Ritocchi, cosmetici, tatuaggi. Ma non solo. Nella nuova estetica il corpo è linguaggio. Racconta chi siamo, abbatte steccati e fa a pezzi i cliché

Ritocchi, cosmetici, tatuaggi. Ma non solo. Nella nuova estetica il corpo è linguaggio. Racconta chi siamo, abbatte steccati e fa a pezzi i cliché
Metamorfosi o mutanti? Questo è il dilemma. Anzi, magari fosse solo questo. Però sono due parole-concetto che aiutano a capire in che mondo viviamo. Intanto le persone, soprattutto i giovani, non si piacciono più. Hanno problemi con se stessi che non nascono da loro ma dall’ambiente che li circonda. C’è un ambiente finto, fatato, dover vincono sempre e solo i ricchi e belli. Un altro duro, scuro, dove invece vincono la violenza e il buio. E allora o si sta da una parte o dall’altra. E quasi sempre si sbaglia. È vero che la normalità non è mai esistita, a meno di concetti astratti e
convenzioni sociali che mutano attraverso i secoli, però non si può vivere costantemente sopra le righe anche se un tocco di trasgressione dà sapore alla vita. Ma solo un tocco, mai un’esagerazione. E allora i ragazzi che non si piacciono si photoshoppano nelle immagini del telefonino, sui social. Chi invece non si sopporta (e magari non lo dice) o è in conflitto con la sua immagine e persino con se stesso, muta il proprio corpo. Compie una metamorfosi: si fa rifare labbra e naso, si riempie il corpo di tatuaggi, qualcuno è arrivato a farsi impiantare un orecchio su un braccio. Follia? Troppo semplice. Ritocchi, cosmetici, tatuaggi: nella nuova estetica il corpo diventa linguaggio, racconta chi siamo (o chi vorremmo essere), abbatte tabù e steccati e ne crea di nuovi. È la nuova tormentata grammatica umana, dove il soggetto del verbo essere diventa
La metamorfosi dei corpi. E quella delle idee. In politica è l’arte di cambiare a seconda del vento
un cantante, un attore o nessuno, un personaggio di fantasia che risiede dentro il nostro corpo.
L’inchiesta di questa settimana vuole spiegare proprio questi nuovi fenomeni che sono il passo successivo alla società della pubblicità, quella del modello Mulino Bianco, dove tutto andava bene. Ora si scopre che non proprio tutto va bene. Ma nella società dell’apparire il prezzo della rivincita presunta può essere anche quello da pagare con una libbra della propria carne o con una protesi di silicone. Poi ci sono i mutanti. Quelli sono facili da individuare. Nessuno rispetta più i patti, le regole, i doveri. Valgono per gli altri ma solo per loro, non per noi. Non bisogna essere sofisticati per capire che i primi a mentire sono i politici. Soprattutto quelli che, pro-tempore, stanno al governo, perché sono costretti a fare le cose e scoprono che fare promesse elettorali o stare all’opposizione a gridare è molto più facile. Il Superbonus è l’esempio di stagione. Il Centrodestra ha vinto le elezioni anche con lo slogan, uno dei tanti, «la casa non si tocca». E anche la Lega ha battuto forte su queste corde. Proprio il Superbonus è stato al centro del paradigma elettorale. Si vincono le elezioni politiche, si va al governo, si aspettano le elezioni regionali, e dopo, solo dopo, si annuncia che il Superbonus è una iattura per i conti del Paese. Il Superbonus è in vigore dal 2020, possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Dov’erano i tecnici del governo tecnico? Anzi dov’erano i migliori del governo dei migliori guidati da Mario Draghi? Il Centrodestra non ha dato l’allarme sul Superbonus perché si aveva paura di perdere le elezioni regionali? Draghi non ha dato l’allarme sul Superbonus perché doveva giocarsi la partita (poi persa) del Quirinale? Allora accettiamo la metamorfosi, segno dei tempi, ma Dio ci salvi dai mutanti.
Dopo dieci anni di silenzio, l’uomo che mandò in soffitta il Movimento Sociale Italiano, definì il fascismo «male assoluto» e aprì la destra al confronto sui diritti civili è tornato in campo in punta di piedi ma con parole nette. Ha bacchettato Donzelli
(«Non si confonde un’aula con una piazza») e ha garantito che Giorgia Meloni «non è fascista, è una donna di destra in gamba». Ha pagato caro l’errore della casa di Montecarlo ma a 71 anni è diventato il padre nobile della destra.
Era già nella storia della grande musica italiana ed è entrato nella storia della Scala con un trionfale concerto, il primo di uno chansonnier, tutti in piedi a cantare in coro «cips-cips/ci-boom-boom» emozionante come il coro del Nabucco. Paolo Conte ha sconfitto pure i soliti parrucconi, quelli che temevano la profanazione della lirica, l’assalto del jazz al melodramma, come ha scritto Francesco Merlo su Repubblica smontando una polemica antimodernista con le note dell’ironia.
Giorgia Meloni ha rivendicato il merito di aver tappato la falla che il superbonus aveva aperto nel bilancio dello Stato, ma è stato il ministro leghista dell’Economia a portare il decreto al tavolo del Consiglio dei ministri senza che gli alleati ne sapessero nulla, riuscendo poi a ottenere la sera stessa la firma di Mattarella affinché fosse pubblicato l’indomani sulla Gazzetta Ufficiale, evitando che i furbi avessero il tempo di aggirare lo stop. Un piccolo capolavoro tattico.
Capolavoro tattico del ministro dell’Economia. Il titolare degli Esteri soffre di personalità doppia
Come vicepresidente del Consiglio ha dovuto far finta di non capire le durissime parole di Berlusconi su Zelensky, ma come vicepresidente del Partito popolare europeo è stato sconfessato da Manfred Weber, che ha annullato il vertice del Ppe a Napoli. Poi, come capo delegazione di Forza Italia ha approvato a Palazzo Chigi il decreto che blocca il superbonus, ma come coordinatore del partito ha chiesto di cambiarlo. La duttilità è un pregio, lo sdoppiamento della personalità no.
È presidente della Regione da ottobre ma la Sicilia è finita sui giornali solo per l’aumento di 890 euro che i deputati regionali si sono autoconcessi e per l’innalzamento a 54 mila euro della «retribuzione di posizione» per i superburocrati di Palermo. Un doppio premio incomprensibile per la Regione che ha il tasso di occupazione più basso d'Europa (41,1%) e perde i fondi Ue senza riuscire a risolvere nessuno dei suoi problemi cronici: rifiuti, depuratori, siccità e strade.
Promosso ministro con il mandato di bloccare gli arrivi dei migranti, forse pensava che bastasse mettere la zavorra ai salvataggi delle navi delle Ong dirottandole verso “porti sicuri” lontani dalla Sicilia come Livorno, Ancona e Ravenna. E invece nei primi due mesi del 2023 una flotta disordinata di barchini ha triplicato le cifre degli sbarchi rispetto a due anni fa, quando Meloni e Salvini imputavano a Luciana Lamorgese l’incapacità di fermarli. Lui ha fatto peggio, finora.
Sul web da un po’ di tempo gira un meme che mi fa sempre molto ridere: inscena la conversazione tra una scimmia e un uomo in cui quest’ultimo deride la scimmia dicendole che è una creatura stupida. La scimmia, dal canto suo, risponde: «Sei l’unico essere vivente che paga per abitare sulla Terra», e così conclude. In realtà, tantissime creature pagano con la vita il prezzo di essere nate nel momento e nel posto sbagliato. La differenza è che gli esseri umani, di solito, pagano anche l’affitto. Sono varie, e spesso teologiche, le discussioni che cercano di giustificare perché esiste chi nasce sotto
una buona stella e chi invece in veri e propri inferni terreni. La democrazia, o comunque un sistema giusto, deve riuscire a spostare le stelle, a de-sistematizzare la nuvola di Fantozzi: non solo «il più forte» deve poter sopravvivere, ma tutti coloro che spuntano su questa Terra. De-sistematizzare significa dunque non rendere sistemiche le diseguaglianze e le ingiustizie che ci portiamo dietro da quando nasciamo; al contrario si richiede moralmente di creare una realtà che fornisca gli strumenti per emanciparsi, che garantisca una vita dignitosa, in ogni caso. Uno degli slogan, se non il principale, dei movimenti contro i confini mortiferi ed invalicabili della Fortezza Europa è: «Nessuno è illegale». Un’affermazione che esplicita che un essere umano può compiere azioni illegali, ma non può in nessun modo essere illegale nella sua essenza, perché l’intrin-
I Cpr sono delle galere. Si sconta una pena per il proprio status. Si paga senza aver commesso delitti
seca dignità del vivere abita un regno superiore a quello del diritto, nazionale o internazionale che sia. Per comprendere le recenti rivolte nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino, bisogna capire cosa rappresentano questi luoghi e come rinforzano delle diseguaglianze di un sistema globale di sfruttamento e marginalizzazione dei corpi non-bianchi. In Italia i Cpr esistono in maniera informale dal 1995, a seguito di un decreto che non è mai stato convertito in legge; la pratica è stata poi normalizzata nel corso degli anni successivi. La durata massima di detenzione era fissata inizialmente a 30 giorni, per poi aumentare progressivamente. Con l’entrata in vigore nel 2002 della legge Bossi-Fini, il periodo è stato esteso a 60 giorni. Con il decreto legge 89/2011 poi è arrivato fino a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013 bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Mentre il decreto 130/2020, voluto dalla ministra dell’interno Lamorgese, ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino ad un massimo di 120. I Cpr sono delle galere dove si sconta una pena amministrativa per il proprio status giuridico, si paga senza aver commesso un delitto; in questi luoghi non vige la legge ma solo una prassi arbitraria. Sono in realtà non-luoghi, buchi neri di tortura, violenza e abusi, veri e propri lager, per altro totalmente inefficienti e fraudolenti per natura. Questi centri di detenzione per l’espulsione di persone migranti, dieci in totale sul territorio italiano, sistematizzano e istituzionalizzano un razzismo di Stato perché non giudicano lo straniero nella sua individualità ma solo in una presunta colpa collettiva. Nei Cpr l’ingiustizia si fa sistema e, intorno a questa violenza di Stato, tutto tace.
uesta settimana metto insieme due fatti, ne traggo una possibile conclusione e propongo una soluzione.
Il primo fatto è il crollo dell’affluenza elettorale. I dati di Lombardia e Lazio, intorno al 40%, sono 30 punti percentuali sotto i livelli del 2018. È vero che nel 2018 si era votato insieme alle politiche, ma si tratta comunque di dati bassissimi. Se poi guardiamo alle politiche, la tendenza a un sempre più rapido allontanamento dalle urne è palese. Nel dopoguerra ci sono tre fasi. La prima dura quasi trent’anni dal 1948 al 1976, con percentuali di votanti stabili
intorno al 93%. La seconda dura vent’anni, dal 1976 al 2006: la percentuale scende gradualmente, in media di mezzo punto all’anno, passando dal 93% all’83%. La terza fase va dal 2006 al 2022: in 16 anni si perdono 20 punti scendendo al 63%. In media è una perdita di 1,25 punti all’anno, una chiara accelerazione nella fuga dalle urne. E dal 2018 al 2022 i il crollo è stato particolarmente forte: 9 punti in soli quattro anni e mezzo.
Il secondo fatto è la difficoltà che i partiti politici hanno nel rispettare le promesse elettorali. Il caso più recente è la decisione del governo Meloni, giustamente secondo me, di mettere un freno all’attrattività del superbonus edilizio, a fronte di uno slogan elettorale che vedeva Fratelli d’Italia «pronti a tutelare i diritti del superbonus e a migliorare le agevolazioni edilizie». Il
mancato rispetto delle promesse elettorali è una sindrome che colpisce tutti i partiti una volta arrivati al potere. Il motivo è semplice: le promesse elettorali sono palesemente irrealistiche. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica lo aveva chiaramente indicato nel 2018, quando ancora lo dirigevo. In quello stesso anno, il problema era stato sollevato anche da Roberto Perotti nel sul libro “Falso. Le promesse dei politici e i conti che non tornano”. L’Osservatorio ha raggiunto le stesse conclusioni nel 2022, dopo la mia partenza, per tutti i programmi elettorali.
Mettendo insieme i due fatti traggo la conclusione che all’allontanamento dal voto dei cittadini abbiano contribuito le continue e crescenti promesse da marinaio che vengono loro offerte. Ho impressione che nella prima repubblica, lo scontro fosse più ideologico (Don Camillo contro Peppone, Ovest contro Est) e ci fosse meno la necessità di promettere mari e monti. Le cose, mi sembra, sono andate sempre peggio.
Queste considerazioni mi spingono a una proposta che potrebbe aiutare a restituire credibilità alla politica e a convincere i cittadini ad andare a votare: rendere i programmi elettorali più credibili obbligando i partiti a indicare in modo trasparente e per ogni principale misura proposta il relativo costo, le misure di copertura e gli eventuali effetti sul deficit pubblico. I conti devono tornare. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio, un organo apartitico del Parlamento, valuterebbe poi il realismo delle stime presentate in ogni programma. Nei prossimi giorni depositerò formalmente un disegno di legge in tal senso, sperando che possa avere il sostegno di tutti i gruppi parlamentari. Chi potrebbe essere contro a una maggiore trasparenza? Chi potrebbe voler continuare la malsana pratica delle promesse da marinaio?
Una proposta perché i programmi elettorali dei partiti siano più credibili e non solo demagogia
Ti senti maschio o femmina?».
«Io mi sento io».
Federico è assegnato maschio alla nascita, ma subito, fin da quando aveva un anno e mezzo, trasferisce al mondo esterno la sua percezione di sentirsi invece una bambina. Non solo per gli abiti che vuole indossare, non solo per i giochi che predilige. C’è altro, ma i bambini non sanno come mostrarlo se non, almeno inizialmente, attraverso una serie di accessori che meglio possono far identificare come sentono davvero il loro corpo.
Sua mamma è Camilla Vivian e ha altri due figli. Cerca il modo per aiutarlo e per prima
cosa gli concede la libertà di esprimere ciò che sente. Tuttavia sa che, per quanto amore si possa trasferire a un figlio quando è dentro casa, quella porta si aprirà e potrà entrare di tutto, colpire quella delicatezza, quel percorso fragile e intimo. «Tutti mi dicevano: “Vedrai che adesso passa”. Ma anche: “Forse è colpa tua. È solo un bambino anticonformista”». C’è sempre qualcosa che fai o non fai, perché non si riesce a credere che non sia indotto, temporaneo. Le persone adulte vengono associate a creature viziose e il discorso è sempre associato al sesso, alla perversione, alla prostituzione e questo perché manca la formazione sull’argomento. Nel frattempo Camilla consulta qualsiasi fonte, cerca il modo per proteggere quella felicità non ordinaria. Scopre un mondo che è ancora vittima di tanti tabù, a causa dei quali molte famiglie si muovono a tentoni, sopraffatte dal dolore della solitudine.
Lori si sentiva bambina da sempre. Camilla, mamma coraggiosa, l’ha aiutata ad affermare la sua identità
Ignorando come superare i propri limiti, le proprie aspettative, le paure di non essere adeguatamente seguite o informate sulle terapie, per esempio.
Per anni tante persone hanno continuato a vivere in modo infelice soffocandosi, mentendo, ferendosi come per punirsi ingiustificatamente, perfino togliendosi la vita. O sono state uccise, perché la società è incapace di accogliere ciò che non vuole conoscere. Perseguitate perché etichettate come mostri, contro natura.
Ma l’identità non può essere trattata come una colpa e non è una scelta.
Camilla ha creato un blog e scritto due libri, ci mette la faccia, diventa un’attivista. Come può farcela da solo un genitore mentre ridà alla luce suo figlio? Lei l’ha fatto scegliendo di lasciare l’Italia e di trasferirsi in Spagna, dove abita dal 2017, dove per la sua esperienza non c’è discriminazione e le istituzioni sono pronte ad accoglierti.
«Mia figlia ha potuto scegliere il suo nome. Lori è una studentessa iscritta a scuola con il suo genere. È riuscita a vivere la vita che merita qualsiasi altra bambina».
Elsa Ramos quando aveva otto anni si rivolse all’Asamblea de Extremadura in Spagna e il video diventò virale creando reazioni anche molto dure: «Ho il diritto di essere chiamata nel modo in cui mi sento. Sono una bambina transessuale e qui mi sento amata e rispettata. Continuate a fare leggi che ci tutelano. Abbiamo il diritto di essere ciò che siamo, non toglieteci la felicità».
Tutte le persone adulte a cui comprimiamo un diritto arrivano da questo percorso, sono state bambini e bambine come Lori, ma non tutte hanno la fortuna di avere una mamma come Camilla. «Misurate la correttezza del vostro agire dal sorriso di vostra figlia o vostro figlio: se sorride state facendo bene». E questo non vuol dire che sarà facile o senza problemi, ma un ottimo punto di partenza per aiutare i nostri figli e le nostre figlie.
Quei figli
in un mondo senza più tabù
Nell’ultimo anno la spesa energetica delle imprese è aumentata del 140% *.
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Al mito dell’eterna giovinezza si contrappone la cronaca di questi ultimi giorni che ci dimostra quanto, invece, sia bello invecchiare: sia chiaro, in salute.
Ho provato a immaginarmi le espressioni dei volti di quegli scienziati che, da tempo e con l’impiego di mezzi notevoli, vanno alla ricerca dell’elisir di lunga vita: sarebbe bastato andare in Spagna e chiedere di persona alla supercentenaria, Maria Branyas Morera, che all’età di 115 anni, avrebbe potuto metterli sulla retta via. Maria, infatti, attualmente gode del primato di donna più anziana del mondo,
dopo che una sua quasi coetanea, Lucile Randon, è scomparsa poco più di un mese fa, dopo aver raggiunto l’età di 118 anni e 340 giorni.
La Randon (ma probabilmente la stessa sorte toccherà anche alla Morera) è morta di vecchiaia. Entrambe, oltre ad aver superato guerre mondiali e chissà cos’altro, si sono fatte beffa anche del Covid, guarendo, dopo averlo contratto rispettivamente all’età di 113 e 117 anni.
Curiosa la risposta della Morera alla domanda di cosa l’avesse condotta a sopravvivere così a lungo: «Assenza di preoccupazioni», pare abbia detto. Non so, può darsi, ma non riesco a immaginare una vita, anche la più felice, priva di qualche apprensione; piuttosto voglio pensare che l’anziana signora abbia scoperto il modo in cui affrontarle, che non è poco. A questo proposito mi viene in mente
Branyas Morera è la donna più anziana al mondo. Il suo segreto? Niente ansia. I giovani imparino
una bellissima frase di un film dal titolo “Oltre il giardino”: il protagonista interpretato dal grande Peter Sellers recitava che «la vita è uno stato mentale».
Sì, è proprio vero, a far la differenza è il punto di vista con cui si osservano le cose che ci accadono.
Se solo fosse possibile, mi piacerebbe organizzare un incontro tra queste superbisnonne e alcuni giovani che, da quel che leggo, hanno, e forse giustamente, ancora molto da imparare.
Leggo, infatti, che le nuove generazioni con troppa faciloneria si aggrappano a svariati generi di ansiolitici per superare ansie e frustrazioni: un compito in classe, una interrogazione andata male, un amore non corrisposto basterebbero a minare la loro serenità e a togliere il sonno.
C’è da dire che siamo da poco usciti da una pandemia e che i periodi di lockdown certamente non hanno aiutato i ragazzi a gestire le proprie emozioni, essendo costretti all’isolamento. Tuttavia, l’adolescenza è l’età giusta per affrontare la vita con grinta e piglio. E l’unica dipendenza dovrebbe essere quella verso l’entusiasmo di vivere il quotidiano e di imparare a farcela da soli, iniziando proprio dai piccoli inconvenienti.
È un consiglio per i giovani, ma, quando mi imbatto in certe notizie, non posso non pensare che ancora sono troppi pure gli adulti che devono essere “educati” alla vita.
Leggo di un ragazzo tredicenne che subiva pressioni da parte del padre affinché assumesse atteggiamenti maschili che non portassero a fraintendimenti sul suo orientamento sessuale.
Cari genitori, rassegnativi. È una legge naturale a cui fortunatamente non ci si può sottrarre: i figli vanno amati e accettati per quello che sono e soprattutto per quello che, in piena libertà, decidono di essere.
Mi maschero con gli andrà tutto bene, con i ti amo ancora, con i guarirai, con i telogiuro, con la faccia da bravo ragazzo, con l’auto da ricco in leasing, con la giacca lisa da povero, con i piercing, con le camicie ben stirate, con le cravatte da professionista, con le tante divise dei piccoli poteri, con i mi piacciono le donne, con i tatuaggi, con i celafaròcomunque, con i trucchi di marca, con i trucchi rubati alla mamma, con i filtri di Instagram, con le tinte per i capelli, con i
non l’ho fatto apposta, con la barba che mi copre un brutto mento, con i baffetti sexy, con il pianto forzato, con una risata per compiacerti, con i non ho niente controdiloro, con i cisaròpersempre, con i mipiacciono gliuomini, con le citazioni da Wikipedia, con i vestiti alla
moda, con i vestiti contro la moda, con le parole degli altri, con il botulino, con il filler, con l’acido ialuronico, con il silicone, con le placche sottocutanee, con io sìche sono un duro, con i titrovodimagrito, con gli occhiali da vista finti, con le lenti a contatto che non si vedono, con le parrucche, con lo sguardo basso, con lo sguardo che scappa altrove, con lo sguardo incollato al cellulare, con quello che penso gli altri si aspettino da me, con le mie scuse, con le mie promesse, con le lauree inutili, con dottor, ingegner, signor, avvocato, con amore mio,amicomio,vecchiomio,fratello mio,carissimo,compagno,seicome un figlio, con i sogni degli altri, con gli ideali nei quali non riesco più a credere, con le mie speranze morte,
con le vocette per rivolgersi ai cani e ai bambini, con le preghiere quando proprio me la vedo brutta, con le confessioni a metà, con gli avrei preferito che fosse successo a me, con i dopotuttosonofelice, con i non
immaginavo ti desse fastidio, con gli avatar, con le skin dei videogame, con i tutto bene?, con i benissimo, con i tiauguroilmeglio, con il numero dei like, con il numero dei follower, con i nontihomaitradito,
con il gergo del club che vorrei mi accettasse tra i suoi membri, con i libri che in realtà non ho mai finito, con la musica giusta che in realtà non sopporto, con i film che mi hanno fatto dormire.
Gli interventi chirurgici schizzati a livelli record, un’estetica oltre gli steccati. Come cambia il rapporto con il corpo
L’authority Arera dovrebbe tutelare i consumatori nel settore dell’energia. Ma sembra molto più sensibile agli interessi delle imprese
Abusi nelle Rsa, sempre più care. Assistenza a domicilio, praticamente zero. Restano le famiglie e le badanti. Il calvario degli anziani fragili
numero 8 - anno 69 - 26 febbraio 2023
Visitatori raddoppiati. Incassi record. Immagine pop. Parla il direttore degli Uffizi. Che ha trasformato le Gallerie in un baluardo
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BELLEZZA Il canone si trasforma e non solo per effetto della chirurgia estetica ma sulla spinta di nuove consapevolezze
Gli interventi estetici schizzati a livelli record, le campagne contro ogni pregiudizio sulla fisicità, un’estetica oltre gli steccati. E Il peso del virtuale. Come cambia il rapporto con quel che di noi si vede
Lizzo al Madison Square Garden di New York. A destra, in alto Damiano dei Maneskin e, in basso, Madonna
Dentro questo tempo sempre acceso, scandito dalla “guerra dei giusti” su libertà, diritti, autodeterminazione e tutti quei temi che sembrano fatti di luce ma che nascono sempre dall’oscurità: sono i corpi che tornano al centro della scena. Si è detto, spesso, che era la parola ad alimentare questo tempo. Gli hashtag indignati, schwa e asterischi inclusivi. Convinti di un cambio di passo sonoro, è in realtà il metro della vista a permetterci di capire dove stiamo andando. L’affermazione popolare del movimento body positive nato dal “fat activism” degli anni Settanta ha riscritto i canoni della bellezza, tempo fa ridotti a una gabbia che bruciava chiunque non rispettasse caratteristiche che non facevano altro che rafforzare sessismo, razzismo, ageismo. Prima erano accettati solo corpi performanti, incapaci di invecchiare. Poi è arrivata la Generazione Z che ha scardinato gli standard etero patriarcali, i ruoli di genere, la norma. Basti pensare al progetto “Belle di Faccia” nato grazie all’illustratrice Chiara Meloni (in arte Chiaralascura) e all’autrice attivista femminista Mara Mirabelli che dal 2018, come profilo Instagram, ha lo scopo di valorizzare i corpi grassi, con particolare focus sulla Fat Acceptance e Fat Liberation. Oppure all’irruzione sulle scene di corpi non conformi come quello della campionessa BebeVio,di Winnie Harlow attivista canadese e top model con la vitiligine. Le serie tv presentano personaggi ispiranti come Plum in Dietland o Kat in Euphoria (la citazione di quest’ultima: «Non c’è niente di più potente di una ragazza grassa che se ne fotte di tutto e di tutti»). Nel panorama musicale domina Lizzo, artista internazionale pluripremiata ai Grammy Awards: «Sono un’icona del corpo. Penso di avere un corpo davvero sexy. So di essere grassa. Non mi dà fastidio. Mi piace essere grassa, sono bella e sana». È una rivoluzione che corre anche sui social: Sasha Louise Pallari, modella e make-up artist britannica ha lanciato l’hashtag #filterdrop fondando un movimento social, ribattezzato Acne Positivity e dedicato nello specifico ai molteplici cosiddetti “inestetismi” della pelle. In Italia, Cristina Fogazzi, conosciuta come l’Estetista Cinica
è la popolarissima imprenditrice bresciana che si rivolge al pubblico in modo schietto promuovendo la consapevolezza che oli creme e trattamenti aiutano ma non fanno i miracoli millantati dagli spot.
Eppure è dentro questa galleria di figurine luminose che scatta il collasso generale, il cortocircuito. Per capirlo leggiamo i numeri: secondo le stime attualmente a disposizione, i trattamenti di chirurgia plastica ed estetica nel periodo primaverile del 2021 sono aumentati del 20 per cento. In generale, si stima che le richieste siano aumentate del 67 per cento rispetto al 2019 e ben del 130 per cento rispetto al 2020. Sono sempre i più giovani ad avvicinarsi alla chirurgia estetica in questa ricerca costante di un aspetto «migliore» per sentirsi «a posto». Ma di che posto si parla? Del nostro o di quello dello sguardo degli altri? Tra le ragazze il modello di riferimento è quello della cosiddetta “Rich girl face” (quella di Kylie Jenner per intenderci: naso piccolo, occhi grandi, pelle liscia, labbra
La scelta di Madonna può diventare un modello per le coetanee, per le più giovani sono altri i punti di riferimento. E
la mencure, sdoganata dalle celebrità, è diventata la norma
carnose). Testa e viso, chirurgia palpebrale e blefaroplastica gli interventi più richiesti. «Ci sono ragazze che non hanno bisogno di aumentare le labbra a 24 anni ma lo fanno in modo eccessivo con volumi fuori dal comune. L’eccesso è quello che ci preoccupa», spiega Francesco Stagno d’Alcontres, presidente della Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva-rigenerativa ed estetica.
Eccesso è la parola chiave che riaggiorna un fenomeno non nuovissimo. La storia ci ha sempre insegnato che gli interventi estetici dovevano essere sottili, invisibili, privati, che si trattasse di Cleopatra che scivolava via per fare il bagno nel latte d’asina o della regina Elisabetta I che si tamponava il viso con una miscela tossica di aceto e piombo. Adesso tutto sembra cambiare. Certo, resistono i tatuaggi ma temporanei, durano quanto la viralità di un reel su Instagram. Di recente L’Oreal, l’azienda dedicata al beauty più estesa del mondo, ha acquisito una quota minoritaria di un’azienda coreana di nome Prinker
Korea, che ha inventato un congegno capace di stampare un tatuaggio temporaneo direttamente sulla pelle a partire da un archivio di 12.000 tatuaggi selezionabili e personalizzabili attraverso una app dedicata.
Il cambio di passo è visibile nella mescolanza dei confini tra maschile e femminile, nel make up, negli abiti, negli accessori e anche nella bellezza dei corpi. Ragazzi e ragazze giocano a confondere la propria immagine e identità, indossando vestiti associati tradizionalmente all’altro sesso. La cura del sé legata alla sfera del maschile è visibile. Unghie laccate vengono sfoggiate da celebrità internazionali e italiane – da Fedez a Harry Styles, da Damiano dei Maneskin a Rosa Chemical. Un tempo un simbolo di ribellione e controcultura, oggi la “Mencure” (gioco di parole tra manicure e men) è la norma. Su questa scia, molte aziende di bellezza stanno cercando di intercettare i desideri di una nuova clientela introducendo sul mercato linee di cosmetici genderless. I
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make-up artist o gli influencer di trucchi più noti sono maschi. Lo youtuber James Charles è stato il primo testimonial del brand americano di make-up Cover Girl, che contiene la parola «girl». In Italia Christian Filippi, in arte Damn Tee, a solo 18 anni, con i suoi 215 mila follower su Instagram e quasi 325 mila su Youtube, è uno dei più seguiti vlogger italiani portabandiera di una bellezza che va oltre le differenze di genere.
Per capire questo tempo è utile posare lo sguardo sul volto orgoglioso ostentato ai Grammy dalla Regina del Pop, Madonna oppure affacciarsi al mondo dell’hip hop dove artiste e sempre più appassionate del genere si sottopongono a pericolose sedute chirurgiche per avere glutei, il cosiddetto Brazilian Butt Lift, come Nicki Minaj o Cardi B. Siamo circondati da un’estetica ricca, vistosa, sovrannaturale che deve essere esibita. A questo si lega il fenomeno per cui moltissimi giovani si presentano dal chirurgo con un
selfie a cui hanno applicato filtri di bellezza. Chiedono una realtà più aderente al digitale. Giovanna Cosenza, semiologa, allieva di Umberto Eco, sempre precisa e attenta nel leggere i fenomeni che ci attraversano, da 18 anni dirige un corso monografico sulla rappresentazione del corpo alla magistrale di Semiotica nell’Università di Bologna: «Adesso abbiamo la body positivity e alcune controtendenze interessanti. Ma pesa ancora l’omologazione». Il fenomeno non è assolutamente nuovo, precisa: «La rappresentazione del corpo con una foto ritoccata c’è da quando c’è Photoshop. Siamo alla fine degli anni ’90. Così come le controtendenze. Pensiamo che la prima campagna promossa da Unilever per il suo marchio Dove denunciava l’uso di Photoshop con la rappresentazione del corpo femminile già nel 2004, un case-study dal punto di vista della virilità online». Sembra ieri, sono passati quasi 20 anni, il tempo di mezzo di una vita. Nel frattempo, sottoli-
a fronte della Gioconda, la bocca dell’Europa dipinta da François Boucher, il naso della Psiche di François Gérard, il mento della Venere di Botticelli, gli occhi della Diana cacciatrice della scuola di Fontainebleau. Negli anni Ottanta, l’artista visuale Orlan utilizzava la chirurgia estetica come performance, sottoponendosi a una serie di interventi per cambiare volto e corpo: mentre i chirurghi, vestiti di tuniche d’argento, le riducevano cosce e caviglie e le rimodellavano ginocchia, labbra, occhi, una telecamera filmava tutto. Più avanti aggiunse al suo viso protesi facciali e corna, deformandosi e tagliandosi e mutando, e conservando i resti organici in reliquiari. «Il mio corpo è la mia opera», dichiarava. Nello stesso periodo, il cipriota Stelarc aggiungeva a se stesso un paio di ali e si impiantava sul braccio un orecchio creato in laboratorio dalle proprie cellule.
