24febbraio2022 SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA 4 euro
Minuto per minuto, il diario delle ore che sconvolsero l’Unione. Con la guerra alle porte scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina. Un racconto in presa diretta
POLITICA
Amici, spie e appalti. Domenico Mantoan, dalla sanità veneta a ras nazionale
ECONOMIA
Crescono i tassi, le banche festeggiano. Pagano imprese e famiglie
CULTURA
A tutto western. Dai film alle serie, il ritorno dell’epopea dei cowboy
LA NOTTE IN CUI L’EUROPA TREMÒ numero 7 - anno 69 19 febbraio 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaSpagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70
Alessandro Mauro Rossi
Toh, che sorpresona. Dalle urne è uscito il risultato che in molti si attendevano. Unica anomalia, che poi non lo è più di tanto, è che a votare, tra lombardi e laziali, sono andati solo quattro su dieci aventi diritto. Era successo anche peggio in Emilia-Romagna in occasione dell’elezione di Stefano Bonaccini. Il problema è che questo tipo di elezioni appassiona sempre meno la gente perché le Regioni sono un’entità lontana dalla vita di tutti i giorni se non per chi ci vive a stretto contatto per motivi vari: lavoro, clientele, opportunità, bisogni. E dire che le Regioni fanno parte dell’impianto costituzionale
non acquistano più
costituito proprio per stare accanto ai cittadini, per sviluppare e radicare la democrazia nei territori. Il problema è l’offerta politica. Se è quella che si è presentata agli elettori domenica scorsa non c’è da meravigliarsi che la gente non si sia messa in fila per deporre la scheda nell’urna. Vincitore indiscusso il centro-destra con FdI leader assoluto. Prevedibile. Come diceva Ennio Flaiano: «Gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore». E il vincitore di questi tempi porta il nome di Giorgia Meloni. Va di moda anche se ancora non è che il governo abbia fatto proprio questo granché, se non inciampare un po’ qua e un po’ là. E alla moda non si comanda. Passerà, come l’eskimo o i pantaloni a zampa di elefante. Il problema sarà valutare gli eventuali danni collaterali che avrà prodotto sul tessuto sociale. E soprattutto, col tempo, chi sarà in grado di rime-
Meloni va di moda, passerà. Il problema sarà valutare gli eventuali danni collaterali che avrà prodotto
diarvi. Anche perché dalla parte opposta, non è che ci sia una grande attività propositiva. Infatti, molti elettori di centrosinistra non sono andati a votare per motivi diversi: quelli del Pd, anche se il risultato non è stato percentualmente dei peggiori, perché non sanno ancora di che pasta sarà fatto il partito che uscirà dalle primarie di fine febbraio; quelli di Azione-Italia Viva perché la proposta politica è quella che è; quelli dei 5Stelle, perché orfani della bandiera del reddito di cittadinanza e storicamente sconfitti alle elezioni locali. Se anche le tre forze principali del centrosinistra si fossero alleate non sarebbero state in grado di contrastare lo strapotere elettorale del centrodestra. Il motivo è semplice: mancanza di elettori alle urne, non mancanza di elettori in assoluto. Perché, lo sanno tutti, alle Politiche di settembre sarebbe bastato poco (magari presentarsi uniti come il centrodestra) per poter almeno pareggiare la partita. Ma i troppi galli nel pollaio, mentre giocavano a chi cantava più forte, hanno consentito alla volpe Giorgia di mangiarsi le galline. Il bello è che non hanno imparato la lezione. C’è da ricostruire a sinistra e occorre un federatore che sicuramente non può essere Calenda o Renzi, difficilmente Conte, meno impossibile Bonaccini o Schlein, ma la strada è in salita se non si scelgono semplici obiettivi comuni: difesa dei più deboli, lavoro, salario minimo, attenzione alle piccole e medie aziende, sanità, ecologia/ energia, diritti. E poi uno su tutti: la Pace. La Pace (con la P maiuscola) è stata uno dei grandi temi identitari della sinistra. Che torna prorompente alla vigilia dell’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina a cui dedichiamo il servizio di copertina ricostruendo quella notte minuto per minuto. In questa guerra russi, americani, europei e ucraini hanno ognuno i propri interessi. Solo la Pace è nell’interesse di tutti. Soprattutto dei popoli.
