L'Espresso 34

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L'ITALIA A 6 EURO

In nero o con contratti capestro. Finte partite Iva. Giovani e cinquantenni. Stagionali, autisti, vigilanti, ausiliari, stagisti.

Mentre la politica rinvia la decisione sul salario minimo, c’è un Paese sempre più numeroso che lavora ma resta povero

numero 34 - anno 69 27 agosto 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art. comma 1DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaS pagna € 5,50Lussemburgo € 5,60C.T. Sfr. 6,80Svizzera Sfr. 7,00Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70 SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA 4 euro
ARCHIVIO MARIO SCHIFANO

La copertina di questo numero de L’Espresso è dedicata a chi vive di lavoro povero. Con cinque-sei euro all’ora non si può campare una famiglia, non si ha una vita dignitosa e si può tirare avanti solo facendo enormi sacrifici. Il lavoro povero è una delle piaghe del nostro tempo. Il lavoro agile, lo smart working, ha invece rivoluzionato il nostro tempo e la nostra vita. Sempre più aziende, soprattutto nel periodo del Covid, hanno cominciato a tenere a casa i loro dipendenti, facendoli lavorare da remoto, credendo di coniugare felicità e produttività. È chiaro che un certo tipo di lavoro funziona solo per alcune professioni: per

Contrordine Lo smart working si fa in ufficio

esempio, un programmatore, un giornalista, chi disbriga pratiche burocratiche, un professionista. Impossibile fare smart working per un carpentiere, un muratore o, peggio ancora, un raccoglitore di pomodori. Insomma le categorie che in qualche modo si potevano già considerare privilegiate hanno potuto usufruire di un privilegio ulteriore, quello dello smart working che consentiva di lavorare da casa, risparmiare sui pasti, sui costi dei trasporti, potersi assentare brevemente dal lavoro con più facilità, ma anche lavorare meglio e produrre di più. O almeno all’inizio sembrava così. Come prova dei benefici del lavoro da remoto era citato spesso uno studio di Nicholas Bloom, professore di economia a Stanford. Dalle sue ricerche, che analizzavano un migliaio di lavoratori di un’agenzia di viaggi cinese, veniva fuori che i dipendenti in remoto erano il 13% più efficienti dei loro colleghi in ufficio.

Dopo l’entusiasmo iniziale, molte aziende cambiano idea. Vedersi di persona resta fondamentale

I collegamenti via Zoom, Microsoft Teams o Google Meet, alcune delle principali piattaforme per le riunioni via Internet, hanno spopolato per almeno tre anni spinti da opinioni favorevoli, studi, commenti. In sostanza il «tutti a casa» per lavorare sembrava il sol dell’avvenire della produttività e del benessere. Però, era sfuggito un piccolo avvertimento lanciato proprio dal professor Bloom. La produttività aumentava a due condizioni: che il lavoro da casa fosse volontario e che alla fine della settimana ci si ritrovasse comunque in ufficio a discutere di nuovi progetti attorno a un vero tavolo, non in una conferenza su Zoom.

Ora siamo arrivati alla resa dei conti perché si sta registrando una migrazione inversa, ossia le aziende di Wall Street, che sono state le capofila dello smart working, stanno riconvocando i lavoratori in ufficio. La stessa cosa stanno facendo i colossi della tecnologia come Apple, Google e Meta, ma il fatto più curioso è che ha ordinato dietrofront ai suoi dipendenti anche Zoom. L’azienda simbolo dello smart working, che fornisce servizi di videotelefonia e chat online sta chiedendo di tornare a lavorare parzialmente in presenza. Zoom vuole che tutti i dipendenti che si trovano entro 50 miglia (80 chilometri) da un ufficio dell’azienda si rechino in sede almeno due giorni alla settimana. E pensare che nel gennaio 2022, solo il 2% lavorava in sede. Nuove ricerche stanno dimostrando che gli uffici, pur con tutti i loro difetti, rimangono essenziali. Alla fine l’idea libertaria dell’abbattimento delle sedi fisiche, sostenuta durante la pandemia da una serie di studi e ricerche, sembra ridursi a poco più di un’utopia.

Per molti lavoratori, quindi, il futuro sarà ibrido, con una settimana lavorativa divisa tra casa e ufficio, perché una migliore produttività va in questa direzione. E uno dei problemi italiani è proprio quello della produttività.

Ci sarà pane per i denti del sindacato.

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EDITORIALE

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Sebastiano Messina GUIDO CROSETTO

Ai nostalgici e ai compagni di partito che non gli hanno perdonato la decisione di mettere sotto inchiesta un generale della Folgore, l’unico dei triumviri fondatori di Fratelli d’Italia a non essere cresciuto alla scuola politica del Msi ha dato una lezione memorabile, definendo «drammatico» che «chi si definisce “di destra” e si riempie la bocca dei concetti di patria, onore, tradizione e orgoglio nazionale, dimostri di non conoscere cosa vuol dire avere senso dello Stato».

ANNA FOGLIETTA

Che Roma sia ancora lontana dall’uscita dal degrado in cui l’ha lasciata la gestione Raggi, l’avevano già detto in tanti. Ma l’attrice romana ha postato su Twitter due video di pochi secondi, girati da lei, mettendo a confronto le curatissime aiuole di una strada di Città del Messico e un’area degradata del Parco della Resistenza. «Da oggi segnalerò tutto ciò che non va», ha promesso. Uno schiaffo per il sindaco Gualtieri, che non l’ha presa bene (però ha fatto subito ripulire quell’area).

GIANNI ALEMANNO

«Non voglio fare la destra della destra», dice l’ex sindaco di Roma, ex ministro di Berlusconi, ex leader della gioventù missina ed ex genero di Pino Rauti. E invece è proprio quello che sta facendo, radunando nostalgici, filorussi e no-vax sotto la bandiera sovranista del “Forum dell’indipendenza italiana” con un progetto chiaro per le Europee: pescare nell’area della destra delusa da Giorgia Meloni. Dunque occhio a Gianni Alemanno, che è diventato una spina nel fianco della premier.

Una lezione alla destra dal ministro della Difesa e le dichiarazioni surreali del ministro-cognato

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA

Dopo il celebre spot del 2019 in cui prometteva l’eliminazione delle accise sulla benzina, Giorgia Meloni aveva spiegato la sua retromarcia sostenendo che del taglio beneficerebbero «anche i ricchi». Il ministro-cognato l’ha superata, arrivando ad affermare che il calo del carburante «favorisce chi fa più benzina, che di solito sono quelli che hanno le macchine più potenti». Surreale conclusione neopopulista: per non far risparmiare i ricchi, è giusto che i poveri paghino cara la super.

CARLO III D’INGHILTERRA

Non è mai troppo presto per diventare re (Luigi XIV aveva 15 anni quando fu incoronato ed Elisabetta II ne aveva 25) ma c’è un’età in cui è troppo tardi, se uno vuole portare qualcosa di nuovo nella più antica forma di Stato: la monarchia. Se n’è reso contoha rivelato il Sunday Times - anche il settantaquattrenne Carlo III, che pure aveva promesso di voler rendere «un servizio per tutta la vita». E ora medita di abdicare prima che William (41 anni) superi la soglia dei 50 anni.

THAKSIN SHINAWATRA

Dopo 15 anni di esilio dorato a Dubai l’ex poliziotto, ex re delle telecomunicazioni ed ex primo ministro della Thailandia è tornato a Bangkok, dove è stato subito arrestato. Ma non sconterà la condanna a otto anni per abuso di potere, perché il re Maha Vajiralongkorn lo grazierà in cambio dell’appoggio del suo partito a un governo benedetto dai militari. Aveva promesso l’esatto contrario: la prima volta aveva beffato i suoi avversari, stavolta i suoi elettori. Ottenendo ciò che voleva.

Foto: Agf (5), Lapresse
CHI SALE E CHI SCENDE
27 agosto 2023 5
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Il 25 agosto, a Cortina si è tenuto un flashmob per la salvaguardia del Lariceto che andrebbe distrutto con la costruzione della pista da bob per i 25° Giochi olimpici invernali, a Milano e Cortina, nel 2026. L’opera ha un costo stimato di 124 milioni di euro ed è solo la punta dall’iceberg della contestazione alle Olimpiadi invernali. Il precedente flashmob del 20 luglio, invece, unito dalla frase «non nel mio nome», mi ha ricordato i sit-in della campagna «apriamo i porti» nel 2018 davanti all’ambasciata italiana a Bruxelles, contro le politiche migratorie del governo Conte-Salvini.

Chi pensa ai Giochi mentre la casa sta già bruciando

È interessante ragionare sulla scelta dello slogan e sul concetto di «nome» che ritroviamo spesso nelle azioni collettive di protesta. In entrambe i casi, e sono casi diversi, il «nome» equivale al consenso. Lo slogan «non nel mio nome» denuncia infatti una stortura nella cittadinanza, nel senso di processo partecipativo; è la denuncia di una firma falsificata. «Adesso è troppo tardi per lamentarsi, le decisioni sono già state prese», sentiamo dire. Ma c’era una sedia per i comitati cittadini durante i processi decisionali? Come mai queste analisi costi-benefici avvengono sempre a porte chiuse? E come mai gli studi e i sopralluoghi paralleli raccontano sempre un'altra storia? Le azioni di protesta come i flashmob contro le Olimpiadi invernali vengono spesso inquadrati come «nimby», «not in my backyard», ovvero «non nel mio giardino». L’acronimo viene usato per

denigrare i movimenti e accusarli di voler semplicemente fare a scaricabarile su altri territori: «Fatelo, ma non qui, altrove». Tuttavia non è quasi mai il caso e credo sia più onesto, intellettualmente, definirli come movimenti e realtà che lottano contro opere inutili e/o dannose, contro progetti insostenibili o comunque non prioritari, ovunque essi siano.

Abbiamo bisogno di politiche di adattamento e di mitigazione dei cambiamenti climatici e di infrastrutture ad hoc, ma questo i governi lo sanno bene. Invece che «nimby», credo sia più giusto nominare questi movimenti «nimce» ovvero «not in my collapsing era», «non nella mia epoca al collasso». Stiamo assistendo alla radicale destabilizzazione della vita sulla Terra. Stiamo facendo esperienza di massicce perdite di raccolti, incendi apocalittici, fiumi che esondano ed inondazioni epiche. Ci aspettano centinaia di milioni di rifugiati dalle regioni rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente, mentre facciamo finta di non sapere che il Mediterraneo è una di queste. Alcune proiezioni prevedono 1.2 miliardi di rifugiati climatici entro il 2050. Ad oggi, i cambiamenti climatici sono già la principale causa di migrazione al mondo, nonostante il termine rifugiato climatico non esista nella Convenzione sui rifugiati. Dal 2008, oltre 318 milioni di persone sono state sfollate a causa di disastri climatici, vale a dire l’equivalente di una persona ogni secondo o dell’intera popolazione australiana ogni anno. Sapevamo dell’apartheid climatica, ma forse credevamo di stare dall’altra parte.

L’Italia deve dichiarare lo stato di emergenza climatica e deve agire di conseguenza. A livello pratico significa saper definire cosa è prioritario per la sopravvivenza della nostra specie. Riprendendo la metafora di Thunberg, chi starebbe sul divano a guardare i giochi olimpici mentre la propria casa va a fuoco?

RESISTENTI
La mobilitazione contro le Olimpiadi invernali è un forte richiamo alle urgenze ambientali
Diletta Bellotti
27 agosto 2023 7
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M’HACKERA,
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Le recenti esternazioni di un ormai noto generale hanno sollevato in me un dubbio di non poco conto: sarò abbastanza italiano? Credo che sia giusto porsi questa domanda (parlo anche dei gentili lettori) perché ormai sembra che non basti neppure la cittadinanza per essere considerato italiano.

Partiamo dai tratti somatici, visto che di quelli si è parlato. Ho capelli scuri (pochi ormai), occhi marroni e una carnagione mediterranea. Ma, mi chiedo, non sarò troppo scuro e mediterraneo? Una volta a Washington a una pompa di benzina un tizio si avvicina e mi chiede: «Are you from Tunisia?».

Nato a Cremona ma con occhi scuri

Eh sì, perché quando sono un po’ abbronzato più che un antico romano sembro cartaginese. E quando, per l’Fmi, visitavo la Turchia cittadini turchi mi fermavano per chiedermi informazioni. Imbarazzante che i miei tratti somatici possano essere simili a quelli di Paesi dichiaratamente islamici! Certo, sono nato e cresciuto a Cremona, ma basta questo per essere considerato italiano? I miei genitori erano italiani e ho il passaporto italiano, ma abbiamo già visto che serve ben altro per essere considerato italiano. E poi, se guardiamo alla storia di Cremona… Quando il tedesco Barbarossa nel 1158 scese nella Pianura padana i miei antenati cremonesi si unirono allo straniero per assediare il comune di Milano. Non un grande esempio di italianità!

A questo punto però mi devo porre un’altra domanda. Quale è l’essenza dell’italianità? La dobbiamo cercare nelle nostre virtù

Secondo il noto generale non basta la cittadinanza. Ma la nostra identità nazionale è fatta di cultura

militari? In quella linea storica che ci unisce a Giulio Cesare, come scritto di recente? Il nostro inno nazionale parte da lì: «Dov’è la vittoria, le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò». Sarà pure significativo se il nostro inno nazionale parla di vittorie militari e di morte per la Patria, quando invece altri Paesi parlano di libertà (Stati Uniti), della lotta alla tirannia (Francia) e del sovrano come simbolo nazionale (Regno Unito). Però in campo militare abbiamo avuto, diciamo, alti e bassi. Non si estrapolino le mie parole fuori dal contesto! Le nostre forze armate sono un fondamentale valore e mi dissocio da chi cita il ripudio della guerra nella nostra Costituzione per sostenere che dovremmo difenderci mettendo dei fiori nei nostri cannoni. Però, che l’essenza dell’italianità sia il nostro valore militare mi sembra esagerato. Anche perché dopo Giulio Cesare, almeno a partire dalla crisi del terzo secolo, l’esercito romano fu sempre più dominato da soldati, generali e imperatori che provenivano dai Balcani (e salto a piedi pari imperatori di pelle scura come Settimio Severo o Filippo l’Arabo) e poi da condottieri barbari o quasi (vedi Stilicone). E dopo che Alarico rispose agli ambasciatori romani, che sostenevano che il popolo romano sarebbe uscito dalla città a difenderla, che «l’erba folta è più facile da tagliare rispetto all’erba rada», quel popolo evitò lo scontro e la città eterna subì il sacco del 410. E non mi soffermo a citare disastri militari più recenti. Insomma, non ci fu solo l’eroismo di Cefalonia…

No, l’italianità va semmai cercata nel nostro genio artistico, Dante, Petrarca, Michelangelo, Caravaggio e poi Verdi, Mascagni, Puccini e i nostri architetti che tutto il mondo ci invidia; nei nostri scienziati che nei secoli hanno contribuito allo sviluppo dell’umanità e nella creatività dei nostri imprenditori. Insomma, nella nostra cultura che si è sviluppata nei secoli e che poco ha a che fare coi nostri tratti somatici.

PANE AL PANE
Sono italiano?
27 agosto 2023 9

Fra i recenti fenomeni più popolari sui social è da segnalare una categoria che nessuno avrebbe mai sospettato si sarebbe potuta occupare di video, di montaggi e di esposizione mediatica: sono le nonne che cucinano e che condividono la preparazione di piatti della loro tradizione, dalla pasta fatta in casa ai sughi, fino alle torte. Mostrano quelle ricette che per una vita hanno nutrito solo i loro famigliari e che, nell’immaginario comune, resistono a ogni tipo di moda e di tendenza: il piatto della nonna è infatti immortale, indimenticabile, consolatorio. Finalmente quel palcoscenico sul quale si sono esibi-

Felicità è preparare tagliatelle fresche E postare sui social

te per una vita, ovvero la cucina domestica, diventa un luogo più ampio, di riconoscimento e di lusinghe.

Per questo alcune critiche che giungono a chi le aiuta a postare, come i nipoti, non sembrano affatto minare la loro gioia, quasi come fosse una seconda giovinezza, un modo per riscattarsi da anni di fatiche attraverso il consenso e l’affetto dei follower.

Fra loro c’è Nonna Natalina, 87 anni, star di TikTok grazie a suo nipote Luca, che un giorno, un po’ per gioco e molto per amore, ha postato sul social la nonna alle prese con le tagliatelle, ottenendo un risultato incredibile: sette milioni di visualizzazioni. E con i ravioli oltre cinquantamila. Per Nonna Natalina non sono video per sconosciuti, ma per «nipoti virtuali».

Nata a Caprese Michelangelo, in provincia di Arezzo, il 23 dicembre 1935, ha abitato in montagna, aiutava a pascolare le pe-

Nonna Natalina è diventata star di TikTok con i video delle sue ricette.

core, ha sofferto con la sua famiglia la povertà e i lutti causati dalla Seconda guerra mondiale.

«La nostra famiglia era composta da dodici persone, in casa avevamo solo quattro letti e noi fratelli dormivamo anche in quattro sullo stesso materasso e ci riscaldavamo con le mucche, grazie alla loro presenza nelle stanze. Nel 1958 mi sono sposata con Silvano e siamo andati a vivere a Santa Croce di Sansepolcro, in una piccola abitazione con il nostro unico figlio. Ho fatto di tutto nella vita: dalle pulizie in diverse case alla sarta. Sono rimasta vedova ventitré anni fa, mi sono operata tre volte alla schiena, ma la mia più grande passione, ovvero i viaggi, mi ha tenuto compagnia, così come cucinare. Da quando sono diventata Nonna Natalina un po’ di cose sono cambiate, tutti mi salutano, anche chi non conosco, e questa cosa mi fa molto piacere. Sono davvero contenta di essere amata».

E chi non lo vorrebbe?

A Nonna Natalina piace sentirsi la nonna di tutti, anche rilasciare interviste perché è felice che la sua storia diventi una testimonianza. Le nonne non devono essere dimenticate, perché sono la memoria storica ed emotiva del nostro Paese.

«Mi infastidiscono le critiche a mio nipote per il fatto che pubblichi i miei post, perché ognuno di noi è libero di fare ciò che vuole. Io faccio conoscere la nostra terra, i nostri piatti e le nostre tradizioni. Chi critica la felicità altrui è solo invidioso. Può sempre smettere di guardarmi… Alle nuove generazioni voglio dire di tramandare la cucina tradizionale, fatta di piatti semplici e poveri, ma molto buoni; anche se sperimenteranno cose raffinate, devono conoscere da dove arrivano i sapori. Ora il sogno più grande che vorrei realizzare è fare il giro del mondo, un sogno che forse non si potrà realizzare, ma non è detto! Non è mai troppo tardi per sognare: lasciateci essere felici a qualsiasi età».

A ogni età è bello sentirsi ammirati
27 agosto 2023 11 BELLE STORIE

Il mare che si affanna ad allontanare i rifiuti, un’onda inutile dopo l’altra, ispira la stessa compassione degli esseri viventi.

12 27 agosto 2023
L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI

Facendo ognuno la propria piccola parte siamo riusciti a eguagliare l’emiro: creare un’isola artificiale.

Anton Petrus / Getty Images

I bambini in riva ascoltano il mare dentro le lattine vuote.

- Razza di pervertito, perché hai un tonno tra le cosce?

- Mi sto provando la febbre.

Rosemary Calvert / Getty Images
È impossibile svuotare il mare con un cucchiaino. Ma è possibile riempirlo di cucchiaini.
Pochi lo sanno ma i delfini imbottiti di poliestere dei negozi di giocattoli non li hanno prodotti, li hanno pescati.
Mlanden Antonov / Getty Images

La pigrizia ti sembra un difetto innocuo, finché non ti fai una camminata sulla spiaggia.

- Bisogna rispettare la natura in ogni sua manifestazione.

- Allora perché hai lasciato cadere quella cartaccia?

- Rispetto la gravità.

Agung Parameswara/Getty Images

Non siamo inquinatori egoisti ma bigiottieri generosi: regaliamo collane e bracciali alle tartarughe marine.

J Shepherd / Getty Images
I sacchetti di plastica nella corrente ricordano le meduse; i tappi sulla battigia, le valve delle conchiglie; le suole, gli ossi di seppia: è evidente che siamo tutti figli della stessa tragedia.

- Infilare un ciccone dentro la sabbia è una violenza.

- Certo che lei potrebbe coprirsi di più.

Testi di Enrico dal Buono

Dice molto sull’universo il fatto che la bellezza sia così effimera e la bruttezza così duratura.
Oliviero Toscani

Giovani stagionali sfruttati, cinquantenni impiegati con ingaggi pirata, false partite Iva. È il vasto mondo del lavoro povero

I contraccolpi della crisi cinese arrivano a noi. Oggi le instabilità di quel capitalismo di Stato turbano la nostra economia

I DIALOGHI DE L’ESPRESSO

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Il segretario di Forza Italia ora è costretto a esistere. Come capo del partito, antagonista di Salvini, alleato riottoso di Meloni

PRIMA
Lavora e taci: l’esercito dei senza diritti Simone Alliva e Chiara Sgreccia 26 Contratti al ribasso, Far West degli ausiliari Maurizio Di Fazio 30 Tirocinio infinito. Il girone dei dannati con la paghetta Massimiliano Carrà ed Edoardo Prallini 34
Il ruggito del Tajani Susanna Turco 38 I misteri nascosti dietro a un cognome Marco Ulpio Traiano 43 Quanto piace al governo lo statalismo Sergio Rizzo 44 Una scandalosa tassa sulla tassa 46 Export di armi. Tutto il potere a Palazzo Chigi Carlo Tecce 50 Quei dubbi americani sull’Ucraina Sabato Angieri 54 Guerra alla Nato, l’ostaggio georgiano Pietro Guastamacchia 56 Così salviamo il grano di Kiev colloquio con Pierre Vauthier di Eugenio Occorsio 62 Valico Italia, le vie di transito dei migranti Bianca Senatore 64 Milizie “nere” al confine Usa Antonello Savoca e Davide Rinaldi 66 Meno contanti, meno rapine Massimiliano Salvo 68 Alzheimer, l’assistenza è solo per pochi Roberta Grima 70 Quando il segreto fa rima con libertà. E trasparenza Massimiliano Atelli 71
PAGINA
POLITICA
Le parole delle hit sono nate al volante colloquio con Giulio Rapetti Mogol di Antonia Matarrese 72 ECONOMIA La farfalla impazzita nei cieli dei Dragone Gigi Riva 76 26
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L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi

numero 34 - anno 69 - 27 agosto 2023

Felicità è cucinare tagliatelle e postare sui social la loro preparazione.

Il sangue di cileni e migranti, i film-evento, i nomi illustri: la Mostra del cinema di Venezia va sul sicuro. Ma la sfida è attrarre i giovani

Un gran pasticcio di Giorgia Meloni la tassa alle banche colloquio con Giovanni Maria Flick di Eugenio Occorsio 80 Il digitale è materia per giovani donne Gianfranco Ferroni 83 Prezzi alti e autonomia, l’auto elettrica va piano Tommaso Carboni 84 Giungla aeroporti: come farsi valere contro i disservizi Giampiero Moncada 88 Frolla Microbiscottificio. Quando la solidarietà passa dalla pasticceria Maurizio Di Fazio 90 Peronospora e clima. La stagione da incubo dei vigneti italiani Antonia Matarrese 91 Ricerca e futuro. La sfida Musk-Zuck che può convenirci Francesco Fimmanò 92 Così si costruisce un portafogli sicuro. E soprattutto green Federico Morgantini 95 CULTURA Vampiri in laguna Fabio Ferzetti 96 Il piacere di essere diversi Roberto Barzanti 102 In principio fu la meraviglia Matteo Nucci 106 Dissing, l’ultimo sudoku Ivo Stefano Germano 108
Francesca Barra racconta la storia di Nonna Natalina, diventata star di TikTok con i video delle sue ricette. A ogni età è bello sentirsi ammirati In copertina: illustrazione di Ivan Canu CONTRORDINE: LO SMART WORKING SI FA IN UFFICIO Alessandro Mauro Rossi 3 Opinioni CHI SALE E CHI SCENDE SebastianoMessina 5 RESISTENTI DilettaBellotti 7 PANE AL PANE CarloCottarelli 9 BELLE STORIE FrancescaBarra 11 CARTA & PENNA GoffredoBettini 37 FACCIAMO ECO GiuseppeDeMarzo 49 BANCOMAT AlbertoBruschini 61 BENGALA RayBanhoff 122 Rubriche IO C’ERO - OlivieroToscani 12 LIBRI - SabinaMinardi 105 MUSICA - GinoCastaldo 111 TEATRO - FrancescaDeSanctis 112 ARTE - NicolasBallario 113 TELEVISIONE - BeatriceDondi 114 CINEMA - FabioFerzetti 115 MOTORI - GianfrancoFerroni 116 ANIMALI - ViolaCarignani 117 CUCINA - AndreaGrignaffini 118 VINO - LucaGardini 119 POSTA - StefaniaRossini 120 72
con Mogol 96
Dialogo
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PRIMA PAGINA L’ITALIA A SEI EURO

IN

Manifestazione nazionale, il 24 giugno 2023, contro il governo Meloni

26 27 agosto 2023
PIAZZA

LAVORA E TACI L’ESERCITO DEI SENZA DIRITTI

Giovani stagionali sfruttati, cinquantenni con poche alternative se non gli ingaggi pirata, dipendenti camuffati da partite Iva. Non meno di tre milioni di occupati che fanno statistica. Ma molti altri sono fantasmi

Valeria, diciassette anni, studentessa brillante del liceo ci porta dentro la sua estate che racconta di un Paese che non dà un posto nel mondo del lavoro perché quel posto non c’è. O, se c’è, è mal pagato. «Lavoro in uno stabilimento balneare: 30 euro per 4 ore al giorno, senza day off, da giugno a settembre». Sono 7,5 euro l’ora, in nero, anche se tutti i documenti per l’assunzione sarebbero pronti e la visita medica già fatta. «Il proprietario aspetta che arrivino i controlli per regolarizzarci. Finché nessuno lo scopre si va avanti così». Assieme a lei, altre due amiche servono colazioni e gelati alle stesse condizioni. Pochi metri più avanti, sempre lungo la Riviera che costeggia il Monte Conero, nelle Marche, Luca lavora come bagnino “di terra”: «Se faccio i conti viene fuori che guadagno meno di tre euro l’ora: arrivo alle 7.30 stacco verso le 20. Per mille euro al mese monitoro la sicurezza dell’area e dei bagnanti, accompagno i turisti agli ombrelloni che ogni mattina apro e la sera chiudo. Ho un contratto regolare ma le ore lavorate sono molte di più rispetto a quelle previste».

Non è il solo. Francesco, Marco, Andrea hanno appena iniziato a lavorare come camerieri in un ristorante sulla spiaggia lungo la costa tra Lazio e Campania. «Per giugno e settembre abbiamo un contratto a chiamata, per luglio e agosto quello a termine, la paga oraria è di 6 euro l’ora per 4 ore al giorno. Quelle in più ci vengono pagate fuori busta», racconta Andrea che ha appena compiuto vent’anni. Studia all’università, abita con i genitori, vuole approfittare di parte delle vacanze per mettere qualche soldo in tasca e magari per pagarsi lo svago nelle settimane che restano, per questo non denuncia. A differenza di Sara, trentenne a cui è stato proposto di lavorare come cameriera in una pasticceria di Cerenova, sul litorale romano, per circa 200 ore al mese con uno stipendio di mille euro. «Questo è sfruttamento: quasi 5 euro l’ora. Senza alcun genere di pausa. Anche andare al bagno è un lusso e naturalmente non ti passano nulla da mangiare, nonostante gli orari lo prevedano», è lo sfogo sui social riportato da Today.it. «Il contratto l’ho rifiutato anche se

CORTEO La manifestazione nazionale della Cgil

“Italia Europa, ascoltate il lavoro” dell’8 ottobre 2022 a Roma

ho bisogno di lavorare. Ma alla soglia dei 30 anni sono stufa di fare la serva». I lavoratori poveri, quelli che pur avendo un’occupazione non riescono a guadagnare il necessario per arrivare alla fine del mese, sono almeno 3 milioni in Italia, secondo Eurostat, anche se è difficile avere un dato preciso perché dipende dai criteri utilizzati per definirli. La realtà, ben al di sotto della soglia di salario minimo a 9 euro, su cui la politica si è presa altro tempo, racconta che al di là delle statistiche il variegato mondo del lavoro è fatto di giovani che in nome di un introito estivo sono disposti ad accettare paghe da fame, quaranta-cinquantenni che non hanno altra scelta e accettano ogni tipo di contratto, anche quelli pirata, partite Iva obbligate a lavorare come dipendenti se vogliono tenersi il posto, lavoratori irregolari, per una parte o per il totale. Il che fa schizzare i numeri in alto. Quella del “working poor” non è una categoria omogenea eloquente. Non ha un’età precisa, non guarda

SEI EURO
PRIMA PAGINA L’ITALIA A
Trenta euro per 4 ore al giorno in uno stabilimento balneare delle Marche. “In nero finché non arrivano i controlli”. Duecento ore al mese per mille euro in una pasticceria del litorale laziale
28 27 agosto 2023

solo a una generazione, non risponde a una determinata fetta di mercato e competenze. Ma è flessibile e penetrante. Basti guardare al dato Inps per ritoccare al rialzo le stime di Eurostat. Secondo l’istituto di previdenza solo i dipendenti con un reddito annuo lordo inferiore ai 12 mila euro, considerata la soglia di retribuzione minima, sono almeno 4,6 milioni. Così, mentre siamo distratti da una politica che discute di pensioni e di tasse e che spesso parla a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto, è nel sommerso, invece, o grazie al lavoro grigio che sopravvive, a stento, il Paese.

«L’Italia soffoca sotto il peso del lavoro che non permette a chi lo fa di uscire dalla soglia di povertà, cioè di avere abbastanza soldi per arrivare a fine mese», spiega Emanuele Felice, professore ordinario di politica economica all’Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara: «Il nostro è il quarto Paese per lavoro povero in Europa e l’unico tra quelli Ocse ad aver registrato un valo-

re negativo nella variazione dei salari medi tra il 1990 e il 2020. Questo succede perché manca una politica industriale strutturata, manca una strategia a lungo termine e investimenti in innovazione e ricerca: l’occupazione cresce in settori come ristorazione e turismo che sono quelli in cui i salari sono più bassi e il lavoro irregolare più diffuso, trasformando l’Italia in un territorio sempre più povero, che si allontana dagli standard degli altri Stati avanzati, mentre i laureati si trasferiscono all’estero». Chi resta riempie le fila del lavoro precario e sottopagato: «Ma io devo vivere con 750 euro? Non mi ci pago neanche l’affitto, non ci vivo», aveva denunciato sui social Ornela Casassa, ingegnera ventottenne a cui era stato proposto un posto a 900 euro al mese con partita Iva per lavorare come dipendente. «Guadagnavo cinque euro e ottanta l’ora inquadrato come guardasala anche se per la maggior parte del tempo spiegavo ai visitatori le opere in esposizione», racconta

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Foto: R. Monaldo / LaPresse
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Marco, laureato in storia dell’arte, ex dipendente del Chiostro del Bramante: «Avrei dovuto fare 16 ore al mese, invece erano in media 120. Non ero l’unico in questa condizione, la maggior parte era messa come me».

Dai dati emerge che i lavoratori poveri sono soprattutto under 30 e donne. Che vivono al Sud o nelle isole dove le paghe si abbassano fino all’inverosimile: «2,5 euro all’ora, in nero, per fare la babysitter», ha raccontato a Fanpage Emanuela dalla periferia ovest di Napoli; «280 euro al mese per 10 ore al giorno per lavorare come commessa», è lo sfogo di una ventiduenne sempre dal capoluogo campano. «Voi giovani non avete voglia di lavorare», le risponde la titolare del negozio.

Come evidenzia il Geography Index dell’osservatorio JobPricing, c’è un forte squilibrio in termini di stipendio a parità di ruolo e di esperienza professionale sia a livello regionale sia a livello provinciale. Queste differenze sono ulteriormente ac-

centuate da fattori esogeni al mercato del lavoro, quali, per esempio, il costo della vita, gli investimenti pubblici, le infrastrutture e i mezzi di trasporto. Ne deriva che fra Nord e Sud, in media, il delta retributivo raggiunge il 17 per cento. Una differenza che diventa ancora più significativa, quasi il 52 per cento, se si confronta la provincia di Milano, con la retribuzione media più elevata d’Italia, con quella di Ragusa, con la retribuzione in media più bassa.

A essere pagati meno del necessario per vivere una vita dignitosa, però, non sono soltanto gli under 30: Corrado ha 49 anni, rider di Cagliari. È assunto a tempo indeterminato da Just Eat per 10 ore alla settimana, «e per il tempo che mi resta lavoro come autonomo per gli altri food delivery. Accedo alle app e aspetto che mi vengano assegnate le consegne. Alla fine, lavoro 9-10 ore al giorno per 5 giorni alla settimana e guadagno sui mille euro al mese, puliti. Meno di 4 euro a consegna. Riesco a viverci solo per-

CONTRATTI AL RIBASSO FAR WEST DEGLI AUSILIARI

Cinque euro netti all’ora per gli ausiliari (addetti alle pulizie e dintorni) che salgono, si fa per dire, a 6 per gli Oss. Un po’ di più per gli infermieri. Paghe ben al di sotto del ventilato salario minimo legale per il personale delle Rsa, le residenze socio-assistenziali per gli anziani che abbiamo imparato bene a conoscere ai tempi del Coronavirus. Il tutto nella consueta cornice di turni spesso infiniti per sopperire alle croniche e drammatiche carenze d’organico. La denuncia è di Cgil, Cisl e Uil e riguarda il nuovo contratto collettivo nazionale nella sanità privata per le imprese aderenti all’Anaste (associazione nazionale strutture territoriali residenze private per la terza età), un moloch che raduna la metà delle Rsa italiane. Un accordo che è stato ratificato a dicembre

dalla sigla datoriale con sindacati non popolarissimi nella categoria. «Anaste si è resa responsabile di una scelta che non ha precedenti nelle relazioni sindacali del nostro Paese – scrivono i tre principali sindacati confederali – nel bel mezzo di una trattativa per il rinnovo del contratto di lavoro che andava avanti da tempo, e mentre aspettavamo risposte, ne ha firmato uno con sindacati di certo non annoverabili tra quelli maggiormente rappresentativi». Tra i sette firmatari figurano sigle come la Ciu (Confederazione italiana di unione delle professioni intellettuali), la Cse (Confederazione indipendente sindacati europei) e la Confelp (Confederazione europea lavoratori e pensionati). E da questo tavolo è uscito un documento ufficiale capace di sprigionare un’efficacia generale.