Oggi osserviamo le manipolazioni dei corpi degli altri senza traccia dell’antica meraviglia, ma quasi esclusivamente per criticarli. Se consideriamo quasi scontata l’idea di poter usufruire di arti artificiali, voci sintetiche, pezzi di ricambio dei nostri organi, tutto salta quando quello stesso concetto di “innaturale” si applica all’estetica. Il rito collettivo di chi segue Sanremo sui social diventa, quasi sempre, la dissezione della pelle altrui, e indugia sui ritocchi, sulle labbra, sui seni delle altre donne, nella gran parte dei casi schernendole.
Da ultimo, il bersaglio è Madonna, rea di continuare a fare quel che ha sempre fatto: «Il mio corpo è la mia opera», come Orlan. Lo ha fatto con i reggiseni a cono immaginati negli anni Novanta da Gaultier per il tour Blonde ambition, con la trasformazione da nuova Monroe a Evita Peron, e il mondo acclamava quella strategia di travestimento e trasformazione. Ma già negli anni Zero i giornali dedicavano lunghi articoli alle sue mani, prima rugose poi lisce, e il Wall Street Journal spiegò come funziona il lifting alle mani medesime (dal momento che il botulino le paralizzerebbe, si trapianta il grasso, «prele-
Il truccatore e modello James Charles Dickinson. A sinistra, Bebe Vio alla settimana della moda di Parigi
nea Cosenza, c’è stata la diffusione di massa del digitale. E per questo è importante parlare di «massa». «Perché l’abbassamento dei costi rende più accessibile a più persone gli interventi sul proprio corpo». L’ostentazione, l’orgoglio di un corpo totalmente ricostruito e allo stesso tempo la rivendicazione dei corpi imperfetti si adeguano e convivono all’unisono, il volto di Madonna, battezzato dal New York Times come una «brillante provocazione» è l’esempio perfetto. «Maria Luisa Veronica Ciccone – analizza Cosenza — sta facendo della sua esposizione della chirurgia estetica una valorizzazione. È geniale. Questo però non incide sulle ragazzine.
vato da fianchi o addome e iniettato attorno ai polsi e poi guidato nei punti strategici»). Ora Madonna ha superato i sessant’anni, e dunque gli interventi al viso, che le alzano gli zigomi e le allungano gli occhi e le gonfiano le labbra, vengono giudicati intollerabili, fuori luogo, scandalosi molto più di quanto lo siano stati le sue canzoni, le sue fotografie e i suoi spettacoli. Eppure, notava la bioetica Chiara Lalli, siamo in un mondo che almeno a parole accetta tutti i corpi, con ogni imperfezione possibile, e che anzi espelle la parola fat, grasso, dai libri di Roald Dahl. Ma non accetta che si accolga l’artificio, senza capire che in questo modo ribadisce la vecchia questione: le donne sono il loro il corpo.
Un tempo la modifica del “naturale” era vista persino con benevolenza. Un tempo si favoleggiavano i nomi di Pitanguy e dei maghi del bisturi che firmavano biografie con i nomi delle loro illustrissime pazienti prima di ritirarsi in un’isola brasiliana. Un tempo la chirurgia estetica era esotica e irraggiungibile, tanto da venir usata come espediente per le sceneggiature: nel quarto film di Emmanuelle, per giustificare i raggiunti limiti di età di
Sylvia Kristel, si immaginava una fuga in Brasile (appunto), dove l’eroina veniva sottoposta a una non precisata «operazione di chirurgia estetica» che la trasformava in una donna più giovane, l’attrice Mia Nygren. Vergine, peraltro. Oggi viene visto con orrore, e proprio dalle donne che sfogliano le riviste o guardano la televisione e si interrogano vicendevolmente su chi abbia fatto il ritocco e dove, e come. Commentano un seno gommoso, un paio di labbra gonfie, ammiccano e criticano e condannano. Tutt’altro da quello che, negli anni Ottanta, provava a delineare Donna Haraway nel Manifesto Cyborg, dove criticava la tendenza antitecnologica di molti femminismi. «Io — raccontava – volevo riappropriarmi dei cyborg per permettere al femminismo di prosperare, e questo implicava una seria riflessione sul genere e i suoi apparati. Il genere come qualcosa che non è mai solo naturale o solo culturale, ma qualcosa di diverso, per cui non abbiamo parole». Questa “cosa” che non sappiamo nominare dovrebbe dunque spezzare il canone, e lasciare che ciascuno faccia davvero del proprio corpo quel che vuole, che tagli o no i capelli dopo i cinquant’anni, che in-
La richiesta di tatuaggi temporanei segna l’adesione a un registro in cui diventa preminente la perfezione del segno. Mentre la comunicazione sui social apre anche a nuove consapevolezze
Ma sulle adulte. Ricordo che in Europa la fascia di età dai 40 ai 70 è maggioritaria, siamo una popolazione adulta e anziana. La vera massa è lì. I giovani sono in minoranza. Soprattutto in Italia secondo Paese al mondo più anziano dopo il Giappone. La comunicazione di Madonna andrà a moltiplicare la chirurgia estetica delle signore over 50. Ed è una comunicazione molto precisa: è un pezzo del mio corpo e faccio quello che voglio. Non c’è niente di più volontario che decidere di operarsi: comporta tempo, investimento economico, superamento delle paure». A incidere sulla popolazione più giovane immersa nel suo smartphone è sicuramente molto più Chiara Ferragni. Cosenza la inserisce nel filone delle influencer che sulla bellezza portano avanti un discorso di controtendenza. «Certo, non si riprende con le peggiori luci ma anche l’autenticità più autentica è sempre abbastanza filtrata. Eppure Ferragni, pur non essendo una sban-
dieratrice della body positivity, è nella controtendenza, grazie alla sua rappresentazione quotidiana, vive naturalmente il proprio corpo». È il mondo che stiamo andando ad abitare. «Un mondo che consente una maggiore varietà, i social permettono una moltiplicazione di influencer e micro-influencer. Questo per la rappresentazione dei nostri corpi, vari e diversi, è una buona notizia. Se si moltiplicassero le controtendenze, ognuno troverebbe la sua. Mi auguro che si possa andare verso una moltiplicazione dei canoni estetici anche grazie alla moltiplicazione dei contro-influencer. Del resto la rete è fatta di tante nicchie che valgono tanti piccoli mercati». Bisogna solo concedersi la libertà di essere: ascoltarsi e trovare un posto fuori dal senso di inadeguatezza, dal perfezionismo paralizzante, dalla frustrazione dell’insuccesso.
grassi o dimagrisca, che opti per il bisturi o meno. E che soprattutto faccia giustizia della sindrome di Alcina, secondo la quale la morte della bellezza giovanile viene considerata la morte del femminile, e la sostituisca, magari, con la sindrome di Karen Blixen, che a quarantasei anni lascia l’Africa per tornare in Danimarca, abbandonata dal marito infedele che le aveva trasmesso la sifilide e dall’amante, morto in un incidente aereo. «La baronessa Blixen — scriveva Germaine Greer in “La seconda età della vita” — riuscì a superare l’intenso dolore fisico e mentale della crisi, un climaterio nel pieno senso della parola, rinascendo come Isak Dinesen. Isacco era il figlio postmenopausale di Abramo e Sara, che quando nacque disse: «Dio mi ha fatto per ridere, in modo che tutti coloro che mi sentiranno rideranno con me». Dinesen era il nome da ragazza della Blixen. Lei stessa definì questo periodo la quarta età, dicendo che aveva cominciato a scrivere «con grande incertezza sull’esito dell’impresa, ma tuttavia nelle mani di uno spirito potente e felice». Perché mai Madonna non dovrebbe essere, oltre che potente, felice?
Ragazzi e ragazze giocano a confondere immagine e identità, indossando vestiti tradizionalmente associati all’altro sesso. Il cambio di passo è visibile nella mescolanza dei confini
Nasciamo e non sappiamo nulla di quello che siamo. Apriamo gli occhi attraverso un corpo altrui, costruito con carne che già viveva: nostra madre e nostro padre hanno già vissuto attraverso di essa. Nasciamo con una carne che ha già attraversato epoche, luoghi che forse non rivedremo mai. Nasciamo con un corpo che non ha nulla di illibato o che è già stato attraversato da sentimenti, dolori, emozioni, piaceri di cui non sapremo mai nulla se non per interposto racconto. Queste vite anteriori sono come una stratigrafia interna, simile a quella delle montagne che disegnano il corpo della Terra: la vita
che usiamo è una geologia portatile. Siamo nati e proprio per questo non abbiamo identità propria solo a noi, personale, assolutamente inconfondibile. Guardate il vostro naso o i vostri occhi e riconoscerete vostra madre, guardate le mani e la bocca e troverete vostro padre e i vostri nonni. Non vale solo per le linee del volto. Vale per tutto quello che facciamo, pensiamo, immaginiamo. Siamo dentro una carne già usata, costretti a dover cambiare la data di scadenza. Siamo dentro una esistenza di antiquariato, eppure, proprio per questo, siamo obbligati a trasformare radicalmente il passato: dobbiamo adattare questa vita di seconda mano a giorni e notti che chi ha vissuto nel nostro corpo non avrebbe mai potuto immaginare. Spesso basta una camicia, un tocco di fard, un taglio di capelli. A volte invece abbiamo bisogno di scrivere o disegnare qualcosa sulla pelle, come se cercassimo un cam-
La metamorfosi è una strana forma di chirurgia del sé, che ci costringe a essere paziente e chirurgo
biamento che coincida con l’evidenza quasi letterale della sua irreversibilità. Si può trattare di un trasloco o di un cambiamento minimo che nessuno o quasi nessuno noterà. Ma non c’è altra vita che il cambiamento. È impossibile restare là dove siamo. Impossibile tornare là dove eravamo. La nascita è questa condanna alla mutazione perpetua. Se non smettiamo di sentire il bisogno di metamorfosi, continua, incessante, senza fine è solo perché siamo una stratificazione di identità abbozzate, di trasformazioni più o meno riuscite. O forse, semplicemente, più o meno fallite. Non abbiamo alternativa. La metamorfosi è la vita. Non è per nulla facile. Trasformarsi vivendo è come dover assieme aprire il petto e operare un corpo che cammina. Che, per di più, è il nostro. La metamorfosi è una strana forma di chirurgia del sé, che ci costringe ad essere simultaneamente il paziente e il chirurgo. Come conservare la lucidità e la fermezza del polso quando siamo sotto anestesia per non soffrire troppo? È come essere Viktor Frankenstein e il suo mostro: passare giorni a raccogliere ossa e arti dagli ossari, essere assieme sala di dissezione, mattatoio e luogo di resurrezione. Ma soprattutto ogni metamorfosi presuppone di dover distruggere parte di quello che siamo. Passare giorni, anni ad abbattere, demolire, sfasciare quello che qualcuno aveva costruito, senza sapere se quello che sostituirà le forme di cui ci siamo sbarazzati saranno utili e se funzioneranno. La scommessa resterà aperta fino all’ultimo minuto.
Non c’è nulla di naturale, nulla di spontaneo, nulla di facile in questo. La nascita fa di noi degli artisti, esseri votati a una artificialità senza fine. Pittori e scultori del sé in cerca di un’ispirazione che non si sa mai se e quando arriverà. E ogni opera che esce dalle nostre mani non è destinata a durare: sarà sempre la materia prima per la nuova trasformazione futura.
*È autore del libro “Metamorfosi” (Einaudi)
Abolire la norma era necessario per mettere in sicurezza i conti pubblici. Ma con il costo del debito in crescita i margini di manovra dell’esecutivo restano comunque molto stretti
PICCHETTO
Giorgia Meloni passa in ressegna il Picchetto d’Onore nel cortile di Palazzo Chigi
Lo spread? In discesa. L’inflazione? Domata. La Borsa? In rialzo costante. A fine gennaio Giorgia Meloni ha festeggiato i suoi primi 100 giorni a Palazzo Chigi come la tappa d’esordio di un percorso già segnato «per il quale possiamo avere ottimismo», ha scandito la presidente del Consiglio. Meno di un mese dopo, la realtà si è già presa la rivincita sulla propaganda. Il calo dei tassi d’interesse si è fermato, sui mercati azionari regna l‘incertezza e nessun analista è pronto a scommettere su un rapido rientro dell’alta marea del carovita. Lo scenario, insomma, resta quantomai incerto e Meloni è costretta a correggere la rotta. Meno proclami, più sostanza, perché c’è il rischio di bruciare subito il capitale di fiducia fin qui accumulato grazie anche al miglioramento di alcuni indicatori economici. Si spiega anche così la mossa a sorpresa sul Superbonus 110 per cento, sacrificato sull’altare della stabilità dei conti pubblici. L’annuncio, strategicamente fissato quattro giorni dopo le elezioni in Lombardia e Lazio, ha deluso una larga fetta della tradizionale base elettorale del centrodestra. Un esercito di costruttori, artigiani e professionisti che negli ultimi due anni avevano cavalcato il boom dell’edilizia innescato dalla norma introdotta nell’estate 2020, ai tempi del secondo governo Conte.
Adesso i partiti della maggioranza promettono un paracadute, un marchingegno tecnico che riduca i danni per le categorie più colpite dal provvedimento. La strada però è già segnata. Il Superbonus, costato già oltre 70 miliardi, è stato messo in condizione di non nuocere più alle casse dello Stato, cancellando la norma che permetteva di vendere i crediti d’imposta. Senza l’intervento varato in tutta fretta dal Consiglio dei ministri di giovedì 16 febbraio, il sussidio pubblico per le ristrutturazioni edilizie avrebbe assorbito almeno altri 30 miliardi di fondi pubblici, annullando di fatto i margini di manovra del governo per intervenire su altri dossier come le pensioni e le tasse.
«Abbiamo tirato una riga per rimettere i conti in sicurezza», ha sintetizzato con re-
alismo lumbard Giancarlo Giorgetti, che dal dicastero dell’Economia da mesi premeva per chiudere una volta per tutte il rubinetto del Superbonus. Missione compiuta, ma non è affatto detto che il governo adesso sia in grado di accelerare verso le riforme promesse in campagna elettorale. Nel primo trimestre dell’anno, il Pil crescerà poco o nulla, anche se la recessione temuta e annunciata nei mesi scorsi sembra ormai scongiurata. E sui mercati finanziari, nonostante i segnali positivi a suo tempo sbandierati da Meloni come se fossero un suo successo personale, l’ottimismo è tutt’altro che condiviso dalla platea degli analisti. Dopo la rimonta cominciata l’estate scorsa, le Borse in febbraio hanno rallentato il passo. Nessuna netta correzione al ribasso, ma per il momento gli indici azionari vivacchiano, frenati dall’incertezza globale sull’andamento dell’inflazione.
l’inatteso calo dei prezzi energetici, le Borse hanno smesso di crescere.
Vivacchiano, in attesa di capire cosa succede sul fronte dell’inflazione globale
La buona notizia è che i prezzi dell’energia si stanno sgonfiando. E con le quotazioni di gas ed elettricità in ribasso costante, da aprile in poi anche il governo potrebbe ridurre, o addirittura cancellare del tutto, i bonus e gli sconti destinati ad aiutare famiglie e imprese alle prese con l’impennata delle bollette. Nella legge di bilancio del 2023, l’esecutivo ha già stanziato oltre 20 miliardi di euro per finanziare il prolungamento di questi sussidi, che però scadono nel primo trimestre dell’anno. Questa somma va ad aggiungersi ai 57 miliardi già spesi nel 2022, nella fase più acuta della crisi delle materie prime.
Adesso, però, dopo mesi di tensioni senza precedenti, nelle Borse internazionali dell’energia è tornata una relativa calma. Nessuno teme più il razionamento o addirittura un blocco totale delle forniture russe. Questo significa che a primavera le bollette po-
MILIARDI
Il debito pubblico italiano in euro alla fine del 2022
MILIARDI
Costo in euro per lo Stato del Superbonus nel 2022
PER CENTO
L’andamento del Pil italiano nell’ultimo trimestre del 2022
MILIARDI
Costo in euro per lo Stato nel 2022 di bonus e sconti contro il caro energia
PER CENTO Rapporto debito pubblico sul Pil previsto dal governo per il 2023
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trebbero calare ancora e a quel punto il governo dovrà decidere che fare degli sgravi fiscali varati la prima volta nel settembre del 2021, con Mario Draghi a Palazzo Chigi. Nel frattempo, se il metano continuerà a viaggiare intorno ai 50 euro al megawattora, come succede da settimane, è prevedibile che a fine febbraio anche l’indice dei prezzi farà segnare un ulteriore ribasso. È ancora troppo presto, però, per cantare vittoria contro il carovita. A gennaio l’inflazione si è raffreddata rispetto al record di dicembre, ma serviranno ancora mesi di ribassi per convincere le banche centrali a tagliare il costo del denaro. Il 16 marzo, nella prossima riunione del consiglio direttivo, la Bce aumenterà ancora il tasso di riferimento, destinato a salire di un altro mezzo punto fino a quota 3 per cento. Il rischio
è che la nuova sterzata di politica monetaria finisca per congelare anche l’economia reale, con le aziende costrette a far fron-
Ibonus edilizi sono eccezionali. Ogni cosa è eccezionale. La spesa per lo Stato di circa 120 miliardi di euro in due anni e mezzo. Il risibile impatto del cosiddetto superbonus sugli immobili residenziali, appena tre su cento non più energivori. La mole di denaro incagliato o disperso, bloccato o perduto. E pure le frodi sono eccezionali: complesse, raffinate, ripetute. La Guardia di Finanza (Gdf) ne ha scovate decine e ovunque in Italia dal varo del “decreto rilancio” approvato dal governo giallorosso di Giuseppe Conte per un valore di 3,7 miliardi di euro in 15 mesi. E il dato è parziale.
Lo “sconto in fattura” e il “credito di imposta”, nonostante l’intervento riparatorio del governo di Mario Draghi, sono i due incentivi che hanno creato meccanismi di facile utilizzo per i truffatori. Ne è uno scon-
certante manifesto l’inchiesta della procura di Rimini condotta dalle Fiamme Gialle che, lo scorso anno, ha portato al sequestro di 440 milioni di crediti di imposta fasulli perché legati a lavori non effettuati. Va ricordato che i crediti di imposta, a differenza delle detrazioni fiscali, possono essere monetizzati per intero e subito e dunque a Rimini è stato scoperto un sodalizio criminale specializzato nel «commercio» dei crediti di imposta, un sistema che ha allargato le indagini in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino, Veneto e Lazio. Un appello regionale quasi completo. Il capo del ramo pugliese e la mente tecnica, un commercialista, all’estero in vacanza al momento delle misure cautelari, sono stati arrestati a Santo Domingo e in Colombia.
I finanzieri e i magistrati di Parma hanno seguito due segnalazioni di operazione finanziarie sospette e così hanno ricostruito altri 110 milioni di euro di crediti di imposta illeciti. Una società avrebbe trasferito da un conto lituano, riconducibile a un trust svizzero, una provvista di denaro di 13,9 milioni di euro di crediti
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti al Senato. Il decreto sul Superbonus verrà modificato in Parlamento durante la conversione in legge
te a costi troppo elevati per finanziarsi sul mercato. Proprio questo è l’esito nefasto da cui Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce, ha voluto mettere in guardia i suoi colleghi di Francoforte. Era il 16 febbraio scorso e per l’occasione Panetta ha citato una canzone di Lucio Battisti. Bisognerebbe evitare, ha detto il banchiere italiano, di «guidare come un pazzo a fari spenti nella notte». In altre parole, le decisioni andrebbero di volta in volta «modulate» sulla base dei dati economici, senza impegnarsi per il futuro annunciando nuove strette. Non è questa, però, la posizione dominante al vertice della Bce, dove prevalgono i falchi del Nord Europa, favo-
revoli a stroncare l’inflazione a suon di rialzi dei tassi.
Nelle stanze della Banca Centrale Europea prevale il timore di accumulare altro ritardo rispetto alla corsa dei prezzi, dopo aver colpevolmente sottovalutato, ormai un paio di anni fa, i primi segnali che, con la fine della pandemia, l’economia si stava pericolosamente surriscaldando. Al momento, quindi, sono ridotte al lumicino le speranze che Francoforte cambi rotta. Anzi, è probabile che prima dell’estate si arrivi a un nuovo rialzo dopo quello di metà marzo. Queste decisioni avranno un effetto immediato anche a Roma. Dopo anni di tregua, una tregua garantita da tassi prossimi allo zero, da mesi il governo Meloni è costretto a fare i conti con l’aumento della spesa per interessi sui Btp. Anche nel 2022 il debito pubblico ha continuato la sua corsa toccando a dicembre la cifra record di 2.762 miliardi, circa 84 miliardi in più
di imposta che in parte erano già stati monetizzati attraverso la cessione a Poste Italiane. Secondo gli accertamenti giudiziari, i crediti di imposta erano riferiti a interventi anche a 281 immobili di fantasia e 23 immobili ubicati in comuni soppressi un secolo fa. I crediti di imposta spesso vengono «frammentati» e dispersi con passaggi a «catena». Nell’inchiesta di Parma sono molto esaustive le figure di due inquisiti capaci di aprire nello stesso giorno dieci società a responsabilità limitata e semplificata con sedi a Genova, La Spezia, Imperia, Rovigo, Padova, Treviso, Verona, Belluno, Venezia, Vicenza.
A Roma hanno beccato crediti di imposta falsi per un miliardo di euro. Un imprenditore titolare di due società, in due settimane, è riuscito a emettere fatture per un imponibile di diverse centinaia di milioni di euro per lavori non realizzati e comunque su immobili di basso valore catastale come le stalle.
Il colonnello Marco Thione, capo ufficio Tutela Entrate Gdf, in audizione davanti ai senatori della commissione Finanze e Tesoro, ha illustrato le principali
tipologie di illeciti: «Lavori edilizi necessari a conferire il diritto alla detrazione mai avviati. Crediti oggetto di plurime cessioni a catena che coinvolgono imprese con la medesima sede e/o gli stessi legali rappresentanti, costituite in un breve arco temporale, che hanno ripreso a operare dopo un periodo di inattività o che da poco si sono formalmente riconvertite all’edilizia, i cui soci amministratori sono nullatenenti, irreperibili e/o gravati da precedenti penali. Immobili sui quali sarebbero stati eseguiti gli interventi agevolati non riconducibili a beneficiari originari delle detrazioni. Lavori edilizi incompatibili con le dimensioni imprenditoriali dei soggetti che li avrebbero effettuati e che avrebbero praticato lo sconto in fattura. Provviste ottenute con la monetizzazione dei crediti trasferite all’estero o reinvestite in attività economica, finanziarie, imprenditoriali o speculative». Ai 3,7 miliardi di euro di sequestri preventivi di crediti di imposta, già citati, vanno aggiunti altri 3,8 miliardi di indebiti profitti tributari nell’ultimo biennio: 7,5 miliardi. Non è la somma definitiva. Quella è sempre energivora. Crescerà.
La spesa per interessi quest’anno sarà di 22 miliardi in più di quanto previsto nel 2022. E la politica della Bce sui tassi sta provocando parecchie perplessità
rispetto alla fine del 2021. C’è una differenza sostanziale, però, rispetto al recente passato. Un anno fa il Tesoro italiano era riuscito a collocare 7 miliardi di Bot a un anno con un rendimento lordo sottozero, pari a meno 0,32 per cento. In pratica gli investitori hanno pagato per parcheggiare i loro soldi nella casse pubbliche. Il 10 febbraio scorso il tasso offerto su un titolo pubblico con scadenza analoga era salito al 3,17 per cento. Lo stesso discorso vale per i Btp a 10 anni che un anno rendevano l’1,85 per cento annuo, meno della metà rispetto al 4,3 per cento attuale. Ecco perché, con l’ultima legge di bilancio, il ministero dell’Economia ha dovuto correggere al rialzo il budget di spesa per gli interessi sui titoli di stato. Nel 2023 l’esborso previsto toccherà 81 miliardi, circa 20 miliardi in più rispetto a quanto previsto ad aprile del 2022, con Draghi a Palazzo Chigi. L’inflazione ha cambiato le carte in tavola, moltiplicando i costi a carico dello Stato e sottraendo risorse che potrebbero essere destinate altrove, a cominciare dal welfare. E se i tassi aumenteranno ancora, come pare probabile, la situazione potrebbe anche peggiorare, mettendo a dura prova l’ottimismo di Giorgia Meloni. Quello della festa dei 100 giorni di governo.
Un palazzo in costruzione a Salerno. L’attività edilizia rischia di frenare senza Superbonus
Palazzo Della Valle, sede romana di Confragricoltura: in un convegno si parla di olio e del valore prodotto dai frantoi, con la presenza del presidente di Deoleo Ignazio Silva, impegnato a illustrare le iniziative del brand Carapelli. Il padrone di casa è il presidente della confederazione, Massimiliano Giansanti, per Nomisma c’è Denis Pantini, a nome del governo parla il sottosegretario Masaf Patrizio La Pietra, in rappresentanza del ministro Francesco Lollobrigida. In sala c’è un partecipante, enigmista provetto ed esperto di anagrammi, che non riesce a trattenere una battuta: «Più frantoiani, meno Fratoianni».
Ignazio La Russa ha parlato ancora del busto “casalingo” di Benito Mussolini, nella trasmissione “Belve” di Francesca Fagnani su Rai2. Un senatore di Fratelli d’Italia, in libertà, commenta: «Il numero uno di Palazzo Madama deve essere inclusivo. E anche stupire. Se la gente sapesse, per esempio, che uno come lui colleziona le foto di von Gloeden, il barone Guglielmo che immortalava a Taormina giovani nudi, offrendo l’immagine di una Sicilia libera e senza pregiudizi, quanti applausi prenderebbe? Specie da quelli che oggi lo attaccano».
Voleva stare lontano dalle polemiche, Cesare San Mauro: così, con Angela Melillo, serata sulla Terrazza Les Ètoiles dell’Hotel Atlante Star di Roma per celebrare San Valentino. La coppia ha colto l’occasione per festeggiare i primi quattro mesi di matrimonio con una cena messa a punto per l’occasione dello chef William Anzidei: calamaretto nero croccante e spuma alla marinara, oltre al rombo ai pomodorini confit e maggiorana con crema di topinambur.
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Di giorno andremo a via Veneto. La strada romana della “dolce vita”, grazie a Federico Fellini, è diventata famosa per la vita notturna: in alto, nel Rome Marriott Grand Hotel Flora, sono ricercati i drink di Alessio Mercuri, come Shaked Ginger e Cinnamon Old Fashioned. Nel Flora Restaurant dallo chef Massimo Piccolo tappa obbligatoria con gli spaghettoni ai tre pomodori. Presto però tornerà il “business lunch”, per chi ha poco tempo e ama la qualità, un’idea che fa parte della filosofia del “lusso accessibile” del general manager Achille Di Carlo. Perché non si vive solo di notte…
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Venerdì 17 febbraio un decreto legge di tre articoli ha scritto il de profundis sulla cessione dei crediti fiscali e sullo sconto in fattura, mentre restano le detrazioni. Un colpo mortale inaspettato, dato che il 1° febbraio, con il decreto Aiuti quater, il governo, prima delle elezioni in Lazio e in Lombardia, teneva a far sapere di aver risolto la questione dello smobilizzo dei bonus fiscali, impegnando la Sace a rilasciare una garanzia pubblica del 90% sui finanziamenti degli intermediari finanziari, previa cessione dei crediti fiscali. Sembrava che con la garanzia pubblica si potesse risolvere questa incancrenita questione, anche se
le banche avevano fatto sapere di aver esaurito per il 2023 la tax capacity, indispensabile per l’acquisto dei crediti fiscali edilizi. E invece no. Tutto è saltato. Le vicende del superbonus rilevano l’inadeguatezza del Parlamento, dei governi e degli apparati dello Stato. Non è concepibile che si sia entrati nella nassa del superbonus gridando solo ai lestofanti. Bisognava adoperarsi per capire cosa covasse sotto la cenere, pena il dissesto di migliaia di imprese, l’eventuale disoccupazione di 900 mila lavoratori e il disagio di famiglie e amministratori di condomini. La vicenda si è “casualmente” svelata il 14 febbraio in commissione Finanze e Tesoro del Senato. Lì il direttore delle statistiche di Eurostat Luca Aloia ha sostenuto che il superbonus «non è debito pubblico ma deficit», trattandosi di «crediti fiscali pagabili» e in quanto tali trasferibili. Se i bonus fiscali devono essere contabilizzati come deficit, i 110
Meloni aveva dato la sensazione di non voler utilizzare metodi dei predecessori. Ma ora sembra aprire
miliardi di euro dichiarati dal ministro Giorgetti vanno imputati in bilancio per cassa e non spalmati in dieci anni. Addio alla possibilità per il governo di agire quest’anno, perché i famigerati 110 miliardi, indipendentemente dagli importi che Istat attribuirà ai deficit del 2021 e del 2022, incrementando il livello del disavanzo del 2023, bloccherebbero ogni manovra. Meraviglia lo scoppio di un simile tsunami perché Eurostat nel 2021 accettò, solo «temporaneamente», su sollecitazione dell’Istat, che i crediti maturati con il superbonus fossero classificati «non pagabili», in attesa dei necessari provvedimenti a livello europeo. La scadenza del superbonus, pertanto, in origine indicata nel 31 dicembre 2022, fu prorogata nel 2021, con differenziazioni, al 2023, senza preoccuparsi della «temporaneità» indicata da Eurostat. È strano che il ministro dell’Economia dichiari che «serve agire di concerto, di sistema, per risolvere questo bubbone che si è creato». La presidente Meloni fino a ieri aveva dato la sensazione di non voler utilizzare i metodi («provvedimenti di sistema») adottati dai precedenti governi per superare situazioni di gravi crisi, come fece Ciampi con l’accordo sulla politica dei redditi per combattere l’inflazione. Il clima parrebbe cambiato dopo il “pasticcio” del decreto Aiuti quater, considerata la sua apertura a modifiche al decreto legge che «il Parlamento potrà apportare in fase di conversione». Il 20 febbraio si sono tenuti due importanti incontri. Il primo con l’Abi, la Cdp, la Sace e l’Agenzia delle Entrate e il secondo con tutte le associazioni dei costruttori. Sembra che il governo stia intravedendo una via per uscire dal ginepraio. Per smobilizzare i 20 miliardi di crediti incagliati, su indicazione dei costruttori, è previsto il ripristino della tax capacity delle banche con le entrate degli F24 versate dai clienti, mentre per il resto dei crediti fiscali che matureranno quest’anno si ipotizza il ricorso a strumenti finanziari ibridi, quali le cartolarizzazioni.
