va avanti citando quasi alla lettera (senza menzione) due brani dell’articolo di De Amicis, quello della casa descritta come una cassa armonica e un altro che si dilungava sulle bocciature in matematica. Comunque Giacomo “divenne un organista […] passabile”. E qui la descrizione dello scandalo suscitato in chiesa con le sue esecuzioni. Dopo la menzione della Cantata I figli d’Italia bella del 1877, dell’aiuto fornito dal dottor Nicolao Cerù, arriviamo all’episodio dell’Aida49 : Milano s’affaccia al pensiero del giovanetto lucchese che un bel giorno pel monte di San Giuliano era andato a Pisa pedibus calcantibus per udire l’Aida eseguita – se lo rammenta bene anche adesso – da un assieme di buoni artisti. Provò un scossa profonda, sentì un tumulto d’idee, sentì una febbre, non mai ancora provata, una febbre di desideri e speranze, che da quel giorno non lo abbandonò più. Fu la musica di Verdi che d’un tratto lo appassionò pel teatro […].

Paladini continuerà a scrivere su Puccini, incoraggiato dal compositore stesso. Quando si apprestava a mandare in stampa l’articolo I primi passi di Giacomo Puccini sul «Giornalino della do­menica» del dicembre 1920, ricevette una lettera con questa frase: “ma almeno faccio buona figura? per quanto io pensi non ho nulla d’interessante nella mia fanciullezza – forse la tua buona fantasia ha saputo da piccoli germi tirar fuori qualche cosa di simpatico”50.

49 Ivi, p. 82. 50 Giacomo Puccini organista, cit., p. 15.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

di Massimo Lombardi*

Prefazione Del ms 774 di Lucca1 mi ero già occupato, ma si sa: l’appetito vien mangiando. Così, in questo articolo2, complementare al precedente saggio dedicato alle sole villanelle e canzonette contenute nel codice3, oltre ad osservare il documento nella sua complessiva organizzazione, ho indagato su una intrigante porzione dell’intavolatura scritta solo per il liuto. A prima vista affine ad altri libricini contemporanei, il lucchese è tuttavia arricchito da didascalie capaci di recapitarci un valore culturale, oltre che musicale ed estetico, indubbiamente originale. La prassi musicale – solistica o d’insieme, profana o sacra che sia – vissuta nell’atto socializzante, nell’occasione specifica, nella quotidianità, è il racconto narrato da quelle pagine che ridipingono, ed è forse anche il caso di dire celebrano, uno spaccato storico ed umano di assoluta autenticità. * Massimo Lombardi è laureato musicologia, presso l’Università degli Studi di Milano, con pieni voti assoluti e lode; in chitarra classica, presso il Conservatorio “Guido Cantelli” di Novara, con il massimo dei voti; in musicoterapia ha ottenuto il titolo di Tecnico del modello Benenzon, presso il Centro Musicoterapia Benenzon Italia di Torino, con il massimo dei voti. Dedicatosi anche all’esecuzione su strumenti storici, svolge attività concertistica ed ha al suo attivo numerose produzioni discografiche per Tactus, Stradivarius, Opus 111, etc. Si occupa di ricerca musicologica. È docente di chitarra classica presso la Scuola di musica Dedalo di Novara. 1 Lucca Biblioteca Statale (ex Governativa) I-Lg, Ms 774, RISM B/VII, pp. 195-196. 2 Per questo lavoro desidero ringraziare: la direttrice della Biblioteca Statale di Lucca, dott.ssa Monica Maria Angeli, per la grande disponibilità e per avermi concesso l’autorizzazione alla riproduzione e alla pubblicazione delle immagini del codice; il rettore della Cattedrale di Lucca, don Mauro Lucchesi, per la gentile concessione dell’immagine del Volto Santo di Lucca; il direttore del Museo Diocesano di Ortona, dott. Elio Giannetti, per la gentile concessione dell’immagine del dipinto del Volto Santo di Lucca e il miracolo del giullare; il prof. Donato Sansone, per i suoi preziosi suggerimenti bibliografici; la prof.ssa Patrizia Durando, per la paziente rilettura del testo; il M° Guido Margaria, per il continuo incoraggiamento. 3 Massimo Lombardi, Storie di Canzonette del Ms 774 di Lucca, in «Codice 602», Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali di Lucca, VII, Livorno, Sillabe, 2016, pp. 139-183. Codice 602

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Massimo Lombardi

Pertanto, tutto ruota attorno ad un interrogativo: perché è stato scritto il ms 774? Forse la risposta sta proprio nella lettura della musica attraverso una lente che indaga partendo da un contesto più concreto e semplice, dalle spinte motivazionali, dalla vita stessa: credenze, abitudini, luoghi, consuetudini… la città di Lucca. Il risultato va ben oltre la raccolta di danze; è una narrazione, un tracciato del naturale, istintivo ed indispensabile uso che l’uomo fa della musica. Un pentolone in cui gli ingredienti e le loro interazioni sono i veri responsabili del risultato finale: una musica che ha profumi molto più convincenti di una qualsiasi rievocazione. L’occasione è irrinunciabile e di fronte ad un bene musicale così unico, che cela la sua grandezza dietro alla sobrietà, il primo passo da fare deve muoversi verso la comprensione di quella capacità creativa che ha legato la sua esistenza oggettiva al suo senso intellettuale, alla sua contestualizzazione nell’ambiente; più semplicemente, al suo significato culturale ancor prima che musicale. Così, al di là della magia sognante e suggestiva che l’ascolto certamente suggerisce, quelle note e quella scrittura rigenerano oggi l’immagine del pensiero artistico che, istigato da particolari contingenze sociali e specifiche occasioni, nacque nella mente del musicista e trovò spazio sull’esagramma. Tutti i comportamenti umani, quindi anche quelli artistici, nascono da fattori stimolanti che, in qualche modo, sono già presenti nel contesto. Intrinseche4 o estrinseche5 che siano, queste cause abitano l’immaginario dell’autore in cui, dopo avere preso una forma astratta, attraverso il suo “comportamento musicale”, manifestano il loro effetto divenendo opera. Quest’ultima, valutata e collocata nel suo ambito, oltre alla bellezza estetica, con i suoi tentacoli avviluppati alle varie tipicità della realtà storica, può regalare un fascino narrativo ed emotivo del tutto simili a quelli del racconto letterario. Così, pur provenendo da un tempo lontano, il messaggio musicale potrà comunque restituirci la sua fragranza autentica e genuina. Sarà forse la nostra moderna sensibilità e capacità percettiva a modificarne un po’ il sapore, ma i significati, le intenzioni e la fruibilità risulteranno ancora oggi piacevoli e ben godibili. In questo modo, come dentro una strana macchina del tempo, è possibile vedere ciò che fu e che ancora oggi agisce6. 4 Cioè determinate da fattori pulsionali indipendenti dal contesto esterno e quindi gratificanti di per sé. 5 Cioè determinate dalla spinta di condizionamenti esterni, quindi con uno scopo. 6 Carl Dahlhaus, Grundlagen der Musikgeschichte (1977), trad. italiana di Gian Antonio de Toni, Fondamenti di Storiografia Musicale, Fiesole, Discanto, 1980, pp. 3-21/4; “Ciò che è stato – si legge nella Historik di Johan Gustav Droysen – non ci interessa perché è stato, ma perché, agendo ancora, in un certo senso ancora esiste” “[…] i resti essenziali del passato, le opere musicali, sono dati primariamente da oggetti estetici che come tali sono un pezzo del presente e solo in secondo luogo costituiscono fonti a partire dalle quali dischiudere eventi e condizioni del passato”.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Ms 774: un artefatto culturale Vorrei quindi considerare il manoscritto come un artefatto culturale7, cioè come un prodotto umano che, oltre ai contenuti prettamente musicali (danze)8, peraltro tipici e assolutamente descrittivi della prassi musicale dell’epoca9, tiene conto anche di quelli connessi alla civiltà10. Poiché manoscritto e prodotto sulla spinta di sincere istintività artistiche e stimoli oggettivi, con le sue musiche e con le sue didascalie, il ms 774 ci ridà un quadro sintetico, colorato e veritiero del qui ed ora; una rappresentazione schietta del mondo filtrato dal linguaggio musicale. Infatti, rispetto ad una pubblicazione a stampa (documento normalmente ben organizzato, perfezionato, riveduto e corretto, di per sé destinato alla divulgazione più ampia possibile), tutte le parti che compongono il codice sembrano palesemente essere state generate non per ambire alla trasmissione di un contenuto definitivo, ma dall’esigenza pratica, funzionale ad una esecuzione istantanea, subito disponibile e non per forza collocata in un ambiente di etichetta. Su questa via, e senza sforzo, si può distinguere la sostanziale differenza delle prerogative che le musiche pubblicate a stampa incarnano Vs le medesime però contenute nel lucchese. Nel primo caso, le composizioni sono forti di un’autorevolezza riconosciuta dalla figura dell’editore; della protezione del destinatario della dedica; del rigore estetico della pubblicazione; 7 Paolo Inghilleri, Eleonora Riva, Ilaria Cutica, Manuela Lavelli, Federica de Cordova, Psicologia culturale, a cura di Paolo Inghilleri, Milano, Raffaello Cortina, pp. 92-96/92; “[…] il termine artefatto è stato ampliamente utilizzato in psicologia culturale: con esso si definisce ogni ente non presente in natura ma costruito o prodotto dall’uomo”. Tale ‘prodotto’ è capace di influenzare l’ambiente, quindi la società, che di conseguenza condiziona e stimola la produzione di nuovi artefatti. Ciò, come in una struttura circolare, autoalimenta di continuo un processo di graduale cambiamento (evoluzione) culturale. 8 Il ms 774 è prevalentemente dedicato alla musica per danza più in auge nel sec. XVI (Passo in mezo, Gagliarda, Corrente, Pellicciotta, Pavaniglia spagnuola, Petrantogna, Barriera, Alamanna, Chiaranzana, Tordiglione, Fiorentine, Romanesche; Ballo della Torcia; Moresca, Gamba, Bergamastro, Spagnioletta, etc.). 9 Leopoldo Mastrigli, Le danze storiche dei secc. XVI, XVII, XVIII, Roma, G.B. Paravia e C, 1889, pp. 13-14; “Nel secolo XVI il modo di ballare non differiva da quello del secolo XV, cioè: riverenze, passi scambietti, passeggiate, ecc; il cavagliere da una parte, la dama dall’altra. […] Oltre alla Bassa danza, alla Gagliarda, alla Corrente, alla Pellicciotta, alla Pavaniglia spagnuola, alla Petrantogna, alla Barriera, all’Alamanna, alla Chiaranzana, al Tordiglione e oltre a molte Fiorentine e Romanesche, in quest’epoca era usatissimo in molte parti d’Italia il Ballo della Torcia, il quale soleva esser l’ultimo in ordine a tutti gli altri balli che si danzavano in una festa […]”; su www. archive.org, consultato il 3 maggio 2017. Con la sola eccezione della Corrente tutte le danze elencate in questa descrizione risultano presenti nel ms 774; ciò sottolinea come esso fosse concretamente lo specchio della consuetudine musicale coeva. 10 Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 2013, pp. 13-20/14. “La cultura o la civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società – Tylor 1871”. Codice 602

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della diffusione garantita (quindi influente a livello socioculturale); di conseguenza, di una consolidata ed evidente direzione centrifuga (cioè che parte dall’unicità creativa per dirigersi verso la propagazione esterna). Si parla perciò di una proposta di divulgazione predeterminata, se vogliamo commercialmente concepita ed organizzata per veleggiare sulla moda e/o per crearne di nuove. Nel ms 774 il verso del vettore intellettuale si mostra diametralmente opposto. Con una direzione centripeta, raccoglie e seleziona gli elementi culturali più significativi dell’ambiente esterno (in questo caso danze, villanelle e canzonette allora in auge) per condensarli nel suo interno. Il concreto legame tra manoscritto e società è senz’altro documentato e narrato dalle particolarissime annotazioni che l’autore ha spesso aggiunto in calce ad alcune composizioni. Infatti, come si vedrà, esse spesso rivelano un nesso causale esistente tra la musica, il luogo ed il contesto di esecuzione. Seppure di piccole dimensioni, il volumetto non può certo essere considerato un documento minore; anzi, è un intenso appunto di storia lucchese dove le vicende (per certi versi musicate) ricompongono tratti salienti della città e dei suoi costumi, oltre all’estro di chi lo ha scritto. Non ultima, è riconoscibile anche la storia di una libertà artistica, di sicuro ben diffusa, affrancata e naturale, cioè capace di scegliere, di riprodurre e di affidare alla storia tracce veritiere della tradizione, talvolta così radicata da sopravvivere fino ad oggi senza perdere il suo antico smalto. Non v’è dubbio quindi che (con il buon senso di chi comunque è consapevole della lontananza culturale che separa l’oggi dal quel passato) tutto ciò ci concede di poter arguire conoscenze ed orientamenti importanti per permettere, nei limiti del possibile, di resuscitare quelle esperienze musicali, tuttavia ancora molto attuali.