In Italia manca, tuttora, una legge sulla rappresentanza. «È il classico contratto pirata», protestano i tre maggiori sindacati. A fine marzo hanno manifestato a Torino, in piazza Castello, davanti al palazzo della Regione. «Chiediamo che la giunta Cirio non asse-

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Maurizio Di Fazio Sanità

CONSEGNE

Una manifestazione dei precari delle consegne di Deliveroo, Foodora, Glovo, Uber Eats, Just Eat

ché ho una casa di proprietà». Vale lo stesso per Enrico che ha 50 anni, conducente di scuolabus da 24 per una ditta privata che ha vinto la gara d’appalto con il Comune di Cerveteri. Ha un contratto a tempo indeterminato ma guadagna 950 euro solo per 9 mesi: «Durante l’estate non percepiamo lo stipendio. Il contratto nazionale a cui facciamo riferimento è quello degli autoferrotranvieri. Non ne abbiamo uno nostro. Siamo impegnati tutto il giorno dalle sette di mattina alle cinque di pomeriggio, abbiamo la responsabilità del mezzo, qualsiasi danno ci viene imputato in percentuale, e dei bambini che portiamo a bordo. Ma non ci viene riconosciuto niente di tutto questo: stia-

gni la convenzione a quelle strutture che intendono adottare questo tipo di accordo che non riconosciamo, abbandonando quello sottoscritto con noi». La richiesta è di sospendere gli accreditamenti pubblici alle Rsa coinvolte. «Parliamo di lavoratori che già non percepiscono stipendi all’altezza del servizio che viene reso a categorie fragili. E ora si trovano a dover sostenere una forma di dumping», ha lamentato Elena Palumbo di Fp Cgil Piemonte. L’assessore regionale alle politiche sociali, Maurizio Marrone, ha dato ragione agli scioperanti: «Abbiamo aiutato le residenze socio-assistenziali ogni volta che abbiamo potuto. Ma esigiamo che chi assiste i nostri anziani venga trattato con dignità». Anaste ha rivendicato la bontà del suo operato, tessendo l’elogio del «grande significato di questo rinnovo in un momento di grandissima difficoltà per il settore socio-sanitario utilizzando interamente risorse proprie, essendo le rette invariate da oltre dieci anni e pur sotto il peso insostenibile della crisi energetica e dell’aumento dell’inflazione».

E ha aggiunto: «Le nostre retribuzioni sono in linea con quelle del settore, mai inferiori ai 7 euro lordi l’ora». Quello Anaste (la prima sottoscrizione è del 1991) è uno dei contratti collettivi nazionali più diffusi nel comparto. Al Cnel, nel ginepraio della sanità privata, ne sono registrati e fluttuano a decine; ma quelli davvero significativi si contano sulle dita. Paradossi connessi: si è scoperto di recente che Kos, un colosso internazionale con 108 centri nella nostra penisola, ha applicato senza soluzione di continuità ai suoi dipendenti in Italia un contratto fermo al 2009. Senza adeguamenti salariali e pure qui si parla di 5 euro l’ora. «Il nostro gruppo ha applicato l’ultimo contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore socio-assistenziale che Anaste ha firmato con Cgil, Cisl e Uil. Quello valido dal 2006 al 2009. Non abbiamo inteso applicare le versioni successive del contratto, non sottoscritte dalle organizzazioni rappresentative dei lavoratori». L’azienda si è difesa così. Ecco svelato l’arcano. Bontà loro.

Il rider di Cagliari a 49 anni sopravvive con meno di mille euro, “solo perché ho casa di proprietà”. L’autista di bus in estate non viene pagato. Simboli della classe working poor, i poveri con reddito
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mo tre mesi senza indennità e il primo stipendio completo lo prendiamo a novembre, relativo al lavoro svolto a ottobre».

Paghe da fame, turni pesanti, lavoro precario in cooperative finte e subappalti selvaggi sono caratteristiche che rendono infernale anche la vita dei vigilanti privati: «La nostra retribuzione era già bassa. Adesso non arriviamo più a fine mese. Non abbiamo soldi neanche per comprare i libri che servono per la scuola ai nostri figli», è lo sfogo degli addetti alla vigilanza dell’Università Sapienza di Roma raccolto da L’Espresso. Cinquanta lavoratori che all’improvviso avevano visto il loro stipendio, nonostante gli anni di servizio, ridursi drasticamente. Perché, come conseguenza di un cambio d’appalto, s’era trasformata anche la tipologia del contratto d’assunzione: da multiservizi a vigilanza privata e servizi fiduciari, il contratto nazionale noto per le sue retribuzioni «al di sotto della soglia di povertà», come hanno sancito diversi tribunali. «È complicato avere relazioni umane quando non si hanno tempi di vita conciliabili con il resto della società», spiegava, infatti, Matteo. Che lavora come vigilante armato 173 ore al mese spalmate su 27 giorni, con 4 giornate di riposo e otto domeniche libere l’anno. Per uno stipendio di 1.120 euro netti al massimo della carriera, con 26 anni di lavoro alle spalle: «I colleghi più giovani non arrivano a 700».

L’articolo 36 della Costituzione sancisce il diritto a una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ma in troppi casi non succede: alcuni contratti nazionali anche se firmati dalle principali sigle sindacali, come nel caso di quello della vigilanza privata, prevedono paghe inferiori alla soglia di povertà. Inoltre l’Italia è il Paese dei contratti scaduti e quindi ina-

STAGIONALI

Un ristorante di Taormina. Nel settore della ristorazione, frequente il ricorso agli stagionali nel periodo estivo

deguati all’inflazione attuale, non aggiornati sulla base del costo della vita che aumenta. Ma soprattutto esistono contratti nazionali sottoscritti da sigle di rappresentanza minori o fittizie pensati più per ridurre i costi per le aziende che per tutelare i lavoratori. Creano dipendenti di serie b e che a parità di mansioni guadagnano molto meno di quelli tutelati dagli accordi siglati dai sindacati principali: i contratti pirata proliferati negli ultimi anni a causa della mancanza di regole chiare, che sono difficili da arginare visto che anche le sentenze emesse dai tribunali non si traducono in un azzeramento del contratto ma valgono solo per il lavoratore che ha fatto causa.

«Una serie di studi ha evidenziato che sono i lavoratori sottoposti a forme contrattuali atipiche quelli con più difficoltà a raggiungere un reddito sufficiente alla sussistenza. Penso soprattutto ai rider e agli shopper, ossia chi consegna la spesa a domicilio. Vivono una condizione sostanziale di lavoro a cottimo, a volte con paghe inferiori ai 4 euro l’ora, resa possibile da “contratti” che sono ritenute d’acconto. Questi lavoratori, invece, dovrebbero essere inqua-

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Tra Nord e Sud il delta retributivo raggiunge il 17 per cento. Quasi il 52 per cento, se si confronta la provincia di Milano, che ha i compensi più alti, con Ragusa che sta in fondo alla classifica
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drati come dipendenti visto che nella realtà le loro prestazioni sono interamente gestite dalle piattaforme», spiega Andrea Borghesi, segretario generale NIdiL Cgil: «Succede perché in Italia ci sono troppe forme contrattuali, generano caos e portano le imprese ad approfittarne. Anche per questo è importante il dibattito che si è aperto sul salario minimo, che deve estendersi anche alle forme di lavoro che non sono subordinate». A condividere l’iniziativa di legge sul salario minimo anche il professor Felice: «I contratti che prevedono paghe basse sono più una conseguenza della situazione che la causa. Bisogna cambiare la politica industriale per tornare a crescere. Nel frattempo, però, le leggi servono per evitare lo sfruttamento: in Italia il lavoratore viene visto come un peso. Non come una risorsa. Non si investe più sulla persona che diventa facilmente sostituibile, le mansioni che deve svolgere sono relativamente semplici, il Paese non si specializza e diventa sempre più povero e più diseguale. Non possiamo competere con il resto del mondo ribassando i salari, dobbiamo puntare sulla qualità del lavoro», sentenzia l’economista senza mezzi termini.

SUL SALARIO MINIMO LA MELINA DEL GOVERNO

Sarà pure «fra banchetti e salsicce» e «account fake», come dice con disprezzo una deputata di Fratelli d’Italia, che si risveglia la coscienza della sinistra sui lavoratori. Ma intanto la petizione delle opposizioni, promossa alle Feste dell’Unità e sui social, per una legge che fissi la paga oraria minima a 9 euro supera le 300 mila firme. Dice il dem Antonio Misiani: «Il governo e la maggioranza finora hanno buttato la palla in tribuna. Ma questo giochino non potrà continuare all’infinito».

Sicuramente tiene accesa la questione, dopo che il governo ha incaricato il Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), un organo consultivo del Parlamento, di elaborare entro 60 giorni una proposta ampia per la lotta al lavoro povero. Una «buona» concessione, la definisce il governo che, del resto, nelle settimane precedenti aveva addirittura provato a non far arrivare la proposta nemmeno al Parlamento. Calcolando la sospensiva di 60 giorni approvata dalla Camera lo scorso 3 agosto, il dossier dovrebbe tornare in Assemblea a fine settembre. Ma nelle opposizioni c’è chi teme che non possa tornare alla Camera prima dell’inizio dell’anno prossimo. In autunno comincerà la sessione di Bilancio e fino a dicembre non sarà possibile esaminare proposte che comportano nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Certo, potrà rientrare nel dibattito in commissione con qualche emendamento alla Finanziaria, ma la discussione in Aula ha un altro rilievo. Il tema è comunque uno dei pochi che continua a tenere unite le opposizioni: la proposta di legge porta la firma di tutti i gruppi. Tranne Italia Viva che però ha proposto, attraverso un emendamento a firma Marattin, che sia sempre la commissione a stabilire annualmente il salario minimo, senza indicare da subito una cifra per legge.

Nella maggioranza, invece, a distinguersi è Forza Italia, che ha presentato una propria proposta di legge che prevede di adeguare tutti i salari non coperti da contratto collettivo a quello previsto dal contratto nazionale leader per il settore di riferimento. S.A.

Foto: A. Serrano'Agf
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Tirocinio infinito Il girone dei dannati con la paghetta

Da una parte smart working e nuove tecnologie, dall’altra contratti di lavoro temporanei e tirocini che penalizzano gli under 36. «Ho subito bossing per un anno ma in pieno lockdown non riuscivo a trovare il coraggio di denunciare il mio datore di lavoro e licenziarmi», racconta Roberto, uno dei ragazzi che hanno accettato di farsi intervistare per il report di Gallup, società americana di analisi sullo stato globale del mondo del lavoro. I lavoratori italiani sono i più infelici d’Europa. Sottopagati, bullizzati e anche tristi. Quasi il 30% prova un’intensa sofferenza ed è scettico sulla possibilità di ribaltare la situazione.

Giulia, pur «lavorando in un’accademia per 15 ore al giorno», viene sottopagata e retribuita in nero. E poi c’è Silvia, specializzanda di Medicina: «Nonostante le responsabilità, mi sono stati offerti sei euro l’ora come libera professionista. Si sono giustificati dicendomi che stavano

Di stage in stage, formati, titolati ma con retribuzioni che si riducono a un rimborso al netto delle spese: rapporto sui lavoratori under 36 distanti anni luce dai coetanei europei

formando i medici del futuro».

Tirocini, ecco la parola chiave per pagare meno del dovuto. Sotterfugi per forza lavoro a basso costo. Il Parlamento Europeo, in una risoluzione dell’8 ottobre 2020, ha condannato la pratica invitando gli Stati membri a porvi rimedio.

Nel 2021, in Italia, secondo l’Agenzia na-

zionale Politiche attive del lavoro, sono stati attivati 310.638 stage extracurriculari, 2,5 milioni dal 2014. Dal campione analizzato da L’Espresso risulta che per il 42,9% lo stage è stato il primo contratto di lavoro. Spesso destinato a essere replicato: il 60% afferma di essersi imbattuto in almeno uno o due stage e addirittura il 12,5% in tre o quattro. «I tirocini sono spesso un problema, poco formativi e utilizzati per ridurre il costo del lavoro a discapito del lavoratore», spiega Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt, associazione senza fini di lucro che promuove studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e del lavoro. «La regolamentazione dei tirocini è in capo alle Regioni e risulta quindi difficile immaginare a oggi regole uguali per tutti». Tuttavia, sarebbe utile individuare dei correttivi. «Dopo tre rinnovi di stage all’interno di una prestigiosa azienda mi è stato offerto un ulteriore periodo di stage senza

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MASSIMILIANO CARRÀ ed EDOARDO PRALLINI

possibilità di crescita», racconta Valentina, alla quale fanno eco le parole di Cecilia, che, pur avendo già maturato quattro anni di esperienza, ha ricevuto una proposta di retribuzione di 300 euro per uno stage full time. «Ho provato a chiederne 500 e mi è stato risposto: perché, tu vali 500 euro?».

E, poiché gli abusi non hanno confine, la ricerca Lei (lavoro, equità, inclusione), realizzata da Fondazione Libellula, conferma che una donna su due si dichiara vittima di una manifestazione diretta di molestia e discriminazione sul lavoro.

Altra questione, la durata della gavetta. Un terzo degli intervistati dichiara di aver firmato il primo contratto a tempo determinato o indeterminato tra i 26 e i 28 anni, l’11,6% tra i 29 e i 32 anni e addirittura il 20% di non aver mai firmato nulla del genere. Un ritardo nell’affrancamento dal precariato che si riflette sugli stipendi. Secondo un report dell’Osservatorio sui

CAMICI BIANCHI

lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps, pubblicato lo scorso novembre, nel 2021 in Italia la fascia 20-24 anni ha registrato una retribuzione media annua pari a 9.918 euro – al di sotto della soglia di povertà, che secondo l’Istat è di circa 10.200 euro in un’area metropolitana del Nord Italia – quella 25-29 anni a 15.296 euro e quella 30-34 anni a 18.715 euro.

In sintesi: prima dei 30 anni non si arriva a guadagnare un netto pari ad almeno mille euro. D’altronde, secondo l’Ocse, l’Italia è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990 (-2,90%). E se secondo Eurostat lo stipendio medio in Italia (15.858 euro) per la fascia 18-24 anni è vicino alla media europea di 16.825 euro, tuttavia è il confronto con gli altri Paesi a rivelare il gap. In Germania, per esempio, nella stessa fascia d’età si guadagna mediamente 23.858 euro, in Francia 19.482 euro, nei Paesi Bassi 23.778 euro e in Belgio 25.617 euro. Solo la Spagna ha un reddito medio inferiore: 14.085 euro. Seppur il 90% degli intervistati dichiari di aver conseguito una laurea e il 60,7% di aver continuato gli studi con un master o un corso di specializzazione, tuttavia più della metà non va oltre 1.600 euro netti al mese. In un contesto, peraltro, in cui il 71,5% dichiara di lavorare da almeno due anni, e in cui solo per le spese fisse mensili (come cibo, bollette, wi-fi e abbonamenti a mezzi pubblici) il 22% afferma di sborsare tra i 300 e i 400 euro, il 13,8% tra i 400 e i 500 euro e il 9,2% tra i 500 e i 600

La protesta dei medici specializzandi alla Camera dei Deputati, nel 2020, contro la precarietà nel settore euro, arrivando anche a punte oltre i 700 euro al mese. Somme a cui va aggiunta la quota d’affitto (nel 50,5% dei casi), inevitabilmente la più sostanziosa. Non c’è da stupirsi, quindi, se al netto delle spese, i giovani lavoratori italiani si ritrovino con pochi euro al mese da spendere per il resto. Una paghetta con la quale pensare al presente è già un lusso e il futuro una prospettiva inesistente. Bankitalia, del resto, nota che dal 2006 al 2016 la ricchezza degli under 35 si è ridotta di ben sette volte, mentre la natalità si è contratta e nel 2022 ha fatto registrare un nuovo record negativo: -1,9%.

«Lavoro e povero» non dovrebbero stare più nella stessa frase. Un utile meme per la Schlein economy.

Foto: A. Ronchini / NurPhoto via Getty Images
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esplosa di nuovo la questione delle carceri italiane. Sovraffollamento, congestione (come la definisce Luigi Manconi), mancanza di servizi, di bidet per le donne, pochi psicologi, poche attività di lavoro e di socializzazione. Grande sofferenza e grande impotenza.

Il ministro Carlo Nordio, di ispirazione garantista e liberale, ha promesso di intervenire: trasformiamo le caserme dismesse in prigioni, aumentiamo gli organici. Come spesso gli capita, sembrano sortite irrealizzabili e solitarie.

Ma poi: la priorità sono gli spazi ulteriori da reperire o piuttosto una popolazio-

Nelle nostre celle c’è la misura dell’inadeguatezza

ne carceraria abnorme, che potrebbe ricevere trattamenti alternativi alla galera?

Quest’ultima mi pare la vera questione. Il ministro Andrea Orlando iniziò a muoversi in questa direzione. Solo il 10% dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza. Molti sono, invece, reclusi per reati minori, con condanne inferiori ai 3 anni. Altri sono vicini alla conclusione della pena o devono scontare il reato di immigrazione clandestina. Infine, ci sono quelli in attesa di giudizio. Conseguenza di una pratica incivile di arresto, considerata la condizione migliore per far collaborare l’imputato.

Uno Stato democratico misura se stesso circa il trattamento che riserva alle minoranze, alle fragilità, alle posizioni di debolezza.

L’imputato e il condannato (tranne nel

Solo il 10% dei 56 mila detenuti nel nostro Paese rappresenta un pericolo sociale o per la sicurezza

caso siano al centro di un’organizzazione mafiosa o terroristica) si trovano nel punto di massimo squilibrio tra la forza e la debolezza. Sono soli di fronte al giudice che decide sulla loro vita, avendo dietro le spalle tutta la forza dello Stato, della società, dell’opinione pubblica normale, che come una muta si aggrega per colpire l’errore, la devianza, il cattivo esempio. La solitudine, che porta a tanti suicidi, come è accaduto in questi giorni a Torino e ogni anno durante il vuoto nel mese di agosto, non è solo il recinto di mura che separa chi sta dentro dalla vita che si svolge fuori.

È la percezione di una condizione indifesa, esposta, manomessa. Sottoposta a decisioni, regole, condizioni imperscrutabili: oggetto inerte in balia della sorte. Tutto ciò che si può fare per evitare questo abisso dell’anima, dando alla pena un carattere rieducativo e più umano, va fatto. Soprattutto quando il reato non consiste nella morte di un’altra persona (fattispecie secondo me nella quale si sono esercitate grandi indulgenze), ma ha procurato un danno economico, alla stessa salute di chi lo ha commesso, alle regole di funzionamento della società. Sono cresciuto in un ambiente di avvocati penalisti.

Mio padre, repubblicano, esercitava questa professione. Ho ascoltato magnifiche arringhe in corte d’Assise di De Marsico, Annibale Angelucci, Cassinelli, Vassalli e dei più giovani di allora; appunto mio padre Vittorio, De Cataldo, Gino Trapani, Luciano Revel e Nicola Madia, turbato per tutta la vita dalla condanna di Raul Ghiani, che aveva difeso appassionatamente.

Ricordo la lezione di tutti loro: meglio dieci colpevoli fuori che un innocente ingiustamente in prigione. Appunto. Il valore della vita e il sacro rispetto della libertà individuale.

CARTA & PENNA
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Il ruggito del Tajani

Dopo una vita passata a far finta di non esserci, il segretario di Forza Italia ora è costretto a esistere. Come capo del partito, antagonista di Salvini, alleato riottoso nell’ottovolante di Giorgia Meloni

POLITICA LITI A DESTRA
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IL SEGRETARIO

Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, è segretario nazionale di Forza Italia

Non inganni la grisaglia, il doppiopetto, quell’aria un po’ imbolsita che assume nelle occasioni ufficiali. L’atteggiamento mentale che in ultimo più si addice ad Antonio Tajani, 70 anni appena compiuti, eterno vice salito al trono di Forza Italia, più grazie all’entropia che all’ambizione, è tale quale identico alla tarantella calabrese che nel gennaio 2020 ballò a Catanzaro duettando con una raggiante Jole Santelli. Lei, appena vinte le Regionali, si era tolta le scarpe e si era messa a danzare nel comitato elettorale per fare festa. Lui, che all’epoca era vicepresidente di Forza Italia, per raggiungerla in pista fece il suo ingresso tra due ali di militanti, in leggera scivolata, volteggiando poi con un inedito dolcevita nero discretamente attillato, un passo leggero, addirittura frizzante. Pochi attimi rivelatori di un futuro impensabile.

Faceva il cuscinetto invisibile tra il Cav e il resto del mondo.

È in fondo questo che la politica adesso gli richiede, l’ultima frontiera. Come la nave stellare Enterprise, nei viaggi di “Star Trek”: arrivare coraggiosamente dove nessun Antonio Tajani è mai giunto prima. Esistere, finalmente, dopo un’intera vita politica passata a fingere di non esistere. Tocca a lui adesso, chi l’avrebbe mai detto, incarnare il ruolo della fronda, in una compagine di governo che alla chiusura estiva del Parlamento sembrava liscia come un blocco di alabastro e che invece, sotto il sole di agosto, ha mostrato un’improvvisa capacità di aprirsi, dividersi, potenzialmente disfarsi, come s’è intravisto col caso del generale Roberto Vannacci e con l’apertura di quel pozzo senza fondo che è ciò che sta a destra della destra.

Adesso gli tocca il ruolo della fronda.

Dalle

banche

In questa temperie fattasi inopinatamente vivace, con mesi di anticipo anche rispetto al fisiologico terremoto pre-Europee, a Tajani tocca il ruolo per lui faticoso del subgoverno, della minoranza interna, del sopracciglio alzato, dell’obiezione sul tavolo. Come è stato per la tassa sugli extraprofitti delle banche: protestare per essere stato tenuto all’oscuro, invocare condivisione, chiedere a gran voce modifiche. Portare tutti a pensare di poter suscitare in Meloni quello che nei primi anni Duemila Gianfranco Fini o Marco

Follini con la loro guerriglia da vicepremier riuscivano a far postulare di Berlusconi: una reazione avversa, il segno di una capacità di influenza. «L’ira di Silvio sugli alleati», era il titolo classico di quegli anni, adesso pronto a ripetersi, a parti invertite così come nel frattempo invertite sono le percentuali tra Forza Italia e la destra Msi-AnFdI. Se ne intravedono già i segni. Vignetta di Makkox sul “Foglio” di mercoledì, ispirata dall’intervista di Meloni a “Chi”: «Allora, come sta andando questa esperienza di governo?. “A volte, co ’sti alleati, mi sembra di essere sulla giostra del calcinculo”. Scrivo ottovolante». Eccola, versione Luna Park, l’ira di Giorgia sugli alleati.

Ira a giorni alterni: uno contro Tajani, un altro contro Salvini. Perché poi, a differenza di una volta, i due vicepremier invece di allearsi sono in gara furibonda fra loro, per non soccombere sotto l’avanzata del partito

POLITICA LITI A DESTRA LITI A DESTRA
proteste per la tassa sugli extraprofitti delle
al grido: “L’Afd mi fa schifo”
LA PREMIER Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, presidente del Consiglio dal 22 ottobre 2022
40 27 agosto 2023

del premier. E al segretario di Fi, per quanto rivendichi il ruolo di «ministro dell’Armonia», tocca cambiare interpretazione: da ufficiale di collegamento a forza di interposizione. Dividere dove aveva unito, far sorgere spaccature dove aveva piallato. È venuta così fuori quella bocciatura degli alleati europei di Salvini alla quale neanche Meloni era arrivata. Lei non aveva posto veti all’alleanza con Le Pen e Afd. Lui invece sì. E parecchio: «Alternative fuer Deutschland mi fa schifo», ha scandito il ministro degli Esteri. Nel placido appuntamento della Versiliana, a Marina di Pietrasanta. Urlando. In camicia di lino bianco Ralph Lauren, jeans e sneakers grigio ferro.

Un lessico e un abbigliarsi che già dicono quanto stia andando lontano da se stesso – forse per riavvicinarsi ai suoi avi – l’ex studente del liceo Tasso di Roma (negli stessi anni di Maurizio Gasparri, suo amico da

sempre, di Paolo Gentiloni e Marco Follini, rimasti invece estranei), famiglia d’antico lignaggio originaria di Vietri sul Mare, di tradizione politica ma anche militare (il padre ufficiale dell’esercito, con anche ruoli di comando Nato; lui stesso ufficiale dell’aeronautica), monarchico in gioventù fino a essere vicesegretario del “Fronte Monarchico Giovanile”, di casa nel quartiere Parioli, la chiesa di San Bellarmino in piazza Euclide tuttora frequentata come parrocchia, considerato un «fighetto» persino dai giornalisti del Giornale epoca Montanelli, quando era il capo della redazione romana, prima di scendere in politica.

Un andamento lontano dal presente: ma è questo adesso il prezzo della sopravvivenza. Ballare la tarantella. Nella stagione più difficile di Forza Italia, quella in cui bisogna dimostrare di poter avere un futuro, mentre Fratelli d’Italia tenta di fagocitare il

Per approfondire o commentare questi articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it

Foto pagine 42-43: A. Serranò / Agf. Foto pagine 44-45: M. Scrobogna/LaPresse
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partito azzurro da destra, Matteo Renzi da (diciamo) sinistra vorrebbe fare altrettanto e nel frattempo definisce il neosegretario «Forse Italia»; e fuori dalla porta c’è la famiglia B., con Marina e con Piersilvio, le rispettive ambizioni e gli oltre 90 milioni di credito verso il partito.

A Tajani calzava insomma più felicemente l’atteggiamento assunto per decenni e fino a poco fa. Tra i fondatori di Forza Italia, portavoce di Berlusconi nel suo primo governo, molto avendo appreso nei modi da Gianni Letta, con in soprammercato una notevole gommosità che lo storico «portasilenzi» non ha mai avuto, Tajani si è specializzato nel ruolo di cuscinetto invisibile. Tutti sanno che sta da sempre lì, lui raramente rivendica di essere stato eletto per cinque volte europarlamentare, per quattro vicepresidente del Ppe (dal 1994), di aver rinunciato a 486 milioni di buonuscita per i ruoli nell’Ue, non dice mai di essere stato eletto presidente del Parlamento europeo grazie ai voti del Ppe, dei liberali dell’Alde (oggi Renew Europe), e dell’Ukip di Nigel Farage, una compagine dalla struttura abbastanza simile a quella che suggerisce a Meloni per contare dopo le Europee 2024. Tajani non dice mai (e chissà se Berlusconi l’ha mai saputo) che a Gijon, in Spagna, c’è una via intitolata proprio «Antonio Tajani» per volontà del sindacato locale, dopo che da commissario Ue per l’Industria aveva salvato la principale impresa della zona. Non dice mai che tra i suoi avi figura Raffaele Tajani, generale e braccio destro di Gioacchino Murat nella rivoluzione napoletana del 1799, e solo a luglio, nel discorso di insediamento ai vertici di Forza Italia, ha ricordato il figlio di lui, Diego Antonio Magistrato, avvocato, deputato e ministro della Giustizia del Regno d’Italia, Diego difese fra l’altro Crispi dall’accusa di bigamia e si adoperò per aumen-

I MATTEI

Matteo Salvini, leader della Lega, vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. A destra, Matteo Renzi, guida Italia Viva, in un’alleanza traballante con Azione di Carlo Calenda

tare i poteri della politica sui magistrati: due dettagli che da soli avrebbero giustificato l’eterna simpatia del Cavaliere.

Il punto d’oro dell’invisibilità Tajani l’ha raggiunto durante il governo Draghi: come ricompensa per non essere diventato ministro, fu nominato coordinatore unico di Forza Italia. Raddoppiò allora la morbidezza, oltre l’epoca di superMario: nelle primissime fasi del governo Meloni, Tajani è stato il prezioso ritessitore delle alleanze che il Cavaliere andava strappando, l’altra faccia del liciaronzullismo e dei vaffanculo sibilati a Ignazio La Russa prossimo all’elezione a presidente del Senato (coi voti di Renzi e non con quelli di Forza Italia, a proposito di crediti da riscuotere). È stato lui – un po’ come fece ai tempi con la sua amica Angela Merkel – che ha portato a riconfermare a giugno, a Roma, la kermesse «le giornate di studio» del Ppe che Manfred Weber aveva annullato a febbraio (erano previste a Napoli), in polemica con le frasi del Cav sul presidente ucraino Zelensky («non sarei andato in Ucraina a incontrarlo»). L’armonia, prima di tutto.

Ma la morte di Berlusconi, che è il vero

POLITICA LITI A DESTRA
Non parla mai della via che gli hanno intitolato in Spagna, dei suoi passati incarichi, dei suoi avi rivoluzionari. Se riesce a tenersi uno spicchio di centro, potrebbe un giorno aspirare al Colle
42 27 agosto 2023

evento politico dell’estate, lo ha portato per forza o per sopravvenuta inclinazione – metamorfosi dei lutti stretti – a dismettere la solita faccia, per trovarsene un’altra. Non è l’ultraterreno: il rischio concreto è dietro l’angolo, ha il nome e il volto di Angelino Alfano, il solo altro segretario di un partito di Berlusconi (escluso Berlusconi). La storia del’ex pupillo del Cav, segretario del Pdl e poi leader dell’Ncd, il suo crollo verticale, l’incapacità a tenersi e far prosperare il centro pur con tutta la sua moderazione, è il timore che mangia i piedi a Tajani, che lo fa continuare a ballare. Al contrario la speranza, in prospettiva, è lusinghiera. Con il suo «equilibrio» (tra le parole più amate), il lungo curriculum, i rapporti internazionali, la placida credibilità, Tajani ha infatti tutte le carte in regola per aspirare un giorno al Colle più alto – anche per assenza o quasi di competitor nel suo schieramento (basti pensare alla parabola discendente dei tre indicati un anno e mezzo fa nella «rosa» di Meloni e Salvini: Pera, Nordio, Moratti. Per non parlare di La Russa). Sempre che la giostra dell’ottovolante del centrodestra non lo faccia fuori prima.

La bocca della verità Marco Ulpio

I misteri nascosti dietro a un cognome

Vannacci, il generale e Wanda. Polemiche infuocate per il libro “Il mondo al contrario” del generale Roberto Vannacci. Il militare, del quale il quotidiano La Nazione sottolinea la «carriera velocissima», viene accusato di proporre con il suo papello un nuovo «piano di rinascita democratica», evocando quello formulato da Licio Gelli (19192015). Quel cognome, poi, Vannacci, al cronista di lungo corso evoca la storia del capo della loggia P2: quante volte è stata vista in televisione la dimora gelliana situata a Castiglion Fibocchi, in provincia di Arezzo, che in passato apparteneva alla famiglia Lebole? “Villa Wanda” ha nascosto i misteri (e molte ricchezze) d’Italia e deve il suo nome alla moglie di Gelli. Prima di sposarsi si chiamava Wanda Vannacci (1926-1993). Dopo la sua morte, Gelli impalmò la badante Gabriela Vasile.

Sgarbi nei panni del brigante. Vittorio Sgarbi si è presentato vestito da brigante ciociaro a una kermesse a Viareggio. Ma perché quel costume in terra toscana? Sgarbi non aveva fatto in tempo a cambiarsi, provenendo da Arpino dove aveva interpretato il bandito ottocentesco Chiavone: nella piazza, in festa, conduceva la manifestazione Fabrizio. Che poi era Fabrizio Casinelli, nato ad Arpino e uomo forte della comunicazione Rai, direttore del Radiocorriere Tv dopo essere stato per anni addetto stampa di Forza Italia fino a diventare, nel 2008, coordinatore dell’Ufficio Stampa della presidenza del Consiglio dei ministri. Sgarbi ha detto al popolo ciociaro di aver «chiamato il Tg1, il Tg2 e il Tg5» per far diventare quella di Arpino «la festa di tutta Italia». Con Casinelli pronto a dire «grazie sindaco di questa promessa». Intanto gruppi di giovani urlavano verso Sgarbi, in coro, un berlusconiano «portaci a p…».

Radicali in video. Il Ferragosto è tradizionalmente dedicato dai Radicali alla visita alle carceri. Era un appuntamento caro a Marco Pannella, che ascoltava detenuti e guardie: a Rebibbia, nel 2014, incontrò Totò Cuffaro, già presidente della Regione Sicilia, annunciando la sua iscrizione al partito. Quest’anno in prima linea si trovava Rita Bernardini, che la Tgr Lazio, su RaiTre, ha intervistato a lungo. Il servizio è stato firmato da Paolo Martini, che in passato è stato direttore di Radio Radicale, succedendo a Massimo Bordin e poi lasciando il posto ad Alessio Falconio, prima di approdare a Saxa Rubra. Bernardini è in pole position per il posto di garante dei detenuti, ma qualcuno ha temporeggiato pensando si trattasse di un’altra persona, una «quasi omonima» di professione avvocato. Un equivoco portato fino al colle più alto.

Scrivete a laboccadellaverita@lespresso.it

Foto: F. Fotia / Agf, M. Scrobogna/LaPresse
27 agosto 2023 43

Quanto piace al governo lo statalismo

SERGIO RIZZO

Chi si scandalizza dovrebbe fare un ripasso di liberalismo. Nel settore bancario non vige il libero mercato. È un settore con forti rigidità, nel quale opera un numero limitato di soggetti». Parola di Giovanbattista Fazzolari, alter ego a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni. Di lui la presidente del Consiglio avrebbe detto: «È la persona più intelligente che abbia mai conosciuto». Si comprende dunque la ragione per cui sia lui a dare la linea in decisioni anche controverse, come quella di tassare gli extraprofitti delle banche. Anche se non ci voleva un genio per vedere ciò che stava accadendo con l’aumento dei tassi e l’inflazione: le banche stavano facendo un sacco di soldi.

C’è qualcosa però che non convince nel suo ragionamento, consegnato al quotidiano La Verità. Perché le banche italiane, è vero, di problemi ne hanno a bizzeffe. Ed è anche probabile, per non dire sicuro, che in talune circostanze prevalgano le logiche del cartello o comportamenti vessatori nei confronti della clientela: come stanno a dimostrare le indagini e le sanzioni appioppate dall’Antitrust. Ma affermare che nel settore bancario «non vige il libero mercato» stride apertamente con la fama della «persona più intelligente» che la premier abbia conosciuto. Come se Fazzolari fosse rimasto al tempo della «Foresta pietrificata» di Giuliano Amato, quando le banche italiane erano quasi tutte dello stesso proprietario. Cioè lo Stato, che ne poteva fare ciò che voleva. Oggi, invece, di banche di proprietà

pubblica ne sono rimaste appena tre: il Mediocredito centrale, che controlla anche la Popolare di Bari, e il Monte dei paschi di Siena. Tre su 439 (quattrocentotrentanove), alla faccia del «numero limitato di soggetti». Oggi chiunque disponga delle capacità tecniche e finanziarie necessarie può aprire una banca, o acquistarne le azioni fino a garantirsene il controllo, a differenza di trent’anni fa. E sono proprio le caratteristiche tipiche di un libero mercato, sul quale non a caso vigila anche l’Autorità Garante della Concorrenza. Un mercato che ha certamente forti rigidità e molti vincoli, perché gestisce un bene socialmente sensibilissimo; ma sul fatto che sia un libero mercato non possono esserci dubbi.

Senza entrare nel merito della questione, se sia giusto o meno tassare gli extraprofitti di un determinato settore (è stato già fatto dal precedente governo per le

POLITICA IDEOLOGIE CHE TORNANO
Punire le banche e le compagnie aeree, favorire le corporazioni come tassisti e balneari.
In economia l’esecutivo interviene secondo un dirigismo ostile al mercato
44 27 agosto 2023

imprese energetiche) si potrebbe osservare che il sistema scelto non colpisce gli utili finali, ma il margine iniziale: con il risultato che la tassa potrebbe facilmente essere ribaltata su altre voci di bilancio, come le commissioni.

Ma a parte questo, è l’odore che emana questa iniziativa a risvegliare un vecchio fantasma mai completamente addormentato: il fantasma dello statalismo. I primi segnali erano arrivati nelle settimane del debutto del governo Meloni, quando le critiche di Bankitalia alla manovra di bilancio avevano causato una reazione senza precedenti da Palazzo Chigi. Fazzolari l’aveva accusata di fare il gioco delle banche, sue azioniste, ed era rispuntato il manganello. Ossia, l’idea di nazionalizzare per legge la banca centrale: idea cara alla stessa Giorgia Meloni.