Al mercato politico i cittadini-elettori
EDITORIALE 19 febbraio 2023 3
MAXI PANNELLI SCORREVOLI, SELF BOLD CONTENITORE. DESIGN GIUSEPPE BAVUSO
Sebastiano Messina
GIORGIA MELONI
Vincendo con percentuali democristiane (33,6 nel Lazio) la sua prima sfida a 113 giorni dal suo insediamento a Palazzo Chigi, la premier ormai domina incontrastata la scena politica. Nelle sue vele oggi ha il vento del consenso popolare. Accadde anche a Matteo Renzi, che governava solo da 93 giorni quando raccolse un sorprendente 40,8 alle Europee del 2014. Poi però inciampò sulla riforma della Costituzione: il campo minato sul quale sta per avventurarsi anche Giorgia Meloni.
ATTILIO FONTANA
Lo davano per spacciato, ma Attilio Fontana - l’uomo che non era capace di indossare una mascherina, incriminato e poi prosciolto per la fornitura di 75 mila camici, messo persino sotto accusa per «epidemia colposa» - è stato rieletto alla presidenza della Regione Lombardia con un risultato superiore a quello di cinque anni fa (+ 5 per cento), guadagnando voti anche nella «zona rossa» del Covid. E presto nessuno si ricorderà che sei lombardi su dieci non sono andati a votare.
PAOLO MIELI
Vittorio Sgarbi lo ha candidato alla presidenza della Rai, «perché serve un uomo che abbia equidistanza». Ma lui ha già l’agenda piena: oltre all’appuntamento quotidiano con “La grande storia”, la mattina commenta le perle dei quotidiani su Radio24 e la sera si diverte a dispensare saggezza nei talk show. Dunque ha declinato l’offerta con ironia («Me lo propongono da quando giocavo a pallone in parrocchia») confermando di essere equidistante anche da se stesso e dalla vanità.
La premier vittoriosa sta per avventurarsi nel campo minato della riforma costituzionale
SILVIO BERLUSCONI
Forza Italia dimezza alle Regionali i voti di cinque anni fa, e lui mette in imbarazzo i suoi stessi ministri rivelando di essere ancora il miglior amico di Putin. Ancora più di Salvini, l’ex Cavaliere si rivela un alleato inaffidabile per Giorgia Meloni. Alla quale non ha perdonato di averlo definito solo «il miglior ministro degli Esteri che abbiamo avuto», lui che è davvero convinto di essere stato «il miglior presidente del Consiglio, di gran lunga, degli ultimi 150 anni».
FEDEZ
Più che per il monologo, per il sexy look e per la performance di Chiara Ferragni, la partecipazione dei Ferragnez al Festival sarà ricordata per i fuori programma di Fedez, pretesti perfetti per gli attacchi del centro-destra. Ma quello che a prima vista potrebbe sembrare un duplice successo mediatico è in realtà la prima vera incrinatura dell’immagine dorata dei Ferragnez, con il marito che pensa solo a se stesso. E il suo problema è che non se n’è neanche reso conto.
MASSIMILIANO ALLEGRI
Allo stadio, l’allenatore e il tifoso entrano da due porte diverse, perché diversi sono i loro ruoli. L’allenatore decide la formazione, lo schema tattico e le sostituzioni. Il tifoso può solo applaudire, gridare o fischiare. E dunque, se sei l’allenatore della Juve, non puoi gridare a uno spettatore «Stai zitto!», giustificandoti col fatto che «c’è gente che viene allo stadio per fischiare a prescindere». Perché il fischio, nel calcio, è uno dei pochi diritti del tifoso.