Copertina e fascicolatura La prima lettura del ms 774 ha destato suggestione e curiosità, ma ha anche subito messo in evidenza una complessa organizzazione dei contenuti. Tale articolazione ha reso necessario un approccio metodologico il più possibile vicino a quello scientifico, così da evitare – fin dove possibile – di perdersi in un labirinto di informazioni disordinate. Il procedimento scelto prevede l’osservazione e la descrizione che va dal generale al particolare. Tra gli studi più famosi11, un buon punto di riferimento – che di sicuro assume la funzione di protocollo essenziale per la descrizione del codice – è stato il Catalogo descrittivo dei codici musicali della Biblioteca Governativa di Lucca, 11 Non possono essere taciuti: Giovanni Sforza, Poesie musicali del sec. XVII, in «Il giornale storico della letteratura italiana», vol. VIII, a cura di Arturo Graf, Francesco Novati, Rodolfo Reiner, Torino, editore Ermanno Loescher, 1886; pp. 312-918/312; Franco Rossi, Manoscritti di opere italiane per liuto, in «Il Fronimo», X/38, Milano, Suvini Zerboni, gennaio 1982, pp. 45-52/48.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

redatto nel 1909 dal Canonico professor Raffaello Baralli, studioso di paleografia musicale12. Esso, proprio perché strutturato in maniera sinottica, ma puntuale ed esatta, ci regala una validissima traccia. Ad ogni modo, ponendo mano in prima persona nella ricerca, il primo step è stato la descrizione corporea del volumetto. In quanto oggetto esso possiede delle caratteristiche proprie ed uniche che, se valutate e soppesate insieme ad altri aspetti peculiari dei contenuti, possono fornire elementi interessanti per desumere o ipotizzare specificità del documento. Descrizione. Per praticità, indipendentemente dalla presenza di eventuali originali numerazioni delle carte, ho preferito utilizzare la numerazione nuova presente su ogni facciata. La rilegatura moderna presenta, sia in apertura che in chiusura del libro, un cartoncino rigido e tre fogli di risguardo che hanno funzione protettiva13. La vera coperta del codicetto (fig. 1) è in spessa pergamena14 e riporta la scritta, seppure poco leggibile nella sua interezza, “INTAVOLATURA / di leuto da sonare e cantare”. Tra abrasioni e cancellature, sono ancora visibili alcuni disegni di decoro, le parole “molto molto” ed un più recente appunto in matita specificante “sec. XVI”. Dopo un ulteriore foglio di risguardo seguono le intavolature di liuto.

Fig. 1 - Copertina originale del ms 774 della Biblioteca Statale di Lucca15 12 Raffaello Baralli, B.S.L. ms 3326, presso la Biblioteca Statale di Lucca, voce: Ms 774, Intavolatura di Leuto per sonare e cantare, pp. 11r-13v. 13 Questa porzione misura circa cm 22,30 × 15. 14 Misura cm 21 × 14,10. 15 Copertina originale dell’anonimo ms 774 (secc. XVI/XVII), della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. Codice 602

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Massimo Lombardi

Alla fine del manoscritto è nuovamente presente una pergamena sul cui recto si vedono alcune didascalie ormai praticamente divenute illeggibili. L’attuale conformazione del volumetto è chiaramente la conseguenza di una riunione di più fascicoletti dei quali non è però semplice stabilire con sicurezza il numero16. La rilegatura non rende né agevole né certa la suddivisione. In ogni caso, ciò che è possibile ravvisare senza violentare il documento – già di suo molto delicato e fragile – può riassumersi con la tabella che segue. Tab. A) Fascicolazione fascicolo I

da c. 1r

a c. 7v

cm 21 × 14,10

fascicolo II

da c. 8r

a c. 25v

cm 21 × 13,80

foglio aggiunto

cm 18,40 × 13,60

Tavola delle sonate del leuto

c. 26r

Tav[o]la [delle] suonate

c. 26v

fascicolo III

da c. 27r

a c. 34r

cm 22,50 × 14,60

fascicolo IV

da c. 35r

a c. 40v

cm 22,50 × 14,50

Mancanza di una carta visibilmente recisa fascicolo V

da c. 41r

a c. 44v

cm 22,20 × 14,50

fascicolo VI

da c. 45r

a c. 49v

cm 21,10 × 14,50

La tipologia della carta, seppure non sempre identica, è simile in tutto il codice ed i fogli sembrano essere stati dimensionati in maniera un po’ casalinga; alla buona. Ciò giustificherebbe la disomogenea grandezza dei fascicoletti che, probabilmente non concepiti per formare un libro, plausibilmente divennero tale solo successivamente alla loro più recente ed imprevista rilegatura. Questo particolare suggerisce qualche indizio che sposta sempre più l’immagine del contesto in cui risiedette il ms 774 verso un ambiente non propriamente elegante. Un musicista attivo in una sede più nobile verosimilmente avrebbe avuto a disposizione del materiale cartaceo sicuramente più pregiato, di certo non riciclato. 16 È doveroso segnalare che nel già citato articolo di Giovanni Sforza (ibidem) è descritta una suddivisione in due parti tra le quali è posta la «tavola delle sonate di leuto»; nell’articolo di Franco Rossi (ibidem) ne sono invece individuate tre (cc. 1r-7v; cc. 8r-25v; cc. 27v -79r); più generica è la descrizione di Raffaello Baralli (ibidem) in cui non ne viene descritto il numero.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Le tavole delle sonate Un approfondimento distinto merita il foglio 26r-v; posto in mezzo al volumetto, propone un indice dei contenuti musicali (figg. 2, 3) presenti nella parte che lo precede. Esso è una probabile aggiunta, infatti la consistenza e la tipologia della carta utilizzata appare differente dalle altre. Entrambe le facciate del foglio Fig. 2 - Tavola delle Suonate del leuto, c. 26r sono compilate indicando titoli e cifre di rimando. Queste ultime sono riferite all’impaginazione originale, cioè che il compilatore indicò in testa alle carte, e trovano corrispondenza nella moderna numerazione del solo secondo fascicoletto17 rilegato nel codicetto, vale a dire da c. 8r a c. 25v.18 Di conseguenza, non è irragionevole presumere che, prima di una riunione in un unico volume, tali tavole fossero state Fig. 3 - Tav[o]la [delle] Sonate del leuto, c. 26v19 un compendio di quel quaderno musicale poi confluito nel tutto.19 L’indice in esame, come si evince anche dalla tabella che segue, è disposto con un ordine alfabetico in cui, nel verso, si leggono i titoli dalla lettera A [All’arme all’arme] alla lettera M [Massurdo] e, nel recto, sono elencati i componimenti dalla lettera P [Passo in mezo] alla lettera T [Tornando da Bolognia]. Ciò mostra come il foglio sia un’aggiunta successiva alla compilazione dell’intavolatura, peraltro rilegato alla rovescia20. Per verificare la corrispondenza dei riferimenti e la completezza del fascicolo ora indagato, ho incrociato i dati disponibili realizzando il prospetto di cui alla Tab. B. 17 Si veda la Tab. A. 18 Questa parte di codice è l’unica ad essere numerata in originale. 19 Figg. 2 e 3: Tavola delle suonate del leuto, cc. 26r-v, anonimo ms 774 (secc. XVI/XVII), della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. 20 Raffaello Baralli, ibidem, c. 12v. Codice 602

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Massimo Lombardi

In esso sono: integralmente rappresentate le due tavole; incolonnati i titoli delle composizioni con i numeri delle carte (numerazione originale); scritte le osservazioni, cioè la facciata del foglio in cui è presente l’intavolatura e le eventuali difformità di collocazione o numerazione (tra parentesi quadra). In calce, laddove necessario, sono esplicitate specifiche annotazioni alla tabella. Tab. B) Tavola delle suonate del leuto Tavola delle suonate del leuto, c. 26r Titolo c.orig. [v/r – n.d.r.] Passo in mezo 3[r] Passo in mezo 3[v] 5[v] Pillicciotta(a) Passo in mezo 7[r] Passo in mezo 7[v] Passo in mezo 8[r, Seguita] Passo in mezo 8[v] Passo in mezo 19[v] Passo in mezo 20[assente] Pavaniglia spagniola 12[v] Passo in mezo 26[assente] Passo in mezo 21[assente] Pebantugna 22[assente] Questo è quel luogo(b) 11[13v-15r] s.n. [?4] Romanescha(c) (c) s.n. [?9v] Romanescha s.n. [?10r] Romanescha(c) Su’ su’ popul luccese s.n. [assente] 1[13] Spagnoletta(d) 1[16v] Sant’Ercolano(e) Tordiglione 1[r] Tu ti parti cor mio caro 2[v] Tornando da Bolognia (f)[6]

Tav[o]la [delle] sonate, c. 26v Titolo All’arme all’arme Bagn’asciutto Ballo della Torcia Bascia Marchese Barriera Bergamastro Chiaranzana Fiorentina Fiorentina [Fantina] Fiorentina [Fantina] Gamba Gagliarda Gagliarda Gagliarda Gagliarda Gagliarda Gagliarda La sposa La dianora Mattuccino Massurdo

c.orig. [v/r – n.d.r.] 17[v] 2[v] 4[v] 12[r] 13[v] 19[r] 5[v] 4[v] 18[v] 18[v] 1[r] 2[r] 6[v] 10[v] 15[v] 16[r] 18[v] 5[r] 16[v] 5[v] 22[assente]

(a) Si riferisce alla Chiaranzana pilliciota. (b) Il titolo si riferisce all’incipit di c. 13v, riconducibile alla Barriera che inizia a c. 13v fino a c. 15r. La numerazione è erronea. (c) Le tre Romanesche senza numerazione di rimando potrebbero essere scritte a c. 4 e c. 9v. (d) Nella spagnoletta è indicata la cifra 1 come numerazione di rimando. Essa risulta errata oppure, più probabilmente, incompleta. La composizione è presente alla c. 13. (e) Nel Sant’Ercolano è indicata la cifra 1 come numerazione di rimando. Essa risulta errata oppure, più probabilmente, incompleta. La composizione è presente alla c. 16v. (f) Cifra poco leggibile nell’originale.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Scorrendo i dati della pagina precedente, è possibile fare alcune osservazioni. In primo luogo il titolo Bello Amante (c. 11v)21 non è indicato nelle tavole delle sonate, anche se nel ms 774 è posizionato tra la Romanescha con la sua Gagliarda22 (cc. 9v-11r)23 e la Bascia Marchese24 (c. 12r)25. In secondo luogo è interessante notare che nell’indice sono ben precisati alcuni titoli distribuiti dalla c. 20 alla c. 2626. Tali composizioni non si rilevano tra quelle intavolate, sebbene nelle tavole delle sonate occupino una posizione di centro pagina; unica eccezione è il Massurdo. Riguardo a queste musiche mancanti, ritengo che si possa escludere l’ipotesi di errori di scrittura o della cifratura di rimando; difatti, tali inesattezze, laddove presenti, sono state tutte individuate e ricomposte, come visibile nella Tab. B. Di conseguenza, non resta che ritenere fondato considerare che una parte di codice27 sia andata perduta successivamente alla compilazione delle due tavole delle sonate, ma prima della rilegatura definitiva del volumetto.

