L'Espresso 10

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DAL NOSTRO INFILTRATO SPECIALE

Proselitismo, welfare parallelo, nuove alleanze. Ecco cosa si muove nella galassia della destra più estrema in un’inchiesta esclusiva condotta dall’interno

numero 10 - anno 69 12 marzo 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSl oveniaSpagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70 SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA 4 euro

grazie al coraggio e alla professionalità del giovane giornalista Pietro Mecarozzi che questa settimana L’Espresso può offrire ai suoi lettori il racconto di uno spaccato inquietante, ma molto vero, di cosa succede, chi sono, come sono organizzate le nazi-fascio-gang di Milano e del Nord Italia. Mecarozzi ha fatto l’infiltrato utilizzando la strada dei social per i primi approcci. Poi le strette di mano, i saluti romani, le riunioni, i contatti diretti. Alle volte, ammette, mi rendevo conto che non ero uno di loro. E ha avuto timore di essere scoperto. «La paura più grande», scrive infatti nel suo articolo, «è quella di tradirsi per-

Non fanno paura i cimeli, ma stiamo all’erta sul presente

ché una volta dentro c’è una sola porta dalla quale, nel caso, poter fuggire. E decidono loro quando aprirla».

Accanto al racconto del “nostro infiltrato speciale”, che fotografa la parte più arrabbiata dei giovani di ultradestra, pubblichiamo altri articoli e servizi per cercare di spiegare cosa è il fascismo oggi, visto che se ne fa un gran parlare, proprio in questi giorni. Non abbiamo analizzato tanto i fatti specifici, ma il fenomeno. Che è ancora più allarmante.

C’è quel film divertentissimo con Frank Matano, “Sono tornato”, che racconta un improbabile Mussolini che all’improvviso ricompare ai giorni nostri e va in giro per Roma. Magari, assassinio del cagnolino a parte, il capo del fascismo fosse stato quello lì. Il Mussolini che si aggira per l’Italia non si vede, ma è come un refolo di vento che soffia tra le strade, penetra gli animi e an-

cora detta i comportamenti: arroganti, prepotenti, sprezzanti con gli umili, osannanti alla cultura del super uomo. Le curve degli stadi di calcio sono piene di esempi di fascisti del ventunesimo secolo. Ma anche le vie e i palazzi. La nostra società, la politica hanno aspetti di fascismo nei comportamenti, nella cultura. Manifestati dai politici, ma ormai e sempre più, anche dalla gente. Non deve far paura il passato, ma dobbiamo stare vigili sul presente. Impedire che la società, quasi inconsciamente, si faccia trasportare verso un buio moderno, diverso da quello del ventennio, ma comunque inaccettabile per un Paese democratico nato proprio dalla lotta al fascismo e dalla Resistenza, con una delle Costituzioni più avanzate dei Paesi civili che ci dobbiamo impegnare a difendere a qualunque costo.

Il fascismo è disperazione, ha scritto Oliviero Toscani nella sua copertina di questo numero. In effetti il fascismo oltre a esserlo, come dice Oliviero, è nato dalla disperazione, da quella dei reduci della Grande Guerra, dalla disperata fame di ricchezza di certi agrari e industriali dell’epoca, dalla disperazione di un Paese entrato con una guerra, cioè nel modo più sbagliato, nel Novecento.

In effetti la disperazione è proprio quello che fa più paura, non tanto i busti del duce conservati in salotto. Quello che deve far paura non sono i cimeli, ma i comportamenti, la cultura, l’educazione. La disperazione, appunto. E soprattutto l’educazione e la cultura possono darla solo la famiglia e la scuola. Insomma, l’antifascismo, ma più in generale il sentire, l’essere democratici, deve nascere dalla famiglia e dalla scuola. Deve muovere i primi passi della vita. Si può essere di destra o di sinistra ma se non si è inclusivi, aperti, soprattutto con i propri figli a cui dobbiamo insegnare il rispetto, la tolleranza, l’educazione, l’onestà, i valori del lavoro e della scienza, si è genitori semplicemente sbagliati. O disperati.

A preoccupare non sono i busti del duce. Ma i comportamenti, una cultura e un’educazione
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EDITORIALE

CHI SALE E CHI SCENDE

Sebastiano Messina

MICHELLE OBAMA

La prima vicepresidente donna degli Stati Uniti, Kamala Harris, ha scoperto dai sondaggi che la donna più ammirata dagli americani non è lei ma Michelle Obama. Che sei anni fa si disse felice di uscire dalla Casa Bianca, ma ora è considerata uno dei nomi più quotati, se mai Joe Biden dovesse decidere all’ultimo momento di rinunciare a ricandidarsi nel 2024. Anche perché negli Usa è ancora forte la nostalgia del marito Barack. Che sarebbe il primo “first gentleman” della storia.

SAMUELE CECCARELLI

Uno che nella graduatoria mondiale dei centometristi occupa la posizione numero

5457 sulla carta non aveva nessuna chance di battere l’oro olimpico Marcel Jacobs.

E invece Samuele Ceccarelli è riuscito, quasi dispiacendosi, nell’impresa di sorpassare per la seconda volta quello che chiama «il mio mito», conquistando il titolo europeo dei 60 metri. E ora l’Italia si chiede dove può arrivare, questo studente di Giurisprudenza che sognando di fare il giudice corre come un ghepardo.

ENZO BIANCO

«Non c’è quattro senza cinque», dice lui. Chissà se ce la farà, ma candidandosi a sindaco di Catania per il suo quinto mandato

Enzo Bianco - che è stato ministro dell’Interno, deputato e senatore - ha stabilito un primato: oggi è l’unico, tra i sindaci eletti nel 1993, a essere tornato in campo per un’altra battaglia.

In una città dove il centrosinistra ha preso alle politiche la metà dei voti del centrodestra (e del M5S) per accettare la sfida ci voleva coraggio. Lui ce l’ha avuto.

Due brutte sorprese per Giuseppe Conte. L’occasione persa di Ignazio La Russa

GIUSEPPE CONTE

L’ascesa del successore di Di Maio alla guida dei Cinque Stelle è stata interrotta da due cattive notizie. La Procura di Bergamo gli ha contestato i reati di epidemia colposa aggravata e omicidio colposo plurimo per non aver ordinato la zona rossa ad Alzano e Nembro. E intanto il M5S è stato sorpassato dal Pd di Elly Schlein (non accadeva dalle ultime elezioni). Chissà se sarà più facile fare i conti con il Tribunale dei Ministri o con un’alleata che gli porta via gli elettori.

IGNAZIO LA RUSSA

Il busto di Mussolini lo ha regalato alla sorella, ma il presidente del Senato continua ad avere un problema con la parola “fascismo”. «Mai più un odio così bestiale», ha scritto nel registro dei visitatori dello Yad Vashem, a Gerusalemme. Ma quando i giornalisti gli hanno chiesto se dunque condividesse le parole che vent’anni fa Gianfranco Fini pronunciò proprio lì («Il fascismo fu parte del male assoluto»), ha dribblato la domanda e anche i cronisti. Ha perso un’occasione preziosa.

NOVAK DJOKOVIC

Sarebbe bastata un’iniezione, una dose di vaccino anti-Covid. E invece Djokovic si è rifiutato ancora una volta. Così, dopo essere stato escluso dagli Australian Open (arrestato e poi espulso dal Paese) è rimasto fuori anche dagli Indian Wells, visto che gli Usa non ammettono viaggiatori non vaccinati. Lui prima ne ha fatto una questione di principio, poi ha chiesto una “dispensa speciale”. Ma di fronte al Covid le regole sono uguali per tutti. Anche per il numero uno del tennis.

Foto: Agf (4), Getty Images (2)
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Il 3 gennaio 1889 Friedrich Nietzsche scende dal suo appartamento in via Carlo Alberto a Torino, probabilmente per andare alle poste, e, secondo la ricostruzione dei fatti, assiste alla scena di un cocchiere che frusta a sangue un cavallo. Il filosofo salta sulla carrozza e getta le braccia attorno al collo del cavallo, singhiozzando. Subito collassa e viene riportato a casa, dove giace immobile e in silenzio per due giorni finché non mormora: «Madre, sono pazzo». Viene poi ricoverato nella clinica psichiatrica di Basilea. L’aneddoto mi ricorda quello raccontatomi da Bonnabella Reyes, nativa canadese a cui è stata diagnosticata la schi-

Siamo ribelli, proviamo rabbia e sofferenza

zofrenia per il suo rapporto con la Terra e la reazione nel sentirla morire sotto i piedi. La diagnosi di Reyes nelle comunità indigene è estremamente comune, riuscire a sfuggire dal ricovero forzato è meno comune.

Chi osserva è continuamente soggetto a violente epifanie, ingestibili individualmente, elaborabili solo collettivamente. La salute mentale dei ribelli è una cosa che viene discussa troppo poco e, tuttavia, c’è un legame storico tra chi devia dallo status quo e la patologizzazione. La maggior parte delle persone accetta l’inaccettabile, ma non lo gradisce: alcuni si ribellano apertamente; altri protestano attraverso sintomi fisici e mentali; alcuni fuggono verso una realtà diversa.

Jennifer Mullan, esperta di psicoterapia decoloniale, dice che la maggior parte dei ribelli sono vittime di gaslighting culturale.

Parte del fenomeno sono affermazioni reiterate socialmente, ma basate sulla menzogna

Il dolore è la risposta all’ingiustizia. Per elaborarlo servono spazi comuni. Perché la salute mentale è politica

(«la legge è uguale per tutti»), sull’inganno («il lavoro duro paga»), sulla minaccia o sulla negazione di un’esperienza vissuta, come nel caso della violenza di genere, sistematicamente confutata.

Veniamo educati a ignorare quello che sentiamo e osserviamo, soprattutto a gestire la reazione emotiva violenta che questo ci provoca. Io credo che la rabbia e la depressione siano risposte normali all’ingiustizia e alla sofferenza che ci circonda: alienarci per non percepirle significa violentare ciò che siamo. Lo sguardo analitico sul reale, quello che riconosce le connessioni tra l’universo e le creature, viene dipinto come frutto di chiaroveggenza o di psicosi. Nietzsche che sviene per la violenza contro un cavallo era in delirio, sull’orlo di un crollo, mentre è normalissimo assistere a cavalli stramazzati e rimanere impassibili, forse addirittura goderne. La letteratura decoloniale insegna che la psicoterapia spesso, in sistemi di oppressione, funziona come uno strumento di gaslighting culturale.

Ho già scritto su queste pagine di come per sopravvivere su un pianeta al collasso bisogna decidere con chi accordarsi e da cosa dissociarsi. Dopo la morte di decine di migranti al largo di Cutro, si è parlato di tutto tranne che dell’importanza di avere un luogo fisico per processare collettivamente. La nostra salute mentale è intrinsecamente politica e lo sono gli spazi di elaborazione: non dobbiamo anestetizzarci rispetto al dolore che proviamo, così come non dobbiamo minimizzare la nostra rabbia, né soffocare i singhiozzi né zittire chi pretende un mondo migliore. La necessità di creare luoghi in cui esistere, in cui poter portare sé stessi, non è banale. Sabato scorso, la parte abbandonata da dieci anni della stazione Prenestina a Roma, di proprietà della Rete ferroviaria italiana, è stata occupata dalla Laboratoria ecologista autogestita Berta Cáceres. Se le amministrazioni privatizzano e sgomberano, dove sono i luoghi per il lutto e la speranza radicale?

RESISTENTI
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Qualche giorno fa il Senato ha discusso la conversione in legge del decreto sulla trasparenza del prezzo dei carburanti. Vale la pena di guardarlo da vicino per capire come nascono le storture burocratiche.

Torniamo ai primi giorni del 2023. Il governo non rinnova lo sconto sulle accise introdotto da Draghi. Il prezzo dei carburanti sale e tutti se ne lamentano. Il governo, invece di difendere la propria misura, cerca di spostare il dibattito sul tema della speculazione. Insomma, le cortine fumogene della speculazione sono usate per mascherare una decisione poco popolare.

La burocrazia non fa aumentare la concorrenza

E se la colpa è della speculazione, allora occorre intervenire contro gli speculatori: il decreto in questione richiede, tra l’altro, che, da qui in poi, il prezzo medio regionale dei carburanti sia esposto nelle circa 22.000 stazioni di servizio italiane. Ora, è ormai stato acclarato che l’aumento dei prezzi alla pompa registrato a gennaio fu dovuto solo all’aumento delle accise. La speculazione non c’entra nulla. Ma, al di là della motivazione del provvedimento, l’esposizione del prezzo medio regionale è utile per aumentare la concorrenza nel settore della vendita alla pompa dei carburanti? L’Autorità garante della concorrenza e del mercato dice di no per due motivi. Primo, il prezzo medio regionale non è indicativo delle condizioni di concorrenza a livello locale. I benzinai non sono in concorrenza con benzinai che sono a un’ora d’auto di distanza. Un con-

to è vendere benzina in provincia di Sondrio, un altro a Milano, un altro a Mantova e così via. Il secondo motivo è che l’esposizione di un prezzo medio, se proprio ci si deve preoccupare di accordi collusivi, può proprio facilitare tali accordi. Insomma, perché vendere ben al di sotto del prezzo medio?

Certo, la trasparenza dei prezzi è importante. Ma perché prendersela proprio coi benzinai? Perché non richiedere di esporre il prezzo medio regionale per tutti i prodotti, per la frutta, il latte, il taglio dei capelli? Forse i meccanismi concorrenziali non funzionano per i benzinai? In questo settore l’entrata sul mercato è libera. Perché non preoccuparsi invece dei settori dove la concorrenza è ridotta perché esistono ancora le concessioni? Perché, per esempio, non richiedere ai balneari di esporre il prezzo medio degli ombrelloni?

Tutto questo aggiunge altri tasselli al mosaico della burocrazia italiana. I benzinai dovranno esporre i cartelli coi prezzi medi e cambiarli prontamente se vogliono evitare pesanti multe. La Guardia di finanza dovrà sorvegliare sull’esposizione dei cartelli e siccome dovrà farlo «senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», come dice il decreto, dovrà usare risorse cha avrebbero potuto andare a combattere l’evasione fiscale. Viene costituita una nuova “Commissione di allerta rapida di sorveglianza sui prezzi” che include la solita lista di funzionari pubblici. Il garante per la sorveglianza dei prezzi dovrà preparare una relazione trimestrale sull’andamento medio dei prezzi dei carburanti. E questi sono solo alcuni esempi. In ultima analisi, il decreto in questione dimostra la mancata comprensione di un punto fondamentale. La speculazione si evita attraverso la maggiore concorrenza, l’apertura dei mercati, non con commissioni di sorveglianza, rapporti trimestrali, e altre amenità burocratiche.

PER PARTITO PRESO
L’obbligo di pubblicità del prezzo medio del carburante non risolve di certo l’eventuale speculazione
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Francesca Barra

na cameretta con un piccolo lettino, un cappello di lana con due occhietti orientali disegnati. Come quelli che ha il loro bambino. E poi i vestitini, i giocattoli pronti per accogliere un bambino di sei anni.

«Ho dovuto regalare tutto a una mia amica ed è stato dolorosissimo. L’ho dovuto fare perché sono passati più di tre anni e Li Shiu, che doveva arrivare nella nostra famiglia a sei anni, oggi ne ha quasi dieci e la sua taglia, le sue esigenze sono cambiate. Ho tenuto solo il cappellino, come ricordo di quell’emozione tradita».

Paola e Ilario, come altre trenta coppie, a

Decine di coppie italiane aspettano dal 2020 l’arrivo dei figli adottati in Cina. Ma c’è chi non s’arrende

U BELLE STORIE

competenza diplomatica, e infine alla presidente Giorgia Meloni, sperando potesse prendere a cuore il dramma di queste famiglie italiane sciogliendo una situazione tragica: «I nostri piccoli hanno anche problemi di salute, che avremmo potuto curare». E poi ancora hanno coinvolto televisioni, giornalisti, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Santa Sede, confidando nella coerenza di chi si è sempre occupato di diritti, di giustizia, di famiglia, di fede. «Abbiamo ricevuto diverse risposte e impegni: ci dicono che sono a conoscenza della nostra situazione e che stanno facendo il possibile».

In questi anni, però, il possibile si è limitato a vedere crescere i bambini in fotografia o per pochi secondi in qualche video recapitato dagli enti che li hanno in custodia.

fine gennaio 2020, prima del lockdown, avevano finalmente ottenuto l’abbinamento dei loro figli in arrivo dalla Cina, nel corso di una procedura di adozione internazionale. In Italia, però, i bambini non sono mai arrivati e nessuno, ancora oggi, riesce a farli ricongiungere. C’è chi ha perso le speranze, chi lotta con ostinazione, chi manifesta cercando di far prevalere un diritto genitoriale che viene soffocato dalla burocrazia, dalle distanze.

«Noi non rinunciamo a lui, anche se il tempo passa ed è sempre più difficile. Come si fa ad abbandonare un bambino che era orfano, che già era stato abbandonato? È questo che ci ha spinti, in questi anni terribili, ad andare avanti».

Durante la pandemia le coppie hanno scritto al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, poi al presidente Mario Draghi, sperando di ottenere più risultati per la sua

I contatti sono rari e arrivano dopo otto, nove mesi, in cui un bambino inevitabilmente cambia, si trasforma. «Qualche volta, se passano troppi mesi, non riesco a riconoscere il mio Li Shiu. Lo abbiamo adottato che era diverso (e non solo per l’aspetto fisico). Anche noi siamo cambiati. Noi tutti ci siamo preparati ad accogliere dei bambini di un’età e ora ci troviamo a doverci riorganizzare, anche a livello materiale».

«Il mio pensiero è sempre andato a Li Shiu, a cos’altro fare. C’era un bambino che oggi è un ragazzino, dall’altra parte del mondo, per il quale, forse, noi rappresentiamo un’ultima occasione per poter avere una famiglia che lo amerà per tutta la vita. Il suo destino, la sua felicità dipendevano da noi fino a un certo punto. E oggi, invece, qualcuno ha fatto in modo che noi, il nostro impegno, il nostro amore incondizionato non bastino più».

Se questa diventerà una storia bella, come quelle che scrivo di solito su L’Espresso, dipenderà solo da chi non avrà permesso di continuare a lasciare spente le luci di queste camerette, pronte per illuminare delle nuove famiglie.

Le luci spente in quelle camere rimaste vuote 12 marzo 2023 11

Mi sveglio perché la tenda è chiusa a metà e allora la tiro con uno strattone e quasi spero che si strappi, torno a letto e quando strilla la sveglia del cellulare lo lancio sotto il comò, la moka ci mette troppo a gorgogliare e la insulto, il caffè mi brucia la lingua e lo sputo per terra, mia moglie si lamenta del suo lavoro e le dico di smetterla una buona volta, mio figlio piange e lo minaccio, fuori la pioggia mi bagna la

L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI
Aleandro Biagianti / Agf

testa e allora pesto una pozzanghera con il mio anfibio, la gente affolla la metropolitana e io mi faccio largo a gomitate, al quarto mendicante grido “siete troppi”, mio padre mi telefona nei momentipiùinopportunierifiutolachiamata,non

EDITORIALE Mirco Toniolo / Agf

saluto il mio collega perché è una nullità, la penna non funziona e picchio la punta sulla scrivania, mi chiama l’ennesimo call center e dico alla centralinista che almeno impari l’italiano, il capo passa dietro il mio computer con il salvaschermo di un’anziana intubata perché so che la

madre del mio capo se la passa male e io non voglio che se lo scordi, quello stronzo, come è messa sua madre, con le carognate che lui mi fa subire ogni giorno, in pausa pranzo il cameriere mi porta l’acqua frizzante invece della naturale e allora gli dico “del resto, se fai il cameriere”, poi un cane sta cagando sul marciapiede, il padrone è girato dall’altra parte e io gli schiaccio la coda, al suo cane, un ciclista mi sfiora la spalla e gli urlo dietro “spero che ti fracassi la

EDITORIALE
Tyler CacekRedux / Contrasto
/ Getty Images
EDITORIALE John Moore

testa”, salgo sul car sharing e pigio il clacson a ogni rallentamento perché lo capiscano, gli automobilisti che non sanno guidare, che preferirei scomparissero tutti dalla strada e dal mondo, mi chiama un amico complessato e lo sfotto perché è calvo, arrivo apposta in ritardo all’appuntamento con un cliente antipatico per rubargli mezz’ora di vita, torno

EDITORIALE

a casa e l’ascensore è occupato e do un calcio alla sua porta, tengo lo sguardo sul piatto per punire mia moglie dato che è sempre la stessa, accendo la tv, c’è uno speciale sulla guerra, mi indigno per quanto gli uomini sanno essere feroci e mi chiedo quanto debbano essere disperati per arrivare a odiare la vita.

Enrico Dal Buono Scott Olson / Getty Images

EDITORIALE

“L’uomo moderno che si tatua è un delinquente o un degenerato. Vi sono prigioni dove l’ottanta per cento dei detenuti è tatuato. Gli individui tatuati che non sono in prigione sono delinquenti latenti o aristocratici degenerati. Se avviene che un uomo tatuato muoia in libertà, significa semplicemente che è morto qualche anno prima di aver potuto compiere il proprio delitto”.

Adolf Loos, Ornamento e delitto, 1908

Scott Olson / Getty Images

PRIMA PAGINA

POLITICA

Gli immigrati sono in calo. E fanno meno figli. Rendendo sempre più drammatico il crollo demografico italiano

Il racconto in diretta di cosa accade fuori dalla destra di governo. I sei mesi di un cronista de L’Espresso come infiltrato tra i neofascisti

ECONOMIA

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Una società italiana sta per aprire il primo forno per produrre l’acciaio senza l’uso di carbone fossile. Il primo passo di una rivoluzione

Nero Nord. I miei sei mesi da infiltrato Pietro Mecarozzi 26 La scuola che fa politica presidia la Costituzione Viola Ardone 30 Il totem dell’identità sul baratro della storia Gigi Riva 32 Dai libri agli eventi: i camaleonti di propaganda nera Anna Dichiarante 36 L’antifascismo è un sentimento. Parola di Cervi Simone Alliva 38
L’invasione che non c’è Sergio Rizzo 42 I trasversali Casini e Sangiuliano Marco Ulpio Traiano 47 Poker nomine, l’all in di Meloni Carlo Tecce 50 Il Pd cambia: chi resta e chi va colloquio con Beppe Fioroni di Carlo Tecce 52 colloquio con Enrico Borghi di Susanna Turco 53 Non è stata tutta colpa del virus Gianfrancesco Turano 54 Vite in fuga. Cento anni di Interpol Simone Baglivo 60 Chi ha paura di TikTok Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni 62 Una stella non muore mai Elena Basso 64
Una speranza d’acciaio Gloria Riva 66 42
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L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi

numero 10 - anno 69 - 12 marzo 2023

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Borse di studio per colmare il gender gap. Corsi di laurea interdisciplinari. Parla la prima rettrice dell’Università più grande d’Europa

Per approfondire o commentare gli articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti

Industrie e camion: la pianura padana è il garage d’Italia Angiola Codacci-Pisanelli 72 Non piove, governo assente Vittorio Malagutti e Carlo Tecce 74 Due siciliani per Mediobanca Gianfranco Ferroni 79 Il grande bluff del nuovo stadio Gianfrancesco Turano 80 CULTURA Uomini sentimentali Paolo Di Paolo 82 Presi per la cravatta Sabina Minardi 85 Maschi smalto e kajal colloquio con Alessandro Giammei di Mario Desiati 88 La Sapienza investe sulle donne colloquio con Antonella Polimeni di Emanuele Coen 92 Gioco maledetto Caterina Bonvicini 96 A razzo verso le stelle Giuseppe Fantasia 98 I miei rituali di libertà Francesca De Sanctis 100 Nel suo intervento, Francesca Barra parla di un tema trascurato: decine di coppie italiane aspettano dal 2020 l’arrivo dei figli adottati in Cina. Ma c’è chi non s’arrende Copertina di Oliviero Toscani e Marco Morosini NON FANNO PAURA I CIMELI, MA STIAMO ALL’ERTA SUL PRESENTE Alessandro Mauro Rossi 3 Opinioni CHI SALE E CHI SCENDE SebastianoMessina 5 RESISTENTI DilettaBellotti 7 PER PARTITO PRESO CarloCottarelli 9 BELLE STORIE FrancescaBarra 11 BANCOMAT AlbertoBruschini 49 PALAZZOMETRO VirmanCusenza 59 FACCIAMO ECO GiuseppeDeMarzo 71 BENGALA RayBanhoff 122 Rubriche IO C’ERO - OlivieroToscani 12 LIBRI - SabinaMinardi 103 TEATRO - FrancescaDeSanctis 104 ARTE - NicolasBallario 105 MUSICA - GinoCastaldo 107 TELEVISIONE - BeatriceDondi 108 CINEMA - FabioFerzetti 109 MOTORI - GianfrancoFerroni 116 ANIMALI - ViolaCarignani 117 CUCINA - AndreaGrignaffini 118 VINO - LucaGardini 119 POSTA - StefaniaRossini 120 82 Uomini sentimentali 92

NERO NORD I MIEI SEI MESI DA INFILTRATO

Il racconto in diretta di cosa accade fuori dalla destra di governo. Forza Nuova sconta la scissione. CasaPound si alimenta attraverso Blocco studentesco.

Avanzano nuovi gruppi. E tessono reti

PRIMA PAGINA
26 12 marzo 2023
IN PIAZZA Un militante di Fn alla chiusura della campagna del 2018 12 marzo 2023 27

PRIMA PAGINA GALASSIA NEOFASCISTA

Camerata Marco Bini, presente. I saluti sono quelli romani: la stretta è tra avambraccio e mano, qualche volta si passa direttamente al braccio destro alzato in avanti, tenuto in tensione. La stessa tensione che mi ha accompagnato nei sei mesi in cui sono stato un militante (infiltrato) nelle cellule fasciste della Lombardia. Nomi diversi, abiti sempre neri, una millantata educazione di estrema destra: questi i tre pilastri su cui si è costruita la controfigura che ha viaggiato nel sottobosco nero del Nord Italia.

MANIFESTAZIONE

Attivisti di CasaPound a Roma contro l'Unione Europea e la politica sull'immigrazione.

Un universo in continua mutazione, che si mostra embrionale e strutturato allo stesso tempo, contaminato da modelli esteri e in grado di dar vita a comunità sempre più unite sotto il segno dell’antipolitica. Come dimostra il caso del Movimento Nazionale, che aderisce alla Rete dei Patrioti, un movimento politico non istituzionalizzato a cui appartengono diversi nuclei organizzati su tutto il territorio nazionale. Si tratta di una costola di Forza Nuova (Fn), ufficialmente nata a inizio ottobre 2020 da una scissione interna al partito di Roberto Fiore. «Fn non è più la stessa: la viscida politica di Roma ha inquinato il pensiero dei capi, e le posizioni prese durante la pandemia hanno diviso i militanti», spiega Alfredo, uno dei saggi della nuova creatura neofascista.

Mi sono avvicinato a loro, e agli altri schieramenti, tramite i social. Nelle chat le conversazioni sono senza filtri: si sentono più protetti, usano un codice binario di emoji (mano alzata come da saluto romano e aquila, o viceversa), e vomitano commenti – imbevuti di violenza e odio – su tutto lo scibile umano. In quelle stanze virtuali avviene il primo approccio, fingersi uno di loro è solo questione di scrivere messaggi ben calibrati. Tutt’altra storia, invece, è l’incontro di persona.

Prima di entrare al “Presidio”, attuale sede del Movimento Nazionale e storico circolo che si affaccia in piazza Aspromonte – a pochi passi da piazzale Loreto – che negli anni ha dato cittadinanza alle formazioni milanesi di estrema destra, in primis a Forza Nuova, ho ripassato bene la parte.

La paura più grande è quella di tradirsi, perché una volta dentro c’è una sola porta dalla quale, nel caso, poter fuggire: e decidono loro quando aprirla.

All’interno si respira un’atmosfera da dopolavoro. Gli sguardi stanchi ma vigili mi squadrano dalla testa ai piedi. Non sono uno di loro, ma posso tornare utile alla loro causa. Alfredo ha il compito di farmi da Cicerone. La sua carriera è lunga e travagliata: dalla gavetta nel Movimento Sociale Italiano (Msi) è arrivato fino ai vertici della Rete dei Patrioti; negli anni si è saputo adattare per non scomparire, cambiando casacca ma rimanendo fedele ai dogmi. Si muove con naturalezza tra gli stipiti del “Presidio”, mostrandomi le pubblicazioni della loro casa editrice e illustrandomi il manifesto del Movimento.

Sulla parete d’ingresso si staglia una grande bandiera con sopra ombreggiato in silhouette Massimo Morsello, figura principale della musica politica fascista italiana e,

Fingersi uno di loro sulle chat è solo questione di scrivere messaggi ben calibrati. Tutt’altra storia l’incontro di persona.
Il welfare parallelo e la solidarietà alimentano il proselitismo
28 12 marzo 2023

con Roberto Fiore, co-fondatore di Fn. «L’abbiamo tenuta perché Morsello rappresenta ancora oggi i nostri ideali, come l’abolizione dell’aborto e la centralità della nostra nazione e della nostra identità popolare», continua l’uomo. Sulle altre pareti si alternano croci celtiche e personaggi iconici della cultura nazi-fascista; c’è anche un palco dove si esibiscono le molte band della galassia nazirock, che, come si evince dai testi delle loro canzoni, hanno tutte un obiettivo comune: diffondere violenza, odio e xenofobia.

Il Movimento conta un centinaio di militanti, tra simpatizzanti e iscritti, molti dei quali sono giovani cresciuti a pane ed estremismo. Sono loro quelli che fanno più domande: sono un estraneo tra le mura di casa. Iniziati in tenera età, e tutti passati dall’accademia Forza Nuova (prima della scissione), adesso alcuni di loro ricoprono ruoli di vertice nella Rete, affiancando i vecchi colonnelli lombardi di Fiore: Duilio Canu, attuale presidente del Movimento Nazionale,

e Salvatore Ferrara, coordinatore Nord Italia. Il primo, pluri-inquisito e già leader dei violenti Hammerskin (gruppo antisemita e suprematista nato negli Stati Uniti da una scissione del Ku Klux Klan), vanta una lunga militanza a partire dagli anni ’90 proprio negli ambienti naziskin a Milano.

Quanto al posizionamento politico: il Movimento si ispira alla corrente di estrema destra, appoggiandosi per la sezione religiosa a Militia Christi (piccolo raggruppamentodel tradizionalismocattolicoferocemente omofobo e antiabortista), e per un sostegno ideologico a Etruria 14 (gruppo neofascista di Prato). Florido anche il dialogo con gli omologhi esteri, come i Sixty-Four Counties Youth Movement, un movimento di estrema destra originario dell’Ungheria e presente anche in Romania, Slovacchia e Serbia.

Mentre i rapporti con i grandi partiti si sono pressoché logorati: «Meloni e Salvini ci hanno tradito, facendosi corrompere dal potere istituzionale», spiega dal pulpito

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Foto pagine 26-27: F. Fotia / Agf. Foto pagine 28-29: A. Ronchini / Ansa
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NAZIONALISTI

Un raduno di destra a Varsavia nel giorno dell’Indipendenza polacca. A destra, manifestazione di Cp e Blocco studentesco

LA SCUOLA CHE FA POLITICA PRESIDIA LA COSTITUZIONE

Quando andavo alla scuola elementare, la maestra ci faceva cantare Bella ciao prima che iniziassero le lezioni. Era un rito laico quotidiano, un modo per dirsi buongiorno e per ricordare da dove proveniva la scuola pubblica nella neonata Repubblica italiana. Non c’entrava la politica, anche se era una scelta politica. La bandiera dell’antifascismo era come una sola larga coperta che abbracciava tutto l’arco costituzionale e non solo un partito. Alla scuola media la professoressa di Storia faceva accurate lezioni sui meccanismi della Repubblica, sugli organi e i poteri dello Stato, sui diritti e i doveri dei cittadini. Era politica anche quella, evidentemente, i ragazzini dovevano sapere che cos’era stata la

dittatura e che cos’è la democrazia. Sapere distinguere, fare le differenze: anche questo è politica. La scuola era la capitale dell’antifascismo, piantonava la Costituzione. Oggi da insegnante mi sembra che tutto questo dalla scuola sia quasi sparito. Lo studio della Storia e dell’Educazione civica ha un ruolo sempre più marginale nel monte ore e l’insegnante che porta l’attualità in classe viene guardato talvolta con sospetto.

Si pretende che il docente abbia un ruolo neutrale, che non abbia o almeno non manifesti un’idea sul presente sul passato e sul futuro. E se il numero dei votanti cala di tornata in tornata elettorale il motivo è anche da ricercare in questo “congelamento” della scuola rispetto alle tematiche dell’attualità, della contemporaneità, della politica in generale. Le nuove generazioni vanno educate alla partecipazione, certamente non suggerendo loro per chi votare (come se poi loro facessero quello che diciamo noi!) ma spiegando che in quel congegno fragile e imper-

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30 12 marzo 2023
L’intervento

del piccolo locale, durante la riunione, uno dei responsabili della sezione. Tra i militanti presenti nella platea si alza un mormorio: c’è delusione e rabbia verso la politica nazionale, e sopratutto nei confronti di Italexit, il partito di matrice sovranista ed euroscettica fondato nell’estate del 2020 da Gianluigi Paragone. «I nostri accordi con Paragone – svelano in coro gli oratori – sono saltati, sia per il fallimento nelle elezioni sia per degli attriti sul programma di partito». Il Movimento Nazionale con Italexit aveva siglato un’intesa per le elezioni dello scorso settembre, dove tuttavia ha ottenuto un risultato deludente, l’1,9% alla Camera dei deputati e l’1,87% al Senato, insufficiente per eleggere suoi esponenti. L’accordo si era tradotto in un pacchetto di candidature, tra cui quella di Giustino D’Uva (portavoce del Movimento) e Gianni Correggiari (dirigente), avvocato di Licio Gelli nel processo per la strage di Bologna e quella del leader.