Poi è toccato al ministro delle Impre-

se e del Made in Italy sferrare un attacco alle multinazionali. «Vogliamo valorizzare chi agisce nel nostro Paese, semmai frenare le grandi multinazionali, certamente anche Uber», ha dichiarato Adolfo Urso, prontamente ribattezzato «Urss» durante un confronto (si fa per dire) con la categoria più protetta dalla politica che esista, quella dei tassisti. Il quale «Urss», per non essere smentito, ha ben pensato di affrontare il caro carburanti rinverdendo in modo singolare i fasti dei prezzi amministrati, con l’obbligo per i distributori a esporre i prezzi medi regionali. Con il risultato di far lievitare verso l’alto i prezzi più bassi, facendo così crescere settimana dopo settimana anche i prezzi medi, in una spirale irrefrenabile di aumenti. Alle proteste («Una scelta sciagurata che ridurrà la concorrenza», secondo l’Unione consumatori) Urso ha replicato invitando

FRENARE

Piuttosto che aumentare le licenze dei tassisti il governo preferisce “frenare” Uber

Foto: LaPresse
27 agosto 2023 45

i consumatori di prendersela con gli sceicchi che hanno tagliato la produzione di greggio. Fatto sta che da quando è in vigore l’obbligo di esporre le medie si assiste a un livellamento senza precedenti dei prezzi. Ovviamente verso l’alto. E i petrolieri ringraziano.

E fosse solo questo. Il fatto è che lo statalismo in salsa meloniana si presenta in una forma inedita da almeno ottant’anni a questa parte. Una forma che non riguarda solo l’intervento dello Stato nell’economia, peraltro finora con mosse da elefante in cristalleria. Prima la tassa sulle banche che potrebbe perfino danneggiare i risparmiatori e i cartelli ai distributori che fanno salire il prezzo della benzina; quindi l’intervento a gamba tesa sui biglietti aerei (un altro “non libero mercato”?) che ha scatenato una guerra a Bruxelles senza peraltro benefici apprezzabili per il Sud. Dove si continuano a pagare tariffe astronomiche. Mentre la ministra del Turismo Daniela Garnero Santanchè, già azionista di un importante stabilimento balneare, garantisce che sulla lotta alla riforma delle concessio-

L’Iva sulla benzina

N Una scandalosa tassa sulla tassa

ni inapplicata da quindici anni «seguiremo ciò che la categoria (di cui lei ha fatto parte fino all’altro ieri, ndr) ci chiede. Noi difendiamo i balneari senza se e senza ma…».

E il suo collega della Cultura, l’ex direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano fa pagare la concessione statale sull’uso delle immagini dei nostri tesori, resuscitando un principio anacronistico mandato in pensione una decina d’anni fa, quando venne abolito il divieto di fare fotografie alle opere d’arte nei musei.

Un nuovo statalismo che sa però di antico. Uno statalismo per cui uno Stato si arroga il diritto di stabilire anche alcune regole del vivere civile. Francesco Lollobrigida, ministro della Sovranità Alimentare, cognato di Giorgia Meloni, vieta la produzione di carne sintetica: così mortificando, da una prospettiva ottusamente oscurantista, un importantissimo settore di ricerca scientifica, incurante di aggiungere una motivazione in più per l’emigrazione dei nostri giovani scienziati.

Nel frattempo si vieta l’iscrizione all’anagrafe di figli di coppie omogenitoria-

on contate sulle promesse elettorali. Sperare che vengano onorate è quasi sempre una pia illusione. Ed è successo così anche questa volta. Nessuno stupore, dunque, per il fatto che un governo guidato da chi aveva dichiarato guerra in campagna elettorale alle accise sui carburanti, promettendo di archiviarle definitivamente con un video da milioni di visualizzazioni, le abbia invece ripristinate nei loro valori massimi. Difendendole oltre ogni ragionevole dubbio. Ma se è perfino comprensibile che le difficoltà di bilancio costringano la politica a rivedere certe posizioni, qualcosa nel-

le dichiarazioni del ministro Adolfo «Urss» Urso comunque non torna. E ancora meno torna nel silenzio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del suo vice Matteo Salvini.

Le accise non si toccano, dice Urso, perché i soldi servono per finanziare il taglio del cuneo fiscale. Se abbiamo capito bene, la benzina resta cara perché con quei soldi si alzano un poco gli stipendi, così magari i lavoratori possono anche pagare la benzina più cara. Il taglio del cuneo fiscale, insomma, viene finanziato pure dagli stessi lavoratori che ne dovrebbero beneficiare. C’è però un altro aspetto di questa vicenda decisamente più scandaloso dello scandalo delle accise che si sono accumulate nei decenni nel silenzio pressoché generale. Un aspetto sul quale colpevolmente si è sempre sorvolato. È il meccanismo assurdo per cui paghiamo una tassa sulla tas-

POLITICA IDEOLOGIE CHE TORNANO
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GOVERNANTI

Francesco Lollobrigida, ministro della Sovranità Alimentare. A sinistra: Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

li. Con la ministra della Famiglia Eugenia Maria Roccella che stigmatizza chi dà agli animali domestici i nomi delle persone. E se la proposta di mandare al gabbio chi nella pubblica amministrazione usa parole straniere, avanzata dall’ex fedelissimo meloniano Fabio Rampelli, ha più sostenitori di quanti se ne possano immaginare, fioriscono le proposte di legge per far rinascere sia pure sotto forme diverse il vecchio servizio militare. L’idea della naia, abolita senza particolari rimpianti dal primo gennaio del 2005, torna così a serpeggiare con uno sponsor d’eccezione: il presidente del Senato Ignazio La Russa

Ma tant’è. In un Paese che perde popolazione e giovani a rotta di collo, a questo punto non resta che attendere con trepidazione l’introduzione della tassa sul celibato.

sa. Un esempio rende bene il concetto. Un litro di carburante che costa alla pompa 1,812 euro incorpora il costo industriale di 0,757 euro, più le accise di 0,728 euro, più l’Iva di 0,327 euro. E proprio nell’ultima voce c’è una clamorosa stonatura. Perché l’Iva non viene applicata sul solo costo industriale, come sarebbe ovvio e giusto, bensì sulla somma del costo industriale più le accise. Ne consegue che oltre a pagare il 22 per cento di Iva sul carburante paghiamo anche il 22 per cento di Iva sulle accise. Che quindi non pesano per 0,728 euro al litro ma ben 0,888 euro. Se a questa cifra sommiamo anche la parte di Iva che grava sul prodotto industriale, si arriva alla conclusione che un litro di carburante per autotrazione non potrebbe in nessun caso costare meno di un euro: neppure se il petrolio fosse gratis. Basterebbe tuttavia eliminare questa tassazione im-

propria (e inaccettabile) sulle tasse per far scendere il costo del carburante da 1,812 a 1,652 euro al litro. Un taglio del 10 per cento circa e senza sfiorare le accise. Perché allora non si fa? Perché nessuno si indigna per una pratica moralmente riprovevole, che comunque viene applicata su una massa di beni di consumo, e perfino sulle bollette di luce e gas? Sono miliardi di euro che ogni anno lo Stato incassa di fatto in modo ingiustificato, tosando i contribuenti inconsapevoli. Ma che non sollevano alcuna reazione: nemmeno da parte delle forze politiche più ostili al fisco, a cominciare dalla Lega salviniana. Nessuno in Parlamento ha mai alzato davvero un dito per arginare questo inaudito sopruso fiscale. Solo la tassazione impropria sulle accise dei carburanti vale circa 5 miliardi l’anno. Fanno 85 euro per ogni italiano, e scusate se è poco. S.R.

Foto: R. Monaldo –LaPresse, C. Fabiano –LaPresse
Le misure prese da Urso sui prezzi dei carburanti hanno avuto come unico effetto quello di innescare una spirale infinita di nuovi aumenti
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“TRASFORMA LA TUA STORIA IN UN LIBRO”

“Un libro è il più potente strumento di marketing per farti conoscere, acquisire autorevolezza e aumentare il numero di clienti”

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Il 2023 ha segnato il record di concentrazione di CO2 in atmosfera: 424 ppm (particelle per milione). Anche quest’anno il livello di anidride carbonica è cresciuto. Prima della rivoluzione industriale era di 280 ppm, dopo la Prima guerra mondiale di 310 ppm. L’accelerazione inizia nel 1990. E le emissioni continuano a crescere.

La maggior parte dei governi e le grandi imprese energetiche non sono affatto intenzionate a cambiare strada. Anzi, si stanno rimangiando tutti gli impegni assunti. Nel 2023 aumenteranno i consumi di carbone, petrolio e gas. Così come i soldi inve-

Giustizia sociale e ambientale per cambiare rotta

stiti dalla finanza internazionale per attività estrattive e inquinanti.

L’Italia è stata già messa a dura prova, sperimentando fenomeni estremi. Ondate di calore, siccità, incendi, inondazioni, grandinate. I cambiamenti climatici sono già in atto. Non possiamo evitarli ma adattarci e mitigarne gli effetti. Significa fare ogni sforzo possibile per ridurre le emissioni e investire ingenti risorse per la riconversione ecologica delle nostre attività produttive. Riconversione, non transizione. Perché, evidentemente, se il modello di prima ha prodotto questa catastrofe è sbagliato.

Le forze di sinistra, dopo due decenni di politiche bipartisan all’insegna del «non c’è alternativa al liberismo», si stanno finalmente rendendo conto della necessità urgente di un altro modello economico (e culturale, diremmo noi). Le forze politiche

Mentre si susseguono attacchi agli ecologisti, finalmente la sinistra mette in crisi il modello liberista

di destra stanno invece portando avanti un attacco violento contro chiunque osi metterlo in discussione.

Come in Brasile, dove la destra di Bolsonaro ha accusato il Movimento dei Senza Terra, uno dei più grandi movimenti al mondo per la giustizia sociale e ambientale, di aver favorito il disboscamento illegale dell’Amazzonia. Giorgia Meloni ultimamente si è spinta a sostenere come sia «necessario fermare il fanatismo ultra-ecologista» per difendere il «nostro» modello economico. Lo diceva dal congresso degli estremisti di destra di Vox.

Oggi chi governa attacca quelli che più di tutti andrebbero sostenuti, definendoli fanatici ed estremisti, mentre va a braccetto e finanzia i responsabili del disastro ambientale e sociale. Continua a spostare l’attenzione su chi denuncia la drammaticità della situazione e la necessità di cambiamento, nascondendo le proprie responsabilità e l’incapacità strutturale di introdurre misure utili ed efficaci per la popolazione.

La destra fa di tutto per mostrarsi il guardiano più fedele dell’ideologia liberista. Mentre non fa nulla per le vittime dei tanti disastri di questi mesi, a cominciare dall’Emilia-Romagna. I cosiddetti patrioti svendono e distruggono la patria per essere ammessi alla coorte dei padroni, incuranti del futuro dei loro stessi figli.

Per riprendere la giusta direzione di marcia dobbiamo dare voce, gambe e rappresentanza a quei soggetti sociali che in questi anni sono stati capaci di lottare difendendo la nostra Casa Comune e i nostri principi costituzionali, mettendo insieme giustizia sociale e ambientale, declinandole in una visione orientata all’ecologia integrale.

Senza la partecipazione attiva dei soggetti impegnati per la giustizia ambientale ed ecologica non può nascere l’alternativa di cui abbiamo bisogno per battere le destre. Facciamo Eco!

FACCIAMO ECO
27 agosto 2023 49

Export di armi Tutto il potere a Palazzo Chigi

Un anonimo giorno di agosto, con quel piglio discreto che si indossa per le cause grosse, il governo s’è spinto dove e come nessun governo s’era spinto mai in più di trent’anni. In coda a un titolo involuto, vale pure anonimo, «Norme sul controllo degli armamenti», lo scorso tre agosto il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per ritoccare/riformare/rinfrescare la legge 185 del ’90, la summa che disciplina le importazioni e le esportazioni di materiale bellico di ogni tipo, che siano bulloni o cannoni. La legge 185 del ’90 poggia sui pilastri della Repubblica che «ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» e perciò fu accolta come una conquista dai movimenti contro le armi e una restrizione dai fabbricatori di armi. È vietato cedere materiale bellico, per esempio, a Paesi in guerra o che violano i diritti umani.

Accentrando le competenze

nella Presidenza del Consiglio

Le letture (troppo) faziose vanno corrette subito: no, il governo più a destra di sempre non interviene con un semplice disegno di legge per rendere l’Italia il serbatoio di munizioni dei Paesi canaglia sfregiando la Costituzione, più che altro interviene, com’è nella sua indole, per trasferire a Palazzo Chigi, e dunque a Giorgia Meloni e ai suoi più stretti collaboratori, un potere che oggi è altrove. E non è malleabile.

Un anonimo giorno di agosto, insomma, il governo ha avviato l’ennesima manutenzione di sé stesso per accrescere il

comando e il controllo di Meloni e, di riflesso, del sottosegretario Alfredo Mantovano, ormai un vero vicepresidente o copresidente del Consiglio. Il disegno di legge annunciato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani e registrato col numero 855 non risulta ancora depositato in Senato al momento in cui andiamo in stampa, però L’Espresso ha visionato l’ultima bozza esaminata nel governo. In sintesi. Si riduce a ufficio tecnico l’Autorità nazionale per le Autorizzazioni di Importazioni e di Esportazioni (Uama) dislocata al ministero degli Esteri e diretta da un diplomatico di alto rango, si rimuove la gran parte dei vincoli per le operazioni in uscita con i Paesi europei e, soprattutto, si consegna alla Presidenza del Consiglio l’indirizzo politico sulle compravendite di materiale bellico con un ampio margine di discrezione. È assai ingenuo crede-

Con un disegno di legge approvato in silenzio, il governo cambia le regole in un settore delicatissimo.
POLITICA IL CONFLITTO / 1 50 27 agosto 2023
CARLO TECCE

re che in passato l’indirizzo politico fosse intrappolato in una serie di norme parecchio severe oppure al ministero degli Esteri in una penna di un diplomatico. Fu il doppio passaggio in Consiglio dei ministri, nel governo giallorosso di Giuseppe Conte, a permettere la rivendita al vicino Egitto, non esattamente una fiorente democrazia, la coppia di fregate di classe Fremm, peraltro già acquistata dalla Marina militare italiana. La pedissequa applicazione della legge 185 probabilmente avrebbe impedito qualsiasi affare con il regime del generale Abdel Fattah al-Sisi Fu proprio la legge 185, invece, a indurre le Camere e i governi di Conte a decretare gli embarghi a Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita per il loro coinvolgimento nella guerra nello Yemen (divieti rimossi dal governo Meloni dopo il cessate il fuoco e il processo di pace). Per vari motivi,

e il primo è ostinatamente il potere, l’Italia di Meloni sarà chiamata a scegliere fra “questioni etiche” e “ragioni politiche” nel suo commercio di armi. La guerra in Ucraina ha aumentato il fabbisogno di materiale bellico e si ignora ancora per quanto. Le riserve americane, europee e italiane si sono asciugate o finanche azzerate e le società tricolori vogliono competere con più libertà. La revisione della legge 185 per avere una maggiore «rapidità di esecuzione» fu richiesta da Giuseppe Cossiga, il presidente della Federazione delle aziende di categoria che a ottobre è subentrato a Guido Crosetto, nominato ministro della Difesa.

Si apre una fase nuova che determina i prossimi decenni. La politica, certo. E anche la geopolitica. Non di rado agli accordi con i Paesi africani e asiatici per contenere l’immigrazione clandestina o

ADDESTRAMENTO

L’aereo da addestramento M345 in dotazione all’Aeronautica Italiana

27 agosto 2023 51

per le forniture di energia si allegano poi commesse militari. I francesi lo fanno con disinvoltura. Il movente per ritoccare/rinfrescare/riformare la legge 185 del ’90 è abbastanza consolidato nonché antico (ai tempi del ministro Luigi Di Maio c’era una intenzione simile, non uguale, simile), il fatto scatenante, però, è più prosaico: da mesi il governo voleva sostituire il ministro plenipotenziario Alberto Cutillo, il diplomatico che dirige l’Uama, per la sua prudenza considerata eccessiva. Allora si è approfittato: anziché cambiare qualche tegola, ci si è convinti a rifare il tetto. Sul cantiere hanno spedito Tajani. Gli tocca.

Il disegno di legge a firma Tajani, che ancora una volta fa cedere alla Farnesina un pezzo di sovranità (la cessione più dolorosa è il commercio estero, traslocato allo Sviluppo economico), non smantella la 185 del ’90, dovrebbe emendare 7 articoli su 31 e abrogarne 2. Palazzo Chigi assume il costante indirizzo politico riesumando il Comitato interministeriale per gli Scambi di Materiali di Armamento per la Difesa, in sigla Cisd, e lo fa riscrivendo l’articolo 6: «Il Cisd è composto dal presidente del Consiglio dei ministri, che lo presiede, e dai ministri degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, dell’Interno, della Difesa, dell’Economia e delle Finanze, delle Imprese e del made in Italy. Le funzioni di segretario sono svolte dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri con funzioni di segretario del Consiglio dei ministri. Possono essere invitati alle riunioni del Cisd altri ministri interessati». La stesura attualmente in vigore, integra da undici anni, non menziona il sottosegretario alla presidenza del Consiglio e tantomeno lo fa in maniera così specifica. La gestione del Cisd sarebbe af-

fidata al sottosegretario Mantovano che, tra l’altro, ha la delega ai servizi segreti e una fortissima influenza istituzionale che soltanto Gianni Letta ha sperimentato nella Seconda Repubblica quand’era lo snodo dei governi di Silvio Berlusconi La funzione centrale del Comitato interministeriale viene esplicitata con la futura versione del comma 3: «Nel rispetto dei principi di cui all’articolo 1 e degli obblighi internazionali dell’Italia e in attuazione delle linee di politica estera e di difesa dello Stato, valutata l’esigenza dello sviluppo tecnologico e industriale connesso alla politica di Difesa e di produzione degli armamenti, il Cisd formula gli indirizzi generali per l’applicazione della presente legge e per le politiche di scambio nel settore della difesa, detta direttive d’ordine generale per i trasferimenti di materiali di armamento e può stabilire criteri generali per l’esercizio dei poteri». Il punto è nell’espressione «può stabilire criteri generali». Stabilire i limiti. A parte gli embarghi che non sono discutibili, un comma introdotto alla fine dell’articolo 1 ne illustra il meccanismo: «I divieti di cui

Il sottosegretario Mantovano sta accumulando un’enorme influenza nelle istituzioni. Prima di lui ci era riuscito Gianni Letta ai tempi di Berlusconi premier
POLITICA IL CONFLITTO / 1 52 27 agosto 2023

RIPARTIZIONE

Il ministro della Difesa Guido Crosetto. A destra: l’ex ministro degli Esteri Luigi Di Maio. A sinistra: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Quest’ultimo avrà competenze che prima spettavano a Esteri e Difesa

al presente articolo sono applicati, anche in relazione a specifici materiali, destinatari od operazioni, con deliberazione del Comitato interministeriale di cui all’articolo 6, su proposta del ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, sentito il ministro della Difesa. I divieti decorrono dal giorno successivo alla deliberazione di cui al primo periodo, adottata entro quindici giorni dalla trasmissione alla presidenza del Consiglio dei ministri della proposta del ministro degli Affari esteri».

Le novità al comma 4 dell’articolo 9 sono quelle che rallegrano l’industria bellica. «L’inizio delle trattative contrattuali ai fini delle operazioni di cui al comma 1 da e verso Paesi Nato e non membri dell’Unione europea, ovvero delle operazioni contemplate da apposite intese intergovernative, deve essere comunicato al ministero della Difesa che, entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione, ha facoltà di disporre condizioni o limitazioni alla conclusione delle trattative stesse». Qui c’è una piccola aggiunta, «e non membri dell’Unione europea», che facilita

le importazioni e le esportazioni nel continente. Questo va nello spirito della Difesa europea (e non degli interessi di Parigi). Nel ’22 l’Italia ha esportato materiale bellico per circa 5,3 miliardi di euro di cui il 46,5 per cento verso membri dell’Unione europea.

Altre due cose da segnalare. Le transizioni economiche che riguardano gli armamenti, secondo lo schema di disegno di legge visto da L’Espresso, vanno comunicate al ministero del Tesoro al solito dalle banche e poi anche dagli intermediari finanziari. È una forma di cautela per un fenomeno in espansione: dopo un biennio in pesante diminuzione, nel ’22 le intermediazioni finanziarie hanno registrato un più 337 per cento sfiorando i 400 milioni di euro. Al contrario, non migliora il rapporto con le Camere. Ancora più assenti, isolate, spettatrici, mentre le decisioni sulle armi diventano più politiche. I parlamentari, però, se si vogliono bene, possono proporre le opportune modifiche. Se si vogliono bene almeno un po’. Attenzione. Questo non è tema di sentimenti. Bensì di armamenti.

Foto: R. Monaldo –
(2), M.
LaPresse
Scrobogna
LaPresse
27 agosto 2023 53

Quei dubbi americani sull’Ucraina

In Ucraina si dovrà trattare. Non in un ipotetico futuro, ma presto. E non è detto che agli alti livelli non siano già stati stabiliti contatti. Il motivo è semplice: la controffensiva ucraina sta fallendo e non si intravedono spiragli per una svolta, mentre il numero dei morti e degli inabili al combattimento aumenta significativamente.

A dirlo non sono i movimenti di pacifisti o i simpatizzanti malcelati di Vladimir Putin, ma il New York Times e il Washington Post nella stessa settimana. Se le due principali testate statunitensi – che dall’inizio della guerra si sono spesso fatte portavoce di messaggi dell’amministrazione di Joe Biden rivolti al mondo e ai vertici ucraini – scrivono che Kiev dovrà cedere qualcosa per avere la pace, non lo si può ignorare. Nello specifico, «gli ambienti dei servizi segreti statunitensi ritengono che la controffensiva ucraina non riuscirà a raggiungere la città chiave di Melitopol», che si trova nel Sud-Est del Paese, sulla costa del Mar Nero. Melitopol è stata più volte indicata dai vertici militari ucraini come un obiettivo fondamentale per tagliare la linea dei rifornimenti terrestri dalle regioni russe alla Crimea. Riuscire a spezzare il fronte in quel punto significherebbe impedire alle truppe di occupazione di ricevere aiuti dalle retrovie e permetterebbe la riconquista di Kherson est, oltre all’intensificarsi delle azioni contro la Crimea. Ma, al netto di qualche piccola avanzata a Sud di Zaporizhzhia, i soldati ucraini non sono riusciti a scalfire la linea delle

difese russe.

«Bisogna avere pazienza», continuano a ripetere i vertici ucraini, Volodymyr Zelensky in testa. Fino a poco tempo fa lo sostenevano (almeno ufficialmente) anche Oltreoceano. Ma due nuove preoccupazioni adombrano ancora di più il campo. Le elezioni presidenziali del 2024 negli Usa e il numero dei caduti sul campo. Se Donald Trump dovesse avere la possibilità di correre per la presidenza, l’Ucraina diventerà senz’altro uno dei temi caldi della campagna elettorale. I Repubblicani hanno già fatto capire che iniziano a essere stanchi e in più di un’occasione Kevin McCarthy, il presidente della Camera, ha dichiarato che gli Usa non hanno «firmato un assegno in bianco» a Kiev. Infatti, la nuova richiesta del presidente Biden –ovvero lo stanziamento di ulteriori 24 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina –

Foto: C. Hong –Ap / La Presse POLITICA IL CONFLITTO / 2
La controffensiva sta fallendo, le vittime aumentano. Perciò Kiev dovrà cedere qualcosa e affrettarsi a trattare per avere la pace. Il sostegno degli Usa non è più illimitato
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SABATO ANGIERI

non ha raccolto lo stesso entusiasmo del dicembre 2022, quando Camera e Senato avevano approvato senza indugi ben 45 miliardi di dollari per il Paese invaso dalla Russia. Biden aveva insistito sul fatto che quello «sforzo straordinario» avrebbe permesso a Kiev di condurre un’operazione decisiva, che avrebbe palesato la sconfitta militare russa e costretto Mosca a trattare alle condizioni di Zelensky. Così non sembra e, infatti, il principale sfidante repubblicano di Trump, Ron DeSantis, ha iniziato a mettere in discussione il ruolo di Washington nel conflitto. Non ai livelli dell’ex presidente, ora indagato, che si è detto sicuro di poter «risolvere il conflitto in 24 ore». In che modo non è chiaro, ma tutto lascia supporre che il governo ucraino non ne sarebbe felice.

Tuttavia, per la campagna elettorale bisognerà aspettare l’anno nuovo. Il proble-

ma imminente, semmai, sono i soldati. Il Nyt, nelle scorse settimane, ha pubblicato delle cifre impressionanti: le perdite militari della Russia si avvicinano a 300 mila unità, di cui 120 mila morti e 170-180 mila feriti; i morti ucraini, invece, sfiorano i 70 mila e sarebbero 100-120 mila i feriti. Considerato l’attuale stallo della controffensiva e il probabile ritorno a una guerra d’attrito nei mesi freddi, Kiev ha bisogno di fanti e, al netto delle nuove reclute, non può permettersi perdite ingenti. Gli studiosi militari dicono che le forze che vanno all’attacco hanno bisogno di un numero di soldati tre volte superiore rispetto a chi difende. Infatti, l’anno scorso la strenua e vittoriosa difesa degli ucraini lasciò il mondo sorpreso. Si ipotizzava un rapporto di un morto o ferito grave ucraino a fronte di sette russi. Ora questo rapporto si sarebbe ridotto a uno a tre. Nel frattempo, i reparti spe-

Una donna e un bimbo in bicicletta passano davanti a un condominio distrutto dagli attacchi russi a Borodyanka, il 2 agosto scorso

MACERIE
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ciali addestrati dai Paesi Nato sono in attesa di un corridoio sicuro tra le linee nemiche per essere impiegati. «Non possiamo permetterci di mandare i migliori dei nostri al macello», lasciano intendere i vertici delle forze armate di Kiev, mentre chiedono più munizioni agli alleati.

Se ci si concentra su queste notizie è perché non si tratta solo di articoli giornalistici. Le «fonti anonime» del Pentagono, del governo e dell’esercito che sono evocate come riferimento non fanno altro che veicolare la linea della Casa Bianca. Quando il Nyt e il Wp pubblicano qualcosa se ne parla in tutto il pianeta. E allora quale migliore strumento per annunciare – come è successo, per esempio, in occasione degli attentati al gasdotto Nord Stream o alla figlia dell’ideologo nazionalista russo Alexander Dugin – che «potrebbero es-

L’anniversario

Guerra alla Nato l’ostaggio georgiano

La prima guerra non si scorda mai, e quella dell’agosto 2008 in Georgia certamente Vladimir Putin la ricorda bene. Il 7 agosto di quindici anni fa Putin, allora primo ministro, comandò alla 58esima armata di attraversare il Roki Tunnel e portare le divisioni corazzate dal quel lato del Caucaso che dal crollo dell’Urss non apparteneva più a Mosca. Fu la prima volta che Putin decise di invadere un altro Stato sovrano, con un decreto che portava la firma dell’allora presidente russo Dmitry Medvedev, ma che nasceva nella testa dell’uomo forte del Cremlino. Una mossa che trovò l’Europa impreparata. Bruxelles affidò infatti all’allora presidente di turno Nikolas Sarkozy il compito di mediare e ottenere, dopo una settimana di ostilità che portarono i russi a un passo dalla capitale georgiana, un accordo di cessate il fuoco che ancora oggi condanna la Georgia a vivere con un fianco completamente scoperto alla minaccia russa.

In realtà l’invasione russa della Georgia fu solo la prima guerra internazionale di Putin, nell’agosto 2008 la Russia infatti aveva già alle spalle nove anni di sanguinosa guerra in Cecenia, a pochi chilometri dalla Georgia nel Caucaso settentrionale. Un conflitto sanguinoso con cui il presidente russo mise fine alle aspirazioni dell’emirato islamico del Caucaso, che aveva terrorizzato la Russia di Eltsin, firmando così un patto di sangue con i suoi cittadini che ancora oggi è alla base dei suoi consensi interni.

La Cecenia era però una questione interna, mentre la Georgia è stata per Putin la prima guerra contro l’Occidente. Portare le sue truppe in Georgia significava infatti fermare l’avvicinamento a ovest del Paese guidato da Mikheil Saakashvili che, salito al potere con la Rivoluzione delle Rose, aveva fatto capire che l’obiettivo di Tbilisi era l’ingresso nella Nato. Dopo che nel 2004 Lituania Lettonia e Estonia entrarono a far parte dell’alleanza atlantica, impedire ad altre Repubbliche ex sovietiche di seguirle divenne infatti uno dei capisaldi della politica estera di Mosca, obiettivo da raggiungere, se necessario, anche con la guerra. Una politica che ha dato risultati fino a pochi mesi fa, quando

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sere stati gli ucraini»? In quelle occasioni il messaggio era chiaro: gli Usa sono estranei e contrari a queste operazioni, che sono concepite e messe in atto dall’intelligence ucraina. Infatti, «non vogliamo lo scontro con la Russia», ha ribadito in più occasioni l’amministrazione Biden ed è quasi scontato che sia vero.

A che pro impegnarsi in un conflitto diretto, nel quale le due principali potenze nucleari globali potrebbero aprire le porte dell’Apocalisse, quando Putin ha deciso scientemente di invadere l’Ucraina e di attirarsi il biasimo di mezzo mondo, interrompendo (quasi) ogni scambio con i Paesi europei e costringendo Mosca a cercare nuovi alleati (resi, tra l’altro, baldanzosi dalle difficoltà economiche del gigante eurasiatico)? Il gas russo in Europa occidentale non arriva più, la Nato sta vivendo una

A HIROSHIMA

Il presidente Usa, Joe Biden, con quello ucraino, Volodymyr Zelensky, al G7 del maggio scorso. Nella pagina seguente, operazioni militari vicino a Zaporizhzhia

seconda giovinezza, gli Usa sono quasi riusciti a far dimenticare la figura tremenda del ritiro dall’Afghanistan e il rublo crolla del 12 per cento. No, dunque, Washington non ha bisogno che il conflitto aumenti d’intensità: il Cremlino riesce benissimo a farsi del male da solo. E, nel frattempo, a farne molto di più all’Ucraina con i bombardamenti sulle infrastrutture civili e sui depositi di grano.

Del resto, le sortite ucraine in territorio russo non spostano gli equilibri del conflitto. Gli attacchi alle navi e ai porti russi del Mar Nero causano danni impor-

l’ingresso della Finlandia nell’alleanza ha decretato il fallimento del deterrente. Sul conflitto del 2008 esistono ancora oggi narrative completamente differenti: nei giorni precedenti all’invasione l’esercito georgiano stava conducendo un assalto per riprendere il controllo della città di Tskhinvali, nell’Ossezia del Sud, finita sotto il controllo degli insorti osseti che, secondo l’intelligence di Tbilisi, erano costituiti principalmente da combattenti infiltrati dalle regioni del caucaso russo. Il fuoco dell’artiglieria georgiana su Tskhinvali divenne così il casus belli per Mosca che, con la motivazione di difendere la popolazione osseta, spinse i suoi carri armati in territorio georgiano per non ritirarli mai più. Nei giorni successivi l’esercito russo avanzò rapidamente nella regione arrivando a bombardare la città di Gori e ad attaccare infrastrutture alla periferia di Tbilisi, la capitale georgiana. Contemporaneamente, Mosca aprì il fronte nella Repubblica dell’Abcazia, che già aveva visto una guerra civile nel decennio precedente. Sul fronte abcazo i georgiani vennero sopraffatti sia su terra che su mare rapidamente. L’avanzata dei russi determinò un colossale esodo di profughi che si riversò sulla capitale. Simbo-

lo di quell’esodo divenne l’Hotel Iveria, un albergo brutalista sovietico che sorgeva nel centro di Tbilisi, dove più di 1.500 sfollati abcazi trovarono rifugio in quell’estate e dove rimasero per quasi un decennio, prima di essere sfrattati per dar spazio al nuovo sfavillante Radisson Hotel. Famiglie che ancora oggi dopo quindici anni non hanno mai rivisto le case che abbandonarono scappando dalle truppe russe.

L’eredità della guerra tortura ancora oggi la politica georgiana, dalla comemorazione tenuta sotto al colossare arco triangolare del cimitero Mukhatgverdi a Tbilisi, dove sono sepolti i combattenti che hanno resistito ai russi, l’attuale premier Irakli Garibashvili non ha risparmiato le accuse all’allora presidente Saakashvili, arrivando a sostenere che «questa guerra si poteva evitare» e che l’ex presidente «ha mostrato grande irresponsabilità».

Rinchiuso oggi in clinica penitenziaria in precarie condizioni di salute dopo settimane di sciopero della fame per protestare contro la condanna a sei anni per abuso di potere per cui è in detenzione da quasi due anni, Saakashvili ha risposto via social: «Le mie azioni nel 2008 hanno salvato l’integrità della Georgia».

Foto: S. Walsh –Pool –Afp / Getty Images
Sia i repubblicani sia Biden puntano a un ruolo più defilato per Washington. Perché rischiare lo scontro nucleare, se Mosca si è messa nell’angolo da sola?
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tanti, ma non inceppano la macchina da guerra del Cremlino. E l’ottimismo occidentale scema proprio quando Kiev ne avrebbe più bisogno. Intanto dagli ambienti della Nato trapelano frasi che sembrano voler sondare il terreno: se l’Ucraina acconsentisse a cedere la Crimea sarebbe un primo passo e un’arma negoziale importante. «Impossibile», rispondono tuonando i fedelissimi di Zelensky, «prima la vittoria sul campo e poi la trattativa». Già, ma se gli ucraini dovessero restare gli unici a credere alla vittoria come cambierebbe il contesto? Resistenza fino all’ultimo uomo o accettazione dei dettami occidentali, magari a fronte di garanzie di sicurezza militari? È presto per dirlo, la controffensiva non è finita e i generali statunitensi ora ritengono che il conflitto si trascinerà almeno fino alla metà del 2024.

L’anniversario

E ha accusato l’ex presidente francese di avergli «fatto pressioni» per accettare la rinuncia ai territori occupati, firma a cui Saakashvili si sarebbe opposto con tutte le sue forze.

Dal 2008 con Saakashvili e poi dal 2012 con il governo guidato da Sogno Georgiano, espressione politica del potere finanziario dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, la Georgia combatte infatti la sua battaglia per l’ingresso in Ue e nella Nato ma i rischi legati all’annessione di un Paese con due regioni sotto occupazione russa hanno finora creato uno scenario ostile all’integrazione. Un’ostilità che avrebbe potuto essere stata spazzata via dall’invasione russa dell’Ucraina a cui l’Europa ha reagito schierandosi nettamente con Kiev e concedendo all’Ucraina lo status di Paese candidato all’ingresso nell’Ue nonostante la guerra in corso, status a cui Tbilisi puntava da oltre quindici anni. Ma qualcuno a Bruxelles ha scelto di agire diversamente, relegando Tbilisi in fondo alla classifica degli aspiranti, punendola ufficialmente per un deterioramento dello Stato di diritto ma indicando informalmente tra i problemi la detenzione di Saakashvili e la politica di aperture e dialogo con Mosca fortemente sostenuta dall’attuale governo.