Un indice del codice Andando al di là delle indicazioni delle due tavole delle suonate del leuto (peraltro riguardanti solo una parte del ms 774), è interessante sfogliare il lucchese e stendere un elenco di tutto il suo contenuto. Ciò, oltre a permettere una immediata collocazione delle composizioni, offre una visione globale della varietà delle sostanze musicali e disegna una precisa mappa del codice. Anche questo aiuta nella ricostruzione del quadro concettuale indicativo degli scopi e dell’uso dell’intavolatura. Nell’elenco che segue ho incolonnato in ordine successivo le composizioni nelle quali è indicato il riferimento originale della carta (n. orig.)28, la numerazione moderna (n. new) 29, il titolo della composizione e le eventuali didascalie (titolo e didascalie); tutte le n.d.r. sono scritte tra parentesi.

21 C. 18v nella numerazione moderna. 22 In calce a questa Gagiarda c’è scritto “Questa gagliarda è un poco fastidiosa da imparare presto non la pigliare”. 23 Cc. 16v-18r nella numerazione moderna. 24 Il titolo a c. 12r è Bascia Marcese. 25 C. 19r nella numerazione moderna. 26 Passo in mezo, c. 20; Passo in mezo, c. 21; Pebantugna, c. 22; Massurdo, c. 22; Passo in mezo, c. 26; (?) Su’ su’ popul luccese, s.n. 27 Cc. 20-26. 28 Legenda: s.n. (carta senza numero); c. 1r (carta nr. 1, recto), etc. 29 Nel ms 774 il riferimento di rimando numerico moderno delle pagine è indicato in basso a destra di ogni recto delle carte. Codice 602

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n. orig. n. new s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. c. 01r c. 01r c. 01v c. 02r c. 02v c. 02v c. 03r c. 03v c. 04r c. 04v c. 04v c. 05r c. 05v c. 05v c. 06r c. 06v c. 07r c. 07v c. 08r c. 08v c. 08v c. 09r

c. 01r c. 01v c. 02r

titolo e didascalie

(priva di indicazione – pagina lacerata) (priva di indicazione – pagina lacerata) Sop[r]a il mesmo (forse sopra il medesimo, scritta poco comprensibile)30 c. 02r Sop[r]a il mesmo (forse sopra il medesimo, scritta poco comprensibile) c. 02v (priva di indicazione, pagina lacerata) c. 03r Sop[r]a il mezo (prosieguo della c. 2v) c. 03v Sopra il mezo c. 04r Contrap[pun]to s[opr]a il ten[o]re dell’Abb: c. 04v Contrap[pun]to s[opr]a il tenor dell’Abb: c. 05r Contrapp[un]to s[opr]a il tenore dell’Abb: c. 05v Passo e mezzo c. 05v Guerra d’Amore c. 06r Sopra il ten[or]e grande c. 06r La moresca c. 06v Sop[r]a il ten[ore] gr[and]e c. 07r Contrapp[un]to sop[r]a il ten[o]re dell’Abb: c. 07v Contrap[pun]to sopra il ten[o]re dell’Abb: c. 08r Tordiglione c. 08r Gamba c. 08v Gamba con la gagliarda (prosieguo della c. 8r) c. 09r Gagliarda (prosieguo della c. 8v; scritta cancellata); didascalia: CGVDR. c. 09v Bagn’Asciutto c. 09v Tu ti parti cor mio caro c. 10r Passo in mezo c. 10v Passo in mezo c. 11r Romanescha c. 11v Fiorentina c. 11v Il Ballo della torcia c. 12r La Sposa c. 12v Mattuccino c. 12v Chiaranzana Pilliciotta c. 13r Tornando da Bolognia; didascalia: Con le pianelle il Maestro formò la p.nte sonata. c. 13v Gagliarda seguente (prosieguo della c. 13r); didascalia: Questa gagliarda si fa, quando un tocco a dar si va all’hostaria id est alla Campana. c. 14r Passo in mezo,; didascalia: Questo Passo in mezo si suona quando uno va alla Veglia con il Chr[i]s[to]. c. 14v Passo in mezo c. 15r Seguita (prosieguo della c. 14v) c. 15v Seguita (prosieguo della c. 15r) c. 15v Passo in mezo c. 16r Seguita (prosieguo della c. 15v); didascalia: Questo Passo in mezo non si può suonare se non si suona in compagnia.

30 Dubbi sulla terminologia sono esplicitati anche in Raffaello Baralli, ibidem, p. 11r.

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c. 09v c. 10v c. 11r c. 11v c. 12r c. 12v c. 12v c. 13r c. 13v c. 14r c. 14v c. 15r c. 15v c. 16r c. 16v c. 16v c. 17r c. 17r c. 17v c. 18r c. 18v c. 19r c. 19v s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n.

c. 16v Romanescha c. 17v Galgliarda (prosieguo della c. 16v); didascalia: Questa galiarda è un poco fastidiosa da imparare presto non la pigliare. c. 18r Seguita (prosieguo della c. 17v) c. 18v Di [voi(?)] Bello Amante Allemanna c. 19r Basscia Marcese c. 19v (prosieguo della c. 19r) c. 19v Pavaniglia Spagniuola c. 20r Spagnioletta c. 20v Barriera c. 20r bis (prosieguo della c. 20v) c. 20v bis Seguita (prosieguo della c. 20r bis) c. 21r Seguita (prosieguo della c. 20v bis); didascalia: Questo è quel loco dov’è il mio cor pertuto qui sta colei. c. 21v Gagliarda c. 22r Gagliarda (prosieguo della c. 21v) c. 22v La dianora c. 22v Santo Eracolano c. 23r Seguita (prosieguo della c. 22v); didascalia: Quid agit tua celsitudo Philippe lego et edisco. c. 23r Fiorentina c. 23v All’arme all’arme c. 24r Fantina c. 24v Seguita et la Gagliarda (prosieguo della c. 24r) c. 25r Bergamastro c. 25v Passo in mezo c. 26r Tavola delle sonate c. 26v Taula [delle] sonate c. 27r Passo’n mezo c. 27v Contrappunto di P.M.31 c. 28r Segue (prosieguo della c. 27v) c. 28r La Corabona Gagliarda c. 28v Segue (prosieguo della c. 28r) c. 29r Gagliarda c. 29v La chioccia Gagl[i]arda c. 30r Segue (prosieguo della c. 29v) c. 30r Romanescha c. 30v (prosieguo della c. 30r) c. 30v Romanescha c. 31r (primo esagramma, prosieguo della c. 30v) c. 31r Alemanna (secondo esagramma) c. 31r L’Amor e fatto a ⁀ c. 31v Saltarello c. 31v Canario c. 31v Canario spagnuolo c. 32r* Occhi dell’alma mia vivaci e soli c. 32r Contra passo

31 P.M. abbreviazione di Passo in Mezzo; la successione armonica rivela un Passo e mezzo moderno: I-IV-I-V-I-IV-I-V-I. Codice 602

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s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n. s.n.

c. 32v Contentezza d’amore, Balletto c. 33r (prosieguo della c. 32v) c. 33r (appunti in notazione, appunti in intavolatura) c. 34r Passo’n mezzo c. 34v Passo’n mezzo c. 35r (prosieguo della c. 34v) c. 35r Passo in mezzo c. 35v Pass’in mezzo (prosieguo della c. 35r) c. 36r Pass’in mezzo (prosieguo della c. 35v) c. 36v Passo’n mezzo – Passo in mezzo (prosieguo della c. 36r) c. 37r Pass’in mezzo c. 37v Romanescha c. 38r Romanescha c. 38v Pavaniglia spagnuola c. 38v La Corrente balletto fransese; didascalia in calce: La Corrente balletto fransese, la s.da p.te si fa per sonarla, ma ballando non occorre. c. 39r Gagliarda c. 39v Gagliarda c. 40r Romanescha c. 40r Lanfredina gagliarda c. 40v Lanfredina gagliarda (prosieguo della c. 40r) c. 41r Gagliarda c. 41v* Ancora che tu m’odii c. 42r* Rendimi il core (in realtà trattasi di Quando mirai sa bella faccia d’oro)* c. 42v* Donna mi fuggi ogn’hora c. 43r* Tutta gentile e bella c. 43v* M’ha punto Amor c. 44r* Sia fiumi e fonti c. 44v* Quando mirai sa bella faccia d’oro c. 45r* Donna mi fuggi ogn’hora c. 45v* (testo di Donna mi fuggi ogn’hora) c. 46r* Porgimi cara Filli c. 46v* (testo di Porgimi cara Filli) c. 47r* Occhi dell’alma mia vivaci e soli c. 47v* Mentr’amor dentro al mio petto c. 48r* Non vedo hoggi il mio sole c. 48v* (testo di Non vedo hoggi il mio sole) c. 49r* Per mostrare d’esser bella (pagina lacerata) c. 49v* (testo di Per mostrare d’esser bella, pagina lacerata)

*composizioni già trattate nel articolo in Codice 602, anno 201632.

32 Massimo Lombardi, ibidem, pp. 139-183.

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La filigrana Nella descrizione del codice non poteva certamente mancare anche un riferimento alla carta, alla sua provenienza ed epoca di produzione. Anche se tali indizi non sono significativi o probatori sulla precisa età e sul luogo in cui il manoscritto è nato e vissuto, per quanto possibile è opportuno agire anche in tal senso. All’epoca, il settore della produzione e del commercio della carta era tutt’altro che inattivo. Solitamente i rapporti commerciali tra famiglie nobili, mercanti produttori e mastri cartai erano addirittura regolati da rigidi contratti notarili33. L’attività della compravendita della carta di certo poteva fare arrivare anche molto lontano tali materiali che, una volta giunti a destinazione, assecondavano le necessità più diverse. I segni che rendevano distinguibile una carta da un’altra (talvolta riportando il marchio del produttore, talvolta quello dell’acquirente e talvolta entrambi)34 furono “le filigrane o segni dell’acqua” di cui i primi prototipi risalgono alla fine del sec. XIII35. Fatta questa celere premessa, per quanto riguarda il lucchese, ho rinvenuta una sola traccia di filigrana (fig. 4) impressa nel foglio 4636. Si tratta di un frammento (capovolto nell’immagine qui proposta) della cui porzione complementare non vi è traccia nelle restanti parti del codice37. Tuttavia, il frantume rimasto presumibilmente riproduce almeno la metà dell’intero marchio. Tutt’altro che secondaria è inoltre la constatazione che l’immagine è impressa su “carta vergata” i cui segni lasciati dai filoni e verghelle sono ben visibili.