SUSANNA TURCO
Quello che si vede da fuori, per molto che possa apparire, è appena solo la punta dell'iceberg. La realtà del rapporto tra Matteo Renzi e Carlo Calenda, e quindi dei rapporti dentro il Terzo polo, la mezza federazione tra Italia Viva e Azione, è assai più densa, complessa, e si vorrebbe dire da gabbia di matti - giusto per dare l’idea dell'abisso. Le legnate alternate a carezze che i leader del partito uno e bino si scambiano via interviste, via agenzie di stampa, via social network, come anche i progetti di prossima distruzione e federazione reciproca che inanellano i rispettivi fedelissimi, sono infatti niente al confronto di certe serate lunatiche che taluni amici generosi della coppia (politica) si sono dovuti sorbire, in più occasioni, nel tentativo di rappacificarli. Roba da telenovelas sudamericane tipo “Schiava Isaura”, niente a che vedere col modello Sandra e Raimondo. C’è dramma, teatralità, ossessione. Con l’uno assiso in salotto che infila battute sadico-sardoniche, l’altro che si innervosisce ed esce a fumare pure se è casa sua, e insegui l’uno e ascolta l’altro, finché l’ora si fa tarda, tutti sono stanchissimi, si imbastisce una riappacificazione che terrà giusto il tempo del prossimo tweet, all’indomani mattina, quando i due avranno ripreso a mordersi ancora prima che tutti gli altri abbiano riaperto gli occhi. «La normale dialettica sui modi», l’ha chiamata Calenda in un tweet simulando distacco. E se la vedano da soli, la prossima volta, è l’invariabile conclusione degli amici.
Va così da mesi e adesso - visti i risultati nelle urne - la faccenda si è persino aggravata. Uno vuole andare più veloce verso il partito unico già dal mese prossimo, l'altro al contrario vuol andare più piano fino forse a inabissarsi ben prima delle Europee 2024, ma senza darlo a vedere (il segnale più gra-
ve è che abbia cominciato dire «tranquilli», «diamoci una calmata»). Il nervosismo post regionali è appena sottopelle (giusto il tempo per Calenda di dire che gli elettori hanno sbagliato), il prossimo Comitato politico in settimana dirà meglio. Intanto l'ultimo colpo è da stendere un bue: nel Lazio l’ex deputato di Iv Luciano Nobili, inizialmente escluso dal Consiglio regionale, ha fatto ricorso e nel riconteggio ha finito con il superare in preferenze Pierluca Dionisi (Azione, ex Udc) risultando eletto al suo posto. È salito così a due a zero per Italia Viva il totale degli eletti in regione del terzo polo: i calendiani avevano il capolista, altro privilegio rivelatosi inutile. Lo squilibrio peggiora se si considera anche la Lombardia: saliamo quattro eletti a uno. Sempre per Matteo ovviamente. Ed è così che Calenda e Renzi, pur titolari dell’unico soggetto politico definibile riserva di governo, ossia in grado di sostituire Forza Italia come già accaduto per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato, si trovano al momento sull’orlo di un bivio, a rischio baratro. È un peccato anche per Giorgia Meloni, visto il palmare bisogno che avrebbe lei di una alternativa a Silvio Berlusconi, in disgrazia presso i popolari europei che hanno annullato le giornate di studio a Napoli, e preso di mira in ultimo persino da Volodymyr Zelensky in persona. Il risultato pessimo della li-
L’equilibrio tra Calenda e Renzi è già andato in pezzi. Uno twitta e polemizza. L’altro trama e fa eleggere
sta Italia Viva-Azione alle Regionalinel Lazio ha preso il 4,9 per cento (75 mila voti) contro l’8,5 per cento (231mila voti) delle politiche 2022; in Lombardia ha preso il 4,2 per cento (122 mila voti), contro il 10,1 per cento (513 mila voti) di settembreha infatti messo un macigno su quella strada, l’ha resa meno fluida nell'alternanza tra vedo-non-vedo giocata sinora. Anche qui, come in tutto il resto del connubio tra Italia Viva e Azione, siamo infatti alle prese con un partito bifronte, nel quale in qualche modo Matteo Renzi, assieme alla leadership (provvisoria) e al simbolo elettorale (per evitare la raccolta delle firme), ha ceduto a Carlo Calenda (che di suo metteva i voti) l’onere di interpretare l’aspetto pubblico, mediatico, riservando per sé, in modo più spiccato che in passato, il ruolo dell’eminenza grigia.
Carlo dunque twitta e polemizza, Matteo tesse e fa eleggere. Carlo va a Palazzo Chigi, come accaduto a fine novembre, a discutere con Meloni di controproposte sulla finanziaria e convergenze sulla giustizia (spazzacorrotti, magistrati fuori ruolo, separazione delle carriere) poi scende in piazza a farsi l’eco da solo nella selva dei cronisti, poi va in tv, poi twitta. Renzi è immaginabile al massimo tra gli arazzi del Senato, quando non in qualche Emirato tangibile o metaforico, comunque assai più in penombra di quanto non fosse da premier e segretario del Pd: in questa sua nuova versione di se stesso, l’ex rottamatore divenuto andreottiano sembra aver dimenticato o quasi i social e i tempi in cui scriveva di tutto a qualunque ora. Risultato - schizofrenico, volendo - di questo muoversi in modo che la mano destra di Azione non sappia cosa fa la mano sinistra di Iv: Renzi è quello che contribuisce (lui ancora nega) a far eleggere alla guida del Senato Ignazio La Russa anche senza
i voti di Forza Italia; Calenda è quello che, di fronte all'ennesima dichiarazione omofoba della seconda carica dello Stato, twitta come se la faccenda non lo riguardasse: «Domanda: ma uno un pelo più istituzionale e meno fascio non lo avevate a disposizione @GiorgiaMeloni?».
Va bene finché funziona, ma adesso, di fronte ai risultati deludenti del voto, tutto questo triangolare s’è un po' smontato. Calenda ha detto di voler velocizzare l’unificazione con Italia Viva, Renzi ha fatto trapelare di voler togliere il nome di Calenda dal simbolo. La discussione riprenderà ufficialmente una volta finite le primarie del Pd, cioè quando si saprà quale faccia avrà l’ex partito di entrambi. Ma un viaggio tra gli adepti risulta chiarificatore: i più postano la vignetta di Makkox con il leader di Azione ridotto a “pupazzo”, e scommettono sulla prevalenza di Renzi. «I renziani sono pronti a far fuori Calenda». Lo scrive ad esempio Silvio Mostacci, ex segretario provinciale di Azione in Basilicata (si è dimesso in agosto, in polemica con le liste stilate dopo l'accordo con Iv), prontissimo a dare la sua solidarietà a un altro neo-dimissionario di Azione, il segretario della Lombardia, Niccolò Carretta, che ha lasciato ap-
La puntata pilota
è a Roma: al Campidoglio il gruppo unico Iv e Azione è durato quattro mesi. Sono divisi da febbraio 2022. In Puglia
i calendiani non lasciano Emiliano
pena chiuse le urne delle Regionali, con parole che rendono l’idea di una sopraffazione ancora non sviscerata: «Il risultato è fallimentare e dimostra l’incomprensibilità delle nostre scelte che non sono stato in grado di contrastare», ha scritto. Rese dei conti appena agli inizi.
Mai bisogna dimenticare, peraltro, che esiste l’episodio pilota della saga. È il caso di Roma, dove per la prima volta, nell'autunno del 2021, con Carlo Calenda in corsa per fare il sindaco, fu sperimentata la lista unica Iv-Azione: prese il 19,1 per cento e arrivò prima, sopra Fratelli d’Italia e Pd. In quel caso solo due dei cinque eletti erano in quota Italia Viva: Calenda giurò che avrebbero fatto gruppo unico, ma l’unione durò appena quattro mesi. A fine febbraio 2022, un anno fa, i due renziani al Campidoglio, Valerio Casini e Francesca Leoncini uscirono dal gruppo perché i consiglieri di Azione avevano votato per Virginia Raggi presidente della commissione Expo 2030. Strabiliante è che dodici mesi dopo li ritroviamo ancora così: due gruppi diversi in Campidoglio, Azione di qua, Iv di là. Non va diversamente in una regione per il resto del tutto atipica come la Puglia. Anche lì infatti in dicembre si è costituito
un gruppo di Azione, formato da due ex Pd (Fabiano Amati e Ruggiero Mennea) e da Sergio Clemente, eletto delle liste civiche di Michele Emiliano; accasata altrove è invece Italia viva, sin qui rappresentata da Massimiliano Stellato, eletto anche lui con le civiche e ora nel gruppo misto. Orbene mentre Stellato è in penombra tra l’appoggio e il non appoggio, in Regione è di nuovo riaffiorata una furiosa polemica che riguarda proprio i calendiani. Il gruppo dei tre di Azione infatti non vuol lasciare la maggioranza, anche se a rigor di logica dovrebbe, essendo Amati una storica spina nel fianco del governatore e Calenda un tradizionale suo disistimatore. Qualche giorno fa Emiliano è tornato quindi a chiedere l’uscita del gruppo dalla maggioranza, e in particolare le dimissioni di Clemente da segretario d’Aula, ruolo ottenuto in quanto vicino al governatore: «Il mio appello al consigliere Clemente: ce la può risparmiare questa pena di non dimettersi?», ha detto in Aula, con una memorabile sfuriata che si trova anche in rete. Una vicenda pulviscolare ma che rende abbastanza l’idea di quanto la realtà sia lontana dai volti dei leader del Terzo Polo, e di quante altre puntate della saga ci aspettano.
Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. A sinistra: il presidente del Senato Ignazio La Russa
La carica dei 1.800 assunti per far funzionare il Pnrr
La posta in palio è altissima: altri 40 miliardi entro quest’anno, per poi ottenerne – auguriamocelo – 191 in tutto dalla Ue per riformare il Paese. Ma per farlo serve una squadra di ammazza-burocrati all’altezza che esamini i progetti e sblocchi le opere. Così per la nuova Struttura di missione per il Pnrr — che sostituisce la segreteria tecnica voluta da Mario Draghi — il ministro Raffaele Fitto ha varato massicce assunzioni. Ben 980 dipendenti per il nucleo per le politiche di coesione, 500 stabilizzazioni per coloro che già
lavoravano all’unità di missione, altri 50 alla Struttura di missione, 10 all’Antitrust, 112 vigili del fuoco, 89 a strutture del ministero dell’Agricoltura. Totale: un piccolo esercito di 1.741 posti ritenuti necessari per far funzionare il piano. Naturalmente tutto questo farà schizzare i costi per il personale. Che passano dagli 1,8 milioni della gestione Draghi agli oltre 7,1 previsti dal governo Meloni per l’anno in corso. L’arma in mano allo squadrone non sarebbe piccola: cade il diritto di veto degli enti locali. Quindi, se una Regione o un Comune ritardasse a sbloccare un progetto, il governo potrebbe intervenire allo scadere del 15° giorno con poteri sostitutivi. Se verranno raggiunti gli obiettivi e quindi incassate le prossime rate del Pnrr, saranno soldi mirati. Altrimenti, l’Italia avrà mancato un’occasione storica. Per burocrazia malata.
Assunzioni in vista: per il piano di ripresa serve una squadra che esamini e sblocchi le opere
L’autonomia in minoranza, bocciata alle Regionali
C’è una sconfitta nascosta nella vittoria. Lo dicono i numeri del voto in Lombardia. Così, accanto al centrodestra vincitore con Attilio Fontana, c’è l’autonomia differenziata – cavallo di battaglia della Lega –che ne esce malconcia. Innanzitutto, il flop dell’affluenza (41,6%), anche rispetto alle politiche di cinque mesi fa. Per un test che avrebbe dovuto portare a frotte gli elettori a premiare lo strumento federalista (varato dal governo alla vigilia del voto) si registra un drastico calo di consensi. Basti pensare che nel 2017 per il referendum autonomista voluto dall’allora governatore Roberto Maroni andarono a votare in 2.875.438 per il sì e 119 mila per il no (affluenza del 38,21%) e che il 12-13 febbraio scorsi la maggioranza ha raccolto 1.774.477 voti su 7,8 milioni di elettori potenziali. Ma c’è di più. Il test elettorale ha detto molto sulla «perdita della Regione»: definito dagli autonomisti come il livello di Stato più vicino ai cittadini, ha invece registrato una storica fuga dalle urne. Un segnale da cogliere.
Il Cencelli delle bicamerali
L’accordo della maggioranza sulle commissioni Camera-Senato ne prevede sette a FdI, quattro alla Lega, tre a Fi, una a Noi Moderati. All’opposizione è andato il Copasir (Pd) e andrà la Vigilanza tv (probabile l’m5s Stefano Patuanelli). Fratelli d’Italia, tra le altre, ha prenotato l’Antimafia e quella sui femminicidi. Quest’ultima sarà oggetto di scontro perché richiesta anche da Fi: tutta da vedere la ripartizione donne-uomini nonché la scelta della presidente. Morta sul nascere quella sull’operato dei magistrati, si prevede guerra su quella sul Covid. Eppure, la storia insegna che andrebbe evitato il regolamento di conti sulle commissioni d’inchiesta: nascono per colpire l’avversario, ma poi si ritorcono contro il promotore.
dalla burocrazia
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Sa tutto di Federico II di Svevia. Da quando, nel 1989, vide per caso l’omaggio che il console tedesco gli rese nella cattedrale di Palermo. Un sovrano per il quale ciò che si affacciava sul Mediterraneo era unito in una sola grande cultura; parlava nove lingue, sperimentò che il luogo in cui si nasce e i confini sono contingenze. «Perché mi piace? Era cosmopolita», Carlo Parini, commissario capo di polizia in congedo ed ex capo di quel che fu il Gicic, Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della Procura di Siracusa, quella visione ce l’ha addosso. E conosce le contingenze. La prima per lui fu imbarcarsi sulla nave Aquila invece che partire per la missione Italcon a Beirut, nel 1983: il suo battaglione venne attaccato.
Migranti dall’Africa sub-sahariana aspettano di essere registrati al porto di Augusta, in Sicilia, nel 2014
«Il Mediterraneo l’ho subito conosciuto sul campo: capivo al volo dove si trovava quel canale o quella costa e mi sapevo regolare immediatamente quando parlavo con i migranti», racconta Parini, 60 anni, uno dei massimi esperti in Europa di salvataggi, rotte e organizzazioni criminali. “Il cacciatore di scafisti”, che finì anche sul New York Times per la sua commistione unica di umanità e tecniche investigative, osserva quel che definisce un nuovo «fenomeno di elevata portata»: per l’Ucraina, la crisi delle forniture alimentari, la guerra delle materie prime. Più che le Ong, i governi, il meteo, c’entra la paura. E i boss della tratta che sono sempre tutti lì.
Nel 2002 lo mandarono a Lampedusa a studiare da pioniere i primi flussi. «Ci trovammo a fotosegnalare le persone, ma non avevamo neanche la macchina fotografica e per identificare gli scafisti facevamo vedere i sospettati da dietro le tapparelle della casa: “Secondo lei chi è?”». Da Mali, Nigeria e Mauritania arrivavano alle Canarie famiglie e amici che si dividevano le spese per la traversata. Li recuperava cadaveri con i colleghi europei: l’oceano è cattivo e il vulcano di Tenerife non basta come faro.
«Ho sempre preferito chiamarli migranti. È la parola esatta. Non si parla di criminali, ma di persone». Infatti ha la loro fiducia: nel 2005, gli indicarono la presenza della nave madre con le navi figlie al rimorchio.
Le abbordarono direttamente i colleghi del Reggimento San Marco facendo 25 arresti.
È successo tante altre volte.
Un anno prima il ministero dell’Interno aveva istituito la task force Immigrazione, nel 2006 il procuratore capo di Siracusa Roberto Campisi fondò il gruppo interforze: un unicum in Europa. A guidarlo Parini, che con esperti di Polizia, Marina militare, Guardia di finanza, Carabinieri, quattro magistrati e 30 interpreti gestirà 128.569 migranti in 1.084 sbarchi, sequestrerà 219 imbarcazioni, farà 1.051 arresti. Le organizzazioni dei trafficanti si combattono come la mafia: «Avevo creato una rete di collaborazione con tutte le forze impegnate sul campo. Anche se non c’era uno sbarco, chiamavo: come state, che fate? Sala operativa del ministero dell’Interno, Guardia costiera compresa quella greca, Gruppo aeronavale, i ragazzi di Europol, Frontex, Eurojust, le ambasciate. Con quella egiziana abbiamo lavorato per non far partire soprattutto i minori. L’anno di Mare Nostrum fu il più duro per morti e sbarchi: 52 mila arrivi solo ad Augusta».
L’operazione la volle il governo Letta per scongiurare stragi come quella del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. Parini è uno dei comandanti. «È stata la migliore operazione in assoluto, la migliore a favore dei migranti. Li gestivano le navi militari, in cui entrano anche 1.500 persone, e la sensazione era di toglierli dal mare e dall’acqua. C’era l’infermeria, l’emergenza medica con gli elicotteri. Avevo una squadra di fotosegnalatori che in mezz’ora faceva anche 50 persone. Quando sbarcavamo, quasi il 70 per cento del lavoro era fatto: manda-
Carlo Parini è stato capo del gruppo interforze contro la tratta di clandestini di Siracusa. Un mix di umanità e tecnica investigativa.
Perché dall’acqua si salvano persone, prima che criminaliGLI SBARCHI
vamo già tutti i dati, evento per evento, in modo che la direzione centrale potesse predisporre la sede di destinazione».
Poi sono arrivati i meri pattugliamenti di Triton ed Eunavfor Med e, per converso, le Ong: «Quel che fanno oggi loro lo facevamo noi all’epoca». E nel maggio 2017 Parini parlò a loro favore davanti alla IV commissione della Difesa al Senato assieme all’allora procuratore di Siracusa Francesco Paolo Giordano: dipingevano le Ong come complici degli scafisti, un teorema crollato anche nelle aule di giustizia. Le sue ultime indagini puntavano a sgominare la rotta greco-turca delle barche a vela: 35-70 persone a 5.000 euro a testa, organizzazione turca e scafisti russi, georgiani, ucraini capaci di arrivare sulle coste inglesi.
Ma il Gicic chiuse il 15 dicembre 2018 «per una forte contrazione degli sbarchi» e «per questioni burocratiche». Parini passò all’ufficio Polizia amministrativa e so-
ciale della Questura. Oggi ogni provincia affida le indagini alla sua Squadra mobile, ma ci sono i turni e capita che il filo investigativo tra lo sbarco di ieri e quello di domani si rompa. «Europol processava tutti i nostri dati, sicuramente sono andati anche alla Mobile, ma mi hanno detto che il nostro archivio non esiste più, non si sa che fine abbia fatto. La stanza fu subito smobilitata». Stanza e scrivania che i giornalisti amavano descrivere. «Se qualcuno mi dicesse: vuoi venire a collaborare anche gratis alla Direzione centrale Immigrazione per inquadrare l’intera situazione? Lo farei con tutto il cuore». Per lui continua a mancare lo «studio» del fenomeno. Imparare che i confini sono contingenze. «L’ho ereditato da mia madre, Carmela Privitera. Era una cantante e nel 1958 è stata a Sanremo. Una donna eclettica, che ha girato il mondo».
Reza ha 25 anni ed è uno spettro d’uomo nel gelo bosniaco. È afgano di etnia hazara. La sua famiglia è stata sterminata dai talebani quando lui aveva 12 anni. È arrivato a Lesbo in gommone. Dalla Grecia ha attraversato frontiere su frontiere, Albania, Kosovo, Serbia, per finire bloccato in Bosnia, ai confini d’Europa, senza nessuna assistenza, trovando riparo in una fabbrica abbandonata. Ha tentato più volte il «Game», la «lotteria», il passaggio del confine croato per arrivare a Trieste: approdo agognato della rotta balcanica.
Come tutti, ha sperimentato la paura delle mine antiuomo disseminate nel terreno dai tempi del conflitto serbo-croato e la violenza inaudita della polizia croata che picchia duro soprattutto sulle gambe, per spezzarle. Un Paese dell’Ue pagato dall’Ue per respin-
gere i profughi fuori dalla comunità europea: 7 milioni di euro all’anno per il pattugliamento delle frontiere più 300 mila, ipocrisia nell’ipocrisia, per il rispetto dei diritti umani… La linea dura con cui la Croazia si è guadagnata l’ingresso nell’area Schengen.
E leggendo il libro inchiesta di Valerio Nicolosi, “Il gioco sporco” (Rizzoli, 2023) – che segue in gran parte la rotta balcanica, la più battuta da afgani, siriani, iracheni, curdi, ma la meno documentata – si ha la sensazione di assistere a un cinico videogame lungo le frontiere d’Europa. Dove l’Ue erige le mura della sua fortezza, con fiumi di denaro per i respingimenti della polizia croata, divenuta la «Gendarmeria di Bruxelles», o per ricompensare il dittatore Recep Tayyip Erdogan e fermare i profughi in Turchia, come accaduto con gli accordi del 2016. Atto di nascita della «esternalizzazione» delle frontiere, cui sono seguiti nel 2017 gli accordi con la Libia. In entrambi i casi, con il tacito riconoscimento dell’uso di ogni mezzo.
Per non dire della frontiera lungo il fiume Evros tra Grecia e Turchia, divenuta nel febbraio del 2020 una
Unica in Europa, la task force combatteva la rete dei trafficanti come la mafia. Ma le informazioni raccolte sono state disperse. E a farsi carico dei naufraghi oggi sono le Ong
Evelina SantangeloLa rotta balcanica
trappola per i profughi spinti dalle forze turche contro il confine e respinti dalla polizia greca con un imponente spiegamento di forze, granate stordenti, lacrimogeni. E questo perché Erdogan aveva deciso di usare i migranti come arma di pressione sull’Europa per interessi geopolitici. Un inferno, quello della frontiera dell’Evros, che Ursula von der Leyen ha candidamente definito «lo scudo d’Europa», come se davvero si stesse giocando a un videogame dove c’è una fortezza da difendere con ogni mezzo: che siano muri di filo spinato, accordi con governi terzi o campi concepiti con una logica detentiva. Come quello di Moria in Grecia, il più grande d’Europa, pensato per tremila persone ma che nel 2020 ne conteneva 20 mila sotto la bandiera dell’Ue. E sempre quella bandiera che dovrebbe essere garanzia di diritti (l’Europa è Nobel per la Pace) sventola nei campi bosniaci: la «Jungle» di Vučjak, il centro di Lipa, una cattedrale nel deserto
Carlo Parini, nel 2017, raccoglie la testimonianza di un migrante al porto di Augusta
edificata su un altopiano lontano da tutto perché gli occhi non vedano.
In mezzo a tutto questo spiegamento di forze, accordi, parole mistificatorie, schiacciati tra le mura materiali e immateriali della Fortezza d’Europa, non ci sono però giocatori virtuali impegnati a superare livelli di difficoltà: c’è un’umanità che ha fatto pure 7.000 chilometri a piedi pur di avere un futuro. Ci sono bambini come Jana, curda irachena, che canta il suo «Europe, we are coming» dirigendosi tra le mine antiuomo con la sua famiglia verso il confine croato per l’ennesima volta. C’è un uomo che piange sui resti della sua misera tenda nel campo di Moria distrutto da un incendio. E c’è un paradosso: la capacità di accoglienza efficiente messa in atto dinanzi a un’ondata migratoria mai vista, 5 milioni di ucraini arrivati alle frontiere d’Europa in appena quattro mesi. La prova che un modo diverso è possibile.
In democrazia non possono essere tutti uguali. Non funzionerebbe. Ci devono essere politiche economiche e visioni differenti su cui confrontarsi. Che le forze di destra portino avanti politiche liberiste, patriarcali e colonialiste non stupisce: è quello che fanno da sempre (la balla della destra sociale risparmiatecela perché non esiste nella storia economica). Il problema è quando l’agenda liberista viene abbracciata convintamente anche dalle forze che si definiscono di sinistra, progressiste e ambientaliste. Ai cittadini non viene data nessuna alternativa, né speranza nel futuro, mentre, grazie alle scelte fatte dalla po-
litica, in pochi continuano ad arricchirsi nello stesso momento in cui le nostre vite peggiorano minacciate da povertà, guerre e collasso climatico. Monta la rabbia, la disaffezione ed infine lo sconforto a cui segue il «sono tutti uguali». Meloni è capace? Si, di portare avanti l’agenda del liberismo economico. La sinistra, le forze democratiche ed ecologiste sono capaci invece di pensare diversamente dalle destre e contribuire a salvarci dalla catastrofe socio-ambientale e dalla crisi di partecipazione prodotta negli ultimi 15 anni?
Chiunque abbia governato non ha infatti cambiato le drammatiche condizioni sociali della maggioranza dei cittadini. Non c’è da stupirsi se anche nell’ultima tornata elettorale sono aumentate le persone che non votano. È Roma la capitale dell’astensionismo. Solo il 33 per cento si è recato alle urne. C’entra qualcosa il fatto che nel-
la Capitale le disuguaglianze in questi anni siano cresciute a dismisura, come pure il welfare mafioso, le piazze dello spaccio, il numero dei clan, l’inquinamento ambientale, il costo della vita? Se le sinistre e le forze ecologiste non hanno come priorità sconfiggere le disuguaglianze, il lavoro, la salute pubblica, la riconversione ecologica, l’unità della Repubblica, la lotta alle mafie e alla corruzione, la conseguenza è il divorzio dei cittadini dalle istituzioni. Una separazione che lungi dal migliorare la situazione di chi sta peggio finisce per favorire gli stessi responsabili della crisi: le élite da sempre preferiscono una democrazia a bassa intensità.
La crisi della nostra democrazia è conseguenza della fede nel liberismo economico che ha unito in maniera bipartisan le forze politiche. Un errore politico lungo 15 anni con cui non si vuole fare i conti.
Le recenti affermazioni al Nyt del segretario uscente del Pd Letta confermano l’ancoraggio del centrosinistra alle politiche economiche liberiste. Per Letta, come per Bonaccini, la Meloni è stata «migliore di quanto ci aspettassimo sulle questioni economiche e finanziarie, decidendo di seguire le regole di bilancio dell’Unione Europea, a differenza di quanto negli anni aveva detto di fare». Ma sono proprie quelle regole ad aver prodotto la crisi in Italia come in tutta Europa: già è grave rivendicarle, figuriamoci elogiare la destra perché fa la destra. Che la destra quando non governa strilli contro chi lo fa per aizzare il malcontento non stupisce. Così come non sorprende che quando vada al governo la destra faccia la destra, portando avanti misure classiste ed escludenti a vantaggio di pochi. Quello che la nostra democrazia non può più sopportare invece, pena la fine della Repubblica, è l’assenza di forze politiche capaci con le loro proposte e la loro visione di società di rappresentare culturalmente e politicamente una alternativa vera alle destre.
Non c’è da stupirsi che nell’ultima tornata elettorale siano aumentate le persone che non votano
gennaio 1992: Eluana Englaro ha un incidente mentre sta tornando a casa. Ha ventuno anni e non si sveglierà più: è in stato vegetativo persistente. Alcuni anni più tardi il padre Beppino chiede di poter interrompere la nutrizione e l’idratazione, perché Eluana non avrebbe voluto essere tenuta in vita in quelle condizioni, perché non c’è alcuna possibilità di miglioramento, perché i danni sono irreversibili e gravissimi. Ci vorranno dieci anni e un lungo elenco di orrori, forse inarrivabili i riferimenti al «bell’aspetto» e alle mestruazioni. La difficoltà, in casi simili a quello di Englaro, sta nel ricostruire le volontà della persona prima che quelle volontà non possano essere più espresse.
21 settembre 2006: Piergiorgio Welby scrive al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ha la distrofia muscolare e non ce la fa più, vuole morire. «Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su Internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita», scrive. Napolitano gli risponde tre giorni dopo. «Raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile
sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento».
Il confronto non ci sarà, se intendiamo quello politico. Perché la migliore risposta è fare finta di niente. Ci vorranno 88 giorni per esaudire la richiesta legittima di Piergiorgio Welby: staccare il respiratore, cioè interrompere un trattamento.
27 febbraio 2017: Fabiano Antoniani muore in Svizzera. Ha 40 anni, è cieco, tetraplegico, ha dolori intollerabili e spasmi muscolari. Lo ha accompagnato Marco Cappato che poi si denuncerà. Grazie ad Antoniani e a Cappato si arriva alla sentenza della Corte costituzionale del settembre 2019 (di cui si scrive sotto).
22 dicembre 2017: viene approvata la legge 219, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. È una legge che ci permette di decidere per quando non potremo più farlo e ribadisce princìpi già esistenti e costituzionali: in una parola, la nostra autodeterminazione. Una delle parti più importanti è il
comma 5 dell’articolo 1: «Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte […] qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento […] il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici».
25 settembre 2019: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio) in riferimento al caso di Antoniani. Si esclude l’istigazione perché lui ha deciso liberamente e si dichiara incostituzionale il resto «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi […] agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in
“Sei stato felice? Mina e Piero Welby, una lunga storia d’amore” è un podcast, disponibile su Spotify e su tutte le piattaforme, scritto da Chiara Lalli e prodotto da Miyagi Entertainment in collaborazione con l’Associazione Luca Coscioni. Cinque puntate con interviste a Mina e Carla Welby, Marco Cappato, Filomena Gallo, Mario Riccio, Mario Sabatelli, Valeria Imbrogno, Andrea Ridolfi, Laura Santi e Stefano Massoli.
vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».