A proposito di attriti, il grande tema della conflitto ucraino è un punto di frizione tra i gruppi di estrema destra. I “neri” di For-

za nuova sostengono la Russia e hanno relazioni con gli ideologi che hanno teorizzato la Nuova Russia, termine che identifica l’area del Donbass con le due repubbliche ora riconosciute dal Cremlino. I loro gemelli diversi di CasaPound, invece, appoggiano l’Ucraina, o meglio i nazionalisti di estrema destra di Kiev. Questa divergenza palesa una confusione ideologica non da poco. Un solo punto in comune: sono tutti contro la Nato.

Proprio Casapound e Forza Nuova vivono un periodo di inflessione. Il partito di Roberto Fiore è uscito ridimensionato dopo l’assalto alla Cgil avvenuto il 9 ottobre del 2021 a Roma, a margine di una manifestazione indetta per protestare contro il Green Pass. Pesantemente ridotta nel nu-

fetto che è la democrazia risiede l’unico antidoto al pensiero unico, alla censura, alla violenza. E che non bisogna mai aver paura di sostenere le proprie idee con le armi del dialogo e del confronto.

Una dirigente scolastica che commenta un gravissimo episodio di violenza e che citando Gramsci condanna il fascismo e l’indifferenza di quelli che non vi si oppongono con fermezza, è una persona che sta facendo “politica” nel senso più nobile del termine. Una preside che autorizza gli alunni a tenere un’assemblea di istituto per discutere di droghe leggere e legalizzazione e si vede arrivare la polizia a scuola a interrompere il dibattito, come è successo recentemente a Piazza Armerina, sta facendo “politica”, cioè sta insegnando a ragionare, a discutere e a confrontarsi. Un professore che il giorno dopo la tragedia di Cutro stigmatizza le parole del ministro dell’Interno che colpevolizza le

vittime invece che spronare alla solidarietà sta facendo politica, perché il principio solidarista è uno dei principi cardini della Costituzione antifascista.

Sarà forse per questo che, il giorno dopo l’aggressione neofascista di Firenze, ho sentito il bisogno di condividere in classe con i miei alunni le parole della preside Savino e mi è tornata in mente la mia maestra di tanti anni fa che, nel suo completo beige e camicetta bianca, si alzava in piedi e insieme a noi intonava le parole di un vecchio canto che comincia così: «Una mattina, mi son svegliata…».

Foto: J. Arriens –Sipa / Ipa Agency, C. Laruffa / Agf
Dalla scissione di Fn è nato il Movimento Nazionale che aderisce alla Rete dei Patrioti. A Cernusco una riunione finisce a cazzotti. Il movimento giovanile della Tartaruga è radicato in 54 città
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mero dei militanti e nella disponibilità di strutture organizzative, è passata da essere una forza di livello nazionale ad avere una presenza significativa solamente a Roma, Verona e poche altre città. Dopo l’addio dell’ex leader Giuliano Castellino, a caricarsi sulle spalle le sorti del movimento (in particolare nel Nord Italia) è il vicesegretario nazionale Luca Castellini, storico ultrà dell’Hellas Verona e dichiaratamente fascista.

A Milano la sezione zoppica vistosamente. Gli incontri sono pochi e sparsi nell’hinterland del capoluogo lombardo; tanti i militanti che hanno seguito la fronda della Rete dei Patrioti; i nuovi iscritti sono pochi e senza esperienza. Tento di partecipare a una delle poche riunioni tenutesi a Cernusco sul Naviglio, in un bar in pieno centro. È pieno inverno, la nebbia affolla le strade della cittadina milanese, all’incontro si presentano poco meno di una decina di forzanovisti. Il loro movimento è un animale morente, e fermare l’emorragia è quasi impossibile. Quell’incontro finirà con una rissa tra camerati. Allegoria perfetta di un momento storico dove

la vecchia guardia di estrema destra non riesce più ad essere un polo centrale.

Pur rimanendo la maggiore forza organizzata del neofascismo italiano, pur godendo di relazioni amichevoli con parti delle forze della destra parlamentare e pur mantenendo le notevoli capacità di dinamismo, azione politica, comunicativa e culturale, anche CasaPound Italia è in cerca di una nuova strategia stabile.Tesserarsi nella sezione di Milano è un’impresa: dopo un ping-pong tra chat e indirizzi mail, si finisce per rimanere appesi all’inerzia dei banchetti locali. Salvo lo spazio di Cernusco sul Naviglio, dove ha sede Altaforte, la casa editrice di Francesco Polacchi che pubblica anche il Primato nazionale, non esiste un vero punto di ritrovo per i militanti. Se non le commemorazioni, organizzate con la collaborazione del Movimento Nazionale: in quei momenti tutta la fronda di estrema destra si ricompatta. Basta avere una sciarpa e un cappuccio nero,

C IL TOTEM DELL’IDENTITÀ SUL BARATRO DELLA STORIA

osa siamo? Un Paese, una Patria o una Nazione? Spesso sono usati come sinonimi nonostante le differenze siano profonde. Paese è termine neutro, Patria fu riabilitato durante la presidenza Ciampi. Ora, con Giorgia Meloni al governo, è Nazione che spadroneggia nel discorso pubblico soprattutto per l’uso ossessivo che ne viene fatto dalla nuova maggioranza, tanto da legittimare il sospetto che non sia una mera questione semantica ma che si tenti di imporlo per un fine ideologico.

Nazione chiama nazionalismo e alimenta non già sinistri ma “destri” ricordi. Non per caso l’Associazione Nazionalista Italiana (ANI) fondata da Enrico Cor-

Gigi Riva

radini nel 1910, confluì nel Partito Nazionale Fascista nel 1923. Benché la prima avesse una matrice conservatrice e il secondo un afflato rivoluzionario, la linea di contiguità, oltre che di continuità, fu evidente. Fin dai nomi di alcuni protagonisti. Gabriele D’Annunzio fu dell’Ani e poi nei Fasci di combattimento. Alfredo Rocco, sì il padre del codice penale in vigore dal 1930, transitò da una formazione all’altra. Scrisse nel 1914: «L’individuo non vive solo nella classe e non vive affatto nella società di tutti gli uomini, ma vive invece e principalmente in quell’aggregato sociale, costituito dagli uomini della stessa razza, che è la nazione».

L’equivalenza tra nazione e razza sarà ripresa anche da Giovanni Gentile

La parola “nazionalismo” fu coniata nel 1774 da filosofo e teologo tedesco Johann Gottfried Herder, nemico della democrazia e del cosmopolitismo di matrice illuminista. L’opposto del patriottismo di Rousseau che

Le sigle si ritrovano compatte solo alle commemorazioni.
Ad Azzate, Varese, in 300 all’inaugurazione di Do.Ra. ispirato alle SS. Trasversale il reclutamento del gruppo Lealtà-Azione
L’analisi 32 12 marzo 2023

REPERTI

Un negozio di oggetti ispirati a fascismo e nazismo in vendita a Predappio, paese natale di Benito Mussolini

e la voglia di «essere dalla parte giusta della storia», mi spiega un militante in piazza Repubblica a Milano per la giornata dedicata alle vittime delle foibe.

Storia diversa invece per il Blocco studentesco: associazione d’ispirazione neofascista operante all’interno di scuole superiori e università, e diretta emanazione di CasaPound. Si tratta di una realtà presente in 54 città italiane, che coinvolge e indottrina centinaia di giovani, coinvolti in volantinaggio o azioni di contestazione (con striscioni o sit-in), e garantisce un serbatoio di militanti pronti per il passaggio alla casa madre della tartaruga frecciata. L’humus nel quale si sviluppa il Blocco è lo stesso di Azione studentesca, un altro movimento studentesco di estrema destra vicino a Fratelli d’Italia alla quale appartengono i sei giovani che il mese scorso hanno pestato ragazzi di fede politica opposta davanti al liceo Michelangiolo di Firenze.

Ci sono poi i Do.Ra. (acronimo della Comunità militante dei dodici raggi) con la loro nuova sede ad Azzate, Varese. Si trat-

contempla una comunità di uomini liberi, attivi e partecipi. Sappiamo quanto il nazionalismo, e dunque la competizione tra le nazioni, abbia contribuito in modo decisivo allo scoppio della prima guerra mondiale che fu, anche, la risposta alla prima globalizzazione. Benito Mussolini transitò da posizioni anti-belliciste a neutraliste per approdare a un convinto interventismo e per questo fu espulso dal partito socialista.

Trapassato remoto? Attenti ai ricorsi della storia. Le analogie con il primo Novecento si sprecano. Chiusa con l’implosione dell’Unione Sovietica la parentesi del secolo dei totalitarismi e in piena seconda globalizzazione, ecco riemergere per opposta reazione soprattutto nei Paesi ex comunismi forme nuove ed estreme di nazionalismo, culminate in ex Jugoslavia nelle guerre degli Anni Novanta, in cui furono protagonisti movimenti neo-ustascia in Croazia (e gli ustascia d’antan furono alleati di Mussolini e Hitler), il nazional-socia-

lismo di Slobodan Milosevic in Serbia. I secessionismi che ne seguirono avevano alla base l’idea che popoli di etnia (qualunque cosa voglia dire) diversa non potevano stare assieme. Si riaffermò l’identità tra razza e nazione. Milosevic: «Dove c’è un serbo là è la Serbia». Non così dissimile dalla giustificazione di Putin per l’invasione dell’ Ucraina: «Dobbiamo riunire tutti i russi in uno Stato». Il vento di destra ha dunque rimesso in circolo il nazionalismo. Se tutti i paragoni sono zoppi, e la storia non si ripete mai uguale a se stessa, non si possono non notare assonanze con epoche buie. Ad esempio nell’idea del primato di un popolo su un altro, «prima gli italiani» (Salvini, soprattutto), «prima gli americani» (Trump). O nella blindatura delle frontiere tanto da trasformare il Mediterraneo in un cimitero. Fino a poter concludere che, per tradizione ma non solo, se c’è nazionalismo senza fascismo non c’è mai fascismo senza nazionalismo.

Foto:C. Furlan / La Presse
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ta di un gruppo che si ispira a ideologie suprematiste e negazioniste. I Do.Ra. sono attivi e fanno proseliti, e per la loro nuova sede (300 le persone presenti all’inaugurazione) hanno battezzato un pavimento a mosaico che riproduce il “sole nero” della sala del castello di Wewelsburg, un tempo centro ideologico delle Schutzstaffel (le SS). Il loro ultimo affronto è stata una locandina – per pubblicizzare l’evento di capodanno – con una foto in bianco e nero che ritrae quattro membri delle Ss naziste che brindano con delle bottiglie di vino.

Nello spezzatino nero si ritaglia un posto di rilievo Lealtà-Azione. Un gruppo che si definisce metapolitico, esponente della destra identitaria e nazionalista che sarebbe però riduttivo definire neofascista. Operativa dal 2010, fin dall’inizio ha evitato di agire come un partito, puntando invece «a essere una comunità, un gruppo, una famiglia», spiega il referente giovani del movimento.

«Siamo circa 300 militanti, di cui una cinquantina di ragazzi, con tre sedi solo nel Milanese. La nostra forza è la formazione e la presenza in ambiti della società diversi tra loro, come nel caso della sezione animalista

“I Lupi Danno la Zampa”, o quella sportiva “Wolf Of The Ring”», continua il ragazzo.

Lealtà-Azione è diversa: non ha fame di arruolare nuovi iscritti, i suoi militanti hanno superato il dress code da Ventennio, e l’educazione politica è affrontata con serietà,

non limitata al saluto romano, bensì pensata per plasmare nel profondo il pensiero delle nuove leve. Il gruppo ha scelto inoltre di riformulare la propria immagine e la propria presenza web e social, e può contare su vicinanze fortissime con esponenti presenti in tutti i gradi istituzionali, dai consigli municipali al Parlamento europeo, passando dai consigli comunali, quelli regionali e il Parlamento nazionale.

Ad accomunare gran parte di queste realtà è infine il “welfare nero”, ovvero attività solidaristiche come l’aiuto alimentare a nuclei familiari indigenti o iniziative in favore dell’infanzia. Sono le principali azioni messe in campo dai movimenti, che riescono contemporaneamente a coinvolgere possibili nuovi militanti e garantirsi il favore delle comunità locali. Altro aggregatore (che sovrintende all’arruolamento) sono i social e le chat. Telegram e WhatsApp fanno da incubatrici: oltre a offese e insulti razzisti, nelle piattaforme vengono coordinate le azioni di contestazioni e, in modo predominante, vengono prodotte - con un collaudato team di profili social, blog, e siti di informazione alternativi - notizie di attualità e fatti storici completamente rivisitati e ristrutturati in chiave estremista.

NOSTALGICI

Bandiere naziste e fasciste in un negozio di souvenir nostalgici a Predappio

Tutti si dicono contro la Nato e gettano ponti con i nazionalisti esteri, dall’Ungheria alla Serbia. Sulla guerra gli uomini del movimento fondato da Fiore stanno con i russi, i cugini di CP con l’ultradestra di Kiev

Foto: F. Volpi / Getty Images PRIMA PAGINA GALASSIA NEOFASCISTA
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numero 8 - anno 69 26 febbraio 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco ovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra L’elisir Farnesina fa sopravvivere Tajani POLITICA Disuguaglianze, sanità, servizi e grandi opere. Il giudizio su Roma e Milano ipoteca il voto Regionale. Ma è davvero tutta colpa dei sindaci? STRAVIZI CAPITALI 12 febbraio 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco Slovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra 4,70 ABBONAMENTO ANNUALE CARTACEO 52 NUMERI + “Il Vetro Soffiato” di Eugenio Scalfari a soli Telefono: 0864256266 | E-mail: abbonamenti@gedidistribuzione.it | ilmioabbonamento.gedi.it ABBÒNATI QUI Abbonandoti a L’Espresso entro il 19/03/23 riceverai in esclusiva “Il Vetro Soffiato” di Eugenio Scalfari. Il regalo che tutte le settimane renderà felice ogni papà! €59,90 SCONTO 73% € 223,00 Il successo nelle primarie conclude la lunga marcia alla segreteria del Pd. Ma per Elly Schlein la vera sfida è adesso: dare un’anima al partito e un’identità alla casa della sinistra ARIA NUOVA Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco ovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra 4,70 Gli altri giorni solo L’Espresso L’Espresso La Repubblica Italia abbinamento obbligatorio alla numero anno 68 15 gennaio 2023 L’ITALIA DI DOMANI

Dai libri agli eventi I camaleonti di propaganda nera

ANNA DICHIARANTE

Fare proseliti anche tra chi è lontano dalla militanza. Normalizzare la propria ideologia, sdoganando concetti e simboli che dovrebbero essere ormai fuori dalla storia. Convincere l’opinione pubblica di poter offrire la versione autentica dei fatti, oscurata da una fantomatica narrazione dominante. Su questi pilastri si fonda la rivendicazione dell’esistenza di una cultura di destra, portata avanti in maniera carsica e ora –con un partito come Fratelli d’Italia al governo del Paese – in modo più plateale. Un protocollo adottato dai movimenti di matrice neofascista per uscire dal sottobosco in cui si muovono i camerati e legittimarsi a livello sociale.

Emblematico è l’esempio di Altaforte: la casa editrice fondata nel 2018 come costola del Primato Nazionale, quotidiano online che si autoproclama «sovranista indipendente». Parimenti, le edizioni si propongono come «un marchio per rispondere a chi chiede chiavi di lettura alternative rispetto alle interpretazioni omologate e lontane dal politicamente corretto». Ed è facile intuire da dove arrivino queste chiavi di lettura. Altaforte, infatti, è creatura di Francesco Polacchi: ideatore del brand di abbigliamento Pivert (indossato, tra gli altri, da Matteo Salvini), ex responsabile nazionale di Blocco Studentesco e dal 2004 membro, vicinissimo ai vertici, di CasaPound Più di una volta Polacchi è finito sotto processo per aver partecipato ad assalti contro attivisti

di sinistra e per apologia di fascismo.

Altaforte promuove presentazioni dei suoi volumi in varie città, suscitando puntuali contestazioni. Si scatena il putiferio, nel 2019, quando viene invitata al Salone del Libro di Torino: gli organizzatori sono costretti a fare retromarcia e a escluderla dalla manifestazione. Polemiche montano pure nel novembre 2020 a Cernusco sul Naviglio, nel Milanese, per l’apertura della sua libreria. Che, di fatto, funge da base di CasaPound. A tenerne le redini il movimento manda un suo dirigente di Pavia, Lorenzo Cafarchio. «In un video del dicembre 2020 si sentono i clienti di questa peculiare libreria intonare un coro: “Ce ne freghiamo della galera/camicia nera trionferà/se non trionfa sarà un macello/col manganello e le bombe a man”. Un’aria simile a quella che si è respirata per anni attorno alla sede pavese di CasaPound, di cui Cafarchio è stato capo e animatore. E lì, nel 2017, ha aggredito due militanti di un vicino circolo Arci. Episodio per cui è tuttora imputato», ricorda Luca Casarotti, presidente della sezione cittadina di Anpi Pavia.

La libreria di Cernusco, insomma, è lo strumento per mettere in pratica un metodo. Al di là del caso concreto, bisogna guardare alla questione teorica sottintesa. Come spiega Casarotti, «un documento apparso

Foto: I. Benedetto/LaPresse, N. Marfisi / Agf
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Proselitismo ma senza insegne. Non solo un modo per aggirare i divieti: è l’espediente per costruire una egemonia culturale. Con in testa la casa editrice Altaforte e il manifesto “Sorpasso neuronico”
36 12 marzo 2023

CONTROVERSO

Francesco Polacchi, fondatore della Altaforte Edizioni e membro di CasaPound. A sinistra, alcuni libri pubblicati dalla casa editrice

in Rete nel 2008 aiuta a decifrare il fenomeno. S’intitola “Sorpasso neuronico” ed è firmato da Gabriele Adinolfi: fascista di lungo corso, elemento di spicco di Terza Posizione e della Guardia d’onore Benito Mussolini, è stato latitante all’estero dopo una condanna per associazione sovversiva e banda armata. Ebbene, il suo scritto è celebre tra gli studiosi della destra estrema contemporanea in quanto prospetta una strategia di entrismo e di mascheramento. Indica una linea di condotta: invece di confinarsi nel ghetto dei gruppetti neofascisti, i camerati devono agire in modo pervasivo ai vari livelli della società civile».

Le azioni da intraprendere, per Adinolfi, sono quattro. Rendersi attivi nel terzo settore, aderendo ad associazioni esistenti o creandone di nuove; sfruttare i ruoli ricoperti nell’amministrazione, nell’informazione, nel mondo produttivo e così via per diffondere le parole d’ordine funzionali alla causa; formare think tank che radunino dirigenti e intellettuali d’area; infine, qualora vi sia l’occasione, entrare nelle istituzioni. In ambito sociale, culturale e ricreativo, il lavoro va svolto rigorosamente senza insegne neofasciste. «È un tentativo di creare egemonia e, al contempo, di aggirare il problema storico del neofascismo postbellico: l’impossibilità, presentandosi a volto scoperto, di ottenere con-

sensi che oltrepassino la cerchia dei già convertiti. È evidente come Adinolfi sintetizzi la prassi seguita dall’estrema destra negli ultimi decenni», prosegue Casarotti. A provarlo sarebbero gli affari imprenditoriali di Polacchi e, risalendo agli anni ’80, quelli di Roberto Fiore, fondatore di Forza Nuova, con l’agenzia Easy London. Poi ci sono le associazioni sportive, come La Muvra (CasaPound) e Wolf of the Ring (Lealtà Azione), di volontariato, come La Salamandra (CasaPound), o femminili, come quella intitolata a Evita Peron (Movimento nazionale – La rete dei Patrioti). Ma pure un centro studi come l’Istituto Stato e Partecipazione: il vicepresidente Emanuele Merlino, figlio di Mario, esponente di Avanguardia nazionale, è stato vicino a CasaPound e adesso guida la segreteria tecnica del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano «L’elenco dimostra che il mascheramento non è del tutto riuscito, perché la provenienza di tali realtà parapolitiche non è difficile da identificare. Il punto non è che esse facciano un’attività illegale, è che non si può non valutarne l’operato alla luce dell’obiettivo a cui mirano: l’egemonia tramite la leva dell’intervento sociale». Il neofascismo, quindi, ha un’elaborazione teorica. «Si sbaglierebbe a pensare il contrario – conclude Casarotti – l’elaborazione, però, è esigua. In Italia sopravvivono due filoni teorici: il tradizionalismo che si richiama al filosofo Julius Evola e la nouvelle droite o “gramscismo di destra” riconducibile ad Alain de Benoist, da cui deriva la strategia analizzata. Conoscerli è importante, perché non sono appannaggio esclusivo dei gruppi dichiaratamente neofascisti, i quali versano in grave crisi, ma permeano la cultura di destra ufficiale. Hanno in comune la creazione di campi semantici: la tradizione, le radici, l’uso del mito… Parte della nostra capacità critica sta nel drizzare le antenne, senza scadere nella paranoia, qualora questi ultimi vengano branditi in programmi tv, convegni universitari o dibattiti politici».

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L’antifascismo è un sentimento Parola di Cervi

Adelmo Cervi parla del diffuso neofascismo italiano sopravvissuto nei decenni, strisciante nelle cronache, irrobustito nel Paese e batte i pugni sul tavolo, grida: «È uno schifo totale, un obbrobrio per il vivere civile, un insulto alla storia della mia famiglia, a chi ha combattuto per avere un po’ di libertà e un po’ di giustizia in questo Paese». A ogni pugno il tavolo di legno centenario traballa. Siamo in provincia di Reggio Emilia in una casa contadina, la casa della famiglia Cervi ai Campi Rossi di Gattatico, simbolo di un antifascismo generoso incarnato dai sette fratelli che all’alba della guerra partigiana, nel 1943, pagarono con la vita il tentativo di far germogliare la Resistenza in Emilia. Adelmo Cervi è il figlio di Aldo, uno dei fratelli. Ottant’anni anagrafici, trentaquattro percepiti. Nei suoi occhi c’è la forza di quel che si è sempre sentito raccontare, mai vissuto: lieve nostalgia, una passione quasi antropologica per la giustizia: «L’antifascismo è un sentimento. Ma non servono celebrazioni, commemorazioni di morti. Serve far vivere l’insegnamento». Adelmo incarna la storia del nostro Paese. Fisicamente. Le mani nodose che disegnano nell’aria, il volto intenso solcato dalle rughe e dalle responsabilità pesanti di chi da quando è nato coltiva «un sentimento».

«Di mio padre ho sempre conosciuto il mito, mai l’uomo. Chi era veramente, non lo so». Aveva pochi mesi quando è stato ucciso. È di questo che parla

“I miei sette padri”, il documentario girato da Liviana Davì. Di un figlio alla ricerca. Di memoria e di assenza. Di cosa resta di un padre che non c’è più eppure è così vivo in ogni celebrazione, in ogni via, in ogni statua, in ogni piazza d’Italia: «Questo mito si è portato via mio padre. Mi ha lasciato in cambio soltanto un nome e una lapide per poi fare di lui un pezzo di un monumento unico, una statua a sette teste, sette uomini, sette vite, sette morti, sette medaglie». Nell’anno in cui si celebra l’ottantesimo anniversario dell’eccidio dei Cervi, “I miei sette padri” racconta l’eredità dei fratelli antifascisti attraverso lo sguardo di Adelmo, sapientemente circondato di testimonianze inedite: le pellicole 8 mm girate da Mario Cervi (figlio di Agostino) negli anni ’80, i passi tratti dal libro scritto da Adelmo assieme a Giovanni Zucca e ancora foto, documenti e archivi della famiglia.

PRIMA PAGINA LA MEMORIA RESISTENTE
Non servono celebrazioni, né commemorazioni di morti. Serve far vivere l’insegnamento, dice Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette fratelli giustiziati dai fascisti nel 1943
38 12 marzo 2023
dal nostro inviato SIMONE ALLIVA da Gattatico, Reggio Emilia

LA FAMIGLIA

Alcide Cervi, (18751970) al centro della foto scattata nel 1950 con le due sorelle, Rina e Diomira, le due vedove di due dei sette fratelli Cervi, gli orfani e i nipoti

Per l’occasione a L’Espresso Adelmo apre le porte di Casa Cervi dove il 26 marzo, anniversario della morte di Alcide, padre dei sette, si presenterà in anteprima il film.

Entriamo nella casa-museo che rimanda subito al mondo contadino scomparso: aratri, telai, bidoni per il latte. Ovunque appaiono le immagini dei sette, di papà Alcide Cervi e della mamma Genoveffa Cocconi. Adelmo tutto vestito di rosso è un fiume in piena: l’antifascismo, il governo Meloni, la nuova segretaria del Partito Democratico, le nuove generazioni. «Sono figlio di Aldo Cervi e di Verina Castagnetti. E a dire la verità un po’ ce l’avrei anche su con questo mito. La storia non era di sette comunisti rivoluzionari alla Che Guevara, mio padre era contadino e lo è rimasto. Solo che si è ribellato alle ingiustizie. Ed è la cosa più naturale».

Il padre di Adelmo «era la testa della famiglia». Formatosi in una particola-

La strage decisa dai repubblichini

La mattina del 28 dicembre 1943 al Poligono di Tiro di Reggio Emilia, i fratelli Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi assieme a Quarto Camurri, compagno di lotta di Guastalla, vengono fucilati e sepolti da uno squadrone fascista per rappresaglia ordinata dai maggiorenti della Rsi reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani a Bagnolo. L’evento rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia: nei Cervi i repubblichini riconoscono un nemico organizzato, il primo di cui hanno raccolto tracce. Per i fascisti, i sette fratelli sono la “banda Cervi”, un nucleo di ribelli sediziosi e comunisti. Hanno imbracciato le armi dopo l’8 settembre e fatto della loro casa un rifugio per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. Per questo il 25 novembre del 1943, un mese prima dell’eccidio, un plotone della Guardia Nazionale Repubblicana circonda la casa della famiglia Cervi e le dà fuoco, determinando la resa degli antifascisti e l’arresto di papà Cervi, e dei sette figli maschi.

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PRIMA PAGINA LA MEMORIA RESISTENTE

rissima scuola: il carcere di Gaeta dove aveva conosciuto esponenti dei movimenti antifascisti ed intellettuali. Nella vicenda Cervi affondano le radici della Resistenza italiana. La loro vita, la loro lotta, la loro morte. Pur legati alle strutture clandestine del Partito Comunista, erano «indisciplinati» e la stessa allergia alle regole, ai fascismi scorre potente nelle vene di Adelmo.

«Mio padre era non solo antifascista ma anti-capitalista. Questo lo scriva, mi raccomando. L’antifascismo senza l’anti-capitalismo non ha senso. Il fascismo è stato ed è il braccio armato del capitalismo». Dentro queste mura simbolo di prime resistenze, riunioni clandestine, opposizione al regime, ospitalità ai rifugiati: «Il 25 luglio del ’43, giorno in cui fu deposto Mussolini, offrimmo pastasciutta a tutto il paese». Accogliere chi resiste e resistere insieme.

«La casa Cervi è sempre aperta», sottolinea Adelmo che oggi ospita una famiglia ucraina in fuga dalla guerra, madre e figlia.

«La nostra storia parla troppo poco delle donne che hanno portato avanti questa famiglia e mi dispiace. Non erano sette fratelli. C’erano anche due sorelle, cinque vedove. Ma quello era lo spirito del tempo. Anche le partigiane non le chiamiamo mai partigiane ma staffette. Penso spesso a Lucia Sarzi, la prima donna arrestata dal fascismo. Staffetta dicono, ma era una dirigente nazionale che aveva messo in contatto mio padre con Amendola e con coloro che erano dirigenti in Emilia del partito

comunista clandestino. Per fortuna stiamo superando anche questa concezione maschilista. Se sei anti-fascista devi essere per forza anche anti-razzista, anti-capitalista. Altrimenti l’anti-fascismo è una parola vuota». Intersezionale, anti-litteram. «Ho appoggiato Elly Schlein, qualcuno mi ha insultato - sorride amaro –avevo dei compagni nei centri sociali che non hanno amato la mia scelta. Ma conosco Elly da tempo, anche lei come me vuole un partito di sinistra. E sa che le dico? Siccome questo PD non è mai stato di si-

nistra era il caso di provarci. Lei è giovane, donna, profuma di aria nuova. Capisce? Di sinistra. Ma non so quanto potrà durare dentro quel partito». Adelmo con il Pd non è mai andato d’accordo, anzi ci ha litigato e parecchio. «Sono ancora arrabbiato per quello schifo votato dal Parlamento Europeo», dice riferendosi alla risoluzione che nel 2019 ha sostanzialmente equiparato sul piano storico il nazismo al comunismo. «Se l’avessero detto ai tempi dei fratelli prendevano legnate. Il nazismo è stata la dittatura più criminale che possa esistere. E poi essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse per tanti motivi ma per una fondamentale, l’esistenza, il rispetto, il valore, l’amore del prossimo. Per capirlo basta rileggere la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - che spiega all’articolo 2, pro-

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Mio padre era contadino e lo è rimasto. Solo che si è ribellato alle ingiustizie. La nostra storia parla troppo poco delle donne che hanno fatto la Resistenza. E le partigiane le chiamiamo soltanto staffette

prio all’inizio: il valore inderogabile della solidarietà. Rispettare, chiedere giustizia, dare solidarietà. Pensare che c’è sempre chi sta peggio di te».

Quando gli si ricorda del governo di Fratelli d’Italia, il più a destra della storia della Repubblica batte ancora il pugno sul tavolo e urla: «La fiamma! Faccio fatica a parlare di democrazia quando al governo abbiamo qualcuno che gira con quella appiccicata. Un simbolo del fascismo. Certo, hanno diritto ad averla ma io ho diritto di dargli del fascista». Ma come si riconoscono oggi i fascisti? «Sono i boriosi, pensano di essere al di sopra di tutti. Chiunque usi la violenza per imporsi lo è. Per me anche Stalin è stato un gran fascista». È a questo tempo a cui parla e guarda oggi Adelmo, gira l’Italia invitato dai giovanissimi nelle piazze, nelle scuole, nei teatri, nelle loro case come un amico, un compagno. Dall’altra parte riemergono simboli, croci runiche e aquile, giovani fascisti di ritorno, figli dell’odio e del disprezzo: «Forse avendo al

governo dei rappresentanti si sono rassicurati. Ma quello che ci deve far pensare è che sono dei ragazzi. Fossero dei vecchi bacucchi lasceremmo perdere. Siamo di fronte alla de-generazione capitalista. Al cinismo egoista e squallido. I genitori insegnano che solo a spese degli altri si costruisce la propria fortuna, ciascuno la sua. I ragazzi mi cercano e capiscono che si può vivere in un mondo serio che non bisogna chiudere con l’ideologia ma con le porcherie. Ogni tanto basterebbe riprendere la nostra Costituzione e fare un pieno di memoria».

Al suo fianco c’è Liviana Davì che conosce Cervi da anni, quando lavorava presso il Museo. Questo documentario nasce nel lontano 2017: «Il suo impegno lungo una vita per l’antifascismo mi ha convinto che fosse il protagonista ideale di questa storia incredibile. Nel film è presente anche la nipote che insieme al nonno cerca in un tempo che non ha conosciuto un presente dotato di senso. È un frammento di storia da tramandare a chi verrà».

IL DOCUMENTARIO

Adelmo Cervi. Qui accanto, Liviana Davì, la regista del film “I miei sette padri”. Nella foto grande, una scena del film

Foto:Matilde Piazzi (2)
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L’invasione che non c’è

Gli immigrati sono in calo, clandestini e regolari . E fanno meno figli. Rendendo sempre più drammatico un problema che si aggrava da anni: il crollo demografico italiano

POLITICA DESERTO ITALIA
42 12 marzo 2023

SALVI

Un gruppo di migranti salvati da un naufragio

SERGIO RIZZO

Senza gli immigrati saremmo in una condizione da allarme rosso. Tra l’altro anche gli immigrati, a causa delle condizioni economiche, hanno diminuito da qualche anno il loro tasso di natalità. Non dimentichiamo che una popolazione che tende a invecchiare è sull’orlo di un inevitabile declino». L’avessero ascoltato, il presidente della Camera Gianfranco Fini Batteva e ribatteva su quel tasto ogni volta che ne aveva l’opportunità. Convinto che la società italiana sempre più anziana richiedesse «politiche a sostegno delle famiglie italiane», ma anche politiche di integrazione «mirate per i nuovi cittadini italiani figli dell’immigrazione».

Questo diceva l’ex leader di An nell’aprile 2010 a un convegno organizzato dalla più giovane esponente del governo allora in carica. Ossia, la ministra della Gioventù Giorgia Meloni, sua discepola e futura premier. Della quale non si ricorda, nell’occasione, alcuna reazione apertamente contraria ai «cittadini italiani figli dell’immigrazione».

Fini non era mai stato fautore dell’apertura indiscriminata delle frontiere. Otto anni prima aveva firmato con Umberto Bossi la legge per introdurre il reato di immigrazione clandestina. Che però, paradossalmente, aveva consentito anche la più massiccia e fulminea regolarizzazione di immigrati clandestini. Nel numero di 641.638. Perché va bene la propaganda, ma poi i conti bisogna sempre farli con la realtà.