A difesa delle scelte del suo governo il premier Garibashvili ha chiamato in causa ancora una volto proprio la guerra del 2008, spiegando che «dall’inizio della guerra in Ucraina c’è nuovamente un reale minaccia di escalation con la Russia» e arrivando a sostenere tra le righe che alcuni Paesi europei avrebbero addirittura spinto Tbilisi ad aprire il cosiddetto «secondo fronte» nel Caucaso per colpire la Russia dal sud, ipotesi che il suo governo ha voluto scongiurare scegliendo invece una politica di distensione e apertura verso il Cremlino.

Per l’opposizione invece la scelta di Garibashvili è dovuta agli antichi legami di Ivanishvili con Mosca, dove l’oligarca ha ottenuto gran parte delle sue ricchezze, e a un preciso piano del Cremlino di voler usare l’attuale governo per sovvertire l’aspirazione europea della Georgia e riportarla verso l’orbita di Mosca. Lo stesso obiettivo che spinse Putin a mandare i suoi carri armati nell’agosto 2008 dunque: una partita, quella per il controllo del Caucaso meridionale che, a 15 anni di distanza dalle ostilità, si continua a combattere con altri mezzi, ma che ancora tiene in ostaggio il futuro della Georgia.

Foto: D. SmolienkoUkrinform –Future Publishing / Getty Images
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Dopo più di diciotto mesi di guerra in Ucraina, cominciano a viversi chiaramente i danni che le sanzioni stanno provocando in Europa, specialmente in un Paese fragile come il nostro che da più di trent’anni naviga in acque melmose.

L’inflazione da costi e il rialzo dei tassi per combatterla (vanamente) non sono piovuti dal cielo come fossero meteoriti. Sono le conseguenze della guerra che ha rotto lo status quo tra l’Europa e la Russia nell’acquisto a bassissimi costi delle energie fossili.

Nel 2022 la Cgia di Mestre ha stimato

in 91,5 miliardi di euro il caro bollette per famiglie e imprese. I ristori, sempre per famiglie e imprese, sono ammontati a 54,4 miliardi. Il costo di due finanziarie, senza contare l’aumento del 13% rispetto al 2021 delle spese militari in Europa.

In Italia, lo sconquasso dell’equilibrio precario del sistema economico e sociale generato dalla guerra ha fatto da detonatore all’esplosione di problemi di grande portata, che covavano sotto la cenere, ma che non andavano al di là del malcontento di giornata.

La questione non si circoscrive alla riduzione in due anni del 15% dei redditi reali, al costo del paniere della spesa e dei prestiti prima casa. Va ben oltre. Ha messo in evidenza la crisi organica del sistema pubblico allargato. Neppure l’attuale governo è in grado di spende-

re i 191,5 miliardi del Pnrr, di cui 68,9 a fondo perduto. Si sono succeduti tre governi. Siamo punto e a capo. Sono venute a galla le carenze strutturali della società italiana. Le basse retribuzioni del lavoro e delle pensioni; le differenze nel trattamento degli uomini e delle donne; i giovani che continuano a non essere in grado di fare un progetto di vita; il servizio sanitario nazionale che fa acqua da tutte le parti; il sistema scolastico che è in grande difficoltà per l’arretratezza delle strutture e per le retribuzioni del personale. Di fronte a questa complessità di problemi, il governo, quando ci sono da fare i conti con il bilancio dello Stato, si comporta come i precedenti governi: rinvia o elude. Non poteva essere che così, considerato che a giugno il debito pubblico è aumentato di 27,8 miliardi rispetto al mese precedente, di cui 30,4 a carico dell’amministrazione centrale, mentre quello delle amministrazioni locali si è ridotto di 2,6 miliardi. Il caso dei finanziamenti non erogati alle comunità disastrate dall’alluvione in Emilia-Romagna è la cartina di tornasole.

Da un governo che sostiene di poter durare cinque anni, dato che la guerra in Ucraina non si sa quando finirà, come finirà e quanto verrà a costare, ci si aspetterebbe per il futuro un atteggiamento che esca dalla mera razionalizzazione dell’esistente.

Il vuoto delle decisioni di spessore economico dimostra lo stato di impotenza rispetto alla durezza delle criticità sociali che la guerra ha fatto esplodere. Sarebbe necessaria, invece, l’elaborazione di un programma strategico che indichi al Paese il cammino per invertire lo stato delle cose, aprendo un ampio confronto di idee e di proposte con la società civile.

BANCOMAT
Da questo governo ci si aspetterebbe qualcosa di meglio
Il vuoto decisionale dimostra l’impotenza rispetto alle criticità che la guerra ha fatto esplodere
Alberto Bruschini
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Così salviamo il grano di Kiev

C’è un uomo, un francese sui cinquant’anni, che gira infaticabilmente per i campi dell’Ucraina devastati dalla guerra, parla con i contadini disillusi e terrorizzati per convincerli a non mollare. Li aiuta a riprendere il lavoro, a piantare, raccogliere e portare il loro grano al mercato perché in qualche modo riusciranno a venderlo malgrado i russi bombardino le terre, i silos di raccolta, le attrezzature portuali ormai non più solo a Odessa ma anche negli avamposti sul Danubio attraverso i quali gli ucraini, con la collaborazione dei rumeni che rinunciano a qualsiasi diritto di passaggio, trovano faticosamente vie alternative pur di far giungere il loro prodotto verso occidente: se non per mare, viene imbarcato sulle grandi chiatte che risalgono lentamente il fiume verso l’Ungheria, l’Austria, la Germania.

«La cosa più difficile è spiegare agli agricoltori che vale ancora la pena coltivare il grano, per poi aiutarli materialmente a ripartire», dice Pierre Vauthier, agro-economista specializzato nel “disaster risk management”, capo della Fao per l’Ucraina e veterano di tante missioni a rischio in Sud Sudan, in Etiopia, in Yemen. «Le case sono bombardate, le terre disseminate di mine e di quant’altro lascia dietro di sé una guerra, dai pezzi di metallo ai residui radioattivi», dice Vauthier. «Per di più i raccolti sono difficili da vendere ed esportare, e i coltivatori lo sanno. La produzione sta crollando a danno non solo dell’Ucraina ma di tutta l’umanità».

I russi non hanno pietà. Hanno disdetto l’accordo per la navigazione del grano sul Mar Nero il 17 luglio, poi hanno cominciato a distruggere le infrastrutture dei porti e ora hanno addirittura chiesto a Recep Tayyip Erdogan, il leader turco che era stato il mediatore per l’intesa dell’anno scorso che aveva riaperto la via dell’export, di instaurare un corridoio alternativo sempre sul mar Nero attraverso cui vendere il loro,

L’uomo

di grano, bypassando i porti ucraini. «Il loro grano comprende i grandi quantitativi rubati agli ucraini», accusa Vauthier.

La produzione di cereali nel 2023 sarà inferiore per il 30% alla media degli ultimi cinque anni. Nel 2022 è stata il 27% meno dell’anno prima. Del solo grano, di cui l’Ucraina è il quinto produttore mondiale (è anche il quarto di mais e il terzo di orzo), quest’anno sono stati coltivati non più di 4,1 milioni di ettari contro i 6,1 milioni di prima della guerra. La mietitura è in corso e si concluderà entro metà settembre: come risultato della minore area coltivata non supererà gli 18,5 milioni di tonnellate, il 10% meno dell’anno scorso che già era stato un disastro. Compresi gli altri prodotti (orzo, avena, mais, girasole) il raccolto quest’anno si fermerà a 47,8 milioni di tonnellate, il 12% in meno dell’anno scorso, già pesantemente compromesso. Ai tempi d’oro, neanche tanto lontani, la produzione fra cereali e semi oleosi, raggiungeva anche i 100 milioni di tonnellate.

Secondo le stime della Fao, considerando anche i 500mila ettari persi per l’inondazione derivante dall’esplosione alla diga Nova Kakhovka il 6 giugno, il 36% della popolazione ucraina è in stato di indigenza. «L’operazione più complicata e urgente è lo sminamento di tutti i terreni», conferma Vauthier, che con il suo staff

POLITICA IL CONFLITTO / 3
della Fao in zona di guerra racconta come si riesce a distribuire la produzione di cereali necessaria anche ai Paesi africani e asiatici dove maggiormente si soffre la fame
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colloquio con PIERRE VAUTHIER di EUGENIO OCCORSIO

di 250 tecnici ed esperti, fra agronomi e artificieri, lavora in collaborazione con l’esercito di Kiev e la Fondation Suisse de Déminage, una società specializzata. «La prima necessità è un’accurata mappatura dei terreni. Alla Fao abbiamo una sperimentata competenza nell’interpretazione delle mappe satellitari: in questo caso oltre alle caratteristiche di fertilità del terreno, alla presenza di risorse idriche, alla rilevazione di eventuali insidie geologiche, verifichiamo l’esistenza di mine nascoste».

CAMION

A Krasne (Ucraina) il grano viene caricato per poi essere trasportato via terra con i camion e i treni

In questi mesi si è sviluppato tutto un sistema di export, certamente più costoso però più sicuro, che ha portato il 60% dell’export ucraino a raggiungere i mercati via terra: con i camion, le ferrovie, e poi le chiatte sul Danubio. Una volta giunto in Europa, viene smistato verso i Paesi africani e asiatici che più ne hanno bisogno con l’aiuto di un’altra agenzia dell’Onu, il World Food Program, che cura la distribuzione gratuita in tutte le zone in cui ce n’è un disperato bisogno: Egitto, Libano, Sudan, Somalia, Afghanistan e tanti altri Paesi che dipendono dal grano ucraino per il 50-60% del loro fabbisogno. A finanziare il tutto sono l’Onu, i donatori privati ma soprattutto l’Unione Europea, che ha già contribuito con più di un miliardo alle operazioni.

«La via naturale, che va ripristinata al più presto, rimane quella del Mar Nero, attraverso i porti di Odessa e Mykolayiv», puntualizza Vauthier. Oltretutto questa via alternativa conosce, oltre al costante pericolo di sabotaggio russo, anche insidie impreviste: la Polonia ha chiesto a Bruxelles di bloccare il passaggio del grano sul suo territorio perché, a sentire il governo presieduto da Mateusz Morawiecki, si creava una concorrenza sleale verso i produttori nazionali. E anche la Bulgaria cominciava a fare eccezioni. C’è voluta tutta la capacità negoziale della Commissio-

ne di Bruxelles, con l’interessamento diretto della presidente Ursula von der Leyen, per convincere Varsavia che quel grano è solo in transito e non sarà mai venduto in territorio polacco. L’Ue ha perfino garantito alla Polonia degli indennizzi in caso di violazione delle regole. «Tutto è più complicato perché l’Ucraina non è ancora membro Ue», azzarda Vauthier, che puntualizza di non voler entrare in questioni politiche, tantomeno l’eventualità (remota) di negoziati di pace. «Io sono qui solo per aiutare la gente a continuare a credere che ci sia un futuro, e questo non potrà che passare attraverso le loro coltivazioni». Sotto le bombe russe, non è un compito facile.

Foto: Anatolii Stepanov / Fao
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Valico Italia le vie di transito dei migranti

BIANCA SENATORE

appena trascorsa un’altra notte movimentata al rifugio Fraternità Massi di Oulx e si prospetta ancora un’altra giornata di arrivi e partenze. Da mesi, ormai, il via vai di migranti in questi ultimi 30 chilometri che separano l’Italia dalla Francia è intenso ed è cresciuto di settimana in settimana. A luglio, secondo i dati raccolti dall’attivista Rita Moschella di On Borders, si è registrato un +34% rispetto a giugno. Ogni notte arrivano almeno in 90 tra uomini donne e bambini e i flussi aumentano man mano che aumentano gli sbarchi in Sicilia e Calabria. «Solo nel mese di luglio al Rifugio Fraternità Massi sono passate 1079 persone: 51 famiglie, 88 minori non accompagnati. Le cifre sono tutte per difetto. Più volte si sono superate le cento presenze giornaliere nello shelter italiano e le duecento in quello francese», racconta Piero Gorza, presidente di On Borders, antropologo, sociologo e volontario a Oulx. Al rifugio tra le montagne arrivano quotidianamente molte donne in stato di gravidanza avanzata o con bambini che sono nati a seguito di stupri subiti lungo il viaggio, in Libia ma anche in Tunisia, quello che per l’Italia ora è un Paese sicuro. E poi ci sono tanti, tantissimi ragazzi minorenni, con alle spalle provenienze diverse, storie differenti eppure legate da un minimo comune denominatore: la violenza e l’umiliazione subite. «Nell’ultimo periodo sono cambiate le composizioni dei flussi», spiegano dal rifugio. «Ci sono più subsahariani e maghrebini e meno iraniani, afghani e curdi come capitava fino a un anno fa. E abbiamo visto che le oscillazioni delle presenze a Oulx sono coerenti con

i dati offerti dal cruscotto statistico giornaliero del Ministero». Se a Lampedusa sbarcano più ivoriani e guineiani camerunensi o nigeriani, quasi certamente a Oulx arriveranno maggiormente persone di questa nazionalità.

Dopo una notte di ristoro e conforto, all’alba i ragazzi sono pronti a partire per salire in montagna e scavallare il confine. Alla fermata dell’autobus, davanti la stazione di Oulx in questi giorni c’è stata molta folla. Molti sono rimasti a terra, aspettando la prossima corsa. «S’il vous plaît, s’il vous plaît», urlano i ragazzi agli autisti pregandoli di farli salire, ma poi ci sono anche i turisti in questi giorni di ferie che vanno su a passeggiare tra i sentieri. E così, le esperienze si mescolano, si intrecciano le strade di polvere e pietrisco. Con il cambiamento dei flussi, al rifugio non è più l’inglese la lingua principale. «Inoltre – spiegano – anche le destinazioni finali sono cambiate». Non sono più tanto Germania e Nord Europa, bensì la Francia. «Spesso le persone

POLITICA LE FRONTIERE / 1
rischiano la
Francia,
confine sloveno il punto
arrivo della rotta balcanica di chi passa dal nostro Paese diretto in Germania e Austria
A Nord Ovest
vita per raggiungere la
al
di
È
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una vera propria caccia all’uomo, accanendosi con i più vulnerabili e obbligando le persone ad inerpicarsi lungo sentieri pericolosi. A pagare il costo di queste politiche demagogiche sono i più deboli tra i deboli».

pensano a una nazione più che a una città non tanto per la presenza di parenti o conoscenti, quanto per l’affinità linguistica e culturale. Per esempio, le famiglie con figli valutano la similarità dei sistemi scolatici francesi a quelli esistenti nei Paesi d’origine».

Tanta più gente prova a superare la montagna, tanto più crescono i rischi, soprattutto se i migranti non hanno familiarità con l’ambiente d’altura e i climi rigidi. Fa caldo in queste settimane di agosto ma la mattina o la sera a 2.500 metri ci sono ugualmente pochi gradi. E poi c’è la Gendarmerie National che controlla i confini. Forse è per sfuggire a loro che il ventenne della Guinea è morto a inizio agosto tra Claviere e Briançon.

«La sospensione di Schengen da parte della Francia al confine italiano dal 2015, ancora anacronisticamente vigente, continua a mietere vittime», denuncia l’associazione On Borders. «Di giorno e di notte la Police Aux Frontières (Paf) mette in atto

TRASFERIMENTI

Migranti in coda per salire sull’autobus che li porta da Claviere a Oulx, in Val Susa, per cercare di passare in Francia

Da Nord Ovest a Nord Est. Anche la frontiera tra Slovenia e Italia nelle ultime settimane è molto affollata. Più di un centinaio di persone ogni sera arrivano nella piazza antistante la stazione di Trieste dove Lorena Fornasir e la sua associazione continuano a curare i piedi ai ragazzi che arrivano dalla rotta balcanica. In centinaia dormono nei silos abbandonati del porto, tra lamiere e rifiuti. Almeno finché sarà possibile farlo, dal momento che la cooperativa proprietaria delle strutture ha presentato denuncia per invasione di edificio e ha promesso che presto sigillerà gli ingressi. E poi c’è Gorizia, dove ogni sera alla stazione un gruppo di volontari assiste chi arriva per riposare e poi proseguire. «Abbiamo notato un aumento delle presenze, ma i numeri sono parziali e inferiori alla realtà», spiega Francesca, una delle volontarie: «Solo nei primi dieci giorni di agosto abbiamo assistito 118 persone di cui 3 donne e 13 minori. Questo però, solo nella fascia tra le 22 e mezzanotte, quando ci sono volontari in stazione». Alla frontiera del Nord Est la composizione dei flussi non è cambiata tantissimo. La rotta balcanica, infatti, è ancora la via principale per afghani, pakistani e iraniani. Ma negli ultimi tempi è diventata rotta preferenziale anche per migranti del Marocco, dell’Algeria, della Sierra Leone, del Burundi, del Bangladesh, dell’India e del Nepal. Per tutti coloro, insomma, che preferiscono camminare per giorni e giorni piuttosto che rischiare la vita in mare. «Il 60% di chi arriva in Italia dalla rotta balcanica va via – spiegano da Gorizia – prosegue via treno per Milano per poi raggiungere la Germania o l’Austria». La presenza di migranti alle frontiere italiane del Nord potrebbe aumentare ancora nei prossimi mesi, man mano che il governo trasferirà migranti in hub provvisori non idonei alla permanenza. Man mano che coloro che hanno la protezione internazionale o sono in attesa di averla verranno cacciati via dai centri di accoglienza. Le politiche migratorie del governo generano caos e della propaganda elettorale non è rimasto nulla. Ma qui non è una sorpresa.

Foto: V. Ferraro / Anadolu Agency via Getty Images
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Milizie “nere” al confine Usa

è un’invasione al confine tra Messico e Stati Uniti, non solo di famiglie di migranti in cerca di una vita migliore, ma anche di criminali e di trafficanti di droga e di esseri umani. Questa guerra dura 365 giorni all’anno», dichiara Paul Flores, leader di una controversa milizia antigovernativa conosciuta come Veterans on patrol (Vop), fondata da Michael “Lewis Arthur” Meyer e operante a sud di Tucson, nell’Arizona meridionale. Il quartier generale dei Vop, situato in una modesta roulotte nel mezzo del deserto a Three Points, a circa 50 chilometri dal confine messicano, è avvolto dall’ideologia cospirazionista di QAnon e attira estremisti di destra convinti che «l’invasione» sia orchestrata dall’amministrazione Biden

Paul Flores critica la gestione della sicurezza al confine proprio da parte dell’amministrazione Biden, confrontandola con gli sforzi dell’ex presidente Trump. «Trump stava cercando attivamente di controllare le nostre frontiere, ma il suo successore democratico non sta facendo assolutamente nulla», afferma Flores mentre lo accompagniamo in una «missione» di ricognizione sulle tracce dei migranti che cercano di attraversare illegalmente il deserto di Sonora per entrare negli Stati Uniti. Mentre ci avventuriamo a piedi tra sentieri disseminati di cactus e tane di serpenti a sonagli, osserviamo le camere di tracciamento dei Vop nascoste tra i cespugli. «Queste camere formano ciò che io chiamo il muro elettronico del combattente. Ogni volta che qualcuno passa, ricevo un avviso e in quindici secondi posso informare la Border Patrol (la polizia di frontiera) che arriva per intercettarli», spiega Flores.

Recentemente, il rapporto tra i Vop e la Border Patrol è stato oggetto di dibattito all’interno del Comitato investigativo della Camera dei rappresentanti. Durante un incontro, la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez ha chiesto chiarimenti

Inneggiano a

al capo della Border Patrol del settore di Tucson, John Modlin, riguardo contatti avvenuti tra alcuni agenti con membri dei Vop: «Se qualcuno segnala attività sospette al confine, rispondiamo prontamente, e alcune di queste segnalazioni provengono anche da gruppi di vigilantes», ha dichiarato Modlin.

La questione dei rapporti tra la Border Patrol e i vigilantes è una vicenda lunga e controversa. Tuttavia, è a partire dall’elezione di Trump nel 2016 che gruppi di volontari hanno ricominciato a sorvegliare il confine meridionale, riportando il problema alla ribalta.

Finanziata attraverso i social media e il canale Telegram “Vop Borderwarsaz”, che conta oltre ottomila iscritti, l’attività dei Vop si basa sulle donazioni dei sostenitori preoccupati della situazione al confine. Flores spiega: «La nostra missione è finanziata dai sostenitori, che credono che i media mainstream non dicano la verità. È il loro modo di contribuire a risolvere il problema, sapendo che io mostrerò loro cose che i media tradizionali non sveleranno mai».

La propaganda dei Vop diffonde immagini di migranti catturate dalle loro camere di tracciamento, di donne con bambini che raggiungono il confine con l’aiuto dei trafficanti. Lo stesso Flores svuota davanti a noi contenitori d’acqua destinati ai migranti che

POLITICA LE FRONTIERE / 2
C’
Trump, dicono di difendere l’identità americana contro quella che chiamano l’invasione dal Messico. Sono i Vop: un videoracconto ne svela storia e attività
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ANTONELLO SAVOCA e DAVIDE RINALDI

IL DOCUMENTARIO

“Borderline” di Antonello Savoca e Davide

Rinaldi andrà in onda

il 28 agosto in seconda serata su Rai

3 all’interno del programma Il Fattore Umano

attraversano il deserto. Quando gli facciamo presente che quell’acqua potrebbe salvare delle vite, Flores replica che le sue camere non hanno mai registrato bambini o donne che la bevono, sostenendo che è utilizzata solo dai trafficanti. Il deserto di Sonora, da tempo, rappresenta uno dei passaggi più rischiosi per coloro che cercano di entrare illegalmente negli Stati Uniti. Da metà degli anni ’90, il numero di morti nel deserto è costantemente aumentato, soprattutto dopo l’implementazione della strategia nota come «prevenzione attraverso la deterrenza», avviata durante l’amministrazione Clinton. Questa politica, che ha portato alla stretta sorveglianza delle aree ad alto traffico del confine tra Messico e Stati Uniti, ha costretto la migrazione illegale in zone ancora più ostili e pericolose, dove i migranti rischiano letteralmente la vita e circa 4.000 persone sono morte negli ultimi vent’anni, secondo i dati dell’ufficio di medicina legale di Tucson.

Non tutti restano indifferenti a ciò che accade al confine. Tra coloro che cercano di aiutare i migranti c’è Human Border. A capo di questa organizzazione c’è Dora Rodriguez, un’avvocatessa per i diritti umani originaria di El Salvador che ha attraversato il deserto di Sonora nel 1980, in fuga dalla guerra civile. Abbandonata dai contrabbandieri, ha conosciuto la morte da

vicino, così come tanti altri migranti che hanno tentato questo percorso. L’azione di Human Border consiste principalmente nel collocare bidoni di acqua nel deserto, nella speranza di prevenire le morti legate alla disidratazione, una delle principali cause di decesso.

«I nostri bidoni vengono distrutti dai membri di Vop, che vanno in giro armati come se stessero andando in guerra», afferma Rodriguez, sostenendo che la situazione è peggiorata dopo la vittoria di Trump nel 2016, poiché i sostenitori del tycoon americano si sono sentiti legittimati a compiere azioni di violenza.

Non è un caso, infatti, che Paul Flores fosse presente il 6 gennaio del 2021 durante l’assalto al Campidoglio: «È stato uno dei momenti più significativi della mia vita. Purtroppo, non credo che il governo abbia prestato attenzione a quell’evento. E probabilmente il 6 gennaio si ripeterà in un prossimo futuro». La base del Make America great again è pronta a sostenere Trump anche nel 2024.

Foto: G. Bul –Ap / La Presse
27 agosto 2023 67

Meno contanti meno rapine

Irruzioni fallite, arresti, magri bottini. In banca o dal benzinaio, per i rapinatori è sempre più facile trovarsi davanti a una cassa mezza vuota e con gli agenti alle calcagna. Esempi? A fine luglio un uomo che ha rapinato una banca a Brescia è fuggito con appena quattromila euro, mentre a Torino una donna è stata arrestata durante la rapina all’ufficio postale. Pochi giorni prima, a Firenze, un giovane è stato fermato in una sala bingo mentre cercava di rapinare i clienti. A giugno, a Roma, un uomo ha rapinato quattro farmacie per poche centinaia di euro, prima di essere arrestato.

Secondo i dati diffusi dal Viminale a metà agosto, nei primi sette mesi del 2023 le rapine sono state 15.846, ovvero 867 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+3,8%). Ma i numeri non devono ingannare: se si guardano i dati dell’ultimo decennio, il trend è chiarissimo. Le oltre 42 mila rapine del 2012 sono scese a 22 mila nel 2021, anno che ha visto crescere gli episodi del 10,5% rispetto a un 2020 falsato dai lockdown

Ma anche con il rimbalzo, per alcune tipologie è continuata la discesa. L’anno scorso le rapine in banca sono diminuite del 26,9%, quelle ai benzinai del 26,1 e alle poste del 16,1. I dati sono del “Rapporto intersettoriale sulla criminalità predatoria 2022”, realizzato da Abi e dipartimento della Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno. «Il numero di reati – si legge –è quasi dimezzato rispetto al picco del 2013 con oltre 43 mila casi». Più della metà delle rapine avviene per strada; seguono quelle nei negozi grandi, nelle abitazioni e in altre attività economiche. Nei primi sei mesi del 2022 le rapine sono cresciute del 31,8% rispetto al 2021, ma si paragona il ritorno

alla normalità con un periodo segnato ancora dalla pandemia. Tra il 2022 e il 2019, il numero resta infatti «sostanzialmente in linea».

In un contesto generale di diminuzione dei reati (nel 2023 sono scesi del 5,4% rispetto al 2022), le rapine sono calate in ogni settore: banche, poste, benzinai, farmacie, tabaccai, negozi. In banca, si è passati da 1.242 nel 2012 a 87 nel 2021, quando in sette regioni non c’è stato nemmeno un episodio. «Le misure di sicurezza sono aumentate», spiega Marco Iaconis, coordinatore di Ossif, il Centro di ricerca dell’Abi sulla Sicurezza anticrimine che ha curato il report: «Ci sono sistemi di controllo all’ingresso, telecamere che registrano immagini anche all’esterno e personale formato per gestire l’ipotetica emergenza. La presenza della cassaforte temporizzata ha limitato molto la quantità di denaro immediatamente disponibile».

I pregi di una società cashless si vedono in Danimarca, dove nel 2022 non ci sono state rapine negli istituti di credito. Il Paese ha 5,8 milioni di abitanti, più della metà della Lombardia che, però, con 20 rapine è stata la regione italiana con le banche più prese di mira. In Campania, Sicilia e Lazio, invece, avviene la maggior parte delle rapine agli uffici postali: i 104 episodi del 2021 sono il picco più basso degli ultimi dieci anni (-80%). Anche nel caso delle poste, «la progressiva riduzione del contante» è al primo posto tra le strategie di prevenzione indicate da Ossif. Il bottino medio delle rapine in banca è di 50 mila euro e in posta di 22

POLITICA CRIMINALITÀ
Nell’ultimo decennio i colpi si sono quasi dimezzati. Dalle banche alle poste, dai benzinai ai tabaccai, i pagamenti digitali disincentivano i malviventi. Più a rischio le farmacie
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MASSIMILIANO SALVO

mila. Ma sono alcuni colpi eclatanti a farlo salire, visto che una rapina su tre fallisce.

Un colpo fallito in un ufficio postale del Bresciano

«I rapinatori sono spesso persone in difficoltà economica che non puntano a grandi cifre», spiega il generale dei carabinieri in pensione Alberto Tersigni. Si capisce perché il rischio maggiore si corra nella distribuzione organizzata (supermercati, franchising), dove il bottino medio è di duemila euro. «I rapinatori professionisti bilanciano la probabilità di finire in carcere con quella di ottenere guadagni importanti», aggiunge Emiliano Mandrone, primo ricercatore dell’Istituto nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche: «Infatti, chi gestisce grandi quantità di denaro, come i supermercati, cerca di ridurre il contante in cassa, con prelievi frequenti e pagamenti digitali». Grazie a questi, si è passati da 222 miliardi di euro di transazioni nel 2017 a 331 miliardi nel 2021, secondo l’Osservatorio Innovative Payments del Politecnico di Milano. Mario Antonelli, presidente della Federazione italiana Tabaccai, ripete alla categoria che «il contante non conviene, se si considerano il tempo per versarlo, le assicurazioni per furti o rapine e i rischi. È vero, però, che, vendendo prodotti con scarso margine di guadagno, ridurre le commissioni è la strada per aumentare i pagamenti digitali».

Comunque, le tabaccherie sono il settore meno a rischio: 0,3 rapine ogni 100 negozi rispetto allo 0,7 di

dieci anni fa (dal record di 460 rapine nel 2013 alle 160 del 2021). Al contrario, tra gli esercizi più presi di mira ci sono quelli della distribuzione organizzata (scesa, in ogni caso, da 18 a 3,2 rapine su 100 punti vendita) e le farmacie (con 2,3 rapine al posto di 7).«Sono vittime di rapinatori improvvisati, hanno poche misure di sicurezza e clienti anziani che preferiscono il contante», spiega Bruno Foresti, responsabile dell’ufficio legale di Federfarma.

Così, nel 2017, i distributori di carburante hanno lanciato il piano “Zero contanti”. Nel 2016, il 60% del loro incasso era in contanti, nei primi sei mesi del 2022 lo era per il 42%. «Circa 7 miliardi si sono trasformati in pagamenti tracciati, riducendo l’illegalità e il rischio potenziale di rapine e furti», dice il rapporto 2022 di Unione Energie per la Mobilità. Le rapine, infatti, sono scese da 2,5 ogni 100 distributori nel 2012 a 0,7 nel 2021. Un calo del 75%: il più alto dopo banche e poste. A colpire i benzinai sono malviventi sprovveduti, soprattutto nelle feste natalizie e d’estate: «Quando servono soldi per le vacanze – spiegano gli investigatori – il distributore, nell’immaginario comune, rimane un luogo dove trovarne facilmente».

Foto: A.
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Campanelli
Lapresse
ASSALTO MANCATO
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Fondi al lumicino, nessuna programmazione, personale e centri insufficienti.

Al palo le cure domiciliari: crescono solo le Rsa, spesso inadeguate a gestire i pazienti

Alzheimer l’assistenza è solo per pochi

necessario e irrinunciabile gestire la demenza, definita dall’Oms una priorità di salute pubblica». Così nell’accordo del 30 ottobre 2014 tra governo e Regioni sul Pnd (Piano nazionale demenze). In Italia si contano 2 milioni di persone con demenza e 3 milioni che se ne prendono cura, per un costo stimato tra 16 e 18 miliardi di euro l’anno. Con la legge di Bilancio del 2020, il governo Conte ha stanziato 15 milioni per investimenti relativi al triennio 2021-2023. Dei 15 milioni, 900 mila sono stati destinati all’Iss, i restanti 14 milioni e 100 mila sono stati destinati alle 20 Regioni italiane che, con meno di 5 milioni di euro l’anno da dividersi tra loro, non hanno potuto concretizzare ciò che il governo suggeriva: migliorare la vita delle persone con demenza, creare una rete di servizi integrati, ridurre lo stigma, formare i medici di base.

Molto è rimasto sulla carta, mentre accade ciò che racconta Pietro Sangiorgio, presidente dell’associazione Asa (Associazione Alzheimer Salute Architettura), che raccoglie la disperazione di tanti. Come Luca, della provincia di Taranto, costretto a lasciare moglie e figli per andare a vivere dalla madre con l’Alzheimer. Una convivenza impossibile per l’irrequietezza senza controllo della signora, di fronte alla quale il medico di base faceva spallucce. Luca ha dovuto optare per un ricovero in una delle Rsa vicine. L’attesa si è protratta e dopo anni ha trovato posto in una struttura di Matera: quaranta chilometri

LA TERAPIA

Un anziano durante la terapia che prevede l’utilizzo di una bambola per stimolare l’affettività e l’accudimento

da casa a fronte di un costo di 3.000 euro mensili di retta. Una cifra che Luca non poteva permettersi. Per questo è stato costretto a ricoverare la madre in una residenza tra Potenza e Salerno, convenzionata con il sistema sanitario, che dista però 200 chilometri da casa.

Il suo è uno dei tanti casi che si ripetono un po’ in tutta Italia, che, a eccezione di poche Regioni virtuose, non ha centri per i disturbi cognitivi e demenze (Cdcd) sufficienti rispetto alla domanda. Sono 540 in tutto il Paese e vi lavorano in media 5 professionisti, per un totale di 2.568, dei quali il 14% non strutturato (fonte Iss).

La carenza di organico spiega perché un quarto dei Cdcd è aperto una volta a settimana, mentre i tempi di attesa per una diagnosi si allungano. E perché l’assistenza domiciliare, più appropriata per i casi di demenza, nella maggior parte del territorio, è ridotta a una media di un’ora al mese.

Così i servizi lentamente chiudono a danno della prevenzione e i soldi stanziati sono spesi per far crescere solo le Rsa, non tutte adatte alla gestione di questi pazienti. Per Nicola Vanacore, responsabile dell’osservatorio nazionale per le demenze dell’Iss, è mancata una programmazione.

Sia nel 2010 sia nel 2011 lo Stato aveva stanziato 20 milioni di euro, «oggi – dice Vanacore – non si sa se il Piano sarà rifinanziato».

Se i servizi funzionassero, si eviterebbero ricoveri e relativi costi inutili, si risparmierebbe per potere reinvestire nelle cure per le demenze. Invece bisogna ingegnarsi ottimizzando l’esistente come fa già l’Emilia-Romagna, che ha rimodulato le Rsa ora deputate non solo ai ricoveri ma anche ai servizi assenti sul territorio.

Foto: Xxxxxxxx xxxxxxxx POLITICA SPESE SOCIALI
È
70 27 agosto 2023
ROBERTA GRIMA

Negli anni – compreso questo tempo, in cui la tensione verso una massima trasparenza finisce talora per fare di quest’ultima un feticcio, dagli accenti un po’ parossistici e caricaturali – il «segreto», ovvero «ciò che non si deve sapere», è invecchiato bene. Anzi, sarebbe forse più corretto (e più onesto) dire che, in un certo senso, se ci possiamo permettere tutta questa trasparenza (che è forma di libertà), lo dobbiamo al «segreto».

In età moderna, alcune «società segrete» (come allora venivano chiamate) ispirate da amor di Patria hanno – è il caso anche del nostro Risorgimento – dapprima

Quando il segreto fa rima con libertà E trasparenza

alimentato la resistenza contro tirannidi straniere e, poi, avuto un ruolo primario nel loro abbattimento. Rendendoci più liberi.

In età contemporanea, lo spazio del «segreto» è venuto acquisendo progressiva centralità, in particolare nel mondo del diritto, tanto ai fini della tutela della privacy delle persone, quanto nella forma di quello che si usa chiamare «segreto industriale». Anche in tal caso, l’effetto è stato quello di ampliare il nostro spazio di libertà.

Per non dire del segreto epistolare. Quello dei comuni cittadini e quello di chi svolge funzioni elettive, a tutela del loro esercizio libero da condizionamenti.

Ancora, meritano di essere ricordati il segreto professionale e quello confessionale. A tutela di interessi che trascendono certamente quelli del singolo profes-

Professionale, industriale, di Stato. Tutela interessi della democrazia. Che non deve temere la discovery

sionista o del singolo sacerdote. Infine, c’è il cosiddetto segreto di Stato. La forma più controversa e più sfuggente, che periodicamente fa vibrare le corde della polemica politica, attenendo – per usare le parole della nostra Corte costituzionale – al «supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale».

As usual, il tema non è se nei singoli casi ne sia stato fatto l’uso concreto migliore possibile (stragismo e attentati, rapimenti in centro città, crisi internazionali, ecc.), ma se un Paese possa stare, in punto di principio, senza segreto di Stato. E la risposta, anche in Occidente, è no.