Bene, ma il requisito del sostegno vitale è ingiusto e insensato perché distingue tra malattie e quindi discrimina le persone.
LA COPPIA SIMBOLO
Mina e Piero Welby, in un’immagine tratta dal loro archivio
Tra il 2019 e oggi, altri decidono di trasformare la loro scelta personale in una decisione pubblica e politica. Perché non è che non si muoia se non lo sappiamo, che non si stacchino macchinari o che non si decida di farsi sedare fino alla eliminazione della coscienza, fino alla morte. La differenza sta tra il farlo e il rivendicarlo, tra la pratica e il diritto.
Federico Carboni (il 16 giugno 2022, dopo due anni di denunce e di mancate risposte, riesce a morire a casa sua) e Fabio Ridolfi (il 13 giugno 2022 decide di farsi sedare perché non ne può più di aspettare, dopo più di 18 anni d’immobilità totale). Elena Altamira (2 agosto 2022), Romano (25 novembre 2022), Massimiliano (8 dicembre 2022) e Paola (8 febbraio 2023): tutti vanno in Svizzera perché non rientrano in senso stretto in quel requisito che la Corte ha stabilito come necessario per far sì che aiutare qualcuno a morire non si configuri come un reato. Accompagnare Elena, Romano, Massimiliano e Paola è disobbedienza civile e la denuncia ha l’intento di sottolineare l’ingiustizia del requisito del sostengo vitale, meccanico, cioè come un macchinario e non anche un trattamento farmacologico o sanitario o un altro tipo di assistenza manuale ma necessaria. Nel frattempo, il Parlamento rimanda e s’incarta.
ominciò con una perquisizione. Un gruppo di agenti federali che bussano a una porta, un mattino del 1993, in cerca di un deposito di armi possedute illegalmente. O meglio, cominciò con un’enorme quantità di armi accumulate in una fattoria su una collina. O forse è ancora meglio dire che cominciò con decine e decine di persone, membri di una setta cristiana, che si sentivano minacciate. Si preparavano a uno scontro biblico con le forze di Babilonia.
Quanto successe nei dintorni di Waco, in Texas, non è solo una storia di trent’anni fa. È un punto d’incontro tra elementi attualissimi, temi sensibili del nostro presente: la paura della cospirazione e l’ossessione statunitense per le armi. C’è anche la gestione sbagliata della forza da parte dell’autorità, ma per essere attuale avrebbe dovuto rivolgersi contro gli afroamericani. Invece i davidiani erano bianchi, facevano vita comunitaria in Texas e prendevano le mosse dalla Chiesa cristiana avventista del settimo giorno. Il nome derivava da David d’Israele, il movimento si era costituito nel 1955 e il suo quartier generale era il Mount Carmel Center, una proprietà di circa 30 ettari. E con il nome di David Koresh, un carismatico predicatore, leader del movimento da alcuni anni, è rimasto nella Storia attraverso questa storia.
Dunque, una squadra di agenti federali si presenta alla fattoria con un mandato di perquisizione per rinvenire armi e sostanze esplosive. Si pensa che la setta abbia messo su un vero e proprio arsenale. Koresh, d’al-
tronde, profetizza l’imminenza della fine del mondo e invita a tenersi pronti a una battaglia finale. Poche ore prima, il giornale locale Waco Tribune-Herald ha pubblicato un’inchiesta sulla pedofilia all’interno del centro. È il 28 febbraio 1993, da poche settimane Bill Clinton è il nuovo presidente in carica. La perquisizione dei federali si trasforma in una sparatoria e restano uccisi quattro agenti e sei davidiani. I seguaci del culto, uomini e donne di ogni età, sotto la guida spirituale e materiale di Koresh, si barricano nella fattoria. Sono verosimilmente 119 persone e tra loro ci sono bambini. Ha inizio un assedio che durerà quasi due mesi.
Il Mount Carmel Center è circondato, l’Fbi taglia qualunque via di fuga. Qualcosa come 600 agenti vengono impiegati nell’operazione. Intorno al ranch volano elicotteri, si dispiegano mezzi pesanti, addirittura carri armati. È coinvolta anche l’unità d’élite antiterroristica della Delta Force. Il mondo intero segue l’assedio, per lunghe settimane, attraverso le cronache dei giornali e le immagini televisive. Si susseguono confronti tra i rappresentanti del governo e Koresh, si tratta: 35 persone vengono fatte usci-
l’Fbi circonda una comunità di davidiani vicino alla città texana. Cerca armi. L’assedio termina ad aprile con una carneficina.
E alimenta ancora oggi complottismi
re, ma altre 84 restano asserragliate. I giorni passano, la situazione rimane in stallo, la resa dei davidiani non arriva. Il clima è sempre più teso. Poi, il 19 aprile, la negoziazione viene considerata fallita e la donna a capo del dipartimento di Giustizia, Janet Reno, dà ordine di intervenire.
Ciò che accade nelle ore seguenti non smetterà di animare le fantasie antigovernative negli Stati Uniti fino al nostro presente. I fatti di Waco verranno presi come una dimostrazione della fondatezza delle teorie cospirative. Diventeranno un simbolo del conflitto tra la libertà individuale e lo Stato, il potere, il sistema. L’esempio principale si darà nel 1995, quando l’ex militare Timothy McVeigh farà saltare in aria un edificio federale a Oklahoma City, uccidendo 168 persone. Durante il processo, McVeigh spiegherà il rapporto della sua azione con i fatti di Waco, aggiungendo: «Abbiamo restituito al governo quello che ci aveva dato».
Nel 2021, il giovane statunitense Fi Duong, vicino a movimenti di ultradestra, verrà arrestato in seguito all’assalto a Capitol Hill e trovato in possesso di Ak-47, pistole e materiale esplosivo. Secondo il dipartimento di Giustizia, Duong è tormentato
LA DISTRUZIONE
Il Mount Carmel Center, vicino a Waco, in Texas, dopo l’incendio scoppiato durante gli scontri con l’Fbi. A destra, alcuni davidiani usciti dall’assedio e arrestati
dall’ipotesi di una stretta sulle armi private da parte della presidenza Biden. Sempre secondo il dipartimento, Duong ha confidato a un informatore sotto copertura che se la polizia avesse provato a togliergli le armi, casa sua sarebbe diventata una nuova Waco. I davidiani non resteranno i soli, insomma, a identificare le forze di Babilonia con lo Stato che irrompe nella loro proprietà.
L’assedio si conclude nel fuoco, il 19 aprile 1993. I federali intervengono con gas lacrimogeno, ma in quantità evidentemente eccessive: il Mount Carmel Center si incendia. Molti cospirazionisti non vedranno un errore, ma una volontà. Nodi di fumo si sollevano nella giornata fredda e ventosa, esplodono edifici. Ciò che succede all’interno non verrà mai chiarito del tutto. In ogni caso è una strage: i sopravvissuti sono appena nove e a restare uccisi sono in 75, tra i quali Koresh. All’interno del ranch sono rinvenute centinaia di armi, compresi Ak-47 e munizioni anticarro. Di certo, in molti muoiono nel fuoco e altri si sparano per andare più rapidamente incontro alla morte. Uno dei superstiti dichiarerà a Time che a sparare sono stati anche i federali, entrati nella fattoria incendiata, ma l’Fbi negherà sempre. Forse è qui il seme più resistente tra quelli piantati sulla collina vicino a Waco. Nella sospensione tra l’approccio critico alla versione ufficiale e la sospettosità da disturbo paranoide. Una sospensione che spesso ha un sapore metallico, negli Stati Uniti, dove oggi il numero di armi in circolazione è superiore a quello degli abitanti.
Abusi nelle Rsa, sempre più care. Assistenza a domicilio, praticamente zero. Restano le famiglie e, per chi può permettersele, le badanti, a costi in crescita. Il calvario degli anziani fragili
Soli, stesi in un letto a fissare il soffitto con addosso lo stesso stracolmo pannolone. L’abbandono e la trascuratezza igienica sono il sottofondo di una sinfonia di degrado e irregolarità - fatta di abusi, urla, farmaci scaduti, soprusi di varia natura -, registrata dagli ispettori dei Nas in una recente indagine condotta su 607 residenze sociosanitarie per anziani, Rsa: irregolare una su quattro, sei sono state chiuse. Contemporaneamente le intercettazioni ambientali alla Rsa Don Uva di Foggia mettono in luce abusi e violenze su anziani indifesi, molti affetti da demenza: percosse, minacce del tipo «Ti infilo il coltello in gola», «Ti sparo», quotidiane molestie anche sessuali sui pazienti. E a Latina, la Procura di Velletri ha scoperto che la titolare di una Residenza Sanitaria Assistenziale, approfittando dell'infermità mentale di alcuni, riscuoteva per loro la pensione.
La terza età, per chi l’affronta non esattamente nel pieno delle proprie capacità fisiche e mentali, rischia di essere un calvario, per sé e per i “caregiver”, cioè per chi sta loro accanto. Nel silenzio più totale. Perché il tema fa rumore quando arrivano i Carabinieri a svelare maltrattamenti in casa di riposo, per poi scomparire dai radar, confinando l’argomento alle titaniche fatiche famigliari. Eppure il tema dei grandi anziani riguarda un terzo degli over 65, cioè 3,9 milioni di italiani non autosufficienti, e interessa il 17,4 per cento della popolazione, cioè otto milioni e mezzo di persone: tanti quanti sono i caregiver. Tocca anche 1,12 milioni di badanti, in crescita dell’11 per cento nell'ultimo biennio, la metà in nero: sono il più numeroso esercito di cura in Italia, essendo il doppio dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale (600mila fra medici e infermieri). La silver age, l’età d’argento, è anche un grosso problema per gli ospedali, spiega Giovanni Migliore, direttore generale del Policlinico di Bari e presidente della Fiaso, Federazione delle Aziende Sanitarie Ospedaliere: «Qui al Policlinico, a fronte di una media di 70 ricoveri al giorno, non riusciamo a dimetterne quaranta perché manca l’assistenza domiciliare. Sono anziani che restano in carico all’ospe-
RITROVO
La sala comune di una Rsa di Piacenza. I costi dei ricoveri sono in aumento
dale perché manca un tessuto sociale, fatto di assistenti, operatori, strutture residenziali, centri diurni e cure domiciliari, verso cui indirizzare queste persone. Ciò incide negativamente sul boarding, cioè favorisce l’allungamento dell’attesa per un posto letto in reparto», che può arrivare anche a cinque giorni. Lo conferma la Fadoi, Federazione dei Medici Internisti, secondo cui ogni anno sono due milioni le giornate di degenza ospedaliera che si potrebbero evitare se i grandi anziani fossero assistiti altrove, con un risparmio per le casse pubbliche di 1,5 miliardi.
I dati pubblicati la settimana scorsa dall'Osservatorio Long Term Care dell'Università Bocconi scattano una fotografia impietosa del livello di disattenzione verso il fenomeno: lo 0,6 per cento degli anziani fragili si rivolge a un centro diurno e negli ultimi due anni, complice la pandemia, il loro numero si è ridotto del 24 per cento; un altro 6,3 per cento ha trovato risposta nelle case di riposo ma, anche in questo caso, gli assistiti sono diminuiti del 12 per cento; un quinto dei non autosufficienti viene curato a casa, attraverso l’assistenza domiciliare, che tuttavia offre non più di due visite al mese. E la gran parte del lavoro di cura è sulle spalle delle badanti.
Per quanto riguarda le residenze per anziani, se da un lato i famigliari lamentano aumenti delle rette da capogiro, più 15 euro al
Irregolare una Residenza su quattro. Dalle indagini emergono maltrattamenti, minacce, violenze.
A Latina il titolare di una struttura si appropriava della pensione dei ricoverati
giorno per una media di 111 euro al dì (ma circa metà della tariffa è coperta dalla Regione), i gestori sostengono di lavorare in perdita, perché i pazienti sono sempre più anziani e gravi, perché il personale è in fuga e chi resta pretende aumenti salariali, mentre le bollette del gas zavorrano i fatturati, al punto che ogni settimana chiude una Rsa, riducendo ulteriormente il numero di posti letto, che oggi sono 19 ogni mille over 75, la metà della media europea.
Sul fronte badanti, c’è il problema di ridurre il ricorso al lavoro nero, reso ancora più appetibile dal recente aumento dei minimi contributivi stabiliti dall’Inps. Per far fronte all’inflazione, una circolare dell’Istituto previdenziale ha comunicato alle famiglie che gli stipendi dei lavoratori domestici devono aumentare dell’8,1 per cento, più dell’adeguamento pensionistico. Da tempo Andrea Zini, presidente dell’Associazione dei datori di lavoro domestico, rivendica il diritto ad agevolazioni fiscali che, se applicate, convincerebbero molte famiglie a regolarizzare il proprio collaboratore. Tuttavia nel mare magnum delle detrazioni sembra non esserci posto per le badanti, forse perché la nave delle agevolazioni è già piuttosto carica (di lobbisti): lo scorso anno sono stati censiti ben 626 provvedimenti per un costo erariale di 128 miliardi. «Manca la volontà di un riordino complessivo delle detrazioni, non è giusto tagliarci fuori», de-
450
EURO AL MESE
È l’aumento delle rette delle case di riposo, che in media costano 111 euro al giorno
MILIONI
Il totale degli anziani non autosufficienti
MILIONI
I caregiver italiani
MILIONI
Le giornate di degenza ospedaliera che si potrebbero risparmiare se ci fosse un’adeguata assistenza per gli anziani
MILIARDI
L’ANNO
Il costo di una riforma della non autosufficienza
MILIONI
Le badanti in Italia, di cui oltre 600 mila irregolari
3,9 1,12 8,5 9
nuncia Zini, che fa notare come la partita delle badanti sia praticamente assente dallo schema di legge delega approvato a fine gennaio dal governo Meloni sulla Non Autosufficienza, che in larga parte ricalca quello già approvato dal governo Draghi: «È un grave sbaglio, perché il 97 per cento della gestione della non autosufficienza è domiciliare». Il rapporto Domina dice che grazie a una spesa famigliare di quindici miliardi l’anno per le badanti - di cui sette pagati cash -, le casse pubbliche risparmiano ogni anno 10,1 miliardi di euro, «ovvero l’importo di cui lo Stato dovrebbe farsi carico se gli anziani accuditi in casa venissero ricoverati in struttura», per altro sorvolando sull’incapacità del Servizio Sanitario Nazionale di garantire una cura universale e gratuita a tutti: già oggi lo Stato spende circa 21 miliardi di euro per gli anziani e, volendo rispondere appieno ai bisogni dei più fragili, dovrebbe sganciarne altri nove.
Al contrario la riforma disegnata dalla viceministra al Lavoro e alle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci, è a costo zero e usa le parole «razionalizzazione» e «vincoli di assunzione», lasciando presagire un contenimento delle risorse e il malcelato intento di soddisfare quanti pensano che sulla terza età si riversano troppi quattrini: nulla di più sbagliato, perché nelle tasche degli anziani più fragili finiscono solo le briciole, ovvero i 527 euro dell’assegno di accompagnamento, per un totale di 13 miliardi, che coprono il 70 per cento dei costi sociali per la Long Term Care e sono meno di un decimo dei 131 miliardi che ogni anno lo Stato versa all’Inps per le spese assistenziali. Per di più, conquistare l’indennità di accompagnamento può diventare una caccia al tesoro visto che serve passare attraverso quattro commissioni di valutazione - Inps, Regione, Asl e Comune - e la probabilità di accettazione varia a
seconda dell’area geografica. «L’innovazione più importante della riforma, che recepisce molte delle indicazioni della società civile e va nella giusta direzione, è il sistema di Accesso Unico, che prevede una sola valutazione, uguale per tutti», dice Cristiano Gori, coordinatore del Patto per la Non Autosufficienza, network di 57 realtà a contatto con questo mondo, che continua: «Il secondo importante obiettivo è l’introduzione di una prestazione progressiva e universale, che sostituisca i 527 euro dell’assegno di accompagnamento con i servizi utili alla persona». Insomma, meno soldi in tasca, ma più assistenza concreta. Ma per fare questo serve spingere forte sull’assistenza domiciliare e sulla capacità di comuni, Asl e residenze diurne di rispondere ai bisogni dei tre milioni di cittadini che chiedono di essere curati a casa: «Il Pnrr mette 2,7 miliardi per l’assistenza domiciliare, da usare soprattutto per l’assunzione di personale, con l’obiettivo di raggiungere una platea di 1,6 milioni di assistiti. Ma attenzione, il 60 per cento di quelle persone riceve una sola visita al mese, il 20 per cento tre controlli mensili. Sono una goccia nel mare», dice il geriatra Paolo Da Col. Insomma, nonostante tutte quelle risorse, qualcosa potrebbe andare storto perché c’è il rischio, come spiega Gori, «che mentre il Pnrr esercita una pressione enorme sulle Asl e sugli infermieri per raggiungere un numero altissimo di anziani, offrendo comunque un servizio estemporaneo, a Roma si scriva una bella riforma del welfare, con zero risorse, e quindi incapace di modificare lo stato delle cose». Non basterà dirottare più risorse su questo settore, bisognerà anche inventarsi nuovi servizi e soprattutto puntare sull’innovazione e la tecnologia per ridurre i costi, che continueranno inesorabilmente a crescere. Perché a causa della bassa natalità l'Italia sta invecchiando velocemente: tra vent’anni gli anziani saranno 19 milioni, il 34 per cento della popolazione, e gli over sessantacinque saranno 293 per ogni bambino con meno di 15 anni.
3. Continua
La riforma del governo prevede servizi al posto dell’assegno di accompagnamento.
Ma per attuarla servirebbero massicce assunzioni di personale, che invece non sono all’orizzonte
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L’authority Arera dovrebbe tutelare i consumatori nel settore dell’energia. Specie dopo gli ultimi rincari. Ma sembra molto più sensibile agli interessi delle imprese.
Ed è lottizzata dai partiti
Quando arriva la bolletta della luce o del gas le prime maledizioni sono per chi l’ha mandata. Ovvio. A uno sguardo più approfondito, però, i destinatari dei cattivi pensieri si moltiplicano. Scopriamo, per esempio, che paghiamo l’Iva sulle accise, cioè una tassa sulla tassa. Che un bel po’ di soldi se ne vanno ancora per il problema mai risolto delle scorie nucleari. Che paghiamo la corrente per fa marciare i treni. E molto, ma molto di più, per le energie rinnovabili che in teoria non dovrebbero costare nulla.
Scopriamo pure che gli investimenti delle compagnie elettriche e del gas sono remunerati con tassi d’interesse di circa il 6 per cento netto: rendita finanziaria pura e assurda che ha il solo scopo di gonfiare gli utili delle aziende.
Molte colpe, tipo la follia della tassa sulla tassa, sono statali. Ma il dettaglio di quel 6 per cento netto apre uno scenario sconosciuto alla stragrande maggioranza degli utenti, tirando in ballo altre grosse responsabilità. Quanti sanno che la bolletta, compresa quell’insensata rendita a solo vantaggio delle imprese, è frutto delle decisioni di un’autorità indipendente finanziata dalle stesse imprese?
Si chiama Arera e ha competenze sull’energia, ma anche sull’acqua e i rifiuti. Ha 246 dipendenti e secondo le previsioni 2023 spende per il personale 53,8 milioni, che fa 219 mila euro a cranio. Un botto. Occupa una sede a Milano dove pagano un affitto di 2,1 milioni l’anno pur avendo la proprietà di uno stabile comprato nel 2015 per la bellezza di 42 milioni. Da allora sono riusciti a sistemarne solo un piano. In otto anni.
La legge gli assegna in teoria poteri enormi di «regolazione» di questi settori. Tradotto, è lo sceriffo che deve difendere gli utenti dai possibili soprusi delle aziende e degli operatori. Ma questo sceriffo spara soltanto a salve.
Nella scorsa primavera il profumo della speculazione è già intenso. Così intenso da indurre il governo Draghi a tassare gli extraprofitti. Investita del problema, dopo
PRESIDENTE
La centrale elettrica di Genova. A destra: il presidente di Arera
Stefano Besseghini30 pagine di dissertazioni tecniche fumose e incomprensibili per i non addetti ai lavori, l’Arera sforna una risposta disarmante. «Il tema va affrontato con un approccio più ampio, considerando anche tutti i costi e i margini che si generano lungo la filiera e che ricadono, in ultima analisi, sui consumatori finali». Amen.
L’episodio dice tutto. Fra i poteri dell’Arera c’è anche quello di segnalare al governo e al parlamento le cose che non vanno. Per farle cambiare. E di faccende da chiarire ce ne sarebbero eccome. Perché nel momento delicatissimo del passaggio della stragrande maggioranza delle utenze al libero mercato, i prezzi dell’energia offerti dai vari operatori salgono mentre i costi delle materie prima finalmente scendono, e questo nonostante ci siano centinaia di offerte? Perché i distributori di luce e gas continuano ad avere margini operativi lordi stratosferici prossimi al 70 per cento? Come mai non si interviene sulle rendite finanziarie delle imprese? Perché
L’authority ha 246 dipendenti e spende per il personale 53,8 milioni.
A Milano paga un affitto di 2,1 milioni l’anno. Anche se possiede uno stabile comprato nel 2015 per la bellezza di 42 milioni
non si mette ordine negli oneri di sistema che fanno salire in modo ingiustificato le tariffe?
Domande, queste come altre, che restano senza risposta. Senza dire degli altri settori, l’acqua e i rifiuti. Dove il silenzio è d’oro.
Ma non era questo l’obiettivo della legge che nel 1995 ha istituito l’autorità. Il fatto è che da un decennio questa authority ha subito la stessa sorte degli altri organismi indipendenti nati a partire dagli anni Novanta. Enti creati per tutelare i consumatori dai rischi delle liberalizzazioni, trasformati in terreno di spartizione dei partiti. In barba pure al rispetto delle regole. Basta dire che ben tre dei cinque commissari collocati al vertice dell’Arera dal governo grillo-leghista nell’agosto 2018 sono ai limiti dell’incompatibilità. In base al decreto legislativo 39 del 2013 chi assume incarichi in un’authority non dovrebbe aver svolto nei due anni precedenti attività in campi regolati dalla medesima autorità. Invece, al
momento della nomina, il presidente Stefano Besseghini voluto alla Lega salviniana era presidente della Ala srl, società di smaltimento rifiuti di alcuni comuni lombardi. Andrea Guerrini, voluto dai grillini, presidente dell’Azienda dei servizi ambientali di Livorno. L’ex deputato di An ed ex sottosegretario del governo Berlusconi, Stefano Saglia, addirittura consigliere di Terna. Mentre solo i restanti due componenti risultavano in regola con la normativa. Gianni Castelli (in passato segretario politico della Lega a Milano) ha lasciato nel 2008 il consiglio dell’Agam Monza. E Clara Poletti (indicata dal Pd) non ha mai avuto incarichi in aziende sottoposte alla regolazione dell’Arera.
La vigilanza sulle incompatibilità spetta all’Anticorruzione. Ma tant’è. Adesso anche l’Anac è spartita e nessuno a queste sciocchezze fa più caso. La politica ormai è padrona incontrastata anche delle authority. E poco importa se qualcuno lì dentro storce il naso perché Besseghini assume come consigliera personale l’ex assessora Pdl di San Donato Milanese Ilaria Amè, ora di fede leghista. Per poi nominarla vicedirettore alle relazioni esterne: in una direzione di dieci persone che ha un direttore, due vicedirettori, due funzionari, quattro impiegati. E una segretaria.
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EUGENIO OCCORSIO
Quelli erano tempi, l’epoca del “popolo dei Bot”. A fine 1998, vigilia dell’introduzione dell’euro nella contabilità nazionale, il 33,2% del debito pubblico era in possesso dei privati. A metà 2010 si era scesi al 17,4% e nel 2022 all’8%. Però le capacità di risparmio sono aumentate negli anni della pandemia (anche se come dice il governatore Ignazio Visco, «gli andamenti aggregati nascondono una notevole eterogeneità»): è tempo che le famiglie italiane si reimpossessino del debito pubblico. Chi meglio di un governo sovranista poteva architettare un’idea del genere? È quanto sta accadendo: i tecnici del Tesoro stanno lavorano alacremente per introdurre un «nuovo strumento finanziario», come lo definiscono, in grado di ricondurre alla platea domestica una quota maggiore della montagna di Bot, Btp e simili che permette al nostro Paese di andare avanti. I lavori sono molto avanzati: fra maggio e giugno arriverà la nuova emissione. Sarà, a quanto trapela dal-
le stanze di via XX Settembre, un’emissione «importante», proporzionata alla circostanza che, venuto meno l’ombrello della Bce (la quale ha smesso di acquistare titoli a metà 2022 e sta cominciando a vendere quelli che ha in portafoglio), nel corso di quest’anno lo Stato deve raccogliere sul mercato quasi 400 miliardi fra il rifinanziamento dei buo-
ni in scadenza e l’emissione di nuovi per almeno 70-80 miliardi. Il tutto su un debito che ormai sfiora i 3000 miliardi. «Si tratta di creare all’interno del parco titoli una sorta di isola protetta riservata agli italiani, presumendo che questi siano meno propensi a venderli in caso di crisi da spread, operazione tutt’altro che semplice e in forte odore di eccezione europea», obietta Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui conti pubblici fondato da Carlo Cottarelli. Ma la premier Giorgia Meloni va diritta verso l’obiettivo, come ha confermato all’inizio di febbraio: «Vogliamo ridurre la dipendenza dai creditori stranieri». E il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, torna spesso sul punto a partire dal suo primo intervento alla Giornata del risparmio il 31 ottobre: «Si deve aumentare il numero di italiani che detengono quote di debito».
C’è però da fare i conti con l’Ue. «Non è il caso di aprire l’ennesimo contenzioso con la Commissione, quale sarebbe inevitabile
Già con la prossima emissione il governo vorrebbe aumentare la quota di titoli di Stato posseduta da italiani. Ma ogni progetto rischia di scontrarsi con le regole europee. O con quelle del mercato
vista la violazione del principio dell’uguaglianza fra cittadini europei», commenta Andrea Boitani, economista della Cattolica. «Bruxelles ha fatto capire ampiamente di non voler fare sconti al nostro governo, anzi entra sempre più nel merito di questioni apparentemente interne: dalle discussioni sul Pnrr all’eccezione sul reddito di cittadinanza perché viene dato agli stranieri solo dopo una lunga trafila, fino al caso del 110% sul quale ha chiesto un rapporto». Aggiunge Mario Baldassarri, già viceministro all’Economia e oggi presidente dell’Istituto Adriano Olivetti, scuola di formazione fondata da Giorgio Fuà: «Una delle ipotesi è dare un incentivo fiscale sui Btp rispetto alla tassazione già contenuta nel 12,5%. L’unione tributaria, al contrario di quella monetaria, non esiste. Però esistono regole per armonizzare i trattamenti che è difficile aggirare, come dimostrano le eccezioni che già furono mosse ai Pir, strumenti di risparmio che prevedevano benefici fiscali. Ma poi il Tesoro
LA RACCOLTA
Nel 2023 lo Stato deve raccogliere sul mercato quasi 400 miliardi fra rifinanziamento dei buoni in scadenza ed emissione di nuovi per 70-80 miliardi
deve farsi i conti: anche se riuscisse a ridurre ulteriormente il prelievo per i cittadini italiani, e magari a dare un ulteriore incentivo di redditività, danneggerebbe il proprio bilancio. L’equilibrio è difficile da ottenere». Del tutto impraticabile l’altra via pure suggerita: vincoli di portafoglio per banche, assicurazioni e investitori istituzionali perché mantengano una quota di buoni “nostrani”.
L’idea è un’“evoluzione” del Btp Italia, che malgrado il nome qualsiasi cittadino europeo può comprare se non altro sul mercato secondario. È collocato senza asta né spese alla clientela “al dettaglio” (anche via mail o alle Poste con taglio minimo di mille euro), è indicizzato all’inflazione e prevede un “premio di fedeltà” dell’8 per mille se tenuto fino alla scadenza. Il 6 marzo è in programma la nuova emissione: con l’esigenza di non interferirvi si spiega la riservatezza del Tesoro sul titolo “Italia-Italia” (non sarà questo il nome) che sarà emesso in tarda primavera. Il precedente è confortante: i piccoli risparmiatori apprezzano i Btp Italia (al “retail” è andato il 76,9 e il 60,7% delle due emissioni del 2022) e pare che li tengano volentieri nel cassetto: proprio sulla facilità di acquisto sempre più accentuata ci si baserà. Il problema resta far sì che questi «cassettisti» siano italiani (o residenti). Qui
si gioca la sfida di Giorgetti e Meloni. Spiega l’economista Innocenzo Cipolletta: «Bisogna inserire l’ipotesi nel dibattito sul ritorno agli aiuti di Stato, che apre imprevedibili derive. Se la Germania aiuta la Volkswagen rimettendo in discussione i principi-base dell’Unione, non mi stupirei se il governo proponesse di aiutare i risparmiatori nostrani. E se riuscisse ad aprire una contrattazione su questo punto: per questo è importante tenere buoni rapporti nella Ue». Intanto, il 1° marzo l’Istat renderà note le cifre del deficit rivedute secondo le nuove rigorose direttive di Eurostat, che porteranno a un aumento almeno all’8% contro il 5,6% scritto nella Nadef dal governo Meloni subito dopo l’insediamento, soprattutto per colpa del famigerato 110% ora abolito. Più deficit significa più necessità d’indebitarsi, non se ne esce: chiunque siano i destinatari dei titoli, italiani o stranieri.
Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco
Affari vostri Gianfranco FerroniQuesti vini, diciamolo, piacciono», si sentiva dire nei pressi dello stand “La Madeleine”, nel salone delle Fontane dell’Eur, qualche giorno fa a Roma. Massimo D’Alema ci tiene molto alla sua produzione vinicola. Chi si dedica con tutte le sue energie all’azienda di famiglia è la figlia Giulia. Già a Vinitaly era stata notata la sua presenza: Giulia è tornata in Italia dagli Stati Uniti e vanta esperienze lavorative per Diego Della Valle.
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Economista e allievo di Milton Friedman, ministro degli Affari esteri e della Difesa, Antonio Martino a un anno dalla morte verrà ricordato il 28 febbraio a Montecitorio nella sala della Regina dal presidente della Camera Lorenzo Fontana, e poi da Gianni Letta, Raimondo Cubeddu, Guido Stazi e Nicola Porro, moderati da Daniele Capezzone. «Un Paese — diceva Martino – è democratico non se ha un governo, lo è solo se ha un’opposizione».