19 febbraio 2023 5 CHI SALE E CHI SCENDE
Diletta Bellotti
Vi chiedo di immaginare un fiore. Il primo in realtà che riuscite a visualizzare. Prendetevi un attimo, chiudete gli occhi e visualizzate l’ambiente intorno: da dove lo state raccogliendo? Il fiore ha opposto resistenza? Ce ne sono altri intorno? Ora donatemelo. Con questo semplice gesto della mano non mi avete donato solo un fiore, ma la vostra intera esperienza umana, la sintesi di tutto ciò che avete vissuto, letto, pensato e sentito. Mi avete donato la vostra estetica e immaginazione, il vostro olfatto e il vostro tatto. Forse mi state addirittura donando un ricordo di un fiore donato. Mi state donando tutte quelle
Donatemi un fiore, ditemi come volete stare al mondo
esperienze umane da cui la vostra, personale, necessariamente dipende. Sotto quel gesto, sotto quel dono, c’è un gancio con una complessa e fitta rete di vissuti che fluttua enorme e ingombrante intorno a un semplice fiore. Esperienze magari dimenticate che comunque abitano quel fiore visualizzato. Capiamoci bene, non tutte saranno esperienze positive; mi donate anche e soprattutto, spero, la sintesi dei vostri traumi e delle vostre sofferenze. Mi raccontate, nel vostro unico modo di darmi qualcosa, come voi avete costruito significato, come avete resistito. Soprattutto, e questo punto è essenziale: mi donate quello che voi stessi avete ricevuto come rilevante. Infatti questo significato intorno alla vita, per quanto svegli, nessuno di voi l’ha costruito da sé: è una pioggia di fiori infiniti, storici, antichissimi, fiori i cui semi son forse ormai estinti, persi nel vento. Un fluire dolce
e lento di fiori che portano la sintesi esperienziale di tutta la storia umana, non solo di quella bianca occidentale, ma anche e soprattutto di quella non-detta, marginale, inconscia, quella familiare e insignificante, quella che si osserva negli altri mentre si aspetta un autobus. E questa storia umana, questa sintesi esperienziale collettiva, voi me la state concedendo attraverso i vostri occhi. Quindi vedete, sotto questo gesto — che io non a caso credo, visualizzo in un fior acquatico, perché me lo immagino proprio sospinto dall’acqua — ecco, sotto questo gesto, risiede il mondo intero, tutto mischiato e accrocchiato, come una struttura del purgatorio che con i suoi moti e i suoi giri è riuscito a sintetizzare la volontà, vostra, di dare qualcosa all’altro. Un significato nel contatto con il mondo e, ancor di più, un’urgenza nel dare qualcosa. In altre parole: di creare un’eredità intorno a un fiore visualizzato.
Dunque, cosa fare prima della fine? Cosa fare prima che il mondo collassi? Dobbiamo resistere, questo è ovvio. Dobbiamo essere sabbia, non olio negli ingranaggi di questa macchina mondiale, di questo capitalismo della morte. Dobbiamo lottare contro l’1 per cento che ha reso invivibile il pianeta che abitiamo, per proteggere le nostre comunità, le persone che amiamo. Per farlo dobbiamo tornare dove abbiamo colto il fiore. Io tornerò nell’acqua di uno stagno tra i fiori di loto, come una ninfa marina, lì dove oggi, in un millesimo di secondo, ho elaborato che fiore cogliere. Cosa donare. Lì, nella scelta su cosa raccogliere e lasciare al mondo, nella scelta, non nel dono in sé, risiede il significato dello stare al mondo. Lì risiede la voglia di resistere. Nel gesto prima del dono, nel momento in cui uno si dice: forse ho qualcosa da dare all’altro, forse quest’urgenza che sento non è solo mia. Forse questo fa male anche a te, forse insieme ci fa meno male, vieni qui, vieni da me, in quest’acqua c’è posto per ognuno di noi.