E la realtà, nel 2010, è già quella. L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa e la natalità segna il passo. Bisogna correre ai ripari e Fini lo dice. Ma la crisi è spaventosa e la politica non sa dare risposte. Così vince la paura, sapientemente alimentata dalle teorie complottiste. E la destra sovranista decolla anche in Italia.

«I dati Istat certificano una realtà drammatica. Le nascite crollano, il numero dei morti aumenta e il disegno di sostituzione etnica che noi abbiamo denunciato è realtà», dice la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni l’8 febbraio 2018, alla vigilia delle politiche. Le fa eco Matteo Salvini: «Record negativo di bambini nati in Italia nel 2017, solo 464.000, il minimo storico. Questo è

ELEMENTARE

Un’aula della scuola elementare Parco di Vejo a Grottarossa, nei pressi di Roma.

il peggior fallimento del governo, che attua una sostituzione etnica sostituendo migliaia di immigrati ai figli che gli italiani non possono più mettere al mondo. Mio primo obiettivo di governo sarà tornare a riempire le culle». Già, le culle vuote.

Al governo Salvini ci va, ma le culle non si riempiono.

Le nascite scendono ancora a 439.747 nel 2018, poi a 400.249 nel 2021. Le stime dicono che nel 2022 per la prima volta dal 1861 saranno nati in Italia meno di 400 mila bambini. Quanto alla presunta sostituzione etnica, è una boiata pazzesca. Dal 2016 il numero dei figli di genitori stranieri è sceso senza soluzione di continuità. Nel 2018 sono stati 65.444. Per ridursi, tre anni più tardi, a 56.926, con un calo del 13 per cento. Anche tutti gli altri, cioè i figli delle coppie italiane e miste, hanno subito una flessione significativa, ma decisamente più

POLITICA DESERTO ITALIA
Dal 2016 a oggi il numero di figli di genitori stranieri è sceso senza interruzione. Più ancora di quello dei figli di italiani.
E siamo da tempo il Paese più vecchio d’Europa
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lieve. Meno 8,2 per cento, passando in tre anni da 374.303 a 343.323.

Dimostrazione che smontare certe bufale non è poi così difficile. Ci sono le statistiche. E se taluni politici si informassero come dovrebbero, prima di parlare, eviterebbero qualche brutta figura. Scoprirebbero, per esempio, che la presunta invasione degli immigrati non sta evitando all’Italia di perdere popolazione a rotta di collo. Nonostante il calo delle nascite non sia fenomeno recente, il Paese ha continuato a crescere fino al 2014, quando i residenti avrebbero raggiunto il numero di 60 milioni 795.612. Da allora però la discesa è a precipizio.

All’inizio del 2022 eravamo 58 milioni 983 mila: 253 mila in meno rispetto all’inizio del 2021, certifica l’Istat. Responsabili in larga misura gli immigrati regolari, con un numero calato di 141.178 unità da 5 milioni 171.894 a 5 milioni 30.716. Una riduzione

del 2,73 per cento in un solo anno, sei volte più pesante in proporzione del meno 0,43 accusato per tutti i residenti.

Non bastasse a liquidare il fantasma di Kalergi e della sua teoria della Grande Sostituzione Etnica ordita per spazzare via le popolazioni europee e declinata in salsa italiana, ecco che metà degli immigrati regolari sono europei; un quarto risultano cittadini dell’Unione e più di un milione sono i rumeni. Diminuiscono gli immigrati regolari, e calano anche i permessi di soggiorno. Nel 2022 poco più di tre milioni e mezzo, di fatto la cifra più bassa da dieci anni a questa parte. Un milione dei quali, anche qui, chiesti da cittadini europei.

E gli immigrati clandestini? «Sostengo una tesi corroborata da numeri. Negli ultimi sei anni in Italia sono arrivati 700 mila immigrati e sono contestualmente scappati 500 mila italiani», si infervora a novem-

Foto: pagine 4243 G. Pinon/NurPhoto via Getty Images, pagine 4445 A. Serrano' / AGF
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bre 2019 Giorgia Meloni contro Report che rilancia, per lei in un contesto strumentale, le prese di posizione sue e di Salvini sulla sostituzione etnica. Ma nemmeno in questo caso i numeri tornano. Almeno raccontati così. Prima di tutto la fuga di 500 mila italiani è inventata. Fra il 2013 e il 2019 i residenti sono calati di quasi un milione, ma per circa 800 mila la colpa è del saldo naturale negativo: più morti che nati vivi. Ciò non significa che il fenomeno della nuova emigrazione sia da sottovalutare. Tutt’altro, è problema serissimo e preoccupante. Vero è invece che in quei sei anni sono sbarcati in Italia 700 mila immigrati. Esattamente, 691.052. Ma questo non vuol dire, come potrebbe sembrare dalle parole di Giorgia Melo-

Migranti recuperati dalla nave Ocean Viking di Sos Méditerranée. A destra: la scuola Fabio Filzi di Milano

ni, che in soli sei anni ai clandestini già presenti in Italia se ne siano aggiunti altri 700 mila. Quelli sbarcano qui, ma appena possibile si dileguano per raggiungere mete europee più appetibili.

Secondo la Fondazione Ismu presieduta da Gian Carlo Blangiardo, il presidente dell’Istat nominato nel 2019 con il fattivo sostegno di Salvini, nel 2021 gli immigrati irregolari erano 519 mila, in calo pure quelli. Ben 43 mila meno di due anni prima. Ovvero i due terzi rispetto alle punta massima di 760 mila raggiunta, secondo la medesima fonte, nel 2006. E ora come allora, chi sbraita contro l’invasione prendendosela con le Ong che salvano disperati in mare, farebbe meglio a chiedersi perché le leggi fatte dalla loro stessa maggioranza vent’anni fa, quando il centrodestra dichiarò guerra ai clandestini, per quella guerra sono assolutamente inutili. Il Sole 24 Ore riporta che nel 2020 in

POLITICA DESERTO ITALIA
RCUPERO
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La “sostituzione etnica” denunciata a gran voce da Giorgia Meloni e dalla destra non esiste. Mentre senza lavoratori stranieri il sistema previdenziale non resterebbe in piedi

tutta Europa sono stati individuati 557 mila immigrati irregolari. Ben 118 mila in Germania e 104 mila in Francia, che con i clandestini non è certo tenera. Mentre in Italia, che in rapporto agli abitanti ha il più alto numero di forze dell’ordine, appena 23 mila.

Coloro che invece sbraitano contro gli immigrati a prescindere, con la puerile giustificazione che «rubano il lavoro agli italiani», dovrebbero ringraziarli. Non solo perché badano ai nostri vecchi e coltivano i campi. Ma soprattutto perché contribuiscono a tenere in piedi la previdenza zoppicante. Ogni anno versano quasi 11 miliardi di contributi all’Inps. Soldi con cui si pagano anche le loro pensioni. Magari d’oro. Meditate, gente.

Per approfondire o commentare questo articolo o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti

I trasversali Casini e Sangiuliano

Casini, un tour da rockstar Pier Ferdinando Casini riesce a mettere allo stesso tavolo maggioranza e opposizione. È la ricetta del tour che l’ex presidente della Camera dei Deputati sta compiendo per promuovere il suo libro “C’era una volta la politica”: lunedì 13 marzo a Isernia, nel Grand Hotel Europa, a discutere con Casini ci saranno Lorenzo Cesa e Giovanni Legnini. Ovvero un altro democristiano di lungo corso (e Cesa è stato eletto proprio in Molise), e un esponente del Pd abruzzese che è diventato anche vicepresidente del Csm. Nei giorni scorsi altre tappe di Casini a Parma con Maria Stella Gelmini, Michele Guerra e Mauro Libé, poi a Forlì con Maurizio Gardini e Antonio Patuelli, quindi a Torino con Michele Vietti, Alberto Cirio e Stefano Lo Russo, oltre a Pescara con Luciano D’Alfonso, in un incontro nel quale è stato ricordato lo scomparso Bruno Astorre. E prima ancora a Cagliari, Verona e Padova. «Un tour da rockstar», dice un suo coetaneo che invidia «la vitalità del Pier».

Osanna tra Sangiuliano e Bonaccorsi

Il ministro della Cultura è Gennaro Sangiuliano. Ma non manca chi conosce meglio di lui il Collegio Romano, avendo ricoperto il ruolo di sottosegretario proprio in quel dicastero: si chiama Lorenza Bonaccorsi e adesso è presidente del Municipio Roma I Centro. In questa veste l’esponente Pd ha siglato con il Mic un protocollo d’intesa per educare alla cultura, alla conoscenza e alle arti le giovani generazioni attraverso una serie di iniziative e di attività che saranno oggetto di collaborazione tra lo stesso dicastero e le scuole di ogni ordine e grado sul territorio circoscrizionale. A firmare la collaborazione, Bonaccorsi e il direttore della Direzione generale dei Musei, Massimo Osanna. Il Mic assicurerà una specifica formazione al personale educativo docente, mettendo a disposizione materiali didattici e sussidi utili alle attività.

Il sogno di Miriam Leone

Costruire pozzi d’acqua in Africa è il sogno di Miriam Leone. L’attrice lo ha confessato in un videomessaggio inviato alla Fondazione Puzzilli, istituzione “battezzata” a Roma nella Lanterna di Fuksas. Leone durante un viaggio in Tanzania è rimasta molto colpita dall’impegno di dover provvedere all’acqua potabile, visto che in quel continente alle donne tocca incamminarsi verso i pozzi per portare a casa l’acqua, sulla testa e sulla schiena, passando molte ore in fila e in cammino. Da qui la voglia di agire concretamente per le africane.

Scrivete a laboccadellaverità@lespresso.it

Foto: N. Marfisi / AGF, V. CircostaAFP via Getty Images
12 marzo 2023 47
RAFFO ART COMMUNICATION ROMA

La pubblicazione dell’Onu sullo stato della popolazione mondiale (World Population Prospects 2022: summary of results) attesta che, nei prossimi dieci anni, i Paesi con alto benessere dovranno fare i conti con la diminuzione strutturale degli abitanti dovuta alla bassa natalità. Fenomeno che potrà essere superato con l’immigrazione e facendo diventare la natalità e la famiglia di interesse generale.

La questione dell’immigrazione vale ancora di più per l’Italia perché siamo il Paese con la natalità più bassa in Europa e perché, a livello mondiale, si registra il più basso numero medio di figli per donna. La gestione

L’immigrazione ha mille facce Anche una buona

dell’immigrazione non si esaurisce bloccando gli sbarchi, ma si estende all’aumento degli immigrati che dovremmo ricevere. Infatti, dall’inizio del 2019 fino al 31 ottobre 2022 (dati Istat), la popolazione in Italia è diminuita di 950 mila unità. La diminuzione sarebbe stata di 1,6 milioni senza gli immigrati. Per mantenere lo stesso numero di abitanti il saldo migratorio avrebbe dovuto essere di 250 mila unità all’anno e non di 100 mila unità, come registrato negli ultimi quattro anni.

L’immigrazione, pertanto, assume per il nostro Paese un duplice volto da affrontare con politiche e iniziative diametralmente opposte.

Il primo aspetto riguarda chi scappa dalla guerra e dalla fame. E la soluzione non potrà essere trovata con i provvedimenti attuali, ma premendo con forza in sede europea per risolvere la questione dei flussi

e ora anche di quelli che arriveranno dalle zone terremotate tra Turchia e Siria. Aspetto che non si limita solo al Mediterraneo, ma coinvolge, in modo molto più numeroso, le rotte via terra dei Balcani, della Grecia, della Turchia e della Siria.

Il secondo fronte riguarda la costruzione e la gestione di adeguati flussi migratori, funzionali a colmare il vuoto che si è creato e continua a crescere con la diminuzione della popolazione per la bassa natalità. Circostanza che riduce progressivamente la forza lavoro e le entrate dell’Inps per pagare le pensioni.

È su questo terreno che si misurerà la capacità del governo e della classe politica di trattare una questione dalle mille facce, la quale richiede una notevole abilità d’interlocuzione con i Paesi spossati dalla guerra e dalla fame. In modo da realizzare, in quei luoghi, le condizioni complessive nonché le strutture adeguate (come scuole di avviamento al lavoro) per incentivare, nel tempo, un’immigrazione qualificata da occupare nella produzione e nei servizi.

Si tratta di un lavoro che potrà produrre frutti solo se ci sarà una continuità d’azione indipendentemente dal colore del governo che gestirà le sorti del Paese. È necessario aprire una nuova stagione politica, capace di coinvolgere attivamente il Parlamento, che faccia uscire questo problema dal ghetto per portarlo al livello decisivo dei flussi migratori necessari a bloccare la riduzione della popolazione.

Gli auspicati flussi migratori dovranno poi essere redistribuiti con raziocinio, al fine di evitare che il Meridione diventi la terra di nessuno: nel quadriennio 2019-2022, infatti, il Sud ha perso il 2,4 per cento della popolazione, contro l’1 per cento del Settentrione.

Questa riflessione è stata scritta dopo la tragedia di Cutro, che ripropone con ancora maggiore forza l’urgenza dello sviluppo operativo delle mie considerazioni.

BANCOMAT
Gestire i flussi e usarli per colmare il calo della popolazione italiana: sarà banco di prova per il governo
12 marzo 2023 49

Poker nomine L’all in di Meloni

Forza, su con le gambe, la favella, le spinte finali. Questo è il momento. Non è tollerata la stanchezza. Vero. Troppe chiacchiere. Così tante che le nomine di Stato appaiono fatte e invece neanche una è fatta. Perché adesso, signori, parte il processo osmotico nel governo. Quando il potere viene concepito, e spesso eccepito. Cioè la presidente Giorgia Meloni e i vicepresidenti Matteo Salvini e Antonio Tajani aprono il cosiddetto tavolo politico di alto livello. Un paio di settimane di intense riunioni per rendere schematico, e soprattutto equilibrato, il frullato di posti con Eni, Enel, Poste, Leonardo, e ancora la banca Mps, l’infrastruttura elettrica con Terna, la rete ferroviaria con Rfi, la centrale acquisti con Consip, la ricca Sport e Salute. Com’è palese non è equilibrato, invece, il tavolo politico di alto livello poiché pende verso Meloni. Tajani è un pluridecorato per le molteplici cariche che assorbe in sé, ministro degli Esteri, coordinatore nazionale di Forza Italia, capodelegazione presso il governo, ma è isolato, quasi un senza patria, anzi la sua patria, il partito, è un luogo pericoloso, di guerriglia urbana e dunque saggiamente è schiacciato sulle posizioni di Meloni. Vale se aggiunge, non se propone. Un esempio. Un gruppo di leghisti anonimi, lo scorso mese, in un comunicato ufficiale ha invocato «discontinuità» per l’Eni. Era un espediente per aggiustare il tavolo politico di alto livello, mica per far vacillare l’amministratore delegato (ad)

Claudio Descalzi, più stabile di mezzo governo e forse più. E però il ministro Tajani, in una recente intervista fra la quarantina che ha rilasciato, s’è speso in una inutile blindatura di un ad già blindato di suo. Il tavolo politico di alto livello, a tre, è convocato per definire la guida di Mps. La lista va depositata entro l’ultima domenica di marzo. Il resto va in aprile e riguarda decine di consigli e, a cascata, di collegi sindacali e dirigenti generali. Il tavolo politico di medio livello, il più folto, ha una composizione variabile. Ogni parti-

to ha i suoi esperti. Per Tajani c’è Tajani. Per l’altra Forza Italia ci sono i capigruppo parlamentari Licia Ronzulli e Alessandro Cattaneo. E da villa San Martino di Arcore incombe Silvio Berlusconi con la quasi moglie, nonché deputata, Marta Fascina. Il capitano leghista Salvini ha consegnato il tavolo politico di medio livello al prof. deputato Alberto Bagnai che coordina una variopinta formazione con i parlamentari Andrea Paganella, Claudio Borghi, Giulio Centemero, Federico Freni. Oltre alla presidente Meloni, Fratelli d’Italia è il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, il più influente, il più autonomo; per specifiche decisioni si possono consultare i ministri, indubbiamente Francesco Lollobrigida (Agricoltura) oppure Guido Crosetto (Difesa).

Il tavolo politico di medio livello ha l’incarico di attuare e completare gli ordini impartiti dal tavolo politico di alto livello e si può sbizzarrire con le società non quotate in Borsa e con i membri dei Cda. Questo profluvio di ambizioni, pressioni, tatticismi si abbatte sul Tesoro col ministro Giancarlo Giorgetti, l’unico che ha la penna per firmare le nomine. C’è solo un modo per costringere questa carovana di politici, a volte indisciplinati, a rispettare le regole: aumentare le regole. E Giorgetti ne ha messe parecchie. Con la nuova direttiva di gennaio. Con le tre società di cacciatori di teste. I consulenti Spencer

POLITICA POLTRONE DI GOVERNO
In ballo Eni, Enel, Poste, Leonardo. Ma si comincia con Mps. La presidente del Consiglio intenzionata a sbaragliare gli alleati. Con il tris Donnarumma, Cattaneo, Cingolani
50 12 marzo 2023
CARLO TECCE

Stuart, Eric Salmon, Key2People non hanno un ordine gerarchico, nessuno comanda sull’altro, ciascuno è assegnato a un’azienda, tutti valutano i candidati. Giorgetti non accetta esitazioni per le quotate. Il Monte dei Paschi è la chiave per sbloccare le altre nomine. Il Tesoro, che è l’azionista di controllo, ha già istruito la pratica con due figure che soddisfano i criteri bancari, un uomo e una donna. La faccenda si fa complicata con Eni, Enel, Poste, Leonardo. Siccome i leghisti non si caricano sul proprio conto il quarto mandato di Descalzi, sono convinti che possano reclamare altrove. La multinazionale di San Donato ha bisogno, però, di un presidente che possa integrarsi. Una soluzione istituzionale conduce all’ambasciatore Ettore Sequi, che ha appena finito la sua carriera in diplomazia da segretario generale della Farnesina. La scontata uscita di Francesco Starace (ad) e Michele Crisostomo fa concentrare gli appetiti su Enel che deve insistere con la riduzione del debito e accelerare con la transizione ecologica. Meloni è fermamente intenzionata a promuovere Stefano Donnarumma che fu promosso in Terna dai Cinque Stelle. Anche Flavio Cattaneo, attualmente vicepresidente di Italo, ex di Rai, Tim, Terna fra le altre cose, è un papabile in quota Fratelli d’Italia, irrobustito dal fresco sostegno leghista. L’incastro per Leonardo è il più enigmatico. Su piazza

Monte Grappa aleggia il profilo di Roberto Cingolani, ex ministro nel governo di Mario Draghi, consigliere per l’Energia nel governo di Meloni, già responsabile Tecnologie e Innovazione di Leonardo, un mese fa indicato consigliere di Industrie De Nora (idrogeno), un passaggio considerato prodromico al ruolo di presidente o addirittura di amministratore delegato nella multinazionale delle armi. Meloni ha almeno tre desideri e sono Donnarumma, Cattaneo, Cingolani. È improbabile che non venga accontentata. Ancora per Leonardo è sempre forte l’ipotesi Lorenzo Mariani di Mbda Italia. Il governo ha apprezzato l’iniziativa di gas e luce di Poste che ha impegnato l’ad Matteo Del Fante nel suo secondo triennio. Il progetto s’è compiuto giusto in tempo per le nomine e potrebbe risultare determinante. Giuseppe Lasco, condirettore di Poste, viene spesso menzionato per un ritorno da amministratore delegato in Terna. Il “sodalizio” fra Lasco e Del Fante va avanti dal 2014 quand’erano assieme in Terna e se Del Fante continua è plausibile che lo farà con Lasco.

Foto: M. Minnella / FotoA3
12 marzo 2023 51
PREMIER E MINISTRI Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani in Senato

Il Pd cambia Chi resta e chi va

Con Schlein alla guida ci sarà posto nel partito per le posizioni “riformiste”? Ecco le risposte diverse di due esponenti che vengono dalla tradizione dc

Beppe Fioroni, ne è fiero?

«Scusi, di cosa?».

Per i grillini uno valeva uno, secondo la “sardina”

Mattia Santori, invece, nel Pd per un Fioroni che esce, ne entrano in cento.

«Ci vuole sempre prudenza con le battute quando si vince e però sono curioso di conoscere quelli che erano in coda all’ingresso aspettando il mio addio a un partito che ho contribuito a far nascere. E poi vorrei aggiungere per Sartori che ho lasciato alla vigilia delle primarie e non dopo la vittoria di Elly Schlein».

Era l’unico che sapeva?

«No, sono tra i pochi, non l’unico, che girava per le strade.

Attorno al Pd, e ne ho parlato con Stefano Bonaccini, c’era l’atmosfera di un cambio epocale». Un cambio che l’ha messa fuori.

«Esatto, io non contesto niente a Schlein. Ha ottenuto una vittoria ben definita e ha il dovere di esprimersi senza

compromessi, ma le divisioni fra di noi sono incolmabili: eutanasia, droghe libere, utero in affitto, adozioni per le coppie gay, reddito di cittadinanza, pillola abortiva, politica estera, lavoro, economia. In un partito di sinistra, non più di centrosinistra, abolito l’inclusivo “ma anche” di Veltroni, un cattolico democratico non ci può stare».

E gli altri cattolici democratici che ci stanno?

«Forse è colpa della mia mole, ma io non sono capace di adattarmi, non so farmi concavo, impossibile farmi assieme concavo e convesso. Non è un numero di poltrone, un trattato di Versailles, che può garantire l’agibilità politica. Almeno non lo è per me, perché si rischia che, per tirare a campare, si fanno tirare le cuoia a una storia politica». Dove stanno bene i cattolici democratici?

«In un posto che al momento non esiste, in un’area comune che riunisca i popolari delusi di entrambi gli schieramenti per offrire ai cittadini le nostre idee, i nostri valori e credere in qualcosa e poi votare qualcuno».

Non mi dica che la cura è il solito partitino di centro.

«Sarei ingenuo. Osservo lo sforzo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Ora a noi interessa rivitalizzare la cultura cattolica democratica con entusiasmo per riscoprire un senso di appartenenza. È l’obiettivo di piattaforma Popo-

POLITICA DILEMMI DEMOCRATICI
“Non mi adatto a un partito così”
52 12 marzo 2023
colloquio con BEPPE FIORONI di CARLO TECCE Chi va
EX DC Beppe Fioroni. Sopra: Enrico Borghi

Un salto di specie su cui ora costruire un nuovo Pd. Con un’apertura di credito verso Elly Schlein. Sperando non si fidi troppo di Conte, e non si affidi troppo a Zingaretti e alla sinistra dem – errori da non ripetere. Se non fosse cresciuto nella sinistra Dc, se non fosse novarese come Scalfaro (condividendo con lui la passione per gli apparati), Enrico Borghi, 55 anni, dieci in Parlamento e altri venti in politica (Ppi, Margherita, Pd), vicino a Lorenzo Guerini e già uomo chiave nella segreteria di Letta, la direbbe coi nomi. Si esprime con un linguaggio più felpato, per spiegare perché resta nel Pd pur avendo appena perso il congresso.

Se lo aspettava?

«Non immaginavo la diserzione al Nord dell’elettorato riformista, che non è stato mobilitato. Bonaccini ha fatto come Bersani nel 2013: ha dato la partita già per chiusa».

E Schlein?

«Rappresenta un salto strutturale, direi quantico per il

Pd: è l’affermazione per la prima volta in Italia della cultura woke, quella anglosassone, ancorata ai temi dei diritti, delle minoranze, del politically correct».

È la fine del Pd?

«È un salto di fase rispetto alle sue culture originarie. Il ramo degli ex popolari è stato sconfitto, e gli eredi del Pci si sono arresi a questa cultura che fa della radicalità la propria cifra, ma non concordo con chi dice che ora finalmente il Pd può interpretare la sua natura vera, di sinistra. E nemmeno credo si tratti di un ritorno all’antico: il punto vero è il nuovo equilibrio che si può trovare».

C’è ancora l’ipotesi di una scissione?

«Il Pd è a un bivio, le chiavi sono in mano a Schlein, che ha acceso una speranza. È il motivo per cui io ed altri restiamo. Se questa cultura nuova, formata nelle primarie, è in grado di fare sintesi con la cultura più istituzionale che noi rappresentiamo, abbiamo la chiave per un Pd moderno e competitivo. Dopotutto Biden e Ocasio-Cortez sono nello stesso partito. Se invece prevalessero le tendenze settarie, ci sarebbe il rischio di una minorità».

Per lei Schlein ha una idea maggioritaria o no del Pd?

«I primi passaggi - la linea sull’Ucraina, la visita silenziosa a Cutro, la richiesta di dimissioni di Piantedosi - sono stati giusti, equilibrati. Raccontano di una persona che sa suonare i tasti, alternando idealità e pragmatismo».

Fa bene a parlare con Conte?

lare-Tempi Nuovi».

Fioroni non c’era alla manifestazione di Firenze per l’istruzione e contro il fascismo con la segretaria Elly Schlein e il pentastellato Giuseppe Conte.

«L’antifascismo non è una scelta, ma un valore fondante della Repubblica. Da ministro non avrei affrontato la “questione di Firenze” come ha fatto Valditara. Tuttavia, sia nata da una preoccupazione giusta - non si può transigere sui valori della Costituzione - la sua rappresentazione politica mi ha deluso. Invece di ricercare l’unità più ampia possibile, si è preferito sfruttare la circostanza per una “prova d’orchestra” tra Landini, Conte e Schlein, per dire che la sinistra è tornata in campo».

Alla fine in questo campo non c’era spazio per Fioroni?

«Dove lo trova Schlein un ospite che per essere non sgradito se ne va senza nulla pretendere? Un ultimo messaggio in bottiglia. Allora che facciamo, da qui alla ricorrenza del 25 Aprile: lasciamo che ritorni la polemica sulla “Resistenza rossa”? Gli italiani hanno il diritto di vivere la Liberazione come una grande festa di popolo, senza divisioni. Guai a non capirlo! Auguri».

«La politica è movimento: se il Pd torna a esercitare una funzione di leadership, significa che può anche tendere a svuotare il M5S. Quanto a Conte, è così camaleontico che, dovesse capire che il recupero del Pd è strutturale, si trasformerà nuovamente nell’epigono di Padre Pio. Per ora saluto il superamento dell’eresia di accostarlo a Berlinguer, dopo la bestemmia di paragonarlo a Moro». Quali rischi deve schivare la neosegretaria?

«Sotto la superficie si muovono dinamiche molto tradizionali. Per rompere cordate e correnti deve esercitare una azione politica forte, o si consegna a chi ha solo questo, nel software. Né andrebbe lontana con un’idea tipo arrivano i nuovi renziani. Altra dinamica malata».

C’è chi dice che fare peggio di Letta è impossibile. «Il tempo dimostrerà che ha svolto un compito essenziale. Nel marzo 2021, coi sondaggi al 14 per cento e Conte al 25, sembravamo i commissari liquidatori del partito. E ci sono amici e compagni che, grazie al fatto che noi abbiamo preso due anni il vento in faccia, si sono ricostruiti una verginità e ora sono a fianco di Elly dicendo di essere il nuovo, ma avevano già vinto nel 2019. Spero che Schlein ne abbia contezza. Ma penso che tra qualche anno si dirà che siamo stati noi a salvare il Pd».

Foto: Agenzia Fotogramma, Foto A3
“Ma Elly stia attenta ai falsi nuovi”
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colloquio con ENRICO BORGHI di SUSANNA TURCO Chi resta

Non è stata tutta colpa del virus

GIANFRANCESCO TURANO

Tre anni fa, di questi tempi, l’Italia finiva in lockdown con il dpcm del 9 marzo 2020 che chiudeva il Paese a partire dal giorno seguente. A tre anni di distanza e a due dall’inizio della campagna vaccinale che ha arginato la tragedia, i documenti terribili sulla pandemia dovranno aiutare il potere giudiziario a decidere se la strage dei fragili e degli operatori sanitari di prima linea sia stata un evento ineluttabile oppure un dramma aggravato dalle responsabilità della politica. Le inchieste stanno dando risultati contraddittori.

Mentre la Procura di Milano chiede di archiviare i filoni sulle Rsa, l’inchiesta di Bergamo sulla gestione della pandemia è a una svolta. Esiti in bilico tra processo vero e amnistia generale

Solo cinquanta chilometri separano Milano e Bergamo, ma le Procure della Repubblica delle due città si sono pronunciate in modo opposto rispetto alla diffusione della Sars-Cov-2 in Lombardia all’inizio del 2020. I magistrati bergamaschi hanno indagato l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della giunta regionale Attilio Fontana, appena rieletto, il suo ex assessore al Welfare Giulio Gallera, bocciato alle elezioni del 12 febbraio scorso, più una quindicina di altri politici e tecnici.

A Milano, invece, i due procedimenti più importanti per le morti da Covid-19 nelle cliniche della Fondazione Don Gnocchi e nel Pio Albergo Trivulzio (Pat), con oltre ottocento decessi fra pazienti e operatori sanitari, sono andati in direzione opposta. In entrambi i casi la pubblica accusa ha chiesto l’archiviazione degli indagati per i reati di epidemia colposa e omicidio colpo-

so.

Nel caso del Don Gnocchi, gruppo di sanità religiosa privata, i parenti delle vittime e i sopravvissuti hanno presentato opposizione. Per il Pat, ente a gestione pubblica, è stato l’ufficio del gip a rigettare la richiesta della Procura e a disporre un supplemento d’indagine.

Sia a Bergamo, dove si è partiti con notevole ritardo, sia a Milano passerà molto tempo prima di arrivare alla verità di una sentenza definitiva. Ma il sistema giudiziario è un unicum ed è inevitabile che le inchieste si influenzino a vicenda, non tanto sui fatti particolari, che vanno dalle zone rosse all’uso dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), quanto sul tema di fondo. La conclusione degli inquirenti milanesi nel procedimento Don Gnocchi esclude la colpa grave, indispensabile a confermare le accuse, a causa della «limitatezza delle co-

Foto: Carlo Cozzoli / Fotogramma POLITICA LE INDAGINI
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gnizioni scientifiche». Nella richiesta di archiviazione la Procura di Milano prosegue: «Attribuire la responsabilità della mala gestio di una pandemia agli odierni indagati significherebbe individuare un capro espiatorio. Condotte che adesso potrebbero apparire obiettivamente negligenti alla luce dell’esperienza di due anni di pandemia (come l’utilizzo costante delle mascherine) all’epoca non potevano essere pretese in un contesto dove, per esempio, le mascherine erano introvabili. Il sistema delle Rsa ha dunque retto fino al 2020 nella fisiologia del suo funzionamento, di fatto dimostrando i suoi limiti nell’imprevedibile situazione della pandemia che ha colpito il pianeta intero».

Sono conclusioni contraddittorie. Le mascherine erano introvabili proprio perché erano ritenute necessarie per ordine delle varie autorità sanitarie e perché c’era la

caccia all’approvvigionamento. In quanto alla tenuta delle quattro strutture principali della Fondazione presieduta da don Vincenzo Barbante, uno sguardo ai dati toglie ogni dubbio. Fra il 31 gennaio e il 15 maggio, la clinica Santa Maria al Castello ha avuto 30 morti su 72 posti letto occupati (il 41 per cento). Il centro Girola ne ha avuti 60 su 125 posti letto, poco meno della metà. Al Palazzolo, l’istituto più grande con una capienza massima di 799 posti letto, si è vista una delle peggiori catastrofi dell’intera pandemia. Dei 580 ospiti ne sono morti 306, quasi il 53 per cento. Con i dieci decessi della Santa Maria Nascente, si arriva a 406 in totale, in maggior parte registrati prima del 21 aprile 2020, data delle perquisizioni da parte della polizia giudiziaria. La peste nera del Trecento, con un morto ogni tre europei, è stata meno letale. «Con la svolta dell’inchiesta bergama-

Personale medico dell’Esercito e carabinieri trasportano le bare dei morti per Covid-19, a Ponte San Pietro, vicino a Bergamo, nel marzo 2020

LE VITTIME
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sca si riapre tutto il fronte», dice Romolo Reboa, uno degli avvocati che hanno presentato opposizione a Milano in nome di 41 parti lese, in maggioranza eredi di vittime. «Può darsi che le responsabilità del livello politico-sanitario superiore riducano le colpe delle strutture, ma fino all’ultimo potremo portare nel nostro procedimento elementi nuovi in base a quello che accade negli uffici giudiziari di Bergamo».

La difficoltà di giudicare penalmente la pandemia è stata complicata da fattori tecnici sconcertanti. Nel ricorso di Reboa e dei colleghi si dichiara che dal procedimento sono state escluse «decine di persone offese che non hanno ricevuto notifica», che si sono persi 24 fra denunce-querele e atti di nomina e che il 10 agosto 2022 le parti offese si sono sentite chiedere 14 mila euro per copiare le carte dell’inchiesta.

Il livello superiore di cui si occupano i magistrati di Bergamo riguarda la politica sanitaria della Regione. E, per esempio, le zone rosse mai applicate in Val Seriana, mentre il prefetto di Lodi Marcello Cardona aveva deciso di chiudere dieci Comuni già il 22 febbraio 2020, nonostante le proteste di politici e imprenditori locali.

I due procedimenti milanesi si muovono molto intorno a decisioni aziendali che hanno colpito prima i dipendenti e poi i ricoverati, massacrati da un virus che ha potuto superare con facilità sbarramenti fragili, fra visite parenti e servizio bar sospesi troppo tardi, bugie sullo stato dei malati, positività del personale sanitario occultate e persecuzioni disciplinari verso i lavoratori che intendevano proteggersi.