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Terna porta fortuna. Il gruppo guidato da Stefano Donnarumma e presieduto da Valentina Bosetti ha presentato la nuova edizione del Premio Driving Energy 2023 – Fotografia Contemporanea, il concorso gratuito ideato per promuovere lo sviluppo culturale nazionale e sostenere i nuovi talenti del settore delle immagini. Anche stavolta alla guida della giuria è Marco Delogu, che appena scelto diventò presidente dell’Azienda speciale Palaexpo, sede della mostra delle opere vincitrici. Tra i nuovi giurati, Maria Alicata, Diane Dufour, Andrea Purgatori e Francesco Zanot: chi sarà baciato dalla sorte?
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Sarà un albergo “grandi firme” il nuovo Hilton Rome Eur La Lama di proprietà della Icarus, che già opera con l’Hilton Rome Airport e l’Hilton Garden Inn Rome Airport. Tra le opere create per la struttura che verrà presentata la prossima settimana, i bronzi di Osanna Visconti di Modrone e poi un grande mosaico monumentale realizzato da Marilù Rebecchini per celebrare gli scorci e i monumenti più identificativi della città di Roma. Un omaggio che serve anche a ricordare Salvatore Rebecchini (1891-1977), che fu anche sindaco della città eterna: inaugurò, tra l’altro, il primo tratto della metropolitana di Roma, tra la stazione Termini e l’Eur. ***
Antonio Albanese regista all’Arena di Verona. L’attore ha già firmato spettacoli al Teatro alla Scala di Milano, al Lirico di Cagliari, al Petruzzelli di Bari e al Filarmonico di Verona: “Rigoletto” sarà il suo debutto nell’anfiteatro veronese. Con lui, Juan Guillermo Nova alle scene e Paolo Mazzon alle luci.
come non è mai stato comunicato chi siano di preciso gli investitori che finanziano Goi Energy. La società cipriota è nata solo nell’ottobre dell’anno scorso e a quei giorni risale anche la nomina dell’amministratore delegato Michael Bobrov, manager sudafricano di nascita da tempo attivo in Israele. Bobrov ha tirato le fila della trattativa con i russi ed è anche l’interlocutore delle autorità italiane, chiamate a valutare la vendita di Priolo in base alla legge sul Golden Power. In risposta alle voci che nei giorni scorsi accreditavano sospetti e preoccupazione del governo americano per presunti rapporti di Goi Energy con finanziatori russi, la società cipriota ha anche smentito alcun «tipo di collegamento con la Russia, con aziende russe, con istituzioni russe e con altri soggetti comunque riconducibili alla Russia».
L’IMPIANTO
Una veduta aerea del polo petrolchimico del Siracusano che comprende la raffineria Lukoil di Priolo, in vendita ai ciprioti di Goi Energy
Icolossi russi dell’oro nero. Il gigante multinazionale delle materie prime. L’ombra del Cremlino, le pressioni americane, i giochi di sponda nelle piazze finanziarie offshore. Il controllo della grande raffineria di Priolo, in Sicilia, è al centro di una partita miliardaria di cui non sono ancora chiari fino in fondo regole e giocatori. L’impianto, che vale all’incirca il 20 per cento del petrolio lavorato in Italia, tre settimane fa è stato dichiarato di «interesse strategico nazionale». Un decreto della presidenza del Consiglio impone condizioni precise al compratore, cioè la Goi Energy di Cipro che a metà gennaio ha firmato un’intesa preliminare con il gruppo russo Lukoil, azionista unico della raffineria dal 2013, quando prese il posto della Erg della famiglia Garrone. Il colosso moscovita del petrolio era sbarcato a Priolo nel 2008 rilevando una quota del 49 per cento. Caso vuole che all’epoca il sottosegretario allo Sviluppo economico fosse Adolfo Urso, che anche adesso sta seguendo il dossier per conto del governo come ministro delle Imprese e del Made in Italy. La scalata di Lukoil venne completata cinque anni dopo con un esborso complessivo di circa 2,3 miliardi di euro per il 100 per cento del capitale, secondo quanto comunicato allora. E adesso quanto è pronta a pagare Goi Energy per prendere il controllo della raffineria siciliana? Il prezzo concordato con i venditori non è stato reso noto. Secondo indiscrezioni circolate nelle settimane scorse, Lukoil dovrebbe incassare circa 1,6 miliardi, una somma, quindi, di molto inferiore a quanto a suo tempo versato dai russi alla Erg dei Garrone.
I termini finanziari dell’operazione rimangono comunque ancora riservati, così
Risulta invece fondamentale per il buon esito dell’operazione il ruolo di Trafigura, il colosso del trading di materie prime che si è impegnato a rifornire di greggio la raffineria per poi rivenderne i prodotti. Prima delle sanzioni contro Mosca, Trafigura era diventata uno dei principali partner commerciali delle aziende petrolifere russe. La multinazionale con sede in Svizzera e Singapore è già socia di un’altra raffineria italiana, la Saras della famiglia Moratti, che possiede un grande impianto in Sardegna, in posizione strategica al centro del Mediterraneo. Nell’ottobre del 2020 Trafigura ha comprato una quota del 5 per cento di Saras, intestata a una holding di Malta. Tre anni prima, il 12 per cento di Saras era stato ceduto da Rosneft, il più importante gruppo petrolifero russo, controllato dal Cremlino. Corsi e ricorsi storici tra Mosca e l’Italia, con Trafigura al centro. V.M.
Goi Energy di Cipro nega rapporti con la Russia ma si appresta a chiudere l’acquisto dell’intera raffineria siciliana per 1,6 miliardi. A Lukoil era costata 2,3 Dossier in mano al ministro Urso
Con una robusta dose di fariseismo, si condannano spesso e da più parti le invasioni di campo della politica nello sport e viceversa. Caso recente sono i Mondiali di calcio in Qatar. Si rispolverano frasi fatte sull’indipendenza dello sport, si cita la tregua olimpica e i suoi i valori morali. Come se i due mondi non fossero in realtà interconnessi e non da oggi. E come se non fosse la politica a trasformare gli atleti in vessilli ad uso e consumo di parte.
L’ANNIVERSARIO
Il presidente russo Vladimir Putin: un anno fa l’invasione dell’Ucraina
Almeno in Occidente si va negli ultimi giorni affermando un pensiero unico o quasi a favore dell’esclusione di russi e bielorussi dai Giochi di Parigi 2024. Prova ne sia che il Parlamento Europeo ha appena votato con maggioranza bulgara (444 favorevoli, 26 contrari, 37 astenuti) una risoluzione con cui si invitano «gli Stati membri e la comunità internazionale a esercitare pressioni sul Cio affinché revochi la decisione (di ammettere questi atleti, ndr) e adotti una posizione analoga su ogni altro evento sportivo». Anne Hidalgo, sindaca della capitale francese che ospita l’evento, si è espressa pure in questo senso. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha convocato un summit su Zoom a cui hanno partecipato 37 Paesi (per l’Italia il ministro dello Sport Andrea Abodi) per spingere la linea dell’esclusione e ha raccolto l’impegno di alcuni governi, quello polacco in primis, a immaginare forme di boicottaggio se prevalesse l’idea dell’inclusione. Ne è seguita una lettera al Cio con 34 firme, tra cui quella di Abodi a nome dell’esecutivo Meloni, in cui si chiede una marcia indietro sull’apertura agli atleti russi e bielorussi. Persino il presidente del Coni Giovanni Malagò, peraltro membro del Cio, si è schierato con Palazzo Chigi. Davvero una massiccia invasione di campo sulla quale si può dissentire per motivi pratici oltre che morali. È dubbio che le sanzioni in generale, quando sono state applicate, abbiamo prodotto risultati concreti. È accaduto a Cuba e nella Serbia di Slobodan Milosevic. Analogamente sembra andare in Russia: si chiama eterogenesi dei fini.
I provvedimenti per isolare un Paese dal punto di vista cul-
turale e sportivo sono ancora più inefficaci e persino odiosi. Intanto perché impediscono una circolazione di idee e di uomini, una libertà che dovrebbe esserci cara. E poi perché vanno a colpire indiscriminatamente persone a causa della loro carta d’identità, della loro origine. Sarebbero comprensibili ostracismi mirati contro campioni che si sono schierati con il Cremlino, a favore della guerra di aggressione, non una punizione collettiva. Uno dei motivi addotti per la linea dura chiama in causa lo status di almeno il 70 per cento degli atleti russi che appartengono alle forze armate. Costume diffuso anche in Italia. Si temono, altro argomento, dissidi in pista e in pedana se dovessero incrociarsi i destini di atleti russi (o bielorussi) e ucraini. E se invece, come è già successo, in uno spirito olimpico mondato dagli eccessi della propaganda, fossero proprio gli atleti, abbracciandosi, ad indicare la via a politici e generali? Quella sì sarebbe una benemerita invasione di campo. Per propiziarla servirebbe guardare oltre al cannone come unica possibilità.
ALBERTO STABILE
Il vero obiettivo del Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ormai noto a tutti con l’acronimo MbS, è di fare dell’Arabia Saudita la cerniera, l’hub, di un nuovo ordine mondiale imperniato sulla confluenza d’interessi di due vaste aree geografiche, l’asiatica e l’euro-africana. Lo strumento per attuare questo piano è la stratosferica ricchezza del reame petrolifero, irrobustita dagli effetti nefasti della guerra in Ucraina e dalla conseguente crisi energetica. L’espediente per attrarre consensi e alleanze sui suoi progetti è quello che per gli antichi romani erano i circenses e per i contemporanei sono le planetarie adunate mobilitate dagli sport più popolari.
Tesse alleanze, getta ponti con l’Egitto e la Grecia, firma accordi con il Ciad, e glissa sui diritti umani. Per questo a Mohammed bin Salman servono i Mondiali del 2030
È di questi giorni l’indiscrezione, svelata da Politico.eu, circa il tentativo dei governanti di Ryad di avanzare una candidatura a firma Arabia Saudita, Grecia ed Egitto per i Mondiali di calcio del 2030. La Grecia del premier conservatore Kyriakos Mitsotakis aveva, e ha ancora, i suoi buoni motivi per cercare nell’Arabia Saudita un protettore, più che un alleato, in grado, teoricamente, di bilanciare la pressione esercitata dallaTurchia di RecepTayyip Erdogan non soltanto nella contesa su Cipro, ma anche sulle isole egee. Non a caso Atene è stata la prima e allora unica capitale europea visitata da Mohammed bin Salman quando il principe, accusato dai servizi segreti americani di aver approvato l’agghiacciante omicidio, con sparizione del cadavere, del giorna-
lista oppositore, Jamal Khashoggi (2 Ottobre 2018) era stato di fatto bandito dalla comunità internazionale. Il punto è, però, che l’economia greca appare tuttora in bilico e spesso riaffiorano i fantasmi del passato. Vero è che secondo il progetto saudita, l’operazione Mondiali 2030 sarebbe per Grecia ed Egitto a costo zero (il Fondo sovrano saudita, sopperirebbe alle spese della costruzione degli stadi, ottenendo in cambio di ospitare il 75 per cento delle partite), ma i greci ricordano ancora come le Olimpiadi del 2004, costate oltre 15 miliardi di euro, abbiano tradito tutte le aspettative di crescita.
Quanto all’Egitto, la partecipazione al megaprogetto Mondiali proposta da MbS al presidente Al Sisi, appare in totale contraddizione con la decisione saudita annunciata al Forum di Davos, di interrompere gli aiuti economici al Cairo, da quando, nel luglio-agosto 2013, al Sisi era salito al potere con un colpo di mano contro il presidente eletto, Mohammed Morsi, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani. Adesso, il ruolo dell’alleato egiziano sembra essere quello di un nobile parente decaduto, di cui MbS utilizza prestigio e influenza per guadagnarsi i favori dei Paesi vicini. È di qualche giorno fa la firma di un memorandum di cooperazione milita-
ni di dollari per strappare i migliori giocatori alla tradizionale Pga Tour. Come nel caso di Greg Norman che, in cambio di 300 milioni di dollari, è corso alla guida della LIV Golf.
Presto anche le squadre di calcio saudite, rimpolpate di giocatori stranieri pagati cifre folli e non necessariamente al tramonto come Cristiano Ronaldo (200 milioni di dollari l’anno per cinque anni), o come Lionel Messi al quale sono stati offerti 300 milioni l’anno, ma invano, potranno competere negli stadi di Qiddiyah, il divertimentificio grande 330 chilometri quadrati, che si sta preparando non lontano da Ryad per dare degna ospitalità al Mondiale per Club a 32 squadre voluta dal presidente della Fifa, Gianni Infantino a partire dal 2025.
Magari il Mondiale 2030 non arriverà in tempo. In compenso, bisognerà prepararsi per i giochi asiatici invernali ed estivi del 2034 e per le Olimpiadi del 2036.
re tra l’Arabia Saudita e il Ciad.
Il principe saudita Mohammed bin Salman con il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis
È difficile dire se queste grandi manovre basteranno a rendere credibile l’offerta saudita per i Mondiali 2030. In teoria è molto difficile che otto anni dopo i mondiali del Qatar, la competizione venga assegnata ad un altro Paese del Medio Oriente. Inoltre, appare molto forte la candidatura, appoggiata dalla Uefa di Spagna, Portogallo, Ucraina.
Ma per l’incontentabile principe saudita il 2030 è un anno cruciale. È il termine che si è dato per mettere in pratica la sua Visione del Mondo, (Vision 2030) basata su progetti megagalattici destinati a trasformare non soltanto l’immagine del Paese, ma anche il suo tessuto economico (fine della dipendenza dal petrolio come unica fonte di ricchezza, largo alle energie alternative) e sociale.
Per questo, c’è bisogno di intrattenimento, di sport, di turismo che attraggano investimenti dall’interno e dall’estero, anche a costo di rompere il giocattolo. Come è successo con il golf, diviso tra due associazioni, la LIV Golf League, creata da MbS a suon di centinaia di milio-
Insomma, un luminoso futuro all’insegna delle tre f (feste, farina e forca) con cui Ferdinando di Borbone asseriva di riuscire a governare Napoli, attende i 35 milioni di sauditi. Se MbS avesse impresso alle riforme sociali, alle leggi sul rispetto dei diritti umani e civili lo stesso ritmo travolgente che sta usando per ammodernare il Paese, oggi i suoi progetti non solleverebbero le accuse di sportwashing (come dire: lo sport utilizzato per riciclare la propria immagine compromessa) che sempre sollevano. Perché in tutto questo progettare, costruire, sognare il futuro, gli oppositori continuano a sparire e, secondo Amnesty International, ad essere condannati a pene sempre più severe, spesso soltanto per aver chattato su Tweeter il proprio malcontento.
Il rischio è che la grande spugna del danaro cancelli anche la decenza e il rispetto di sé. E possa ancora capitare in futuro di ascoltare un Greg Norman rispondere a proposito dell’omicidio efferato di Jamal Khashoggi, di cui il principe è ritenuto il mandante, che «a tutti succede di fare degli errori. L’importante è imparare da questi errori e andare avanti».
Cinquecentoventidue. Un numero che Antonietta non dimenticherà. È il carico di nanogrammi di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) presenti nel sangue di suo figlio. Una cifra che supera di 75 volte il limite di tolleranza stabilito dall’Istituto superiore di Sanità. Ottanta sono invece gli euro che Elisabetta spenderebbe se potesse fare le analisi del sangue, a cui non ha diritto perché vive nella zona arancione. Siamo nel Veneto della Miteni, azienda che per anni ha prodotto Pfas — sostanze chimiche persistenti, talmente pericolose che l’Europa ha deciso di chiederne la messa al bando — e che di fatto ha inquinato la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Con conseguenze disastrose per quasi 350 mila abitanti, tanto che la Regione nel 2017 è costretta ad adottare un Piano straordinario di emergenza.
Il territorio tra Verona, Vicenza e Padova viene suddiviso in tre aree in base al rischio sanitario: area rossa, dove sono contaminate sia l’acqua potabile sia le falde acquifere e i fiumi; area arancione, in cui gli acquedotti hanno un livello d’inquinamento inferiore. E gialla, definita per lo più area di osservazione. Vengono posizionati dei filtri a carbone e si predispone la decontaminazione delle fonti di approvvigionamento idrico per la zona rossa, i cui abitanti vengono sottoposti a continue analisi del sangue. Per il resto nulla. Nessun intervento sulle falde, con la cui acqua si irrigano i campi, sui fiumi, sul suolo, sull’aria. Ci si ferma ai “rubinetti” con risultati scarsissimi, che si sommano ai ritardi di una burocrazia elefantiaca tutta italiana. Per cui oggi Antonietta aspetta ancora l’allaccio all’acquedotto pulito ed Elisabetta prova a fare un test dopo che un istituto tedesco ha riscontrato nel sangue di suo figlio livelli di sostanze perfluoroalchiliche uguali
a quelli dei bambini della zona rossa.
Una storia così scandalosa da far scendere in campo le Nazioni Unite che, per bocca di Marcos Orellana, relatore speciale su sostanze tossiche e diritti umani, ha manifestato dalle pagine de L’Espresso «preoccupazione per i cittadini del Veneto». Con conclusioni gravi verso la Miteni e per nulla generose nei confronti delle istituzioni, presentate in sede Onu lo scorso settembre.
LA ZONA ROSSA: ANTONIETTA
Via Lore è una strada stretta che per chilometri costeggia Lonigo, provincia di Vicenza, cuore della zona rossa. L’ultimo tombino che collegherebbe l’acquedotto pulito alla casa di Antonietta dista soltanto 200 metri. «Duecento maledetti metri per cui aspettiamo dal 2014», racconta esasperata. L’anno prima il Consiglio nazionale delle Ricerche aveva trovato nel pozzo della cittadina più di mille nanogrammi per litro di Pfoa — uno dei composti più noti di Pfas — quando l’Iss fissa a 500 il limite tollerabile per l’acqua e a otto per il sangue. Le sostanze perfluoroalchiliche, infatti, possono causare problemi
alla tiroide e al sistema riproduttivo, tumori ai reni e ai testicoli. «Il sindaco di allora decide di chiudere il pozzo e costruire cinque fontanelle pubbliche in attesa di cambiare fonte di approvvigionamento. In realtà, mesi dopo vengono messi filtri utili a ripulire l’acqua e veniamo invitati a bere di nuovo dal rubinetto», continua Antonietta. Ma i cittadini non si fidano e acquistano per anni bancali di acqua in bottiglia. Nel frattempo l’Asl analizza nuovamente l’acqua del pozzo di una delle famiglie di via Lore e i risultati non si discostano di molto da quelli del Cnr. «Ci arriva una comunicazione in cui si vieta l’uso del pozzo e ci viene consigliato di prendere l’acqua alle fontanelle e di allacciarci all’acquedotto decontaminato pagando di tasca nostra. Lo avremmo fatto. Se non fosse che l’allacciamento è un lavoro pubblico da far fare obbligatoriamente dalla società idrica». Una beffa che protrae l’attesa di Antonietta tra scartoffie amministrative e carte bollate. E che diventa dramma di fronte ai primi risultati dello screening sanitario di Yuri, suo figlio, che presenta un livello di Pfoa nel sangue di 522 nanogrammi.
«Cinquecetoventidue», ripete Antonietta. Le cose non vanno meglio per lei, che nel 2019 scopre di superare il limite fissato dall’Iss di 40 volte con un possibile danno ai reni, e per la sorella, reduce da un tumore al seno, i cui livelli toccano i 1.090 nanogrammi. Siamo nel 2021. Via Lore viene inserita finalmente nel piano degli allacciamenti 2022-2023, ma le sostanze perfluoroalchiliche nel sangue di Yuri continuano ad aumentare, nonostante il ragazzo beva solo acqua pulita e faccia una vita sana. Com’è possibile? «Era altamente probabile che ciò accadesse», dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace: «Non si possono lasciare migliaia di cittadini soli in una zona altamente inquinata da Pfas come il Veneto, pensando che il problema sia solo l’acqua potabile. A oggi non esiste un quadro chiaro sulla contaminazione dei prodotti di origine animale e vegetale provenienti dalle zone inquinate». L’associazione ambientalista decide quindi di far analizzare gli ortaggi coltivati nell’orto di Antonietta, l’acqua del suo pozzo e il suo terreno. «I risultati dimostra-
NEL VICENTINO
La confluenza tra canali artificiali e fiumi a Cologna Veneta, provincia di Vicenza, una di quelle interessate dall’inquinamento da Pfas
no come la contaminazione ambientale sia diffusa e storica», spiega Sara Valsecchi, ricercatrice del Cnr secondo cui le famiglie sono esposte continuamente a Pfas. Dall’acqua con cui irrigano al cibo che coltivano, fino al suolo che calpestano. Ed è per questo motivo che a tremare sono anche gli abitanti della zona arancione.
Ripete fino all’ossessione quella cifra: ottanta euro, il costo di un esame del sangue che potrebbe salvarle la vita, ma che in Italia non è previsto nemmeno a pagamento. Elisabetta vive nella terra di mezzo, quella in cui l’acquedotto è relativamente pulito – motivo per cui il Piano straordinario della Regione non prevede screening sanitari per la popolazione – ma non lo è l’ambiente circostante.
«Vivo qui e mi nutro con i prodotti dell’orto da quando sono nata. Da sei anni irrigo i campi con l’acqua piovana e non uso più
quella del pozzo dove è stato trovato un livello di Pfoa di 18 mila nanogrammi al litro. Eppure non ho accesso alla sanità». Un accesso dovuto di fronte a una certezza scientifica: le sostanze perfluoroalchiliche sono mobili e si bioaccumulano. Ogni animale carnivoro, uomo compreso, accumula Pfas nel corso della sua vita dall’aria, dall’acqua e dal cibo a sua volta contaminato in un girone infernale. E non può permettersi il “lusso” di un’esposizione ulteriore. Ma da quando è esploso il caso Miteni nessuno sa con esattezza dove siano queste sostanze perché l’unico parametro preso in considerazione è quello dell’acqua potabile. E gli abitanti della zona arancione sono abbandonati a loro stessi. La scorsa estate una tv tedesca — che indaga sull’inquinamento da Pfas nel mondo — ha sottoposto il figlio di Elisabetta a un’analisi del sangue da cui è emerso che i suoi valori sono uguali a quelli di alcuni coetanei della zona rossa. La
era pure chi aveva pensato di farne il deposito regionale di tutto l’amianto smantellato dai tanti paesi siciliani dove ancora il grigio domina. Biancavilla, località alle pendici di sua maestà l’Etna, in fondo è già contaminata e probabilmente lo sarà per sempre. «Qualche tempo fa era stata pure emanata un’ordinanza con cui s’intimava di evitare di fare lavori all’interno delle case, perché anche piantando un chiodo si poteva respirare la polvere», raccontano i cittadini.
Questa polvere che arriva dalle pareti delle case e da ogni costruzione realizzata a Biancavilla fino al 2000 è la fluoro-edenite, sostanza oggetto di studio la cui dannosità è stata scoperta proprio nel paese etneo.
La spia è stato l’alto tasso di tumori in un luogo dove non c’erano industrie, nessuna fabbrica chimica, nul-
la di nulla. Dalle prime analisi, sembravano tumori alla pleura dovuti all’amianto, ma erano di molto superiori alla media. Il problema, però, non era l’amianto, bensì una fibra simile, totalmente naturale, di origine vulcanica, contenuta nel minerale estratto da una cava che aveva fatto la fortuna delle imprese edili del posto.
La natura, però, si è trasformata da madre in matrigna a Biancavilla: quella cava da cui veniva estratto il materiale con cui è stata costruita gran parte della cittadina — si è scoperto — è cancerogeno. E ha causato centinaia di morti per tumore alla pleura, cinque volte in più rispetto alla media regionale. I dati degli ultimi anni sembrano al ribasso, ma la bonifica promessa non è mai stata completata. Nonostante tutto questo, la popolazione sembra non reagire: «Prima c’era voglia di combattere – spiega Alberto Pistorio, geologo che ha seguito il caso – adesso no. Quando esce una nuova notizia, si accende qualcosa. Poi passa l’attenzione, sia degli abitanti sia delle istituzioni». Nel 2000, anno in cui è iniziata la bonifica, sono stati messi in sicurezza scuole e altri edifi-
C’ QUEL PAESE COSTRUITO CON LA FIBRA-KILLERAlan David Scifo
SENZA ALLACCI
A Lonigo, Vicenza, chi ha pozzi inquinati preleva acqua dalla rete idrica filtrata nelle zone vicine. Sotto, Elisabetta bagna l’orto con l’acqua piovana che conserva nelle taniche
contaminazione sarebbe avvenuta per allattamento. «Ho presentato subito questi dati alla Regione, che solo adesso ha reso pubblica una delibera del 30 dicembre scorso, la quale estende anche a noi la possibilità di fare le analisi, ma con una procedura talmente farraginosa che sarebbe più facile vincere all’Enalotto. Una burla dopo anni di lotte estenuanti». Sarebbe stato diverso se il Piano d’emergenza avesse introdotto un limite ai Pfas anche per l’acqua irrigua. «Perché non è stato fatto? La risposta è semplice: avrebbe messo al tappeto l’economia di un’intera Regione prevalentemente agricola. Meglio tenerci “nascosti” in nome del mercato del radicchio trevigano». Elisabetta, intanto, continua a fare da sola. E il suo giardino è diventato un laboratorio dell’Università di Padova, che sta analizzando suolo, prodotti alimentari, erba.
ci pubblici, oltre alle strade asfaltate con quel materiale che veniva estratto dalla cava. «Un altro discorso riguarda, invece, gli edifici privati, quelli che si conoscono e quelli costruiti fuori Biancavilla».
Nel paese dei veleni la fiorente attività edilizia aveva indotto molti a esportare quel materiale anche fuori città, fuori provincia e fuori regione. L’impeto dell’allarme ha portato poi all’immediata bonifica, ma a non essere mai stata bonificata è rimasta proprio la fonte della fluoro-edenite: la cava di monte Calvario, un nome profetico che indica bene ciò che hanno passato le tante famiglie alle prese con più di un tumore per casa.
Nei pressi di quella cava oggi pascolano le pecore, mentre d’estate tutto viene incendiato per far spazio a nuova erba con cui dar da mangiare agli animali. Poco più in là ragazzi giocano con le bici sollevando polvere oppure danno calci a un pallone, come fanno tutti i bambini. Ma in un posto in cui ogni frammento di fibra potrebbe portare a un mesotelioma: «Il problema non è soltanto la cava – spiega ancora Pistorio
– da lì, se non viene estratto nulla, non si solleva polvere. Il problema è legato alle aree circostanti: le zone esterne alla cava sono vicine al centro abitato e non sono state mai bonificate. Credo che, ancor più che bonificare queste zone, sia importante metterle in sicurezza ed evitare che arrivino lì le persone».
Quella grande area doveva diventare un parco urbano, ma ciò non è mai accaduto. «Peggio, quel posto è diventato ricettacolo di inerti – spiega Vincenzo Ventura dell’associazione Symmachia – nel 2017 sono stati stanziati 17 milioni di euro dal governo regionale per completare la bonifica, ma ancora è tutto fermo. Così si continua a morire, anche se la situazione è migliorata». Mentre la politica si risveglia solo in occasione delle elezioni amministrative, a Biancavilla la tutela della salute resta fonte di preoccupazione: «Avevamo un unico punto di riferimento, il medico Marcello Migliore – raccontano i cittadini – ma adesso anche lui è dovuto andare via. Siamo abbandonati». Intanto il male invisibile aleggia su Biancavilla e, a ogni folata di vento, rischia di portare morte.
Nell’area rossa, quella con il maggior rischio sanitario, sono previsti interventi sulle fonti potabili e analisi per gli abitanti. Poi nulla. Ma pure in zona arancione i valori sono oltre i limiti. E non ci sono controlli
Elon Musk la fondò con l’obiettivo di portare l’Umanità su Marte. Era il giugno del 2002 e un magazzino in affitto al 1310 di East Grand Avenue a El Segundo, sobborgo di Los Angeles, divenne la sede della Space exploration technologies corporation, di lì a poco nota al mondo come SpaceX. Nelle intenzioni di Elon Musk, avrebbe dovuto evitare gli sprechi degli appaltatori governativi e, con razzi chiamati come la più iconica delle astronavi di Star Wars, i “Falcon”, sarebbe riuscita a portare in orbita entro la fine del 2003 un carico di 635 chilogrammi a un prezzo di 6,9 milioni di dollari, in un mercato in cui lanciare 250 chili costava almeno 30 milioni.
Se si escludono tre esplosioni e un ritardo di cinque anni –il Falcon arrivò in orbita per la prima volta solo nel 2008 - SpaceX è andata ben oltre quanto si aspettassero tutti (tutti, tranne Musk): oggi, come ha ribadito lo static fire test del 9 di febbraio degli oltre 30 motori che muoveranno la nuova astronave Starship, la compagnia spaziale domina incontrastata il mercato dei lanciatori. E non solo.
Con una valutazione di 137 miliardi di dollari (Cnbc) e dopo un round di investimento che a inizio gennaio ha portato nelle sue casse 750 milioni, l’azienda è un esempio unico nel suo genere. È in grado di gestire l’intera filiera delle missioni spaziali: dalla manifattura di razzi vettore, di veicoli per il trasporto e di satelliti, come quelli della costellazione per la connettività a banda larga Starlink, fino
alla rete di supporto a terra, che assicura la regolare erogazione dei servizi. I lanci sono venduti a una clientela vasta, che comprende sia realtà istituzionali come la Nasa, il governo statunitense e l’Agenzia spaziale europea, sia piccole compagnie, compresi i privati che aspirano a essere astronauti per una decina di giorni.
La posizione dominante è buona parte da attribuire alla gestione di Gwynne Shotwell, la presidente, oltre che chief operating officer, che guida SpaceX schermandola anche dalle sempre più controverse esternazioni di Musk. I successi sono incontestabili: con 10mila dipendenti, l’azienda costruisce quotidianamente diversi Starlink e, nel 2022, ha lanciato un Falcon 9 ogni sei giorni, totalizzando 61 dei 78 lanci complessivi degli Stati Uniti (fonte: Nature). È una frequenza insostenibile per chiunque altro e, fino a pochi anni fa, neanche immaginabile. Eppure è solo l’inizio, perché l’obiettivo del 2023 è di effettuare cento lanci
I ritardi di Bezos e le difficoltà europee fanno della sua Space X la dominatrice incontrastata, in grado di gestire l’intera filiera delle missioni anche per la Nasa. Per il 2023 obiettivo 100 lanci
(solo a gennaio sono stati sette) sfruttando a pieno ritmo le tre rampe della compagnia, sparse tra la California (nella base della Space Force di Vandenberg) e la Florida (a Cape Canaveral, dove SpaceX affitta la piattaforma 39A dalla Nasa e la 40 dalla Space Force). Tutto è gestito dal centro di controllo di Hawthorne, dove l’azienda dispone di due sale controllo indipendenti, capaci di gestire lanci in contemporanea.