Il segreto è, in fondo, lo spazio intermedio che sta fra la sua apposizione, da un lato, e la desecretazione, dall’altro lato. Questo secondo atto non è meno importante del primo: il suo senso ultimo sta, a ben vedere, nel gesto sovrano di democrazie mature, che non temono la discovery e offrono parte di sé (e quindi s’offrono, esponendosi) al giudizio critico della Storia. Nel modo appropriato, e cioè a distanza di anni, in modo che quel giudizio possa risentire meno possibile di passioni, emozioni e pulsioni dei diretti protagonisti dei fatti (e dei loro amici e nemici). Un modello, questo, che oggi sfida le fondamenta stesse delle sottoculture snobisticamente votatesi alla cancellazione delle pagine di Storia unilateralmente giudicate – con metro illogicamente asincrono, contemporaneo, orientato più spesso secondo convenienza – «non allineate» a certi odierni paradigmi (più o meno dichiaratamente, di parte).

Forse la parola e ciò che essa significa piacciono poco ai fautori di un certo neopuritanesimo linguistico, asservito a dati stilemi moralistici, ma ce ne faremo una ragione. Dove e quando serve, meglio con «segreto» che senza.

L’OPINIONE
27 agosto 2023 71

Le parole delle hit sono nate al volante

colloquio con GIULIO RAPETTI MOGOL di ANTONIA MATARRESE

Il nome d’arte, Mogol, è preso in prestito dal capo delle Giovani Marmotte: un tipo audace, con il terrore del volo. Forse per questo il quartier generale che Giulio Rapetti Mogol ha creato una trentina d’anni fa si raggiunge solo attraverso una strada abbastanza malconcia, dove le gallerie non sono di cemento, bensì di fronde verdeggianti. Siamo in Umbria, a Toscolano, borgo arroccato intorno a un castello duecentesco che diede i natali a un certo fra’ Faostino, predicatore che arrivò in Israele e ne raccontò usi e costumi nel libro “Itinerario di Terra Santa”.

E, in effetti, un’aria di sacralità si respira nella Tenuta dei Ciclamini, incastonata fra centoventi ettari di bosco, uliveti, orti, frutteti biologici, con una chiesetta perfettamente restaurata e molti dipinti di santi rivisitati in chiave moderna.

Polo blu e pantaloni in tinta, la faccia abbronzata di chi pratica sport, occhi verdi vivaci e curiosi della vita, l’autore di circa duemila brani che hanno fatto la storia della musica italiana e internazionale («Ovviamente non posso ricordarmeli tutti e ogni tanto vado a controllare alla Siae») è terzo nella classifica mondiale, con 523 milioni di dischi venduti, dopo i Beatles ed Elvis Presley. «Il primo testo che ho scritto? Si chiamava “Mama Guitar” ed era ispirato all’omonimo film. Guadagnai cinquemila lire per due ore di lavoro. Da lì non mi sono più fermato».

Milanese purosangue come papà Mariano e mamma Marina («Quando sono nato, avevano rispettivamente 24 e 21 anni»), classe 1936, due mogli, una compagna, svariate donne amate, quattro figli e sette nipoti («C’è anche Giulia, che si chiama come me»), Mogol ha vissuto intensamente gli anni del Dopoguerra: «Durante il conflitto ero molto piccolo, ma ricordo in maniera nitida l’incubo

È l’autore di duemila

brani che hanno fatto la storia della musica italiana e internazionale.

Portati poi al successo da interpreti come Lucio Battisti. Vita da Mogol, ex bambino scalmanato

dei bombardamenti, da sfollati nelle cantine di Carugo, Brianza comasca. Per scacciare la paura giocavo con un cannone di legno, mentre la gente intorno pregava e piangeva. Sono nato in via Clericetti, poco prima del ponte di Lambrate: una via di frontiera, l’ultima della città, la prima della campagna. Crescevo fra palazzi e campi di grano, non lontano dalla ferrovia. Dare calci a un pallone mi è sempre piaciuto. I golfini come porta e via. Ero un bambino iperattivo: una volta a settimana mia madre mi portava in centro e mi vestiva per bene. Non faceva in tempo a prepararmi che mi ero già sporcato. A scuola, poi, un vero disastro. Risultato? Fui bocciato agli esami di quinta elementare perché, secondo la maestra, ero andato fuori tema. Bisognava descrivere le città del Duemila e io misi nero su bianco che avremmo avuto grattacieli come casa e ci saremmo spostati solo su pattini a rotelle. Una bella immaginazione. Che però mi fruttò un pessimo voto».

I DIALOGHI DE L’ESPRESSO
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illustrazione di IVAN CANU

Con un diploma da ragioniere in tasca (ma ha avuto una laurea ad honorem dall’Università di Palermo), a 18 anni Mogol entra in Ricordi. «Papà era un impiegato della casa discografica e, con lungimiranza, propose ai suoi capi di aprire la sezione pop, Radio Record Ricordi. Gli diedero una scrivania, un telefono e un milione di lire. Costruì un business: in dieci anni i guadagni superarono quelli della musica classica. E scoprì interpreti del calibro di Luigi Tenco, Gino Paoli, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi. Nel frattempo, io facevo il computer umano: conteggiavo gli incassi delle canzoni e studiavo i grandi compositori dell’epoca come Carlo Donida Labati (che musicò, fra le altre, “La compagnia”, portata al successo nel corso degli anni da Marisa Sannia, Lucio Battisti, Mina e Vasco Rossi, ndr). In quel periodo fui spedito in Inghilterra per imparare la lingua, mi ospitava un’anziana coppia. Ero incline allo scherzo e ricordo che m’improvvisavo accompagnatore di tutti gli studenti italiani che arrivavano a Londra, senza mai rivelare la mia identità». Un legame, quello fra Mogol e Londra, che è andato avanti nel tempo. «David Bowie mi chiese di scrivere in italiano la sua “Space Oddity” (1969), che diventò “Ragazzo solo, ragazza sola”. Nessuna somiglianza col testo originale. Bernardo Bertolucci l’ha usata per il suo film “Io e te” (2012). Più complicato il rapporto professionale con Bob Dylan: stavo lavorando al brano “Mr. Jones” (titolo originale: “Ballad of a Thin Man”, ndr) e mi convocò al Mayfair Hotel, dove c’era il suo quartier generale. Fui accolto da due giovani che iniziarono a riprendermi con una cinepresa dicendomi che Bob aveva deciso di filmare tutta la sua vita. Iniziai a spazientirmi, avevo solo voglia di andarmene. Ma la collaborazione continuò».

Non si può raccontare il Mogol-pensiero senza parlare del lungo sodalizio artistico con Battisti, che, dal 29 settembre al 1° ottobre prossimi, sarà ricordato a Milano con una manifestazione dal titolo “Quel gran genio”, a 25 anni dalla sua scomparsa. «A presentarci fu Christine Leroux, discografica

francese che lavorava per l’etichetta Les Copains. Il primo approccio non mi convinse. Ci rincontrammo dopo qualche giorno. All’inizio abbiamo composto brani per altri interpreti, da I Ribelli ai Dik Dik fino all’Equipe 84 di Maurizio Vandelli. Sul finire degli anni Sessanta esplode il successo di “29 settembre”, cronaca di un tradimento (“E ancora prima di capire mi trovai sottobraccio a lei. Stretto come se non ci fosse che lei”). Un tradimento che passerà alla storia».

Nel 1969, Mogol con il papà Mariano, Alessandro Colombini, Carlo Donida e, successivamente, lo stesso Battisti fondano la casa discografica Numero Uno. L’addetta stampa e promozione era Mara Maionchi. Come sono nate le canzoni da hit parade? «Molti dei miei testi si materializzano mentre guido. “E penso a te” (1970, inizialmente interpretata da Lauzi, quindi da Battisti e poi da Mina, ndr) è stata scritta su una 600, nel tragitto Milano-Como. Lucio suonava la chi-

I DIALOGHI DE L’ESPRESSO 74 27 agosto 2023
Dalle collaborazioni con Bowie e Dylan all’etichetta Numero Uno. Canzoni ideate in auto ed entrate nell’immaginario collettivo. Ora, nella sua tenuta umbra, si gode il contatto con la natura

tarra. Poi Mario Lavezzi ha aggiunto i cori. Stessa cosa per “Emozioni”. Più di recente, un brano come “L’arcobaleno” (“Mi manchi tanto amico caro, davvero. E tante cose son rimaste da dire. Ascolta sempre e solo musica vera e cerca sempre se puoi di capire”), scritto per Adriano Celentano su musiche di Gianni Bella, l’ho dettato in macchina». E mostra la foto sul cellulare di un enorme arcobaleno che abbraccia il cielo sulle rigogliose colline umbre.

Mentre le note si sprigionano nell’aria profumata di erba appena tagliata, sopraggiunge l’amico milanese Lavezzi, musicista pop con cui ha realizzato l’ultimo disco dal titolo “Capolavori nascosti”. «È una raccolta di canzoni a quattro mani che racchiude alcune perle come “Per la gloria”, interpretata da Gianni Bella, Riccardo Cocciante, Mango, Raf e dallo stesso Lavezzi, o “Giorni leggeri”, in cui si alternano Lucio Dalla, Cocciante e Lavezzi, scritta nel periodo in cui cercavo un posto adatto dove costruire il Cet (Centro Europeo di Toscolano, dove si sono formati tanti giovani artisti, ndr). Ho girato per un anno intero, tre giorni a setti-

UN’ESISTENZA PIENA DI PASSIONI

Giulio Rapetti, in arte Mogol, è nato a Milano nel 1936. Qui è con la sua attuale moglie, Daniela Gimmelli. A sinistra è con il compositore, cantautore e produttore discografico Mario Lavezzi; proprio con l’amico ha realizzato l’ultimo disco “Capolavori nascosti”

mana, fra Umbria, Toscana e Abruzzo. E infine mi sono fermato qui».

Ma l’anima di Mogol non si estrinseca solo nei testi e nei motivi che tutti hanno cantato almeno una volta nella vita («La musica nasce prima delle parole. Poi le parole entrano nella musica»). Ha maturato anche un lato green: «Vivere a contatto con la natura non ha prezzo. Solo così si possono reintegrare le difese dell’organismo che inevitabilmente diminuiscono con l’avanzare dell’età. Da tempo sto lavorando a un libro, “La Rinascita”, che mira a promuovere la cultura della salute, del benessere fisico e mentale. Mi piacerebbe essere ricordato anche per questo». Grazie al calcio, il maestro ha raccolto oltre cento milioni di euro con la Nazionale Cantanti («Da ragazzo tifavo per il Milan, oggi per tutte le nostre squadre che giocano all’estero») di cui è stato animatore fin dagli anni Ottanta con Gianni Morandi. E la passione per i cavalli gli ha permesso di incontrare l’attuale moglie, Daniela Gimmelli. «Eravamo nella pineta della Feniglia, in Toscana. Nel 2006 abbiamo percorso insieme il tragitto Roma-Milano attraverso gli Appennini. Ho macinato chilometri a cavallo. Ma anche in sella alla mia Yamaha Virago blu e al volante delle due Volvo».

Automobili che ora guida il fidato collaboratore Adelio. Fra un concerto-conferenza in giro per l’Italia, nell’ambito del progetto “Mi ritorni in mente: le canzoni di Battisti-Mogol”, tratto da un’idea del direttore d’orchestra Angelo Valori, e una puntatina a Roma, dove ricopre l’incarico (a titolo gratuito) di consigliere per la cultura pop su nomina del ministro Gennaro Sangiuliano («Come prima cosa, chiederò il riconoscimento giuridico della figura professionale dell’autore. Non abbiamo neppure una cassa previdenziale»), il maestro guarda al futuro. Dall’alto de “La collina dei ciliegi” e delle sue 87 primavere: «Ne “I giardini di marzo” scrivevo “l’universo trova spazio dentro me, ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”. Adesso il coraggio di vivere c’è, eccome. Arriva quando non hai più paura di morire».

Foto: A.
Gimmelli, M. Cherubino
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LA FARFALLA IMPAZZITA NEI CIELI DEL DRAGONE

I contraccolpi

della crisi cinese giungono fino a noi. Eravamo abituati a soffrire gli effetti del liberismo, ma oggi sono le instabilità di quel capitalismo di Stato a investire in pieno la nostra economia

PROGETTO

I palazzi del progetto Legend of Sea nella città di Ningbo, sviluppato da Jiangsu Zhongnan Construction e da Country Garden, uno dei grandi gruppi cinesi in crisi

ECONOMIA FINANZA GLOBALE
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ECONOMIA FINANZA GLOBALE

Un battito d’ali di farfalla a Tokyo può far crollare la Borsa di New York. Ripetevamo a pappagallo questa formula, mutuata dall’ecosistema e applicata alla finanza, alludendo all’interconnessione stretta di un sistema capitalistico che includeva soltanto i Paesi liberali a democrazia matura o in via di consolidamento, il Nordamerica, l’Europa e laggiù nel Sol Levante, soltanto il Giappone, incluso dopo Hiroshima e la guerra persa.

DESERTO

Il grande centro commerciale di Pechino

Evergrande City Plaza, deserto nei giorni della crisi del colosso immobiliare

Tocca ora, a dimostrazione di come sia cambiato il mondo, sostituire Tokyo con Pechino e trattenere il fiato per la crisi cinese, la crisi del modello opposto al liberismo cioè il capitalismo di Stato, valutare il possibile contagio peraltro nelle dimensioni non ancora così chiaro nemmeno agli analisti più esperti. E tuttavia, già ora, già qui, si può considerare che la farfalla impazzita nei cieli del Dragone sta producendo, se non un uragano, almeno un forte temporale ad esempio sulla Borsa di Milano, nel suo agosto nero segnato dai nove miliardi di capitalizzazione persi per la decisione del governo Meloni di tassare gli extraprofitti delle banche. Da destinare, secondo proclama, ai poveri e vedremo se sarà così, intanto ha prodotto il salasso nei risparmi del sempiterno parco buoi di Piazza Affari, il ceto medio.

La Cina è pioggia sul bagnato, non inaspettata ma non per questo meno dannosa. È l’ennesimo effetto negativo della globalizzazione sregolata, salutata ai suoi esordi, dopo la caduta del Muro di Berlino e la promessa di un nuovo ordine di prosperità e progresso, come una panacea, il benessere diffuso antidoto dei conflitti, la scomparsa del nemico, soprattutto l’Unione Sovietica. Circolava uno slogan venduto come un dato reale e immutabile: «Non si sono mai fatti la guerra due Paesi in cui c’è un McDonald’s». Abbiamo imparato poi che ai negozi si possono cambiare le insegne.

Restava l’incognita della Cina dell’immoto potere del comitato centrale. E la Cina si adeguò a modo suo suscitando

semmai qualche preoccupazione di carattere ecologista quando il suo sviluppo si fece impetuoso: «Cosa succederà se un miliardo e passa di cinesi vorranno avere il frigorifero?». Un miliardo di emissioni capaci di allargare il buco dell’ozono! E quanto gas serra avrebbero prodotto un miliardo in più di automobili? Ma erano declassificate a quisquilie, egoismi di ricchi che il pianeta lo avevano già dilapidato, davanti all’enorme mercato che si apriva per il nostro export. E, all’opposto, ai vantaggi per il consumatore della merce a basso costo, una t-shirt a dieci euro, vuoi mettere?

C’era quel dettaglio dello sfruttamento dei lavoratori, della totale mancanza di diritti. Si sarebbe risolto, si diceva, nel giro di un paio di generazioni, perché la storia delle rivoluzioni industriali era lì a spiegare che, a mano a mano si produce più ric-

Ci si illudeva che il colosso orientale fosse addomesticato. E si sacrificavano anche i diritti, convinti che il mercato avrebbe finito per sostenerli. Ma la guerra ha cambiato ogni prospettiva
GIGI RIVA 78 27 agosto 2023

chezza, nascono le rivendicazioni sindacali e presto il dumping sociale sarebbe stato colmato. Il tempo si è peritato di dimostrare che non erano tutte rose.

L’offertadimandoperasuscalamondiale, che eccedeva di gran lunga la domanda, andava a tutto discapito dei salariati per una legge basilare dell’economia. Dunque, se i cinesi hanno fatto qualche piccolo passo sui diritti, nell’Occidente largamente inteso si sono perse di gran carriera le conquiste costate anni di dure lotte, mentre la delocalizzazione delle aziende provocava una preoccupante deindustrializzazione, tanto da indurre, ad esempio gli Stati Uniti di Barack Obama, perciò bollato come “socialista”, a sussidiare i grandi gruppi purché non se ne andassero dove il costo del lavoro era più basso. La Cina era entrata nel Wto, l’organizzazione mondiale del commercio (anno

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2001, quello del crollo delle Torri Gemelle), comprava quote crescenti del debito pubblico americano, fino a toccare più del 25 per cento del totale ora ridotto della metà, era il gigante addomesticato nel nome del profitto e anche la stampella su cui si appoggiava la crescita complessiva. E la Russia, il Paese degli oligarchi, senza ambizioni egemoniche in politica estera, coltivava persino l’idea di entrate nella Nato. Fino a Vladimir Putin e al nuovo dualismo del mondo tra democrazie e dittature, di nuovo la guerra, l’Ucraina e le tensioni per Taiwan, la cartina di tornasole del fatto che i comuni interessi non producono la pace.

A dispetto del risorgere delle inimicizie, resta l’economia intrecciata, la farfalla di Pechino che sbatte le ali è il colosso dell’immobiliare Evergrande (Marcello Lippi ai bei tempi dell’espansione senza limiti fu allenatore vincente della sua squadra di calcio), con un debito di 340 miliardi di dollari, che ha presentato a New York istanza di protezione dal fallimento. Ha almeno altre due farfalle che annaspano accanto. Country Garden, maggior costruttore privato di case, non ha pagato per tempo le cedole su alcune obbligazioni collocate all’estero e si teme per il suo debito da 200 miliardi di dollari. Infine Zhongzhi International, uno dei trust più importanti non ha effettuato i pagamenti di circa trenta prodotti di gestione patrimoniale per i problemi di liquidità del suo azionista di controllo. Il coinvolgimento di attori finanziari evoca quanto successo nel 2008 con il fallimento della banca Lehman Brothers, sommersa dai mutui subprime concessi alle famiglie e impossibili da esigere.

I paragoni sono ovviamente tutti zoppi, ma le analogie sono evidenti. Tanto da chiederci adesso: messi sulla bilancia i costi e i benefici, è stato conveniente o no aggregare la Cina sul carro del mercato? Un dato è certo: quest’ultima crisi allarga la schiera dei perdenti della globalizzazione.

Foto pagine 76-77: Q. Shen –Bloomberg / GettyImages, pagine 78-79: Bloomberg –GettyImages
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ECONOMIA EXTRAPROFITTI

Un gran pasticcio di Giorgia Meloni la tassa alle banche

Sbagliato fare un decreto. Che è stato anche scritto in fretta e male. Il provvedimento finirà quasi certamente davanti alla Corte

Costituzionale.

certamente plausibile che la Corte Costituzionale venga alla fine chiamata a pronunciarsi sul decreto che tassa gli extraprofitti delle banche. Va verificato il rispetto dei principi di straordinaria necessità e urgenza, di uguaglianza, di proporzionalità alla capacità contributiva, di ragionevolezza. Ciò detto, il decreto è mal formulato, mal scritto e peggio comunicato, e ha costretto il governo a una duplice marcia indietro sul quantum della tassa». Giovanni Maria Flick, classe 1940, piemontese di Ciriè, già ministro della Giustizia nel primo governo Prodi, poi per nove anni giudice della Corte Costituzionale e infine presidente della Consulta, ha seguito per tutta l’estate con la curiosità e l’esperienza del giurista la complicata questione della tassa sugli “extra-profitti” delle banche. «Vorrei ricordare che, prima di adire la Consulta, deve essere provocato un processo con un ricorso al giudice ordinario sull’applicazione del decreto se, quando e come sarà convertito in legge. Sarà il giudice a valutare se effettivamente investire la Corte Costituzionale della questione».

Parla un ex presidente della Consulta

Insomma, il governo si è infilato in un vespaio…

«Al di là del merito, aggiungiamo che il presidente Sergio Mattarella si era espresso con chiarezza contro i provvedimenti omnibus e invece stavolta si è inzeppato il decreto del 7 agosto con misure contro i piromani, sulle licenze ai taxi, sulla disciplina delle intercettazioni e dei trojan, e così via fino quasi incidentalmente alla tassa sulle banche. Capisco lo scon-

certo e anche l’irritazione degli interessati, anche se di decreti omnibus è piena la storia patria, come quando si inserì in un decreto per finanziare le Olimpiadi invernali di Torino l’equiparazione fra consumo di droghe pesanti e leggere, una questione che evidentemente avrebbe avuto bisogno di una ben maggiore discussione e approfondimento». Quindi un eventuale ricorso alla Cortequale sembra stiano preparando le banche che pure avevano avuto una reazione molto più “soft” all’inizio - avrebbe possibilità di successo?

«Non ho detto questo, naturalmente non posso prevedere cosa in quel caso deciderà la Corte. Posso solo dire, sulla base della mia esperienza, che prima di emanare un provvedimento del genere occorreva una consultazione ampia e ragionata, invece sembra quasi un atto d’impulso. La stessa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accen-

È
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colloquio con GIOVANNI MARIA FLICK di EUGENIO OCCORSIO

tuato la tensione confermando nell’intervista di metà estate che l’iniziativa era sua e soltanto sua, al punto che non aveva informato neppure il vice premier Antonio Tajani. Un uomo solo al comando - o una donna - non è mai una buona notizia per la democrazia».

Quindi Tajani protesta a buon titolo, non solo perché - come si insinua - verrebbe colpita Mediolanum, la bancadi Mediaset?

«Perfino Giancarlo Giorgetti, ministro dell’Economia, era stato tenuto all’oscuro per “ragioni di tempo”, tanto che non si è nemmeno presentato alla conferenza stampa di presentazione del decreto. Scusi, con i tassisti o i balneari sono anni che si discute, perché le banche dovrebbero accettare senza batter ciglio una misura del genere?»

Ma le soluzioni proposte nel mese di agosto?

«L’unico testo nero su bianco è il decreto

pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. L’idea che è emersa di trasformare la tassa in un credito forzoso introduce ulteriore confusione, perché credito e tasse hanno caratteri molto diversi. Confonderli aumenta il tasso di ambiguità. Ci piacca o no la politica può permettersi incoerenze che la finanza non ha».

Riaffiora un’antica questione: le banche sono un servizio pubblico o un’impresa privata?

«Su questo ho un’esperienza personale. Prima ancora di diventare ministro e poi giudice costituzionale, fui chiamato come avvocato di una grande banca a intervenire in una controversia che ruotava proprio intorno alla natura delle banche e alla possibile incriminazione per peculato dei dipendenti infedeli. Riuscii a dimostrare che le banche sono imprese, certo usano del denaro ma “del pubblico” non “pubblico”, quindi

Sopra: la “torre” della Banca Centrale Europea a Francoforte

Foto: G. Nicoloro –Agf, Oed –ullstein bild / GettyImages
GIUDICE DELLE LEGGI Giovanni Maria Flick, ex presidente della Corte Costituzionale.
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ECONOMIA EXTRAPROFITTI

non sono “servizi pubblici”. I depositanti sono sempre liberi di usare come vogliono i loro soldi. E per chi ha commesso irregolarità bisogna andare a cercare altri reati nel codice penale, che non mancano. Persino le casse di risparmio sono state tutte privatizzate, secondo la linea europea».

Tornando agli extra-profitti, tassarli pur con ragionevolezza è così ingiusto?

«Probabilmente no. Il problema è sempre come identificali e calcolarli. Peraltro non è impossibile: oggi con gli algoritmi si fa tutto, possibile che non si trovi un algoritmo ad hoc? È una questione di opportunità per tutti: per le banche che non dovevano tendere troppo la corda, per il governo che non doveva intervenire a gamba tesa. Sembra che sia in arrivo anche l’ennesima reprimenda della Bce per l’instabilità che questo decreto ha creato: soprattutto perché pare che il governo intenda destinare alla fiscalità generale i proventi della tassa, mentre una misura del genere in altri Paesi è destinata correttamente a qualche fondo di stabilità del sistema bancario».

Potrebbero esserci altri problemi con Bruxelles o Francoforte?

«Al momento non mi sembra di intravvedere altri profili di illegittimità a livello di sistema europeo. Né mi sembra che la Commissione Europea si sia finora pronunciata. I problemi semmai potrebbero essere interni: vedo il rischio che in un modo o nell’altro le banche possano cercare di rivalersi del costo scaricandolo sui clienti».

La ragionevolezza è un richiamo costituzionale, insomma. Ma quali articoli della Carta entrano in discussione nella vicenda delle tasse sugli “extra-profitti”?

«Diversi. L’articolo 2 richiama ai doveri inderogabili per tutti “di solidarietà politica, economica e sociale”. L’articolo 55 dice che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributi-

RISPARMI

Il “caveau” di una banca. Se gli istituti di credito riversassero sui clienti il costo della tassa extra, sarebbero i risparmi a soffrire

va” e più oltre che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. L’articolo 77 limita la possibilità di emanare decreti ai “casi straordinari di necessità e di urgenza”. Come vede, su ognuno si può argomentare ed è quello che farà la Consulta».

Ma non c’è una questione generale di uguaglianza? Le banche dicono: perché noi sì e, mettiamo, le società di gestione del risparmio no?

«È una questione ancora più delicata, che investe la natura stessa del servizio bancario. Si può prendere la discussione da tanti lati. Senza dimenticare che le banche qualche errore l’hanno fatto, lasciando proseguire per mesi una situazione di effettiva e abnorme disparità fra tassi attivi e passivi mentre montava la protesta popolare. Potevano a loro volta comunicare con maggior chiarezza le loro ragioni, intervenire per esempio con rigore a favore di chi ha un mutuo a tasso variabile, e non dare sempre e solo tutte le colpe alla Bce e all’inflazione. D’altronde il rimprovero di Francoforte, se effettivamente ci sarà, rischierebbe di apparire una replica alle accuse della presidente del Consiglio sugli aumenti dei tassi».

Del resto, l’inflazione, e con essa la speculazione, la subiscono tutti. Perché allora non colpire i produttori di pasta, o l’ortolano che ha raddoppiato i prezzi chiaramen-

Al di là delle perplessità giuridiche, sarebbe stata necessaria un’ampia discussione prima di decidere. Avere rivendicato poi l’atto di imperio non aiuta a risolvere le complicazioni
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te andando al di là del lecito?

«Beh, non evochiamo situazioni improbabili, che provocherebbero tumulti di piazza. L’inflazione è la tassa dei poveri, purtroppo, e tutti i superprofitti sono iniqui, e le speculazioni esecrabili. Ma colpirli è complesso e si rischia sempre di uscire dal perimetro della finanza e del diritto per approdare a quello della morale se proviamo a definire genericamente un profitto ingiusto». La Consulta peraltro è stata già investita della questione della “Robin tax” di Giulio Tremonti, che era qualcosa di simile. Come finì?

«LaCorte“assolse”nel2015latassainsé,che come ricorderete consisteva in un aumento dell’aliquota Ires a carico delle imprese dei settori energetici che avessero conseguito fatturati e redditi superiori a determinate soglie. Il problema fu che, istituita in seguito a un boom del petrolio del 2008, poi la supertassa stava diventando permanente. Su quest’ultimo punto la Corte emise un parere negativo e fermò tutto. Peraltro, in queste settimane la Consulta sta discutendo ancora un altro ricorso, promosso proprio dalle aziende energetiche sempre per gli extraprofitti presi di mira dai governi Conte e Draghi. Anche in questo caso, la questione è delicata e complessa: per le banche rischia di esserlo ancora di più».

Affari vostri Il digitale è materia per giovani donne

Profumo di Malvasia Rosa. Si chiama Nicla, è la società del banchiere Alessandro Profumo e della moglie Sabina Ratti. Nel cda c’è il figlio Marco e il patrimonio vanta il 90 per cento di Mossi Aziende Agricole Vitivinicole, cantina che produce vini tipici piacentini. Alla guida dei vitigni ci sono Marco Profumo, appunto, e Silvia Mandini che si dedicano, tra l’altro, alla Malvasia Rosa, «mutazione genetica spontanea della Malvasia di Candia aromatica». Tutto in quel di Ziano Piacentino, luogo amato da chi scappa da Milano.

A Bologna temono il freddo. Mentre tutta l’Italia soffre per il cocente caldo estivo, a Bologna ci si premunisce contro gli effetti negativi del freddo. L’aeroporto “Guglielmo Marconi”, scalo del capoluogo dell’Emilia-Romagna, infatti, ha appaltato il «servizio di sgombero neve» a Cata (Cooperativa argilese trasporti e affini) per la cifra di 1,178 milioni di euro. Il criterio di aggiudicazione è stato quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa «sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo».

Fineco cerca studentesse. Se a Lucio Battisti dieci ragazze potevano bastare, Fineco Asset Management ha voluto venti studentesse per il suo tech camp dedicato all’Ia e alla Data Science. In quel di Volterra, presso la Scuola internazionale di Alta Formazione, cinque giorni di corsi, laboratori e divertimento per le ragazze selezionate in tutta Italia che hanno concluso il quarto anno di liceo. Il camp si è concluso con la realizzazione di cinque progetti a cura delle studentesse, che si sono messe alla prova con le nozioni imparate durante la settimana in ambito hard skill (machine learning, face detection, text to speech) e soft skill (team working, public speaking, problem solving). A sostenere il progetto fin dalla sua creazione, Fineco Am, Daxo Group e l’Associazione Donne 4.0 impegnata nel combattere il digital gender gap. Senza dimenticare l’Università degli Studi di Siena, le cui docenti hanno accompagnato il percorso di formazione. Per Fabio Melisso, ceo Fineco Am, «iniziative come questa hanno il pregio di stimolare la transizione verso una società più equa. Coinvolgere e appassionare le studentesse verso le materie Stem è fondamentale per accelerare l’innovazione».

Foto: Imagenavi –GettyImages
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ECONOMIA MOBILITÀ SOSTENIBILE

Prezzi alti e autonomia l’auto elettrica va piano

Staccò i cavalli dalla carrozza, mettendo al loro posto una rudimentale batteria. Scozia, 1831. Robert Anderson oggi ha una pagina Wikipedia di nemmeno tre righe. Ma il futuro dell’auto mondiale comincia proprio dal fiasco di quell’oscuro ingegnere. La sua carrozza, in effetti la prima auto elettrica della storia, non era molto pratica: andava avanti, sì, ma la batteria non si poteva ricaricare. Eppure quello non fu il bacio della morte per quel tipo di motore. Pare che in America, nel 1900, circolasse il doppio di veicoli elettrici rispetto al numero di vetture a benzina - certo, con batterie migliori di quella progettata da Anderson. L’elettrico però aveva i giorni contati. La produzione di massa della Ford Model T, l’espansione dell’industria petrolifera e l’abbassamento dei prezzi sancirono la vittoria del motore endotermico in Europa e Stati Uniti. Così il Novecento è stato il secolo di bielle e pistoni. Il secolo della crescita, del benessere, ma anche dell’accumulo di gas serra nell’atmosfera, alla base dell’attuale riscaldamento globale e del cambiamento climatico.

I trasporti generano circa il 20% del totale dei gas serra nel mondo e i veicoli stradali ben più della metà di questa quota. Ed è così che l’auto elettrica, a zero emissioni, ha potuto prendersi la sua rivincita.

La svolta è cominciata nel 2003 con la nascita di Tesla, la casa automobilistica di Elon Musk. Oggi siamo nel pieno di questa rivoluzione. Pensate che dieci anni fa le auto elettriche e ibride realizzavano solo lo 0,2% delle vendite di auto nuove nel mondo. La loro quota è salita al 13% nel 2022, e continuerà a crescere. Anche le stime più prudenti indicano che nel 2040 circa tre quarti (il 75%) delle vendite di macchine nuove in tutto il mondo saranno completamente elettriche. Dunque la strada è segnata: Asia, America ed Europa si muovono nella stessa direzione. Le case automobilistiche e la filiera delle componenti hanno investito e inve-

stiranno nella transizione elettrica 1.160 miliardi di dollari entro il 2030. Una cifra impressionante, ed è anche per questo – grazie a innovazioni ed economie di scala –che i prezzi stanno scendendo, anche se restano alti rispetto alle controparti a benzina e diesel.

Poi c’è la spinta dei governi. La Cina vuole che entro il 2035 tutte le nuove auto vendute sul proprio mercato siano elettriche, ibride oppure a idrogeno. Anche il presidente americano Joe Biden ha proposto limiti più rigorosi, il più stringente dei quali prevede che entro il 2032 circa due terzi delle nuove macchine vendute siano alimentate da batterie. In questa corsa si inserisce l’Europa che fra tutti si pone gli obiettivi più ambiziosi. Il Consiglio europeo dei ministri dell’Energia ha fissato per il 2035 il divieto di immatricolare auto e veicoli leggeri inquinanti, aprendo la strada alla mobilità completamente elettrica.

Una fuga in avanti considerata da molti eccessiva. L’Europa, fra poco più di dieci anni, sarebbe in effetti l’unico continente a bloccare la vendita di nuove macchine con motori endotermici. Roberto Vavassori, presidente dell’Anfia, l’associazione della filiera automobilistica italiana, dice che il passaggio all’elettrico è necessario ma con un’obiezione di fondo: «In Europa ci stiamo chiudendo in un cul-de-sac abbastanza inspiegabile. Perché

In Italia appena quattro nuovi mezzi su 100. Pesano i costi. Gli investimenti sulle colonnine premiano il Nord Europa. Nel nostro Paese la rete è adeguata. Ma solo con questi numeri
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TOMMASO CARBONI

non abbiamo vantaggi competitivi manifesti, non abbiamo tecnologie molto superiori ad America e Cina nell’elettrico». Una parte dell’industria automobilistica chiede alle istituzioni europee di rispettare la neutralità tecnologica, il principio secondo cui conta l’obiettivo (ridurre le emissioni di gas serra), non il modo in cui lo raggiungi. Chi spinge su questa strada sostiene che esistano carburanti alternativi a bassissime emissioni. La Germania ha strappato una deroga per continuare a vendere in Europa auto alimentate da e-fuels, i carburanti sintetici basati sull’idrogeno anche oltre il 2035. Fa pressione anche l’Italia, che cerca di sfruttare l’apertura per accreditare i biocarburanti, per ora rimasti fuori. Il punto fondamentale è che queste soluzioni allungherebbero la vita del motore endotermico. E una transizione un po’ più lunga potrebbe anche essere meno traumatica, sostengono in molti. Tanto più che l’Europa produce attorno al 7% dei gas serra globali, e il trasporto stradale europeo meno di un quarto di questa quota, quindi più o meno l’1,5% delle emissioni di CO2 nel mondo. Secondo Vavassori, anche se tutto il comparto europeo dell’auto si convertisse all’elettrico, con le attuali fonti di energia le emissioni si ridurrebbero del-

RICICLO

Uno stabilimento per il riciclaggio delle batterie dei veicoli elettrici in un'officina di Paersen Environmental Technology a Weinan, nella provincia cinese dello Shaanxi

la metà. Per il pianeta quindi un calo quasi irrilevante. Mentre per la filiera italiana la transizione energetica avrà certamente un impatto.