Il malcontento di questi ultimi, si legge nei documenti, «li ha spinti a dotarsi autono-

mamente di mascherine». Ma ad alcuni coordinatori della cooperativa Ampast, «una società interposta per ridurre illegittimamente il costo del lavoro», l’eccesso di prudenza non andava bene. Quando «notavano che qualcuno degli operatori lavorava indossando una mascherina acquistata autonomamente gli ordinavano di toglierla perché poteva spaventare i pazienti». Inoltre bisognava «non allarmare il personale diffondendo la notizia secondo cui un’infermiera libera professionista era risultata positiva a tampone effettuato all’esterno». In una riunione dell’unità di crisi del Don Gnocchi fra il 24 e il 26 febbraio si ribadiva che «l’uso delle mascherine non era utile, anzi si sarebbe trattato di «uno spreco di materiale» e si minacciavano «richiami e sanzioni disciplinari a coloro che sarebbero stati trovati con mascherina nello svolgimento delle proprie mansioni nelle strutture». Gli autori dei trasferimenti punitivi in altre strutture del gruppo sono stati già condannati dalla corte d’Appello di Milano.

Il capitolo dedicato ai parenti è particolarmente doloroso. Il 2 marzo 2020 si istruiva il personale in modo da evitare che i familiari sapessero la verità sui congiunti. «Le informazioni utili a tranquillizzarli posso-

POLITICA LE INDAGINI
I magistrati dovranno decidere se la strage dei fragili e degli operatori sanitari di prima linea sia stata un evento ineluttabile oppure un dramma aggravato dalle responsabilità della politica
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SOTTO INCHIESTA

L’ingresso del Pio Albergo Trivulzio, a Milano. A sinistra, il governatore della Lombardia, Attilio Fontana. A destra, l’ex assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera

no essere anche di ridotto contenuto clinico: sta mangiando, sta bene, mantiene le sue normali abitudini».

Non mancano riferimenti ai provvedimenti cervellotici della Regione che l’8 marzo 2020 definiva il concetto di contatto per gli operatori sanitari. Non era contatto se avveniva «quando l’attività assistenziale viene condotta con l’ausilio completo e corretto dei Dpi». Che mancavano quasi del tutto. In quanto allo screening, il 25 marzo Speranza ordinava tamponi a tutto il personale sanitario lombardo: 350 mila test in un momento in cui la Lombardia riusciva a eseguirne cinquemila al giorno.

Al Trivulzio, dove fra gennaio e aprile 2020 ci sono stati circa 400 morti, la vicenda processuale ha avuto un decorso in parte simile alla vicenda del Don Gnocchi. La Procura milanese ha chiesto l’archiviazione. Ma il gip Alessandra Cecchelli l’ha respinta il 22 giugno 2022. Una consulenza tecnica d’ufficio ha rilevato «al Pat un chiaro eccesso di mortalità con stime intorno a un raddoppiamento del rischio». Il giudice conferma che «il personale ha ricevuto disposizioni per i Dpi tardivamente adottate, quando non disincentivate». Una seconda perizia è stata ordinata alla fine del 2022. Lo scorso 6 marzo l’ufficio del gip ha

concesso sei mesi di tempo per depositare la nuova relazione e ha fissato la prossima udienza al 18 dicembre 2023.

Poteva andare diversamente? In alcune strutture il disastro è stato evitato, come si sottolinea nell’opposizione all’archiviazione per il Don Gnocchi. In Lombardia, il bilancio è molto più accettabile alla Domus Patrizia, alla Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi, alla San Remigio e alla Casa di cura ambrosiana, controllata dalla Fondazione Sacra Famiglia.

Paola Pessina, presidente dell’Ambrosiana ed ex numero due della Fondazione Cariplo, dimessasi ad agosto 2020 dopo una polemica con Giorgia Meloni, ha rivolto critiche motivate alla Regione e alla Protezione civile. «Alcuni gestori hanno scelto di mettersi in sicurezza velocemente, a volte bypassando le stesse indicazioni regionali. Altri hanno tentato di mantenere una normalità che salvaguardasse equilibri sempre più precari, compreso il caso dell’improvvido divieto dell’uso di mascherine. La meglio l’hanno avuta probabilmente quelli che hanno scelto di giocare da subito in trasparenza assumendosi il rischio delle scelte e comunicandole ad autorità, personale e famiglie». Ora si dovrà scegliere fra processi veri e quella che, di fatto, è un’amnistia generale.

Foto: Fotogramma (2), Agf
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Sarà pure controversa l’inchiesta della procura di Bergamo sulla mancata zona rossa e sulla fallita applicazione del piano pandemico, ma una certezza ce la dà: in tre anni almeno si è arrivati alla chiusura delle indagini, in Parlamento dopo tante chiacchiere ancora non si è fatto nulla per accertare la verità su quei terribili mesi.

Sospettata di essere la clava voluta dal centrodestra per processare l’opposizione, accolta con scetticismo perché le indagini parlamentari in Italia hanno raccolto quasi sempre briciole, la commissione bicamerale di inchiesta sul Covid non

Commissione sul Covid: la miccia è accesa

è nemmeno partita e già scuote il Parlamento. Dovrà essere composta da 20 deputati e altrettanti senatori e rispondere a cinque domande semplici ma capaci di riempire biblioteche di faldoni. 1) Che cosa doveva succedere; 2) cosa è successo; 3) cosa è andato bene; 4) cosa è andato male; 5) cosa è necessario cambiare affinché le cose non si ripetano. Sarà possibile approdare a un risultato costruttivo che ci eviti altri morti davanti a calamità simili in futuro? Sul quinto punto c’è davvero poco, a leggere le tre proposte istitutive. Una è di FdI e si concentra sull’emergenza sanitaria e sulle colpe di chi non aggiornò il piano anti-pandemia. La seconda è della Lega e punta sulle responsabilità dell’allora governo Conte e sulle misure adottate. La terza è di Azione-Iv e allarga l’orizzonte di indagine alle misure di prevenzione e contrasto nonché alle conseguenze per il

L’inchiesta parlamentare non è ancora partita e già provoca polemiche. Servirà a saperne di più?

servizio sanitario nazionale (leggi soprattutto la gestione commissariale del contiano Domenico Arcuri, poi sostituito dal generale Figliuolo).

La commissione non nascerà prima di maggio-giugno e accorperà i tre testi. Quindi quanto durerà? Un anno e mezzo, spesa 50 mila euro all’anno, come chiede il partito della premier? O sarà un’odissea lunga quanto il resto della legislatura (altri 4 anni), budget tra i 200 e i 300 mila euro l’anno, come vogliono Lega e Terzo Polo? Siamo ancora alla fase istruttoria ma è evidente che sarà una polveriera. Provate solo a mettere in fila i capitoli: zone rosse, lockdown, piano pandemico, campagna vaccinale, ventilatori, mascherine, green pass, perfino la Dad (ricordate i banchi a rotelle della ministra Azzolina?).

La santabarbara sarà la gestione della segretezza degli atti. La commissione di inchiesta avrà, com’è prassi, i poteri dell’autorità giudiziaria. Potrà decidere quali documenti segretare e quali no. Davanti a spifferi e pubblicazioni a sorpresa di testi top secret, trasmessi o segretati dalla commissione, scatterà l’articolo 326 del codice penale: carcere da 2 a 5 anni. Non è difficile immaginare il polverone che ne seguirà. È previsto l’accompagnamento coatto di chi si rifiuterà di deporre. E comunque chi verrà interrogato dai 40 commissari - ex premier, ministro, funzionario o sanitario che sia - non potrà aggrapparsi al segreto d’ufficio, né a quello professionale o a quello bancario. Unica eccezione il segreto di Stato: in tutti quei casi, su fatti che lo contemplano, i convocati avranno licenza di astenersi. Domanda: se sarà difficile accertare se e come si potevano evitare 4 mila morti in provincia di Bergamo, forse sui gravi errori del riconfermato governatore Fontana o sulla presenza della task force russa inviata da Putin nel 2020 riusciremo a saperne di più?

PALAZZOMETRO
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Vite in fuga Cento anni di Interpol

SIMONE BAGLIVO

Diciannove

Sono passati cento anni da quando a Vienna nasceva l’organizzazione internazionale della polizia criminale. Il suo nome è diventato Interpol grazie a un poliziotto italiano, Giuseppe Dosi. Nel 1923 nella capitale austriaca erano riuniti 20 Paesi, ma oggi la più grande associazione di polizia comprende praticamente ogni Stato del pianeta. A guidare da un decennio questa complessa e cruciale macchina della sicurezza globale c’è il tedesco Jürgen Stock, 64 anni, già numero due della polizia criminale della Germania. Da quando è stato eletto Segretario generale dell’Interpol nel 2014 (oggi è al suo secondo mandato) ha avviato cambiamenti radicali, puntando sull’innovazione, rafforzando la struttura, migliorando i servizi per gli agenti sul campo e riformando lo statuto. Ha anche istituito operazioni per combattere ogni tipologia di criminalità emergente e organizzata, senza dimenticare il focus sul terrorismo. Inoltre, l’anno scorso, ha fortemente voluto inaugurare il nuovo centro contro la corruzione e i crimini finanziari (Ifcacc) che ha già portato a sequestrare in pochi mesi 200 milioni di euro da proventi illeciti. «Il nostro lavoro è diverso dalla versione cinematografica.

Pochissime persone capicono davvero cosa facciamo: questo è il nostro punto debole», confessa Stock a L’Espresso, appena rientrato da Abu Dhabi dove ha diretto il primo summit asiatico sulla sicurezza. Lo scorso 2 febbraio, il killer della ’ndrangheta Edgardo Greco, già condannato all’ergastolo e la-

titante dal 2006, è stato arrestato in Francia; la sua fuga durata 17 anni è terminata proprio grazie al progetto “I-Can” sviluppato dall’Interpol nel 2020 per dare la caccia ai membri della mafia più potente. «Stiamo registrando ottimi risultati in questo settore e in meno di 3 anni abbiamo già aiutato ad arrestare dozzine di fuggitivi in tutto il mondo», spiega il Segretario generale, sottolineando che l’Interpol «gode di ottimi rapporti con l’Italia: uno dei nostri partner più forti». Ma l’I-Can rappresenta solamente la punta dell’iceberg dell’attività dell’organizzazione, che offre in tempo reale alle forze dell’ordine mondiali ben 19 diversi database, coprendo ogni possibile reato grazie a centinaia di milioni di dati investigativi. Lo strumento indubbiamente più potente è il cosiddetto notice o avviso internazionale. Ce ne sono di 8 tipi ma il più famoso è il red notice (avviso rosso), una sorta di mandato di cattura internazionale che ogni

POLITICA LA SICUREZZA GLOBALE
database condivisi sui ricercati di tutto il pianeta. I successi e i rischi sull’uso politico della giustizia.
Parla Jürgen Stock, segretario generale della superpolizia
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anno aiuta a localizzare e fermare migliaia di feroci criminali. «Attualmente ricerchiamo 70.000 soggetti da red noticies», rivela Stock. Tuttavia, numerose Ong hanno accusato lo strumento di essere controverso perché utilizzato anche per scopi politici. «Siamo pienamente consapevoli del potenziale impatto sulle persone interessate – si difende il numero uno dell’Interpol - ed è infatti imperativo che gli avvisi non vengano mai utilizzati per scopi non previsti. Inoltre, ho voluto creare una task force proprio per salvaguardare l’integrità del nostro sistema e garantire un giusto processo per ogni avviso». Riguardo lo storico arresto di Matteo Messina Denaro, Stock tiene a congratularsi con le autorità italiane e afferma che «non importa dove o per quanto tempo i criminali cerchino di eludere la giustizia: non verranno mai dimenticati dalle forze dell’ordine». Ma come è possibile scappare per un terzo di secolo? «Com-

AL VERTICE

Jürgen Stock, Segretario generale dell’Interpol davanti al quartier generale di Lione

prando il silenzio delle persone...». Una delle fondamenta chiave alla base del successo dell’Interpol è la condivisione delle informazioni tra i 195 Paesi membri. «Recentemente, ad esempio, sono state le nostre informazioni condivise a consentire l’arresto di un cittadino afghano che stava attraversando illegalmente un confine europeo diretto in Italia. Le sue impronte erano state rilevate su un ordigno esplosivo 10 anni prima del suo arrivo alle frontiere Schengen e un avviso dell’Interpol ha portato il suo profilo da terrorista all’attenzione delle autorità nazionali», racconta Stock. Nel 2016, è stato il primo capo dell’Interpol a intervenire all’Assemblea generale dell’Onu («un grandissimo onore»), lanciando un appello per una maggiore cooperazione transnazionale. «La criminalità – ragiona - non si ferma ai confini, ma, dato altrettanto importante, non inizia nemmeno lì. Uno dei miei obiettivi è portare la nostra organizzazione il più vicino possibile alla polizia per garantire che i funzionari possano accedere alle informazioni di cui hanno bisogno quando ne hanno bisogno e ovunque si trovino nel mondo». Secondo Stock, oggi, tra le minacce all’architettura globale e i preoccupanti risvolti geopolitici, il ruolo unico dell’Interpol è più essenziale che mai. Tra i principali rischi del futuro il Segretario individua la criminalità informatica e finanziaria («in costante aumento»), con la corruzione che si aggiunge alla complessità dei problemi. La sfida più grande diventa quindi garantire ai Paesi con poche o nessuna risorsa di affrontare la nuova e vecchia illegalità: «È una grande ambizione, lo so, ma se abbiamo imparato qualcosa dagli ultimi cento anni, è che insieme possiamo farcela». Con un budget annuale di 150 milioni di euro e migliaia di dipendenti sparsi in tutto il mondo, l’organizzazione internazionale della polizia criminale affronta responsabilità sempre più vitali. «Ogni giorno – conclude Stockl’Interpol lavora per rendere il mondo un posto più sicuro. Sono estremamente orgoglioso di farne parte».

Foto: J. Pachoud / AFP via Getty Images
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Chi ha paura di TikTok

La questione è politica, la cybersecurity c’entra poco. Le elezioni presidenziali del 2024 sono vicine e nessuno dei due partiti vuole apparire debole contro l’avversario cinese». Nel mezzo della bufera che ha travolto TikTok negli Stati Uniti, Anupam Chander, esperto di regolamentazione globale delle nuove tecnologie alla Georgetown University di Washington, definisce quella del Congresso una battaglia contro una “minaccia fantasma”. Dopo le tensioni legate al pallone spia abbattuto all’inizio di febbraio, le turbolente relazioni diplomatiche tra Usa e Cina passano ora dalla piattaforma social. La Commissione Affari Esteri della Camera ha votato la scorsa settimana a favore di un disegno di legge che - qualora passasse il vaglio dei due rami del Congresso - consentirebbe al Presidente democratico Joe Biden di vietare TikTok a livello nazionale. Un modo per demolire «il cavallo di Troia del Partito Comunista Cinese», stando alle metafore del deputato texano Michael McCaul, a capo della Commissione repubblicana.

Il timore è che TikTok - attraverso la società madre ByteDance, con sede a Pechino - consegni dati sensibili dei cento milioni di americani iscritti al governo cinese che potrebbe utilizzarli per operazioni di intelligence e per disseminare campagne di disinformazione. Già a fine febbraio, l’Amministrazione aveva dato alle agenzie federali trenta giorni di tempo per eliminare l’app dai dispositivi governativi. D’altra parte, il medesimo vento soffia in Canada e anche oltreoceano, dove esecutivo Ue e Parlamento europeo hanno vietato TikTok dai dispositivi ufficiali. Se i repubblicani si dimostrano compatti

I repubblicani vogliono

sull’ipotesi di una messa al bando per tutta la popolazione (nel 2020 ci aveva provato anche Trump con ordini esecutivi poi bloccati in tribunale), in casa democratica le idee sono più sfumate e le posizioni più variegate. Prevale cautela. Una soluzione così drastica, secondo alcuni, colpirebbe numerose imprese americane ed europee. Ma i dubbi sono legati soprattutto a libertà di parola e costituzionalità. Secondo indiscrezioni raccolte dal New York Times, però, la Casa Bianca starebbe valutando di appoggiare la proposta del senatore democratico della Virginia Mark Warner, che darebbe al governo maggiore potere di controllo su app e servizi rischiosi per la sicurezza dei dati. Inclusa TikTok.

Sul divieto nei dispositivi pubblici la comunità scientifica è più o meno concorde, resta però circospetta su un ban assoluto. «Abbiamo a lungo sostenuto la libertà di informazione attraverso i confini, criticando altri Paesi quando cercavano di limitarla. E adesso?», si chiede Anupam Chander. L’avvertimento è quello di non prendere in prestito i metodi usati da Pechino, che blocca tra gli altri Twitter, Facebook e Instagram. E aggiunge: «Ci sono altri modi di impossessarsi dei nostri dati, primo tra tutti l’hacking. Questa vicenda distoglie l’attenzione da serie misure di cybersecurity in grado di proteggere la privacy, incluso il controllo delle aziende che vendono informazioni a terzi».

Il ricercatore ha fatto parte di un ristretto gruppo di addetti ai lavori a cui TikTok aveva anticipato il Proget-

POLITICA STATI UNITI
estendere a tutti il divieto per i funzionari pubblici di usare il social cinese. Per molti democratici è solo propaganda e la sicurezza nazionale non è in pericolo
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MANUELA CAVALIERI e DONATELLA MULVONI

VIDEO

Registrazione di un video su TikTok a New York. Sullo sfondo il ponte di Brooklyn

to Texas, un piano di ristrutturazione da 1,5 miliardi di dollari avviato due anni fa. Obiettivo, rassicurare gli americani trasferendo tutti i dati degli utenti raccolti dal colosso sui server della statunitense Oracle, con sede ad Austin. «TikTok ha accettato di adottare sistemi di sicurezza senza precedenti, superiori a quelli di quasi tutte le altre applicazioni esistenti», ci dice il professore. Sforzo massiccio e inutile. L’app resta nel mirino del Congresso che il prossimo 23 marzo sentirà l’amministratore delegato Shou Zi Chew

«Dare al governo la possibilità di bandire specifiche app per tutti creerebbe un precedente molto pericoloso», afferma Michael Daniel, ceo della Cyber Threat Alliance. Durante l’Amministrazione Obama, è stato a capo del comparto cybersecurity della Casa Bianca. Per l’esperto bisognerebbe ragionare su due binari. «È giusto non installare TikTok sui dispositivi governativi; ma un ventenne che fa video social e vive a Cleveland non è un bersaglio dei servizi segreti stranieri. Lo sono funzionari pubblici e politici».

Intanto è partita la campagna #DontBanTikTok, lanciata dalla no-profit per i diritti digitali Fight for the Future che chiede leggi che si applichino a tutte le aziende Big Tech, comprese le americane come Meta, impegnate in raccolte massicce di dati personali. Ma una distinzione, secondo Daniel, occorre farla: «Le

aziende con sede in Cina hanno un problema intrinseco: se il governo chiede i dati di qualsiasi server, loro si adegueranno. Questo non vale in Usa o in Europa. Lo stato di diritto è diverso». Per Daniel sono altri i campi di battaglia sul fronte cinese. «Bisogna continuare ad investire in innovazione, a mantenere la nostra leadership in tecnologie come l’intelligenza artificiale, l’informatica quantistica, la bioinformatica». Il pugno duro del Congresso, al momento, è sferrato solo su carta. Prima di arrivare sulla scrivania di Biden, il disegno di legge dovrà essere approvato da Camera e Senato. È però sintomatico dell’aria che tira e si aggiunge al plico di altre proposte simili accatastate negli ultimi anni. «Di sicuro non passerà al Senato. E se pure dovesse riuscirci, il Presidente porrebbe il suo veto», assicura Michael Daniel. Tra le voci autorevoli in questa direzione, l’American Civil Liberties Union per cui un ban violerebbe il Primo Emendamento. «Abbiamo il diritto di ricevere informazioni, anche quelle provenienti da Paesi avversari», concorda il professor Chander. «Durante la Guerra Fredda, quando il Congresso cercò di arginare il flusso di propaganda dall’estero, la Corte Suprema si oppose».

Foto: A. Weiss -AFP via Getty Image
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Una stella non muore mai

Lo scorso 8 gennaio migliaia di sostenitori dell’ex presidente Jair Bolsonaro hanno attaccato il Parlamento brasiliano e le immagini dell’assalto hanno fatto il giro del mondo. Il Paese è velocemente sprofondato nel caos e a livello internazionale si è sollevato un coro di indignazione a sostegno del neoeletto presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Da subito è iniziata a circolare la domanda: quanto è coinvolto in questo assalto l’ex presidente Bolsonaro? Chi sono stati i mandanti? La giustizia brasiliana sta indagando sull’accaduto, ma non è la prima volta che si ipotizza che l’ex presidente e la sua famiglia potrebbero finire nei guai. Lula, nel suo discorso di insediamento, ha assicurato che la sconsiderata gestione della pandemia portata avanti da Bolsonaro durante il suo mandato, che ha causato oltre 650 mila morti, non rimarrà impunita. E si sono sollevate molte polemiche quando, pochi giorni dopo l’elezione di Lula, si è scoperto che i figli di Bolsonaro – Eduardo e Flávio, rispettivamente deputato e senatore federale – nel 2019 avevano avviato le pratiche per ottenere la cittadinanza italiana, dato che la loro famiglia ha origini venete e toscane.

Ma le morti dovute al Covid-19 non sono l’unico spettro che insegue Bolsonaro e la sua famiglia. Il nome del figlio Flávio, già politico di lungo corso, è stato spesso associato a un crimine che ha sconvolto la società brasiliana: l’omicidio della politica Marielle Franco, uccisa ancora prima d’aver compiuto 39 anni assieme al suo autista Anderson Gomes. Era la notte tra il 14 e il 15 marzo del 2018, a Rio de Janeiro, quando sono stati sparati contro di loro 13 colpi d’arma da fuoco. Ancora oggi, a cinque anni dall’accaduto, per le loro morti non è stata fatta giustizia. Non sono stati trovati i mandanti né sono state chiarite le ragioni dell’agguato, ma la pista ritenuta più plausibile finora è che Franco sia stata uccisa dalle

Il 14 marzo 2018 veniva uccisa Marielle Franco.

milizie del narcotraffico per il timore che potesse ostacolare i loro traffici (secondo la polizia brasiliana, 850 favelas su 1.025 sono oggi base per il narcotraffico). Nel 2019, però, è stato fatto un importante passo avanti per scoprire la verità: l’arresto di cinque persone legate alla più sanguinaria milizia di Rio de Janeiro, Escritório do Crime. Fra loro Fabrício Queiroz e Adriano Magalhães da Nóbrega (rimasto ucciso nel 2020 per mano della polizia), entrambi legati a Flávio Bolsonaro.

Ma chi era Marielle Franco? Per dirlo con le parole della sua compagna Monica Benício: «Era una stella nascente della politica brasiliana». Nera, bisessuale, madre single, cresciuta in una favela, Franco si è fatta le ossa come attivista prima di buttarsi in politica. Candidata nel 2016 con il Psol (Partito socialismo e libertà) come consigliera comunale a Rio de Janeiro, ha ottenuto ben 46 mila preferenze, diventando la quinta più votata. Franco è stata la terza donna nera e proveniente da una favela a occupare un seggio nel Consiglio comunale di Rio: un risultato storico. Alta, con i capelli sempre raccolti in pettinature afro o turbanti coloratissimi, Franco faceva del suo corpo un’arma politica in una società, quella brasiliana, in cui la discriminazione razziale è ancora fortissima. Originaria di Maré, una delle più grandi favelas di Rio de Janeiro, in politi-

POLITICA BRASILE
Nera, cresciuta nella favela, era l’astro nascente della politica.
Il suo esempio vive. Ma l’omicidio resta senza giustizia
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ELENA BASSO

ca rappresentava un’eccezione: a livello federale, su 811 eletti nel 2017, le donne nere sono solo 32 (il 3,9 per cento). Ma come dice Valeria Ribeiro Corossacz, docente di Antropologia culturale all’Università di Roma Tre: «Essere una politica di alto livello, se si nasce in un contesto come quello di una favela in Brasile, è ancora oggi difficile. Ma ci sono stati cambiamenti sostanziali nella società che lo hanno reso possibile. È stato fondamentale per esempio inserire le quote di studenti neri che devono essere ammessi, in un Paese dove l’istruzione pubblica di qualità è stata riservata a una maggioranza di studenti bianchi».

Omaggio a Marielle Franco dell’artista

Luis Bueno

politiche che oggi la prendono a esempio e lo scorso dicembre il presidente Lula ha nominato sua sorella Anielle ministra dell’Uguaglianza razziale. Come nota Ribeiro: «Una decisione importantissima. Prima di tutto perché la scelta è stata fatta in base al profilo di Anielle, per la sua storia di militanza antirazzista; ma anche perché rimarca l’impegno che questo nuovo governo metterà nel cercare giustizia per l’omicidio di Marielle».

Come ricordano i suoi familiari e collaboratori, Franco era popolarissima. Il suo programma politico era incentrato sui problemi quotidiani delle fasce più povere e discriminate della società. Portava avanti quella che lei definiva una «politica fatta con affetto», facendo campagna nelle zone più povere, parlando e scherzando con chiunque volesse darle la sua opinione o il suo supporto. Al suo omicidio la società brasiliana ha risposto in modo molto forte, riversandosi dal giorno dopo nelle strade al coro di: «Marielle, presente!». Nonostante la sua morte, il suo lascito nella politica brasiliana è stato fondamentale: sono decine le

A continuare a chiedere che vengano trovati i colpevoli della sua uccisione è Marcelo Freixo, ex deputato e politico del Psol, con cui nel 2008 Franco aveva cominciato la sua carriera politica. «È inaccettabile che a cinque anni dall’omicidio non si sappia la verità. Non possiamo tollerare che la violenza sia strumento d’azione politica. Oggi Marielle è un riferimento per milioni di donne nere brasiliane che lottano per una vita migliore e per un mondo più giusto. Perciò lo Stato brasiliano deve chiarire quello che è accaduto».

Foto: F. Vieira –FotoRua -NurPhoto / Getty Images
A SAN PAOLO
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UNA SPERANZA D’ACCIAIO

FORNI Operai al lavoro nelle acciaierie di Terni. Con la nuova tecnologia i forni lavorerebbero a temperature di fusione minori

Una società italiana sta per aprire il primo forno per produrre il metallo senza l’uso di carbone fossile e senza rilasciare anidride carbonica. Forse il primo passo di una rivoluzione in una delle filiere più inquinanti

ECONOMIA INNOVAZIONE VERDE
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ECONOMIA INNOVAZIONE VERDE

Il primo acciaio a impatto zero è made in Italy. Dopo un anno di test di laboratorio andati a buon fine, nei prossimi quattro mesi la I-Smelt, società spin-off di un team di ricercatori del Politecnico di Milano, costruirà in Lombardia il primo forno industriale per produrre acciaio senza l’uso di carbone fossile e senza rilasciare anidride carbonica. L’impianto sarà ultimato a giugno e i successivi tre mesi serviranno a confermare se, su larga scala, i consumi energetici e la produttività sono proprio quelli ottenuti durante le prove. «Poi, a settembre, comincerà la commercializzazione. Siamo pronti», promette Carlo Mapelli, creatore di I-Smelt, professore di Ingegneria dei materiali al Politecnico di Milano, già membro del cda all’ex Ilva e oggi nel board di Finarvedi. L’Espresso vi racconta cosa c’è dietro questa rivoluzione copernicana, che promette di stravolgere la siderurgia italiana attualmente in grado di fatturare 47 miliardi l’anno, dare lavoro a 35 mila persone e produrre 23 milioni di tonnellate l’anno di materiale.

Ma andiamo con ordine. Da tempo è scattata la corsa all’acciaio a impatto zero per evitare che l’aumento della produzione mondiale – si stima più del 30 per cento nei prossimi vent’anni – non soffochi il già sofferente pianeta: infatti il sei per cento delle emissioni globali di CO2, cioè quattro miliardi di tonnellate, proviene dai cicli siderurgici, che oggi sfornano due miliardi di tonnellate di acciaio l’anno. Per pulirsi la coscienza i produttori hanno promesso di dimezzare le emissioni al 2050, ma finora i progressi stanno al palo. Il Mit di Boston, fra i più quotati centri di ricerca al mondo, ha messo a punto la tecnologia Moe, testata alla Boston Metal, che punta a fondere il minerale di ferro per elettrolisi: il progetto è stato finanziato con 600 milioni di dollari, sganciati da Bill Gates e dal gigante franco-indiano Arcelor Mittal. L’entusiasmo iniziale ha lasciato il posto alla perplessità quando è stato necessario costruire un reattore nucleare per far funzionare l’impianto, che a quanto pare è fin troppo energivoro: qualcuno sta cominciando a pensare che sostituire il problema dell’anidride carbonica con quello delle scorie radioattive non sia una brillante idea. Anche l’acciaieria svedese Ssab mira a produrre acciaio da minerale, sostituen-

do il metano con l’idrogeno: la reazione consentirebbe di sprigionare nell’atmosfera vapore acqueo anziché anidride carbonica. Tuttavia l’unico procedimento in grado di creare idrogeno è l’elettrolisi che consuma un sacco di energia e ancora più acqua: se si volesse alimentare l’ex Ilva di Taranto a idrogeno bisognerebbe far fuori un quarto delle riserve idriche del Sud Italia e un terzo di quelle del Centro Italia, più un’area grande 5.600 campi da calcio per i pannelli fotovoltaici. In attesa che la ricerca sull’idrogeno faccia passi avanti, la tecnologia che più si avvicina al Sacro Graal dell’acciaio verde è proprio I-Smelt.

L’idea di fondo, racconta Mapelli a L’Espresso, è sostituire il carbon fossile con il biocarbone, un materiale ottenuto in ambiente inerte dagli scarti della potatura degli alberi, da legname a fine vita e da fanghi di natura organica: «Il risultato del processo è il carbonio puro che, fatto reagire con il minerale di ferro all’interno di un innovativo forno elettrico preriduttore, produce la lega metallica a base di ferro, cioè acciaio. Alimentando l’impianto a biogas ed energia elettrica rinnovabile da pannelli fotovoltaici è possibile neutralizzare le emissioni nette di CO2 che, provenendo da fon-

EMISSIONI

Una veduta di Taranto. Adottando le nuove produzioni le emissioni inquinanti sarebbero abbattute

“L’idea innovativa”, spiega il fondatore di I-Smelt, “è usare il biocarbone, un materiale ottenuto dagli scarti della potatura degli alberi, da legname a fine vita e da fanghi organici”
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GLORIA RIVA

ti vegetali e animali, non viene conteggiata perché l’ecosistema la riassorbe stagionalmente», spiega il professore. Le novità di questa tecnologia sono svariate: innanzitutto il processo di smelting (fusione della roccia per estrarre il metallo) avviene a temperature più basse rispetto alla media – 1.400 gradi, anziché 1.600 – inoltre è realizzabile in piccoli impianti che, quindi, non hanno bisogno di gigantesche quantità di energia. Per capire come mai l’impatto di questa tecnologia potrebbe essere dirompente soprattutto per l’Italia e l’Europa è necessario spiegare come oggi avviene la produzione della lega metallica.

Prima di tutto, ci sono due tipi d’acciaio, primario e da rottame. Il primario, più puro, viene prodotto scaldando minerale e bruciando carbone negli altiforni. L’ex Ilva, oggi controllata dallo Stato al 60 per cento, la restante quota da Arcelor Mittal, nonostante tutti i problemi ambientali, continua a essere l’unico produttore di acciaio da minerale d’Italia, fondamentale per l’industria metalmeccanica che lo usa per fare scocche delle auto, elettrodomestici, carpenteria, impianti, flange e così via. Prima che la magistratura tarantina aprisse un’inchiesta giudiziaria decennale per danno ambientale, l’Ilva sfornava 10-12 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, mentre oggi ne offre al mercato tre e mezzo. Sopperisce a questa carenza l’acciaio da rotta-

PER CENTO

è la quota mondiale di acciaio prodotta dalla Cina

MILIARDI

di tonnellate l’anno è la produzione mondiale di acciaio

PERCENTUALE

di acciaio prodotta in Italia a livello europeo. L’Italia è seconda in Europa per produzione di acciaio dopo la Germania

30

EURO

è la spesa operativa per produrre una tonnellata d’acciaio con la tecnologia I-Smelt.

MILIONI è il costo degli impianti con tecnologia I-Smelt per l’ex Ilva

MILIONI

di tonnellate: è la produzione media di acciaio italiana

14,6 426 2 22

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Foto: Alfonso Di Vincenzo / KONTROLAB / LightRocket via Getty Images; Pag. 67-68: DeAgostini / Getty Images
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Per approfondire o commentare questo articolo o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@ lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo

me: sostanzialmente si raccoglie il metallo a fine vita e lo si rifonde. Il problema è che il rottame è merce rara e all’appello mancano fra sei e dieci milioni di tonnellate per rispondere alla domanda delle industrie. La soluzione potrebbe essere I-Smelt, che permetterebbe ai siderurgici del Nord Italia di realizzare acciaio primario da minerale e ossidi di ferro, a bassi costi e senza inquinare. Oltre alla cinese Shaghang Group, interessatissima al nuovo processo, hanno manifestato interesse moltissimi nomi noti dell’acciaio, dalla bresciana Feralpi alle Acciaierie Venete, dalla veronese Nlmk all’emiliana Atb Riva Calzoni, dalla mantovana Marcegaglia alla cremonese Arvedi. Tutte attendono i risultati del primo impianto pilota, anche se Mapelli assicura: «Nonostante sia stato dimostrato solo in laboratorio, lo smelting è di immediata trasferibilità industriale». La società più interessata di tutte è sicuramente la Dri d’Italia, cioè l’impresa pubblica controllata dallo Stato attraverso Invitalia che si sta occupando della transizione ecologica dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. Il processo di smelting, se da un lato potrebbe risolvere il dilemma della città di Taranto, costretta a scegliere fra il lavoro che uccide (attraverso i fumi dell’altoforno), e la salute che non paga, perché comporta la chiusura dello stabilimento, dall’altro lato ridimensionerebbe il ruolo di Taranto perché, come abbiamo detto, anche i siderurgici del Nord Italia potrebbero iniziare a produrre acciaio primario sfruttando l’innovativo processo.