Il 5 ottobre dell’anno scorso, SpaceX ha cercato l’ennesimo record: effettuare tre lanci in 31 ore. Il primo, dalla Florida, è stato quello della missione “Crew 5”, deputata a portare sulla Stazione spaziale internazionale (la Iss) quattro astronauti. Sette ore dopo, mentre la prima control room seguiva l’avvicinamento della capsula Crew Dragon endurance alla Iss, la seconda ha gestito il lancio, dalla California, di un Falcon 9 con 52 Starlink a bordo e, una volta rilasciati gli apparati in orbita, ha iniziato i preparativi per il lancio di due satelliti per
collegamenti radiotelevisivi della Intelsat, dall’altra rampa di Cape Canaveral. A 31 ore dalla partenza degli astronauti, nel frattempo arrivati sulla Iss, il terzo decollo è stato rinviato a causa di una piccola perdita di carburante. Record sfumato, ma lancio effettuato con successo due giorni più tardi.
Un’attività simile è resa possibile dal riutilizzo del primo stadio dei razzi, completo di motori, che viene velocemente controllato e preparato per il decollo successivo. Finora il turnover più rapido è stato di 21 giorni e il numero di riusi per un Falcon 9 è arrivato a 15. Gli ingegneri avevano ipotizzato un limite di dieci.
Interessante, in questi termini, solo per gli addetti ai lavori, SpaceX diventa rilevante per chiunque quando si consideri che i suoi meriti procedono di pari passo con i demeriti dei concorrenti, combinati con la delicata situazione geopolitica.
Sul fronte dei lanciatori, il razzo New Glenn di Blue Origin, la compagnia
Elon Musk, nella qualità di ad di Tesla, alla corte federale di New York è stato assolto per le presunte informazioni “false o ingannevoli” sulla privatizzazione
IL DECOLLO
Il razzo SpaceX Falcon 9 che trasporta la navicella spaziale Crew5 Dragon lascia il Kennedy Space Center in Florida il 5 ottobre 2022
dell’altro “space billionaire” Jeff Bezos, è in ritardo, così come l’Ariane 6 dell’Esa. Il panorama europeo non vive un periodo felice: al failure della prima missione commerciale dell’italiano Vega C, lo scorso 21 dicembre, è seguito quello di Virgin Orbit, nel primo tentativo di lancio dal Regno Unito, nella notte fra il 9 e il 10 gennaio.
Sul fronte del trasporto umano, Boeing non è ancora riuscita a fare volare Starliner, lasciando così a SpaceX campo libero per i lanci dal territorio statunitense. Oggi sono le capsule Crew Dragon a portare in orbita gli astronauti della Nasa, quelli delle aziende private e i facoltosi astro-turisti.
La guerra in Ucraina ha frattanto distratto dal mercato (almeno occidentale) i lanciatori russi, in particolare Soyuz e Proton, aprendo un ulteriore varco commerciale. Tanto che SpaceX sta addirittura portando in orbita i satelliti OneWeb, potenziali concorrenti di Starlink, che avrebbero dovuto volare sui Soyuz. Lo stesso è successo e succederà a missioni europee, come per l’imminente lancio del telescopio Euclid dell’Esa.
Anche per quanto riguarda i cargo, Space X ha una marcia in più perché, a differenza delle russe Progress e delle ameri-
cane Cygnus, le sue capsule non bruciano nel rientro in atmosfera e possono riportare a terra il materiale degli esperimenti scientifici.
Oltre a essere responsabile di tre quarti dei lanci americani e di un terzo di quelli mondiali (186 nel 2022), Space X è la compagnia con più satelliti propri in orbita, con oltre 3mila Starlink. Negli ultimi anni, da sola, ha portato nello spazio più apparati di quanti ne siano stati lanciati in decenni dal resto del mondo. Come testimoniato dalla guerra in Ucraina, e già raccontato su queste pagine, gli Starlink sono ormai discriminanti anche nello scenario bellico. Non è un caso che qualche giorno fa il consigliere presidenziale ucraino Mykhailo Podolyak abbia criticato ferocemente il rifiuto, da parte dell’azienda di Musk, di supportare i droni di Kiev: «Non consentiamo usi per scopi offensivi», ha spiegato Shotwell. Non bastasse, SpaceX monopolizza il mercato dei lanci umani statunitensi. Una situazione destinata a rafforzarsi con il nuovo veicolo Starship che, pur non avendo ancora fatto un test orbitale, è già un pilastro del programma Artemis: ne costituirà infatti il lander, cioè il mezzo deputato, da Artemis III nel 2025, a sbarcare gli equipaggi sulla Luna.
Quando ha deciso di affidare a una sola azienda il sistema di allunaggio, la Nasa si è legata mani e piedi a SpaceX. A oggi, il nuovo bando per sviluppare un secondo sistema di allunaggio è ancora aperto e non è da escludere che quando, pochi giorni fa, l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, ha suonato l’allarme circa la possibilità che la Cina arrivi sulla Luna prima degli Stati Uniti, l’intenzione fosse anche di ricordare al Congresso quanto le ambizioni occidentali siano, di fatto, ostaggio delle capacità di una, e una sola, compagnia.
Mentre i piani marziani di Musk possono far sognare o sorridere, che da SpaceXdipendano la gran parte degli accessi allo spazio e gli equilibri del mondo è un fatto. E parecchio più serio.
Foto: J. Watson / AFP via Getty ImagesQuando ha deciso di affidare a una sola azienda il sistema di allunaggio, l’agenzia governativa americana si è legata mani e piedi alla società californiana, consegnandosi ai piani del suo fondatore
“Un
libro è il più potente strumento di marketing per farti conoscere, acquisire autorevolezza e aumentare il numero di clienti”
il papà degli ebook
Meno di un italiano su due ha appreso nozioni utili a districarsi nel mondo della finanza. Una lacuna culturale che si ripercuote sul quotidiano e, più in grande, sulla competitività del Paese. Perciò, lo scorso ottobre, Banca Generali ha lanciato il progetto EduFin 3.0 insieme con Marco Montemagno. Quindici interviste video, realizzate finora, con altrettanti ospiti. I temi affrontati spaziano tra diversi argomenti, tutti nell’ambito dell’educazione finanziaria, e coinvolgono vari manager del settore. Ma non solo.
foglio diversificato al fine di minimizzare i rischi per il risparmiatore. Occorre però tenere presente le difficoltà che i mercati scontano in questo momento storico: tensioni geopolitiche, pandemia, inflazione e volatilità sono i fattori che hanno caratterizzato il 2022, annus horribilis della finanza, e con cui dovremo fare i conti sicuramente anche nella prima parte del 2023.
Diventa allora importante affidarsi a professionisti nella consulenza finanziaria, che sappiano gestire le situazioni più complesse e interpretare al meglio i bisogni e i profili dei clienti. Per tutelarne i risparmi attraverso investimenti, sempre con un occhio di riguardo a sostenibilità e innovazione. È proprio di sostenibilità, nello specifico di social investing, che Montemagno ha parlato con il fondatore e ad di Finer, Nicola Ronchetti, nella terza intervista. Cresce, infatti, l’interesse dei clienti verso l’impatto sociale degli investimenti, al di là del rendimento. In particolare, si è parlato del monitoraggio degli impatti degli investimenti Esg, ma pure della fiducia e delle relazioni con il cliente che sono alla base delle scelte d’investimento. Poi sono stati approfonditi i criteri di valutazione per definire quali investimenti siano sostenibili e per verificare quali società siano virtuose.
A MILANO
Nel primo appuntamento di EduFin 3.0, Montemagno ha intervistato il numero uno di Banca Generali, l’ad Gian Maria Mossa: «Quella dell’educazione finanziaria in Italia è una storia complicata che mostra da troppi anni gli stessi punti di debolezza», spiega, snocciolando dati non confortanti: «Secondo le ultime rilevazioni di Bankitalia, solo il 44,3 per cento degli italiani possiede competenze sufficienti per quanto concerne le questioni finanziarie. Si tratta di un dato in crescita rispetto all’ultima rilevazione, ma che comunque pone il nostro Paese al 25° posto su 26 nella classifica Ocse per l’educazione finanziaria. La situazione migliora tra i giovani, anche se non di molto. Restringendo il campo agli studenti delle scuole superiori, infatti, l’Italia si piazza al 13° posto su 20 Paesi».
Lo scopo del progetto è provare a colmare questo gap, affrontando argomenti complessi in chiave semplice. Già nel secondo appuntamento si è spiegato l’abc degli investimenti con Matteo Villani, head of asset management di Vontobel. L’ospite di Montemagno ha chiarito cosa sono le obbligazioni, l’equity e come creare un porta-
Marco Montemagno alla presentazione di “EduFin 3.0. Innovazione e sostenibilità nell’educazione finanziaria”, lo scorso settembre
Oltre alla sostenibilità, sono l’innovazione e la tecnologia i driver fondamentali su cui investire per continuare a crescere. Temi affrontati da Christian Miccoli, ceo di Conio, che ha risposto alle domande di Montemagno sull’universo delle criptovalute: che cosa sono e come funzionano, con un focus sui Bitcoin. È emersa l’importanza di avvalersi di consulenti nell’approccio a strumenti innovativi, per difendersi dalle insidie, e si sono sottolineate l’utilità del Bitcoin e le potenzialità per gli investimenti, con un uso attento e consapevole.
Meno di un italiano su due sa destreggiarsi tra investimenti, Bitcoin, Esg, equity. Le interviste di Marco Montemagno a vari manager del settore aiutano ad assimilare nozioni ostiche
Visitatori raddoppiati. Incassi record. Immagine pop. Parla il direttore delle Gallerie. Che, tra testimonial e social, ha trasformato un baluardo di classicità in un luogo che piace ai più giovani
NUOVA PRIMAVERA
La Primavera
di Botticelli vista
dallo schermo
di un telefonino
Quattro milioni di visitatori nel 2022, più del doppio dell’anno prima. E il record di sempre per gli incassi: quasi 35 milioni di euro, con un mese di gennaio a confermare il trend: 282 mila visitatori, il 110 in più dell’anno scorso, il 28 per cento in più persino dell’anno top, il 2019.
Le Gallerie degli Uffizi continuano a crescere. Grazie a nuovi allestimenti, restauri di opere, donazioni, acquisizioni, premi, mostre anche all’estero. Una sapiente programmazione che fa dialogare il contemporaneo col passato. E una comunicazione efficacissima. Che, puntando sui testimonial giusti e su una capillare presenza sui social network, fa gongolare di soddisfazione il direttore Eike Schmidt. Il vero artefice dell’incontro tra sacralità dei classici e cultura pop. «Ho solo tolto un po’ di polvere», dice lui: «per far risaltare ciò che conta davvero».
Lei è al vertice degli Uffizi dal 2015. Oggi è alla fine del secondo mandato. È contento di quello che ha fatto?
«Sono estremamente soddisfatto di quello che tutti insieme siamo riusciti a fare. Però non è tempo di fermarci, anzi con molti progetti siamo proprio in mezzo, e altri sono all’orizzonte. Certo, se guardiamo agli ultimi sette anni non si può che essere soddisfatti, ma non si dorme sugli allori». Scelga qualcosa di cui va più fiero. «Il fatto che adesso il museo sia pieno di bambini e di ragazzi. Ci sono studenti che si incontrano regolarmente qui, si danno appuntamento per un caffè e ammirano le opere. Siamo un luogo d’incontro per i giovani, prima non era così: gli Uffizi erano un posto per il turismo di massa e c’era pochissimo collegamento con i fiorentini e i toscani. Oggi la situazione è cambiata».
Lo storico dell’arte tedesco Eike Schmidt, dal 2015 direttore delle Gallerie degli Uffizi di Firenze
Grazie a che cosa?
«Delle programmazioni sui social. Delle lezioni del mercoledì. Del fatto che ora facciamo la maggior parte delle mostre di inverno, quando ci sono meno gruppi… Tutte queste cose fanno sì che le persone ritornino. I giovani preparano la visita e la approfondiscono dopo, e questo è bellissimo». Lei da bambino andava ai musei?
«Credo che la passione per l’arte sia soprattutto merito di mia nonna, che è stata la prima persona a portarmi in un museo. Un museo americano, nel corso di un viaggio negli Stati Uniti con lei e poi in Germania, in Francia. Mia nonna è stata anche la prima a portarmi a Firenze, con mio fratello». Quanti anni aveva?
«Dodici anni, credo. Ci ha portati al Museo di San Marco spiegandoci che Firenze e i Medici non si possono capire se non si inizia da lì. E io oggi penso esattamente la stessa cosa: se qualcuno mi chiede da dove cominciare una visita a Firenze non dico dagli Uffizi, non dico dal Giardino di Boboli, dico da San Marco. Da lì prende le mosse la storia del mecenatismo dei Medici». Aveva competenze artistiche sua nonna?
“La cosa di cui vado più fiero è che adesso il museo è pieno di ragazzi e di bambini. Prima c’era pochissimo collegamento con i fiorentini. Oggi gli studenti si danno appuntamento qui”UN TEDESCO AL COMANDO
colloquiocon EIKE SCHMIDT di SABINA MINARDI
«No. Solo una grande passione per il bello. Da giovane aveva anche vissuto in Toscana, precisamente a Fiesole».
L’operazione che ha compiuto agli Uffizi è chiara e lei auspica che favorisca crossover simili altrove: promuovere la bellezza in modo meno tradizionale. Lo ha fatto valorizzando sui social l’immagine di visitatori famosi, da Chiara Ferragni a Elon Musk. Stringendo accordi con Lucca Comics, mettendo in connessione opere del museo con l’arte contemporanea. Tutto merito suo? Da chi si fa affiancare?
«L’idea di fare ciò è mia, ma non sarei mai in grado di realizzare un video per TikTok. Per rispondere al gusto dei sedicenni di oggi sono necessarie altre competenze. Io guardo, approvo, contiamo anche su una sorta di informale gruppo beta fatto di figli, nipoti, stagisti, che valutano con noi, approvano o bocciano spietatamente. A volte andiamo a cercare gli artisti-testimonial del museo, altre volte è casuale. Di recente è arrivata Dua Lipa, che ha un forte ascendente sui ragazzi, e ha dimostrato anche enorme energia: è venuta dopo un concerto di 5 ore fino a notte e prima di un’altra esibizione, ma era atten-
tissima alle opere: non è venuta solo per fare foto, ma per apprezzare i capolavori».
Con il video da un milione di like dedicato alla visita di Dua Lipa, le Gallerie sono diventate il primo museo d’Italia per follower e il terzo al mondo su TikTok. Ma sono misurabili gli effetti trainanti di questi personaggi sulle visite? «Sono misurabili facilmente attraverso l’incremento dei biglietti nei giorni successivi. La visita di Chiara Ferragni nel fine settimana dopo è valsa il 27 per cento in più di giovani visitatori. Ci sono effetti anche a lungo termine, per esempio dopo l’arrivo di personaggi della moda più facilmente si vedono giovani vestiti come a una sfilata: inizialmente vengono per farsi una foto, poi rimangono incantati».
Da marzo il prezzo del biglietto d’ingresso passerà da 20 a 25 euro. Un aumento sostenuto dal ministro della Cultura Sangiuliano: «Se una cosa ha un suo valore storico, artistico e culturale, deve essere pagata», ha detto.
«Cultura e bellezza hanno un costo, sono d’accordo. L’idea principale che abbiamo introdotto agli Uffizi è la flessibilizza-
zione del prezzo del biglietto, non solo l’aumento. Il prezzo tiene conto della richiesta e della capacità di offerta. In alta stagione, nei fine settimana, è impossibile soddisfare tutta la richiesta, perché bisogna anche proteggere la qualità della visita, a parte questioni di sicurezza. Quindi è necessario usare il prezzo come strumento». Regolatore?
«Motivazionale. Non è una barriera proibitiva, qualcuno può valutare di entrare prima delle 9, e pagare 6 euro in meno». Qual è il numero massimo di accessi?
«Possiamo avere 900 visitatori contemporaneamente all’interno delle Gallerie. Con un’apertura alle 8,15 fino alle 18,30, significano 10 mila visitatori in un giorno pieno. Se venissero più persone tra le 8,30-9 potremmo arrivare a 11-12mila. D’estate, quando abbiamo a disposizione le ore serali di apertura, ci sono regolarmente 12-
13mila visitatori. Io sarei favorevole ad aprire anche il lunedì pomeriggio e in alta stagione fino alle 9 di sera. Dopo quell’ora, ci sono solo io. E Vittorio Sgarbi».
A proposito del sottosegretario, sono ricominciate le polemiche sul contenere i direttori stranieri ai vertici dei musei. Le hanno fatto male le critiche, alla nomina?
«Le critiche in genere mi danno energia perché mi costringono a reagire e a migliorare. Ma in quel caso non valevano niente. Bisogna dire che non ci sono meno direttori italiani all’estero di quanti siano gli stranieri qui. Per anni l’università italiana ha separato la storia dell’arte dal management, ma questa è una visione superata. E se nella generazione tra i 35 e i 40 anni forse è ancora raro che le due conoscenze si sommino, in futuro il problema non si porrà più. Il vero tema resta la fuga dei cervelli: come riavere gli italiani di successo all’estero e metterli in posti chiave in Italia». Si augura di restare direttore?
«È presto anche per pensarci. Certo, quando Sgarbi ha proposto di introdurre una limitazione ai due mandati, alcuni mi hanno
Manga, supereroi, autoritratti dei più importanti fumettisti, forme d’arte contemporanea dialogano con i capolavori classici. Per tenere vive attenzione ed entusiasmo
Uffizi 2: al progetto si lavora da anni, per rendere fruibile una larga parte di patrimonio oggi accantonata nei depositi. «Con le gallerie inaugurate in questi anni abbiamo esposto il 40 per cento di opere non visibili. Opere spesso in connessione con certi posti, come centinaia di dipinti in origine parte della Villa L’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino», racconta Schmidt, indicando un luogo, legato ai Medici, dove gli Uffizi 2 potrebbero nascere. «I tempi? Dipendono dal Ministero. Intanto continuiamo con gli “Uffizi diffusi”: opere esposte in musei comunali».
telefonato per sentire se fossi disponibile ad andare altrove. A tutti ho detto che è troppo presto».
Si parla tanto di Nft: chimera, bolla già finita? O investimento su cui scommettere?
«Mi appassiona la sperimentazione con le nuove tecnologie. Ma la bolla degli Nft come li abbiamo visti finora è passata. Non è escluso che dopo l’inverno crittografico ci sia una nuova primavera: ma sarà di sicuro molto diversa dalla precedente».
E dell’intelligenza artificiale applicata all’arte, al di là delle enormi implicazioni legali, cosa pensa?
«Che ciò che la tecnologia offre sia ancora insufficiente. Mentre la generazione linguistica di testi è un vero progresso, la generazione visiva o l’ibridizzazione di opere è totalmente priva di senso di composizione, di equilibrio: non ci siamo. E sono convinto che non farà concorrenza ai nostri musei: la gente vorrà vedere sempre i capolavori fisici, come dimostra il fatto che le opere più presenti nella sfera digitale siano anche quelle più cercate dal vivo».
Nel 2019 lanciò una formidabile campa-
gna per restituire a Firenze “Il vaso dei fiori” di Jan Van Huysum, rubato dai nazisti. Cosa le piacerebbe riportare a casa?
«Ci sono due opere di grande importanza che mancano all’appello. Una è una testa di fauno attribuita a Michelangelo, l’altra è una Madonna di Pierino da Vinci, opere rubate dal Castello di Poppi e di cui si sono perse le tracce. Ogni tanto nei decenni qualche ipotesi è venuta fuori, poi la speranza è sfumata. In questo momento non possiamo dire di avere una traccia calda per trovarle. Ma la speranza resta e c’è l’impegno e la collaborazione con un’eccellenza di cui l’Italia deve veramente essere gelosa: il Comando per la tutela del patrimonio dei Carabinieri, con il quale c’è una collaborazione quotidiana».
Non può dirci di più per non inquinare le indagini?
«Questa è una cosa che non bisogna fare mai».
In senso orario: Ben Harper; Kylie Minogue; Dua Lipa in visita agli Uffizi. In basso, a sinistra: la mostra “Eleonora di Toledo e l’invenzione della corte dei Medici a Firenze”
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Si cammina da sole. Ma solo appaiate si trova un ritmo. Posso raccontarmi solo a patto di raccontare altre donne, solo riconoscendo la mia vita dentro altre vite..., scrive Gaia Manzini in “La via delle sorelle” (Bompiani), un bellissimo personal essay dedicato all’amicizia femminile.
I modelli sono Nathalie Léger e Rebecca Solnit, il memoir ha un andamento ondivago che mescola saggistica e autofiction: con grande naturalezza si salta da Natalia Ginzburg, Katherine Mansfield e Marilyn Monroe ai ricordi personali, dolenti o divertenti.
Ne esce una Manzini che non ha paura di cercarsi fra le donne della sua vita, affini o diverse che siano. E anche inaspettata: lei che non sa gestire le crisi di rabbia, che scappa di casa e subito telefona ai genitori, che cerca di suicidarsi con l’Imodium, con tutte le conseguenze immaginabili e nessuno che la prende sul serio, che si strofina con la candeggina per schiarire la carnagione scura. Ma soprattutto una persona curiosa, mai stanca di sperimentare vie nuove e di amare le sue amiche.
UN LUOGO DI SALVEZZA
«Voglio credere che certi affetti siano stati cristallini; ho bisogno di un serbatoio di purezza a cui attingere», scrive. Sono Silvia e
Marina le prime amiche di Gaia, e da loro si arriva al legame fortissimo che unisce Antonia Pozzi alle sue compagne di scuola, Elvira Gandini e Lucia Bozzi. Saranno loro due, dopo il suicidio di Antonia, a raccogliere le poesie, le lettere, i diari. Qui inizia il viaggio interiore, dall’amicizia nell’infanzia, che è «un luogo di salvezza». Gaia resta colpita da una lettera di Antonia in cui ringrazia Lucia per la sua bontà. «Richiamo a me le amiche di ogni età», scrive. «Quelle che mi hanno accompagnato nella vita e mi hanno salvato da me stessa. In tutto questo lungo percorso, però, non ne ho mai ringraziata nessuna per la sua bontà». «Ora mi sembra così prezioso e indispensabile, un gesto di gratitudine alla vita, al fatto di essere vive insieme».
«Essere osservata. Vivevo per stare nello sguardo degli altri, costruivo me stessa in
Nell’infanzia, nell’adolescenza, nell’età adulta. L’amicizia
femminile raccontata tramite la complicità di grandi artiste.
Da Marilyn Monroe a Sylvia Plath. Tra saggistica e autofiction
base al loro giudizio». L’amicizia nell’adolescenza è «un riconoscerci a vicenda come degne dello sguardo del mondo». Il problema è la scarsa percezione di sé stessi a quell’età. Entra in scena Pippa Bacca, che viaggia in autostop vestita da sposa, una performance che le costerà la vita. Era partita con un’amica, Silvia Moro, anche se in pochi la ricordano, quindi «le artiste erano due; o meglio una, insieme al suo doppio». La nipote di Piero Manzoni aveva molti nomi e molte identità. Certi giorni Pippa diventava Eva Adamovich: «Tacchi vertiginosi, gonne striminzite». Anche Manzini si sdoppia e si trasforma. Con Bet, che ama divertirsi, prende il volo: prova le pastiglie, non studia, smette di mangiare, cerca una leggerezza che non le appartiene. «L’amicizia in adolescenza era incandescente, sempre accompagnata da entusiasmo, sempre desiderosa di intimità. Era tutto un inna-
morarsi della vita; l’illusione di aver trovato delle sorelle a cui affidarmi». La delusione è inevitabile perché a queste amicizie manca qualcosa fin dall’inizio. «Ero io che mancavo, adesso lo so. Mancavo: non c’ero davvero perché aspettavo che fossero gli altri a darmi contorni precisi».
«C’è un momento nella storia delle nostre amicizie in cui vorremmo disperatamente essere come quelle che abbiamo scelto in qualità di compagne di cammino. Che vorremmo solo rispecchiarci, a volte come moto di ribellione al mondo da cui veniamo e che non ci corrisponde più. Poi, d’un tratto, ci accorgiamo di essere diverse – siamo irrimediabilmente diverse – ma ci sforziamo comunque di nasconderlo». Gaia Manzini non è come Marta, Annetta, Ilaria o Laura, eppure attraverso di loro si
SCRITTRICI
A sinistra: Katherine Mansfield. A destra: Virginia Woolf nel 1902
scopre, metamorfosi dopo metamorfosi, senza paura, perché una certezza resta: loro conoscono il «ritratto essenziale, sanno di che pennellate è fatto, e che il resto è solo sperimentazione».
E, sempre in un gioco di specchi, compare «la furia di vita» di Katherine Mansfield, le sue passeggiate fra i cardi con Virginia Woolf, così diversa da lei. O Simone de Beauvoir che nel romanzo “Le inseparabili” racconta il rapporto esclusivo con Élisabeth Lacoin, detta Zaza. O Lalla Romano e Nella Marchesini, che studiano pittura nell’atelier di Casorati e si fanno l’autoritratto sedute una di fronte all’altra.
È il 1959, Anne Sexton e Sylvia Plath bevono molti martini e chiacchierano fino a notte fonda. «Ecco di cosa piaceva parlare a entrambe: di suicidio, di tutti i tentativi che avevano fatto. Il suicidio che era il contrario della poesia, ma che era anche divertente. Se si riusciva a ridere di quello, si sarebbe tenuta la morte a distanza». Da qui si arriva a Frida, e alle notti passate a bere drink con lei, Bianca e Vittoria, le colleghe dell’agenzia pubblicitaria. Perché «l’amicizia in età adulta si lega ai luoghi e alle circostanze. Il lavoro si mescola alla complicità e la complicità diventa un piano condiviso». Frida, sempre così allegra, che si ucciderà come Anne e Sylvia. «Non avevo visto il dolore che rende folli. Non avevo distinto l’euforia che racconta la sofferenza».
Ma c’è anche Angela Zucconi che salva Natalia Ginzburg dal desiderio di suicidarsi, dopo la morte di Leone. È molto più
La copertina del libro di Gaia Manzini “La via delle sorelle” (Bompiani, pp. 160, € 16, in libreria il primo marzo), che indaga i rapporti di amicizia tra donne. Nelle foto, in senso orario: Marilyn Monroe; Nathalie Leger; Rebecca Solnit; Inge Feltrinelli
di una collega incontrata all’Einaudi, la invita a vivere in casa sua, dove l’unico riscaldamento è il gatto, e le restituisce la voglia di vivere: «Si sanno diverse ma si sentono profondamente uguali: sorelle dalle scarpe rotte. La loro intesa non può che venire da quelle scarpe scalcinate e neglette che ogni sera lasciano ai piedi del materasso». Insieme progettano una rivista che non si farà mai. Anche Gaia progetta a vuoto con le sue amiche. Con Laura una nuova vita a Seattle, con Viola, «l’amica delle risate di gola», qualsiasi cosa. Nulla si realizza ma, alla fine, essere amiche nell’età adulta è l’unico progetto al quale non si può rinunciare.
«Nelle amicizie che sopravvivono a tanti anni a un certo punto c’è un cambio di tono. Si lascia da parte l’euforia dell’incontro. Niente chiassosità, nessuna incontenibile
“Si sanno diverse ma si sentono profondamente uguali: sorelle dalle scarpe rotte. La loro intesa non può che venire da quelle scarpe scalcinate che ogni sera lasciano ai piedi del materasso”
voglia di raccontarsi: ci si scambia la malinconia. Sono le uniche persone con cui lo si può fare». Succede con le amiche storiche, come Laura, Ilaria e Viola. «Scorgiamo i capelli bianchi che sono comparsi sulle nostre teste. Vediamo le rughe del collo, le imperfezioni della pelle, le mani che invecchiano. Senza dire niente, siamo colte da tenerezza reciproca per tutto quello che non tornerà più. Per la spensieratezza, la voracità, l’azzardo: tutto quello che non tornerà, ma che abbiamo condiviso perché siamo state giovani insieme. E quella giovinezza la scorgiamo ancora da qualche parte in ognuna di noi». Gaia Manzini chiude il racconto con un’apertura: «Continuo ad aver fiducia negli incontri, nelle umanità che combaciano, anche se possono essere solo casuali, anche se non dureranno o rimarranno nell’intermittenza». Sa che le amiche le indicheranno sempre una strada.
Dall’Ucraina bombardata alla Liberia in guerra, dal ritorno dei talebani al mercato del lavoro post-pandemia: scrittrici e giornaliste rivendicano il potere di narrare il nostro tempo da una prospettiva femminile e globale. La Fondazione e il Gruppo Feltrinelli celebrano cinque donne con la prima edizione dedicata alla grande editrice e fotografa del Premio Inge Feltrinelli “Raccontare il mondo, difendere i diritti”, la cui cerimonia di consegna avverrà l’8 marzo prossimo. Tre le categorie individuate per rappresentare lo spirito del premio: “Diritti in costruzione”, per le storie di riscatto e lotta sociale, “Diritti violati”, reportage e inchieste contro i soprusi, “Diritti in pratica”, riservata ai podcast prodotti dagli istituti scolastici. Lavoro, razzismo, migrazioni e identità sono alcuni dei temi che accomunano i titoli finalisti. Tra gli altri, “Prostitute in rivolta” di Molly Smith e Juno Mac (Tamu) dialogano con un altro romanzo-manifesto, “Sono fame” di Natalia Guerrieri (Pidgin Edizioni) e con la denuncia dell’esaurimento di risorse economiche e ambientali di Kerri Arsenault in “Mill Town. La resa dei conti” (Black Coffee). Spostando il fuoco dal mondo occidentale, Asmā, rifugiata afghana in Italia, in “La mia fuga da Kabul” (Neri Pozza) racconta la fuga dai talebani nell’estate 2021. (Valeria Verbaro)
Guardare il mondo
Quando l’Opera si unisce all’architettura islamica neo-contemporanea viene fuori un capolavoro.
Ed è a Mascate, capitale del Sultanato dell’Oman, che si è compiuto il prodigio. Il bianco brillante all’esterno, esaltato dalla luce decisa del Paese del Golfo che si affaccia sull’Oceano Indiano, e la preziosità dei materiali all’interno, compongono questo tempio dell’Opera, ispirato al teatro italiano del sedicesimo secolo. Con una mescolanza di materiali e linguaggi di diversi stili ed epoche.