33 Un esempio è ben descritto in Enrico Pedemonte, La carta, storia, produzione, degrado, restauro, Venezia, Marsilio, 2008; pp. 59-62; “Un mercante che più degli altri lega la sua fortuna alla carta è Bartolomeo Dongo (1581-1661). Egli ha magazzini e procuratori in tutto il mondo, specialmente in Spagna, e traffica con ogni tipo di merce. […] la classe mercantile era saldamente alleata con il potere politico della Repubblica, detenuto dalle famiglie nobili, e quindi tutte le disposizioni legislative della Repubblica furono sempre tese a garantire gli interessi della classe mercantile. […] Il rapporto tra il mercante e il maestro era fissato da un contratto, sigillato di fronte a un notaio, in base al quale il maestro si impegnava a produrre un certo numero di fogli di carta, di dimensioni e qualità definite, per ogni cento quintali di stracci forniti dal mercante”. 34 Enrico Pedemonte, ibidem; pp. 50-53; “Questi segni [filigrane n.d.r.] […] sono veri e propri marchi: essi, infatti qualificavano il fabbricante della carta e, spesso, anche l’acquirente. Infatti, nobili, patrizi e prelati usavano per la corrispondenza carta che aveva in filigrana il proprio stemma”. 35 Ferdinando Salamo, Il conoscitore di stampe, Torino, Umberto Allemandi & C., 1990; pp. 86109/87. 36 Nell’immagine è stata ripresa guardando la c. 46v. 37 È questo un ulteriore elemento che spinge a ritenere che il codice sia stato confezionato con carta di recupero. Codice 602

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Fig. 4 - Particolare della filigrana, del ms 774 della Biblioteca Statale di Lucca38

Volendo fare una primissima considerazione di carattere generale, è già possibile coordinare tra loro alcuni elementi: • il codice, che appare di foggia tutt’altro che pregiata, consta di più quadernetti di differenti misure probabilmente proporzionati a mano e costruiti con carta riciclata; • non ci sono segni di filigrana oltre al frammento presente nel f. 46. La connessione di queste informazioni spinge a ritenere del tutto casuale la presenza di quell’unica e incompleta filigrana che, nell’ipotesi di un documento d’importanza più rilevante, sarebbe invece stata intera ed avrebbe occupato una posizione più centrale ed apprezzabile. Di nuovo, tutto incoraggia a ritenere che l’uso dell’intavolatura sia stata funzionale ad occasioni ospitate in ambienti abbastanza rustici. Ad ogni modo, venendo più nello specifico al tentativo di decifrazione della segnatura impressa – seppure parzialmente utilizzabile – è possibile dire che ciò che di essa rimane è sufficiente per poter attestare che si tratta di una porzione (circa tre quarti partendo dal basso) della lettera gotica. Tale marchio, con varie fogge e orpelli, fu ampiamente prodotto 38 Filigrana, particolare, f. 46, anonimo ms 774 (secc. XVI/XVII), della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

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sia in Italia che in molte altre parti d’Europa39. Per quanto riguarda l’identificazione del segno, non è possibile sapere se vi fossero ornamenti nella parte superiore; cosa peraltro frequentissima. Il dettaglio avrebbe agevolato molto la ricerca di corrispondenze ed avrebbe dato maggiori sicurezze sul risultato. Detto ciò, al di là del criterio di somiglianza dell’immagine, prendendo atto delle considerazioni espresse nel dizionario di Charles-Moïse Briquet, un punto di riferimento su cui è possibile concentrare una prima osservazione è suggerita dalla valutazione dei pontuseaux, cioè delle righe verticali ed orizzontali impresse sulla carta dai filoni e dalle verghelle del telaio. La comparazione delle distanze dei particolari citati, oltre a suggerire una datazione – per quanto di massima – della produzione del supporto cartaceo, può anche rappresentare un dato importante su cui iniziare un efficace confronto tra immagini simili. Tenendo come riferimento la misurazione della distanza rilevata tra i filoni della carta intavolata – 18 mm –, il lavoro di screening e comparazione si è concentrato sulle riproduzioni di filigrane presenti in due grandi cataloghi: il Dictionnaire Historique des marques du papier di Charles-Moïse Briquet e la raccolta di filigrane di Gerhard Piccard (Bestand J 340 Wasserzeichensammlung Piccard)40. L’accostamento del frammento disponibile con migliaia di segni d’acqua pertinenti ha dato esiti interessanti. Infatti nel catalogo di Gerhard Piccard, al numero 109799, è presente una griffe che presenta elementi di compatibilità (fig. 5). Si tratta di un marchio del 1541 che rappresenta una gotica avente una corsa verticale divisa, una distanza tra i filoni di 18 mm ed un Fig. 5 - Gerhard Piccard, filigrana nr. 109799 quadrifoglio in cima41. 39 Charles-Moïse Briquet, Les Filigranes, dictionnaire Historique des marques du papier, vol. III, Leipzig. Verlang Von Karl W. Hiersemann, 1923; pp. 458-459/458; «Sans doute, la lettre revêt des formes variées; son long jambage, en particulier, se termine de façons fort différentes. Tantôt il reste plein jusqu’au bout, le plus souvent il se bifurque et forme deux bras qui vont en s’écartant, en se relevant ou en se refermant» «Le est donc classé en trois grandes catégories: 1° simple sans ornement ni fleuron; 2° surmonté d’un fleuron ou quatrefeuille; 3° accompagné d’un trèfle, d’un ornement ou d’une marque personnelle, chacune de ces grandes divisions comprenant plusieurs groupes distincts. Le plus ou moins grand écartement des pontuseaux fournira fréquemment une indication chronologique précieuse. Un de même style qu’un autre sera plus ancien que lui si ses pontuseaux sont plus espacés». 40 Disponibile su www.piccard-online.de. 41 Archivio Centrale di Stato di Stoccarda, inventario J 340, Piccard collezione Watermark, No. 109799; origine: SA BS c/o l’Archivio di Stato di Braunschweig, B II 4, 160; dimensioni: Altezza 56 mm, larghezza di 15 mm, distanza tra i fili vincolanti 18 millimetri; disponibile su www.piccard-online.de. Codice 602

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Per valutare una compatibilità delle due immagini, ho cercato di individuare, nelle parti comparabili dei disegni, delle peculiarità caratterizzanti entrambi i bozzetti. Quindi, dopo averli contrassegnati (seguendo uno schema dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra) con lettere dalla a alla i, ho tracciato una serie di triangolazioni utili per avere un preciso parametro di riferimento sulle distanze e sulle loro posizioni. Il risultato della verifica suggerisce la compatibilità di relazione tra le due copie. Per quanto riguarda l’analisi comparativa effettuata, è il caso di precisare che, avendo a disposizione la distanza certa tra i filoni42 delle due filigrane, armonizzando tale misura nelle riproduzioni utilizzabili, la semplice applicazione di una proporzione matematica permette di avere un risultato attendibile. Oltre a ciò ho voluto utilizzare anche un parametro comparativo grafico più immediato. Dopo avere proporzionato tra di loro le figure, calibrando ed uguagliando le distanze dei pontuseaux43, ho tracciato linee orizzontali in corrispondenza dei dettagli caratteristici e salienti. Anche in questo caso, come esplicito nell’immagine che segue, si palesa una compatibile sovrapponibilità dei simboli.

Fig. 6 - Comparazione filigrane: ms 774 c. 46;44 G. Piccard nr. 109799

42 Le due filigrane sono impresse su carta con pontuseaux distanti 18 mm. 43 Il parametro univoco per entrambe le immagini è stata la misura della distanza tra i filoni, indicata con α, che nella realtà corrisponde a 18 mm. 44 Filigrana, particolare, f. 46, anonimo ms 774 (secc. XVI/XVII), della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

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Dunque, di seguito a quanto detto, convinto che quest’ambito di ricerca certamente meriterebbe una dedicata, scientifica, scrupolosa ed ancora più approfondita indagine, l’attuale intento rimane quello di palesare la presenza di una filigrana nel lucchese e di accendere l’interesse in tal senso. In assenza dell’interezza dell’immagine impressa nel ms 774, e non avendo quindi a disposizione un riferimento inconfutabile, i risultati della comparazione – benché convincenti – vanno comunque intesi con un giudizio di probabilità ed un valore di massima; quindi considerati con elasticità. In sostanza, pur ritenendo attendibile la compatibilità delle due figure confrontate, per ovvia prudenza, preferisco limitarmi solo ad ipotizzane l’uguaglianza. In ogni caso, non può non rilevarsi una buona coerenza della vetustà del supporto cartaceo con il contenuto del manoscritto che, seppure si fosse spinto in un lasso temporale appena diverso da quello dichiarato nel catalogo di Gerhard Piccard, può evidentemente essere stato scritto su fogli marchiati con quella griffe. In questo campo di indagine così complicato e sdrucciolevole, l’investigazione resta ancora totalmente aperta e volta al tentativo di ottenere informazioni, dati e corrispondenze che possano eventualmente avanzare altre ipotesi.

L’inchiostro Il manoscritto 774 – come ogni altro analogo manufatto scritto che rappresenta, contiene e trasmette cultura proveniente da un passato non proprio prossimo – deve essere osservato anche in quei particolari che, se da una parte aiutano a fare qualche passo in avanti nello studio musicale, artistico, storico e musicologico, dall’altra rappresentano un pericolo per la conservazione dell’oggetto stesso. Uno di questi, peraltro ricco di fascino per via della sua storia e per la funzione che da sempre esercita nella trasmissione della cultura, è l’inchiostro. La tipologia utilizzata nel manoscritto 774 pare essere sempre la stessa, cioè del tipo ferro-gallico. Va detto che la vicina Firenze deteneva il primato europeo della produzione qualitativa e quantitativa di questo prodotto, largamente diffuso in tutta Europa45. Il suo impiego palesa due caratteristiche molto peculiari: la scrittura appare di colore bruno ed i segni grafici tendono a perforare il supporto cartaceo. La particolare colorazione non è dovuta alla vetustà del documento 45 Alessandro Gusmano, Gli inchiostri nella storia della scrittura e della stampa, Milano, Editrice Bibliografica, 2011; pp. 41-55/45; “[…] nel secolo XVI si raggiunge in tutta Europa una certa uniformità nella composizione degli inchiostri ferro-gallici, grazie alla larga opera di omogeneizzazione compiuta appunto con la diffusione degli inchiostri fiorentini; nei secoli XIV, XV, XVI, Firenze risulta infatti al primo posto in Europa nella produzione, sia quantitativa, sia qualitativa; tuttavia le ricette reperite divergono nella procedura di ottenimento dell’inchiostro ferro-gallico”. Codice 602

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e tantomeno allo stato di cattiva conservazione; la causa è piuttosto la concentrazione di ioni ferrici nella composizione chimica che, nel tempo, fa cambiare l’aspetto cromatico da nero a marrone. Le ragioni della corrosione prodotta da questi inchiostri non sono ancora ben conosciute, anche se sono state formulate diverse ipotesi46 .

Oltre alle proprietà evidentemente acide del prodotto, pure l’invecchiamento fisiologico della carta contribuisce a tale degenerazione. Anche per il codice lucchese quest’ultimo effetto rappresenta un serio pericolo poiché, nel tempo, potrebbe raggiungere livelli tali da rendere illeggibile il contenuto. Sfogliando l’intavolatura è possibile constatare preoccupanti segni di corrosione. Presso la Biblioteca Statale di Lucca il codice è ben custodito, protetto e controllato nella manipolazione. L’ormai standardizzata riproduzione digitale ci salverà dal rischio di perderne i contenuti, nondimeno (come del resto augurabile per innumerevoli beni musicali e culturali) servirebbe un maggiore investimento pubblico volto alla conservazione del patrimonio artistico; ciò permetterebbe ai custodi di simili rarità una maggiore possibilità di azione per garantirne la sopravvivenza.