A oggi la Dri punta a sostituire la produzione di acciaio da altoforno con il preriduttore, un macchinario particolare per ottenere acciaio da minerale di base, con un investimento complessivo di 1,2 miliardi, di cui 400 milioni solo per la realizzazione dei forni a preridotto (minerale in lingotti pronti per essere lavorati). Al contrario,

spiega Mapelli, «per soddisfare la produzione dell’intero mercato italiano attraverso la tecnologia I-Smelt il costo degli impianti chiavi in mano è di circa 100 milioni di euro. Addirittura, affiancando l’impianto a un piano di riforestazione (funzionale alla produzione di biocarbone, che viene dalla potatura degli alberi) è possibile ottenere crediti di carbonio, utili a finanziare l’investimento iniziale». Anche Ilva, insomma, osserva da vicino il progetto smelting che, sulla carta, ha un costo di produzione di 300 euro a tonnellata, la metà del preridotto. Più nello specifico la Dri sta iniziando a dubitare della sostenibilità economica del preriduttore che, basandosi su un massiccio uso di gas naturale, ha subito un’impennata dei prezzi. Per ovviare a questo problema i produttori di preridotto hanno cominciato a utilizzare materie prima di scarsa qualità, danneggiando quindi gli impianti. A Invitalia, insomma, i conti non tornano e tutto questo sta bloccando il piano di trasformazione dell’ex Ilva.

A livello societario la I-Smelt è stata incubata per un anno all’interno di Elsafra II, una holding finanziaria controllata da Silvio Rancati, ex banchiere oggi sviluppatore di start up ideate dai ricercatori del Politecnico di Milano. Dopo la fase di brevettazione, in autunno la società ha preso le sembianze di una srl e, due settimane fa, ha portato a termine un aumento del capitale sociale: da 10 a 145 mila euro. Quel denaro servirà per dare il via all’industrializzazione. Azionisti di maggioranza restano Mapelli ed Elsafra II, affiancati da alcuni siderurgici, come Gianluca Marconi, manager del gruppo Eusider, e Romano Pezzotti, presidente della bergamasca Fersovere e commerciante di rottame. Proprio Pezzotti vuole contribuire allo sviluppo del primo impianto e investire nella produzione del preridotto smelt, che si basa sulla tecnologia brevettata, del valore di 65 milioni di euro. E nelle prossime settimane altri player del siderurgico potrebbero farsi avanti per scommettere sull’acciaio verde.

Anche i costi e il consumo di energia sarebbero drasticamente ridotti. Tutti i grandi gruppi siderurgici nazionali, e anche i cinesi, sono interessati alla nuova tecnologia
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sul sito gli interventi più interessanti

L’autonomia differenziata è eversiva. Danneggerebbe tutto il Paese, moltiplicando le disuguaglianze

L’

approvazione in Consiglio dei ministri e in Conferenza unificata Stato-Regioni del ddl Calderoli sull’Autonomia rappresenta un passo avanti decisivo per continuare a dividere l’Italia. Se applicato, il ddl affosserebbe i diritti universali nel nostro Paese. I patrioti di FdI sono passati dall’urlare «prima gli italiani» al sussurrare «prima i ricchi», a prescindere dall’etnia. Il che dimostra come il colore della pelle e la razza non siano il vero elemento del contendere. Razzismo e xenofobia sono da sempre tratti distintivi delle destre, come confermano le parole vergognose di Matteo Piantedosi sui migranti lasciati mori-

Il regionalismo che farà a pezzi la Repubblica

re in mare. Ma Giorgia Meloni va oltre, dimostrando la grande capacità trasformista della destra italiana, rimangiandosi tutti gli slogan degli anni di (finta) opposizione. Altro che patria e difesa delle famiglie impoverite. Se si portasse a compimento il progetto dell’autonomia differenziata, la Repubblica nata dalla Liberazione non esisterebbe più. Attribuire la potestà legislativa esclusiva alle Regioni addirittura di 23 materie di competenza dello Stato (scuola, lavoro, salute, ambiente...) sarebbe una catastrofe che segnerebbe la fine dell’unità della Repubblica.

Ma ve lo immaginate, dopo quello che abbiamo visto durante la pandemia, continuare a insistere sulla privatizzazione della sanità invece che sul Sistema sanitario nazionale pubblico? Il “turismo sanitario” alimentato da Regioni come la Calabria verso le cliniche private della Lombardia a causa dall’assenza di livelli uniformi di presta-

zione diverrebbe la normalità. Immaginate quello che cambierebbe nella didattica scolastica se affidata all’esclusiva competenza regionale? E cosa significherebbe gestire senza una visione d’insieme il territorio nazionale? E per il lavoro, l’impatto che avrebbe sui i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici la contrattazione regionale? Scelte del genere porterebbero a uno spaventoso aumento delle disuguaglianze tra cittadini e cittadine sulla base della residenza, disuguaglianze già fuori controllo per l’assenza di politiche e investimenti adeguati. Dalla padella alla brace della secessione dei ricchi e dello smembramento della Repubblica in tante piccole patrie, con tanti piccoli cacicchi che difendono i loro piccoli regni. Alla faccia dell’indivisibilità della Repubblica. Non sarebbe dunque solo un problema per il Sud, dove, basandosi sulla spesa storica, verrebbero istituzionalizzati i livelli illegali di povertà e disuguaglianze. L’autonomia differenziata danneggerebbe tutto il Paese. Questo spiega perché sino a poco tempo fa il progetto è stato discusso in segreto, in assenza totale d’informazione per i cittadini. Un fatto gravissimo che dimostra la pessima qualità della nostra democrazia e l’attitudine, spesso bipartisan, dei nostri governanti a non volersi confrontare con i cittadini. Bipartisan perché i protagonisti iniziali del progetto eversivo sono stati i presidenti di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Proprio l’ex candidato alla segreteria Pd, Stefano Bonaccini, è stato con Attilio Fontana e Luca Zaia un grande sostenitore dell’autonomia differenziata. Ulteriore conferma della distanza tra quel ceto politico e i bisogni reali dei cittadini. Se avesse davvero cambiato idea, come affermato di recente, dovrebbe per coerenza revocare l’intesa già firmata con il governo Gentiloni. Le conseguenze del regionalismo asimmetrico sarebbero catastrofiche. Fermare il progetto è prioritario per difendere la Repubblica. Facciamo eco!

FACCIAMO ECO
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ECONOMIA AMBIENTE A RISCHIO

Industrie e camion La pianura padana è il garage d’Italia

ANGIOLA

CODACCI-PISANELLI

Nebbia in Valpadana, si diceva anni fa per indicare qualcosa di ovvio. Poi la nebbia è diventata smog: «Ma oggi lo smog non c’è più», nota Gianni Tamino, ambientalista di lungo corso. E non è una buona notizia: «Per la siccità il terreno è meno umido, quindi lo è anche l’aria; per questo non si forma più la nebbia. Però, se faccio una fotografia satellitare della pianura padana, vedo un colore omogeneo, un grigio-giallino. Non possiamo più chiamarlo smog perché di quella parola, composta da “smoke” e “fog”, è rimasto solo il fumo: uno strato di ossidi d’azoto e polveri sottili».

Dove c’è industria c’è combustione, quindi fumo, cioè inquinamento. E dove ci sono così tanti impianti come nella pianura padana è normale che d’inquinamento ce ne sia molto. Se a ciò si aggiungono i cambiamenti del clima, che aggravano i problemi di una posizione geografica poco ventilata, l’effetto è quello di una macchina lasciata accesa in un garage.

larmente difficile) ha presentato al governo un piano, preparato da Boston Consulting Group e Interconnector Energy Italia, per ridurre l’impatto ambientale.

L’inchiesta con le interviste integrali è pubblicata sul sito lespresso.it

Sebbene gli ambientalisti adottino spesso forme di protesta eclatanti, su questo punto sembra esserci rassegnazione. Ma il rischio di conseguenze economiche ha spinto gli industriali stessi a cercare una soluzione. A novembre l’associazione che unisce le aziende più inquinanti (definite “hard to abate” perché ridurre le loro emissioni è partico-

La riduzione passa attraverso tre leve tradizionali (efficienza energetica, economia circolare e combustibili a bassa intensità carbonica) e tre strategiche (elettrificazione, combustibili come idrogeno o biometano e tecniche di Ccs, cioè cattura, stoccaggio e riutilizzo dell’anidride carbonica). Un piano ambizioso che prevede grandi investimenti e finanziamenti pubblici. E soprattutto richiede tempo: troppo, rispetto ai continui allarmi per l’inquinamento atmosferico che supera i limiti imposti dall’Unione europea nel tentativo di contenere le sostanze più pericolose a livelli compatibili con la salute umana.

Eppure, ogni volta che scatta l’allarme nelle città padane, sindaci e ambientalisti parlano solto di misure che riguardano

Piemonte, Lombardia, Emilia: il fumo di aziende e trasporti qui crea una cappa d’inquinamento. Peggiorata dalla scarsa ventilazione. Le imprese stesse ora studiano come abbattere le emissioni
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comportamenti individuali: servizi pubblici, auto elettriche, caldaie poco inquinanti. Stop a barbecue, caminetti, sigarette alla fermata dell’autobus. Nessuno è obbligato a diventare vegano, ma si chiede una stretta sugli allevamenti intensivi. E il fumo delle industrie non preoccupa? «Noi chiediamo da sempre maggiori controlli, ciò significa anche aumentare gli organici e i poteri delle Arpa», risponde Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia. Nell’ultima edizione del rapporto “Mal’aria”, presentata a gennaio, emerge che tutte le città gravemente inquinate del nostro Paese sono nella pianura padana. «Il report si basa sull’inquinamento misurato nelle città, ma è evidente che questo riflette le emissioni prodotte in un ampio territorio circostante: specie durante i periodi invernali, con l’accumulo d’inquinanti legato al fenomeno dell’inversione termica».

Ai fumi delle ciminiere si aggiunge un al-

FOSCHIA

Una vista della pianura padana dalle colline nella zona di Reggio Emilia, in una giornata con alti valori di polveri sottili

tro tipo d’inquinamento legato alle industrie: quello prodotto dal flusso interminabile di camion che trasportano materie prime e merci. A spiegare il loro apporto è Riccardo De Lauretis dell’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale): «Per quanto riguarda le “emissioni esauste”, generate direttamente dalla combustione, il progressivo rinnovo del parco circolante porterà a una riduzione di ossidi di azoto e particolato (Pm10). Le emissioni “non exaust”, dovute all’usura di freni e pneumatici, invece, sono collegate al trasporto su gomma qualsiasi sia la forma di alimentazione dei motori. Le politiche intraprese finora per spostare il trasporto dalla strada ad altre modalità non hanno avuto grande successo. Sono inevitabili, però, se si vorranno rispettare gli obiettivi di mitigazione delle emissioni a medio e lungo termine».

Questi obiettivi sono decisi dall’Ue, che «stabilisce i limiti di inquinamento permessi e rilascia le autorizzazioni prima dell’apertura di ogni nuovo impianto», come ricorda Alberto González Ortiz della European Environment Agency. Ai singoli Stati spetta l’applicazione delle regole, che sono uguali per tutto il territorio dell’Ue: non importa se un impianto è isolato in cima al Monte Ventoso o se si trova in un distretto affollato e poco areato. «Anche il trasporto su rotaia, che porterebbe a diminuire l’inquinamento da traffico legato alle attività industriali, richiede decisioni e investimenti statali», conclude Gonzáles. Nelle mani di chi amministra una città, quindi, restano solo i com-

portamenti individuali. Ma così la protezione dell’ambiente finisce per essere sentita come una condanna dai cittadini, obbligati a revisioni e cambi di auto, riscaldamenti ridotti, domeniche a piedi e altri “pannicelli caldi” che risolvono ben poco.

L’alternativa? «Ripensare i modelli di produzione, i cui livelli attuali sono insostenibili nel lungo periodo, e consumo». Per combattere la “Mal’aria” «è necessario ripensare i processi industriali le cui emissioni non appaiono altrimenti contenibili». Sembrano parole di Tamino, che alla “Decrescita” ha dedicato anni fa un saggio, ma le citazioni vengono da un rapporto dell’Ispra sulle strategie per ridurre i gas serra. Finché non verranno applicate, sarà come vivere in un garage.

Foto: Ag. Fotogramma
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Non piove Governo assente

Con lo sguardo accigliato di Giorgia: «Matteo, vuoi fare il super commissario?». E non s’è capito se la presidente Meloni volesse davvero bacchettare il vicepresidente Salvini oppure stuzzicarne la vanità, cercarne la complicità. In queste circostanze, quando la situazione è seria, e la siccità lo è in misura drammatica, la reazione della politica italiana non è mai grave, schietta, precisa. C’è sempre qualcosa soltanto di abbozzato, ipotesi di scuola, nient’altro che suggestioni, si dice. Eppure una decina di giorni fa, proprio la presidente Meloni ha voluto convocare una cabina di regia permanente e urgente a Palazzo Chigi per intervenire in fretta, per contenere i danni della penuria d’acqua e, soprattutto, per aggirare la gramigna di ogni governo che è la burocrazia.

Un ministro tira l’altro, un sottosegretario se ne porta un altro, ciascuno con un carico di velleità dinanzi ad almeno 9 miliardi di euro da spendere. Così la cabina di regina è diventata la cambusa di una nave in festa. Meloni certo, Salvini dunque, e anche il ministro Francesco Lollobrigida per l’Agricoltura, e il ministro Nello Musumeci perché ha la competenza della Protezione civile che muove le botti con l’acqua, e il ministro Raffaele Fitto per le Politiche di coesione e ovviamente il Piano nazionale di ripresa e resilienza,

e il ministro Roberto Calderoli per le Autonomie in senso largo, e il ministro Gilberto Pichetto Fratin per l’Ambiente, e la viceministra Vannia Gava invitata dal ministro Pichetto Fratin per le sue deleghe specifiche, e il sottosegretario Alfredo Mantovano per la presidenza del Consiglio, e il sottosegretario Alessandro Morelli perché programma e coordina la politica economica con il dipartimento Dipe. Il tempo di sedersi e già s’era fatto tardi.

Salvini s’è proposto subito per gestire la (mega) cabina di regia. Lollobrigida ha precisato che la cabina di regia è gestita dalla presidente Meloni e al massimo Salvini può fare il supplente. I Fratelli d’Italia vivono un periodo di bulimia istituzionale e volevano la cabina di regia e il commissario straordinario. I leghisti hanno rintuzzato per non lasciare in secca Salvini: commissari semplici, non straordinari, magari più di un commis-

Foto: F. GrassiGetty Images ECONOMIA ITALIA A SECCO
La premier Meloni, il vice Salvini. E poi ministri, viceministri, sottosegretari.
Sull’emergenza idrica finora solo una lotta di potere tra Fratelli
d’Italia e Lega. Mentre il disastro avanza
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VITTORIO MALAGUTTI e CARLO TECCE

sario, però per impegni ben definiti. La viceministra leghista Gava: niente sovrastrutture burocratiche, si tratta di commissariare alcune opere strategiche. Il forzista Pichetto Fratin non si è scomposto, è il ministro non fungibile, si occupa di Ambiente, controlla le Autorità di bacino, si passa di là. C’è una scala delle priorità, non si deroga: l’acqua serve, in ordine, per la sanità, le abitazioni, l’agricoltura e infine per l’energia. Non stupisce che la produzione idroelettrica sia in calo e sia destinata a calare sempre di più.

Al momento il governo ha deciso di «potenziare gli osservatori delle Autorità di bacino; semplificare la normativa per il riuso delle acque e la dissalazione; manutenere e sghiaiare gli invasi esistenti; censire le derivazioni; contrastare i prelievi abusivi». Anche la Regione Lombardia s’è fatta la sua cabina di regia. Quella di Palazzo Chigi è più grossa. Non sai mai cosa può succedere fin-

ché non ne esci. Intanto non piove abbastanza. E va sempre peggio.

L’anno scorso, l’anno della grande crisi delle materie prime, la carenza d’acqua ha avuto un impatto rilevante anche sul bilancio energetico del nostro Paese. I bacini alpini hanno sofferto per la scarsità di neve. E l’inverno arido che stiamo vivendo ha prolungato la fase eccezionalmente secca cominciata già alla fine del 2021. L’anno scorso, la siccità si è portata via più del 40 per cento della produzione idroelettrica, passata da 46 mila a 28 mila gigawattora, cioè 11 per cento della produzione nazionale di energia, cinque punti in meno rispetto al 2021. Nel 2023 lo scenario non è cambiato. A gennaio, il contributo dalle centrali alimentate ad acqua è sceso ancora a 2.082 gigawattora, contro i 2.335 gigawattora del primo mese dell’anno scorso. Questi dati appaiono ancora più preoccupanti se

PIEMONTE

Il lago Morasco in Val Formazza, nella provincia piemontese

Verbano Cusio Ossola

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confrontati con quelli del biennio precedente, quando a gennaio dagli impianti idroelettrici erano arrivati 3.476 gigawattora nel 2020 e addirittura 3.749 nel 2021.

«Il quadro climatico sta determinando in questi ultimi 12 mesi una siccità molto severa, a tratti estrema», commenta Giuseppe Argirò, amministratore delegato della Compagnia Valdostana delle Acque (Cva), a cui fa capo uno dei più importanti parchi idroelettrici italiani, con 6 dighe e 32 centrali. La scarsità d’acqua, prevede Argirò, «potrebbe determinare una stagione estiva in cui dovremo far fronte a danni rilevantissimi per la produzione elettrica, per l’agricoltura e la zootecnica, oltre che per il sistema industriale nel suo complesso, che necessita di acqua per funzionare, comprese in Italia le centrali termoelettriche e in Francia quelle nucleari».

Con le Alpi a secco, i grandi gruppi energetici nazionali sono costretti a rivedere i loro piani sulle rinnovabili. Nel 2022, la milanese A2A, che sfrutta tra l’altro gli invasi disseminati nelle montagne lombarde, ha visto crollare del 38 per cento la produzione garantita dalle sue dighe. Viaggia al ribasso anche Enel, con un meno 34 per cento da gennaio a settembre. E visto che nell’ultimo trimestre la penuria d’acqua è aumentata ancora, il dato di fine 2022 non farà segnare un’inversione di rotta.

Il futuro prossimo preoccupa, se possibile, ancora di più. I produttori di energia nazionali, gran parte dei quali sono a controllo pubblico (Stato, Regioni, Comuni) si dicono pronti a investire miliardi per affrontare un clima che, nelle previsioni quasi unanimi degli scienziati, alle nostre latitudini sarà sempre più arido. Finora però sulle strategie delle aziende era sospesa la spada di Damocle delle gare per il rinnovo delle concessioni per la gestione degli impianti. I giochi si sono riaperti di recente. L’Unione europea ha ritirato la procedura di infrazione contro i Paesi, tra cui l’Italia, che non si erano ancora adeguati alla richiesta di Bruxelles in materia di concorrenza nel settore della

LOMBARDIA

Il Ponte della Becca alla confluenza tra i fiumi Ticino e Po in Lombardia

produzione idroelettrica. «Sono certo che il governo ne prenderà atto e si assumeranno le scelte conseguenti in modo da far ripartire gli investimenti bloccati da anni in attesa che si chiarisse la questione delle concessioni», dice Argirò.

Per adattarsi al clima che cambia servirà comunque tempo e denaro, perché nel caso delle centrali idroelettriche si tratta di intervenire per aumentare efficienza e sicurezza di impianti che hanno un’età media di 70 anni. Non è solo questione di energia. L’intero sistema va ripensato per garantire forniture costanti di acqua destinata all’agricoltura e anche all’uso cosiddetto civile, cioè per bere, cucinare e lavarsi. «Il flusso di investimenti è in aumento già da qualche anno», segnala GiordanoColarullo, direttore generale di Utilitalia, l’associazione di categoria delle aziende che gestiscono servizi idrici, ambientali ed energetici. «Adesso

ECONOMIA ITALIA A SECCO
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però – dice Colarullo – è quanto ormai urgente un salto di qualità, perché la penuria di pioggia di questi due anni ci ha messo di fronte a una realtà a cui non siamo preparati». Il Pnrr stanzia in totale 4,38 miliardi per la gestione delle risorse idriche, di cui 2 miliardi per le infrastrutture primarie, cioè in sostanza per gli acquedotti, 900 milioni per la riduzione delle perdite nella rete, 800 milioni per i sistemi di irrigazione e altri 600 milioni alla voce fognature e depurazione. Il problema, però, è che i soldi del Pnrr andranno a migliorare strutture già esistenti, ma non finanzieranno nuove opere, di cui invece c’è un gran bisogno. Senza contare che per gran parte dei progetti ammessi a finanziamento (circa 150) non sono ancora state avviate le gare.

Ai primi posti di un’ideale lista delle priorità ci sono gli invasi dove raccogliere l’acqua piovana per poi utilizzarla nei

PER CENTO Deficit riserve

MILIARDI DI METRI CUBI Quantità di acqua consumata per uso potabile in Italia, la più elevata di tutta la Ue

PER CENTO

Diminuzione della produzione di energia da fonti idriche nel 2022 rispetto al 2021

PER CENTO La quantità di acqua potabile che viene persa dalle reti idriche sul totale prelevato

201720182019202020212022 942
2006-20
idriche in Lombardia rispetto media
60 40
SOFFRONO
Italia: idroelettrico e altre fonti a confronto 250.000 GWh 200.000 GWh 150.000 GWh 100.000 GWh 50.000 GWh 0 GWh 20% 15% 10% 5% 0% IDROELETTRICOIDROELETTRICO SU TOTALE (%) TOTALE Foto: A. Serrano' / AGF, N. Marfisi / AGF, I. Romano/Getty Images
QUANTO
LE DIGHE
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ECONOMIA ITALIA A SECCO

periodi meno piovosi. La Spagna riesce a riutilizzare più del 30 per cento della pioggia, che invece in Italia per quasi il 90 per cento non viene trattenuta al suolo e si disperde. «Senza invasi siamo abbandonati al nostro destino», sintetizza Stefano Calderoni, presidente del Consorzio di bonifica Pianura di Ferrara. «L’acqua arriva al mare prima che riusciamo a utilizzarla», dice Calderoni. Il “Piano Laghetti“, preparato dall’Anbi (Associazione nazionale consorzi di bonifica) insieme a Coldiretti, punta a realizzare oltre 200 piccoli bacini artificiali. I progetti però sono ancora in attesa dei finanziamenti pubblici. E poi c’è la burocrazia. La lunga trafila di autorizzazioni che rallenta tutti gli interventi. «La speranza è che la nuova figura del commissario annunciata dal governo riesca a trovare una sintesi per passare in fretta dalle parole ai fatti», è l’auspicio di Stefano Francia, presidente di Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) dell’Emilia Romagna.

Servirà tempo, comunque, perché gli investimenti producano un qualche effetto concreto. In Italia il 55 per cento circa dei consumi di acqua (in totale circa 26 miliardi di metri cubi all’anno) è destinato alle irrigazioni. E se la pioggia è scarsa per molti mesi di fila, come è successo nel 2022 e anche in questi primi mesi del 2023, il rischio di compromettere le colture diventa molto alto.

La situazione è difficile in particolare al Nord, nel bacino del Po, un’area dove le risorse idriche sono state sempre molto abbondanti. Nella Lombardia occidentale, nelle campagne intorno a Milano, tra i Navigli e il canale Villoresi, la siccità ha già ridotto del 10 per cento le aree coltivabili. Non c’è acqua per tutti. E a farne le spese sono soprattutto le colture che ne assorbono di più, come l’ortofrutta e il

riso. Molti agricoltori si orientano su prodotti che soffrono meno la carenza d’acqua: frumento e orzo invece del mais. Il cambio in corsa non è facile. Per i frutteti, per esempio, servono investimenti di lungo periodo. E così i danni diventano irreparabili. Nella provincia di Ferrara, dove si concentra buona parte della produzione nazionale di pere, un altro anno di siccità darebbe il colpo di grazia al raccolto.

Con i bacini dei grandi laghi del Nord (Maggiore, Como, Iseo e Garda) svuotati molto oltre la metà, i tecnici sono costretti a studiare soluzioni di emergenza per limitare i danni. «Nessuno era pronto ad affrontare una situazione così grave», dice Valeria Chinaglia, direttore generale del consorzio di bonifica Ticino Est Villoresi. «Già a settembre dell’anno scorso ci siano mossi per chiedere un finanziamento statale per realizzare un sistema di paratoie che consen-

Foto: N. Marfisi / AGF (2)
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La produzione di energia idroelettrica cala drammaticamente. Molte colture agricole sono a rischio. E quest’anno, secondo le previsioni, le piogge saranno ancora più scarse che nel 2022

VENETO

Veduta aerea della secca del Po all’altezza di Ficarolo in provincia di Rovigo. A fianco: la viceministra all’Ambiente Vannia Gava. A sinistra: il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida

tano di trattenere l’acqua nei Navigli che, a differenza del Villoresi, non hanno un fondo impermeabilizzato», spiega Chinaglia. «Non abbiamo però ancora avuto risposta. E siamo stati tagliati fuori anche dai fondi del Pnrr, che hanno privilegiato sistemi di irrigazione diversi da quello prevalente nelle nostre zone».

A volte fa più danni la burocrazia della siccità. E allora molti agricoltori decidono di fare da soli. Al Nord si moltiplicano i pozzi privati, che per legge devono essere autorizzati dalle provincie. Tutti scavano alla ricerca dell’acqua. Con il rischio che le falde già sofferenti si impoveriscano ancora di più. Servirebbero più controlli. Una chiara divisione dei compiti tra enti locali e centrali. Intanto il governo discute e si divide. E i fatti restano un miraggio. Come la pioggia nel deserto. Col guaio che il deserto è arrivato quasi fino a noi.

Due siciliani per Mediobanca

Nagel deve ringraziare Nino Frassica

«Alberto Nagel deve ringraziare ogni giorno Nino Frassica, dovrebbe erigere un monumento in suo onore», dice un banchiere di lungo corso. E ha ragione, perché Mediobanca, guidata da Nagel, registra continui successi anche grazie ai risultati di Compass, la finanziaria specializzata nei crediti al consumo. Proprio quella che vanta la pubblicità dove protagonista è Frassica, nei panni di un portinaio impegnato nel risolvere i problemi dei condomini con l’aiuto di Compass. Per Luigi Pace, Direttore Centrale Marketing & Innovation di Compass, «il format del condominio e il testimonial Frassica con la sua straordinaria capacità interpretativa, sono da anni ormai gli elementi imprescindibili della nostra brand equity, sinonimo di vicinanza ai clienti e attenzione alle loro esigenze, che si tratti di piccoli o grandi progetti». Sarà un caso, ma la fortuna di Mediobanca è sempre stata legata ai siciliani, dal catanese Enrico Cuccia al messinese Frassica. ***

Gentiloni tra Cipolletta e Farina

Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni sarà circondato da due giovani della classe 1941 al Rome Investment Forum in programma a Roma il 30 marzo nelle Scuderie di Palazzo Altieri. Sì perché nella casa dell’Abi guidata da Antonio Patuelli l’iniziativa targata Febaf, che sarà aperta dal presidente Fabio Cerchiai, vedrà Gentiloni accanto al numero uno dell’Aifi Innocenzo Cipolletta e alla presidente dell’Ania Bianca Maria Farina, che hanno entrambi 81 anni (sono nati tutti e due nel mese di dicembre). Le conclusioni dell’incontro pomeridiano verranno affidate al ministro per gli Affari europei, il Sud, le politiche di coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, che è del 1969: praticamente un bambino… ***

Urso e la minaccia cyber

Adolfo Urso è il ministro delle Imprese e del Made in Italy e, pochi lo ricordano, vanta anche la “delega alle politiche spaziali e aerospaziali”. Grazie a questo ruolo il titolare del dicastero di via Veneto parteciperà da protagonista il 14 marzo al seminario dell’Istituto affari internazionali intitolato “La minaccia cyber allo spazio”. I relatori saranno, tra gli altri, il dg e ad di Elettronica Donatella Benigni, il vicedirettore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale Nunzia Ciardi, il sottocapo di Stato Maggiore della Difesa Carmine Masiello

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Il grande bluff del nuovo stadio

GIANFRANCESCO TURANO

Non si sa chi ha vinto ma si sa chi avrebbe perso. Nella sitcom sul nuovo stadio di Inter e Milan, a quanto si legge, lo sconfitto certo sarebbe il sindaco di Milano Beppe Sala, che rischia di trovarsi con la cattedrale di San Siro abbandonata dai due club e destinata a una decadenza certa. Per capire chi bluffa a un tavolo da poker bisogna vedere tutte le carte. Forse Sala ha poco in mano. Ma Steven Zhang dell’Inter e Jerry Cardinale del Milan, al momento, non hanno neanche una coppia svestita.

Le alternative delle due società, che hanno deciso di procedere da sole nella ricerca di un’area edificabile, presentano una tale quantità di incertezze da spostare alle calende greche la posa della prima pietra.

Iniziamo dalla squadra del cuore del sindaco. L’Internazionale Fc ha fatto sapere di avere individuato un’area nella zona sudovest dell’hinterland milanese tra i comuni di Assago e Rozzano. L’idea sembra splen-

seppe, erede di Pino “el sabiunàt”.

Sull’area esiste già il progetto Milanofiori Sud Rozzano, gemello di Milanofiori Nord che ricade nel territorio di Assago e che è già in fase avanzata di realizzazione.

dida. Nella zona le infrastrutture abbondano. Ci sono la tangenziale est, l’Autofiori Milano-Genova e la linea della metropolitana verde (MM2) a servizio del Forum di Assago, casa dell’Olimpia basket.

Visto più da vicino l’entusiasmo si spegne presto. L’area (1,1 milioni di mq) è in parte all’interno del Parco agricolo Sud, come dichiarano i documenti della proprietaria Infrafin, controllata da Bastogi, Brioschi sviluppo immobiliare e Camabo, tutte della famiglia Cabassi guidata da Matteo Giu-

Sui terreni di Rozzano aveva già messo gli occhi, quasi vent’anni fa, l’allora presidente dell’Inter Massimo Moratti. Non se n’era fatto niente perché dal punto di vista politico-amministrativo c’è una battaglia che dura da anni. L’ultima sentenza del Tar, nell’aprile 2018, ha bocciato il ricorso congiunto di Infrafin e del Comune di Rozzano, guidato dalla sindaca Pd Barbara Agogliati, e ha ridotto le potenzialità edificatorie in modo significativo dai 310 mila metri quadrati del masterplan originale, steso con il contributo qualificato dell’antropologo francese Marc Augé in modo da «salvaguardare la fauna locale» e «conciliare vocazione agricola e abitativa». Cinque anni dopo il verdetto del Tar, Rozzano è passato a una giunta guidata dal forzista Giovanni Ferretti De Luca, entusiasta del progetto stadio. Pochi mesi dopo avere per-

ECONOMIA MILANO
Inter e Milan dicono di aver individuato le aree dove costruire. Ma i problemi urbanistici non sono affatto risolti. Ed entrambi i club avrebbero problemi enormi a trovare i finanziamenti
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so la corsa al Comune Agogliati è stata assunta dal gruppo di Beniamino Gavio, che ha in concessione l’autostrada Milano Fiori e non può che vedere con favore un aumento di traffico nell’area. Questo non le impedisce di essere consigliera delegata alle reti sportive e alle periferie della città metropolitana.

Anche il Milan, oltre all’ipotesi problematica dell’ex Falck di Sesto San Giovanni, ha pensato a due aree incluse nel Parco Sud, San Donato Milanese e l’ippodromo di La Maura. Questa area appartiene a Snaitech, il colosso delle scommesse che è stato acquisito dai britannici di Playtech. L’ex Snai ha adottato una formula che ricorda quella di Tor di Valle a Roma, un altro ippodromo. La cessione dell’area non sarà all’Ac Milan ma alla Fmca, una società di sviluppo immobiliare che farebbe da project manager, un po’ come Luca Parnasi a Tor di Valle, possibilmente con risultati meno negativi. Oltre allo stop chiesto dal presidente del Parco Sud Daniele Del Ben, la Maura si trova a 1,5 chilometri dal Meazza. Fino all’i-

MEAZZA

Lo storico stadio di San Siro intitolato dal 1980 a Giuseppe Meazza

naugurazione delle Olimpiadi del 2026 quella zona di Milano non può essere oggetto di interventi impattanti per questioni di sicurezza e di agibilità. È quindi escluso che il Milan ottenga via libera in tempi rapidissimi da un consiglio comunale dove i sostenitori della ristrutturazione di San Siro sono numerosi e bipartisan. Detto della questione urbanistica, resta il problema finanziario e non è piccolo. Qualche proiezione di costi può essere utile. Il Qatar ha speso per i sette stadi dei Mondiali una cifra stimata fra i 6,5 e i 10 miliardi di dollari, con costi del lavoro inversamente proporzionali agli edili morti nei cantieri. Il nuovo White Hart Lane, realizzato per il Tottenham su progetto di Populous, gli stessi architetti della Cattedrale di San Siro, è stato inaugurato nel 2019 ed è costato 1 miliardo di sterline a prezzi pre-pandemici. Con la corsa al rialzo delle materie prime di questo periodo, il consigliere del Milan Massimo Ferrari, l’uomo della finanza nell’organigramma WeBuild non sospetto di fanatismo ambientalista, aveva parlato di aggiornare i 700 milioni del nuovo Meazza a quota 2 miliardi di euro. I club milanesi, che avrebbero avuto serie difficoltà a caricarsi un investimento da 1 miliardo a testa, dopo la separazione consensuale lo raddoppierebbero. È vero che con la leva finanziaria si può fare molto. Ma il prestito evocato da Cardinale avrebbe costi enormi. I nerazzurri sono già alimentati da un finanziamento contro pegno di Oaktree e hanno riportato una perdita di 140

milioni di euro nel 2022 mentre il Milan dei risparmi ha perso 66,5 milioni ed è in enorme difficoltà a trattenere la sua stella portoghese Rafael Leão con un’offerta da 50 milioni lordi in cinque anni che il Chelsea dell’unfair play è disposto raddoppiare. Sbalorditive, sebbene condivisibili, le dichiarazioni di Cardinale ai margini di un convegno londinese la scorsa settimana quando ha tuonato contro la presenza dei fondi nel calcio, avvoltoi senza un piano industriale, dediti soltanto al mordi e fuggi. Il compagno Jerry merita di diventare l’idolo del popolo tifoso. Basta dimenticare che lui è al Milan grazie a un vendor loan, cioè con i soldi prestati dal venditore, il fondo di investimento Elliot, e che la sua società Redbird è, a sua volta, un fondo di investimento.