RESISTENTI
Nel gesto di dare qualcosa all’altro, nella scelta stessa del regalo, risiede tutta la nostra esperienza di vita
19 febbraio 2023 7
CONSULENZA DEL LAVORO E FISCALE MILANO | PADOVA | BOLOGNA | CORTINA D’AMPEZZO www.studionecchio.it
Carlo Cottarelli
Una delle questioni che sta creando tensione tra il governo italiano e quelli di Germania e Francia riguarda la risposta ai sussidi che gli Stati Uniti stanno introducendo per sostenere nella transizione verde le imprese che producono negli Usa. Nei media la questione è stata presentata nei seguenti termini. Primo, gli Stati Uniti stanno avvantaggiando le proprie imprese. Secondo, Francia e Germania vogliono rispondere con sussidi nazionali e sono riusciti, per far questo, a ottenere un allentamento delle regole Ue sugli aiuti di Stato. Terzo, l’Italia che ha un debito più alto non
Perché occorre un fondo europeo per la svolta green
può fare la stessa cosa e il suo tentativo di avere un sostegno europeo alle nostre imprese attraverso un Fondo per la transizione ecologica non ha avuto successo al Consiglio europeo del 10 febbraio. Quarto, come ha detto Giorgetti, per lo meno i vincoli europei sul debito devono essere allentati per consentire anche a noi di indebitarci per sostenere le nostre imprese. Quinto, Francia e Germania sbagliano ad andare a Washington a negoziare con Biden da soli, escludendo l’Italia. Questa narrativa è solo in parte corretta.
Partiamo dai dati. Il principale strumento di sostegno introdotto da Biden è l’Inflation reduction act (Ira). Si dice che vale 2 trilioni di dollari. È una bufala. Biden aveva provato a introdurre un piano di infrastrutture da 2 trilioni, ma non è riuscito a farlo passare in Senato e si è dovuto ac-
Anche un mero 0,1 per cento del Pil, se piazzato in settori strategici, può fare la differenza
contentare dell’Ira. L’IRA vale 738 miliardi, secondo il Congressional budget office. Due precisazioni. Primo, i 738 miliardi sono maggiori entrate, non maggiori spese. Queste maggiori entrate saranno usate per ridurre il deficit pubblico per 238 miliardi; alla transizione ambientale vanno 391 miliardi; il resto consiste in altre spese e tagli di tasse. Secondo, tutte queste cifre si riferiscono ai prossimi 10 anni. Quindi, i sussidi ambientali ammontano a 39 miliardi l’anno che, visto il livello del Pil americano e il suo probabile tasso di crescita nei prossimi anni, significa sussidi di poco più dello 0,1 per cento del Pil (anche se la spesa potrebbe essere maggiore nei primi anni e minore nella seconda parte del decennio), peraltro non finanziati in deficit.
Se questi sono i numeri, la tesi per cui l’Europa non potrebbe rispondere agli Usa se non attraverso un maggiore deficit, che Francia e Germania potrebbero permettersi e l’Italia no, non sembra molto solida. Una risposta europea è necessaria perché anche un mero 0,1 per cento del Pil, se piazzato in settori strategici, può fare la differenza e alcune imprese europee si sposterebbero in America, in assenza di tale risposta. Ma non si tratta di cifre che non possono essere sostenute anche da Paesi indebitati come il nostro. Ciò detto una risposta unitaria europea tramite un fondo per sostenere la transizione energetica e ambientale sarebbe certo preferibile, anche perché, oltre alla questione della risposta agli Stati Uniti, servono risorse anche per altre cose, come il rinnovamento dei nostri edifici, un problema particolarmente rilevante per l’Italia. E dialoghi separati con gli Stati Uniti da parte di Francia e Germania vanno evitati: questioni europee vanno discusse dalla Commissione Eu non da singoli Paesi.
PER PARTITO PRESO
19 febbraio 2023 9
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T’aspettamm!
Francesca Barra
La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari». Lo disse lo scrittore Gesualdo Bufalino, dopo la morte dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
La scuola e la cultura fanno paura alle mafie, perché rendono più robusti i ragazzi contro ogni forma di prevaricazione, soprattutto in quelle zone dove il familismo crea una rete pericolosa e omertosa, dove i pochi rischiano di diventare nessuno. Perché si sa, la ’ndrangheta è una bestia che si vuole alimentare in silenzio.
Giovanni Falcone raccontava quanto pesasse l’impianto familiare nelle organiz-
La lotta antimafia dalla frontiera di una cattedra
zazioni criminali per mantenere integra l’immagine e la reputazione. Un ricatto molto difficile da cui affrancarsi, figuriamoci per un ragazzo a cui insegnano che «la famiglia viene prima di tutto, a prescindere da tutto».