Manoscritto lucchese? Per avere una comprensione ed una visione soddisfacente ed il più possibile complessiva del codice, è necessario anche l’approfondimento di quegli elementi storici specifici che contraddistinguono e raccontano il documento contestualizzandolo nel suo ambiente. Proprio in quest’ottica, cioè volta alla formulazione di un compendio di notizie utili per narrare la vita dell’oggetto e nell’oggetto musicologico – quindi degli spaccati di esistenza di una o più persone che in esso hanno lasciato traccia – è impossibile non impastare il dato storico con quello artistico. Il contesto è certamente un brodo di coltura nelle quali si sono sviluppate le cause dei contenuti musicali. Su questa via, dove si vorrebbero trovare risposte a domande complesse, si devono necessariamente “ficcare le mani” dentro un terreno non solo musicale, ma anche storiografico, sociologico, antropologico, estetico, forse psicologico, etc. Iniziando da questi presupposti mi piace sottolineare ancora come la storia, quindi le manifestazioni della quotidiana realtà umana, e l’arte siano in strettissima simbiosi. Venendo alla questione, è bene dire che, senza dubbio, esistono dei punti saldi di indubitabile autorevolezza47; tuttavia, guardando bene tra 46 Enrico Pedemonte, La carta, storia, produzione, degrado, restauro, Venezia, Marsilio, 2012; pp. 130/132. 47 Mi riferisco agli studi citati in questo articolo: G. Sforza, R. Baralli, F. Rossi, M. Paoli.

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le pieghe del codice, è possibile valutare ulteriori aspetti che, oltre a confermarne la lucchesità, ci restituiscono informazioni che sembrano narrare (o quantomeno da cui è possibile ragionevolmente congetturare) aneddoti capaci di dare un senso compiuto alla musica che chiaramente s’innerva nell’antropologia culturale-musicale locale. Fino ad oggi si era a conoscenza che: a) il manoscritto lucchese «fa parte del fondo “Manoscritti della Biblioteca”, cioè del nucleo originario di manoscritti appartenenti alla Biblioteca Pubblica, che acquistò vita ufficiale nel 1780 per volere della Repubblica Aristocratica Lucchese e divenuta l’odierna Biblioteca Statale»48 ; b) il canonico Raffaello Baralli49, nel suo catalogo, ha affermato che “il ms è del sec. XVI e lucchese”;

c) Marco Paoli50, nel suo articolo dedicato all’archivio musicale della Biblioteca Statale di Lucca, riguardo al ms 774 ha scritto: Le danze ivi contenute sono le più tipiche del Rinascimento […] ad attestare l’ampia informazione musicale del possessore del codice, congetturalmente identificato da Kirkendale nella nobile poetessa lucchese Laura Guidiccioni, solita a comporre versi poi musicati da celebri musicisti quali il romano Emilio Cavalieri. Del resto è indubitabile l’origine lucchese del codice, come documenta anche la presenza della sonata “Sù sù populo luccese”51.

Partendo da qui, fortissimo è stato il desiderio di capire meglio le sostanze che hanno orientato l’esplicitazione della provenienza del codice verso questa appartenenza geografica. È maturata così la convinzione che un’ulteriore indagine sui segni indiziari, forse mai esaustivamente investigati, avrebbe potuto produrre qualche buona nuova. Quindi, dopo l’esame di ogni carta, ho indirizzato la mia attenzione sugli elementi che, al di là della scrittura musicale, fanno del manoscritto un riassunto di contingenze che legano cause ed effetti nei contesti in cui le composizioni hanno avuto la loro genesi: le didascalie. Prima di proseguire vale la pena sottolineare che la mano autrice delle diciture che qui vengono analizzate è plausibilmente da ritenersi la stessa che ha scritto almeno tutta la prima metà del codice52. Ciò rimarca un legame 48 Informazoni bibliografiche ms 774, lettera protocollo 1598 VIIIb del 12 settembre 1998, Biblioteca Statale di Lucca. 49 Raffello, Baralli (1862-1924), sacerdote, studioso di paleografia musicale e paleografia gregoriana; nel 1909 ha redatto il Catalogo descrittivo dei codici musicali della Biblioteca Governativa di Lucca, ad oggi, rimasto inedito e lì conservato. 50 Già direttore della Biblioteca Statale di Lucca. 51 Marco Paoli, L’archivio Musicale della Biblioteca Statale di Lucca, libri corali medievali e rinascimentali, fondo pucciniano e altro, in Actum Luce, rivista di studi lucchesi, anno XLIII n. 2, Lucca, Istituto Storico Lucchese, dicembre 2014, p. 223. 52 Fino alla Tavola delle suonate del leuto, cc. 26r-v. Codice 602

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di coerenza tra la musica intavolata, le annotazioni, il personaggio che le ha scritte, il luogo dove evidentemente si consumavano gli eventi narrati e la funzione che l’autore, espressamente e con significativi riferimenti, attribuiva alle composizioni. Alla Veglia con Christo. L’attenzione è ora rivolta alla didascalia in calce alla c. 14r: “Questo passo in mezo si suona quando uno va alla veglia con chr[i]s[to]” (fig. 7). È questa l’unica intavolatura del manoscritto in cui esplicitamente si volge lo sguardo alla spiritualità e alla religione; di conseguenza sovvengono spontanee due osservazioni che palesano astrazioni apparentemente antitetiche. La prima è una domanda: possibile che una danza (in questo caso un Passo in mezzo) abbia avuto una destinazione contemplativa, specificamente religiosa? In secondo luogo la composizione devota si trova scritta all’interno di una raccolta di musiche decisamente profane e prevalentemente destinate alla danza, di sicuro eseguite anche in ambienti piuttosto licenziosi. In sostanza, prende forma un ossimoro dove il sacro e il profano non solo si concedono spazio a vicenda, ma paiono veramente sovrapporsi in maniera singolare. La circostanza appare così speciale che un approfondimento è imprescindibile; quantomeno per tentare di ipotizzare una spiegazione. La presenza del Passo in mezo e di quella frase così speciale, all’interno di un codicetto che, come si vedrà, sembra poco interessato all’elevazione dell’anima, non può che sottolineare come la “veglia con chr[i]s[to]” doveva rappresentare un’occasione straordinaria, irrinunciabile, cioè capace di attrarre, aggregare ed amalgamare sotto il suo “segno” aspetti e condizioni socio-culturali diversi, forse anche dal punto di vista etico ed intellettuale. È quindi di nuovo il caso di spostarsi per un attimo dalla lettura solo musicale e, scrutando con una lente capace di cogliere tracce più antropologiche, psicologiche e sociologiche, rileggere la didascalia dell’intavolatura che, se ricollocata nel suo humus, si rivela ricca di capacità rappresentativa.

Fig. 7 - Ms 774 Lucca, didascalia53, c. 14r

53 Anonimo, Passo in mezo, didascalia, c. 14r, manoscritto 774 (sec. XVI/XVII) della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Un sostanziale elemento descrittivo sta proprio nella formulazione letterale, cioè nel verbo andare e nella preposizione semplice con. L’inscrizione pare indicare un gesto di moto fatto insieme al Christo e non verso il Christo. In apparenza trascurabili, in realtà questi particolari esprimono con una certa chiarezza l’immagine dell’accaduto, gli atteggiamenti e la gestualità riguardante una specifica ritualità: partecipare ad una processione dove viene esposta l’effigie del Christo, suonando una danza accettata dall’autorità clericale. Senz’altro tale occasione rituale doveva essere in grado di riassumere ed equilibrare in sé contrapposti elementi della vita sociale e, in qualche modo, questo Passo in mezo si pone come un medium tra la contemporanea austerità della pratica di fede (il cui peso politico, economico e sociale non erano questioni secondarie), gli aspetti devozionali rituali (che proprio perché tali devono sempre obbedire a salde regole simboliche) e la manifestazione devozionale più popolare (cioè praticata da quella parte di popolazione più semplice, schietta, rustica: il popolo, la società da osteria). Non sfugge quindi che, sia per forma che per contenuto, questa Veglia doveva possedere un carisma, una valenza simbolica, una capacità di attrazione ed aggregazione sociale evidentemente indiscutibili. Mi sono proposto quindi di tentare di addivenire all’individuazione di una celebrazione lucchese capace di combinare tutto ciò. Si tratta di dare una spiegazione convincente ad un documento che, pur nella sua sintesi, descrive un momento molto caratteristico, che amalgama facciate diverse della realtà, ma che in quell’intavolatura trovano una forma, una formula ed una comune ragione d’essere. Nella cristianità la Veglia di tutte le Veglie è senza altro quella della Pasqua. Però, essa non prevedeva realizzazioni musicali arbitrarie. In ogni caso, è chiaro che l’esecuzione di una danza come il Passo in mezo54 sarebbe stata, per usare un eufemismo, irriverente e fuori luogo. Lo stesso discorso vale anche per la Via crucis, la cui rappresentazione, la profondità morale ed il significato tutt’altro che giocondi, mal si conciliano con una danza. Anche il Natale, sicuramente la più lieta tra le festività, pare poco confacente per l’utilizzo di siffatta composizione. Molte erano le occasioni festive a Lucca, ma la più importante fu senz’altro quella della cosiddetta Luminaria della Santa Croce o Volto Santo. La tradizione è molto antica, ma attestazioni del perdurare dell’usanza, della sua magnificenza, del suo legame con la musica e con la figura del musicista, sono attestate anche in epoche successive al ms 774, e ci arrivano da autorevoli personaggi quali Carlo Goldoni. 54 Questo passo in mezo si suona quando uno va alla veglia con Christo, lettera del vicedirettore dell’Ufficio diocesano per l’Arte Sacra e i Beni Culturali dell’Arcidiocesi di Lucca, datata 31 gennaio 2015, “È vero che la Veglia pasquale è la Veglia di tutte le Veglie, ma oggi come soprattutto alla fine del sec. XVI inizia e iniziava in assoluto silenzio”. Codice 602

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Ritornato da Firenze rimasi impegnato per un’altra lite di andare a Lucca. […] Condussi meco anche la moglie e vi passammo sei giorni i più deliziosi del mondo. Era di settembre, giorno dell’esaltazione della Santa Croce, festa principale della città; nella cattedrale vi è un’immagine del nostro Salvatore, chiamata il Volto Santo, e che si espone in quel giorno con una pompa così splendida, ed una musica sì numerosa in voci ed in istrumenti, che non ho veduto mai la simile né in Roma, né in Venezia. Havvi una fondazione fatta da un devoto lucchese, che ordina di ricevere in quel dato giorno alla cattedrale tutti i musici che vi si presentano, e di pagarli non a proporzione ai loro meriti, ma del viaggio da essi fatto […]55.