Foto: Mattia PistoiaInter / Inter via Getty Images
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Uominisenti mentali

Cinema, moda, letteratura, spettacolo raccontano il tramonto del maschio alfa.

Una rivoluzione silenziosa che svela un’emotività più complessa. E più libera

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Non è un brutto segno che la pagina Instagram che ironizza sui «maschi etero basic» sia tanto seguita (@eterobasiche, oltre 200mila follwer): dimostrando che la specie è ancora tra noi, dà però la misura di una larga, lucida, spiritosa coscienza critica. E autocritica. Il tramonto dell’«etero basic», se così vogliamo definirlo, con la sua prevedibile perché un po’ schematica rozzezza (interessi standard, linguaggio e desideri convenzionali), non è un fatto recente. Costume, moda, nuove abitudini mentali hanno da tempo fatto vacillare il monolitico e a ogni modo ridicolo maschio alfa, costringendolo – se non a una resa incondizionata – a cedere il passo a esseri umani per cui l’aggettivo “virile” è di per sé fuori asse. Non basta: perché l’enfasi mediatica sul politico che piange in pubblico, sulla star che si mostra vulnerabile (Fedez o Marco Mengoni, mettiamo), sull’anti-paternalista conferma che la rivoluzione non è ancora compiuta. Tanto meno nel campo della paternità: dove ancora si tende a rilevare come straordinario, quando non eccentrico, il padre partecipe, presente. Con il rischio che lo si inquadri – insopportabilmente – come “mammo”. L’editoria, sul tema, insiste e spesso sbaglia: lasciando per l’appunto che i neopapà nati in coda al ’900 si compiacciano del loro stesso scoprirsi tali. Producendo una melassa retorica sulle gioie di un giorno-per-giorno con neonato o infante che non ha niente di davvero eccezionale. Per fortuna. Non che la questione sia improduttiva in termini letterari – a patto,

però, che a scriverne siano scrittori veri: è il caso dell’argentino Andrés Neuman (1977) che, nelle pagine di “Ombelicale” (Einaudi), sembra muovere proprio da un risveglio tardivo alla coscienza, a una consapevolezza emotiva più ampia, stratificata, complessa: «Spero – dice rivolgendosi al figlio – mi insegnerai a piangere le cose che non ho mai pianto». Curiosa, ma forse nemmeno troppo, la ricorrente evocazione dei dotti lacrimali in tali contesti: quasi che al pianto adulto il maschio contemporaneo assegni ancora un valore di rivelazione, di esposizione radicale, di liberazione.

«Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere»: chiude il suo “Tasmania” (Einaudi) Paolo Giordano, ed è la frase a cui approda l’io narrante-alter ego dopo avere messo alla prova sé stesso, le proprie certezze, dopo averle viste ondeggiare nel privato tanto quanto nell’orizzonte col-

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Le lacrime non si nascondono più. Anzi, al pianto adulto il maschio contemporaneo assegna un valore di rivelazione, di esposizione, di liberazione
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PAOLO DI PAOLO illustrazione di Emiliano Ponzi

Presi per la cravatta

Da simbolo del potere maschile ad accessorio in cerca di nuova identità. Non che non abbia già occhieggiato nel guardaroba femminile, segno di ribellione a ruoli scontati, ma è l’alta moda ora a depurare la cravatta della sua carica di virilità. E a reinterpretarla anche per lei come emblema di bellezza e cura sartoriale. Vedi le cravatte nere sugli abiti Valentino o il black&white di Alexander McQueen alla Parigi Fashion Week. Tra donne forti e autentiche, meno inclini a eccessi e provocazioni delle ultime sfilate, persino la cravatta si fa dettaglio di un’estetica genderfluid, come nelle collezioni senza più barriere rivolte ai giovani. Un brand per tutti: l’inglese Aries, lanciato su Yoox con lo slogan-manifesto They, Together: fratelli, sorelle, coppie. E un armadio unico.

PAROLE

D’AMORE

In senso orario: il cantante Marco Mengoni; lo scrittore spagnolo Javier Marías; Massimiliano Virgilio

lettivo. Non sono lacrime da eroi greci, né da supereroi coi poteri scaduti: ma brillano come sintomi di una messa in gioco di sé più integrale, indifesa. Perfino in camera da letto: vedi certe pagine sincere e ansiose di Giordano, quarantenne “in trouble” come nel titolo originale della miniserie tv Disney “Fleishman a pezzi”. Con un’aria da nipote di Woody Allen un po’ meno ironico, Jesse Eisenberg interpreta il padre difettoso e in affanno di due bambini. Separato, ossessionato dalle app di dating e perciò dal sesso, si accorge a un certo punto di non riuscire nemmeno a masturbarsi: ed è lì che perdendo pezzi – benché da privilegiato – può inoltrarsi in una affollata solitudine che gli permette di vedere e di vedersi in modo nuovo. Ancora: di riconoscere e perciò sfidare i propri limiti. Soprattutto emotivi: accade, in un clima molto diverso, anche in “Aftersun”, film diretto dalla trentacinquenne Charlotte Wells e candidato all’Oscar. Un padre giovane (Paul Mescal) in vacanza con una figlia undicenne prova a fare pace con l’idea di non essere ancora cresciuto. Peggio: sente che sta affondan-

do. Un’onda di malinconia e di tristezza quasi insostenibile avvolge lo spettatore, a cui via via risulta chiaro come quel ragazzo “spezzato” non avesse la forza sufficiente per resistere agli urti del mondo. Inadeguato? Incompleto?

Ma chi ha stabilito i parametri dell’adeguatezza, della vita “compiuta”? Sembrano chiederselo i personaggi di “Cieli in fiamme” (Mondadori), il romanzo in cui Mattia Insolia dimostra che l’incompiuto non è una dimensione anagrafica. Che si può restarlo a lungo o per sempre, e non si tratta di rinvio delle responsabilità, ma di una misteriosa e bruciante paura. Insolia – ha scritto Crocifisso Dentello – rende coetanei genitori e figli, ed è esattamente ciò che per altre vie accade in “Aftersun”, e ancora diversamente nel film più autobiografico di Steven Spielberg, “The Fabelmans”, sopralluogo emotivo di un ex bambino nella giovinezza scono-

Foto:F. Origlia –GettyImages, M. Buso –G. Arici –Grazie Neri / GettyImages, L. Cendamo –GettyImages
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sciuta dei propri genitori. Piena, naturalmente, di ombre: ma nessuno deve perdonare nessuno, in fondo, basta il coraggio di non nascondersi la verità. E di raccontarsela e raccontarla: con lo slancio, l’afflato di chi non teme, quando occorre, di essere “sentimentale”.

“El hombre sentimental” diceva il titolo di un vecchio romanzo di Javier Marías: anche se forse il tenore protagonista non è ancora e fino in fondo in grado di riconoscersi tale. Combatte per certi versi con la sua natura, mentre si impelaga in una ossessione amorosa più astratta che reale. Presagita o ricordata.

In ogni caso, totalizzante: come quella del bellissimo “L’amore inutile” (Wojtek), romanzo candidato al premio Strega da Valeria Parrella. «La sua teoria era che le emozioni vivevano una loro esistenza, avevano un’anima privata»: Gianfranco Di Fiore mette in scena la dolente e quasi indicibile sconfitta emotiva di un uomo che, letteralmente, vive una storia d’amore giocata solo sulla voce. La voce, le voci al telefono. Disordine e dolore precoce, una tragedia calma, ma anche una cruda estensione di quell’amour de loin, l’amore da lontano che è alle origini delle letterature romanze. Come un trovatore disincantato o disperato, Di Fiore lavora sul sentimento ideale/virtuale come il rovescio contemporaneo di quei sospiri, come il segno di una solitudine lacerante. La «nuda verità», proprio quella: matrice di uno scrivere d’amore per mano maschile che dà in questi mesi esiti non convenzionali. Detto diversamente: l’impudente silenziosa rivoluzione di “uomini sentimentali” che scrivono d’amore. Massimiliano Virgilio nel romanzo “Il tempo delle stelle” (Rizzoli) svela il rovescio dei sentimenti di «una coppia solida, affettuosa e progressista». E offre al suo personaggio maschile l’occasione per evitare di diventare la versione crudele e oscena di sé stesso. Il sorprendente, elegiaco Dario Voltolini

di “Giardino degli Aranci” (La Nave di Teseo), o il Marco Drago di “Innamorato” (Bollati Boringhieri): una sorta di poema in prosa sull’ossessione per una ragazza incontrata nel cuore dell’adolescenza e mai uscita dai pensieri. Drago la sogna e la risogna, la ricorda, la immagina e immaginandola quasi la consuma: ma parlando di lei e di certi luminosi interminabili pomeriggi degli anni Ottanta parla di sé, di come si diventava e si diventa – bene o male – maschi; di come si allenava la lingua dei desideri e meno, molto meno quella dei sentimenti. Che magari si apprende da adulti, diventando scrittori. È una questione di stile, no? Lo dimostra, al polo opposto del romanzo di Drago, Giacomo Sartori col suo “Fisica delle separazioni” (Exòrma). Se l’uomo sentimentale di Marías vive nell’incompiuto, l’uomo sentimentale di Sartori fa i conti con ciò che al contrario sembrava avere trovato la sua solidità, la

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“El hombre sentimental” era il titolo di un romanzo di Javier Marías. I personaggi delle storie di oggi si mettono in gioco in modo ancora più radicale
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sua perfezione. Quando finisce una storia d’amore, cosa si fa per dimenticarla? Sartori propone “otto movimenti”, un training sofisticatissimo, malinconico-ironico, che è anche e soprattutto una scommessa sulla prosa della memoria, anzi dell’anti-memoria: «Va dimenticato tutto, per fare una cosa ben fatta bisogna dimenticare tutto». È un libro affascinante, spietato senza essere livido: i giorni dell’abbandono, una volta tanto, visti e vissuti da lui. Uno che non si libera del nodo in gola, conosce le sue colpe e i suoi errori, sa che è difficile capire chi lascia chi e fatica a darsi pace: intanto si scopre debole, indifeso, e anche se sembra il contrario è già una conquista. Letteraria, sì. E umana.

IRONIA E SENTIMENTI Le Eterobasiche. A sinistra: Paolo Giordano e Andrés Neuman. A destra: The Fabelmans, Aftersun, Fleishman a pezzi

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Foto: Maria Gaia Mariotta, Webphoto (2), Getty Images (2)
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Maschi smalto e kajal

lessandro Giammei, trentacinque anni, professore di letteratura italiana, tiene da alcuni anni una rubrica che è diventata il libro “Cose da Maschi” (Einaudi), un testo che mi ha aiutato molto nel delineare quello che chiamo il mio patriarcato interiore.

Non ti nascondo che scrivere e discutere di questi temi nell’epoca della polarizzazione mi procura una certa dose d’ansia. La polarizzazione brutalizza e banalizza un tema che per molti di noi nasce da una ferita. Interrogarsi pubblicamente sulla propria identità viene visto con sospetto, e il peso dell’accusa di essere propagandisti, così comincio col chiederti se anche a te procura ansia scriverne.

«Più che scriverne, ti dirò, m’inquieta pubblicarlo. Da quando ho cominciato a scrivere in pubblico di cose da maschi ho praticamente abbandonato Facebook: troppe brutalità e banalizzazioni appunto, troppi commenti che mi facevano sentire, in qualche modo, un traditore, come gli incappucciati appesi sul lungofiume di Boston nell’immaginario gender-apocalittico di Margaret Atwood. Per qualche ragione, tecnica e generazionale, altre piattaforme social accoglievano invece gli stessi contenuti con più simpatia, e moltissimo affetto mi ha raggiunto dalla comunità leggente del giornale che li stampava, Domani. La dose d’ansia di cui parli mi abita ora che “Cose da maschi” si pubblica come libro. L’ho messo insieme come un’offerta di pace, come il cesto per un amichevole pic-

nic, e tuttavia temo una risposta aggressiva. Forse il germe della scomodità che sento nell’appartenere al consesso dei maschi sta nel fatto che odio litigare: il conflitto non mi nutre, mi fa venire da piangere addirittura».

Sia la rubrica che il tuo romanzo hanno questo titolo che non può star fuori il nostro dialogo, ammetto che è un modo banale per cominciare a parlarne, ma i titoli sono sempre un po’ l’invito alle grandi nozze della lettura: ma esistono cose da maschi e cose da femmine?

«Certo che esistono! Più ci penso e più mi pare che il maschile e il femminile esistano davvero solo nelle cose che ce li manifestano. Una camicia da uomo, un profumo da uomo, un colore da uomo sono tali chiunque ne sfoggi il taglio, la fragranza, il tono. Lo sono arbitrariamente, certo, ma anche indubbiamente: è infinitamente più facile dire cosa sia una scarpa da donna che non cosa sia una donna. Questa chiarezza delle cose mi conforta, ma è anche inquie-

IN CAMBIAMENTO Ripartire dagli oggetti, per capire ciò che diamo per scontato

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Un professore di letteratura italiana ha stilato un catalogo di “cose da maschi”. Proponendo non di negare la maschilità. Ma di esplorare i simboli del patriarcato. Per superarli
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colloquio con ALESSANDRO GIAMMEI di MARIO DESIATI

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tante. Le cose che ci troviamo addosso dalla nascita, che ereditiamo, che ci regalano ai compleanni e che crediamo di scegliere nei negozi finiscono per assegnarci un’identità di genere, come un oroscopo, ben prima che ci sia modo di interrogarla. Il bello è trasgredirle, queste profezie. Tuttavia, mentre è sempre stato facile esportare le cose da maschi presso qualunque identità non-maschile, è ai maschi che si tende a vietare, più o meno tassativamente, di provarsi addosso cose-non-da-maschi senza perciò negare (tradire?) la propria maschilità. Per questo quando, col collare e il kajal, hai aperto un ventaglio da femmina al Ninfeo ricevendo il Premio Strega per “Spatriati”, la gente ha avuto l’impressione che stessi facendo, come dicevi prima, propaganda».

Infatti ero pienamente me stesso e c’era anche un elemento ludico di richiamo ai protagonisti di “Spatriati” che si scambiano ruoli e vestiti nel romanzo. In molte circostanze della mia vita ho usato il kajal, ma quando ero più giovane me ne vergognavo e così quando mi si chiedeva se avessi fatto uso della matita mentivo. Per placare il mio senso di colpa di averlo pensavo mi aggrappavo al pensiero seguente “sto dicendo la verità, non ho né matita e né eye liner, questo è un kajal”, e infatti è un cosmetico che ha un pigmento molto più pastoso e meno preciso della matita o dell’eye-liner. Comunque ho mentito molte volte per difendere una parte del mio gusto, della mia identità ma anche del mio orto di frivolezze composto da cose molto distanti, come per esempio il kayal o andare in trasferta con gli ultras del Martina Franca. Ma le contraddizioni fanno parte di tutti noi. Non mi rassegno all’idea che ci si debba chiudere nei recinti. Ma ritieni che sia comodo per essere accettati?

«Amo molto la metafora del recinto. In inglese si adopera, general-

mente in senso deteriore, per parlare di chi tentenna e non sa decidere: si dice “è sul recinto”, on the fence. A me sembra che non ci sia luogo più vitale, più radicale addirittura, del ciglio di un recinto. Sono un patito di Giano, la divinità romana delle porte e delle transizioni, che ha due facce e guarda, contemporaneamente, in due direzioni. Ho scritto questo libro essenzialmente per dire a Mario, adolescente di Martina Franca, che il kajal e la trasferta cogli ultras si toccano sull’asse di un recinto percorribile. Per dire ad Alessandro, adolescente di Mostacciano, che lo smalto nero comprato in gita scolastica a Berlino si può mettere anche in sala pesi, sul tatami di un dojo, a una gara di sputi dai ponti del Laurentino. Per insegnare, soprattutto, a Mario e Alessandro come camminare agili lungo il recinto. Così magari si incontrano, e fanno amicizia».

Scrivi che hai imparato alle scuole medie che eri maschio. Racconti la tua illu-

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“Le cose che ci troviamo addosso dalla nascita, che ci regalano o che crediamo di scegliere, finiscono per assegnarci un’identità di genere, come un oroscopo”

minazione quando ti rendi conto che certi pantaloni, che prima ti parevano pantaloni qualunque, non ti mettevano più a tuo agio. L’adolescenza secondo te è troppo presto o troppo tardi per iniziare a porsi la domanda “chi sono io davvero”?

«Secondo me io, da adolescente, chi ero lo sapevo già. Quel che non sapevo, e che intuivo solo per istinto e paura, era chi gli altri credevano (o meglio chiedevano, esigevano) che fossi. Volevo essere maschio, e all’improvviso scoprivo che per esserlo non bastava essere me stesso. Onestamente non credo sia un’esperienza unica e particolare, anzi. Maschi si diventa, anche, forse soprattutto, quando sembra che venga naturale. La condotta di genere, come tutti i galatei occidentali emersi dalla trattatistica del Rinascimento mediterraneo, è il contrario della natura: è un artificio, una coreografia che impariamo per dire agli altri non tanto chi siamo, ma chi vogliamo essere. Però ecco, sto già scadendo nei con-

INVENTARIO DI SIMBOLI Alessandro Giammei.

In alto: Mario Desiati, premio Strega 2022. Nella foto grande: oggetti “da maschi”

voluti discorsi da professore che lancia il sasso e nasconde la mano smaltata. La domanda che credo ogni adolescente dovrebbe potersi porre senza angoscia è: chi voglio essere?».

Già, ma a quella domanda secondo me non si smette di rispondere per tutta la vita. Potremmo definirla una questione di fluidità? Insomma, secondo te, cos’è la fluidità?

«Ci sono due testi che trovo assai utili per ragionare di fluidità. Uno è “Avatar: The Last Air-Bender” (il cartone animato, non il film monnezza che ne ha tratto M. Night Shyamalan). L’altro è l’introduzione che la grecista Brooke Holmes ha scritto per un libro di lettere classiche intitolato “Liquid Antiquity”. In entrambi questi capolavori l’acqua non è tanto una metafora quanto uno strumento cognitivo. Immaginando le verità cui ci affidiamo non come concetti solidi, ma liquidi, permettiamo loro di fare una serie di cose che altrimenti gli sarebbero precluse: sgocciolare, imbevere, mescolarsi irrevocabilmente, scorrere, adottare qualunque forma senza mai diventare, sostanzialmente, altro da sé».

Insomma la libertà! Mi chiedevo se avessi nella tua libreria la “Psicologia del fascismo” di William Reich. Un potere autoritario inizia col reprimere la libertà sessuale. Forse le persone più libere non sono i seduttori o i promiscui, ma coloro che accettano la libertà degli altri.

«Non leggo Reich dai tempi del dottorato, ma hai perfettamente ragione: egli mi abita, forse anche perché, da quando vivo in America, cerco di capire Deleuze e Guattari, che senza l’antifascismo anti-normativo di Reich non si possono capire. I maschi più anziani con cui dibatto di cose da maschi finiscono sempre per dirmi che i libertini erano i veri maschi rivoluzionari, che quel che propongo io è solo un consolatorio prontuario di scuse per la timidezza. Invece esercitarsi a godere della libertà altrui è il massimo tirocinio alla felicità sessuale».

Foto: New Africa –Shutterstock, M. Capuano –Ansa
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CULTURA UNIVERSITÀ

La Sapienza investe sulle donne

Lo sanno bene gli oltre 120mila studenti della più grande università d’Europa. E con ogni probabilità anche i 3.500 docenti. Secondo la leggenda la statua di Minerva, nella piazza centrale della Sapienza, non va mai guardata negli occhi pena la bocciatura all’esame successivo. Incute una certa soggezione la divinità romana, vista dalla finestra dell’ufficio della rettrice. Antonella Polimeni, medico specialista in odontostomatologia, è la prima donna al vertice dell’ateneo romano da quando papa Bonifacio VIII lo fondò nel 1303 con la sua bolla, che oggi campeggia su una parete della stanza. Mentre si avvicina il giro di boa di metà mandato (scadrà nel 2026), facciamo il punto sui temi caldi della formazione: divario di genere, diritto allo studio, opportunità di lavoro, professioni del futuro.

Polimeni, lei è la prima rettrice della Sapienza dopo sette secoli. Nel frattempo Giorgia Meloni è diventata premier, Elly Schlein segretaria del Pd. Tira un’aria nuova per le donne?

«La società italiana attraversa cambiamenti profondi, impensabili fino a pochi anni fa. Riguardo alla presenza femminile, improvvisamente ci siamo allineati ai Paesi scandinavi (sorride). Alle ultime elezioni alla carica di rettore, in diversi atenei, si sono presen-

tate più candidate, un segno importante. La prima rettrice italiana è stata Biancamaria Tedeschini Lalli, nel 1992. Sarà un bel giorno quando non si dovrà salutare come un evento eccezionale».

In Italia le rettrici sono dieci a fronte di 74 rettori. E nelle università italiane la maggior parte dei ruoli accademici apicali è riservata agli uomini.

«Vero, le donne restano una minoranza. Mentre tra ricercatori e professori associati si nota un trend positivo, nella fascia dei docenti ordinari la presenza femminile è più ridotta. Oggi alla Sapienza la percentuale si attesta tra il 28 e il 29 per cento, superiore alla media nazionale ferma al 26. Nell’area umanistica il divario è maggiore, molto minore in quella scientifica, bassissimo nell’area medica, da cui provengo».

È favorevole alle quote rosa?

«La legge sulle quote rosa è stato uno strumento utile per infrangere un blocco che riguardava le società partecipate e quelle quotate in Borsa, per consentire l’ingresso delle

Borse di studio per colmare il divario di genere. Corsi di laurea interdisciplinari, più vicini al mondo del lavoro. Progetti all’estero. La visione della prima rettrice del più grande ateneo d’Europa
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colloquio con ANTONELLA POLIMENI di EMANUELE COEN

donne nei consigli di amministrazione. Ora bisogna lavorare sulla decostruzione degli stereotipi sulle ragazze, serve un’alleanza forte tra scuola e università. Ma c’è un altro tema fondamentale».

Quale?

«Dobbiamo aumentare il numero di laureati nel nostro Paese, siamo al penultimo posto nella classifica dell’Unione europea. Un problema che occorre affrontare con diverse azioni: orientare i nostri ragazzi nella scelta dell’università, con la consapevolezza che lo studio consente di ottenere migliori opportunità di lavoro e allunga la vita, anche se in alcune aree esiste un disequilibrio tra offerta di lavoro e quantità di soggetti formati. Le università devono offrire corsi di laurea sempre più contaminati di saperi diversi, più vicini al mondo del lavoro».

Come si muove La Sapienza?

«Qualche esempio. Abbiamo attivato un corso di laurea in Medicina e Chirurgia HT, “high technology”, contaminato con le discipline ingegneristiche, che consente a chi

compie il percorso per formarsi come medico di acquisire contemporaneamente anche la laurea in Ingegneria biomedica. Inoltre stiamo sperimentando moduli “minor” per far incontrare saperi diversi, competenze scientifiche e umanistiche: tra gli altri un corso di intelligenza artificiale e filosofia, che sta andando benissimo, e uno di Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione».

L’ultimo rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati segnala un forte divario di genere. Donne più motivate e intraprendenti, uomini più occupati e pagati. L’ateneo da lei governato conferma questa tendenza?

«Sì. Alla Sapienza abbiamo un gran numero di laureate con performance accademiche brillanti in tutte le aree. Nelle Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria, matematica, ndr) le donne restano una minoranza, anche se nell’ultimo anno accademico registriamo un incremento di poco più dell’11 per cento del numero di iscritte, grazie alle atti-

FORMAZIONE

Un’aula dell’ateneo La Sapienza, a Roma, il più grande d’Europa con 120mila studenti complessivi

Foto: A. Panegrossi –LaPresse
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vità di mentorship e alle borse di studio come #100ragazzeSTEM, rivolte a ragazze residenti fuori dal Lazio, diplomate con 100/100 e immatricolate a un corso di laurea in discipline scientifiche. Il gap di genere in quell’area è ancora molto forte». Nelle università italiane sono diminuite le immatricolazioni, anche per effetto della pandemia. E alla Sapienza?

«Noi registriamo un dato positivo, in controtendenza, una crescita di oltre il 2 per cento delle immatricolazioni ai corsi di laurea e laurea magistrale. Ma il vero grande problema del nostro Paese è l’inverno demografico. Se la natalità non riprenderà, la platea delle persone da formare si ridurrà ulteriormente. È una tendenza che mi preoccupa molto, soprattutto per gli atenei del sud, che già soffrono molto sotto questo aspetto».

L’offerta formativa della Sapienza prevede 300 corsi di laurea e laurea magistrale e quasi 200 master.

«I master rientrano nel grande capitolo dell’aggiornamento continuo, necessario per tutte le professioni, obbligatorio per quelle collegate all’iscrizione a un ordine professionale. La Sapienza, che ha relazioni fisiologiche con la pubblica amministrazione, si mette a disposizione di continuo, con master in collaborazione con enti pubblici e imprese private. Il master serve a dare ai discenti strumenti per risolvere problemi sul campo, in questa logica rientrano i Career days».

Di cosa si tratta?

«Due giornate per ogni area disciplinare,

RETTRICE

Antonella Polimeni è la prima donna alla guida della Sapienza. Il suo mandato scadrà nel 2026

per potenziare il proprio servizio di “placement” mettendo in connessione diretta studenti e realtà produttive: istituzioni e aziende. Abbiamo iniziato con l’area umanistica, il prossimo sarà in area giuridica. Abbiamo finora stipulato circa 1.100 convenzioni». Quali sono le professioni del futuro?

«Tutta l’area professionale che riguarda il mondo digitale, così come tutte quelle lauree, opportunamente contaminate, che vanno nella direzione della sostenibilità. Un tema multidisciplinare, o meglio transdisciplinare, perché combina saperi giuridici, ingegneristici e delle scienze di base. Vedo in buona posizione anche la tecnologia legata alla conservazione dei beni culturali, in cui La Sapienza è particolarmente forte e strutturata. E ancora, le professioni di cura: la nostra università forma il dieci per cento dei professionisti della salute del Paese».

La Sapienza vanta il primato mondiale per gli studi classici, nella classifica QS World University Ranking.

«È una tradizione che ha radici profonde, soprattutto per l’area archeologica. Attualmente La Sapienza sta restaurando il pavimento del Santo Sepolcro, una missione coordinata da una nostra brillantissima docente, la professoressa Francesca Romana Stasolla. Stanno lavorando a Gerusalemme, dove spero di andare a maggio, per vedere lo scavo e soprattutto ringraziare tutti i nostri giovani ricercatori. È un primato mondiale che auspichiamo di mantenere».

E poi c’è l’eccellenza degli studi di Fisica. «È stata certificata con il Nobel a Giorgio Parisi, ma il nostro primato viene da lontano. Abbiamo docenti eccellenti in tutte le discipline, ma queste due aree meritano una menzione speciale».

Foto: A. Serranò –Agf CULTURA UNIVERSITÀ
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“Oggi nel nostro ateneo la percentuale di professoresse ordinarie si attesta tra il 28 e il 29 per cento del totale, superiore alla media nazionale, ferma al 26. Il divario maggiore è nell’area umanistica”

CULTURA DIPENDENZE

Gioco maledetto

Secondo l’Agenzia delle Accise, Dogane e dei Monopoli (Adm) nel 2022 gli italiani hanno speso fino 140 miliardi di euro nel gioco d’azzardo. La ludopatia, riconosciuta come malattia dall’Oms, è entrata anche nei Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza del Servizio sanitario nazionale. Secondo l’Istituto superiore di Sanità in Italia ci sono 1,5 milioni di giocatori “problematici”, 1,4 milioni “a rischio moderato” e 2 milioni “a basso rischio”. Chi sono? L’ Osservatorio di Nomisma ha individuato due categorie: giovani fra i 14 e i 19 anni e over 65. La media nazionale di spesa pro capite è di oltre 1.400 euro.

CATERINA BONVICINI

Questi però sono solo numeri. Dati inquietanti? Niente in confronto al racconto in prima persona di una malattia. Basta leggere “Azzardo” (Einaudi), il magnifico libro di Alessandra Mureddu, che è molto più di una testimonianza: è letteratura, quindi fa più male.

Mureddu è una scrittrice vera, ha il dono e lo usa per parlare della sua maledizione. «Da nove anni non scopo, non ballo, non vado al mare. Il gioco s’è portato via tutto, nella primavera del 2015 mi sveglio e peso settantadue chili, ho i capelli bianchi e le unghie spezzate». Un giocatore compulsivo non si sente né femmina né maschio, ma «un soggetto neutro il cui sesso è del tutto irrilevante». Si veste con una tunica nera, non va più dal parrucchiere, i capelli sempre raccolti in un elastico. Porta un tutore perché il movimento compulsivo le ha provocato un’infiammazione al tunnel carpale, ma operarsi significherebbe smettere di giocare per qualche settimana e lei non può. Passa le vacanze in montagna a giocare al casinò. Non ha più amici, li ha allontanati tutti. È una «macchinettara». Nient’altro, perché a un certo punto nella sua vita esistono solo le slot.

Anche ai soldi non dà più valore, al vero giocatore non interessa vincere. «Nell’ultima fase della progressione della malattia, prevale la spinta autolesionistica e ti ritrovi a giocare per perdere. Di

vincere non t’importa più: sei un errore e vuoi dimostrartelo». Vende i gioielli dei genitori, l’argenteria. Non c’è strazio, semmai l’ambiguo piacere dell’umiliazione nel negozio squallido di un Compro Oro.

Rinuncia al sole, alle stagioni, all’aria: l’ambiente in cui è imprigionata è buio, la moquette a disegni stilizzati ha un buon odore, riconoscibile, «a ogni sala giochi viene abbinata una profumazione in modo che il giocatore riconosca l’odore e si senta a casa: la stessa profumazione viene diffusa anche all’esterno per invogliarlo a entrare». Dei piccoli altoparlanti nascosti «riproducono il suono dei bonus, così il giocatore immagina che altre macchine stiano pagando e si sente spronato a continuare»: «Saperlo non mi serve a niente, continuo a giocare perché non posso fare diversamente, non posso scegliere». Anche il piacere di mangiare scompare: «Il mio corpo non mi

Giovanissimi e anziani. La ludopatia in Italia ha numeri sempre più allarmanti. Un potente romanzo-testimonianza getta uno sguardo nell’azzardo.
Che non dà scampo
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appartiene, lo riempio di cibo così come in sala riempio la macchinetta di banconote». Fuori dalla sala giochi, a ricordarle che ha ancora un’anima, restano solo gli attacchi di panico e un cane.

La dipendenza comincia quando scopre che il padre è un giocatore. Lo segue per salvarlo ma succede il contrario, precipita lei: «I gesti di mio padre diventano i miei». La chiave di tutte le compulsioni è lì, nel suo essere figlia. Perché non si tratta solo del gioco. Malato è il rapporto con l’amore: «Io non conosco un sesso dolce, né le strade della gentilezza e del rispetto che lì conducono». Sceglie sempre relazioni sbagliate, maledette. Frequenta i Giocatori anonimi, esce dalla dipendenza dal gioco e subito cade in un’altra, da un uomo. «L’astinenza morde, sono una lumaca senza casa. Ho raffreddori nuovi e insolite allergie, gli occhi secchi e affaticati, dicono

che succeda, dicono che la nostra droga è l’adrenalina, che giocando ne produciamo in quantità considerevole e che quando cala si abbassano le nostre difese». Ma «l’astinenza da Bruno è peggiore di quella dal gioco».

Del resto, è compulsiva in tutto. Anche nel comprare e accumulare. «Io ho sempre molte cose, mi si moltiplicano intorno, riempiono tutti gli spazi di cui dispongo». E il malessere ha tante forme, ben oltre la ludopatia: crisi psicotiche e paranoiche, ricoveri psichiatrici. Davanti alle stelle cadenti, Alessandra Mureddu esprime un desiderio: «Che l’angoscia che mi apre il petto in due come una lama mi abbandoni». Non so se si sia avverato. Ma sicuramente con la letteratura quella lama l’ha usata e non l’ha subita. La sua è una storia di dolore infinita, complessa fino alla vertigine. Eppure una luce c’è: abita nella sua scrittura, potente e lucida, e l’inferno si trasforma in bellezza.