Anni fa fece notizia un liceo di Rosarno in cui gli studenti decisero di prendere le distanze dalle famiglie ’ndranghetiste. Il merito di questa rivoluzione culturale fu anche della dirigente scolastica Mariarosaria Russo che decise di gettare semi di legalità nella sua scuola. Uno studente appartenente alla famiglia Pesce di Rosarno, durante un’assemblea nel 2017, chiese coraggiosamente ai magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino in visita a scuola: «Come devo comportarmi per compiere un percorso di legalità?
Devo rinnegare la mia famiglia?».
I magistrati risposero che prendere le di-
Sono stati gli studenti a rieducare le famiglie. Anche per i figli dei boss c’è una seconda possibilità
stanze da un familiare non vuol dire prendere le distanze dall’amore filiale, ma condannare la forma di illegalità. E qualcosa cambiò.
«Sono stati gli studenti a rieducare le proprie famiglie e a non essere più coinvolti in quei circuiti di illegalità. Questo anche grazie alla collaborazione con diversi magistrati che hanno aiutato a far comprendere che anche per i figli dei boss ci sarebbe stata una seconda possibilità», racconta la preside.
Insegnare è una missione, in casi come questi è una salvezza.
Lo sapeva bene Francesco Panzera, professore di Matematica e vicepreside del liceo scientifico Zaleuco di Locri, una zona nota alle cronache per l’altissima incidenza criminale. La sera del 10 dicembre 1982 venne ucciso con otto colpi di pistola fuori casa a soli trentasette anni, dopo una gita in montagna. Contestava lo spaccio di droga che coinvolgeva i suoi studenti, fuori e dentro la scuola. Aveva osato ribellarsi al business in ascesa per le cosche: il traffico di droga. Voleva sensibilizzare i suoi ragazzi per proteggerli. Panzera era molto stimato, carismatico, poteva essere davvero ascoltato e diventare un disturbo per la ’ndrangheta: doveva essere fermato. Libera informa che circa l’80 per cento dei familiari di vittime non ha ottenuto una verità giudiziaria o ne ha una solo parziale, e molti di loro non hanno mai ritrovato il corpo di un figlio, di un padre, di un fratello. A quarant’ anni dall’omicidio del professore coraggioso di Locri non si conoscono i mandanti e gli esecutori del suo omicidio.
Il liceo scientifico Zaleuco ha deciso di commemorarlo, insieme con i suoi ex studenti e i familiari, per dimostrare che più forte della morte è davvero l’amore per la verità e la giustizia.
Recuperare la memoria è l’ unica arma da introdurre nelle scuole.
19 febbraio 2023 11 BELLE STORIE
Ogni anno più prezioso.
Maurizio Costanzo
passata una settimana dalla fine di Sanremo e in questi giorni ho avuto l’ulteriore conferma di quanto questa manifestazione canora sia una tradizione che continua anche dopo, quando le luci dell’Ariston si sono spente. È ciò che ascolti alla radio o canticchi per le strade che ci fa capire quali siano i veri successi della kermesse sanremese: la canzone vincitrice del Festival può mettere o meno tutti d’accordo ma è nei giorni a seguire che si decretano gli altri vincitori: quelli che non prevedono dissensi e che, non di rado, ci regalano le canzoni più orecchiabili. Sanremo ci piace perché non ha regole, è
L’imprevedibilità del successo di una canzone
piacevolmente “contraddittorio”: è tutto e il contrario di tutto. Proclama un vincitore assoluto ma la vittoria può spaccare l’opinione pubblica; stila una classifica ma le posizioni più basse non necessariamente determinano il destino di un artista; accoglie esordienti che, dopo breve, diventano star internazionali. Sanremo, per quanto sia una macchina ben organizzata fin nel minimo dettaglio, è assolutamente imprevedibile.
Ha il carattere dell’imprevedibilità anche questa notizia: in un mattatoio di Hong Kong, in Cina, un dipendente si trovava costretto ad uccidere un maiale che però intanto uccideva lui. Ad una prima lettura ho pensato ad un atto di rivalsa da parte del maiale ma si è trattato di un incidente in cui l’uomo cinese che lavorava in quel mattatoio da più di 24 anni, disgraziata-
mente, ha perso la vita.