Il Volto Santo56, una scultura di Cristo crocifisso, è la più importante icona sacra lucchese, famosa in Italia ed in Europa57. Il culto di questa sacra immagine è antichissimo, è già degli ultimi anni del sec. VIII e nei primi del IX era in venerazione a Lucca, ed anche per la vicina Toscana […]58 . Fig. 8 - Il Volto Santo di Lucca, Cattedrale di Lucca59 55 Carlo Goldoni, Memorie di Carlo Goldoni per l’istoria della sua vita e del suo teatro, rivedute e corrette, volume unico, parte prima, cap. L, Milano, Edoardo Sonzogno Editore, 1877, su www. archive.org, consultato il 1 maggio 2017, c/o The University of Illinois Library, 854, G56, B, G, 56I, 1877, pp. 136-138/138. 56 Giovan Domenico Mansi, Monsignore, Diario Sacro delle Chiese di Lucca, Lucca, Tipografia Giusti, 1836; pp. 221-229/222; Il Volto Santo “è pia tradizione, che sia stata scolpita da S. Nicodemo già discepolo di Gesù Cristo, e poi essendosi conservata in Gerusalemme per molti secoli dalla cura diligente de’ fedeli, finalmente circa l’anno del Signore 782 fosse per divina rivelazione stata scoperta da un vescovo Piemontese, e dal medesimo posta in mare, e raccomandata alla Divina Provvidenza, dalla stessa fosse dirizzata a Luni, quindi a Lucca”. 57 Giovan Domenico Mansi, Monsignore, ibidem, pp. 221-229/225: “La celebrità del nostro santo Simulacro divenne tale, che non solo per le città della nostra Italia, ma in tutte le più distanti regioni d’Europa, s’innalzarono chiese ed altari in suo onore […]”. Domenico Barsocchini, Ragionamento sul Volto Santo, in Memorie e Documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, Tomo V parte I, Lucca, Felice Bertini, 1844; pp. 5-39/23; “Se da questi fatti e dai documenti riferiti si par chiara la venerazione dei lucchesi verso il Santo Volto, da altri che di poi riporteremo emergerà la dimostrazione del culto ch’esso ebbe anco presso i popoli e nazioni forastiere sì vicine che lontane”. 58 Giovan Domenico Mansi, Monsignore, Diario Sacro delle Chiese di Lucca, Lucca, Tipografia Giusti, 1836; pp. 221-229/223. 59 Il Volto Santo di Lucca, immagine gentilmente concessa su autorizzazione del rettore della Cattedrale di Lucca, don Mauro Lucchesi; foto di Lucio Ghilardi; è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

La celebrazione legata al Volto Santo ricorre il 14 settembre di ogni anno, ma nella notte precedente alla festa (detta anche della Santa Croce), in Lucca accadeva qualcosa di veramente singolare. Dalle memorie che ci rimangono del sec. XIII sappiamo che fino alla vigilia era essa annunciata dal suono di tutte le campane della città. Non solo il clero della città stessa, ma tutto quello della diocesi era invitato alla processione o luminaria, che faceasi la sera precedente alla festa60.

Era un avvenimento di portata poderosa per i lucchesi e non solo. Ma, per cogliere la complessità delle circostanze e delle necessità che avvicinavano e mettevano in equilibrio elementi, per così dire, tra loro lontani, è importante comprendere che la celebrazione non era solo un’effervescente professione di fede, bensì un luogo in cui interessi – siano essi stati coincidenti, contrapposti o concorrenti – si fondevano in un’unica esternazione comportamentale che doveva in ogni caso rendere ben visibili tutti i vari significati diplomatici. La Veglia diventò ben presto fatto politico oltre che religioso: si trasformò nella più importante occasione in cui ritualmente si riaffermava il potere di Lucca […] Si può quindi affermare che, all’interno del grandioso spettacolo della Luminaria, se ne trovi uno ancora più importante e significativo: quello rappresentato dalla Chiesa e dallo Stato che si scambiano dimostrazioni di amicizia e si mostrano in tutto il loro sfarzo61.

Venendo al suo materiale svolgimento, la processione in cui veniva esposto e venerato il simulacro, iniziava dalla chiesa di San Frediano; da lì, con ceri accesi e insegne delle molte chiese di Lucca e dei territori vicini, raggiungeva la cattedrale di San Martino; il tutto in un’immersione musicale. Intanto dalle case, dai palazzi, dalle torri migliaia e migliaia di faci risplendevano, quasi mutando in giorno la notte. Una moltitudine di sonatori di diversi strumenti, che dalle città vicine e dalle lontane qua convenivano, e per le vie e per le piazze empivano l’aria di svariate melodie, udite con tal diletto, che la Signoria, dopo aver preso parte alla solenne processione, usciva ad udire quei singolari concerti, che chiamavansi le varietà di trombetti forastieri 62.

Anche la leggenda della tradizione sottolinea l’esistenza di una vigorosa relazione tra il Volto Santo e la musica. Non si tratta però di musica propriamente sacra, ma proveniente invece da un ambiente più popolare, modesto, eseguita da poveri, pellegrini; estrazione del popolo semplice e devoto. 60 Almerico Guerra, Notizie storiche del Volto Santo di Lucca, Lucca, Tipografia arcivescovile San Paolino, 1881; pp. 146-156/149. 61 Roberta Martinelli, La via Francigena, Il Volto Santo di Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazi Editore, 1997, p. 26. 62 Almerico Guerra, ibidem, pp. 146-156/150. Codice 602

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Ne è prova il celebre episodio miracoloso del pellegrino musicista a cui Gesù, commosso dalla povertà e dalla devozione dell’uomo, donò una pianella d’argento in segno di gratitudine per avere suonato di fronte alla sua sacra immagine63. Molti sono gli studi iconografici attinenti64 che dedicano interessanti pagine al soggetto. La devozione al simulacro fu diffusa in tutta Europa e la prodigiosa vicenda, indubbiamente suggestiva per molti artisti, fu tutt’altro che limitata nella sua rappresentazione illustrativa. Tra le opere sopravvissute, vale la pena segnalare una splendida tavola conservata presso il Museo Diocesano di Ortona (fig. 9).65

Fig. 9 - Il Volto Santo di Lucca e il miracolo del giullare, Museo Diocesano di Ortona65

63 R.P.F. Giacomo di Voragine dell’Ordine de’ Predicatori, Leggendario delle vite de’ Santi, Venezia, appresso Alessandro Griffio, 1584, su www.archiviovoltosanto.it (fonte google.books), pp. 723-726/726; “[…]Non è dubbio che il Volto Santo è stato miracolosamente fatto, poi che si veggono tanti miracoli. De’ quali mi par di doverne raccontar’uno, per confermazione della nostra fede. Mosso un giovane francioso da pura, & santa divotione, voleva andare al santo sepolcro, ma presentendo che nella Città di Lucca era riposta questa santa immagine […] volle prima ch’andasse al santo sepolcro, andarla a visitare; & giunto ch’ei fu a Lucca, per grande e smisurato desiderio di vederla, non si curò di riposarsi, per infino ch’egli havesse adempiuto la sua divotione. Et incontinente che l’hebbe veduta dalla lunga […] egli stava nella mente sua come confuso, & vergognoso; non ardiva a farsi innanzi, considerando egli la sua povertà, non avendo nulla da poter offrire; ma ricordandosi di quel, che dissero gli Apostoli Pietro e Giovanni, egli diceva nel suo cuore, Argentum & aurum non est mihi, quod autem habeo, hoc tibi do. & pose mano a un suo instrumento musicale, col quale tanto dolcemente cominciò a suonare […]. Però vedendo la divina bontà quel suo smisurato desiderio d’offrire qualche cosetta, volse provedere. Pecioche stando egli in tal modo dinanzi alla sacralissima Croce del Volto Santo, esso Volto santo havendo in piedi le scarpe d’argento, alzato il piede dritto, gittò al peregrino la scarpa d’argento […]”. L’episodio è esattamente riprodotto anche nell’anonimo volumetto intitolato Historia del volto santo di Christo, in Lucca, appresso Vincenzo Busdraghi, 1586, su www.archiviovoltosanto.org, (fonte google.books), consultato il 5 marzo 2017. 64 Massimo Salcito, Il Volto Santo e la leggenda del giullare, in Conferenza Regionale di Iconografia Musicale d’Abruzzo e l’iconografia musicale, II Conferenza Regionale di Iconografia Musicale, atti del convegno, Archivio di Stato di Pescara, 2002, pp. 39-41. 65 Ignoto, Il Volto Santo di Lucca e il miracolo del giullare, sec. XV, tempera su tavola, custodita presso il Museo Diocesano di Ortona (CH), immagine gentilmente concessa su autorizzazione del direttore del Museo Diocesano di Ortona dott. Elio Giannetti; è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo; foto di Ruperto Polleggioni.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

In sostanza, tutto questo impasto di informazioni fa intuire come attorno al significato socio-culturale del Volto Santo nacque una sintesi compiuta della compenetrazione esistente tra i tanti aspetti sociali e le molte esteriorità, spesso tra loro lontane, qui riequilibrate. Da un lato era manifesta la formidabile spontanea devozione popolare66 ; la festosa adesione alla professione di fede; il proposito di riconciliazione, possibile attraverso una gamma di comportamenti che spaziavano dal rigoroso gesto processionale alla popolare fruizione musicale evidentemente anche profana. Dall’altro esisteva lo sfoggio dei poteri politici e religiosi67, l’espressione diretta del potere legislativo sancito attraverso l’obbligo di partecipazione imposto anche per mezzo di statuti della Serenissima Repubblica68 ; l’esercizio di tolleranza e l’approvazione di ciò che la società più semplice offriva. Insomma, in tutto ciò, in questa complessità di sostanze che permeano di fascino la celebrazione della Veglia del Volto Santo, sembra possa trovarsi la causa che può avere spinto qualcuno a comporre quel Passo in mezo, corredandolo di una didascalia così significativa. Ritengo quindi che le coincidenze, se non a fronte di una prova confutante, descrivano in maniera convincente come il Passo in mezo (c. 14r) fu destinato alla processione della festa lucchese; “Questo passo in mezo si suona quando uno va alla veglia con chr[i]s[to]” sembra esplicitamente specificarne il compito. Quale poi sia stata la sua concreta collocazione all’intermo dell’evento è difficile da stabilire. Probabilmente non si tratta di un brano elaborato su commissione, bensì uno dei tanti eseguiti durante l’avvenimento, alla bisogna, forse accodandosi ad altri musicisti già organizzati, forse plasmato in maniera più improvvisata; chissà! Certo la sua presenza nel ms lucchese, che almeno in questa sezione rivela una visione molto allargata della sua destinazione d’uso, se non altro sottolinea come la partecipazione agli eventi musicali per la festa del Volto Santo fosse sicuramente democratica e aperta.

66 Giovanni Domenico Mansi, Monsignore, Diario Sacro delle Chiese di Lucca, accomodato all’uso dei tempi presenti ed accresciuto di notizie storiche del nostro paese dall’Ab. Dom. Barsocchino, Lucca, Giusti, 1836, pp. 221; “Quello che suggerì di formare tal corona al santo Simulacro, fu padre Angelo da Verona, il quale dopo avere annunziato al popolo questo suo pensiero, fece apporre nella chiesa stessa una cassa per ricevervi le oblazioni dei fedeli. La pubblica religione però e la devozione dei lucchesi superò l’aspettazione del sacro oratore […]. Ma pure qui non si arrestò il pio entusiasmo e la comune pietà; che le corporazioni religiose delle città tutte quante, e le diverse comunità dello stato vollero prender parte nell’onorare colle loro offerte il comune benefattore”. 67 Roberta Martinelli, ibidem, p. 26. 68 Giovanni Domenico Mansi, ibidem, pp. 221/222; “[…] Per vigore degli statuti della serenissima repubblica, portavasi a questa funzione tutti i maschi della città da’ 14 fino a’ 70 anni, con candela accesa; e terminata la funzione si offerivano queste al Volto Santo […]”. Codice 602

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Anche la specificità del Passo in mezo69 potrebbe avere un suo perché. Già descritto da Thoinot Arbeau70 come una variante alleggerita della Bassa danza71, cioè un mutamento della Pavana72, pur meno compassato, per la sua estetica era comunque appropriato alla parata, quindi conveniente per sottolineare atteggiamenti sontuosi e virtuosi sia nell’azione scenica che nei suoi significati contestuali e simbolici. In fin dei conti, può ritenersi una danza certamente aristocratica, ciò nonostante opportuna per incorniciare le occasioni con leggerezza senza mancare di decoro e solennità. Che anche i porporati non disdegnassero di esibire la loro magnificenza danzando passi di bassa danza ci è giunta notizia: La Pavana era improntata a grande nobiltà e maestà per modo che chiamavano Gran Ballo. […] Narran cronache, che due cardinali danzarono la Pavana al ballo dato a Milano da Luigi XII. Le vesti che portavano allora coloro che la ballavano basterebbero da sole a rivelare il carattere di codesta danza73.