«La combinazione delle sue due principali componenti, il marmo italiano e il legno dell’Oman e della Malesia», afferma Umberto Fanni, direttore generale della Royal Opera House di Mascate (ROHM), «non è solo l’unione di due materiali: insieme creano un nuovo concetto». È quello di innovazione e tradizione, l’eleganza dell’architettura islamica e la traccia della tradizione culturale europea, forgiate dalla più avanzata tecnologia, che ne permette anche tra le migliori acustiche al mondo. Un vero e proprio auditorium che racchiude un organo, un grande involucro acustico di cinquecento tonnellate, un sistema unico di sottotitoli su schermo video, un palco che si stringe e allarga a seconda delle esigenze di scena e di regia.
MARTA BELLINGRERIfinata musica araba. Fanni vive a Mascate da quel 2014 e se ha fatto dell’Oman la sua seconda casa, le sale e gli ambienti della Royal Opera House costituiscono le stanze dove si muove. Non da solo, naturalmente.
Se all’inaugurazione del 2011 con la Turandot di Giacomo Puccini prodotta da Franco Zeffirelli e diretta da Placido Domingo, Umberto Fanni era presente con l’orchestra, il coro e il corpo di ballo dell’Arena di Verona, di cui allora era direttore, solo tre anni dopo il cagliaritano d’origine, viene chiamato a Mascate per un lungo colloquio. Sarà in quelle tre ore che intuisce le potenzialità di un teatro del genere, in quest’area del mondo, e sarà lì che verrà subito selezionato: direttore artistico e dopo soli otto mesi anche direttore generale. Con la sua esperienza a livello internazionale, nei grandi teatri italiani ed europei, «ho capito che c’era tanto e bel lavoro da fare», dall’opera alla sinfonica, dal balletto ai grandi show, alla raf-
«Ho al mio fianco una squadra di 274 impiegati a tempo pieno, l’83 per cento del quale omaniti, il resto formato da personale da tutto il mondo» dice fiero, seduto in una delle larghe sale riunioni con i tavoli disposti ad anfiteatro, dove passa molto del tempo con il suo team. «L’età media in Oman è di 28 anni e questo si rispecchia nella componente dello staff della nostra Opera House. Molti di loro sono nuovi a questo tipo di impegno: è una grande soddisfazione veder crescere i loro talenti, sono molto in ascolto». L’atteggiamento giusto per chi poi “opera nella musica”.
Una delle chiavi del lavoro di Fanni all’Opera più grande del Golfo è creare dei
La Royal Opera House di Mascate, in Oman, è ispirata al teatro italiano del sedicesimo secolo. E a dirigerla è il cagliaritano Umberto Fanni. Deciso a rinsaldare il ponte tra culture
omaniti». I biglietti delle stagioni all’Opera infatti variano dai 10 ai 160 euro e sono accessibili dunque a più fasce della popolazione: oltre ad omaniti (molte scuole) ed arabi, nel pubblico non mancano mai appassionati da tutto il mondo e turisti che, nella tappa della capitale, inseriscono una una sera all’Opera. Del resto la ROHM può ospitare fino a 1200 persone. Il budget del teatro è quello di un teatro europeo medio-alto, dice Fanni.
Il programma e il lavoro con la squadra manifestano anche la «cultural diplomacy» del paese del Golfo, classificato come uno dei più pacifici al mondo e neutrale in tutti i conflitti regionali e internazionali, con un ruolo diplomatico di mediazione. «L’Oman non prende una posizione: cerca un punto di connessione. La sua diplomazia culturale viene riflessa nella musica». E alla popolazione omanita viene anche data questo assaggio di diverse culture del mondo tramite il loro grande teatro e la Royal Simphonic Orchestra formatasi al suo interno.
ponti tra diverse tradizioni culturali: «il mondo arabo ha un raffinato patrimonio musicale, in termini anche di testi poetici, strumenti, canto. Siamo qui per valorizzare questo tipo di incontro con il linguaggio della musica. Le lingue possono essere confuse, la musica no: ci dà l’opportunità di imparare l’uno dall’altro e di parlare una lingua comune».
La Royal Opera House di Mascate è stata fortemente voluta dal suo Sultano riformatore, Qabus bin Said, al potere dal 1950 fino alla sua morte, nel gennaio 2020. Considerato il padre della nazione moderna dell’Oman, anche il direttore Fanni ne riconosce il suo ruolo nell’Opera che ne rimane: «Il Sultano Qabus amava tremendamente la musica. Amava Mozart. Suonava l’organo. Aveva in mente esattamente cosa costruire. Non pensato però come un luogo di élite, al contrario un teatro per aprire a tutti gli
Un italiano nel Sultanato Veduta della Royal Opera House di Mascate, capitale dell’Oman. Sotto: il direttore Umberto Fanni
Accanto all’imponente Opera, da quattro anni si è affiancata un museo e centro d’arte per produzioni musicali, teatrali e operistiche, dove si può studiare tutto il funzionamento dell’opera, quasi a calarsi dentro i personaggi e le voci che interpretano, e dove ci si immerge coi propri sensi anche nella comprensione degli strumenti musicali omaniti, arabi, europei, mondiali. All’interno di questa sorprendente esposizione musicale-museale, c’è anche una biblioteca della musica interattiva che nutre una comunità di studiosi e di curiosi in crescita.
A settembre la stagione in corso si è aperta con la Traviata, mentre nel 2021 il decimo anniversario della Opera House, superata la faticosissima chiusura della pandemia, si era festeggiato col Rigoletto. Umberto Fanni gode di quell’equilibrio acustico incredibile e segue cosa avviene in scena. Dal pubblico una standing ovation. Con il viaggio nella musica europea, vive un’altra notte d’Oriente.
Una scuola che fa ridere. Che coinvolge, che è comunità. Che viaggia in tutta Italia, nei teatri e sui social. È la scuola di Filippo Caccamo, attore, comico, artista e docente precario che dalla vita quotidiana degli insegnanti trae ispirazione per i video e gli spettacoli live. «Sono “verdoniano”. Non faccio battute ma porto sul palco la realtà», spiega. Non solo quella tra i banchi di scuola ma anche le esperienze fuori dall’orario scolastico perché «fare l’insegnante non è un lavoro ma uno stile di vita. Perché quando chiudi il registro non è finita. Ci sono i compiti da correggere, le lezioni da preparare, i punti di vista da condividere con gli altri professori. Le chiacchierate con i genitori degli studenti. Mi è capitato più volte di stare al telefono con i familiari degli alunni anche dopo cena. Ma non succede solo a me, è la normalità. Ti relazioni con gli altri, fai parte della comunità».
Nato nel 1993, Caccamo per diversi anni ha insegnato Lettere alle medie a Lodi, città in cui è cresciuto. Un’esperienza a cui attinge per i suoi spettacoli: «Da alunno ti sembra che il professore sia un punto di riferimento indiscusso. Quando entri a scuola da insegnante, invece, ti rendi conto che i tuoi colleghi sono umani, che tu sei umano e che le lezioni sono fatte anche di tanti dubbi. Ma è un valore aggiunto: molte volte con gli altri docenti ci siamo trovati a discutere delle nostre capacità di rispondere alle domande inaspettate fatte dagli stu-
In alto: Filippo Caccamo, 30 anni, porta in giro per l’Italia il suo spettacolo ispirato al mondo della scuola
denti. Fanno crescere anche noi».
Dai dibattiti accesi in classe, ai comportamenti fuori dalle righe degli alunni durante le ore di lezione, dalle conversazioni tra gli insegnanti che si incrociano lungo i corridoi, alle richieste imprevedibili dei genitori ai colloqui, fino allo scompiglio che l’organizzazione della gita crea alla fine di ogni anno: la grande missione di Caccamo, online e offline, è quella di far divertire il pubblico. Così mette in scena sketch comici che riproducono la realtà della scuola: «Ho avuto la fortuna di avere dei colleghi molto disponibili, che si sono prestati alle “prese in giro”. Che poi non sono delle vere prese in giro perché si tratta della stessa ironia con cui descrivo me stesso. Molti dei personaggi che rappresento esistono davvero, come “la Carla”, una collega, insegnante di matematica. Che spesso viene nei teatri con me». È la professoressa dalla lamentela facile ma che alla fine aiuta tutti. O come il supplente che d’estate non va in vacanza per restare incollato al pc, in attesa del conferimento dell’incarico.
«Essere un precario della scuola significa mettere davanti a tutto l’amore per i ragazzi. Significa avere chiaro l’obiettivo a lungo termine e accettare, per raggiungerlo, la burocrazia e tutte le scelte politiche, economiche e dell’istituto come contorno. Decisioni contro cui è difficile appellarsi sebbene compromettano la stabilità personale. Però, quando la passione per la materia d’insegnamento e l’impegno nei confronti degli studenti sono forti riesci a superare gli impedimenti. Così insegnare diventa il lavoro più bello del mondo», confessa Caccamo che con i suoi contenuti prova a far sentire docenti, studenti e genitori un po’ meno soli nell’affrontare la realtà della scuola.
Attore, comico, docente precario. Per i suoi show Filippo Caccamo attinge al lavoro di insegnante. “Sono verdoniano. Non faccio battute ma porto sul palco la realtà quotidiana”
Qualcosa dentro di noi ci spinge ad immaginare la storia umana come un congegno ad orologeria. Le componenti sono i cosiddetti “fatti storici”, tutti connessi fra loro e in movimento. «Questa visione della storia come un meccanismo lineare e puntato a una meta è falsa, e soprattutto controproducente», inizia a dire lo storico Dan Diner introducendoci alla mostra che ha curato al Deutsches Historisches Museum di Berlino. La mostra si intitola “Roads not taken”. Sottotitolo: “Ovvero: come tutto sarebbe potuto accadere diversamente”. E in quattordici tappe, dal novembre 1989 in cui crolla il Muro di Berlino, illustra come si sarebbero potuti svolgere altrimenti gli ultimi 150 anni di storia tedesca. «Il primo effetto della mostra», specifica Diner, «è spiazzare il visitatore, che si aspetta nell’esposizione un filo cronologico». E invece no: dalle prime foto e documenti dei cortei di protesta a Lipsia e Berlino, nell’autunno 1989, andiamo all’indietro agli anni del 1968 e di Willy Brandt; e poi più giù ancora, sino ai moti rivoluzionari del 1848. Ogni passaggio è diviso in due parti, per farci intravedere, accanto a ciò che è stato, come i fatti si sarebbero anche potuti svolgere. Ad esempio: se nel novembre 1989 il regime della Ddr non avesse aperto il Muro, ma seguito la linea dura cinese, e cioè la repressione della rivolta come sulla piazza di Tienanmen? «La repressione delle proteste a Lipsia e Berlino era già programmata dal regime della Ddr», ricorda Diner, «e a Berlino est avevano già dato l’ordine di distribuire le munizioni ai soldati». Basta grattare un po’ la superficie degli eventi per scoprirne i punti casuali e di svolta in cui «tutta la situazione», spiega Diner, che ha insegnato storia all’università di Gerusalemme e di Lipsia, «sarebbe potuta configurarsi diversamente». In realtà sono solo le nostre paure che ci portano a pensare al futuro come a una catena di fatti. «Ma da questa mostra sulla storia tedesca emerge come al fondo degli eventi ci sia sempre tanta contingenza», precisa Diner. Prendiamo i due passaggi che Diner - di cui
STEFANO VASTANOBollati ha di recente pubblicato “Tutta un’altra guerra”, la seconda guerra mondiale vista dalla Palestina ebraica - considera i più densi. L’8 maggio 1945, il giorno in cui i nazisti firmano la capitolazione incondizionata. «Il piano degli americani era di sganciare la prima bomba atomica sul centro industriale di Ludwigshafen», racconta lo storico: «Ancora oggi i tedeschi nutrono una paura della bomba atomica come nessun altro popolo in Europa».
Quel maggio del 1945 è uno dei momenti-limite in cui si percepisce davvero quel che sarebbe potuto accadere - in questo caso, la distruzione atomica della Germania - se non si fosse giunti alla capitolazione. L’altro momento decisivo è l’attentato a Hitler, organizzato ma non riuscito, dal colonnello von Stauffenberg il 20 luglio del 1944. «Nella mostra non si vedono grandi immagini dell’Olocausto», dice Diner. «Mi sono concentra-
Gli Usa erano pronti a sganciare un’atomica sulla Germania. E Berlino nel 1989 poteva finire con una nuova Tienanmen.
In mostra le “sliding doors” che hanno cambiato il mondo
to sull’attentato del 20 luglio per far vedere che a quella data la distruzione degli ebrei in Europa era già avvenuta». Nei momenti più intensi della storia non cogliere l’opzione, o agire tardi può causare effetti disastrosi per l’umanità. «Volevo scuotere il senso del visitatore per la storia», insiste Diner, «far vedere come la contingenza e quindi la possibilità di alternative siano sempre aperte e siano atti di volontà politica». Nulla meglio, o forse peggio del momento più nero della storia tedesca, il 30 gennaio 1933, l’istante in cui Hitler sale al potere a Berlino, mostra come opera la contingenza nella storia. Con vari grafici e film rivediamo in mostra l’enorme tsunami della crisi mondiale, innestato dal crac alla Borsa di New York nell’ottobre 1929. «Ma non dimentichiamo che sino al 1929 Hitler era solo un’attrazione bavarese e in Germania non contava nulla», spiega Diner. Cosa ha portato il caporale austriaco
Un’installazione della mostra “Roads not taken”. A destra: carri armati al Checkpoint Charlie di Berlino nel 1961
nel giro di tre anni a conquistare il potere?
I documenti esposti spiegano le disastrose conseguenze della crisi globale negli ultimi anni di Weimar. L’esercito di 6 milioni di disoccupati in Germania. L’inflazione che straccia la valuta tedesca e i risparmi del ceto medio. «Ma ancora nel dicembre del 1932 il partito di Hitler era dilaniato da tensioni e in piena crisi finanziaria, e Hitler minacciò di risolvere i problemi in tre minuti, suicidandosi con un colpo di pistola». Come annotò Goebbels, futuro ministro della propaganda del Terzo Reich, l’avvento al potere del ’33 fu «ein Wunder», un miracolo. Ma una specie di miracolo è anche la metamorfosi nel dopoguerra dei tedeschi - almeno quelli dell’Ovest - a partire dall’era Adenauer. Sino a trasformarsi oggi nella prima potenza economica e nell’ancora della stabilità politica in Europa.
Tutte queste svolte della storia tedesca ci fanno toccare con mano come i cosiddetti fatti storici «non siano legati da nessuna finalità prefissata», conclude Diner.
«Negli eventi è in gioco la libertà e la responsabilità politica che dobbiamo assumerci di fronte alle vie della storia». Ed è questo il “fantasma”, come lo chiama Diner, che aleggia per la sua mostra. «Il fantasma è chiaramente l’Europa dell’est. Cosa stiamo facendo oggi, nel 21° secolo, per evitare che l’Europa dell’est riprecipiti nella barbarie del nazionalismo più gretto e reazionario del ventesimo secolo?». Ecco perché comprendere il senso della storia è importante e aiuta ad assumersi le proprie responsabilità: per evitare la catastrofe che incombe sull’Ucraina.
Girare in Italia è una delle cose che amo di più, siete un popolo così caloroso, poi ho sempre compreso l’italiano, da piccola mia madre a casa mi faceva ascoltare le canzoni di Al Bano e Toto Cotugno... A parlare è l’attrice ucraina Olga Kurylenko, ex bond girl in “Quantum of Solace”, scelta da Terrence Malick per “To The Wonder” e da Giuseppe Tornatore per “La corrispondenza”. È la protagonista del nuovo thriller
“Paradox Effect”, prodotto da Ilbe e girato in Puglia in queste settimane, nei panni di una madre-coraggio costretta ad affrontare un pericoloso criminale (Harvey Keitel) per salvare sua figlia da un rapimento. Dal cinema alla vita reale, sa bene cosa voglia dire preoccuparsi per un familiare: suo padre vive in Russia, sua madre fino al 2014 viveva in Ucraina, dov’è nata Olga.
«Ma sono andata a riprendermela allora, quando la guerra è iniziata. Perché è allora che è iniziata», sottolinea l’attrice. Non posso non chiederle che cosa pensi di questa guerra.
«Trovo sia inaccettabile. Quello che sta accadendo mi disgusta. È assurdo che le parti politiche siano incapaci di arrivare a un accordo di pace, avrebbero dovuto raggiungerlo da un pezzo. Non lo stanno facendo, lasciano che muoiano persone innocenti ogni giorno. La triste verità è che c’è chi ha interesse che questa guerra continui. Mentre gridano: “Che cosa terribile, poveri loro”, si arricchiscono grazie a que-
sta guerra. C’è una ipocrisia insopportabile. E non parlo solo di Ucraina e Russia, parlo di tutti gli altri Paesi coinvolti». Ha avuto modo di tornare in Ucraina?
«Ci sono tornata nel 2014 a riprendere mia madre, ero troppo spaventata e preoccupata. Quando le cose si sono calmate le ho chiesto se volesse tornare, mi ha detto di no, di fatto da allora le cose nel Paese sono solo peggiorate. Viviamo insieme a Londra, ma stiamo cercando di spostarci in Europa, perché purtroppo dopo la Brexit le cose sono peggiorate anche qui».
Ha trascorso l’infanzia in Ucraina, è andata a Parigi a fare la modella, quindi ha lavorato come attrice tra l’Europa e Hollywood. Ha capito qual è stata in lei la carta vincente?
«Una forte curiosità. Serve quella, nella vita, per imparare. Lo dice una che non ha mai fatto studi tradizionali, ma ho sempre solle-
TRA CINEMA E MODA Olga Kurylenko, 37 anni, è una modella e attrice ucraina naturalizzata francesevato tante domande e portato avanti le mie ricerche personali. A 42 anni sento di aver imparato tanto dalla vita».
Da dove ha tratto gran parte delle sue ispirazioni come attrice?
«Essendo in questi giorni in Italia mi viene da dire che ho sempre amato i film del cinema italiano. L’Italia è vicina all’Ucraina, la vostra cultura è parte della nostra, sono cresciuta guardando le opere di Pasolini, Antonioni, Fellini».
Tra i contemporanei chi le piace?
«Ammiro molto Paolo Sorrentino». Torniamo al film che sta girando, “Paradox Effect”. Come descriverebbe il suo personaggio?
«Una donna semplice, ex tossicodipendente, che rivede sua figlia dopo un anno in aeroporto. È “pulita”, ma le cose non vanno come dovrebbero: sua figlia viene rapita e tutto il film è sul tentativo di salvarla».
Difficile interpretarlo da madre?
«Più facile, semmai. Perché capisco perfettamente quali sentimenti possa provare. Diventare madre ha rivoluzionato tutta la mia vita, rendendomi improvvisamente chiare le mie priorità. Sarà che è passato quel periodo della vita in cui sentivo di dover sempre dimostrare di valere qualcosa, sarà che ho capito tardi che la famiglia è tutto nella vita, ma da quando è nato mio figlio è lui la mia priorità. E sono contenta di averlo avuto a 37 anni e non a venti, prima non mi sentivo assolutamente pronta».
Foto: S. Dunn –BAFTA –Camera Press / ContrastoL’infanzia in Ucraina, la carriera di modella e attrice tra Europa e Hollywood. E ora un ruolo a fianco di Harvey Keitel. La star ha un’idea precisa del conflitto:
“Assurdo che le parti siano incapaci di arrivare a un accordo di pace”
La sua carriera ne ha risentito?
«L’ho volutamente messa in secondo piano, mi capita di rifiutare diversi progetti. Non ho rimpianti. Voglio crescere mio figlio, voglio esserci, passare del tempo a casa con lui. Da giovane mi avrebbe fatto rabbrividire una frase del genere, oggi sono contenta di poter trascorrere ore preziose con mio figlio. Non faccio più film senza portarmelo dietro: è con me anche qui in Italia sul set, non mi importa quello che dicono gli altri. Lo guardo mangiare il gelato e sono felice». Com’è interpretare una donna che ha avuto problemi di tossicodipendenza?
«Oggi le dipendenze sono ovunque, pensiamo alle dipendenze da cellulari e social media e a tutto l’ego-trip di narcisismo che comportano. Tra l’altro non capisco come si possa vivere e contemporaneamente postare di continuo. Io, quando riesco a postare una cosa ogni tanto, faccio uno sforzo enorme».
Ci sono sempre più ruoli interessanti per le donne, finalmente.
«Per le attrici è un grande momento, il women empowerment sta portando stimoli e innovazione, pur con decenni di ritardo. Quanto a me, non mi sono mai sentita inferiore a un uomo. Sono sempre stata una
grande ribelle, non ho mai obbedito agli uomini benché li ami molto. Ascolto solo le persone intelligenti, che siano uomini o donne».
Ci sono tuttavia, nel mondo del cinema e non solo, divari ancora da colmare e cause da combattere, come ad esempio l’equal pay. Lei viene pagata quanto i suoi colleghi?
«No, ma a me capita sempre di lavorare con grandi star che sono ad un livello di notorietà decisamente superiore al mio. Posso pretendere di essere pagata come un collega che sta al mio stesso livello, non di avere lo stesso compenso di una star famosa in tutto il mondo. Sarebbe stupido pretendere di essere pagata come Tom Cruise solo perché sono una donna. Semmai noi donne dobbiamo essere messe in condizione di raggiungere lo stesso livello di successo e notorietà di certi divi».
Con Harvey Keitel sul set come va?
«Benissimo, è un grande professionista, mi ha fatto effetto ritrovarmici a lavorare: è un onore recitare con un attore di cui hai visto tutti i film».
È stata dura, per lei che è nata in Ucraina e ha iniziato come modella in Francia, affermarsi a Hollywood e in generale nello star-system?
«All’inizio ho trovato molte resistenze perché volevano facessi la modella per sempre, mentre io volevo recitare. Con il mio primo film francese “L’Annulaire” sono arrivata in America e lì di nuovo è stato complicato, perché l’agente da cui andai neanche volle vedere il film, disse: «Hai fatto un solo film francese? Non ci interessa, tornatene a casa”. Poco dopo in Francia fui presa come protagonista per un grosso film americano (“Hitman”, ndr) e mi richiamò per rappresentarmi».
E lei?
«L’ho mandato a quel paese. È lì che ho deciso: accetterò tutti i rifiuti di chi pensa che non sia brava dopo avermi visto recitare, ma pregiudizi non ne accetterò mai più. E così ho fatto».
“Le dipendenze sono ovunque. Basti pensare al tempo che si trascorre su cellulari e social media. E a tutto il narcisismo che comportano”
Abbiamo tutti fame di tempo. Sovraccarichi di stimoli e di interferenze, con una vita scandita dal ticchettio degli impegni, abbiamo tempo – in quanto vivi - ma le ore non ci bastano mai. Perché viviamo nell’“ipertempo”, spiega il filosofo Pascal Chabot nel suo “saggio di cronosofia” che Treccani ha appena pubblicato (nella traduzione di Sandra Bertolini). Un tempo che è ovunque e da nessuna parte, regolato da strumenti e media per lo più digitali che ripetono impietosamente i minuti, i secondi. E ci condannano all’immediatezza del presente: ciò che è reale è soltanto quello che stiamo vivendo, e che un attimo dopo è svanito per sempre. Senza una visione di progresso, che presuppone una spinta verso il futuro, e neppure di passato, una volta persa l’idea di un fato che radicava, e giustificava, le nostre esperienze.
Come sopravvivere all’ipertempo. In viaggio per amore. Il coraggio di Vera Politkovskaja. I diritti umani spiegati ai ragazzi
L’amore è un viaggio. Ma non è un assioma. E per dimostrarlo serve compiere un’esplorazione della sua natura. Che in fondo è anche un percorso geografico vero e proprio. Si muove dall’Argentina all’Austria, l’autore, dall’India alla Bolivia per sperimentarne i tanti momenti: negarlo, incolpare, accettare, sopravvivere. E dare il via a un sentimento che è sempre spostamento fisico da un corpo all’altro. Arrivare nel luogo che è l’amato, e abitarlo.
NEXT LOVE
Alberto Giuliani
Il Saggiatore, pp. 280, € 19
Mantenere la memoria. Ribadire l’onestà intellettuale, la forza d’animo, il coraggio di una donna. Parlare di un esempio che dovrebbe appartenere a tutti e che in molti cercano invece di far dimenticare. E raccontare la propria madre, la tenerezza e l’ironia, il rapporto nuovo con le cose che le appartenevano, le lotte per avere giustizia. Dal 2006, quando la giornalista fu uccisa (traduzione di M. Clementi).
AVERE TEMPO
Pascal Chabot
Treccani
pp. 172, € 17
Chabot registra: la quotidiana espropriazione del nostro tempo (“alle 6:00 sveglia, 6:15 doccia, 6:30 caffè, 6:50 auto, 7:00 ingorgo, 7:15 ingorgo e radio, 7:30 scuola, 8:15 radio e ingorgo, 8:30 ufficio, 8:32 discussioni, 8:40 computer, 8:42 email, 8:49 email, 8:50 email, 8:55 9:03, 9:22 email...), sempre più estraneo ai nostri desideri e bisogni e governato da volontà che non sono la nostra. Nota lo scontro tra spinte diverse, tra concezioni incompatibili del tempo stesso, tra nostalgie e speranze. Osserva lo sforzo di ciascuno di noi di adottare la propria clessidra e abitare tempi diversi, di muoversi tra temporalità nelle quali ora rallentare ora accelerare. E, soprattutto, non getta la spugna ma, senza sofisticazioni filosofiche, con un ragionare lucido e accogliente, tratteggia anche una via di fuga: acquistare la consapevolezza che se il tempo ci manca è perché qualcuno ce lo ruba.
È in questa coscienza la nostra salvezza: nella scoperta che la forma ideale del tempo è la curva, non la linea retta. E che l’andamento ondulato è proprio quello della vita, degli indugi e dei cambi di rotta nei quali si annidano l’imprevisto, la libertà, la scoperta improvvisa, la gioia. La forma in cui riscoprire l’Occasione, che i Greci chiamavano “kairos”. Uscita dal tempo ordinario per riconoscere, e acciuffare, l’attimo giusto.
UNA MADRE
Vera Politkovskaja con Sara Giudice Rizzoli, pp. 193, € 19
Tutte le persone sono preziose. Tutti devono vivere liberi e sentirsi al sicuro. Sono vietate le torture e le punizioni crudeli. Sono i primi articoli di questo viaggio nei diritti umani, raccontati in audiolibro da Pierpaolo Spollon. In collaborazione con Amnesty International, e a 75 anni dalla nascita della Dichiarazione universale dei diritti umani per bambine e bambini, i trenta princìpi, illustrati da Ka Schmitz (trad. F. Castelli Gattinara).
LA DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI UMANI PER RAGAZZI E RAGAZZE
Cai Schmitz-Weicht – Emons Raga
Tutto è in armonia. Dialoghi, silenzi, attori. Peter Stein mette in scena “Il compleanno” di Harold Pinter. E coglie nel segno
nico ospite è Stanley (Alessandro Averone), un ex pianista quarantenne di cui sappiamo ben poco. Durante i festeggiamenti per il suo compleanno Stanley perde la testa, tenta di strangolare Meg e di violentare la vicina Lulu (Emilia Scatigno). A turbare Stanley è l’arrivo di una strana coppia che rende l’atmosfera misteriosa e più minacciosa. Sono Goldberg (interpretato da Gianluigi Fogacci), e McCann (Alessandro Sampaoli), che il giorno successivo alla festa portano via Stanley - perfettamente vestito ma con gli occhiali rotti - per ricoverarlo.
Seguire alla lettera un autore e avere la sensazione che stia parlando anche di noi, pur essendo i suoi personaggi lontanissimi dal nostro mondo. Harold Pinter è stato senza dubbio uno dei più dirompenti autori teatrali, non a caso gli fu assegnato nel 2005 il Premio Nobel per la letteratura. E pensare che quando esordì nel 1958 all’Art Theatre di Cambridge “Il compleanno” fu stroncato dalla critica (quella stessa sera, tra l’altro, debuttava per la prima volta a Londra Eugène Ionesco con “Il rinoceronte”). Incredibile se si pensa alla fortuna che ha avuto nel tempo questo testo, anche se non facile da interpretare. Ecco perché “Il compleanno” diretto dal regista tedesco Peter Stein (ricordate “I Demoni”?) – di recente in scena al Teatro Sala Umberto di Roma – dimostra come da un buon lavoro di squadra può nascere uno spettacolo in cui tutto è in armonia, dai dialoghi ai silenzi, dall’uso dello small-talk (il linguaggio quotidiano) alla complicità fra gli attori, incorniciati dalla scenografia sobria di Ferdinand Woegerbauer.
Una scena dello spettacolo “Il compleanno” di Harold Pinter per la regia di Peter Stein
Ma chi è davvero Stanley? E cosa vogliono da lui quei due uomini? Stanley è fuggito da qualcosa e si è rintanato in uno spazio tutto suo. La sua solitudine è la stessa di chi oggi rifiuta una vita che non ama più, un lavoro, o semplicemente uno stare nella società in una certa maniera, ecco perché parla anche di noi. È un ribelle che ad un certo punto viene richiamato all’ordine, ripescato o risucchiato da qualcos’altro che chissà dove porterà.
Il compleanno di Harold Pinter, regia di Peter Stein Siena, Teatro dei Rinnovati, fino al 26 febbraio. Cremona, Teatro Ponchielli, 28 febbraio. Parma, Teatro Due, 4 e 5 marzo
Chi ama i racconti di Katherine Mansfield? La scrittrice neozelandese, scomparsa 100 anni fa a soli 34 anni, ha ispirato Silvia Ajelli, che ha curato l’adattamento dello spettacolo “Pictures”, di cui è interprete, diretta da Luca Bargagna. Lo spettacolo è in scena a Napoli (Ridotto del Mercadante, fino al 5 marzo).
Stein, da anni residente in Italia, sceglie un testo giovanile di Pinter, scritto dopo aver letto “Il processo” di Kafka e le opere di Samuel Beckett. Tradotto da Alessandra Serra e prodotto da Viola Produzioni e Tieffeteatro Milano, lo spettacolo ci porta fra le verdi mura di una pensione inglese a due passi dal mare, gestita da Meg (Maddalena Crippa) e Petey (Fernando Maraghini). L’u-
Andrà all’asta il Teatro Sociale di Villastrada, gioiellino in stile neoclassico del 1910. Lo ha pignorato il Tribunale di Mantova dopo la sentenza di primo grado che impone ai proprietari dell’edificio di pagare 1.560.000 euro all’impresa edile che quindici anni fa eseguì i lavori di ristrutturazione. Intanto il teatro chiude, che fine farà?