In un altro potente romanzo si parla di gioco d’azzardo. È uno dei migliori di Marco Missiroli, “Avere tutto” (Einaudi), meritatissimo Premio Bagutta 2023. Il tema principale in realtà è il rapporto con il padre e con la malattia, ma quei tavoli da poker che tornano nel racconto, come un refrain, sono indimenticabili. Certo, la scena è rubata da Nando Pagliarani, dalle sue briscole, dalla sua cucina, dalle sue balere e dai suoi racconti («perito elettronico e delle telecomunicazioni, bigliettaio nei bus turistici sulla riviera, operaio ferroviere, barista, programmatore informatico in ferrovia. Sul documento d’identità non ha mai voluto scrivere: ballerino»). Usato quasi come un contrasto al calore della personalità di Nando, il poker è più che altro un’atmosfera, una solitudine. Una sottovita segreta del protagonista, Sandro, un ambiente rarefatto. E così diventa altro: l’azzardo in Missiroli sembra una metafora della scrittura, viene spostato in una sfera universale che non c’entra più nulla con la malattia, diventa il racconto del rischio, quello che si corre o non si corre in ogni vita.

Foto: Pierpaolo Scavuzzo/AGF
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VIDEO POKER Giocatrice alle slot machine

CULTURA ARTE CONTEMPORANEA

A razzo versole stelle

Un razzo alto quindici metri dal colore metallico e una base blu domina il grande cortile di quella pietra del Rinascimento italiano che è Palazzo Strozzi. Le colonne, le due ariose logge del primo piano e il loggiato stanno a guardare rendendo quell’ambiente, un tempo persino luogo teatrale dell’Accademia della Crusca, ancora più scenografico e significativo. Restiamo a guardare anche noi, rapiti da tanta bellezza, espressa anche da quell’opera dal forte impatto visivo ed emozionale con cui l’artista polacca Goshka Macuga ci fa salire a bordo, regalandoci uno slancio verso l’alto, verso un futuro indefinito, desiderato o solo immaginato, capace comunque di incarnare i dilemmi che stiamo affrontando, l’aspirazione come il nostro fallimento. Si chiama “Gonogo” ed è il mezzo più veloce ed originale per “Reaching for the Stars”, volendo citare la nuova mostra che lo ospita fino al 18 giugno, per raggiungere e celebrare le stelle dell’arte contemporanea a Firenze, il modo migliore per celebrare i trent’anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo attraverso oltre 70 opere, da Maurizio Cattelan a Lynette Yiadom-Boakye. «Una collezione generazionale, mi piace definirla così perché ho conosciuto prima gli artisti e poi le loro opere d’arte», ribadisce durante la visita Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, anima e mente della fondazione: «Avevamo trent’anni, leggevamo gli stessi libri e vedevamo gli stessi film, avevamo tutto o quasi in comune e ci frequentavamo senza sapere che in quel momento stavamo crescendo insieme. Oggi continuo a seguirli, a guardarli, ad osservarli ed acquistarli, ma la nostra è anche una collezione che vuole restare giovane, che va avanti, ed è per questo che guardo anche gli altri, perché una collezione deve crescere e sapersi evolvere».

Aggiunge Arturo Galansino, direttore ge-

Il missile di Goshka Macuga. Le farfalle di Damien Hirst, il palloncino rosso di Anish Kapoor. A Firenze una mostra per i 30 anni della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

GIUSEPPE FANTASIA

nerale della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra: «Una grande collezione si forma grazie a una irrefrenabile passione, spinti da una curiosità continua, oltre che, ovviamente, dalla propria cultura e dal proprio gusto. Una collezione è fatta di scoperte e anticipazioni, ma è anche frutto di errori, occasioni mancate e può comprendere qualche assenza ingombrante, anche perché l’universo dell’arte è infinito».

Secondo Re Rebaudengo, l’arte ha la funzione di aiutarci a pensare. Ci apre la mente, sostiene, ci insegna a parlare di meno e ad ascoltare di più, ci fa trattare temi importanti molto prima che diventino attuali. Un esempio significativo in tal senso, è “Thaw (Disgelo)” dell’americano Doug Aitken, una video installazione nei sotterranei della Strozzina con fotografie e filmati legati a un’esperien-

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PALAZZO STROZZI

Sopra: la “Reaching for the stars” a Firenze.

A lato: Adrian Villar Rojas “Return the world (the fat lady)”. Sotto: Thomas Schutte “Nixe”

Schütte, dopo Firenze andranno lì. Quel palloncino rosso di Kapoor che assomiglia a un punto, ma anche al naso di un clown, contiene un nero potente e parla di vita, morte e rinascita, un po’ come il tavolo e la sedia da ufficio chiusi in una cella (“The Acquired Inability to Escape, Inverted and Divided”) di Damien Hirst e le sue farfalle (“Love is Great”), solo in apparenza libere. Splendida, quanto triste, la bambina a testa in giù (“Ariane 5”) del londinese Glenn Brown e le gambe aperte (“Love Me”) di Sarah Lucas, maestra nel rovesciare i luoghi comuni sul corpo femminile. Il nostro viaggio a bordo del razzo continua nell’universo disseminato di vere stelle luminose di Thomas Ruff, tra i campi magnetici di Albert Oehlen, le aurore spaziali di Wolfgang Tillmans, i replicanti ibridi di Avery Singer, le spazzole di Lara Favaretto, l’orso polare con piume di Paola Pivi e “Il lupo (ff#02)” di Giulia Cenci, l’artista più giovane (è nata nel 1988) tra i presenti.

za dell’artista su un ghiacciaio in Alaska, continuando un lavoro già iniziato venti anni fa, che riconduce lo spettatore a una pausa di riflessione nel mondo frenetico in cui viviamo per il bene dell’ambiente e non solo. «Se l’arte la vuoi ascoltare ti dà dei messaggi», precisa Re Rebaudengo. I suoi e quelli ricevuti dagli amici artisti dell’epoca, oggi superstar per restare in tema, sono stati tanti e continui in questi anni, a cominciare da Londra, punto d’inizio del viaggio della collezione nel 1992, con Anish Kapoor, che poco prima aveva vinto il Turner Prize con le sue sculture in pigmento. La scultura della serie 1000 Names, «è stata il mio inizio», tiene a precisare Re Rebaudengo, presidente dell’omonima Fondazione con sedi a Guarene, Torino, Madrid e dal 2024 anche a Venezia, sull’isola di San Giacomo. “Il razzo e la grande sirena (Nixe)” in mostra di Thomas

«Ogni uomo è un artista», scrisse Joseph Beuys, amato e citato da Maurizio Cattelan, che trasformò nel 2000 quella frase in «Io non sono davvero un artista» per “La rivoluzione siamo noi”, opera/immagine di questa mostra dove si ritrae appeso per il bavero a un appendino di Marcel Breuer. Troverete anche il suo scoiattolo di “Bidibidobidiboo”, tra le preferite della collezionista sabauda, “Lullaby e la stella Christmas 95”, ma anche uno degli elegantissimi “tableaux vivants” di Vanessa Beecroft, l’autoritratto in cera di Pawel Althamer, una foto di Shirin Neshat, le provocazioni di Josh Kline e “Fracture” del moscovita Sanya Kantarovsky che evoca un’antica pietà, tra le figure contorte di Schiele e le stilizzazioni di Picasso. Purtroppo, come nei migliori viaggi, siamo costretti a scendere, anche se poi arriva il gallese Cerith Wyn Evans a ricordarci con l’opera/palindromo “In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni” che, comunque vada, «giriamo in tondo nella notte e siamo consumati dal fuoco». Ognuno ha il suo ed è bellissimo.

Foto per gentile concessione di: ElaBialkowskaOKNOstudio (2), M. Elia
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CULTURA
LA SCIAMANA DEL TEATRO Un ritratto di Angélica Liddell 100 12 marzo 2023
RECITARE LA VITA

I miei rituali dilibertà

n po’ sacerdotessa, un po’ sciamana, Angélica Liddell - regista e drammaturga spagnolanon si può dire che passi inosservata con i suoi spettacoli carnali, anticonvenzionali, a volte perfino scioccanti (ricordate “Prima lettera di San Palo ai Corinzi” o “Liebestod”?). Ed ora eccola che ritorna, portandosi dietro il suo mondo fatto spesso di azioni estreme (dall’autolesionismo alla masturbazione), in cui la provocazione però non è mai fine a se stessa e il teatro diventa un rituale di libertà. Una poetica forte quella di Angélica Liddell - già Leone d’argento alla Biennale di Venezia nel 2013 -, che sarà all'Arena del Sole di Bologna con “Caridad. Un’approssimazione alla pena di morte in 9 capitoli” (15 e 16 aprile, produzione Ert, Luca Sossella Editore pubblica il testo).

Nel 1993 nasceva l’Atra Bilis Teatro e da allora ha creato più di 20 produzioni. Ogni volta i suoi lavori vengono definiti scandalosi o provocatori: cosa è il teatro per lei?

«Il teatro non significa niente. Non mi piace il teatro, inteso così, come teatro. Non ci vado nemmeno. Le arti viventi mi annoiano. Ciò che ha senso per me è la ricerca della bellezza e la liberazione dei demoni interni. Sono interessata al rituale. Non cerco scandalo o provocazione, come la stampa. Cerco, come Annie Ernaux, il rischio spirituale». Come nascono i suoi lavori? “Caridad”, per esempio, da quale intuizione nasce?

«Sto costruendo un unico grande spettacolo in tutta la mia vita, da quando ho iniziato. Ogni opera è un capitolo che ha a che fare con le mie ossessioni, i miei desideri, un bi-

sogno vitale di raccontare una storia per non morire, come in “Mille e una notte”. Ho bisogno di raccontare. Ho bisogno di trasferire la guerra interna in uno spazio estetico. “Caridad” nasce dall’esigenza di equiparare l’arte al crimine, per difenderla nella prospettiva filosofica di Bataille. Chiedo pietà per l’arte, in un mondo in cui la poesia non esiste, un mondo in cui abbiamo dimenticato cos'è l'arte, per questo utilizzo storie di criminali». Mostrare in scena il male, la violenza, è sempre necessario? E perché?

«Perdono il male. Lo rubo alla realtà per restituirlo al mito, che è il luogo del riconoscimento. Parlo sempre del male dal punto di vista estetico. La violenza estetica è sempre una lotta contro la violenza reale. Metto l’estetica al di sopra della moralità, per difenderla dal puritanesimo che la società impone in ogni epoca. La letteratura sadiana è nata a Charenton, mentre Sade era in

U Scandalosa, estrema, la regista e drammaturga spagnola Angélica Liddell mette in scena tabù e provocazioni.
“Chiedo pietà per l’arte. In un mondo in cui la poesia non esiste più”
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FRANCESCA DE SANCTIS

“CARIDAD”

Un momento dell’ultimo spettacolo di Liddell, “Caridad”, in arrivo anche in Italia

prigione, come protesta contro la rigidità della legge dello Stato. E come disse Sade, “Puoi sopportare la vita solo immaginando cosa intollerabile”. In ogni caso, il bisogno primario è la difesa dell’arte. Quando sacralizziamo il Male è per mostrare attraverso l’estetica e la bellezza il nostro disagio con il mondo reale. Per questo si parla di terrorismo della bellezza».

Ha sempre avuto interesse per tutto ciò che è borderline?

«Ho sempre avuto bisogno di raggiungere un certo limite, sì. Bisogna arrivare al limite per ottenere la conoscenza. Tanizaki scrive: “La gente vuole credere che siamo tutti buoni, non per compassione verso i deboli, ma per evitare la spiacevole sensazione di riconoscere il male dentro di noi”. Nell’arte solo l’immorale ci eleva intellettualmente, siamo uomini grazie alle ombre. Tuttavia, la morale, l'appropriato, il benintenzionato, il sociale, ci uniforma nella stoltezza».

L’empatia con il crimine come si concilia con la compassione?

«In “Caridad” la vittima è il criminale stesso. Voglio mettere il pubblico di fronte a conflitti estremi, alla loro capacità di misericordia e di perdono».

Il crimine e l'arte non sono così diversi...

«L'origine delle loro azioni ha a che fare con l’irrazionale, con una discrepanza con il mondo della ragione. Entrambi si manifestano con la stessa sensazione di libertà».

Che rapporto ha con il Cristianesimo?

«Mi considero cristiana per il tipo di educazione che ho avuto e l’influenza de “La Bibbia” è stata fondamentale nella mia vita, mi ha educato poeticamente. Il cristianesimo pone dilemmi importanti e rivoluzionari, ad esempio in termini di perdono. “Beati coloro che sono perseguitati in nome della giustizia”: totalmente radicale».

Ricordo che a Vicenza, nel 2015, ci furono delle proteste dopo “Prima lettera di San Paolo ai Corinzi”. Le sono capitate situazioni simili in altri Paesi?

«Mi sono dovuta incamminare con la protezione della polizia dal teatro all’hotel, a causa delle minacce di gruppi ultracattolici, fuori dal teatro, che non sapevano nemmeno di cosa parlasse il mio spettacolo. Il pubblico ha applaudito. Queste manifestazioni di fanatismo si sono verificate solo in Italia».

Cosa è più irrazionale, il perdono o la vendetta?

«Entrambi sono motoridella tragedia. Quando metto in scena il perdono o la vendetta lo faccio dalla prospettiva mitica, pre-razionale. “Caridad” si basa su tre pilastri: Bataille, il Cristianesimo e tragedia greca, perdono e vendetta sono la loro essenza».

Gesù ama ladri e prostitute...

«Il cristianesimo è sovversivo. L’influenza del cristianesimo non dipende dalla Chiesa ma dalla sua filosofia trasgressiva. La nostra fragilità è la nostra Chiesa. La nostra sofferenza è la nostra Chiesa».

In “Caridad” cita Beckett, Carroll, Godard, Sade. E Pasolini. Sovversivo anche lui?

«Pasolini è un riferimento fondamentale nel mio lavoro e nel mio vita. Un faro. Mi aiuta a ricordare cosa era l'arte e il Pensiero».

E le pecore in scena fanno riferimento alla simbologia cristiana?

«I primi test della ghigliottina francese furono fatti con agnelli vivi, poi su umani. L’immagine delle teste degli agnelli, caduti in nome della rivoluzione, dei diritti, dell'illuminismo, fondamenti della nostra società moderna, ho pensato che fosse un “agnus dei” magnifico».

Sta già lavorando ad un nuovo spettacolo?

«Sì. Sto scrivendo “Voodoo”. Voglio testare il capacità magica di un palcoscenico come luogo delle maledizioni. Ed è anche la messa in scena del mio funerale».

CULTURA RECITARE LA VITA
“Sto costruendo un unico grande spettacolo. Ogni opera è un capitolo che parla delle mie ossessioni, i miei desideri, il bisogno di raccontare per non morire”
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BOOKMARKS Sabina Minardi

Libertà da lettori

Che cos’è un lettore? Non chi è, che identikit ha colui che ama leggere. Ma che cosa rappresenta per la vita, e per la letteratura stessa, quell’umano estraniarsi dalla realtà, scindersi per un tempo preciso dalla vita, e immergersi nell’esistenza parallela dei libri. Se lo domanda in un colto saggio narrativo –singolare per chi conosce il grande argentino per i suoi polizieschi - lo scrittore Ricardo Piglia: in “L’ultimo lettore”, scritto nel 2005 e proposto ora dalla casa editrice Sur (nella traduzione di Alessandro Gianetti). Mai inutilmente meticoloso, Piglia parte dalla sua esperienza di lettore, per condurci dentro un paesaggio tappezzato di molteplici scene di lettura possibili: da memorie di libri famosi a visioni di lettori anonimi, avvolti dal piacere di leggere.

Tutto è stato scritto. Ma leggere cambia le cose: un saggio. Il punto su diritti e tecnologia. Le donne vive di Sarchi. Ernaux a voce alta

I rischi dell’intelligenza artificiale. Le regole necessarie per regolamentare questo universo nuovo. Da un giurista e saggista, docente alla Luiss di Roma, che da anni segue l’evoluzione della Rete e l’impatto del digitale e degli algoritmi sulla nostra vita, un’analisi delle sfide nuove alla democrazia e ai diritti lanciate dall’Ai. Tra difficoltà di regolazione, riflessioni sulla discrezionalità giuridica. E diritti fondamentali sui quali non retrocedere.

TECNOLOGIE INTELLIGENTI

Giuseppe Corasaniti

Mondadori, pp. 114, € 12

Madame Bovary, Didone, Ofelia, Francesca da Rimini...Donne diverse ma tutte accomunate dalla tragedia. E invece no, dice la scrittrice, che immagina per queste eroine, alla base della cultura occidentale, un destino diverso, e anzi opposto: non luttuoso, non da vittime. Ma da donne vincenti e libere. Messe al riparo, finalmente, da un’idea di femminile che trova la gloria nel sacrificio.

Vive!

Alessandra Sarchi

pp. 223, € 17,50

La lettura, diceva Ezra Pound, è un’arte della riproduzione perché i lettori vivono in un mondo parallelo e così intensamente da immaginare che quel mondo all’improvviso possa irrompere nella realtà. Non a caso il libro si apre con un fotografo pazzo, di nome Russell, che trascorre mesi senza mai uscire di casa, intento a ricostruire in un plastico l’amata Buenos Aires con i suoi quartieri, i suoi spazi vuoti, i luoghi, persino, che la piena del fiume sommerge e abbatte. L’atto di ricostruire la città in miniatura, sostiene lo scrittore, somiglia al gesto della lettura: perché in entrambi i casi si sintetizza il mondo. Da Kafka a Borges, da Don Chisciotte alle Mille e una notte, Piglia sorvola tra scene di strade colte dalla finestra di uomini e donne con un libro in mano, viaggia tra lettori in biblioteca, in treno, nel deserto, in mezzo a gente immersa in quello spazio fantastico che si crea “tra il libro e la lampada”. Una passione che anche quando è assecondata lascia inevitabile malinconia: “l’opprimente sensazione di tutto quello che resta da leggere”. E di quanto sia già stato scritto. La difesa da un mondo saturo di libri? Leggere quello che si vuole, quanto si vuole, leggere arbitrariamente, secondo il proprio gusto e la propria necessità. Non da lettori ubbidienti, ma liberi. Di trovare, per sé stessi, le connessioni tra la parola e il caso.

HarperCollins, pp. 160, € 17,50

Da uno dei libri più amati della scrittrice premio Nobel, dal quale Audrey Diwan ha tratto il film “La scelta di Anne”, vincitore del Leone d’oro 2021 a Venezia, in audiolibro il doloroso racconto di una interruzione clandestina di gravidanza, nella Francia del 1963. Con la voce di Sonia Bergamasco, che legge, interpreta. E restituisce alla storia la fatica e l’orgoglio di una donna ferita. Decisa a resistere, anche per tutte le altre.

L’evento

Annie Ernaux

L’orma editore – Emons

L’ULTIMO LETTORE Ricardo Piglia SUR
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COLPO DI SCENA Francesca De Sanctis

Gli amanti e la peste

Via il sipario e ciò che appare davanti agli occhi lascia senza fiato. Un albero frondoso che affonda le sue radici dietro le quinte occupa la scena di questo “Romeo e Giulietta” così fresco e contemporaneo. Mario Martone firma per la prima volta la regia di una produzione del Piccolo Teatro Strehler di Milano, che mai aveva avuto in cartellone il titolo dell’opera più famosa di Shakespeare. La scenografia creata da Margherita Palli è una foresta sospesa, che con i suoi rami intrecciati pronti a nascondere o a svelare diventa metafora della vita (morte o salvezza?). Nell’intreccio fitto dei rami si mimetizzano le passerelle e i “balconi” lungo i quali spuntano i personaggi e il mondo degli adolescenti inquieti si scontra con quello degli adulti infetti. Su quest’asse di conflittualità fra due generazioni che non riescono a dialogare si muove il “Romeo e Giulietta” di Martone, che spinge l’acceleratore della contemporaneità, trasformando una tragedia rinascimentale in un affresco tumultuoso dei nostri giorni (amori, incomunicabilità, pandemia...). A dare corpo e voce a questa storia universale c’è un cast straordinario di attori giovanissimi, una trentina di interpreti la cui età media è inferiore ai 30 anni, a partire da RomeoFrancesco Gheghi, 19 anni - e da Giulietta – Anita Serafini, 15 anni, la più giovane del gruppo – fino al resto della compagnia dove spicca un energico Alessandro Bay Rossi nel ruolo di Mercuzio. Ad affiancarli ci sono anche

Un momento dello spettacolo “Romeo e Giulietta” con il grande albero sul palcoscenico

Il regista Mario Martone firma adattamento e regia di “Romeo e Giulietta”. E trasforma la tragedia in scontro tra generazioni

attori consolidati, come Lucrezia Guidone e Michele Di Mauro (coniugi Capuleti) o Licia Lanera, perfetta nel ruolo della balia che Martone trasforma in zia Angelica, strampalata confidente di Giulietta. Ai piedi del grande albero si consuma lo scontro fra le famiglie Capuleti e Montecchi. E nella guerra tra le due giovani bande come non pensare a Willy Monteiro o a Thomas Bricca, vittime dei loro coetanei? La violenza verbale che agita la nostra società ci viene sbattuta in faccia dalla traduzione di Chiara Lagani, che usa linguaggi diversi per sottolineare ancor di più lo scollamento fra adulti scurrili e adolescenti ribelli. Come dice ai due giovani Frate Lorenzo (Gabriele Benedetti): «Ma voi come parlate?». Tuttavia Martone sceglie di restare fedele al testo, anche se abolisce la figura del Principe, come a sottolineare l’assenza della politica. Per fortuna ci sono i giovani, e Martone sembra tifare per loro, anche se qui non c’è un lieto fine. Eppure, per tre ore sospiriamo, temiamo, parteggiamo: non è questa una vittoria? Correte a vedere.

Romeo e Giulietta

adattamento e regia Mario Martone

Piccolo Teatro Strehler, Milano, fino al 6 aprile

APPLAUSI E FISCHI

Ecco una bella occasione per vedere la trilogia di Eschilo dedicata alla stirpe maledetta degli Atridi, in questo caso suddivise in due spettacoli: “Agamennone” e “Coefore / Eumenidi”. La regia dell'“Orestea” è di Davide Livermore. A Genova (14-25 marzo, Teatro Ivo Chiesa) e a Torino (28 marzo - 6 aprile, Carignano).

Roma meriterebbe un discorso lungo sugli spazi teatrali chiusi. L'ultimo campanello d’allarme arriva da oltre 600 artisti, che hanno chiesto chiarimenti al Comune di Roma sull’interruzione del progetto dedicato alle arti performative presso la Pelanda dell'ex Mattatoio di Testaccio. Che ne sarà di quel luogo così vivo?

104 12 marzo 2023
Foto: MasiarPasquali

L’arte della maleducazione

Nata Lenore, poi conosciuta come Lee, nome ridotto a una semplice

E. Infine la lapide della sua tomba completamente vuota, come se per tutta la vita avesse cercato di svuotarsi. La storia di Lee Lozano è complessa e ha il fascino della contraddizione, come la mostra che la Pinacoteca Agnelli le dedica (fino al 23 luglio) e che sembra una collettiva di cinque artisti diversi anziché una retrospettiva personale. Eppure le sue vocazioni che hanno a volte il sapore espressionista, altre minimalista, o tecnico o grafico, sono un unico racconto, perché vita e pratica artistica coincidono. Femminista che detestava i movimenti e che ha passato l’ultima parte della vita senza parlare con le donne (denunciando con quella scelta l’irrilevanza a cui la società le condannava) quel “Lee” che può essere un nome femminile e maschile lo usava proprio perché non voleva essere “quota rosa” e allo stesso tempo pretendeva che i collezionisti la trattassero al pari degli uomini, magari confondendo il suo genere. L’esposizione curata da Sarah Cosulich e Lucrezia Calabrò Visconti si chiama “Strike”, sciopero che può essere arte. Lozano ha prodotto (molto) per pochissimi anni, dal 1960 al 1972: da lì fino alla sua morte nel ’99 si è fermata per protesta contro quel sistema dell’arte che invece l’aveva accolta benissimo. Anche il sonno

LUCI E OMBRE

Due nuove opere del grande artista Jan Fabre sono state donate alla Real Cappella del Tesoro di San Gennaro e alla Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco di Napoli. Barocco antico e barocco contemporaneo, dunque, scelgono di sposarsi in chiesa. Ci sta.

Il Tennesee vara una legge per vietare le performance di drag queen negli spazi pubblici. Ecco un altro goffo tentativo di censurare un’arte che ha più di 150 anni da parte di chi (il repubblicanissimo governatore Bill Lee) rimpiange tempi ben più antichi e bui.

“Strike” è la retrospettiva dedicata al fascino e alle contraddizioni dell’artista americana Lee Lozano. Contro ogni sistema di potere

è vita e anche una sosta può essere creazione quando è parte del lessico di un’artista, importante quanto i disegni e i quadri che vediamo al Lingotto, che sembra proprio il posto giusto per accogliere opere dove gli attrezzi raffigurati sembrano quelli che usavano gli operai nel luogo simbolo della produzione industriale di Torino. E se da una parte ci sono chiavi inglesi, seghe o avvitatori, dall’altra vediamo quei falli che lei trattava in modo amaro e sarcastico. Nel segno della mascolinità tossica, dell’affermazione del potere, dell’autoritarismo, della violenza. E viene subito da pensare che i genitali nell’arte scandalizzano solo se sono quelli degli uomini, perché il punto di vista maschile ci ha abituati a quelli delle donne: l’inverso non può essere contemplato. Aveva un talento incredibile per il disegno, ma ha cercato di disimparare e muoversi verso l’astrazione geometrica, ultima fase della sua produzione che sembra il termine di un percorso di esplorazione del corpo. Diceva che è ingiusto che non abbiamo strumenti per vederci all’interno e quegli orifizi e quegli organi sembrano porte di accesso a un’altra dimensione, che raggiungeva anche grazie al consumo di droghe e una pittura così densa da sembrare fluido corporeo, quasi sgradevole. Ecco, Lee Lozano era un’artista maleducata, così insolente da rendersi irriconoscibile ogni volta, così scorretta da impartirci una lezione senza degnarci di uno sguardo.

12 marzo 2023 105
Lee Lozano No title, 1962
smART Nicolas Ballario

Lavoro per non stare con te

Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce, e Antonio Di Martino, in arte Dimartino, sono due adorabili canaglie, un duo di simpatici satanassi che hanno stregato la canzone italiana. Con un leggerissimo “Splash”!

Ma cominciamo dal principio. Da una parte c’era Colapesce, con le sue canzoni, dall’altra Di Martino, anzi i Dimartino, un gruppo, con altrettante canzoni, due carriere di alto profilo, Targhe Tenco, collaborazioni di rango, insomma due storie di quelle che senza fare troppo rumore nobilitano la musica italiana, piacciono, si lasciano amare dalla parte più sensibile del pubblico. Poi avviene l’impensabile, si mettono insieme, formano un duo, e decidono di proporre al Sanremo 2021 una canzone all’apparenza del tutto innocua, e così continua a sembrare per un po’ finché, quando è troppo tardi, ci si rende conto che abbiamo lasciato libero il più potente e invasivo tormentone degli ultimi anni.

Dura mesi e mesi, arriva all’estate, la supera, scolpisce inesorabile il nostro immaginario: «Metti un po’ di musica leggera, perché ho voglia di niente, anzi leggerissima, parole senza mistero, allegre, ma non troppo, metti un po’ di musica leggera, nel silenzio

UP & DOWN

Nel ricordare la sublime arte di Burt Bacharach, col quale ha lavorato a lungo dopo averlo incontrato nel 1998 (“Painted from Memory”), Elvis Costello lo ha definito un estremista dell’amore e dell’invenzione, sintesi geniale di un artista che l’eleganza in musica l’ha perseguita a ogni costo.

Non si è obbligati a fare, per forza. In attesa di un vero e proprio nuovo album, l’idea degli U2 di rifare 40 canzoni del repertorio storico alla luce di quello che loro sono oggi (“Songs of surrender”, in uscita) è sembrata scivolosa, un confronto col passato molto difficile da vincere.

Due adorabili canaglie, Colapesce e Dimartino. Guardano lontano, senza ansie generazionali. E cavalcano la nuova scena musicale

assordante, per non cadere dentro al buco nero che sta a un passo da noi», capito che roba, con quel titolo capace di imbrogliare anche il più navigato dei consumatori, altro che leggerissima, loro avevano trovato l’inno del Covid e del post-Covid, l’antidoto da cantare per farci passare il mal di solitudine, il male dell’isolamento.

Non paghi, tornano al Festival quest’anno, con un titolo che sembra ancora più disimpegnato, un secco “Splash” che nessuno potrebbe prendere sul serio, ma questa volta sono tutti più attenti, guardinghi, non si sa mai, e loro infatti si ripetono, battiateschi e leggeri, parlano di mare e vacanze, champagne e baccarat, anzi vogliono risultare perfino snob: «Ma che mare, ma che mare, meglio soli su una nave», sebbene la cantino in febbraio sono già estivi, guardano lontano, con perfida lungimiranza, ma la parte diabolica è un’altra, è quella che tradisce perché non la si nota subito.

In un periodo in cui le canzoni fanno davvero fatica a farsi notare, e soprattutto a parlare a tutti, loro che sono nuovi, ma anche un poco antichi, loro che cavalcano la nuova scena ma non hanno ansie generazionali, non hanno da rivendicare un lessico di appartenenza adolescenziale, buttano lì una frase destinata a perseguitarci a lungo: «Ma io lavoro, per non stare con te». Gettata lì come per caso, la più forte dichiarazione di non amore della storia.

Foto: M.L. Antonelli – Agf
12 marzo 2023 107 LE GAUDENTI NOTE Gino Castaldo
Il duo Colapesce e Dimartino

Cinque minuti? Facciamo tre

Contraddittorio ben poco, moderazione parecchia: forse la striscia informativa di Bruno Vespa è anche troppo lunga

parli della neosegretaria del Pd, ci parli dei migranti) con un montaggio che alternava gli occhi lucidi della premier in Ucraina e le foto della strage di Cutro, giusto per mettere a tacere le malelingue che l’avevano accusata di non essersi recata sulla spiaggia dello strazio. Ma la somiglianza smaccata dell’intervista a un comizio aveva lasciato la platea, in attesa ansiosa del binocolone, un po’ interdetta. Forse per questo Bruno Vespa ha cominciato ad aggiustare il tiro, alternando serio e faceto, passando dal ricordo di Alberto Sordi con Carlo Verdone (che sarebbero il serio) al ministro Piantedosi eterno incompreso («Quello che intendevo dire sul naufragio era “fermatevi, verremo noi a prendervi”»).

Cinque minuti. Dura ben cinque minuti la nuova striscia di Bruno Vespa che accompagna lo spettatore reduce dal Tg1 nelle braccia accoglienti dei “Soliti ignoti”. Ed è una sorta di ponte tibetano, quello in cui bisogna fare attenzione a ogni singolo passo, perché il precipizio è lì sotto che ti guarda. Da una parte infatti l’artista di “Porta a Porta” deve sottoporsi all’annoso confronto con la striscia di Enzo Biagi, mattone preserale ormai mitologico della storia del giornalismo ma da cui Vespa ha recuperato l’idea niente male di un tavolo in studio. Dall’altra c’è il tempo, che si sa, è tiranno. Per cui, nel faticoso tentativo di non ciondolare nel vuoto, per respingere al mittente le critiche sulla velocità inevitabile che gli sono state mosse da più parti, ha pensato bene di puntare sulla domanda vaga ma solo per non rischiare di sforare la scaletta. Così Bruno Vespa tira dritto, ospite inchiodato al tema di puntata e via al quasi monologo o al suo contrario, quattro giornalisti stretti stretti tra cui Alessandro (Sallusti) che lancia bombette sul pericolo delle piazze e poi basta, linea ad Amadeus. Una sorta di corsa di lotta e di governo anche se al momento la lotta appare alquanto flebile, mentre sul governo ci stiamo lavorando parecchio. La prima puntata di “Cinque minuti” aveva esordito con la presidente Meloni in collegamento su argomenti a piacere, tipo interrogazione programmata (ci parli della guerra, ci

“Cinque minuti” è un programma condotto da Bruno Vespa, in onda dal lunedì al venerdì su Rai 1 alle 20.30, subito dopo il Tg1

Alla fine, il risultato della camera in un angolo della cosiddetta terza camera (lo studio è lo stesso di “Porta a Porta”, la moderazione anche) è che 300 secondi sembrano decisamente troppi. E che cambiando titolo e relativa sigla, andrebbero assai bene tre minuti. «Tre minuti solo tre minuti per parlarti di me, forse basteranno a ricoprirti di bugie come se io dovessi mostrar di me quello che ancora no, non sono stato mai», cantava il buon Giuliano Sangiorgi. Che in fondo, è quasi un nome da ministro.

DA GUARDARE MA ANCHE NO

Consigli seriali/ Strettamente riservato a chi non ha considerato “Scene da un matrimonio” una verbosa perdita di tempo, arriva su Disney+ “Fleishman a pezzi”. Ritratto impietoso, ironico e a tratti struggente di un divorzio tra quarantenni, dai colori newyorkesi. E che lascia una sola certezza: comunque vada sarà un insuccesso.

Anno Domini 2023/ «Noi siamo contro gli stereotipi», dice Francesca Fialdini al suo ospite nel corso di “Da noi...a ruota libera”, la domenica su Rai Uno. Per cui si gioca a micio macho. Così parte l’intervista da cui si evince che la pasta al pesto è micio, il padel è macho. E via dicendo, con un radioso futuro dietro le spalle.