Tutto spinge a pensare che il Passo in mezo poteva essere plasmato ed adatto ad occasioni sobriamente importanti; quindi, perché no, anche a quella della Veglia lucchese. Venendo alla musica, si tratta di un Passo e mezzo moderno, strutturato in tonalità maggiore sulla successione armonica I-IV-I-V-I-IV-I-V-I. La composizione è distribuita su tre esagrammi, tutti nella c. 14r, e si conclude con espliciti simboli significativi dell’epilogo, succeduti dalla didascalia già descritta.

69 Alberto Testa, Dizionario Gremese della danza e del balletto, Roma, Gremese, 1998, voce Passamezzo, p. 365; “(mezzo passo), danza italiana camminata del sec. XVI, in origine accompagnata dal canto, in doppio tempo lento e spesso seguita da un saltarello”. 70 Thoinot Arbeau (pseud. di Jean Tabourot), Orchesographie, ed. anastatica, a cura di François Lesure, Geneve, Minkoff Reprinr, 1972, c. 32v; «Les joueurs d’instruments la sonnent aulcunes fois moins pesamment, & d’une mesure plus legiere, & par ce moyen elle se ressente de la mediocrité d’une basse-dance, & lappellons passe meze». 71 La bassa danza (ovvero danza bassa) era eseguita “passeggiando” ed era priva dei salti invece tipici delle danze alte (saltarelli, canari, etc.). 72 Carmela Lombardi, Danza e buone maniere nella società dell’antico regime, Roma, Editrice Europea, 2000, p. 77-99/83, su www.books.google.it, consultato il 5 febbraio 2017; “Il Passemezzo era una variante veloce della Pavana, in tempo binario, popolare dalla metà del Cinquecento ai primi decenni del Seicento. […] La Pavana era una danza di parata in tempo binario che consisteva nell’eseguire tre passi avanzando (due simples e un double iniziando col piede sinistro) e tre passi indietreggiando (due passi semplici e un doppio indietro iniziando col piede destro). Ma si poteva andare anche sempre avanti […]”. 73 Leopoldo Mastrigli, Le danze storiche del secoli XVI, XVII e XVIII, Roma, G.B. Paravia & C., 1889, pp. 34-43/35, su www.books.google.it, consultato il 29 gennaio 2015.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Passo in mezo, c. 14r.74

Subito dopo il Passo in mezo per la Veglia75, è intavolata una omologa composizione. Essa è ben distinta dalla precedente, specificamente intitolata e formata da due sezioni congiunte. Il suo contenuto (cc. 14v-15v), per certi versi può suggerire l’ipotesi che possa trattarsi della continuazione o di una variazione della precedente; magari scritta in un momento successivo. In effetti, sia l’impianto tonale che l’incipit iniziale sono coerenti. Ma fu davvero così? Può darsi, però sarebbe imprudente difendere una posizione univoca in un senso o nell’altro. Non si sa concretamente come si siano succedute le genesi di tali composizioni. Inoltre, anche l’aspetto tipografico pone degli interrogativi difficilmente superabili. Alla fine delle musiche, quindi anche a metà del secondo rigo di c. 15v, c’è sempre un’appariscente, ricorrente e tipico simbolo di conclusione. Come riscontrabile nel volumetto, se l’autore avesse voluto dilungarsi ulteriormente nella speculazione musicale, probabilmente avrebbe semplicemente continuato a scrivere senza soluzione di continuità, oppure, come spesso accade, avrebbe collegato le parti utilizzando la dicitura seguita. Insomma, cercando di leggere un nesso causale, sembra che la consapevolezza di avere ultimato la composizione (causa) abbia dato luogo al consequenziale 74 Nell’intavolatura originale è indicata la suddivisone ritmica, qui riproposta. 75 C. 14r. Codice 602

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e coerente effetto: rappresentare graficamente un inequivocabile simbolo di fine (fig. 10).

Fig. 10 - Ms 774 Lucca, c. 15r, secondo esagramma76

Del resto, l’ancora successivo brano di cc. 15v-16r (fig. 11), anch’esso un Passo in mezo pure simile ai precedenti, incomincia andando a capo con un nuovo rigo (terzo esagramma) ed è provvisto del suo titolo. Questo brano è arricchito dalla didascalia «Questo Passo in mezo non si può suonare se non si suona in compagnia». Ad ogni modo, per l’approfondimento di questa composizione ho successivamente dedicato un paragrafo distinto77.

Fig. 11 - Ms 774 Lucca, c. 15v, terzo esagramma78

In sostanza, la rappresentazione “tipografica” delle musiche suggerisce che siano state ideate, quindi scritte ed eseguite, in modo indipendente. È interessante constatare che anche in un altro Passo in mezo (c. 25v)79, nonostante la differente tonalità, è rilevabile uno sviluppo del tessuto melodico coerente con i precedenti80. 76 Anonimo, Passo in mezo, dettaglio del secondo esagramma, c. 15r, manoscritto 774 (sec. XVI/ XVII) della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. 77 In calce all’intavolatura è scritto: Questo Passo in mezo non si può suonare se non si suona in compagnia; titolo del paragrafo dedicato: Non è bello se non si suona in compagnia. 78 Anonimo, Passo in mezo, dettaglio del terzo esagramma, c. 15r, manoscritto 774 (sec. XVI/XVII) della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot. 485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. 79 Incompleto; probabilmente il prosieguo del Passo in mezo è andato perso prima della rilegatura dei fascicoletti costituenti il ms 774. 80 Passo in mezo c. 14r; Passo in mezo cc. 14v-15r; Passo in mezo cc. 15v-16r.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Passo in mezo cc. 14r, 14v, 15r, 15v, 16r, 25v, confronto incipit

Ciò dà l’impressione che, nella penna dell’autore, l’idea complessiva di questa danza sia stata, se non ripetuta, sostanzialmente sempre molto simile. Passo in mezo, cc. 14v-15v81

81 Nell’intavolatura originale è indicata la suddivisone ritmica, qui riproposta. Codice 602

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Passo in mezo, c. 25v

Hostaria id est alla campana. Proseguendo, interessantissima è la citazione posta alla fine del Tornando da Bolognia (c. 13r), più precisamente dopo la sua Gagliarda seguente (c. 13v). In calce alla carta è scritto: “Questa gagliarda si fa quando un tocco a dar si va all’hostaria id est alla campana”. Ciò rende espliciti i costumi e le consuetudini musicali di quell’osteria. Infatti sembra evidente che la dicitura, oltre a sancire una corrispondenza biunivoca tra composizione e luogo, sottolinea come l’autore fu un frequentatore di quella locanda dove, evidentemente, la pratica del far musica (quella musica) fu abituale.

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Il ms 774 di Lucca: la Lucca del ms 774

Fig. 12 - ms 774 Lucca, didascalia, c. 13v 82

Ma di questa lucchese hosteria della campana è rimasta traccia? Sì83, ci sono affascinanti documenti (a cui certamente va ad aggiungersi anche il ms 774) che, oltre ad attestarne un indubitabile passato, ci forniscono indicazioni precise in merito alla sua collocazione84. Un’apprezzabile bibliografia la nomina e la descrive come un vivace e singolare luogo, teatro di curiosi avvenimenti: […] Due inglesi […] rispondevano ai nomi di Riccardo Cocchaine e Roberto Giullach ed erano stati arrestati la sera del 20 maggio 1607 mentre si trovavano a cena all’osteria della Campana a Lucca perché accusati di aver assalito e depredato insieme ad altri corsari inglesi e fiamminghi, il 28 dicembre 1606, una nave partita alcuni giorni prima da Livorno […]85 Nel carnevale 1609 venne ripetuto il Gioco del Pallone al Calcio in Piaggia Romana con le stesse condizioni stabilite l’anno precedente, ed un tale Lodovico Moretti milanese fece alcuni suoi trattenimenti nell’hosteria della Campana, che al certo riuscirono graditi essendogli stata il primo febbraio prorogata la licenza per 15 giorni86 .

82 Anonimo, Tornando da Bolognia, Gagliarda, didascalia, c. 13v, manoscritto 774 (secc. XVI/XVII) della Biblioteca Statale di Lucca, su gentile concessione del Ministero dei Beni delle Attività Culturali e del Turismo – Biblioteca Statale di Lucca (prot.485/13.13.25); è esplicitamente vietata l’ulteriore riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo. 83 Lettera protocollo nr. 280 del 3 febbraio 2015, informazioni sull’osteria della campana, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Archivio di Stato di Lucca; inventario […] atto di consegna dell’osteria a Giuseppe Maria Cucchi di Milano (1752, fondo archivistico Pubblici Banditori, nr. 39). 84 Si tratta del luogo che a Lucca oggi è chiamato Corte Campana; presso l’Archivio di Stato di Lucca: (1620, mappa, Segnatura antica: n. 3 Sez. LXXVII, due immagini), [...] riportato in pianta ed in alzata un edificio a tre piani posto tra l’Osteria della Campana, i beni della Matricola, la Strada che va in Piazza e la Strada Mestra, su www.archiviodistatoinlucca.beniculturali.it; 85 Elio Bertini, Le grandi famiglie dei marcanti lucchesi, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1976, pp. 119-130/126. 86 Amalchide Pellegrini (avv.to), socio ordinario della R. Accademia Lucchese, Memorie e documenti per servire alla storia di Lucca, spettacoli lucchesi nei secc. XVII-XVIII, tomo XIV parte I, Lucca, Tipografia Giusti, 1914, p. 30, su www.archive.org, consultato il 31 marzo 2017. Codice 602

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Sul finire dello stesso autunno 1636 dette alcune sue rappresentazioni in Lucca una girovaga compagnia comica, il cui soggiorno, mancando agli atti degli Anziani nel secondo semestre di quell’anno, è soltanto reso noto da una rissa con spargimento di sangue e da un tumulto avvenuti il quindici dicembre. Nella notte susseguente a codesto giorno un tal Tommaso Parisio, servitore di comici, essendosi posto a dormire vestito sopra un banco nell’osteria della Campana dove alloggiavano i suoi padroni, fu destato ad un tratto dal sentirsi dar le mani nelle tasche, ed alzandosi bruscamente rimproverò di quell’atto tali Michelangelo Luporini ed Antonio alias Tognino del Sale i quali per tutta giustificazione se li avventorno addosso et l’offesero con pugni e morsi. Al rumore della colluttazione accorsero Michelangelo, che faceva il Capitano Spagnolo in Comedia, insieme al Flaminio, al Mescolino et al Pantalone della Compagnia, armati di spada o di bastone e cercarono di ricondurre a miglior consiglio i prepotenti […]87.

In breve, proprio in quella esuberante hostaria, forse dal compositore ritenuta tale per antonomasia (ciò spiegherebbe la precisazione id est), la musica era di certo praticata. Così, nell’impasto delle informazioni intorno a questo Tornando da Bolognia, oltre a dipingersi un colorito spaccato di concreta vita lucchese, pare assicurarsi ulteriormente l’origine geografica del codice. Estremamente affascinante, intrigante ed enigmatica è la didascalia “Con le pianelle il Maestro formò la p.nte sonata” scritta in calce alla c. 13r. Di certo non è possibile formulare un’ipotesi capace di darne una spiegazione completamente convincente, anche se, con estrema cautela, qualche orientamento è pensabile: è possibile che in essa possa trovarsi una qualche allusione al prima citato miracolo del Volto Santo e il giullare musicista? Potrebbe essere una descrizione burlesca? Potrebbe riferirsi ad una caratteristica del «Maestro», magari ad una sua bizzarria nell’abbigliamento? Potrebbero le pianelle essere una metafora della grazia ricevuta, del denaro o di altri significati a noi sconosciuti? Potrebbe essere altro? Chissà! Una presunzione di verità non apparirebbe né prudente né risolutiva; tuttavia è importante accendere una luce che possa servire, se non a dare risposte, almeno a suscitare interesse. Ciò che in definitiva emerge dal ms 774 è una pratica musicale che è espressione e sinonimo di una viscerale ed autentica umanità; tra sacro e profano, tra chiese e osterie, l’uomo musicale, forse inconsapevolmente, ha vissuto ed espresso se stesso.