Secondo l’Anfia, ci sono circa 450 aziende e 70mila lavoratori che saranno toccati dal cambiamento. I rischi però non sono affatto uguali per tutti. Nel passaggio all’elettrico il 60-65% delle componenti di un veicolo non subisce modifiche importanti, spiega Vavassori. Del resto la macchina elettrica è sempre una macchina: il pianale, le sospensioni, i freni, le ruote, gli interni e molte altre parti non cambiano. Il passaggio invece è molto più critico per tutti quei settori legati al motore endotermico. Una parte di dipendenti, magari più in là con gli anni, andrà effettivamente aiutata anche con scivoli e prepensionamenti.

Il punto è capire di quante persone si tratti. «Dipende da come accettiamo a livello europeo il concetto di neutralità tec-

Foto: VCG / Getty Images
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nologica. Come ci sappiamo aprire ai carburanti alternativi, gli e-fuel cari alla Germania, ma anche i biofuel usati già abbastanza in nord Europa nelle flotte di trasporto pesante», continua Vavassori. «Oggi carburanti bio e sintetici sono molto costosi. Ma sono tecnologie ancora agli inizi. Bisogna investire e fare ricerca. Perché se c’è una strada per l’Europa per ricominciare a essere leader nella mobilità è soprattutto con ricerca e sviluppo in carburanti e combustibili alternativi, e anche in chimica alternativa delle batterie per essere meno dipendenti dalle materie prime cinesi».

È un dato di fatto che case sportive come Ferrari e Porsche vogliano fortemente la benzina sintetica. Tuttavia, per diversi analisti gli e-fuel e i biofuel non sono la panacea. Costosi e ancora difficili da produrre su larga scala: secondo una stima della Federazione europea per i trasporti e l’ambiente, la disponibilità di e-fuel in Europa sarà così limitata che nel 2035 potrà alimentare non più del 2% dei veicoli in circolazione. Se così fosse, per la filiera italiana la strada migliore sarà quella di attrezzarsi per prosperare in un futuro dominato dall’elettrico. E la transizione, se ben accompagnata, potrebbe portare anche a un aumento del numero di occupati nel settore dell’auto che negli ultimi 20 anni ha perso in Italia più del 20% dei posti di lavoro. Secondo una ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e di Motus-e, l’associazione di industriali, filiera automotive e mondo ac-

cademico che vuole accelerare la mobilità elettrica, il passaggio alle macchine a batterie potrebbe far guadagnare all’Italia più di 15mila posti di lavoro entro il 2030. Questo perché, secondo Motus-e, i tre quarti degli occupati nella filiera dell’auto non producono componenti legate esclusivamente al motore endotermico. Dunque, una crescita pure marginale delle attività connesse all’elettrificazione (pezzi per le batterie, inverter, elettronica di potenza) potrebbe compensare anche un dimezzamento di posti nelle parti più a rischio delle auto tradizionali. Per il 2030, l’obiettivo sarebbe portare sulle nostre strade circa quattro milioni di veicoli elettrici. Dai numeri dell’ultimo semestre, emerge che l’elettrico sta crescendo bene in Europa, dove ha preso il 15% del mercato, ma la diffusione è molto più lenta in Italia, dove le nuove immatricolazioni elettriche hanno una quota di meno del 4% del totale (in tutto il parco circolante elettrico italiano, secondo Motus-e, è di 200mila macchine). La strada quindi è lunga, servono incentivi, ma soprattutto i prezzi devono scendere: le auto a batteria, non a caso, stanno avendo più successo in Nord Europa, mercati più ricchi. L’altro ostacolo, citatoda tutti gli analisti del settore, sono le colonnine di ricarica. I governi cominciano a rendersene conto. Come verranno ricaricate tutte le auto elettriche? Oggi l’Unione Europea ha predisposto circa mezzo milione di punti di ricarica: un numero scarso, a detta degli esperti, e le strutture sono anche distribuite in modo piuttosto diseguale. Fino al 2030, secondo Acea, l’associazione europea dei costruttori auto, dovrebbero essere installati 14mila punti di ricarica pubblici a settimana, ma il numero oggi è fermo a duemila. Sono concentrati in Olanda, che ha più di 100mila punti, Francia (circa 83mila) e Germania (82 mila). Ma anche l’Italia non è messa male: stando alle ricerche di Motus-e, ha più di 45mila punti di ricarica pubblici e 400mila privati. Più che sufficienti, per le (ancora) poche auto elettriche in circolazione.

Foto: C. Archive/Getty Images
ECONOMIA MOBILITÀ SOSTENIBILE
Mentre con i biocarburanti
l’industria difende quote di motori endotermici, dalle emissioni zero si stima un recupero occupazionale di 15 mila posti
L’INDUSTRIA
86 27 agosto 2023
La Ford model T, il mezzo che ha aperto la strada alla mobilità di massa e alla produzione industriale

Giungla aeroporti Come farsi valere contro i disservizi

GIAMPIERO MONCADA

Quello dell’aeroporto di Catania, costretto a tre settimane di chiusura per un banale incendio è solo il più clamoroso evento che ha provocato cancellazioni, ritardi e dirottamenti su altri scali. Ma dall’inizio dell’estate, sono praticamente quotidiani i disservizi che i passeggeri aerei di tutt’Italia subiscono per le ragioni più varie.

Solo nei primi sei mesi di quest’anno sono giunti all’Enac, Ente nazionale per l’aviazione civile, 3.500 tra reclami e segnalazioni. Erano tutti passeggeri che hanno dovuto rinunciare al proprio viaggio o rinviarlo. Lamentavano non solo il disservizio ma, soprattutto, di non avere ricevuto assistenza. Tanti altri, però, nemmeno sapevano che compagnie aeree e aeroporti hanno degli obblighi nei confronti del passeggero rimasto a terra per uno sciopero, un guasto tecnico o per il cosiddetto overbooking. E che in alcuni casi, oltre all’assistenza, devono anche un indennizzo. Tanto più che spesso le compagnie aeree fanno

in albergo, se il volo successivo parte l’indomani. Nell’assistenza è previsto anche il trasporto fino all’hotel e ritorno, se non lo si può raggiungere a piedi dall’aerostazione. Fin qui, l’assistenza dovuta sempre e comunque per ritardi e cancellazioni. In alcuni casi è previsto anche un risarcimento per il disagio subito quando i ritardi superano le tre ore. E qui la cosa si fa un po’ più complicata. La cifra può andare da 250 a 600 euro, a seconda di quanto è lungo il volo perso o in ritardo. Il risarcimento è dovuto anche per un bagaglio smarrito o ritrovato dopo diversi giorni.

orecchie da mercanti, per risparmiare qualche centinaio di euro. Questi obblighi sono previsti da una direttiva comunitaria (reg. 261/2004), quindi valida in tutta l’Ue.

Cosa si può fare se il volo ritarda o viene cancellato? Per un’attesa che si prolunga oltre le due ore, la compagnia deve fornire al passeggero pasti e snack e ospitarlo

La compagnia, però, non è tenuta al risarcimento se non è direttamente responsabile del ritardo. Per esempio, un guasto tecnico è responsabilità della compagnia. Per un vulcano che si risveglia di colpo, invece, la compagnia non ha alcuna responsabilità (quindi, niente risarcimento).

E questo può far nascere degli equivo-

ECONOMIA DIRITTI DEL CONSUMATORE
Assistenza dovuta e eventuali risarcimenti per cancellazioni e ritardi. Esistono i reclami, 3500 in sei mesi all’Enac, e poi le cause e anche un’autorità per la conciliazione delle controversie
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ci. Quando il vulcano islandese Eyjafjallajökull, nel 2010, bloccò i cieli di mezza Europa per diversi giorni, molti passeggeri si sono ritrovati a dovere pagare di tasca propria pasti e albergo perché alcune compagnie sostenevano che la cancellazione dei voli non fosse loro diretta responsabilità. In realtà, questo le esentava dai risarcimenti ma non dall’assistenza. Così, la sola Ryanair si è trovata a dover pagare una multa di 3 milioni di euro per non aver fornito pasti e alloggio a 178 suoi clienti.

Ma chi stabilisce queste multe? E a chi può rivolgersi un passeggero che non riesce a ottenere il rispetto dei suoi diritti? In Italia, l’autorità che vigila sul comportamento delle compagnie aeree è proprio l’Enac. La stessa che si occupa di pubblicare sul proprio sito, e di fare affiggere negli aeroporti, la Carta dei diritti del passeggero. L’autorità ha anche un numero verde, 800898121, che però serve solo ad avere informazioni. Se in

IN

ATTESA

Passeggeri in attesa ai gate dell’aeroporto di Bari

aeroporto viene negata l’assistenza dovuta, si può solo anticipare la somma, conservare lo scontrino e successivamente chiedere il rimborso alla compagnia aerea. Se anche così non si riesce a ottenere giustizia, rimane da portare la faccenda in tribunale. Ma si può fare ancora un tentativo: una conciliazione per risolvere la questione senza mettere in mezzo i giudici.

Questo servizio, tecnicamente definito Adr, Alternative dispute resolution, viene fornito da un’altra autorità, la Art, Autorità di regolazione dei trasporti. Si tratta dell’authority che, nata 10 anni fa, ha competenza su tutti i mezzi di trasporto (navi, autostrade, taxi) tranne gli aerei. Con l’eccezione dell’Adr, appunto. Basta andare sul suo sito alla pagina ConciliaWeb (www.autorita-trasporti.it/conciliaweb) e richiedere l’intervento dell’authority. Dopo, però, avere segnalato il disservizio all’Enac. Se la segnalazione si rivela fondata, l’ente interviene con delle sanzioni per dissuadere dal ripetere i soprusi a danno dei viaggiatori.

Bisogna sapere che se il volo è all’interno di un pacchetto vacanza, ci si può anche rivolgere al tour operator o all’agenzia di viaggi dove è stato acquistato.

Per alcune pratiche scorrette, entra in campo un’altra autorità: l’Agcm, Autorità garante della concorrenza e del mercato. È stata questa, per esempio, a multare tre compagnie low cost (Volotea, Easy Jet e la solita Ryanair) per avere negato i rimborsi dei voli cancellati in periodo Covid.

In aeroporto si possono subire tanti dis-

servizi. Magari meno frequenti ma anche più importanti, come il diritto per un disabile motorio di salire e scendere dall’aereo con le attrezzature adeguate. Inoltre, così come un minore, ha anche il diritto di sedere accanto al suo accompagnatore senza pagare alcun sovrapprezzo, che invece viene richiesto soprattutto dalle compagnie low cost.

E cosa si può fare se ci si trova in un altro Paese dell’Ue? Quello che si farebbe in Italia: ci si rivolge al vettore o all’aeroporto. Considerato che oggi si possono comprare online vacanze e voli da società di qualunque parte del mondo, è bene tenere presente che, nel caso si dovesse arrivare alle vie legali, l’Ue garantisce al consumatore il diritto di rivolgersi al tribunale della propria residenza.

Foto: D. Fasano / Getty Images
27 agosto 2023 89

Questa

Frolla

Microbiscottificio

Quando la solidarietà passa dalla pasticceria

MAURIZIO DI FAZIO

Due anni fa le è stato conferito, a Bruxelles, il «premio Cittadino europeo» per la sua volontà di offrire opportunità concrete di inclusione sociale e lavorativa. Frolla Microbiscottificio, infatti, è una realtà che vede protagoniste figure (anti)storicamente svantaggiate nel mercato del lavoro: 20 dei 27 assunti totali sono, infatti, ragazzi con disabilità. C’è chi soffre di patologie di natura mentale e chi è costretto su una sedia a rotelle dopo un incidente. L’età media è intorno ai 30 anni. Alcuni sono impiegati a tempo indeterminato, altri fruiscono di contratti di tirocinio specifici. Una famiglia allargata e sui generis messa in piedi, sotto forma di cooperativa sociale, da due marchigiani: Jacopo Corona (27 anni) e Gianluca Di Lorenzo (41). Uno aspirante pasticciere, l’altro operatore sociale. In principio ci fu un crowdfunding sul territorio: la risposta, l’entusiasmo della gente li convinse a coltivare il loro sogno. Nel corso del cammino, iniziato cinque anni or sono, Gianluca e Jacopo avrebbero poi incontrato e imbarcato nella sfida Silvia Spegne, mamma di un ragazzo diversamente abile.

Pare che i biscotti sfornati da questi operai-pasticceri speciali siano davvero buoni. E nonostante Frolla non sia un’industria vera e propria, ogni giorno vengono confezionati circa 150 sacchetti di dolcetti,

L’IMPRESA

Alcuni dei ragazzi impiegati da Frolla nel laboratorio dove si producono i biscotti, in provincia di Ancona

farciti di un supplemento d’impegno e passione. Vengono venduti parecchio in loco, a Roma e a Milano, oltre che online. Il quartier generale è a San Paterniano di Osimo, in provincia di Ancona. Di fianco al laboratorio, ha aperto il “Diversamente Bar”: qui i consumatori più assidui del Microbiscottificio, le famiglie con bambini, trascorrono mattinate in compagnia del team in un’atmosfera serena e giocosa. E non opprimenti sono i turni di lavoro, basati su rotazioni da quattro ore, dal martedì alla domenica. Una maniera progressiva e soft di professionalizzare i ragazzi, introducendoli ai segreti e ai trucchi del mestiere. Mentre il prodotto viene personalizzato: il tipo di vasetto, gli ingredienti, il colore dei nastri sono stabiliti assieme al cliente.

In parallelo, sfreccia sovente, specie d’estate, il “Frollabus”. L’idea sbocciò durante la pandemia per l’impossibilità di tenere alzate le serrande del bar. Il piccolo pulmino, acquistato nuovo tramite una raccolta fondi (da 30 mila euro), prese a girare per le strade e le piazze, le spiagge attrezzate, le fiere e i mercati della regione. Trasportando e servendo ai clienti la “Frolla-colazione in tour”. E a bordo c’erano e ci sono sempre rappresentanti del team. Non solo biscotti, comunque: Frolla offre pure bomboniere e ultimamente ha sposato il mondo leggendario della cioccolateria. Una mossa che ha consentito l’ingresso nell’organico di altri due ragazzi. Un ulteriore crowdfunding, in corso, sta gettando invece ponti con un’azienda che produce miele. Anche quest’ultima ha sede nelle Marche, segno di una solidarietà orizzontale diffusa. E se non bastasse è nato “Frolla Up”, il primo master dedicato a chi vuole fare impresa nel sociale. E poi il dialogo costante con il terzo settore, un gioco da tavola con Clementoni. Biscotti friabili per un futuro solido. E inclusivo.

L’ESPRESSO DOLCE INCLUSIONE
cooperativa sociale, nata nelle Marche, offre lavoro a giovani con disabilità. Oltre alla produzione di dolcetti, sono partiti progetti nuovi: dal pulmino per colazioni a domicilio al miele
90 27 agosto 2023

Il caldo minaccia la vendemmia. Ma il vero pericolo è il fungo che, con la pioggia intensa di maggio e giugno, ha attaccato le piante soprattutto al Centro-Sud. E fa calare la produzione di uva

Peronospora e clima La stagione da incubo dei vigneti italiani

ANTONIA MATARRESE

In questa estate torrida, le alte temperature stanno mettendo a dura prova la vendemmia ormai imminente. Ma il pericolo maggiore è rappresentato dalla peronospora, ovvero il fungo delle piante, che si diffonde con la pioggia e che ha attaccato soprattutto i vigneti del Centro e del Sud Italia.

«Questo fenomeno non è affatto nuovo per i viticoltori e si amplifica in presenza di determinate condizioni meteo. L’anomalia del 2023 è collegata al protrarsi della piovosità nei mesi di maggio e giugno, fasi critiche per il ciclo della vite, e alla difficoltà di intervenire sul campo proprio in ragione degli eventi atmosferici avversi», spiega Piero Mastroberardino, presidente di Mastroberardino società agricola srl, attiva in Irpinia da oltre due secoli, e vicepresidente di Federvini: «Negli anni precedenti abbiamo patito l’arrivo della grandine, in altri ancora le gelate. Tutto questo ci porta a gestire le nostre aziende con una visione temporale più ampia rispetto ad altri settori, puntando per esempio sulle giacenze dei vini in invecchiamento che, se fatte con criterio, permettono di generare valore aggiunto e compensare i danni derivanti da annate più difficili».

Quanto inciderà tutto questo sulla produzione di uva? «È sempre difficile fare previsioni, specie per noi in Irpinia, una terra montuosa le cui epoche di maturazione

I DANNI

sono assai tardive rispetto al resto d’Italia. Iniziamo a raccogliere le uve bianche, Fiano e Greco, nella prima metà di ottobre e andiamo avanti con le uve a bacca rossa come l’Aglianico fino alla prima decade di novembre. Speriamo che la natura ci sorprenda, come a volte capita, consegnandoci una vendemmia non del tutto negativa come quella annunciata: sul piano quantitativo è molto probabile che ci sia una riduzione delle rese». Secondo i dati dell’Osservatorio di Unione italiana Vini, in Abruzzo e Molise si stima un calo di produzione pari al 30-40 per cento sulle uve convenzionali, mentre si sale al 70-80 per cento per quanto riguarda le uve biologiche. Raccolti dimezzati in Basilicata e nel Nord della Puglia, mentre in Sicilia la peronospora è circoscritta soprattutto al Trapanese e l’incidenza è minore (10-15 per cento).

«Anche nelle nostre tenute abbiamo assistito alla comparsa della malattia e non in tutti i vigneti siamo riusciti a contenere i danni entro una soglia accettabile», sottolinea Alberto Tasca, ceo di Tasca D’Almerita (che ha da poco ottenuto il riconoscimento di Benefit Corporation) e dal 2020 presidente della Fondazione SOStain Sicilia, che promuove la viticoltura sostenibile nella regione per favorire la condivisione di buone pratiche. «È necessario incrementare la ricerca e la formazione scientifica dei tecnici per ottenere un’agricoltura sempre più green. Attualmente l’unica possibilità per i viticoltori di salvare il raccolto è ricorrere a sostanze di sintesi: queste molecole, seppur a basso impatto, richiedono comunque un attento dosaggio al fine di ridurre al minimo gli effetti sull’ambiente. Altro discorso è quello della vendemmia: grazie alle piogge della tarda primavera i terreni hanno ancora buone riserve idriche e la vite è in fase di crescita vegetativa, quindi il caldo non avrà grandi effetti negativi sulla qualità”.

Foto: Getty Images COLTURE L’ESPRESSO AMARO
Piante di vite attaccate dalla peronospora
27 agosto 2023 91

Ricerca e futuro Il duello Musk-Zuck che può convenirci

Da settimane è in corso la grande operazione di marketing multimediale concepita dalla coppia Elon Musk e Mark Zuckerberg che ha prodotto la maggiore quantità di lettori mai registrata su di una singolar tenzone a livello globale. Neppure eventi di reale contrapposizione atletica hanno mai raggiunto la popolarità dell’hashtag #muskzuck.

I due protagonisti hanno in realtà creato sulle loro visioni economiche, ma anche commerciali, veri e propri imperi finanziari e tecnologici e questa operazione appare come l’ennesima idea geniale. Poco cambia se l’abbiano concepita a tavolino oppure se sia il progressivo frutto di un’opportunità emersa per caso e colta al volo. Quel che è certo è che si tratta di una vicenda che rappresenta l’apice di una evoluzione di sistema che va osservata con grande attenzionee non liquidata semplicisticamente come una pagliacciata da basso impero. Tutto è cominciato con il guanto di sfida lanciato via Twitter (non ancora rinominato X) dal patron di Tesla all’omologo tycoon di Meta, che l’ha prontamente raccolto. I due hanno poi sapientemente scelto pseudo-allenatori, si sono fatti fotografare in singolari modalità di allenamento, fino a socializzare di averne parlato con la Ufc (la organizzazione di arti marziali miste statunitense) e persino con le autorità italiane per ospitare lo

scontro. Musk ha subito intuito la suggestione imperiale della città eterna, condita dal sito gladiatorio per eccellenza dell’Anfiteatro Flavio che è andato furbescamente a visitare. Peraltro a pochi mesi dal più atteso sequel della storia del cinema. Anche se l’ipotesi di lavoro è stata smentita dal ministro Gennaro Sangiuliano, l’ennesimo tassello pubblicitario era ormai stato efficacemente piazzato, con tanto di visita di cortesia istituzionale alla premier del Paese ospitante da parte di Musk, che poi ha “ixato” la possibilità di uno streaming crossmediale dell’evento in esclusiva.

Cerchiamo di capire cosa ci sia dietro tutto questo, viste le collaborazioni in corso tra le due piattaforme, seppure condotte sotto traccia. Alcuni blogger hanno condiviso, guarda caso nei primi di agosto, una nuova funzionalità che permette di inviare un post di Threads direttamente su X, utilizzando l’icona classica dei direct message (quella dell’aeroplanino) che nel frattempo è stata cambiata per Instagram, adottando l’icona di Messenger di Facebook. Intanto era già possibile condividere un Thread sui Dm di Instagram, come funzionalità abbinata, in modo da realizzare alla fine una copertura integra-

ECONOMIA
L’ERA TECNOLOGICA
Il marketing sulla disfida cela il legame tra i destini dei due. Il tema di confronto resta quello dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. E l’Italia ha tutto l’interesse a far parte del gioco
RIVALI ALLEATI Mark Zuckerberg, presidente e ad di Meta, e il presidente di X, Elon Musk
92 27 agosto 2023

le dei quattro social.

I due tycoon hanno capito, forse senza neppure bisogno di parlarne e usando degli sherpa-blogger, di dover dare un impulso straordinario alle due applicazioni in palese difficoltà. Le criticità di X derivanti dalla rivoluzione voluta da Musk con il conseguente crollo dei valori e della popolarità sono almeno pari alle difficoltà del nuovo prodotto di Zuckerberg che dopo il boom dei primi cinque giorni, con più di 100 milioni di iscritti, ha bruscamente invertito il trend. In perfetto stile schumpeteriano allora, non appena si è prospettato un flusso circolare stazionario del mercato, hanno pensato di romperlo rilanciando, con una apparente creazione distruttrice dell’avversario, diretta invece a una strategia unitaria: marciare divisi, o addirittura in apparente guerra, per colpire uniti lo «sciame degli imitatori» concorrenti.

Altro che Circo Barnum come è stato definito dai miopi. Il problema vero è che la figura dei circensi potrebbe farla l’Italia, usata per poche decine di milioni come teatro di una vicenda dagli utili miliardari, mentre la Ger-

mania, senza bisogno di curatores ludores, si è aggiudicata la prima Gigafactory di Musk con investimenti miliardari e oltre 11 mila lavoratori da occupare.

L’Italia deve stare al gioco e far uscire dall’angolo i due contendenti. E visto che hanno individuato nella culla della civiltà e della ricerca scientifica il campo della disfida seguano il modello rinascimentale. All’epoca erano infatti in voga non solo i duelli cavallereschi ma anche le disfide tra scienziati che ne ricalcavano i canoni. Un ricercatore inviava a un collega alcuni problemi che avrebbe dovuto risolvere e il destinatario faceva altrettanto.

L’Italia divenga il campo della sfida dei loro investimenti e delle loro idee sul tema più caldo per chi si occupa di innovazione: quello dell’intelligenza artificiale. Zuckerberg che è uno dei principali investitori e ha sviluppato il maggiordomo robot Jarvis, durante una conferenza su Facebook, ha deriso l’avversario che da anni mette in guardia contro le possibili derive di macchine di cui si potrebbe perdere il controllo. Interpellato via Twitter, Musk ha risposto di aver trattato il tema col quasi-amico Mark, ma che «le sue conoscenze in materia sono limitate». Nel frattempo ha contribuito a fondare OpenAI con l’obiettivo di indirizzare l’intelligenza artificiale verso finalità virtuose e sta lavorando a interfacce che permettano al cervello di comunicare con i computer. Ecco, facciamo dell’Italia la meta della moderna peregrinatio academica e l’incubatore della disfida #muskzuck del terzo millennio.

Foto: B. Zawrzel –NurPhoto / Getty Images
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Edufin 3.0, il corso di educazione finanziaria in pillole con Marco Montemagno, si sofferma sui servizi a disposizione degli investitori per proteggersi dai rischi del mercato

Così si costruisce un portafogli sicuro E soprattutto green

FEDERICO MORGANTINI

Edufin 3.0 è il progetto di educazione finanziaria con Marco Montemagno fortemente voluto da Gian Maria Mossa, ad di Banca Generali. Ogni settimana il divulgatore intervista un top manager della finanza. L’Espresso estrae mensilmente quattro pillole. Tutte le interviste sono reperibili in formato integrale su YouTube, mettendo nella barra di ricerca le parole «Montemagno» ed «Edufin3.0».

Corporate Advisory: di cosa si tratta

È la principale domanda che Montemagno ha posto a Maria Ameli, head of Non Financial Services di Banca Generali.

Il mondo della consulenza oggi adotta un approccio olistico, proponendo un servizio a 360 gradi e guardando anche alla componente non finanziaria del patrimonio. Ameli spiega come i servizi di Wealth Advisory, ad esempio Real Estate e Art Advisory, rispondano all’esigenza di mettere a disposizione della clientela una gamma completa di prodotti e servizi, aventi come oggetto tutti gli asset che compongono il patrimonio. Questo, in coerenza con la filosofia di valorizzazione, protezione e trasmissione della ricchezza globale del cliente.

Regole per le criptovalute

Nel panorama finanziario contemporaneo, le criptovalute hanno suscitato grande interesse e, di conseguenza, anche il regola-

L’INTERVISTATORE

Il divulgatore Marco Montemagno è il protagonista delle interviste settimanali a esperti del mondo della finanze realizzate nell’ambito di Edufin 3.0, progetto voluto da Banca Generali

tore ha dovuto fare i conti con questo nuovo asset: la Markets in Crypto-Assets Regulation, spiega Lukas Enzersdorfer-Konrad, ceo di Bitpanda Technology Solutions, rappresenta oggi il quadro regolamentare europeo che governa strumenti finanziari e criptovalute evidenziando le implicazioni per gli operatori di mercato. Assieme a Christian Miccoli, ceo di Conio, si delineano sia il quadro regolamentare sia le sfide legate alla natura innovativa delle criptovalute, che possono avere impatti su stabilità finanziaria e sicurezza degli investitori. Secondo i due esperti, è essenziale comprendere le strategie adottate dalle autorità per promuovere la stabilità e la trasparenza nei mercati cripto al fine di usufruire di tutto il potenziale che offrono.

Dove vanno gli investimenti sostenibili

Sostenibilità e investimenti Esg nell’industria finanziaria europea: secondo Elena Leonardi, head of Sustainability di Banca Generali, il settore finanziario in Europa sta compiendo passi da gigante in fatto di investimenti in ambito ambientale, sociale e di governance, all’interno di un contesto che mostra impegni concreti come il Piano d’Azione, il Green Deal e anche la normativa sulla trasparenza per evitare il greenwashing. Nell’intervista, poi, Leonardi identifica le sfide future come l’accesso ai dati e il tema del reporting analitico.

Il ruolo degli strumenti finanziari

Quali sono gli strumenti a disposizione

di un gestore per creare dei portafogli che offrano un rendimento?

A rispondere questa volta c’è Francesca Battistelli, responsabile Gestioni patrimonali personalizzate & Equity presso Banca Generali. Gli strumenti finanziari hanno un ruolo fondamentale nella creazione di portafogli d’investimento. Grazie a questi, assieme alle altre asset class come materie prime e immobili, è possibile mitigare il rischio complessivo e migliorare la stabilità dei rendimenti attraverso un giusto equilibrio che, in un contesto di mercato così complesso come quello attuale, può essere offerto solo da una valida strategia di diversificazione.

Foto: M. Bazzi –Ansa IL PROGETTO ECONOMIA
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CULTURA VERSO VENEZIA 96 27 agosto 2023

Vampiri in laguna

Tra il sangue dei cileni e quello dei migranti, i film-evento, i nomi di richiamo, gli investimenti, la Mostra del cinema punta sul sicuro. Ma una sfida

l’attende: non perdere i più giovani

COMANDANTE Pierfrancesco Favino protagonista di “Comandante” di Edoardo De Angelis

FABIO FERZETTI

Quattro vampiri per una Mostra. Non era mai successo ma quest’anno a Venezia (30 agosto - 9 settembre) ogni sezione esibisce il suo bravo succhiasangue, come una sinistra e forse necessaria mascotte. Sarà un caso o un segno dei tempi, ma ogni epoca ha le metafore che si merita. Questi nipotini del conte Dracula evidentemente hanno qualcosa da dirci. Per cui prestiamo orecchio e cerchiamo di non fraintendere.

Il primo è nientemeno che Pinochet, il colonnello golpista che nel 1973 abbatté Allende, mai morto anzi attivo già sotto la Bastiglia nel 1789, che torna a bere il sangue dei cileni nel nuovo film di Pablo Larraìn, “El Conde”, uno dei tre titoli Netflix in Concorso, horror, surrealismo, bianco e nero, insomma evento garantito. Meno allarmante ma chissà, la black comedy della canadese Ariane Louis-Seize, “Vampiro umanista cerca suicida consenziente” (Giornate degli Autori). Promette altri orrori invece il “Vourdalak” di Adrien Beau (Settimana della Critica), adattamento di una novella di A. K.Tolstoj che per i selezionatori annuncia addirittura “la morte del patriarcato”.

Mentre spostandoci a Orizzonti il vampiro imberbe ma insaziabile di “En attendant la nuit”, diretto dall’esordiente Céline Rouzet, illumina il centro occulto di questa Mostra. Che coincide proprio con loro, gli adolescenti, i cittadini di domani, menti e corpi in transizione ma assai più simili, anche in Paesi lontani, di quanto non lo siano gli adulti. Loro, portatori di istanze e passioni non più rinviabili, basti pensare a cosa hanno fatto i giovanissimi in Iran.

Loro che affollano la maggioranza dei film di Orizzonti e delle altre sezioni parallele, ma sembrano assai meno presenti nei 23 titoli di un Concorso fitto di grandi nomi e molto attento al mercato, com’è ormai ine-

Per approfondire o commentare questi articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it

vitabile, ma forse più avaro di scoperte, che sono (erano?) il sale dei festival.

Naturalmente parliamo al buio. Per giudicare i film bisogna prima vederli e Venezia non deve certo provare la sua attenzione ai nuovi talenti, basta ricordare i Leoni d’oro vinti nelle ultime edizioni da outsider come l’esordiente Audrey Diwan (“La scelta di Anne”) e la documentarista Laura Poitras (“Tutta la bellezza e il dolore”). Magari gli unici due film firmati da under 40 in Concorso quest’anno, “Die Theorie von Allem” del tedesco Timm Kröger e “Enea” di Pietro Castellitto, 31 anni, di gran lunga il più giovane in gara, saranno una rivelazione. Però la selezione ufficiale punta abbastanza sul sicuro, cioè su film in grado di conquistare il grande pubblico, possibilmente internazionale, e magari di correre per gli Oscar. Lo dimostrano anche i sei italiani in Concorso, cifra mai raggiunta prima.

Che il nostro cinema stia attraversando una nuova età dell’oro? Dal punto di vi-

CULTURA VERSO
VENEZIA
Sei i registi italiani in gara per il Leone d’oro: Pietro Castellitto, Saverio Costanzo, Edoardo
De Angelis, Giorgio Diritti, Matteo Garrone, Stefano Sollima
98 27 agosto 2023

sta produttivo senz’altro. Al di qua di ogni altra considerazione, alcuni di questi film hanno infatti costi impensabili fino a ieri. Tira la volata “La promessa dell’alba” di Saverio Costanzo, 36 ore nella vita di una giovane ingenua catapultata tra fasti e miserie della Hollywood sul Tevere (sono anche gli anni del delitto Montesi), budget stimato: 28 milioni di euro. Segue a quota 17 milioni “Comandante” di Edoardo De Angelis, storia vera di Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino), l’ufficiale della Regia Marina al comando del sommergibile Cappellini che nel 1940 salvò i naufraghi del mercantile belga che aveva affondato rischiando la vita del suo equipaggio. Costa meno la Roma distopica e in fiamme di “Adagio”, thriller di Stefano Sollima tutto azione e grandi nomi (Favino, Servillo, Mastandrea): sotto i 12 milioni, meno del “Sol dell’avvenire”. Molto atteso “Io capitano” di Matteo Garrone, l’Odissea di due giovani migranti dal Senegal all’Europa passando per Saha-

Ecoguerrieri e sognatori

Horror e satira

Una scena da “El Conde” di Pablo Larraìn, commedia nera sul dittatore cileno Augusto Pinochet

Due italiani per l’America Latina. Se il made in Italy cerca soggetti e budget formato export, per fortuna c’è ancora chi parte in cerca di mondi e di storie. Così le Giornate degli Autori aprono con “Gli oceani sono i veri continenti” (in sala dal 31 agosto), girato a Cuba da Tommaso Santambrogio, già aiuto di Herzog e Lav Diaz, si vede dallo stile. Bianco e nero, tempi dilatati, tre coppie alle prese con la grande fuga dall’isola di Fidel che desertifica cuori e città. Due bambini giocano a baseball sognando Miami; una coppia di performer mette l’arte e l’amore alla prova dell’esilio; una vedova di guerra rilegge vecchie lettere dall’Angola. Insolito, impavido, ipnotico, molto estetico. Ma se L’Avana è lontana l’Amazzonia è vicina, anzi vicinissima grazie a Christopher Clark, un Fitzcarraldo venuto dalla Scozia che vive da sempre lì e sogna di portare i Pink Floyd sul Rio delle Amazzoni per sensibilizzare il mondo e schivare il disastro. Macchina in spalla, voce fuori campo, Edoardo Morabito pedina per anni il suo eco-guerrriero sognatore ne “L’avamposto”, sempre alle Giornate. Chris (nella foto) teme la sconfitta ma insiste, scrive a Bianca Jagger, apre ospedali da campo con vendite benefiche di ricche americane, assiste desolato al corrompersi di anime, corpi ed ecosistemi, perché ormai i piccoli indios hanno Internet e non sanno più andare nella foresta, mentre i grandi sono infettati dal consumismo. Una straziante elegia per un mondo che scompare narrata con un pizzico di distanza forse per autodifesa. Se ne esce turbati. Christopher resta dentro a lungo. F.F.

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ra, Libia e Mediterraneo, coproduzione da 11 milioni e oltre. Poi c’è “Enea” di Pietro Castellitto, un tuffo nella Roma più infame già ribattezzato “La grande bruttezza”, 8 milioni. Mentre supera i 7 l’esplosivo “Lubo” di Giorgio Diritti, che alza il velo sugli orrori patiti in Svizzera dagli Jenisch, etnia nomade discriminata durante l’ultima guerra, una storia terribile ammessa dal governo federale solo a fine anni ‘70.

È il caso di ricordare che Sollima, Costanzo e De Angelis hanno alle spalle non solo film ma serie tv, anche molto importanti. Insomma giocano in un altro campionato. Non c’entrano l’arte o il talento. È una questione produttiva. Oggi la partita si disputa su questo terreno, Venezia non può che registrarlo. Ma un festival nella sua vetrina principale dovrebbe anche rischiare, sparigliare, non solo fare da volano alle trasformazioni in corso nell’industria. Le sorprese vere, insomma, rischiano di arrivare da sezioni forse meno condizionate, in testa Orizzonti, il concorso bis riservato alle “promesse”, dove budget e età media (di registi e personaggi) calano di colpo.