Gian Maria Tosatti è l’artista del momento. Ora una mostra racconta le sue passioni. Da Pasolini all’archeologia industriale
re un paesaggio marino grigio, torvo, cupo. Violento. È l’attimo dopo l’esplosione finale, si vede solo una linea che separa i gradi blu che sono acqua e cielo e poi alcuni punti luminosi. Questa volta non sembrano lucciole, non appaiono speranzose, ma ci suggeriscono l’incontro con l’assoluto: sono Dio? Sono la lontana traccia di luce che non ha più bisogno di illuminare una specie ormai estinta?
Gian Maria Tosatti, classe 1980, è l’artista più esposto degli ultimi due anni. E quando dico esposto non intendo presentato in mostre o musei, ma scoperto, sul campo di battaglia. La sua “retrospettiva” al Pirelli Hangar Bicocca di Milano arriva in concomitanza con la Quadriennale di Roma e subito dopo il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Per quanto riguarda la prima, da direttore sta cercando di mettere insieme un tessuto capillare e produttivo titanico, per compattare l’arte italiana dell’ultimo periodo. Sul Padiglione Italia va detto che nel 2022 per la prima volta è stato interamente dedicato a un solo artista (lui): “Storia della notte e destino delle comete”. Tosatti ha passato mesi a recuperare macchinari dismessi nelle fabbriche italiane creando una scenografia di un’opera lirica che è la cifra di un fallimento morale, civile e politico del Paese. Alla fine del percorso si arrivava al mare, una banchina portuale larga due o tre metri. C’era davvero l’acqua tutto intorno ed essere in tensione fisica aiutava: buio pesto e neanche una protezione, un passo falso e si cadeva in acqua. Ed ecco in fondo, nel buio più buio, apparire una lucciola. Poi un’altra, un’altra e un’altra ancora, in un coro silenzioso e sacro. «Darei l’intera Montedison per vedere una lucciola», disse Pasolini. Ecco, con “Storia della notte e destino delle comete” Tosatti ha evocato un corso diverso del ‘900, ha pagato il riscatto e ha fatto tornare le lucciole, elemento che ritroviamo anche qui all’Hangar in uno dei due cicli di lavori presentati: enormi tele in grafite che sembrano ritrar-
E colpisce vedere che Tosatti, che ci ha abituati a installazioni ambientali ben diverse, abbia invece scelto il segno primario dell’arte: il quadro, la pittura. Ma d’altronde, a prescindere dal supporto, non è tutto pittura? Lo sono certamente i lavori del secondo ciclo in mostra, del quale fanno parte anche le strutture che li reggono e che ricordano quelle dei grandi manifesti pubblicitari nelle strade. Sono fatti di oro e ruggine. Incorruttibilità e corruzione – decidete voi in che ordine – ma anche il segno di un tempo in cui materiali che in chimica non si possono legare scendono nello stesso campo. Non è così? Non abbiamo ormai eliminato, attraverso l’iper-comunicazione moderna, ogni distinzione tra alto e basso? Tra sacro e profano?
La mostra si intitola NOw/here e anche questa è una presa di posizione diTosatti: facciamo i conti con noi stessi e scegliamo se essere qui e ora o nel nulla. Decideremo per la chiamata alle armi o per la resa? È una retrospettiva, ma come avrete notato abbiamo aperto mettendo questa parola tra virgolette perché non lo è nel senso che di solito intendiamo, ovvero quello della traccia materiale. È una retrospettiva sentimentale, che scandisce un’indagine cronologica nel cuore e nella mente dell’artista.
In quei billboard, che hanno inventato la necessità del consumo, capiremo se anche l’arte è qui per seguire una domanda o per crearla.
L’esposizione è curata da Vicente Todolì e sarà visitabile fino al 30 luglio.
C’era una volta il mercato della musica, con le sue varietà e oscillazioni temporali, le mode, i mutamenti generazionali, le ventate di innovazione creativa. Ora c’è una sfarzosa vetrina, dove però gli oggetti in vendita tendono ad assomigliarsi sempre di più. Le classifiche ufficiali della discografia e le graduatorie delle piattaforme danno lo stesso identico risultato. Nei primi 50 posti ci sono tutti e 28 i pezzi del festival di Sanremo, e nei primi 20 ce ne sono ben diciotto; su Spotify dal primo al nono posto è un’unica passerella, dalla Cenere di Lazza fino all’Alba di Ultimo, passando per Mengoni, Mr. Rain, Madame e Rosa Chemical, cose da pazzi e mai viste prima d’ora. Lazza straccia ogni record tra album e singolo, e chiede scusa a Vasco perché gli avrebbe tolto un primato di permanenza in classifica, anche se, senza nulla togliere all’esplosiva avventura di Lazza, i paragoni col passato sono impropri perché i meccanismi sono talmente diversi da giustificare una sorta di anno zero, di tabula rasa da cui ripartire da capo, come fosse un nuovo mondo, cosa che di fatto è. Ma non mancano gli aspetti paradossali. Nel nuovo mondo ci sta che l’ex regno del male, il festival
Nel sito creato per accompagnare la cerimonia dell’incoronazione di Re Carlo d’Inghilterra, il 6 maggio scorso, è stata immaginata una playlist con 27 canzoni che attraversano decadi pop rock inglese. Ci sono ovviamente Beatles e Queen, ma anche Boney M e Spice Girls.
Bacchettando i giovani trasgressori (verosimilmente i sanremesi Rosa Chemical e Blanco), per uno spessore artistico che non c’è, Renato Zero ha peccato di scarsa benevolenza. Quando ha iniziato lui gliene dicevano di molto peggio. Per acquisire spessore c’è sempre tempo.
Le hit parade sono dominate dalle canzoni di Sanremo. E da un meccanismo commerciale che uccide ogni originalità
Lazza canta al Festival di Sanremo: è arrivato secondo, ma la sua canzone “Cenere” è in testa alle classifiche
di Sanremo, l’oggetto in assoluto più antico in circolazione, sia diventato una sorta di Eldorado della nuova musica. O meglio, la produzione discografica è arrivata ad alcune forti semplificazioni. Si lavora sostanzialmente con due scadenze: Sanremo e i singoli per l’estate, il che ovviamente porta anche a una semplificazione creativa. C’è fretta, poco tempo per agganciare l’attenzione del pubblico, c’è un effetto di polverizzazione che arriva dall’invasivo linguaggio di TikTok, drop, ganci, trucchi di ogni tipo si inseguono in una rincorsa senza fine, secondo logiche ferree e sempre più irrinunciabili. Questi sono i fatti. Giorni fa, ricordando la scomparsa di Alberto Radius, genio discreto della storia della canzone, abbiamo riascoltato in radio un pezzo come “Eppur mi son scordato di te”, scritto per la Formula 3 da Battisti e Mogol. Bene, non stiamo parlando di dodecafonia, stiamo parlando di una hit memorabile, che tutti ricordano, che tutti cantano, eppure è di fatto quasi un pezzo progressive, c’è un intro di chitarra che dura più di un minuto, il pezzo cambia ritmo, atmosfera, sembra una minisuite. La domanda è questa: se qualcuno oggi proponesse un pezzo del genere verrebbe preso in considerazione? Arriverebbe in classifica? Forse no, e se è così allora dobbiamo preoccuparci seriamente. La musica deve essere il regno del possibile, non un imbuto che si stringe sempre di più.
Dalle donne col cartoncino della scalinata di Sanremo a Geppi Cucciari con la cartella della scaletta il passo è talmente lungo che sembrano programmi televisivi di due pianeti diversi. Invece è sempre lo stesso mondo, quello che si dovrebbe chiamare normalità e che a sorpresa ha quel sapore alieno delle cose ben fatte. Il caso è quello di “Splendida cornice”, altrimenti definito varietà culturale, qualsiasi cosa significhi questa etichetta, che sembra essere stata appiccicata apposta solo per far scappare il pubblico a gambe levate. Perché si sa che ci sono davvero poche cose che spaventano lo spettatore più dell’intelligenza da piccolo schermo. E nel programma di Rai Tre, è bene mettere le mani avanti, di sprazzi illuminati ce ne sono parecchi e vengono snocciolati con un’insolenza a orologeria. Cucciari ha dalla sua una sfrontatezza giocosa che le permette di mettere insieme alto e basso con frenetica alternanza e senza staccare lo sguardo dalla telecamera osa utilizzare correttamente il termine sinedrio, definisce il nome Anna come palindromo e si ostina ad avere la battuta pronta. Così con leggerezza mescola la sua pozione disturbante come una fattucchiera di buoni propositi, condendo lo strano elisir con la voce della soprano Laura Baldassarri che canta “Azzurro” e sintetizza in una sola esibizione l’intera insulsa polemica su Paolo Conte scaligero. E poi il rapper Clementino che omaggia Troisi dopo
Geppi Cucciari conduce il programma su Rai Tre in onda il giovedì in prima serata
Geppi Cucciari con “Splendida cornice” mette insieme intellettuali ironici e comici serissimi. In una strana pozione dove tutto funziona
aver imitato Gino Paoli, De Giovanni e Fabio Volo, Saviano e Sciarelli, i premi Nobel coi premi David, in un crossover continuo con mezzo palinsesto, un po’ “Tale e Quale”, un po’ “Il Collegio”, un po’ “The Voice” con tanto di poltrone girevoli in cui tre donne giudicano un monologo maschile e se si annoiano non si voltano neanche. Nel pentolone di Geppi Cucciari trovano posto un pubblico pensante e persone che sembrano nate anche per intrattenere il prossimo, come l’ingegnera aerospaziale Amalia Ercoli Finzi che non teme di prestare il suo fianco ludico neppure per un attimo. Ma ci stanno comodissimi persino gli intellettuali, che no, non sono una brutta parola e sì, capita persino che riescano a lasciarsi andare addirittura in una prima serata televisiva. Non per caso però, perché per mettere insieme Nicola Lagioia, Giorgio Zanchini, Daria Bignardi e Stefano Bartezzaghi in una parodia di quell’accozzaglia di rumore indistinto detta Bobo Tv, davvero ci vuole orecchio. Insomma, alla fine di ogni puntata resta quella sensazione gradevole di aver guardato una volta tanto la luna e non il dito. Perché la cornice è splendida, ma anche il quadro non è niente male.
Quel che passa il convento/1 Tre monaci per un programma di ricette? Si può fare, come avrebbe detto Gene Wilder. E con budini, frittate e canti gregoriani, i benedettini si muovono con agio tra i fornelli del monastero di Monreale. Per raccontare su Food Network che in fondo al peccato di gola si può anche cedere.
Quel che passa il convento/2 Come si dice, le vie dei reality sono infinite. Così l’ex suor Cristina, dopo “The Voice” e “Ballando con le stelle” è pronta a tuffarsi da naufraga in piena regola nella affannosa ricerca dei cocchi davanti alle lubriche telecamere dell’“Isola dei Famosi”. Rigorosamente senza velo.
Certe partite si giocano a rovescio. La posta è alta? Il tono sia lieve. Il tema è arduo? La leggerezza s’impone. Almeno sulle prime. E quanto accade in “Argentina, 1985”, ora in sala vista la candidatura agli Oscar. Dovendo rievocare il processo epocale che dopo tante assoluzioni nei tribunali militari portò finalmente alla sbarra Videla, Massera e i generali della giunta golpista, si prevedevano scene aspre e occhi sbarrati. Invece Santiago Mitre (Buenos Aires, 1980) la prende alla larga. Partendo da un esilarante quadretto familiare che fa subito centro: cosa fare davanti all’orrore e al pericolo? Sprofondare nella paranoia o attrezzarsi e restare fedeli a se stessi?
Il procuratore Julio Strassera (il sempre irresistibile Ricardo Darín), fin lì uomo e magistrato prudente, tende alla prima ipotesi. Sa che sta per cadergli addosso un processo-bomba in un momento delicatissimo. Ha paura di non farcela, di vedere i militari assolti, di fare da merce di scambio. Inoltre teme per sé e per i familiari. Così manda il figlio piccolo a pedinare la primogenita, rea di avere un fidanzato sospetto... ma tutto esplode in una bolla di sapone grazie all’interven-
Terremotato in Italia, eroe in Vietnam, dirottatore di un volo intercontinentale, ispiratore (forse) del personaggio di Rambo. Poi, stabilitosi a Roma, pedina di giochi oscuri negli anni 70-80. Chi è davvero Raffaele Minichiello? È la domanda centrale del nuovo docu di Alex Infascelli, “Kill me if you can”. Da non perdere.
Applaudito a Venezia, candidato a 3 Oscar tra cui quello al protagonista, esce “The Whale” di Darren Aronofsky, con l’ex-divo Brendan Fraser padre obeso e disperato. Enfatico, voyeuristico, ricattatorio, posticcio come il trucco indossato dal povero Fraser, il film più sopravvalutato dell’anno. Cosa non si fa per strappare una lacrima.
Arriva sugli schermi il processo a Videla per i desaparecidos. In un film che capovolge con maestria le aspettative dello spettatore
ARGENTINA, 1985 di Santiago Mitre Argentina, 140’
to a gamba tesa della moglie, che vedendo anche il lato familiare della faccenda pensa anzitutto al benessere (e alla libertà) dei figli.
Una scena da applauso che stabilisce subito il tono. Se cerchi la Storia (nomi, luoghi, date: è tutto vero), parti dalla vita intima. Tanto più che in quel viluppo di sentimenti contraddittori si dibatte un’intera nazione, traumatizzata dal ricordo delle torture e dei desaparecidos (un genocidio, stabilì il processo). E poi la famiglia è sempre la lente migliore per evocare un dramma che oltre a spaccare il paese divideva le generazioni.
Così Mitre, già autore di un altro bel film (fanta)politico con Ricardo Darín, “El presidente”, tratta in chiave “domestica” tutti i comprimari e gli ambienti in cui si snoda la vicenda (mai cast fu più vario e affiatato). Gli uffici della Procura, i rapporti con il giovane assistente assegnatogli d’ufficio, ansioso di smarcarsi da una famiglia collusa, soprattutto quel gruppo di ragazzetti inesperti, sparuti, malvestiti, magrolini, che sono perfetti per l’impresa proprio perché puliti, ignoti al regime, insospettabili agli occhi dei servizi ma anche dei tanti testimoni che sfileranno a deporre. Altra bella intuizione che dà a questo classico “procedural” un sapore di sfida e ricambio generazionale felicemente insolito per un titolo Amazon.
Igatti ci addestrano, sono dei veri manipolatori di umani. Chi condivide la vita con un gatto converrà con me che questo delizioso felino ha la capacità di farci fare ciò che vuole. I gatti sono delle piccole tigri delle quali hanno conservato ogni atteggiamento, ma si sono abituati alle comodità della casa perché sono intelligenti e scaltri e sanno perfettamente come farsi intendere. Se non c’è da fare niente, se si sta sul divano spaparanzati a guardare la tv, lui c’è. Direi quindi che il gatto è un ottimo compagno per chi è pigro. Secondo esperimenti recenti, i gatti usano un particolare miagolio per attirare la nostra attenzione e chiamarci al bisogno, cosa che non fanno tra loro. Insomma, vivendo con l’uomo, hanno capito come modulare la voce per ottenere una risposta. I dati pubblicati da Assalco (Associazione Nazionale tra le Imprese per l’Alimentazione e la Cura degli Animali da Compagnia ndr), ci dicono che in Italia ci sono circa dieci milioni di gatti che vivono in famiglia. Una cifra solo stimata perché non esiste una vera anagrafe felina nazionale. L’importante presenza del gatto in casa degli italiani ha creato esigenze nuove. Ed ecco che nasce la figura del consulente della relazione felina. Quando l’ho scoperto ho subito cercato di approfondire. Ho conosciuto Ilaria Mariani e Manuela Pintore, due professioniste formate alla scuo-
Se in casa non ci sono abbastanza stimoli, il gatto si annoia facilmente e rischia di diventare depresso
Nelle case italiane vivono dieci milioni di felini. Ma se non sono ben tenuti diventano un problema per sé stessi e per la famiglia
Una casa tridimensionale, con spazi sopraelevati disponibili per il gatto. Tira graffi e giochi da fare insieme. Interagire con lui con i suoi giochi preferiti. Il gioco si anima e diventa interessante quando noi lo muoviamo e diamo vita a quell’istinto predatorio insito nel felino.
Lasciare la lettiera sporca, tanto è un gatto. Mai pensare che faccia qualcosa per farci dispetto. Se presenta comportamenti sgraditi, contattare un consulente della relazione felina per capire cosa vuole dirci. Prima che sia troppo tardi e tutto si trasformi in un incubo. Per noi e per lui.
la S.i.u.a. di Roberto Marchesini, il guru della zooantropologia. Preparate e serie, vivono in Lombardia, ma hanno clienti in tutto lo Stivale. Perché il lavoro con il gatto, di solito quello che vive segregato in casa, è complesso. E lo si fa per lo più a distanza attraverso video. «I gatti problematici, non si fanno neanche vedere se andiamo a fare una lezione a domicilio», mi hanno spiegato. Pensandoci bene è così. E poi ogni gatto è un mondo a sé. La figura dell’educatore cinofilo è molto diffusa ormai, perché il cane non crea problemi solo al padrone, ma compromette anche le relazioni con l’esterno. Il gatto invece sta a casa e se fa sempre i suoi bisogni fuori dalla lettiera, il problema rimane tra le mura domestiche. Un segnale che non andrebbe sottovalutato. Se invece il gatto mangia, beve, dorme e non fa altro, forse è triste e depresso perché in casa non ha stimoli. I gatti hanno bisogno di uno spazio tridimensionale, e poi amano l’altezza. Pensiamo quindi ad attrezzare lo spazio tenendo presente le sue necessità. E allora perché non sfruttare questa figura professionale e seguire un corso per capire se siamo pronti ad accogliere un micetto nella nostra vita? Il gatto vuole la casa a sua misura, fondamentalmente perché la casa è sua e noi siamo ospiti al suo servizio. E basta con l’idea che il gatto faccia qualche marachella con dolo, che sia dispettoso o vendicativo. Qualsiasi comportamento sgradito è un segnale del suo disagio. Ricordiamocelo.
Per identificarne la preziosità e la geolocalizzazione viene definito l’Oro Verde di Calabria. Il Bergamotto è tra gli agrumi più affascinanti con la sua forma rotonda e il colore giallo verdognolo che lo fa assomigliare un po’ a un limone. A questo frutto dai fiori profumatissimi non è stata ancora attribuita un’origine certa. Potrebbe risalire alla città Berga (Barcellona) o Pergamon (Troia) ma ci piace pensare che il significato derivi dal turco del Pero del signore (Berg-a-mundi) per la somiglianza con la Pera Bergamotta, una tipologia tardiva piuttosto tozza (appunto) molto zuccherina e al contempo dissetante. Il mistero persiste nell’ambito botanico visto che in molti sostengono la loro: si va dalla mutazione genetica del limone o della limetta – verosimile a livello cromatico – per arrivare a quella dell’arancia amara. Ipotesi suffragata dal fatto che se si pianta un seme di bergamotto nasce appunto questo agrume e solo successivamente può essere innestato a bergamotto. Più che in ambito gastronomico questo agrume deve la sua antica notorietà in campo cosmetico proprio al suo olio essenziale (anche un fissante per gli altri profumi). Lo rese celebre un emigrato italiano, Jean Marie Farina, che due secoli fa utilizzò il bergamotto come base della famosa Acqua di Colonia, prediletta anche da Napoleone, in ricordo del suolo natio. Va riferito poi che il primo “bergamotte-
Frutti di bergamotto: dalla scorza che ha un aroma unico si ricava un olio essenziale prezioso in profumeria
Cresce solo in un piccolo tratto della Calabria. Ma lo si incontra nei profumi più famosi del mondo. E merita un posto anche in cucina
to” fu creato nel 1749 da Nicola Parisi che lo impiantò lungo la costa calabrese nel fondo di Rada dei Giunchi. Non più di 120 chilometri (tra Villa San Giovanni e Monasterace) costituiscono l’esclusivo habitat di questo frutto giallo e tondo, vero vanto e prestigiosa realtà della provincia reggina e della Calabria in generale. La ricaduta sul territorio non è piccola, l’esportazione in tutto il mondo è rilevante in termini sociali ed economici, tanto importante che nel 1931 viene istituito il Consorzio Produttori Bergamotto con notevole intuito, va sottolineato. In campo gastronomico è sempre stato utilizzato come una sorta di “compensatore di acidità”, oltre che come candito o ingrediente nel mondo della liquoristica. Fortunatamente da qualche tempo si è iniziato a utilizzarlo con intelligenza per sfruttarne caratteristiche difficili, sì ma davvero uniche e rare. La scorza si presta ovviamente ad essere veicolata al meglio con i grassi (olio in primis), per allungare e rendere esplosive caratteristiche aromatiche davvero inebrianti. Altrimenti è sempre possibile farne un infuso con cui arricchire aromaticamente creme, salse e quanto possa rinvigorire una preparazione dolce ma anche salata visto che proprio le sue sfaccettature uniche sono perfette per antipasti di pesce.
MACLURA POMIFERA
Visto che siamo in tema green, vogliamo segnalare un frutto che seppur immangiabile ha una scorza che diffonde un effluvio che rasserena gli animi con il suo sentore di ozono e di aria pulita, poi la rugosità della stessa si presta al tocco.
LA PAGNOTTA
Se nei lustri addietro nel fine dining era un proliferare di pani dai mille gusti ma non sempre perfettamente a punto, ora è la volta della pagnotta, suddivisa in spicchi. Ci siamo però dimenticati che il pane in Italia ha mille fogge.
Di pari passo con la crescita esponenziale, di critica e di pubblico, della viticoltura siciliana, ormai più che pronta a confrontarsi su palcoscenici mondiali, l’azienda Cusumano in appena vent’anni di storia si è ritagliata un ruolo da assoluta protagonista. Frutto di scelte azzeccate ma anche di una programmazione particolarmente oculata, merito delle idee cristalline, imprenditoriali ed artigiane, dei fratelli Diego e Alberto. L’ambizione di dare ad ogni vitigno la possibilità di esprimersi al meglio, realizzata in cinque tenute tra San Giacomo, Ficuzza, Presti e Pegni, Partinico e nel progetto principe, a Castiglione di Sicilia, versante Nord dell’Etna. Terreni leggendari, culla della viticoltura europea, origine di vini celebrati in tutto il mondo. Eppure un mestiere arduo, da ostinati: ripagato, nei casi migliori, da grandi successi. Difficilissimo mantenere un livello qualitativo di tale eccellenza quando si sfornano più di due milioni di bottiglie - prodotto di 520 ettari vitati (tutti di proprietà) - eppure Cusumano ci riesce, e lo fa usando l’arma dell’eterogeneità, coltivando varietà internazionali insieme a territoriali di personalità. Sopra tutto, l’ossessione di preservare la biodiversità, facilitata dallo spirito pacificante del Vulcano, quell’Etna che tanto riesce a trasmettere, ai suoi figli, in termini di complessità e ricchezza. In bottiglia finisce, per le fortunate (ma non casuali) combinazioni di cui sopra, un piccolo, brillante, concentrato isolano. Il Terre Siciliane IGT Angimbé, ad esempio, Insolia e Chardonnay affinate solo per qualche mese in acciaio, naso di pesca tabacchiera, litchi, gelsomino. Succoso, salmastro e di grande persistenza alla bocca. Oppure l’Etna Rosso DOC Alta Mora, un Nerello Mascalese in purezza che alterna note di sottobosco a una freschezza nitida. Ribes nero al naso, con note di foglia di pepe, al palato teso, sapido e di grande lunghezza gustativa.
Ai piedi dell’Etna un’azienda che cura la personalità di ogni vitigno e appezzamento. E sforna milioni di bottiglie preservando la qualità
La Tenuta Ficuzza nella Piana degli Albanesi. A destra: Diego Cusumano, proprietario dell’azienda insieme al fratello Alberto
TERRE SICILIANE IGT
SALEALTO 2020
PUNTEGGIO: 98/100
Siamo nel paradiso di Tenuta Ficuzza, la glorificazione di una cantina magistrale nell’interpretazione dei territoriali, anche in questa versione 2020 magnificamente amalgamati. Sempre blend egualitario di Insolia, Grillo e Zibibbo: naso di albicocca di Scillato, note di zest di cedro, fiori di zagara e salvia, con nota ammandorlata. Beva sapido-salmastra, con ritorno floreale-officinale e chiusa ammandorlata, perfetto con una pasta con le sarde e pinoli tostati.
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Cara Rossini, non ci accorgiamo che le guerre sono del tutto inutili. Se, per esempio, l’Europa occidentale fosse invasa con le armi da altri Paesi al fine di integrare le loro popolazioni con quelle autoctone e averne pure il sopravvento, quante distruzioni e quanti morti ci sarebbero? E quanti anni durerebbero i conflitti visto che la guerra della Russia nella sola Ucraina dura da un anno e non se ne intravede la fine? Invece l’invasione pacifica di milioni di immigrati in Europa dimostra che si può raggiungere ugualmente l'obiettivo di partecipare alla vita dei singoli Paesi. Peraltro l’umanità potrebbe comprendere l’inutilità di ogni tipo di lotta fra i popoli, visto l’ineludibile, fatale destino uguale per tutti.
Tutto infatti al mondo dovrà finire per poi tornare alle origini, a quel miscuglio indistinto della materia che diede inizio alla vita. Tutto è destinato a morire per poi riprendere il ciclo eterno del nascere e morire. Sarebbe un bel salto sulla via della conoscenza per l’umanità se essa imparasse a procedere verso il baratro, al quale è comunque destinata, con rassegnazione e pacificamente. Basterebbe prendere l’esempio dagli altri animali, dalle piante e dall’inorganico, piuttosto che anticipare i tempi con l’autodistruzio-
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ne. L'umanità arrivò per ultima e fa del tutto per andarsene per prima, trascinando con sé ogni altra specie animale, la vita vegetale e la pur semplice materia inorganica. Questa è l’umanità, tanto da far pensare a un aborto della natura. Ma nell’infinito ripetersi delle cose del mondo la paziente Natura progredirà poiché, come disse Albert Einstein, «Dio non gioca a dadi con l’Universo». E noi facciamo parte dell’Universo. Lucio Postacchini
Proprio Einstein, che lei cita a conclusione, si trovò a parlare della guerra in un famoso scambio epistolare con Sigmund Freud intitolato “Perché la guerra?”. Erano gli anni Trenta del Novecento e i due geni vivevano con preoccupazione quella breve pausa tra i due grandi conflitti mondiali. Per entrambi la causa delle guerre va cercata nell'aggressività umana, ma quando Einstein chiede a Freud come aiutare gli uomini a resistere alle «psicosi dell’odio e della distruzione», il padre della psicoanalisi risponde che non c’è speranza se non il ricorso all’antagonista di quella pulsione, cioè l’Eros, e che tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. A un secolo di distanza sappiamo che non è andata così.
n. 8 - anno 69 - 26 febbraio 2023
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Alessandro Mauro Rossi
Fate più sesso, per favore. Non lo dico io, ma un articolo del New York Times secondo cui due terzi degli americani dichiarano di sentirsi soli e addirittura un intervistato su quattro dice di non aver avuto nemmeno un rapporto sessuale nell’anno precedente. Clamoroso per una società che qualche decennio fa James Ellroy descriveva così in “American Tabloid”: «La vera Trinità di Camelot era Piacere, Spaccare il culo e Scopare. Jack Kennedy è stato la punta di diamante mitologica di una fetta particolarmente succosa della nostra storia». Succede in America, ma chiaramente an-
che in tutto il mondo. Un po’ ci hanno detto che il Covid ha deteriorato i rapporti, un po’ la coppia è in crisi e il matrimonio non ne parliamo. Però qualcosa manca nella narrazione, perché mai come ora siamo stati pervasi e invasi da immagini sessualizzate. Tv, media, Instagram, il sesso esce da tutte le parti. E non è mai un’entrata in scena in grande stile, un richiamo al sano desiderio o a qualcosa di davvero proibito, ma piuttosto una strategia subdola di posizionamento e marketing. Ho ancora negli occhi le immagini dell’ultimo Sanremo e c’è qualcosa che non capisco: come mai gli artisti devono essere dei sex symbol? Perché è così importante non solo essere belli ma anche ammiccanti o arrapanti? Bisogna tenere tutti incollati allo schermo, tutti a fare like all’ultimo video, altrimenti si scompare. Pensate a com’era ingenua la Carrà che cantava di far l’amore
da Trieste in giù e poi visualizzate i Måneskin sempre nudi come in uno spettacolo di addio al celibato per sciure di tutto il mondo; Elodie in versione Beyoncé ma non posso; Levante che canta una canzone sulla gioia di masturbarsi; il bacio tra Fedez e Rosa Chemical. Il messaggio, dal look ai temi delle canzoni, è una provocazione continua. Non c’è niente di male e le celebrità fanno sicuramente bene a fare il loro gioco. Credo solo che i loro video arrivino nei telefoni di persone comuni, che invece sono piene di complessi, di ansia da prestazione e ne vengono devastate. Il New York Times dice che ci sentiamo soli e non facciamo più sesso e sfido chiunque a dire che la comunicazione dei social non è una causa peggiore del Covid.
È molto più semplice fare sesso online o grazie a un algoritmo, non investire emotivamente in una relazione, nemmeno nell’amicizia. L’eterno presente in cui viviamo è tutto talmente fondato sulla tutela di sé che la relazione è ormai un pericolo. Dilagano la paura della fusione simbiotica, ovvero di entrare in contatto con l’altro e non sapersi più svincolare, e l’idea che la coppia sia una rinuncia all’autonomia, al nostro successo. Quindi piuttosto non investo, vado contro le mie pulsioni e faccio tutto da solo, mi isolo, mi masturbo su OnlyFans, ma almeno non mi sento rifiutato o risucchiato. Poi c’è il disagio sociale: e se l’altro mi rifiuta? E se faccio cilecca? E se non sono figo come l’immagine del tizio famoso che mi arriva? Non si possono più considerare i social network come una forma di intrattenimento e basta, ormai sono dei totem di valori che modificano il nostro comportamento e la nostra cultura. Sì, lo facevano anche il cinema e la tv, ma lì non eri mai tu il protagonista. Adesso più sei provocante più sei esposto. Senza essere nostalgico, penso che si stesse meglio quando si attaccavano i poster degli altri sul muro della cameretta, invece che il nostro.
in cameretta
Tv, social: il sesso è ovunque. Ma l’ansia da prestazione spinge a fuggire dalle relazioni reali
Tecnologie di ultima generazione e una filiera integrata verticalmente, dalla raccolta della carta da riciclare alle cartiere, dagli ondulatori agli scatolifici: da 50 anni Pro-Gest dà vita a un modello di economia circolare 100% italiano.
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