87 Amalchide Pellegrini (avv.to), ibidem, pp. 87/89.

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Tornando da Bolognia, gagliarda seguente, cc. 13r-v 88

88 Nell’intavolatura originale è indicata la suddivisone ritmica, qui riproposta. Codice 602

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Per concludere, vale la pena dire che, pur non trovando convincenti richiami musicali, un titolo affine al Tornando da Bolognia appare in un manoscritto conservato presso la Biblioteca Marciana di Venezia: Vegnando da Bolognia89.

Ăˆ invece molto interessante osservare che la versione lucchese ricalca le composizioni che nel ms 774 sono denominate Fantina (c. 24r, cc. 24r-v):

Altre due intavolature intitolate Romanescha (c. 11r, c. 16v) sono anch’esse rispondenti ai criteri della Fantina:

Ciò suggerisce come la denominazione delle danze del lucchese fosse quantomeno non proprio convenzionale.

89 Vegnando da Bolognia, Biblioteca Marciana di Venezia, ms Balli, inventario 99825, collocazione mss-11699 it. IV 1227, incipit tratto dal Catalogo Servizio Bibliotecario Nazionale, it\iccu\ msm\0112187.

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Non è bello se non si suona in compagnia. Nel sec. XVI la pratica strumentale e quella vocale si influenzarono a vicenda90. Con il progresso tecnico-stilistico di questo periodo nacquero specifici trattati con cui si insegnava l’arte della fioritura e del diminuire. Inizia, per così dire, una codificazione delle tecniche strumentali che attestano la sempre maggiore necessità di saper improvvisare. Le circostanze e le trasformazioni estetico-musicali di fatto imposero che tale capacità fosse sempre più indispensabile per poter svolgere l’attività di musicista. Ciò avveniva in modo particolare proprio quando si suonavano le danze – che dovevano e potevano essere più o meno durevoli – in cui era indispensabile assecondare le contingenze e le volontà dei danzatori. Solo l’abilità e la competenza nella pratica dell’improvvisazione permetteva di risolvere facilmente tali esigenze. Non di rado coloro che dirigevano le danze aggiungevano altre strofe alle composizioni quando si accorgevano che i danzatori non erano ancora disposti ad interrompere il divertimento, così che l’improvvisazione diventò una componente essenziale delle musiche per danza: pur rimanendo uguali a se stesse nella sostanza, le melodie si trasformano, mutano volto e obbediscono a esigenze diverse da quelle per le quali erano state concepite91.

Venendo al Passo in mezo della c. 16r 92, in coda alla musica è apposta la citazione “Questo passo in mezo non si può suonare se non si suona in compagnia” e queste parole risuonano, appunto, come un inno all’arte dell’improvvisazione. Passo in mezo, cc. 15v-16r 93

90 Bernard D. Sherman, Una logica emozionale: Andrew Lawrence-King, la musica strumentale del Rinascimento e l’improvvisazione, in Interviste sulla musica antica, dal canto gregoriano a Monteverdi, Torino, E.D.T., 2002; pp. 189-205/196; “Gli strumenti perfetti influenzarono anche gli stili vocali del sedicesimo secolo. Lo stile della frottola in quattro parti, così come si ritrova nelle prime pubblicazioni dell’editore Petrucci, derivò dall’improvvisazione liutistica su quella che era essenzialmente una polifonia a due voci. Tali frottole venivano successivamente riarrangiate per liuto, portando a loro volta lo stile vocale agli strumenti perfetti”. 91 Marco Renoldi, Bourrée, Gavotta, Minuetto, danza e musica strumentale: una simbiosi vitale, in Orfeo, II/ 23, febbraio 1998, pp. 41-43/41. 92 Nel ms 774 il Passo in mezo (c. 16r) è intavolato per liuto solo. 93 Nell’intavolatura originale è indicata la suddivisone ritmica, qui riproposta. Codice 602

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Sarebbe bello avere certezze sulle concrete modalità esecutive e sui contesti legati a questo brano; ciò nonostante sono immaginabili tre ipotesi: a) potrebbe essere un allungamento del passo in mezo destinato alla Veglia con Christo; b) potrebbe essere semplicemente una tra le tante danze fruite in chissà quali occasioni, probabilmente anche in quell’hostaria alla Campana; c) potrebbero coesistere entrambe le possibilità. Ma al di là delle suggestioni, è giusto attenersi solo a ciò che il documento ci restituisce, cioè al fatto che questo passo in mezo fu pensato e scritto per essere suonato insieme ad altri strumenti, o quantomeno così ritenuto gradevole. Di conseguenza l’intavolatura deve sì intendersi come una composizione definita nella sua forma, ma di essa deve essere soprattutto chiara la funzione di canovaccio, cioè di linea guida su cui poggiare la variazione estemporanea; a maggior ragione di fronte ad una indicazione che esige un’esecuzione in ensemble. Applicando un criterio estensivo, questa idea estetica è da supporsi valida anche per gli altri contenuti del ms 774? Il codice è disseminato di composizioni in forma di canovaccio, talvolta oltremodo brevi, la cui ovvia ripetizione può avere senso solo con una produzione musicale d’insieme e/o comunque basata sulla pratica dell’improvvisazione. 162


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Le tre intavolature che seguono hanno lo scopo di esemplificare alcune musiche che, per la loro brevità, sottintendono la particolare predisposizione alla variazione estemporanea: Bergamastro (c. 25r), Canario (c. 31v), Canario Spagnuolo (c. 31v). Bergamastro (c. 25r)

Canario (c. 31v)

Canario Spagnuolo (c. 31v)

Superando questa riflessione, che tutto sommato ribadisce una ben conosciuta modalità esecutiva dell’epoca, ciò che più deve essere considerato è il significato pragmatico di quelle parole. La didascalia, seppure in quella occasione scritta con spontanea semplicità e certamente senza troppe riflessioni, oggi ci riconsegna un senso che palesa una forma mentis. In quel qui ed ora, oltre ad illustrare una comune prassi esecutiva, viene raccontato un atteggiamento intellettuale, artistico e sociale del musicista e del mondo in cui quest’arte veniva praticata. In tutto ciò, cioè in una condizione di concomitante produzione e consumo, di libera proposizione e godimento del comportamento musicale (se vogliamo, per certi versi dettato da pulsioni primitive, sanguigne, materiali, Codice 602

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ma per questo parte della contemporaneità), traspare una funzione della musica decisamente affine a quella di oggi, in cui l’espressione artistica è parte integrante di angoli di una quotidianità spesso ludici, pratici, di sicuro non troppo aulici, ma comunque specchio di un’epoca. La lente indagante non sembra svelare l’immagine di una gestualità musicale particolarmente irrigidita dall’etichetta, rifinita e ricca di orpelli sia nella produzione che nella fruizione. Quello che emerge è invece fortemente marcato da una naturale normalizzazione dell’uso della musica come oggetto e linguaggio di tutti e per tutti; insomma capace di essere usata ed adattata alle necessità più varie; tuttavia senza essere priva dei suoi significati simbolici consolidati e trascinati da e nell’evoluzione culturale. Nella nostra epoca abbiamo categorizzato molto, e un atteggiamento socio-intellettuale, tutto sommato, così spregiudicato, spensierato ed istintivo lo riserviamo alla cosiddetta musica leggera; ma a quei tempi la leggerezza della musica era quella ed è vero che, rimuovendo il pregiudizio che spesso copre di polvere questo repertorio in realtà fresco e vigoroso, la sua vicinanza con la nostra attuale sensibilità è innegabile. Senza dubbio tutto è avvenuto in uno o più luoghi, ma il “luogo” per eccellenza fu la musica stessa. L’Intavolatura di leuto da sonare e cantare lo ritrae e ce lo consegna con i suoi colori e nei suoi spazi in cui era lecito non curarsi troppo delle ingombranti formalità; del bon ton diremmo ora. Ciò che serviva era liberare il “bello” del “suonare in compagnia” per vivere il contesto. Mi si conceda la rituale ripetizione di un mio ricorrente pensiero: tutto è sempre molto meno antico di quanto possa apparire.

Una breve conclusione Sottolineando la fiducia nei testi che, seppure privi di spiegazioni dettagliate, attribuivano al manoscritto 774 una paternità lucchese, l’intento di questo lavoro è stato quello di cercare altri elementi oggettivi che potessero ulteriormente avvalorare tale tesi. Per onestà intellettuale è giusto dire che, senza dubbio, le informazioni didascaliche maggiormente approfondite ed esaminate in questo studio sono appartenenti solo ad una porzione del volumetto (cc. 8-25). L’intero codice, come già detto, è composto da più fascicoletti, plausibilmente non ad opera di un’unica mano e scritti in un periodo che potrebbe estendersi fino alla prima decade del 1600. La rilegatura in un unico tomo è il frutto di un susseguente intervento. In ogni caso, poggiandomi su quelle che in giurisprudenza sono definite fonti di prova, e che in un costruttivo ed auspicabile dibattimento (in questo caso storico-musicologico) si trasformano in prove, la mia convinzione, almeno per quanto concerne la porzione indagata (anche se in realtà vale per tutto il lucchese), è che l’Intavolatura 164


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di leuto da sonare e cantare, sempre più a ragion veduta, sia stata generata dall’estro artistico di una persona anagraficamente anonima, ma di cui sono ben riconoscibili la cultura e l’appartenenza alla città di Lucca e al suo «popul luccese»94. Di sicuro aver avuto un riferimento identificativo dell’autore avrebbe permesso di estendere maggiormente la rivisitazione del passato intrufolandosi nella vita del personaggio; diversamente, qui il soggetto è il contesto sociale che ha generato gli ingredienti e l’impasto adatto a dare vita all’opera. Tutto sommato, proprio l’osservazione da un punto di vista più panoramico e complessivo, anche se poco individualista, ci permette di scorgere ciò che Edward Burnett Tylor definì sopravvivenze culturali95. In questo modo, l’humus intellettuale, artistico ed umano si distilla nell’accezione di cultura e civiltà che, […] intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società96 .�

Ad essa è possibile riconsegnare la responsabilità della creazione, della narrazione e dell’evoluzione della storia in cui l’arte diviene il ritratto della realtà di un’epoca e l’orma per quelle successive.

94 Cit. Tavola delle suonate del leuto, c. 26r; “Su’ Su’ Popul Luccese”. 95 Ugo Fabietti, ibidem, pp. 13-17. “Quando con il tempo si è venuto a creare un cambiamento generale nelle condizioni di vita di un popolo, è comunque facile trovare molte cose che chiaramente non hanno più la loro origine nel nuovo stato di cose, ma che si sono semplicemente mantenute all’interno di esso. In forza di queste sopravvivenze è possibile sostenere che quella cultura all’interno della quale esse possono essere osservate deve essere derivata da uno stato culturale precedente in cui va rintracciato l’autentico luogo e l’autentico significato di queste cose; di conseguenza questa serie di fatti deve essere considerata come una vera e propria miniera per l’indagine storica. [Edward Burnett Tylor]”. 96 E.B. Tylor, La cultura primitiva, 1871, in Ugo Fabietti, Storia dell’antropologia, Bologna, Zanichelli, 2013, pp. 13-20/14. Codice 602

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finito di stampare nell’ottobre 2017 per conto di s i l l a b e



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