108 12 marzo 2023
HO VISTO COSE Beatrice Dondi

Disco Boy col cuore in trance

Buone notizie. Ci sono ancora film fatti di immagini, immagini che non si limitano a servire un racconto ma resistono e ci interrogano. Ci sono corpi non conformi che imprimono in queste immagini il peso della loro singolarità. Soprattutto ci sono registi capaci di estrarre dal cilindro qualcosa che non avevamo ancora visto e li riguarda (ci riguarda) da vicino. Uno di questi registi è Giacomo Abbruzzese, nato a Taranto nel 1983, diversi docu fatti in Francia prima di questo esordio premiato a Berlino per la sontuosa fotografia di Hélène Louvart (poche volte foto e regia sono state più intimamente legate).

Corpo e volto non conformi appartengono invece a Franz Rogowski, il nazista esadattilo di “Freaks Out” che qualcuno ricorderà nei film di Christian Petzold. Un ex-ballerino, fisico snodato e sguardo laser (come il Denis Lavant dei film di Carax, evocati spesso da “Disco Boy”), che qui fa un migrante di nome Aleksei, partito dalla Bielorussia con un amico per approdare avventurosamente a Parigi solo e stremato.

Come il destino di Aleksei incrocerà in forme imprevedibili e poco razionalizza-

AZIONE! E STOP

Torna in sala restaurato “La maman et la putain”, il classico di Jean Eustache con Jean-Pierre Léaud diviso tra Bernadette Lafont e Françoise Lebrun nei ruoli del titolo (beffardo riferimento all’immaginario maschile che anche nel post-68 stentava a cambiare). Bianco e nero, 209 minuti, un film di 50 anni fa che non ha preso una ruga. Anzi.

Tu quoque Bob. Anche Robert De Niro, dopo troppi ruoli un po’ opachi, passa alle serie tv con “Zero Day”. A detta dei capi di Netflix «un thriller sulle cospirazioni astuto e adrenalinico che terrà gli spettatori incollati alle sedie» (sottinteso: di casa loro). Sarà. Noi però per De Niro preferivamo attraversare anche tutta la città.

Un film di guerra coreografato come un musical. Di Giacomo Abbruzzese, premiato a Berlino. Protagonista Franz Rogowski

Italia-Francia, 91’

bili quello di Jomo e di sua sorella Udoka, abitanti del delta del Niger, converrà scoprirlo al cinema. Basti sapere che in questo film di guerra coreografato come un musical - un musical a mano armatacompaiono la sempiterna Legione Straniera, un ufficiale addestratore che evoca per un attimo “Full Metal Jacket” (ma quelli erano americani in una guerra americana, questi sono apolidi gettati in guerre senza nome in cambio d’uno straccio di identità). E una memorabile scena madre girata con una telecamera termica che esalta ogni differenza e ogni affinità fra quei duellanti immersi nel Niger, coniugando suggestioni mitiche e lettura politica. Grazie a quella telecamera che non vede il colore ma la quantità di epidermide esposta, dunque vulnerabile, in quei contendenti così diversamente attrezzati. Il resto è questione di musica (firmata Vitalic, stella francese dell’elettropop). Anzi di ritmo e in definitiva di trance. Quel fenomeno noto agli antropologi come ai danzatori più estremi che congiunge «lo sciamanico allo psichedelico» per dirla col regista. I riferimenti a “Cuore di tenebra” e “Apocalypse Now” sono palesi, ma Abbruzzese non cita: rielabora. E se l’epilogo è meno risolto, si può sempre dar retta all’addestratore: «Chiudete gli occhi, guardate col cuore». Lo spettatore farà bene a spalancarli. Guarderà comunque col cuore.

DISCO BOY di Giacomo Abbruzzese
12 marzo 2023 109 BUIO IN SALA Fabio Ferzetti

a cura di BFC Media

RIDURRE L’IMPATTO AMBIENTALE

Oltre 40 milioni di cartucce rigenerate con il programma di riciclo di Brother, multinazionale giapponese leader nel mercato printing solution

BLUE ECONOMY

Picosats si prepara a testare in orbita il primo rice-trasmettitore satellitare miniaturizzato

SILVER ECONOMY

Uno sportello per chi aiuta: sostegno psicologico e consulenza per il caregiver

Nel percorso verso un mondo a emissioni ridotte anche le pmi assumono una posizione centrale. Le aziende si trovano infatti a fare i conti con la necessità di una sempre maggiore attenzione all’ambiente, al sociale e alle questioni di governance interna. Questi fattori, noti con l’acronimo ESG, sono sempre più integrati all’interno delle scelte aziendali. Alla base di un corretto percorso ambientale, però, si posiziona anche l’amministrazione interna delle società: dalla gestione degli spazi e del consumo energetico fino al riciclo. Anche qui la direzione è segnata da tempo con l’introduzione di nuove pratiche di economia circolare. Brother, multinazionale giapponese leader nel settore della stampa, ha messo a punto una serie di soluzioni che accompagnano le aziende nel percorso di transizione ambientale, partendo proprio dalla stampa.

Per inquadrare il modello circolare occorre fare un passo indietro di qualche anno. L’Europa ha adottato il piano d’azione sull’economia circolare alla fine del 2015. La strategia ha ridefinito una serie di misure volte a spingere la transizione verso un’economia che stimoli la competitività globale, promuova la crescita economica sostenibile e generi nuovi posti di lavoro. Nella circular economy il ciclo di vita di un prodotto va oltre il termine dell’utilizzo, attraverso il riciclo e riutilizzo del materiale. Gli obiettivi centrali del piano europeo sull’economia circolare impongono entro il 2030 un riciclo per i rifiuti urbani del 65% e del 75% per gli imballaggi. A questo si aggiungono altre norme riguardanti lo smaltimento in discarica e, soprattutto, misure per promuovere il riutilizzo e la simbiosi industriale.

Una volta chiarite le basi del nuovo modello economico, le imprese si trovano nella condi-

zione ideale per mettere in atto nuove iniziative legate alla sostenibilità e, in particolar modo, alla rigenerazione di rifiuti. Di recente si sono diffusi diversi termini, ormai di uso comune, che indicano l’impatto dell’operatività delle imprese sull’ambiente. Uno su tutti è quello dedicato alla Carbon Footprint, ossia la quantità di CO2 emessa nel corso del ciclo di vita di un prodotto, fino alla gestione e smaltimento dei rifiuti, ed è l’indicatore di riferimento per le valutazioni di impatto climatico dei prodotti a livello internazionale ed europeo (utilizzato anche per le linee guida della Commissione europea per la PEF –Product Environmental Footprint). Esiste poi un’altra “impronta”, la Material Footprint, che misura le risorse minerarie e fossili utilizzate per la creazione di un determinato bene o servizio. Da anni Brother è socio di Erion, il primo consorzio per la gestione eco-sostenibile di Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche (RAEE), pile e accumulatori (PA) a fine vita,

a cura di Carola Desimio

per contribuire ad un futuro ambientale migliore. E proprio grazie a questa partnership è in grado di misurare l’impronta rilasciata dai prodotti utilizzati negli uffici.

Toner riciclabili e gestione delle periferiche di stampa tra le principali soluzioni di Brother verso il nuovo paradigma sostenibile

La Politica Ambientale di Brother si pone come obiettivo quello di realizzare prodotti sempre più ecologici e in cui l’ambiente viene preso in considerazione durante tutto l’intero ciclo di vita dei prodotti: dalla progettazione alla realizzazione, dall’uso da parte del cliente allo smaltimento, dal riciclo al riutilizzo.

Toner riciclabili e gestione delle periferiche di stampa per ridurre il dispendio di energia sono infatti tra le principali soluzioni di Brother per accompagnare il mondo delle pmi nella transizione verso il nuovo paradigma sostenibile. Con il programma di riciclo dei toner di

Brother, gli utenti possono richiedere il ritiro gratuito dei toner originali non ricondizionati. Per usufruire del servizio, le aziende possono accedere alla piattaforma Brother e, dopo essersi registrati, ottenere un contenitore in cui inserire i toner esausti. Una volta riempito il contenitore sarà sufficiente cliccare su “Richiedi il ritiro” perché un corriere passi a prelevarlo gratuitamente.

Il cambiamento climatico impone nuove sfide alle aziende e si accompagna a una crescente sensibilità verso l’ambiente e la società. L’economia circolare è il concetto chiave non solo se parliamo di ambiente ma è centrale anche nel business. Le aziende sostenibili crescono più in fretta in termini di fatturato e hanno più possibilità di espandersi nel lungo periodo. Per le aziende è dunque ormai fondamentale – sia per preservare il pianeta sia per essere competitive – mettere al centro una strategia di sostenibilità efficace.

SOSTTEENNIIBBIILLIITTÀ À

SOSTENIBILITÀ VISTA DALLO SPAZIO

La società attiva nella new space economy Picosats guarda al futuro: entro il 2023 testerà in orbita il primo prototipo di rice-trasmettitore satellitare miniaturizzato

LaNewSpaceEconomystacambiandoivecchi paradigmidellospazio.Ricercaedesplorazione lascianoilloroprimatoaiserviziperlasocietà, finalizzati all’utilizzo dello spazio esterno per scopi pacifici, e benefici socio economici. La sostenibilità della Space Economy può quindi esserevistasottodueaspetti.Daunapartemolte di queste attività spaziali utilizzano le stesse regioni dell’orbita terrestre con conseguente affollamento e potenziali interferenze fisiche ed elettromagnetiche. Le azioni non sicure di un attore potrebbero avere conseguenze a lungoterminepertutti.Senonusiamolospazio in modo corretto, il costo potrebbe diventare insostenibile e compromettere la sicurezza nazionaleeinternazionale.

Dall’altra parte la sostenibilità può essere valutata in base ai benefici che le attività spaziali possono portare alla società civile. Basta menzionare pochi concetti quali l’Osservazione della Terra, la Navigazione Satellitare e le Telecomunicazioni per intuire l’importanza dell’argomento e gli effetti sullo sviluppo economico globale. In tempi brevissimicisiamoabituatiaosservarelaTerra dallo Spazio per valutare l’inquinamento, lo stato di salute delle nostre foreste o dei campi

agricoli, o ancora per analizzare gli effetti dei disastri naturali quali incendi o terremoti devastanticomequello recentissimo in Turchia e Siria. Ancora più palese è l’utilizzo della navigazione satellitare che ormai ciascuno di noi ha imparato a utilizzare sui nostri smartphone come se GoogleMapsoWazefosserosempliciApp. Sono circa quattro miliardi le persone che non hanno accesso alla banda larga. Un problema di accessibilità a internet che ogni giorno marginalizza una fetta importante della popolazione mondiale e che rischia di accentuarsi sempre più. Picosats, società spin-off dell’Università degli studi di Trieste fondata da Anna Gregorio, punta a costruire una costellazione di piccoli satelliti dedicati alle telecomunicazioni, struttura che avrebbe un costo minore rispetto alla costruzione di un’infrastruttura sulla terra. Per questo la società da anni lavora a un nuovo ricetrasmettitore satellitare miniaturizzato, il cui prototipo sarà testato in orbita entro il 2023. Ma questo sarà solo il primo passo verso uno spaziopiùaccessibileeinclusivo.

a cura di Carola Desimio Anna Gregorio, Ceo di Picosats. Foto di Fabio Rinaldi (www.fabiorinaldi.com)

UN AIUTO PER CHI AIUTA

L’iniziativa di Eudaimon: sostegno psicologico e consulenza per chi ricopre il ruolo del caregiver

Siamo un paese che invecchia. L’inverno demografico ridisegnerà il futuro della popolazione mondiale e i rapporti fra le generazioni. Aumentano gli anziani, diminuiscono i giovani e i caregiver. La spina dorsale del Paese è destinata ad essere sempre più fragile, in un sistema che – durante la pandemia – ha dimostrato tutte le sue lacune. Per chi si prende cura di una persona fragile, anziana o non autosufficiente, le insicurezze e i dubbi sono all’ordine del giorno. Si parla sempre di più di burden del caregiver, una forma di stress che può diventare cronica. Una patologia di cui si parla ancora troppo poco. Essere impegnati a tempo pieno nell’affrontare cure, consultare specialisti, gestire la burocrazia e dedicarsi anche al lavoro e alla vita privata può essere estremamente complicato e generare un fortissimo stress. Il ruolo delle imprese e delle loro politiche di welfare nei confronti dei dipendenti è fondamentale per sostenere le persone che si prendono cura di familiari fragili.

Eudaimon nasce a Vercelli nel 2002 e si occupa di individuare soluzioni di welfare aziendale: dall’analisi dei bisogni dei collaboratori alla consulenza fiscale, dalla progettazione di piani di welfare aziendale allo sviluppo di piatta-

forme e app. Sono diversi i progetti che l’azienda sta portando avanti nel campo del welfare tra cui c’è anche Euty, l’iniziativa di supporto ai caregiver. Euty interviene per organizzare programmi di caregiving permettendo di conoscere tutte le possibilità a disposizione ed entrare facilmente in contatto con gli esperti, non solo a lavoro ma anche fuori dall’azienda. Consente di ricevere servizi di orientamento e screening di bisogno e cura, fornisce informazioni, sostegno psicologico e servizi di consulenza per chi ricopre il ruolo di caregiver. Il programma – che si articola attraverso una app – prevede la consulenza di uno specialista Eudaimon che dopo aver esaminato la richiesta aiuta a valutare le possibili soluzioni in base alla necessità manifestata. La non autosufficienza in Italia è una questione che interessa moltissime famiglie e le aziende hanno un ruolo sempre più cruciale nel supportare dipendenti e collaboratori in una fase della vita estremamente delicata.

a cura di Carola Desimio Alberto Perfumo, Ceo di Eudaimon

Fiat blinda le consegne

Nel firmamento di Stellantis tutti i brand brillano: la multinazionale nata dalla fusione tra Fiat Chrysler e Psa vanta molteplici marchi tra i quali ricordiamo Alfa Romeo, Citroën, Jeep®, Lancia, Maserati, Opel e Peugeot. A L’Espresso Alessandro Grosso, Vice President Sales Mainstream and Car Flow Italia, anticipa una buona notizia, un piano di lavoro per stabilizzare le consegne e diminuire le attese da parte di chi acquista una vettura, con l’obiettivo di una «consegna per tempo entro il primo semestre». Tutto era nato dalla «crisi dei trasporti che ha provocato rallentamenti seri alla catena logistica dopo i noti problemi produttivi nel mondo industriale: le patenti del maggior numero dei conducenti di bisarche sono di persone dell’Est Europa». Tra i migliori successi, le vendite del suv Tonale dell’Alfa, con i clienti che hanno apprezzato in particolare la versione PlugIn Hybrid Q4, dotata di un motore turbo benzina e di un’unità elettrica per una potenza complessiva di 280 cv. Il manager Stellantis sottolinea che «i numeri nascono anche dalle vendite dei veicoli commerciali, e l’incremento del portafoglio è un segnale di una strategia vincente. La sostenibilità è un elemento fondamentale per costruire il futuro: e noi partiamo con il piede giusto, già abbiamo come elettrica più venduta in Italia la 500. Si va avanti nell’impegno per la transizione ecologica, seguendo alla perfezione il piano Dare Foward 2030, il-

La Jeep Avenger “car of the year 2023” grazie al modello 100% elettrico

Il gruppo Stellantis punta a diminuire le attese dei clienti del gruppo e assicura il ritiro del nuovo entro sei mesi dall’acquisto

lustrato dall’amministratore Carlos Tavares. Il portafoglio prodotti sarà completamente elettrificato, per arrivare a commercializzare 75 modelli nel 2030». Un anno centrale per Stellantis che in questi giorni sta collocando un green bond a sette anni, operazione effettuata da un consorzio di banche composto da Bnp Paribas, Bofa Securities, Bbva, Commerzbank, Deutsche Bank Europe, Mediobanca, Santander e UniCredit. Qualificanti saranno «le Gigafactory del gruppo», senza dimenticare ogni aspetto della catena logistica, oltre «all’economia circolare e le sue 4R», ovvero recuperare, riciclare, riparare e riutilizzare, «e la rete infrastrutturale, grazie ad Atlante», che ha registrato la nascita della rete di ricarica rapida, e poi il noleggio e il car sharing. Grosso è stato il protagonista della marcia trionfale di Jeep nel mercato italiano: in qualità di country manager aveva posto le basi di una crescita senza precedenti del suv, e Avenger è “car of the year 2023” grazie al modello 100% elettrico. Dopo Grosso è arrivata Novella Varzi, per attuare il percorso “libertà a zero emissioni” di Jeep. Ma a correre non c’è solo il “nuovo”: Spoticar, il brand dell’usato di Stellantis, ha chiuso il 2022 con il 28% di vendite in più rispetto all’anno precedente.

IN & OUT

La prossima Renault Espace avrà un grande tetto panoramico, vetrato, lungo 1,33 m e largo 84 cm: il più grande mai visto su un’automobile. Per chi ha una famiglia numerosa non mancherà la versione a 7 posti: così i più piccoli potranno guardare il cielo per sognare. Anteprima mondiale il 28 marzo.

Perché tanti politici durante la campagna elettorale promettono l’abolizione del bollo per auto, moto e ciclomotori e dopo aver votato dimenticano l’argomento? Primo a parlarne fu Silvio Berlusconi. Che poi, a detta dei concessionari, servirebbe invece diminuire il costo del passaggio di proprietà.

116 12 marzo 2023
MOTORI Gianfranco Ferroni

La triste sorte dei cani galgos

Magri e muscolosi, i figli del vento galoppano a perdifiato dietro alle lepri nelle immense pianure della Spagna da ottobre a marzo. Sono i galgos, i levrieri spagnoli, creature instancabili nel rincorrere la preda, che a fine stagione di caccia vengono riposti nei canili e molti di loro, si parla di 50 mila ogni anno, vengono abbattuti o abbandonati al loro destino. Una breve navigazione su un qualsiasi motore di ricerca, e vi farete l’idea di cosa sia la mattanza di questi levrieri che cacciano a vista piccole prede come lepri e conigli selvatici. I “galgueros”, i cacciatori che usano questi cani, li considerano strumenti di lavoro. Se non funzionano come dovrebbero, vengono scartati. Gettati come calzini vecchi. Siamo a marzo. Per noi il mese che prelude alla primavera, per loro l’avvicinarsi di una fine terribile. Decine le associazioni che da ogni Paese organizzano viaggi per il recupero di questi cani per poi darli in adozione. In Italia sono oltre venti i gruppi di volontari che si dedicano al salvataggio e al recupero del Galgo. A differenza dei segugi che hanno un olfatto strepitoso per seguire a terra la traccia della preda, i levrieri usano la vista. I loro occhi riescono a percepire i movimenti delle lepri da molto lontano e grazie alla velocità, riescono a raggiun-

CAREZZE E GRAFFI

Due cani galgos, i levrieri spagnoli

Muscolosi, instancabili. I levrieri spagnoli rincorrono la preda grazie a una vista formidabile. Ma ogni anno ne vengono abbattuti 50mila

Se adottate un galgo, sappiate che ha anche bisogno di correre. Cercate un posto sicuro dove possa esprimere la sua velocità. Lo vedrete ridere felice mentre galoppa a perdifiato. Sono figli del vento, non dimenticatelo mai.

Non lasciatelo solo troppo a lungo. Non pensate che possa perdere il suo istinto predatorio. Quindi difficilmente potrà convivere con i gatti o altri piccoli animali. Non ama le discipline cinofile che non siano la caccia.

gere e uccidere in pochi minuti e poi lasciare al cacciatore l’onore di raccogliere il trofeo. L’indole del galgo è buona. Sono abituati a vivere in promiscuità ammassati nei recinti e per questo, quando vengono adottati, difficilmente cercheranno la rissa o morderanno umani o altri cani. Spesso soffrono di ansia da abbandono. La vita di gruppo li rende socievoli e miti, ma una volta soli in un appartamento di città, perdono i punti di riferimento per questo bisogna sempre fare attenzione nei primi tempi. Non hanno competenze per quanto riguarda la vita di città: non conoscono i rumori, il traffico, la metropolitana e gli autobus. Di solito tendono a chiudersi ma, piano piano, riescono a imparare che la vita non è solo quella delle campagne spagnole. L’istinto di caccia, quello, non lo perderanno mai. Quindi attenzione, perché un gatto che corre accende l’istinto predatorio, e per il micio non ci sarà scampo. State tranquilli che il divano sarà la prima cosa che impareranno a usare. Non puzzano perché non hanno massa grassa, sono eleganti, belli, silenziosi, riservati e affettuosi. Se proprio non volete adottare un galgo perché non rientra nei vostri piani di vita, soffermatevi nelle bancarelle dello shopping solidale delle associazioni che si occupano di questi levrieri o cercate su Internet come fare una donazione. I figli del vento ringraziano.

12 marzo 2023 117 AMICI BESTIALI Viola Carignani
Foto: Alamy –IPA

GUIDE DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini

La cicoria sapore adulto

Povera ma apprezzata fin dall’antichità si presta a diverse varianti e anche la sua radice ha una nicchia di amatori

Un

L’amaro: uno dei cinque sapori, almeno stando al numero più canonico dello “spettro gustativo”. Un sapore per età adulta, quando si è metabolizzata la componente mentale del rischio di tossicità che induce proprio questo gusto, che si ama o si odia. Piace agli chef più coraggiosi ma piace anche nei contesti della cucina popolare. Lo dimostra un vegetale come la Cicoria comune (nome scientifico Cichorium Intybus) che appartiene alla famiglia delle Asteraceae: una pianta erbacea perenne dai fiori azzurri che cresce spontaneamente in tutte le aree erbose e da sempre, specialmente in primavera, è pronta alla raccolta. I Romani la conoscevano già prima della nascita di Roma non solo per il suo uso alimentare ma anche per le sue qualità terapeutiche. Il leggendario medico Galeno di Pergamo, la considerava amica del fegato. Mentre Marco Gavio Apicio la trattava dall’alto della sua competenza culinaria come ottimo ingrediente e suggeriva di cucinare la cicoria con il garum, l’olio e la cipolla affettata. La cicoria rappresenta il segno di riconoscimento delle verdure più povere ma anche più conosciute e utilizzate in cucina soprattutto nel Lazio con preparazioni semplici ma molto saporite come la tipica cicoria lessata e passata in padella con aglio, olio extravergine d’oliva e peperoncino. In Basilicata e Puglia la cicoria lessata diventa contrappunto di una passata di

fave secche prendendo il nome di ’ncapriata. Ma la cicoria non è solo gustosa nella parte verde ma anche la sua radice ha una nicchia di amatori, noi tra i quali. Già nel 1700 la radice della cicoria essiccata, tostata, macinata e preparata come infuso, era utilizzata come correttivo o surrogato del caffè, dal medico padovano Prospero Alpini che ne aveva scoperto le proprietà curative. Un uso che venne ripreso durante l’ultimo conflitto mondiale come succedaneo del caffè. Un epicentro della “resistenza” di queste radici è stato un piccolo comune padano: Soncino. Anche se in questi ultimi tempi la produzione più ingente si è trasferita nel Bresciano e la radice amara di Mairano è divenuta De.co. Il suo utilizzo ci venne raccontato da Gaudenzio a fine ’700: «Piglia la redice, raschiala e tagliala a fettoline: falla poi cuocere in acqua bollente per mezzo quarto d’ora: scolala da quell’acqua e tornale a cuocere in brodo grasso bollente e quando saranno cotte ci potrai mettere rossi d’ova, cascio dolce, spetiarle e un poco di colore». Ricetta che ancora oggi avrebbe sua ragion d’essere. Ma si possono anche semplicemente preparare in insalata: cotte lessate a rondelle e condite con olio, limone o aceto di vino e sale. Oppure condite con la bagna cauda, per dare un maggior vigore sapido-aromatico.

DOLCE E AMARO

IL MARITOZZO

Nel Medioevo, durante il periodo della Quaresima, serviva per addolcire i lunghi giorni di magro, poi stava finendo nel dimenticatoio. Anche grazie ai social è tornato prepotentemente a nuova vita. Pasta povera e cuore voluttuoso.

IL NO SHOW NEI RISTORANTI

Un atto di profonda maleducazione. Non presentarsi, non disdire, effettuare prenotazioni multiple per scegliere all’ultimo momento sta diventando un problema sempre più serio per i ristoranti già tartassati da spese e rincari.

Foto: Deyan Georgiev / 500px / Getty Images
campo coltivato a cicoria
118 12 marzo 2023

Sessantottini e solidi principi

Un progetto enoico importante, quello di Fattoria di Gratena, che nella sua veste moderna risale al 1968, tuttavia innestato sulle vestigia di un podere duecentesco. Siamo in zona Pratomagno, località Pieve a Maiano, due passi da Arezzo, 180 ettari, di cui 17, certificati bio dal 1994, a vigneto, e 10 ad olivo, ma soprattutto una ferrea volontà di preservare, e se necessario recuperare, tutto quello che in termini di risorse può fornire il territorio. Nasce così, da questa ostinazione, il rinvenimento, nel 1997, di qualche centinaio di piante di un vigneto storico, di una varietà ampelografica inedita, inizialmente scambiata per Sangiovese, ovverosia il Gratena Nero, identificato come varietà a sé stante ed omologato nel 2010, dopo un pluriennale lavoro svolto in collaborazione con l’Università di Milano, ma anche una linea di prodotti rilevanti, uniti dallo stesso fil rouge. Fabio de Ambrogi, insieme alla famiglia Sieni (con la consulenza enologica di Fabio Mecca) negli anni hanno allestito un panel di etichette caratterizzate da grande linearità e principi solidi: sostenibilità in campagna, protocolli essenziali in cantina, compresa l’assenza di filtrazione prima dell’imbottigliamento. Sangiovese e (appunto) Gratena Nero in letture mai ovvie, radicate a quello che di buono può fornire una collocazione d’eccezione ed una cura quotidiana, fatta di attenzione e vicinanza alle esigenze della vigna.

Si inizia con un Chianti DOCG bio da 100% Sangiovese, lavorato in acciaio e tonneau, dal naso di susina selvatica, con tocchi di sottobosco, eucalipto e rabarbaro. Molto succoso alla bocca, con tannini sapidi e ritorno fruttato-balsamico. Poi c’è il Toscana Rosso IGT Siro Fifty, blend paritario di Sangiovese e Gratena, una delle prime uscite ufficiali del nuovo vitigno. Naso di mirtillo, alloro e menta selvatica, con finale di noce moscata. Alla beva tannini iodato-salmastri, con ritorno mentolato-fruttato.

Sulla tradizione di un podere duecentesco, una linea di prodotti moderni e mai ovvii. Sangiovese e Gratena nero

GRATENA NERO 2016

PUNTEGGIO: 96+/100

Il vino-simbolo del lavoro di Fattoria di Gratena. Una chicca prodotta in poche migliaia di esemplari fatta di densità, compattezza e tannini magnetici. Naso di mora di rovo, con tocchi terrosi e di liquirizia, con finale di chiodi di garofano. Palato sapido, con ritorno fruttato-speziato e grande lunghezza. Perfetta con una sontuosa scottiglia casentinese o, se si è in vena di primi piatti, accompagnata ai maccheroni con l’ocio, grande classico aretino.

GRATENA SOCIETÀ AGRICOLA

Località Gratena

52100 - Arezzo (AR)

Tel. 0575 368664

info@gratena.bio

Fattoria di Gratena, vicino Arezzo. A destra: Lorenzo Prodezza TOSCANA ROSSO IGT
12 marzo 2023 119
GUIDE DE L'ESPRESSO IL VINO Luca Gardini

Schlein, diversità a doppio taglio stefania.rossini@lespresso.it

Cara Rossini, che la nuova segretaria del Pd abbia sessualmente il dono dell’ubiquità e sia in grado di provare attrazione per un uomo o per una donna e di innamorarsi (al momento di una donna per sua stessa ammissione) potrebbe costituire un ostacolo per la sua carriera politica, visto che ora l’ha intrapresa non come subalterna a qualcuno ma come protagonista. In altre nazioni europee ci sono stati casi di superamento di questi tabù, a differenza del nostro Paese che ogni giorno riceve la benedizione di un Papa. In verità papa Francesco cerca di aprire, anzi di non chiudere le porte a fenomeni di diversità sessuale che la società civile ha già legittimato e accettato. La presenza di una donna assurta al ruolo di capo di un grosso partito nonostante la sua dichiarata bisessualità dovrebbe accelerare la rottura di barriere sino a poco tempo fa insormontabili. A Elly Schlein il compito di fare da apripista su questo nel mondo della politica. Si sa che in politica vengono usate le armi più affilate per colpire un avversario, anche quelle che potrebbero riguardare la vita privata e la sfera intima. La bisessualità della segretaria del Pd sarà senz’altro un’arma a doppio taglio per ferirla a morte. Toccherà a lei sapersi difendere attraverso l’uso di armi più chirurgiche, per sanare le fe-

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rite aperte e sanguinanti dell’immigrazione, della disoccupazione e della povertà. Salvatore Monaco

Allo stato delle cose l’orientamento sessuale di Schlein non ha avuto alcun peso nella scelta degli elettori, mentre molto ha contato l’orientamento politico sui temi che lei elenca. Ma eleggere una donna che dice a gran voce «amo un’altra donna» è comunque il segno che anche questo Paese si sta finalmente liberando di pregiudizi ritenuti inamovibili. I tempi corrono e non sempre per portarci verso il peggio. Credo che nessuno, anche fra gli avversari più trucidi, si permetterà di fare allusioni in questo senso. Del resto anche nel passato i giornalisti sapevano molte cose sui comportamenti privati dei politici, ma hanno per lo più evitato di parlarne. Conosco un cronista che inseguiva in motorino gli spostamenti pomeridiani di una bella deputata di Forza Italia e cronometrava il tempo che passava con un esponente della destra regolarmente sposato, ma soltanto per spettegolarne con i colleghi. Oggi l’eventuale spazzatura è tutta nei social, ma c’è da augurarsi che chi li frequenta se ne renda conto. E gli dia il peso che si merita la

Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Viola Carignani, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Stefano Del Re, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Maurizio Di Fazio, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Luca Gardini, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Andrea Grignaffini, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Gaia Manzini, Piero Melati, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Massimiliano Panarari, Simone Pieranni, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valerio, Stefano Vastano

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120 12 marzo 2023

Iprimi due anni del liceo non brillavo: ero troppo impegnato a osservare la vita e sentirmici mezzo dentro e mezzo fuori, per poter studiare. Avevo un taglio di capelli improbabile, i piedi giganti e una camminata sghemba tipo Pippo della Disney. Unica abilità: nelle ore di italiano il tema mi usciva facile come l’acqua dalla cannella. Campavo di rendita, non cercavo di migliorare, con il minimo sforzo intortavo l’insegnante e facevo un figurone coi compagni tutti persi nel loro magma emotivo e incapaci di tramutarlo in parole. Mi sentivo un ladro. C’ho messo una vita per non sentirmi più così; anni di psicoterapia,

Preferisco scrivere della lezione imparata dal gatto

o semplicemente anni di crescita, prima di accettarmi per come ero.

«Ci vuole un fisico speciale/Per fare quello che ti pare/Perché di solito a nessuno/Vai bene così come sei». Suona familiare?

Ogni giorno celebrità e pubblicità ci dicono che siamo speciali, «unici», ma chi è davvero interessato alle nostre camminate goffe, alle nostre inadeguatezze? È per nasconderle che s’impara a scimmiottare gli altri, che pensiamo siano «giusti», adeguati, e perdiamo noi stessi. Suona familiare?

Quando arrivo a scrivere la rubrica per una delle testate più importanti d’Europa, una testata che ha fatto la storia del costume italiano, nella pagina che fino a prima di me ospitava un nome sacro, la paura di sputtanarmi è altissima. Devo parlare con la mia voce o fare come facevo al tema in classe: sfruttare temi per l’applauso facile?

Se mi dessi un tono, se blaterassi di grandi temi, barerei come facevo al tema in classe. Non sarei io

Dovrei parlare di cose serie. Ansia. Suona familiare?

Se mi mettessi qui a darmi un tono e a blaterare di tragedie, geopolitica o scandali, con la giacca e l’ultimo bottone della camicia slacciato a mo’ degli intellettuali in tv (rigorosamente senza cravatta perché la cravatta è solo per i politici o per gli intellettuali di destra e in questo Paese nessuno definisce «intellettuale» uno di destra), sarebbe peggio che barare al tema. Non sarei io. Suona familiare?

La mia vita è come quella di tutti voi. Esco di casa e m’incazzo al semaforo se quello davanti non parte, tengo il riscaldamento spento il più possibile per paura della bolletta, insomma…tiro avanti. Quando arrivo qui mi passa la voglia di parlare di politica, o persino di leggerne. Quando leggo, voglio vagare lontano almeno con la mente e, quando scrivo, voglio liberare la mia curiosità. Quando leggo, le poche volte che ci riesco visti i tempi di attenzione distrutti dallo smartphone e dai social (una vera emergenza di cui la politica non si cura; in Francia propongono di proibirli sotto i 15 anni di età e noi siamo lontani anni luce anche solo a pensarci), voglio godere. Non ne posso più di retorica, di ascoltare frasi come «dobbiamo adoperarci affinché un naufragio come quello di Cutro non avvenga mai più», sapendo che invece avverrà ancora e che tradurre le parole in atti concreti richiede decenni di lavoro. Mi pare offensivo per il buon senso. Quindi cerco lezioni altrove, soprattutto che non arrivino da maestri oratori di giornali o tv.

Oggi, per esempio, ho osservato un gatto che dopo la convalescenza da un intervento non si è fatto vedere per tre mesi. Poi è spuntato da un cespuglio e si è fatto accarezzare, quando finalmente si sentiva pronto per farlo. È stato così naturale, così vero. Ho imparato più dal gatto in un gesto che dall’ultima settimana di lettura dei quotidiani. Se vi capita, ascoltate i gatti.

BENGALA
122 12 marzo 2023

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