Citiamo almeno i tre italiani, “Una sterminata domenica” di Alain Parroni, protagonisti tre adolescenti della campagna romana, per il direttore della Mostra «il manifesto di una generazione perduta». Poi “El Paraìso” di Enrico Maria Artale, madre e figlio simbiotici e spacciatori nella no man’s land di Fiumicino. L’atteso debutto del grande animatore Simone Massi, “Invelle”. E la rivelazione annunciata “Dormitory” di Nehir Tuna, una specie di “Pugni in tasca” turco che partendo dagli anni ‘90, giura Barbera, illumina a giorno l’era Erdogan (ma allora perché non è in Concorso?).

Tornando ai film in gara per il Leone, dei tre francesi almeno uno stona a Venezia, parliamo di Luc Besson e del suo “Dogman”, ma incuriosisce la fantacoscienza di Bonello, “La bête”, e si dice già un gran bene di Stéphane Brizé e del suo “Hors-saison”, con Alba Rohrwacher e Guillaume Canet. Bello ritrovare il nuovo grande giappone-

se Ryusuke Hamaguchi, regista del fluviale “Drive my Car”, con “Il male non esiste”, 90 minuti appena su un paesino che per difendere l’ambiente si ribella a una grande azienda del turismo (curioso: alle Giornate, “Anna” di Marco Amenta racconta una storia quasi uguale in Sardegna). Promette bene anche il Frankenstein al femminile del fiammeggiante Yorgos Lanthimos, “Poor Things”, che con la sua Emma Stone resuscitata dalla scienza e sempre assetata di sesso è «una boccata d’ossigeno rispetto al soffocante neopuritanesimo di oggi» (Barbera dixit). Cinque gli americani, dal “Ferrari” di Michael Mann (80 anni, il decano del Concorso) alla Sofia Coppola di “Priscilla” (nel senso di Presley, coproduzione italiana). Seguono due titoli Netflix, il matrimonio queer ante litteram di Leonard Bernstein (“Maestro” di e con Bradley Cooper) e “The Killer” di David Fincher. Infine “Origin” di Ava DuVernay, prima afroamericana in gara al Lido, un adattamento del bestseller di Isabel Wilkerson “Caste: The Origins of our Discontents” che mixa -si spera arditamente- saggio e biografia.

Sono firmati da donne, del resto, molti dei film più coraggiosi in Concorso. La veterana Agniezka Holland ha girato in semi clandestinità “The Green Border”, storia di rifugiati mediorentali e di abusi al confine tra Polonia e Bielorussia. E così ha fatto la sua connazionale Malgorzata Szumowska, regista con Michal Englert di “Woman of”, protagonista una persona trans, altro soggetto tabù in Polonia. Mentre in “Holly” la fiamminga Fien Troch, già Premio per la regia proprio a Orizzonti, trapassa dal realismo al fantastico per esplorare il disagio di una adolescente.

Che il nostro cinema stia attraversando una nuova età dell’oro?

Dal punto di vista produttivo sì. Basti guardare ai costi, impensabili fino a ieri

Ed eccoci tornati al centro occulto di questa Venezia. Occulto perché presente in forze, ma per lo più chiuso negli spazi appositi delle sezioni parallele. Cen-

CULTURA VERSO VENEZIA
100 27 agosto 2023

tro perché è sugli under 20, nativi digitali, che si gioca il futuro del cinema. Sono loro, sala o non sala, il nuovo pubblico. Loro gli autori, gli interpreti, i professionisti di domani, perché il cinema resta un’arte collettiva oltre che di assoluta importanza strategica, lo ha capito perfino il governo Meloni mettendo le mani sul Centro Sperimentale. E chissà cosa succederà alla Biennale, con il presidente Cicutto in scadenza e Barbera in carica sulla carta ancora solo un anno. Mai come stavolta al Lido il cinema italiano si gioca tutto. Per questo, oltre che su produzioni sempre più ambiziose e internazionali, occorre dedicare la massima attenzione ai più giovani. Sarebbe un peccato perderli. Ma sarebbe anche peggio se fossero loro a abbandonare la partita.

Esilio e ritorno sul lago di Gesù

IN ARRIVO

In alto: una scena di “The Palace”, film drammatico di Roman Polanski. Sotto: Lily James in “Finalmente l’alba” di Saverio Costanzo; un momento di “Lubo” diretto da Giorgio Diritti, che alza il velo sugli orrori contro i nomadi Jenisch nell’ultima guerra

Una madre, una figlia, un baule pieno di luoghi e ricordi «che rischiano in ogni momento di scomparire». Perché tutto inizia in Palestina prima del 1948 e dell’esodo forzato da quelle terre che in arabo è detto Nakba, la catastrofe. Ma c’è ancora un lungo pezzo di storia da raccontare. È “Bye-Bye Tiberiade” (nella foto), sempre alle Giornate degli Autori, che rivendicano con orgoglio il loro ruolo di indipendenti. La storia da scoprire è quella di Hiam Abbass, due occhi profondi come il lago su cui camminava Gesù e un percorso da Storia del cinema non solo mediorientale. Hiam infatti l’abbiamo vista in “Free Zone”, nel “Giardino dei limoni”, ne “La sposa siriana”, in tanti altri film israeliani e palestinesi, ma anche in “Munich”, in “Blade Runner 2049”, perfino nella serie “Succession”. Per scolpirne la storia personale però ci voleva sua figlia Lina Soualem, che essendo nata a Parigi l’arabo lo parla ma non lo legge e aiuta la madre a scavare tra foto, lettere, filmini, ricordi. C’è l’esodo naturalmente, il nonno che impazzisce cercando le sue vacche, la madre che rinuncia al diploma dalle suore, gli anni vissuti in dieci in una stanza. Il cinema vive solo di riflesso sui volti delle molte sorelle e di quella madre che non accettò mai le sue scelte, la fotografia, Gerusalemme, l’Europa. Ma ogni esilio contempla il ritorno e ogni ricordo resta scritto addosso. Come prova quella zia ritrovata dopo decenni a Damasco che la abbraccia felice e la annusa a lungo ritrovando un parente in ogni angolo del corpo di Hiam. F.F.

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CULTURA CARTEGGI RITROVATI

Il piacere di essere diversi

impossibile immaginare due intellettuali antipodici quanto Carlo Cassola e Franco Fortini, il primo radicato nel mondo provinciale della solare Maremma, il secondo pronto a scagliare strali feroci da una severa Milano febbrilmente industriale. Eppure tra l’autore di fatto grossetano e il tormentato polemista di origini fiorentine intercorse un lungo scambio epistolare fitto di singolari convergenze. Il carteggio tra i due, edito sotto l’azzeccatissimo titolo “Un bisogno di complementarità” da Firenze University Press e USiena Press a cura di Giada Perciballi, testimonia un’assonanza di vedute che illuminano momenti cruciali non solo di natura biografica. Purtroppo soffre di un insormontabile squilibrio. Dei 63 pezzi di cui si compone 57 sono lettere di Cassola, mentre di Fortini vengono, di necessità, incluse solo 6 superstiti minute. Ma la curatrice annota le pagine con una tal messe di riferimenti a articoli, saggi, romanzi coevi che il confronto prende consistenza e coinvolge, tra alti e bassi, una stagione cruciale delle vicende culturali italiane tra il 1955 e il 1983. «Qualche anno fa – si sfoga Cassola il 27 febbraio 1968 – Giancarlo Ferretti, quel critico marxista, mi scrisse per rimproverarmi il mio ostentato disinteresse per la cultura. Gli risposi: “C’è Cecina in Marx? Ci sono le ragazze che ho amato in Marx? E allora cosa vuoi che me freghi di Marx?”». Una sbrigativa battutaccia che fa emergere quanto continuasse a pesare nel romanziere di successo la “poetica del subliminale”, categoria coniata da Manlio Cancogni e sempre avvertibile alla base di scelte

illusoriamente anti-ideologiche. A Cassola premeva cogliere nei personaggi delle sue storie dimesse gli impulsi immotivati, gli scarti sottintesi, i movimenti inconsapevoli, la vita, insomma, nella sua elementarità esistenziale. Anche la fase più politica delle sua opera –“La Ragazza di Bube” (1960) ne è l’esemplare più discusso – è percorsa dal risoluto rifiuto di un neorealismo sovente imbevuto di mirati orientamenti protestatari, se non propagandistici. Il modello che l’aveva più attratto era il Joyce di un luogo circoscritto e rovistato in ogni angolo. L’essenza della sua ricerca era l’ “integrità umana”, la naturalità allo stato puro. E questa convinzione Fortini – nell’ultima minuta conservataci (6 settembre 1970) – non poteva sottoscrivere , anche se la sentiva autentica, appunto “complementare” e non radicalmente opposta alle sue predilezioni. Ricordo un animato dibattito in cui tra

Foto: G. Giovannetti –Olycom / LaPresse, G. Lotti –Mondadori / GettyImages
È Carlo Cassola e Franco Fortini: opposti per stile, idee, scrittura. Eppure entrambi protagonisti di una stagione culturale fatta di scambi e fervore critico. Come testimonia il loro denso epistolario
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ROBERTO BARZANTI

INTELLETTUALI DIVERSI

Carlo Cassola e (sopra) Franco Fortini

CULTURA CARTEGGI RITROVATI

gli altri feci notare a Cassola che la teoria del subliminale era anch’essa frutto di un’opzione ideologica, di un rifiuto del costrittivo ricorso ad un’enfasi filosofica, che nello storicismo in accezione italica aveva dato deboli ed equivoche spinte ad un effettivo rinnovamento

(«Dal marxismo di origine crociana non verranno fuori altro che chiacchiere» sentenzia Cassola il 15 ottobre 1956). E allora come si spiega l’accordo tra il generoso professore di liceo e l’inquietudine di un intellettuale europeo come Fortini, mai appagato dalle sue stesse analisi? A prescindere dagli esiti letterari e pubblicistici, ambedue disprezzavano il gruppo egemone dei comunisti romani che da Botteghe oscure facevano il bello e il cattivo tempo e non capì per disciplinato allineamento le generali implicazioni che la tragedia del 1956 imponeva. Una lettera di Cassola del 3 novembre 1956 è tra le più crude al riguardo. Vi si riassume in termini quasi caricaturali un litigio velenoso con Mario Alicata, Michele Rago, Jean Canapa e altri campioni dell’autorevole intellighentia della sinistra togliattiana. Ha un tono grottesco, che si concretizza in un duetto tra Alicata e Cassola. Alicata esplode: «Tu occupati di scrivere romanzi e non occuparti di politica, che non ne capisci niente». Quindi viene evocato l’eretico Carlo Muscetta che, da carogna, aveva osato firmare il manifesto audacemente critico circa la posizione filosovietica assunta dal Pci. Cassola replica: «Mi spiace sentirti chiamare carogna uno che da vent’anni è tuo amico». Alicata di rimando: «Io non ho amici. Un rivoluzionario non ha amici. Per un rivoluzionario conta solo la fedeltà ai principii». Cassola tenta di chiudere: «Io credo che contino anche i sentimenti». L’antagonista sghignazza:« Un rivoluzionario non deve avere sentimenti». Renato Guttuso, che era stato in disparte stava per piangere: «Per carità non dire così …». Difficile sceverare quanto ci sia di semplificato in questo stralcio di sceneggiatu-

ra. Nelle lettere private si abbozzano passaggi con un’irruenza che l’intervento a stampa vieta o sconsiglia. Questo era il clima: in Cassola vigeva una rigorosa distinzione tra opera del narratore e impegno di chi fa politica ogni giorno. Così il profilo che scaturisce dallo scambio asimmetrico ora disponibile conferisce ai due corrispondenti una nobiltà che fa giustizia di invalsi luoghi comuni. Nella sua ingenuità priva di un’intelaiatura dottrinale alta Carlo Cassola si rivela ben lontano dalla Liala in cui lo piazzò l’innovatore Gruppo 63. E Franco Fortini, da par suo, non teme di confessare a Italo Calvino (17 maggio 1956): «Non sono egalitario, ma democratico (c’è una bella differenza), il democratico crede ad una aristocrazia, l’egalitario no, gli uomini di cultura han da essere democratici e la cultura ha da essere aristocratica…». In apertura della sapida missiva si era lasciato andare: «Da venti giorni stiamo lavorando ad un manifesto anticoglioni; ma la prima stesura, durissima e di rottura con i cialtroni che conosci, è stata disapprovata da varia gente» e lancia ironiche frecciate polemiche in direzione di Carlo Salinari, Valentino Gerratana e compagnia. Se la piglia addirittura con Calvino «che fa lo scioccherello, il Robin dei Boschi, il folletto e l’Alice nel Paese delle Meraviglie all’ombra del rapporto Krusciov». Il laboratorio di “Ragionamenti” ebbe un limitato ascolto. Ho spigolato qua e là, rubando dalle lettere dettagli piccanti, come si è tentati di fare quando si apre un plico che sollecita curiosità . Altri temi meriterebbero riflessioni. Del viaggio che nel 1955 Cassola e Fortini fecero in Cina insieme ad un’élite di intellettuali entusiasti della vittoria di Mao l’autore di “Un cuore arido” ne dette conto in un «libretto» di taglio giornalistico dedicato a Franco. Il quale, specularmente, compose il volume “Asia Maggiore” dedicandolo a Carlo. Negli ultimi tempi Cassola capeggiò una Lega per il disarmo unilaterale che gli procurò accuse di caparbia ingenuità. Fortini dissentì. La chiusa della lettera buttata giù da Cassola il 7 giugno 1976 ha il timbro di un’indispettita delusione: «Io avevo chiesto il tuo aiuto ma dato che non me lo vuoi dare ti attaccherò insieme con gli altri. Spero di ridurvi a uno Stato maggiore senza soldati. È la sola speranza per la povera umanità».

Al di là degli esiti letterari, ambedue disprezzavano il gruppo egemone dei comunisti romani che da Botteghe oscure facevano il bello e il cattivo tempo
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BOOKMARKS Sabina Minardi

Inseguendo Moby Dick

Navigatori, esploratori, scienziati ma anche uomini semplici come “the baker of Thurso”, il panettiere scozzese che trovò un fossile vecchio di 385 milioni di anni e rivoluzionò la teoria evolutiva. Gente che ha lasciato il suo nome impresso nella Storia o che, pur avendo allargato il sapere, dalla Storia è rimasta esclusa.

Le storie di mare di Svensson. L’amicizia geniale tra Svevo e Joyce. Anatomia della nuova India. Morgana da riascoltare

Due giganti del Novecento: Svevo e Joyce. E la riscoperta di un’amicizia “geniale”, in un racconto inedito che comincia per caso a Trieste e prosegue con scambi letterari, complicità quotidiane, condivisione di passioni come la musica. Joyce insegna inglese: ha lasciato la cattolica Irlanda sotto il giogo britannico. Svevo lavora nell’industria di famiglia della moglie. L’eredità umana e letteraria che i due hanno lasciato è frutto anche del loro incontro.

Bompiani, pp. 256, € 20

Dal saggista e attivista indiano una riflessione importante e profonda sui cambiamenti di un Paese. Sul cortocircuito che la cultura indiana sta vivendo: lo scontro tra i sogni di potere e di crescita e i valori che ne hanno retto la società. Attraverso le storie di una generazione di studenti dell’Indian Institute of Technology un confronto tra scelte, stili di vita, speranze. Per il futuro verso cui siamo lanciati.

L’UOMO CON LO SCANDAGLIO

Patrick Svensson

Iperborea, pp. 222, € 18

È un libro sull’istinto di scoprire “L’uomo con lo scandaglio” di Patrik Svensson (Iperborea, traduzione di Monica Corbetta), lo scrittore e giornalista svedese già autore del memoir naturalistico “Nel segno dell’anguilla”. Un saggio narrativo (in uscita il 30 agosto: lo scrittore lo presenterà al Festivaletteratura di Mantova il 7 settembre) sulla curiosità, impulso indomabile e potente degli esseri umani. E su una galleria di storie di mare, abissi, meraviglie e avventure alle quali abbandonarsi, leggendo: da quell’immagine della Terra chiamata “The blue marble”, la foto scattata dall’Apollo 17 nel 1972, al mappamondo di Fra Mauro, straordinaria testimonianza del pianeta conosciuto nel Quattrocento, conservata nella Biblioteca Marciana di Venezia; dai racconti di mare di Rachel Carson all’attrazione ancestrale per la navigazione: metafora dell’essere umano, del suo istinto vitale, della sua vulnerabilità. C’è il cammino delle spezie che, tra commerci e guerre, hanno cambiato l’economia e ridisegnato i contorni del mondo. E quello di Magellano, primo circumnavigatore del globo. Perché “l’uomo con lo scandaglio” è ogni uomo che cerca. Che cala corde e pesi, e sé stesso nelle profondità, per urgenza di conoscere non solo il mondo ma anche il posto da lui occupato. Uomini soli, in mare aperto, come quei Piccard e Walsh che osservarono l’inquietante paesaggio della Fossa delle Marianne. Eppure tutti parte di un movimento incessante di esploratori dell’ignoto. Lontani e vicinissimi, come gli uomini che oggi affrontano lo spazio o l’universo digitale e vanno incontro allo stesso mare profondo. Sapendo che, proprio quando ogni fibra del corpo grida di lasciar perdere, di risalire verso la luce e l’aria, resistere significa trasformare l’irrequietezza nella possibilità di cambiare il mondo.

Figli della nuova India

Pankaj Mishra (trad. Maria F. Oddera) Guanda, pp. 345, € 19

Riascoltare Michela Murgia. Continuare ad apprezzarne intelligenza e lucidità. Sorridere per la sua prontezza di spirito. Rivivere i live, le trovate, il racconto incalzante di donne memorabili: scrittrici, sportive, sante. Riunite in 45 episodi di un podcast di successo, dedicato in questi anni a donne fuori dagli schemi: dalla prima Morgana, Margaret Atwood, all’ultima, Janet Norton Lee Bouvier, madre di Jackie Kennedy Onassis.

Morgana

Michela Murgia e Chiara Tagliaferri Storielibere.fm

LA VITA DELL’ALTRO Enrico Terrinoni
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CULTURA L’ANTICIPAZIONE

In principio fu la meraviglia

Era una donna di circa trentacinque anni, lavorava in teatro e in televisione, aveva occhi brillanti e gentili, mi salutava sempre con affetto e trovava ogni volta le parole giuste per dire le sue novità e per chiedermi le mie.

L’ultima volta che ci siamo parlati, ero appena tornato a casa dopo qualche tempo e non dovevo avere un bell’aspetto.

“Come stai? Che succede?” mi ha chiesto subito lei.

“Sono stati tempi duri. È morta mia mamma” le ho detto.

Allora lei mi ha guardato stupita, poi un velo le è sceso sugli occhi e con l’aria di chi può sentire il dolore altrui non solo per la naturale empatia ma anche per quel che ha vissuto sulla sua pelle, ha commentato: “Ti capisco. Pochi giorni fa è morto il mio cane”.

MERAVIGLIA

MATTEO NUCCI

Al principio è la meraviglia. Tutto suscita meraviglia e stupore. Un’emozione confusa in cui la paura diventa inquietudine. L’emozione di chi non sa dare spiegazione di ciò che ascolta, vede o pensa, e dunque quasi prova un senso di vertigine che lo spinge a mettersi in cerca. A raccontarlo in maniera perfetta fu Platone in un dialogo molto bello e molto complesso che scrisse verso i sessant’anni e prese il nome dal principale interlocutore di Socrate, un giovane matematico che Platone aveva molto amato: Teeteto. Questo ragazzo che ebbe una vita sfortunata e morì giovane, nella rappresentazione letteraria platonica, a un tratto, seguendo i ragionamenti paradossali di Socrate, dice: “Per gli dèi, Socrate, provo una meraviglia sconvolgente chiedendomi come mai stiano queste cose. A tratti, anzi, a dire il vero, guardandole e riguardandole ho le vertigini”.

Al che Socrate gli risponde: “Amico mio, sembra che Teodoro non abbia avanzato congetture scorrette sulla tua natura. E infatti è tipico del filosofo questo stato d’animo: la meraviglia. Non esiste altra origine della filosofia se non questa”.

È un passo famosissimo. Aristotele, al principio della Metafisica, riprende l’idea del maestro e spiega che gli uomini hanno cominciato a filosofare proprio perché si meravigliavano delle stranezze che avevano davanti agli occhi, passando poi a indagare cose più importanti, come “le affezioni della luna, del sole e degli astri, e la genesi del tutto”. In effetti, le cose stanno proprio così. Anche se a leggere i due grandi filosofi, e soprattutto Aristotele, si ha l’impressione che ciò di cui gli esseri umani si meravigliarono (e in effetti, continuano sempre a meravigliarsi) sia solo ciò che è fuori di essi, “davanti ai loro occhi”, mentre sappiamo benissimo che il primo oggetto di meraviglia di fronte a cui tutti ci troviamo fin dalla nascita siamo proprio noi stessi. Conoscere le cose con cui ci confrontiamo, conoscere noi stessi, conoscere il nostro posto nel mondo, dunque conoscere il mondo che abitiamo,

È il portentoso, lo stupefacente, lo sconcertante a guidare da sempre le domande dei filosofi. Vertiginosa emozione originaria. Che misura la nostra distanza dagli altri animali mortali
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ovvero la natura in cui siamo apparsi, noi stessi germogli della natura. Ecco il compito di quella lotta per la sapienza che caratterizza gli esseri umani da sempre e per sempre. Un compito cui solo la meraviglia può spingerci. Ma che significa esattamente provare meraviglia? Quando leggiamo questa storia inaugurata da Platone e Aristotele noi siamo propensi a vedere di quell’emozione originaria gli aspetti più rassicuranti. Confortati dal significato del termine italiano, siamo irresistibilmente portati a pensarne la dimensione meravigliosa, dunque positiva e quasi idilliaca. Non è così, invece, che i Greci intendevano le cose. Meravigliarsi traduce il verbo thaumàzein e il termine thàuma indica sì una cosa meravigliosa nel senso che suscita meraviglia, ma non perché sia qualcosa di bello e ammirevole, bensì perché è qualcosa di portentoso, stupefacente, sconcertante. Qualcosa che spinge a un’ammirazione sen-

IL GRIDO DI PAN

za parole, ovvero alla venerazione, perché chi prova questa emozione iperbolica è spesso spinto a onorare ciò che la suscita. In effetti, le parole del giovane Teeteto erano già abbastanza chiare a lasciarle risuonare. “A tratti ho le vertigini” diceva esplicitamente. E il Socrate di Platone in un sorriso mostrava di condividere quella sensazione attonita.

La ragione è semplice. Le grandi domande che ci mette di fronte agli occhi la nostra stessa esistenza non spingono a una ricerca da condurre come fosse una passeggiata. Si tratta semmai di quello sforzo davvero titanico con cui si confrontarono gli stessi pensatori delle origini, secondo Aristotele. Essi furono sconvolti da fenomeni naturali di cui era impossibile conoscere la causa, come ogni genere di calamità naturali, e da manifestazioni del sacro interiori e esteriori cui potevano guardare solo con terrore e venerazione. Ma lo stesso accade oggi a chi si interroghi sul significato del nostro venire al mondo per poi morire, questione decisiva sempre, che non ha risposte e spinge tuttavia a cercarne, a volte con terrore e sconcerto, a volte con la fiducia che suscita il desiderio di conoscere. Tutto dunque ha origine in questa emozione dinamica che ci chiede di agire e ci mostra costantemente – senza mai dirla – la nostra distanza dagli altri animali mortali. Diversamente da essi, noi infatti siamo capaci di meraviglia, al punto di im-

Il nuovo libro di Matteo Nucci, “Il grido di Pan”, arriva in libreria il 29 agosto (Einaudi, pp. 192, € 14,50). Al Festival della mente di Sarzana (1-3 settembre) lo scrittore dedicherà tre incontri alla parola “meraviglia”: per raccontare Platone, Omero e Gabriel Garcia Màrquez maginare il divino e spingerci in un corpo a corpo con ciò che della vita pare insostenibile: la morte. Fra tutti gli animali mortali, del resto, solo all’essere umano è dato di pensare alla propria mortalità. E solo all’essere umano è dato di formulare idee in quell’intreccio di parola e pensiero che i greci chiamarono logos. Per questo, probabilmente, fra gli antichi, il cane aveva, sì, come oggi, una posizione di preminenza – ossia era anche allora il migliore amico dell’uomo –, e tuttavia, fuori dalla caccia e dalla protezione personale, rappresentava soprattutto un gioco. Non un gioco di quelli seri, però, che fra i Greci abbondavano. Bensì un piacevole gioco per bambini. Perché, privi di logos, i cani secondo gli antichi avevano una caratteristica fondamentale che certo non hanno perso in questi secoli. Essi, diversamente dai nostri consimili umani, non ragionano sul loro posto nel mondo, non si domandano perché vivano per poi morire. E in particolare: non ci contraddicono mai.

© 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Foto: Godong –Universal Images Group / GettyImages
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CULTURA FENOMENI POP

Dissing, l’ultimosudoku

Da “un disco per l’estate” a “un dissing per l’estate”. A proposito del dissing, del senso e controsenso che gli gira intorno. Tranquilli: la questione potrà sembrare tranquillamente incomprensibile, ma lo stile, tosto pretesto di scontro, baruffa, diatriba, un cicinin di attenzione lo merita. Perfetto per incrementare l’idolatria seriale a edizione limitata, a geometria variabile di gusti ed opzioni della mejo gioventù dal corpo tatuatissimo, ciabatte e calzino bianco che si fa, per gioco delle parti, labile, passeggero come s’addice al tempo d’estate, tribunale di ogni fenomenologia sociale.

È ufficiale: il dissing, nello slang hip hop e rap, “un corpo a corpo di parole, per screditare, attaccare, togliere rispetto qualcuno”. Basta chiederlo anche al meno iperconnesso fra gli adolescenti, per apprendere tutto e il suo contrario su crew, “blocchi”, derivazione e ramificazione della cultura hip hop e trap, per cui demolire, anche con un certo stile, l’immagine pubblica dell’avversario. Rima dopo rima, dileggio dopo dileggio, il dissing è il nuovo sudoku, passatempo estivo intramontabile. Bocconcino prelibatissimo per la polarizzazione/radicalizzazione del sentiment, in tema di rapper, trappe e cantautori. Con un vago sentore di reducismo nelle risposte e nelle reazioni. Accuse e controaccuse, repliche e controrepliche di egolatria, narcisisismo, scarsa vena, conformismo e altre frivolezze e carniere per far salire la temperatura delle bolle social. In pieno fermento digitale, permanentemente mobilitate pro o contro uno dei contendenti. Estate torrida, non solo dal punto di vista metereologico. La prima avvisaglia la si è registrata con lo scazzo fra Luché e Salmo, non nuovi a diatribe e dissidi, da anni e anni. Con Luché a rinfacciare a Salmo di essere stato estremamente generoso e prolifico di biglietti per raggiungere il tutto esaurito per il concerto dello scorso anno a San Siro. Missione fallita. Di tutta risposta, Salmo, quasi con tono biblico si è peritato di concepire

una parodia “liberamente” ispirata all’ultimo album di Luché “Dove volano le aquile”, trasformata in “Dove volano le papere”. Il segmento pop, d’altro canto, è fibrillato a partire dall’attacco frontale di Paolo Meneguzzi a “Disco Paradise” di Fedez, l’onnipresente Annalisa e Articolo 31: ennesima riprova di canzone senz’anima, concepita e costruita a tavolino. Quasi immediato il react di J-Ax che, in tre ore tre, ha dato forma e timbro alle rime de “L’invidia del Peneguzzi”. Immancabile la litania di repliche e controrepliche per la gioia dilagante della rete, pane e companatico per ogni hater che si rispetti. Pare che la questione sia andata risolvendosi con l’autoconfessione di J-AX, in tema di “egoriferimento”. Ben più significativa, vedi alla voce reducismo, la nota, per nulla a margine, di Samuele Bersani nei confronti di Sfera Ebbasta che, a causa di un guasto tecnico, privo dell’au-

Insultare, screditare, sbeffeggiare è diventato lo sport preferito di questa estate. Derivazione della cultura hip hop e rap. Per demolire, rima dopo rima, l’avversario
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IVO STEFANO GERMANO

totune, pietra di paragone e di scandalo si era rivelato tutto, ma proprio tutto, meno che un King della trap. Men che meno un “semidio contemporaneo”, parole dell’autore di “Giudizi universali”. La vera vittima del dissing? L’ironia e l’autoironia. Spazzate via da un codice linguistico, oppure, da un grossolano “doppio gioco” per fendere la patina di noia, incertezza, aleatorietà. Ingredienti della quotidianità stressata della comunicazione contemporanea. Il dissing è l’ “orizzonte di gloria egotica, retroterra tutt’altro che trionfale. Promessa non mantenuta che si affastella in pratica inevasa del catasto rap e pop, quasi istantaneamente relegato a modernariato ideologico di svolte e frenate del linguaggio. Ogni slogan s’inabissa, inane e ballerino, nella mancanza di un centro di gravità permanente”. Fatica del protagonismo che tenta di equilibrare qualità e quan-

SENZA RISPETTO

Dall’alto: Samuele Bersani; Sfera Ebbasta; Paolo Meneguzzi; J-Ax. L’insulto sceglie la strada della musica

tità, benessere e stili di vita, espressività e contingenza. Certo gli usi e i costumi cambiano di stagione in stagione, ma proprio per questo sconfinano nella ripetitività del dissing. L’iperbole assoluta è mostrata, però, con il linguaggio dell’assenza di qualsiasi confine e retroterra umano del dissing. A troppo indugiare sull’autotune e altri aspetti tecnici, come nel caso della controreplica a Samuele Bersani da parte di Frankie hi-nrg mc, (that’s all folk) si corre il rischio di sottostimare l’ “operazione identitaria” dell’insulto, dell’offesa e della presa in giro. Un perimetro di gesti e di parole aggressive, per nulla nuovo, tantomeno inedito. Anni addietro sperimentato da guru e paraguru della rete, come Marco Camisani Calzolari e Marco Montemagno. Un fotoromanzo acido e lunare, di cui, più per noia che per convinzione, si attende l’ennesima puntata. Una delle tante non entusiasmanti vicende estive che non fa altro che smuovere il rimpianto per le care e vecchie polemiche estive, i “fuochi di paglia” innescati dalle interviste ferragostane ai leader politici, agli industriali, più in generale, ai personaggi dello star system e così via almanaccando. Buontempo di schermaglie estive vere, all’incirca protratte sino al fischio d’inizio del campionato di calcio in concomitanza con l’avvio dell’anno scolastico. La continuazione dell’ottagono dei talk televisivi, ormai, veri e propri crash show, autoscontri fra ciò che si rappresenta, laddove ciò che si è risulta del tutto marginale. Suona parruccone ricordare sommessamente che la buona comunicazione prende linfa dal riconoscimento della dignità dell’altro. Banalità da bagnasciuga o sentiero montano. In attesa che qualcuno scomodi la vulgata sulla tenuta della celebrità di Andy Warhol e sulla provocazione artistica di Marcel Duchamp. Ovviamente apparendo migliore e più cool. Ci mancava il dissing a rendere ancora più bollente e torrida l’aria d’estate. “Dissing persons”? “Dissing in action”? “Idiosincrasia portami via”.

Illustrazione: Wieslaw Rosocha, Agf 2), GettyImages, Ansa
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LE GAUDENTI NOTE Gino Castaldo

Gioco a due, radici comuni

Non tutte le favole della musica del nostro tempo sono prive di lieto fine. In questo agosto di torrenziali banalità, dissing, concerti male organizzati e, finalmente, una bella levata d’armi da parte di alcuni artisti, alcuni e purtroppo non tutti, contro l’immonda piaga dello stupro, una bella favola da raccontare c’è ed è quella di Francesco De Gregori e Antonello Venditti. È giusto parlare di fiaba perché in questo incontro c’è tutto, ci sono cinquant’anni di storiadellacanzoned’autore,c’èlastoriadiun’amicizia, vissuta in tutti questi anni tra alti e bassi, ma senza mai perdere del tutto una affinità di fondo, c’è un importante gioco di riflessi e personalità dovuto a radici comuni e differenze di stile. Come forse ognuno sa, i due avevano di fatto cominciato insieme agli albori degli anni Settanta, hanno condiviso il palco della gestazione nel leggendario Folkstudio, hanno perfino condiviso il loro primo disco, ambiguamente intitolato “Theorius Campus”, come se si trattasse di un duo, e invece era un disco di canzoni separate, hanno poi preso strade molto diverse, anche se parallele, si erano provocati, evocati, omaggiati a distanza, a suon di canzoni, ma mai in questi cinquant’anni avevano condiviso il palco, per quanto possa sembrare as-

UP & DOWN

Ci ha messo un po’ per ammetterlo, ma meglio tardi che mai e così David Byrne confessa che in effetti, ai tempi d’oro dei Talking Heads era «un piccolo tiranno». In realtà si sapeva già, e i suoi ex compagni non hanno mancato di sottolinearlo. Di nuovo c’è il pentimento. E i suoi ex-partners apprezzeranno di sicuro.

Appare un biglietto con le presunte volontà di Battiato sull’eredità, grazie al quale la nipote reclamerebbe l’intero pacchetto. Senza entrare nel merito della questione, possiamo solo dire che già immaginare che ci possano essere polemiche sull’eredità di Battiato, è di per sé sgradevole.

C’è una favola bella. Che racconta un modo di fare musica in via di estinzione. Il tour di De Gregori e Venditti

surdo, non avevano mai fatto un concerto insieme. Per questo l’anno scorso, l’annuncio di un primo evento a due, il 18 giugno allo stadio Olimpico, provocò un certo scalpore, sembrò un piccolo miracolo, ma anche un belllissimo gesto, denso di significati, come se due vecchi amici avessero deciso finalmente di intrecciare le loro strade, di superare dissapori ed eventuali ripicche, celebrare il senso profondo di una vita passata a onorare il mestiere di chi fa canzoni, mai come oggi messo a dura prova dalla ferocia superficiale del nuovo mercato della musica. Da bravi esperti sacerdoti della parola cantata, per quello che oggi può ancora valere, hanno colto dal successo del tour che è andato avanti dopo il clamoroso esordio la voglia di continuare e a furor di popolo, e di intima complicità, hanno annunciato in questi giorni che proseguiranno il loro giro, riprenderanno il 16 novembre da Bari e finiranno a Roma il 23 dicembre, per ora. Perché il pubblico stia riempiendo questi appuntamenti è piuttosto ovvio. Francesco De Gregori e Antonello Venditti sono i testimoni viventi della più raffinata delle arti della canzone, un modo di far musica che oggi non esiste quasi più, travolto da una rivoluzione senza precedenti, di cui è difficile prevedere gli esiti. Sta a loro mantenere vivido il fuoco di questa passione e anche per questo, verosimilmente, stanno prendendo gusto a questo gioco che a cinquant’anni dall’inizio è tornato a essere un gioco a due.

Foto: S. Campanini –Agf
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Antonello Venditti e Francesco De Gregori in concerto a Modena

COLPO DI SCENA Francesca De Sanctis

Giorni felici sotto il Vesuvio

Una compagnia del Rione Sanità di Napoli, che lavora in spazi confiscati alla camorra. Le voci del quartiere accolgono il pubblico

inglobarli metaforicamente in quel mondo custodito sotto la mega impalcatura a forma di gonna (e che richiama il cono capovolto del Vesuvio) sulla cui vetta c’è lei, Antonelle Morea, che con le mani tesse i fili di lana e con le parole quelle della vita. La Winnie di Samuel Beckett, immobile ma vitale, qui si chiama Lina. Trascorre i suoi giorni accudendo il marito Lello (Dario Rea), che in silenzio si muove tra oblò e vasche sotto la sua gonna-casa-vulcano, in una suggestiva scenografia creata da Rosita Vallefuoco, con le musiche di Tommy Grieco e la cura del suono di Hubert Westkemper, facendo rivivere in scena pezzi di vita dai bassi, malinconici e surreali.