Pare che l’uomo avesse tentato di stordire il povero animale con una pistola elettrica, ma, inaspettatamente, il maiale più sveglio che mai ha cercato di difendersi, cogliendo di sorpresa l’operaio che si è ferito accidentalmente e in modo grave a una gamba, con una mannaia che teneva tra le mani. L’uomo è stato trasportato in ospedale dove, poco dopo, è stata dichiarata la sua morte. Brutta storia sia per il maiale sia per il dipendente del mattatoio. La conseguenza qual è? Che non si possono e non si devono toccare i suini.
Certe notizie farebbero sorridere per il loro essere surreali, se non fosse che hanno risvolti tragici. Leggo infatti che un commerciante di alimentari per superare la crisi dovuta ai vari lockdown da Covid e scongiurare la chiusura della sua attività commerciale si era rivolto ad un usuraio chiedendo in prestito 50mila euro. Il commerciante, però, solo in parte era riuscito a saldare il suo debito con i contanti poiché per il rimanente aveva dovuto fare incetta, nel suo magazzino, di formaggi e prosciutti che cedeva all’usuraio come forma di pagamento. Dopo un po’ l’usuraio, probabilmente con qualche chilo in più, ha preteso, usando violenza contro il commerciante, di nuovo i contanti. Coraggiosamente, la vittima dell’usuraio lo ha denunciato facendolo arrestare. Mi chiedo chissà per quanto tempo, l’usuraio, non vorrà che gli si porti in tavola un pezzo di formaggio o una fetta di prosciutto.
È stato un ragazzo brianzolo di 34 anni che preso dalle allucinazioni, dopo essersi fatto una canna, ha ripetutamente chiamato i carabinieri, denunciando la presenza di ladri in casa.
Innanzitutto, informarsi che canna era e poi mi domando: che altri effetti ha avuto? Non è facile vivere tra cannaioli.
A luci dell’Ariston spente si confermano i vincitori di Sanremo o se ne decretano di nuovi
19 febbraio 2023 13
È
PER BUONA MEMORIA
L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI 14 19 febbraio 2023
foto di FABRIZIO SPUCCHES fondazione CESVI
19 febbraio 2023 15
Se non fai silenzio arriva il gigante Vladimir. Ha piedi così grossi che quando cammina ancoradilàdalfiumelaterratremafinoaqui.
EDITORIALE
Spegni la luce! Ha nocche come paracarri e, quando bussa, lui le porta le sfonda. Ti piace come abbiamo dipinto il muro? Sappi che a lui basta sputare contro una casa e il muro si sbriciola come un biscotto e quando sputa contro una finestra i vetri si trasformano in una granita. Sfascia i soffitti e usa le assi come
stuzzicadenti e col suo cucchiaio scava nei condomini come te nei vasetti di yogurt. Se sente l’odore del tuo micino lo sai in cosa te lo trasforma, il tuo micio? In un soffio
EDITORIALE
di pelo. Di notte richiama il sole con un lungo fischio, il sole arriva tutto di corsaperfino il sole ha paura di lui - ma inciampa nel buio con dei gran tonfi luminosi. Una
EDITORIALE
volta papà non è stato zitto e allora il gigante Vladimir lo ha sentito, lo ha preso e lo ha cacciato giù giù giù nel centro della terra che è un posto buio e lontanissimo dove solo il gigante Vladimir può
EDITORIALE
arrivare. Vieni qui e sdraiati, ti ho detto. Quando passa per un campo anche i fiori si buttano le radici in spalla e si lanciano a testa in giù nel primo vaso che trovano. Che c’è da ridere? Le risate sono pericolosissime, il gigante Vladimir le odia. La vedi questa bocca che ride qui sulla mia pancia, con tutto questo rossetto che continua a colare?
EDITORIALE
Me l’ha fatta lui con l’unghia del mignolo proprio perché ridevo troppo. La vuoi anche tu una bocca così, sulla tua pancia? Allora accucciati qui e non fiatare finché non arriva la zia che adesso io devo chiudere gli occhi.