Chi segue questa rubrica ricorderà una promessa, parlare cioè di una giovane compagnia vista a Castrovillari durante il Festival “Primavera dei teatri”: Putéca Celidònia. Nome curioso, è vero. Spieghiamolo allora. “Putéca” in dialetto napoletano significa “bottega”, mentre “celidonia” è il nome di una pianta infestante che cresce spontaneamente nel Mediterraneo. Ecco, dunque, che appare più chiaro l’obiettivo con cui nasce il collettivo partenopeo: vivere il teatro come luogo catartico dove è possibile sposare punti di vista diversi. La compagnia lavora fisicamente dal 2018 in due spazi confiscati alla camorra nel rione Sanità di Napoli, in quello che oggi è il Vicolo della Cultura, dove vengono offerti anche corsi gratuiti di teatro ai bambini e i balconi delle case diventano palcoscenici su cui recitare (fantastico!). I loro progetti nascono, quindi, nei tipici bassi napoletani, le abitazioni al piano terra con affaccio su strada. Sono luoghi che trasudano di storie. E proprio quelle storie attraversano “Felicissima jurnata”, lo spettacolo scritto e diretto da Emanuele D’Errico, fondatore della compagnia con altri ex allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli (produzione Cranpi con Teatro di Napoli, già finalista di Forever Young-La Corte Ospitale 2022 e vincitore del premio giuria popolare tuttoteatro.com 2021).

Le voci (vere) di Assunta, Angela, Pasqualotto, il chiacchiericcio del Rione, accolgono gli spettatori prima di

Ed ecco che il concetto di felicità/solitudine di “Giorni Felici” di Samuel Beckett assume sfumature di colori diversi: Lina e Lello sono in prigione o vivono in pieno la loro libertà? Forse la felicità è anche questa: la certezza che dopo un giorno ce ne sarà un altro, la tranquillità di avere dopo una “felicissima jurnata” un’altra “felicissima jurnata” e un’altra ancora. Felicissima jurnata di Putéca Celidònia

Napoli, 30 novembre – 10 dicembre, Ridotto del Mercadante

APPLAUSI E FISCHI

Dal 1996 si svolge ad Andria il Festival Castel dei Mondi, oggi diretto da Riccardo Carbutti. Il Festival ha portato in Puglia compagnie eccellenti da tutto il mondo. Dell’edizione in corso (fino al 24 settembre) vi segnaliamo “Cabaret Décadanse”, dal Canada, una festa di marionette per adulti impertinenti da non perdere.

La cultura non si tocca, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo. Eppure, dato che Shakespeare viene vietato nelle scuole della Florida a causa di una legge che permette di affrontare i temi sessuali solo durante le lezioni di salute, eccoci qui a ribadirlo. Che succede in Florida? Attenzione, guerra culturale in corso.

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Una scena dello spettacolo “Felicissima jurnata”

Quei totem tra gli alberi

Al Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise bisognerebbe almeno una volta nella vita provare ad andare soli. Non vogliamo cadere nella retorica del “ritrovare se stessi”, ma anzi spingerci verso un nuovo significato della parola solitudine. D’altronde come si può pensare di non avere compagnia in quel posto abitato da 67 specie di mammiferi, 230 di uccelli, 14 di rettili, 12 di anfibi, 15 di pesci, e 4.764 specie di insetti? E se non a tutti è dato il privilegio di incontrare l’orso bruno marsicano o il camoscio appenninico, da questa estate i loro occhi saranno comunque puntati su di noi attraverso l’arte: il collettivo Accademia di Aracne li ha realizzati all’uncinetto e ci ha avvolto alcuni alberi del parco. Ci sono anche il lupo, il cervo, la volpe, l’aquila, il gufo e molti altri sguardi coloratissimi, addirittura un po’ psichedelici. Sembra un’allucinazione, una di quelle che i nativi americani cercavano con strane piante in alcuni rituali religiosi proprio per favorire il contatto con il mondo degli spiriti. Questa installazione si chiama Totemi e infatti questi alberi sembrano totem, termine utilizzato proprio dai nativi americani per indicare l’animale ritenuto spirito protettore. Accademia di Aracne sancisce quel legame mistico che c’è tra

LUCI E OMBRE

La Nasa, con il progetto Lunar Codex, manderà sulla luna 30mila opere di altrettanti artisti provenienti da 157 Paesi diversi: «la nostra speranza è che i futuri viaggiatori che troveranno queste capsule del tempo scopriranno alcune delle ricchezze del nostro mondo oggi» ha detto il responsabile dell’operazione.

Dal ’91 a Castel di Tusa c’è un capolavoro di struttura che si chiama Museo Albergo Atelier sul Mare, le cui stanze portano la firma di grandi artisti contemporanei internazionali. È stato chiuso per irregolarità nella struttura e il fondatore, deluso dal menefreghismo delle istituzioni, fa sapere che non sa se riaprirà.

Il grande cuore di Marcantonio. Gli antichi cavalletti di Fato. La titanica sagoma di Pavone. Artisti nel Parco Nazionale d’Abruzzo

Per ARTEPARCO, la rassegna all’interno del Parco nazionale d’Abruzzo, i Totemi del collettivo Accademia di Aracne

esseri umani e natura e la sensazione è che quelle trame di maglia siano sempre state lì, come una sorta di abbraccio. Bandiere delicate che ci ricordano il rispetto.

Tutto questo è stato reso possibile grazie ad ARTEPARCO, iniziativa che porta l’arte contemporaneo all’interno del Parco Nazionale giunta alla sua sesta edizione. L’ideatore è Paride Vitale, imprenditore della cultura abruzzese e “in prestito” a Milano, che il grande pubblico ha potuto conoscere accanto a Victoria Cabello prima come vincitori di Pechino Express e poi come coppia in Viaggi Pazzeschi (un duo comico straordinario e non so perché più che a Totò e Peppino o Bud Spencer e Terence Hill, per l’equilibrio del rapporto mi fanno pensare a Tomas Milian e Bombolo).

Grazie ad ARTEPARCO grandi artisti sono atterrati lì con opere che mettono al centro il dialogo con la natura: c’è un grande cuore di Marcantonio, gli antichi cavalletti da pittore che non hanno bisogno di tela (gli scorsi che inquadrano lo diventano naturalmente) di Matteo Fato, la titanica sagoma che nasce albero e si conclude braccio umano di Alessandro Pavone. Tutte queste sono realizzate totalmente in legno, mentre è in ceramica il corno che germoglia dalla terra di Sissi e in acciaio l’enorme bambino di Valerio Berruti che spunta da una roccia e sembra gridare “liberi tutti!”, come si usava quando si giocava a nascondino.

27 agosto 2023 113 smART
Foto: Luca Parisse Nicolas Ballario

Il tuo mondo nel piatto

The Bear 2 è la serie perfetta. Che tratta le sfaccettature della vita come fossero ingredienti di una ricetta impeccabile. E viceversa

Difficile dire qualcosa di sorprendente su una serie che ha fatto innamorare il mondo. Non c’è stata una recensione negativa, un commento maldisposto sulla seconda stagione di “The Bear”, e di questo entusiasmo collettivo bisogna prendere atto e cercare magari di interrogarsi, al di là del cast (e che cast) e di una sceneggiatura impeccabile, sugli ingrediente misteriosi che hanno dato vita a un piatto così ben fatto. Disponibile su Disney + la piccola serie FX si muove nell’alta cucina, quella riservata a pochissimi ma che viene creata dal basso di una famiglia disfunzionale con tutte le sue storture da manuale. Un gruppo di squinternati pieni di cugini che soffrono, hanno sofferto e probabilmente continueranno a farlo e che decidono di seguire a capofitto il più solitario, dolente e malinconico di loro, per riuscire in un’impresa e vedere l’effetto che fa. E quel che viene fuori da ogni inquadratura, in cui i primi piani si susseguono come se stessero tutti guardando proprio te che li guardi, è che alla fine il cibo pretenzioso, la stella ambita, il cannolo salato, appartengono al medesimo impasto delle umane vicende, dove ognuno fa la sua parte, impegnandosi per conoscere se stesso con la stessa precisione chirurgica che serve per creare il dessert perfetto. Perché mangiare è un po’ come pensare e cucinare lo è ancora di più. Quando devi mettere un menu nero su bianco devi scegliere, decidere, ca-

Il dramedy The Bear 2 con Jeremy Allen White è disponibile su Disney+

pire se la strada intrapresa è davvero quella corretta, esattamente come quando ti chiedi se hai trovato le parole giuste per esprimere quell’idea, un sentore come un sapore, che «basta rifarlo un milione di volte e poi il gioco è fatto». Così “The Bear” manipola il cibo come fosse un sentiero da percorrere, l’etica come un mestolo, la crescita personale, la sconfitta, l’orgoglio, la memoria, qualunque singolo movimento cerebrale ed emotivo viene impiattato e servito su un tavolo con le forchette lucidate a dovere. «Ogni secondo conta», come recita la frase che si sussegue per tutti e dieci gli episodi è il punto fermo per muoversi al ritmo furibondo tra i fornelli professionali, ma anche una ovvia constatazione di fronte a un qualsiasi momento della vita. Che si compone di occasioni perdute in pochi attimi, di amori naufragati per una frase colta a sorpresa, di una maniglia rotta che per un niente non è stata aggiustata. Un intreccio continuo tra la vita vera e il gesto della cucina, dove alla cura per il cliente a cui comunque presenterai il conto, si affianca la cura dell’altro, che a volte può avere la forma di un’omelette. E alla fine, mentre resta nel cuore lo sguardo sgaulcito di Jeremy Allen White, puoi solo dire “Sì chef”.

DA GUARDARE MA ANCHE NO

Gian Marco Chiocci, il nuovo direttore del TG1, fortemente voluto dalla premier Meloni, si è fatto un nome al Giornale di Feltri, poi come direttore de Il Tempo, dove ha lanciato nientemeno che il vignettista Federico Palmaroli, in arte Osho. E guardando e riguardando il telegiornale della sera tutto torna. Son soddisfazioni.

Mediaset se lo contende neanche fosse George Clooney dei tempi d’oro. Diario del Giorno, TgCom24, Tg4 eccetera. D’altronde per quale motivo un generale che è stato destituito per aver scritto un libro terrificante, omofobo e razzista non dovrebbe occupare ogni salotto televisivo disponibile?

114 27 agosto 2023
HO VISTO COSE Beatrice Dondi

Maïwenn allo specchio

Se c’è un mezzo in cui la confusione tra l’immagine di un autore e la sua opera rischia di fagocitare l’opera stessa, quello è il cinema. Non si contano gli attori, i registi e soprattutto gli attori-registi che hanno cavalcato questa sovrapposizione o ne sono stati travolti. Il caso di Maïwenn, notissima in Francia, meno in Italia, è addirittura clamoroso perché la sua identificazione con Madame du Barry è totale, oltre che rivendicata con orgoglio in prima persona.

Figlia di un’intellettuale algerina e di un linguista francese, bellezza sghemba e perentoria, un’infanzia difficile poi rievocata nei suoi spettacoli da stand up comedian, ex-modella, ex moglie-bambina di Luc Besson (16 anni lei, 33 lui), regista di altri sei film tra cui il notevole e discusso “Polisse”, Maïwenn sognava di raccontare la favorita di Luigi XV da quando vide Asia Argento impersonarla in “Marie Antoinette” di Sofia Coppola. Così, dopo un lungo lavoro di scrittura, questa autodidatta che a 12 anni si sentì urlare dalla madre «è una vergogna che tu non conosca ancora Antonioni!» ha preso il coraggio a due mani e ha fatto il suo film. Tirando a sé in tutti i modi il personaggio. E affidando per colmo di fac-

AZIONE! E STOP

Giurie? Largo ai giovani. A Venezia quest’anno la selezione ufficiale è affollata di “senatori”, ma i presidenti delle tre giurie sono giovani di bellissime speranze. Damien Chazelle, Concorso, ha infatti 38 anni, Jonas Carpignano, Orizzonti, 39. Alice Diop, regista rivelazione di “Saint Omer”, Premio De Laurentiis Opera prima, 44.

Vergognosamente ignorati a Cannes, trionfalmente riabilitati a Venezia, Roman Polanski e Woody Allen si prendono la loro rivincita. I loro due nuovi film, “The Palace” e “Coup de chance”, saranno presentati Fuori concorso al Lido. Ma fa uno strano effetto dover dire che talvolta l’Italia è più libera della Francia.

La confusione tra opera e autore. L’identificazione tra la regista e Madame du Barry. Un film che seduce, diverte, convince

cia tosta il ruolo del re ormai 60enne e avvilito dalla perdita di Madame Pompadour, all’americanissimo e qui marlonbrandesco Johnny Depp.

Basterebbe molto meno per temere la catastrofe. Invece malgrado la voce narrante scolastica che apre e chiude il film, “Jeanne du Barry” seduce, diverte, convince. Maïwenn regista tiene al minimo il registro facile del pop e degli anacronismi alla “Marie Antoinette”, ma evita anche ogni accademismo per puntare tutto sullo slancio e sul contagioso divertimento con cui si tuffa nel ruolo. Accostando la corte del re, con i suoi codici e rituali infernali, alle regole non meno folli ma ferree vigenti nel mondo del cinema o della moda. In una sarabanda di trovate che danno un retrogusto gioiosamente femminista alla piccola rivoluzione introdotta a Versailles da questa cortigiana venuta dal nulla ma capace di amare e farsi amare infrangendo tutti i diktat dell’etichetta. Anche se questo significava navigare a vista fra l’odio esibito delle figlie di Luigi XV (esilarante per protervia la fulva India Hair), i favori del potente Richelieu (impagabile Pierre Richard) e i velati consigli dell’occhiuto primo valletto del re, unica figura inventata (portentoso Benjamin Lavernhe). In un trionfo di echi pittorici e gioiose trasgressioni che investono in primis costumi e acconciature. Ma sempre sfuggendo come la peste la tentazione che zavorra tanto cinema in costume oggi. L’ideologia.

JEANNE DU BARRY di Maïwenn, Francia, 116’
27 agosto 2023 115 BUIO IN SALA
Fabio Ferzetti

Il super lusso piace ai cinesi

La versione passo lungo dell’Audi A8 spopola come status symbol della nuova classe dirigente. Dotazioni e finiture premium

Icinesi vanno pazzi per l’Audi A8 passo lungo. Parliamo di un’auto che nella versione normale nasce già lunga oltre 5 metri. Aggiungiamone un’altra ventina e diventa un transatlantico, avvicinandosi a quella storica Mercedes 600 Pullman che faceva impazzire le star del grande cinema, a cominciare da Klaus Kinski che ne aveva una con “botola” interna per uscire senza aprire la portiera posteriore. A Pechino è uno status symbol. Il modello A8 è arrivato alla quarta generazione, con un restyling deciso: è la versione premium e nulla può essere lasciato al caso. Calandra “single frame” dalle dimensioni aumentate, gruppi ottici con proiettori intelligenti in tecnologia Led Digital Matrix: sono solo alcune delle prime avvisaglie della rivoluzione compiuta sulla berlina di lusso. Prima Audi con tecnologia mild-hybrid a 48 V, è un’auto nata per offrire il massimo comfort ai passeggeri, tra misure personalizzate che comprendono il poggiapiedi riscaldabile abbinato alla funzione massaggio, che nel caso delle sedute prevede fino a 8 programmi affidati a 18 cuscini pneumatici. Per chi deve correre da un appuntamento all’altro è ideale per riposarsi efficacemente. Avendo a portata di mano un frigobox. E schermi di taglia extra-large per chi vuole guardare un film durante un viaggio. Anche l’esperienza musicale «diventa premium», come sottolineano dalla stessa casa automobilistica,

L’Audi A8, la versione a passo lungo piace tanto ai nuovi ricchi della Cina

grazie all’integrazione con Apple Music5 che offre «la possibilità di scegliere tra oltre 90 milioni di brani senza pubblicità», e accedere a una personale libreria musicale senza il bisogno di collegare lo smartphone. Curioso che il controllo automatico della pressione degli pneumatici non sia però inserito tra le dotazioni di serie. Audi ha anche presentato alla Monterey Car Week la Rs6-Le preparata da Abt: una versione costruita a Phoenix, in Arizona. È una Rs6 Avant modificata, prodotta in soli 200 esemplari per rendere omaggio alla storia di questa auto caratterizzata dalle alte prestazioni. La speciale Legacy Edition parte dalla Rs6 Avant in versione Performance, che di serie sviluppa una potenza di 630 cv. Abt ha aggiunto dei nuovi turbocompressori, un intercooler e il software Power R, portando a 760 i cavalli a disposizione nel motore. Un body kit completo prevede inserti anteriori in fibra di carbonio, una griglia di aspirazione modificata, un estrattore dell’aria in fibra di carbonio sul cofano per migliorare la dissipazione del calore. Una versione perfetta per il cinema che di sicuro comparirà presto in qualche prossimo film di spionaggio. Lì nessuno controlla i limiti di velocità.

IN & OUT

Formula 1 in vendita. È targata Sotheby’s l’asta “Full Throttle - The Schumacher Collection”, 150 oggetti che raccontano la storia del campione Michael Schumacher. Capi d’abbigliamento e attrezzature da gara, ma anche bottiglie di champagne firmate da Ayrton Senna e Alain Prost. La vendita si chiuderà il 6 settembre.

Auto coperta dal telo? Multa. Parcheggiare un’auto, in vacanza, coprendola con un telo? Su un’area pubblica si rischia la multa. È accaduto a Lignano Sabbiadoro, con un’applicazione rigida del codice della strada. E pensare che c’era chi aveva coperto la vettura per evitare i danni della grandine.

116 27 agosto 2023
MOTORI Gianfranco Ferroni

AMICI BESTIALI Viola Carignani

Quando i cani sbadigliano

Segnali calmanti. Vorrei che i miei simili me ne mostrassero qualcuno. Meno male che lo fanno i cani, tra loro e con noi. È come sempre l’osservazione che ci aiuta a capire cosa vogliono dirci i nostri “amici bestiali”. Si tratta di uno studio recente quello sui segnali calmanti. La prima a parlarne, alla fine degli anni Ottanta, è stata un’addestratrice di cani norvegese: Turid Rugaas. Si è dovuto poi aspettare fino al 2017 quando un gruppo di ricercatori dell’università di Pisa del dipartimento di medicina veterinaria, ha fatto uno studio sperimentale, il primo di questo genere. Pubblicato sul Journal of Veterinary Behavior, il lavoro dei ricercatori, valuta la funzione comunicativa e calmante di alcuni comportamenti. Ma quali sono i segnali calmanti e come riconoscerli? Fate attenzione ai movimenti del corpo del vostro cane: gira la testa in certe situazioni, si immobilizza, si lecca il naso, si allontana, sbadiglia, alza la zampa anteriore. Sono alcuni comportamenti che dobbiamo leggere e interpretare. Il cane non parla, ma attraverso questi segnali, vuole dirci che è in difficoltà e che non vuole la rissa. Fate esercizio al parco o nei giardini riservati ai cani, dove è facile poter vedere come

CAREZZE E GRAFFI

Conoscere il cane ci aiuta a evitare situazioni difficili. I segnali del corpo ci indicano uno stato d’animo che a volte può sfociare in aggressività o in paura. Interpretare con tempestività un segnale farà felice il vostro cane, che saprà di poter contare su di voi. Parlare la stessa lingua rende il binomio indissolubile.

Definirsi dalla parte degli animali e non sapere nulla del loro mondo è uno degli atteggiamenti più comuni. Se non sapete cosa sono i segnali calmanti, come fate a capire cosa vi dice il vostro cane? Prima di autoconvincersi di essere il benefattore del mondo animale, è meglio cercare di capirlo questo mondo degli animali.

Gli animali mostrano segnali calmanti. Si bloccano, si leccano il naso, si girano. Per conviverci è importante riconoscerli

Un cane da pastore sbadiglia. La foto è stata scattata in Patagonia, Cile

comunicano tra loro. Con un po’ di applicazione, riuscirete anche voi a riconoscere il linguaggio del corpo canino e i suoi segnali calmanti. Postura, espressione, comunicazione visiva. Avere qualche nozione sul linguaggio degli animali è basilare, sia per vivere in coppia felicemente, sia per evitare spiacevoli situazioni che possono verificarsi sia nell’incontro con altri cani, ma anche con umani compresi i bambini. Troppo spesso ho a che fare con proprietari innamorati del proprio peloso, ma a digiuno di qualsiasi nozione. Convivere con un cane senza sapere nulla del suo mondo, porta spesso e volentieri a commettere una serie di errori. Facciamo un esempio banale. Il cane sbadiglia. Non lo fa perché ha sonno. Potrebbe trattarsi di un dolore o più facilmente di un segnale che sta cercando di inviarci perché stiamo mettendo troppa pressione e ci sta dicendo di andarci piano perché lui non ha intenzione di litigare ma davvero non riesce a sopportarlo. Provate a capirlo, a studiare, a fare qualche corso con un buon educatore cinofilo che faccia da mediatore tra il vostro e il suo mondo. I cani fanno ogni sforzo per venirci incontro. Ci sopportano e ci supportano. Ci sono. E sono sempre felici, a loro basta poco per esserlo. Spero che questa rubrica stimoli la curiosità di tutti voi che come me amate gli animali. Informarsi serve anche al loro benessere. Gli amici bestiali ringraziano.

Foto: Getty Images 27 agosto 2023 117

GUIDE DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini

Un gazpacho, cento varianti

Il principe delle zuppe fredde nasce in Spagna. Come le altre versioni: il Salmorejo di Cordova, più cremoso. O l’Ajoblanco, con mandorle e aglio

Energizzante color scarlatto, tra i piatti più apprezzati della cucina iberica, il gazpacho è il principe delle zuppe fredde, eccellente antidoto alla calura estiva grazie al perfetto connubio tra temperatura di servizio e proprietà benefiche dei suoi ingredienti salutari, ricchi di vitamine e sali minerali. Originario dell’Andalusia, in principio era un piatto umile, facile da assemblare dai braccianti in prossimità di una fonte d’acqua fredda alla quale essi univano pochi e semplici ingredienti, come una manciata di pane secco, un po’ d’aglio, olio, aceto e sale. Dopo l’introduzione in Spagna delle coltivazioni di pomodoro, arrivato dal Nuovo Mondo intorno al 1540 sulle navi del celebre esploratore Cortés, il protagonista della ricetta divenne il piccolo frutto rosso, al quale man mano furono aggiunti il peperone, la cipolla e il cetriolo, andando a delineare la ricetta del gazpacho moderno: ai vegetali crudi, si unisce anche il pane raffermo strizzato in aceto di ottima qualità, l’olio EVO, il sale e l’aglio, un pizzico di peperoncino, se piace: si compone così l’inconfondibile equilibrio di sapori del salubre brodo che i puristi della ricetta non rinunceranno ad ottenere riducendo in purea gli ingredienti con mortaio e pestello - ma anche un frullatore a immersione servirà egregiamente allo scopo. Dopo aver emulsionato il composto, il gazpacho andrà filtrato con un colino per eliminare i semi del pomodoro fastidiosi al palato. E va servito freddo, ri-

gorosamente freddo. Può aprire il pasto gustandosi come balsamica entrée, o costituire un leggero primo piatto – da irrobustire, volendo restar fedeli alla tradizione spagnola, con crostini di pane, cubetti di prosciutto e uova sode – oppure si può sorseggiare come rigenerante aperitivo da servire nel tumbler, meglio se ulteriormente raffreddato con qualche cubetto di ghiaccio. Gazpacho universale. E se nella galassia delle zuppe fredde le varianti alla ricetta tradizionale sono innumerevoli (restando in Spagna, per citarne un paio, si pensi al Salmorejo di Cordova, che in cromia tende più all’arancione e ha una consistenza più densa e cremosa data dalla maggiore quantità di pane raffermo e olio, oppure all’antico Ajoblanco delle parti di Malaga e Granada, con mandorle e aglio), basterà seguire la regola aurea di usare ingredienti freschi e crudi da emulsionare fino a ottenere la tipica consistenza, per poter tranquillamente osare tante reinterpretazioni del gazpacho classico quante gusto personale ed estro possono suggerire, usando, per esempio, frutta di stagione come anguria, melone e pesche al posto del pomodoro o adoperando diversi vegetali ed erbe aromatiche (come lattuga o basilico).

DOLCE E AMARO

Gazpacho brillante. Trucco: prima di porli nel mixer insieme agli altri ingredienti, è consigliabile aver ben refrigerato i vegetali in frigo: non solo il freddo manterrà vivace la cromia degli ortaggi frullati a dispetto del calore generato dalle lame, ma si otterrà già un gazpacho già in perfetta temperatura.

Gazpacho scomposto. Consiglio: non procedere ad un’ultima emulsione prima di servire il gazpacho, specialmente se il composto ha riposato a lungo in frigo. La parte acquosa tende a dividersi dalla polpa: accertarsi che tutto sia ben amalgamato e gustarlo in breve, prima che l’ossidazione incida sulla brillantezza del colore.

Foto: Getty Images
118 27 agosto 2023
Un piatto di gazpacho, fresco e prelibato d’estate

La nuova vita del Marsala

Una storia che inizia nel 1978, quando Marco, fresco di una laurea in agronomia, subentra alla madre Josephine nella conduzione del baglio Samperi, proprietà della famiglia da oltre due secoli. Lì nasce il mito moderno di Marco de Bartoli, personalità prorompente, capace di rivitalizzare una tradizione, quella del Marsala, mai così slegata da ingombranti relitti. Un vino che negli anni Settanta era sacrificato a logiche di commercializzazione di massa, che invece Marco, testardamente, riprende per mano grazie alla reintroduzione del metodo Solera (o Soleras), il perpetuo, l’unico a suo avviso capace di raccontare correttamente una tradizione territoriale, parlando il linguaggio evolutivo del tempo. All’inizio, in un panorama di vini “conciati” e fortificati, viene criticato ed osteggiato, fino ad essere accusato di sofisticazione. Uscito dalla crisi prosciolto e rinvigorito, ha la soddisfazione di vedere le sue intuizioni affermarsi rapidamente. Lo scenario, inutile sottolinearlo, è quello di Marsala, terra di uomini e donne dalle usanze antiche, inscindibili dalla campagna. Una tradizione che Marco ha sempre incarnato, e che dopo la scomparsa continua a vivere nel lavoro impeccabile dei figli Josephine (che porta il nome della nonna), Renato e Sebastiano, attraverso la produzione di tanti vini iconici, che hanno al centro, in varie interpretazioni, Grillo e Zibibbo, varietà da sempre fondamentali, con il più recente Catarratto. (Riuscitissime) versioni passite, secche, spumantizzate, con la recente introduzione dell’anfora in vinificazione - per il progetto dello Zibibbo di Pantelleria, che si affianca al Moscato del Bukkuram - capaci di rendere la cantina, che conta circa 19 ettari vitati, una delle più sorprendenti realtà del fascinoso viaggio vitivinicolo peninsulare, ideale punto di contatto tra sapienza artigianale e controllo, tutto moderno, del processo. Sopra tutto, il rispetto supremo per quella magica bevanda che chiamiamo vino.

La famiglia de Bartoli ha riportato in auge una tradizione. Con Grillo e Zibibbo, sempre fondamentali. E il più recente Catarratto

Una foto dell’azienda vinicola de Bartoli. A lato: i fratelli de Bartoli

VINO BIANCO VECCHIO SAMPERI

PUNTEGGIO: 98/100- PREZZO: € € €

Grillo 100%, un Marsala senza aggiunta di solfiti, additivi, fortificazioni, ma solo rabboccato, ogni vendemmia, con il 5% di vino nuovo, secondo il metodo perpetuo, per 20 lunghi anni. Un vino iconico, una delle esperienze-cardine della viticoltura moderna, non solo italiana. Naso di nespola, timo, tiglio e fiori di zagara. Bocca sapida, con impressionante persistenza. Perfetto a tutto pasto, ma incredibile in abbinamento con un classicone della cucina isolana come la pasta con i tenerumi, versione asciutta.

MARCO DE BARTOLI SOCIETÀ AGRICOLA

Contrada Fornara Samperi, 292

91025 Marsala (TP)

Tel. 0923 962093 - info@marcodebartoli.com

€ da 11 a 25 euro€ € da 25 a 35 euro€ € € più di 35 euro 27 agosto 2023 119
GUIDE DE L'ESPRESSO IL VINO Luca Gardini

Alla fine pagano sempre le donne

Cara Rossini, non serve più denunciare gli stupri e le violenze se finisce come in una delle ultime sentenze a Firenze, dove gli stupratori sono stati assolti per «aver commesso il fatto». Una ragazza diciottenne violentata da tre ragazzi mentre gridava «smettetela!» non ha fornito abbastanza prove che lei non ci stesse. L’assoluzione è avvenuta, come spiegano i giudici, per «un deficit di percezione del consenso». Come dire a qualcuno che uccide la moglie: «Non era abbastanza chiaro che lei volesse vivere». Doveva mettersi un cartello con scritto: «Non provateci perché non ci sto»? Sarà bene che le donne si muniscano di segnali chiari e messi per iscritto. E poi mostrarli agli individui che «ci stanno» a violentare, si divertono e ridacchiano pure. Temo che l’andazzo sia questo: le donne denunciano “troppo” perché si sono emancipate dalla stessa paura di denunciare; l’uomo si sente non libero di esprimersi perché rischia di finire denunciato e non ci sta. E ora potrebbe anche non aver capito, potrebbe essere che urlare «smettetela!» non è abbastanza chiaro e non significa che lei non è contenta. Uomini (o mezzi uomini) incapaci di avere dei rapporti reciproci e non malati o viziati dalle porcherie che guardano compulsivamente. La donna è tornata oggetto dopo le rivendicazioni femministe e i movimenti anti-violenza di ge-

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OPINIONI: Ray Banhoff, Fabrizio Barca, Francesca Barra, Alberto Bruschini, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Carlo Cottarelli, Virman Cusenza, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Enrico Giovannini, Nicola Graziano, Bernard Guetta, Sandro Magister, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Claudia Sorlini, Oliviero Toscani, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza

COLLABORATORI: Erika Antonelli, Viola Ardone, Nicolas Ballario, Giuliano Battiston, Marta

nere. Comunque vada, alla resa dei conti sono sempre le donne a farne le spese. Mariagrazia Gazzato

Purtroppo è vero quanto la nostra lettrice denuncia. Anche se non è aumentata nei numeri, la violenza degli uomini sulle donne si è fatta più spavalda e spudorata, quasi si nutrisse di una certezza d’impunità. Lo dimostrano le riprese di stupri di gruppo da parte degli stessi autori dei reati, filmati che poi vengono fatti circolare con ottusa vanagloria come se non fossero prove che quasi certamente li porteranno in galera. A questa cultura dell’irresponsabilità si risponde però con le solite proposte sull’aumento delle pene, senza risparmiarci quelle alla Salvini sulla castrazione chimica che ora, dopo l’orrore di Palermo (sette mascalzoni e una vittima), convince pure persone coltivate come Emma Dante. Ma la sensazione di essere arrivati a un punto di non ritorno ha suscitato finalmente anche una discussione seria sulle cause della crisi del maschile e sull’assenza del limite che domina i comportamenti dei giovani uomini. E siccome lo stupro non è sesso, ma cieco dominio, si torna a parlare della necessità di un’educazione non sessuale ma sentimentale. Non è molto, ma forse è un buon inizio.

Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Viola Carignani, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Stefano Del Re, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Maurizio Di Fazio, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Luca Gardini, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Andrea Grignaffini, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Gaia Manzini, Piero Melati, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Massimiliano Panarari, Simone Pieranni, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valerio, Stefano Vastano

PROGETTO GRAFICO: Stefano Cipolla e Alessio Melandri I font Espresso Serif e Espresso Sans sono stati disegnati da Zetafonts

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120 27 agosto 2023

Lasciate ogni speranza, o voi precari! Solo così forse continuerete a svilupparvi come una super specie quale ormai siete. Dimenticati dalla politica, perennemente in crisi, tra di voi regna la legge della Natura Matrigna: sopravvive solo il più forte.

L’Italia è la Sparta della vostra stirpe, la giungla biologico-economica in cui vi siete evoluti e siete sopravvissuti. Il mercato ha bisogno di voi, la sacra economia italiana vi sfrutta, ormai anche nel settore pubblico siete in abbondanza, quindi scordatevi di mutare la vostra condizione sociale. Precari siete e precari rimarrete in un sistema

Inutile aspettare Che Guevara, salvatevi da soli

di caste che vi vuole schiavi moderni. Non abbastanza schiavi da non avere il cibo, diciamo piuttosto il giusto refill monetario mensile per permettervi di pagare l’affitto, le tasse e le bollette. Le uscite, la vita sociale avete già imparato a ridurle al minimo, accampando scuse per evitare l’imbarazzo di non poter pagare il conto. Tranquilli, potrete vedere le partite (se proprio non avete i soldi per gli abbonamenti digitali, su qualche gruppo Telegram si trova ogni match in streaming pirata).

Producete, consumate, crepate voi eroi moderni necessari al Capitale per perpetuarsi; voi vittime del Mercato, il culto più in voga in questi anni senza dei. Siamo così evoluti ora che siamo quasi pagani, così emancipati, che non ci fa mica troppo dispiacere piegare milioni di esistenze a una vita di stenti. È il progresso, bellezze! Se sei povero è colpa tua; tu che vuoi il salario minimo

o il reddito di cittadinanza, tu che non hai voglia di lavorare!

Se da domani tutti i precari d’Italia incrociassero le braccia per una settimana, il Paese collasserebbe. Non funzionerebbe più niente, dalla scuola ai trasporti, passando per la consegna dei pacchi di Amazon, fino ai media. Ma non succede. C’abbiamo ’sta cosa per cui i nostri cugini francesi sono famosi per fare casino ogni volta che viene loro toccato un diritto. Noi no, poiché fare casino potrebbe significare anzitutto lo stigma sociale e la nomea di guastafeste con la conseguente minaccia del «non lavori più», letale per la nostra mentalità; ma, soprattutto, magari vi beccate il penale (o le botte) e tocca prendere un avvocato. Sapete quanto costa un avvocato? Lasciate perdere.

Forse i precari non protestano più perché sono troppo impegnati in un processo evolutivo che li renderà gli esseri perfetti dell’austerità economica. Esseri in grado di vivere con le borse dell’acqua calda sotto il maglione in inverno per risparmiare sul riscaldamento di casa, gente che cambia gestore telefonico di continuo per la tariffa migliore, esperti nella rateizzazione per gli strumenti informatici che usano per lavorare.

Sono troppo presi da questa continua necessità di sopravvivenza. Disabituati alla protesta, completamente scoraggiati dalla possibilità di un cambiamento, consapevoli che la politica deve occuparsi solo dei temi del giorno: il generale che scrive un libro in cui esprime i concetti che tutti i maggiori quotidiani di destra stampano da anni, la psicanalisi di Roberto Mancini che lascia la Nazionale, chi scopa chi nel mondo dei famosi.

In attesa che arrivi una sorta di Che Guevara a salvarvi, voglio solo ricordare una cosa: nella storia i diritti si sono sempre e solo conquistati con la lotta, oggi grande assente forse da riabilitare.

BENGALA
Senza i precari, il Paese crollerebbe. Ma loro non protestano. Per la gioia del Capitale, che li vuole schiavi
122 27 agosto 2023
RAFFO ART COMMUNICATION ROMA

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