Enrico Dal Buono
PRIMA PAGINA
Esiste uno spazio per trattare? O la guerra finirà con il ritiro della Russia o dell’Ucraina? L’intervento di Massimo Cacciari
Alla vigilia della primarie del Pd, il segretario di uno storico circolo di Roma, sfrattato, racconta come funziona la realtà
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Bilanci record, super dividendi, boom in Borsa. Per le banche il rialzo dei tassi è una nuova età dell’oro. A spese di imprese e famiglie
L’Europa dentro una guerra che non è la sua Massimo Cacciari 28 E alle 4 di notte l’ammiraglio dice: “Invadono” Carlo Tecce 32 Quell’ultimo e inutile tentativo di Scholz Uski Audino 34 Nuove nomine, nuove regole Giorgio Chigi 37 POLITICA La chiave dem, il congresso a porte chiuse Susanna Turco 38 Partita aperta, tra città e viceré 43 I programmi Pd. Quelle promesse da non tradire Loredana Lipperini 44 Brunetta al Cnel, Pardo gira al Maxxi Marco Ulpio Traiano 46 L’Italia ha bisogno di un codice delle ricostruzioni Maurizio Di Fazio 47 Immobili Inps, spreco continuo Sergio Rizzo 48 Quel raid militare dietro la morte di Luca Attanasio Antonella Napoli 51 Affari e sanità, il ras veneto aveva una spia Paolo Biondani 52 Le mire di Cingolani e il Ponte di Salini Gianfranco Ferroni 55 Stragi del ’93, l’altra donna delle bombe Simona Zecchi 58 Lo Stato ricordi il prefetto Sodano Enrico Bellavia 60 Foibe ostaggio dell’uso politico della storia Gigi Riva 62 28
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numero 7 - anno 69 - 19 febbraio 2023
Era dato per morto e invece il western ha rialzato la testa. Con film, nuove serie tv come “Django”. E donne sempre più protagoniste
Per approfondire o commentare gli articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti
ECONOMIA Tassi in salita, banche in festa Vittorio Malagutti 66 Al porto di Palermo è sbarcato un marziano Sergio Rizzo 74 Così il football dribbla le sanzioni Gianfrancesco Turano 76 Cospirazionismo versione chatbot Alessandro Longo 78 Il lato oscuro della Silicon Valley Luca Bifolco 83 Rinasce con i ribelli il bosco di Monte Cairo Emanuele Coen 84
Il far west così vicino Daniela Ceselli 88 “Amo il mio Django ma odio le armi” colloquio con Matthias Schoenaerts di Claudia Catalli 92 Nati ai bordi del Gratosoglio Gaia Manzini 96 Shopper da collezione Giuseppe Fantasia 100 Il circolo delle lettrici in carcere Marco De Vidi 102 Il signore dei sorrisi Fabio Ferzetti 106 Nel suo intervento, Francesca Barra mette a fuoco il ruolo della scuola nella costruzione di una cultura antimafia. Perché spesso sono stati gli studenti a rieducare le famiglie Copertina: artwork di Alessio Melandri (su foto di: Vadim Ghirda AP - La Presse) AL MERCATO POLITICO I CITTADINI ELETTORI NON ACQUISTANO PIÙ Alessandro Mauro Rossi 3 Opinioni CHI SALE E CHI SCENDE SebastianoMessina 5 RESISTENTI DilettaBellotti 7 PER PARTITO PRESO CarloCottarelli 9 BELLE STORIE FrancescaBarra 11 PER BUONA MEMORIA MaurizioCostanzo 13 PALAZZOMETRO VirmanCusenza 56 PAROLE DI LIBERTÀ NicolaGraziano 65 BANCOMAT AlbertoBruschini 73 L’OPINIONE MassimilianoPanarari 81 L’INTERVENTO ClaudiaSorlini 87 BENGALA RayBanhoff 122 Rubriche IO C’ERO - OliverioToscani 14 LIBRI - SabinaMinardi 109 TEATRO - FrancescaDeSanctis 110 ARTE - NicolasBallario 111 MUSICA - GinoCastaldo 113 TELEVISIONE - BeatriceDondi 114 CINEMA - FabioFerzetti 115 ANIMALI - ViolaCarignani 117 CUCINA - AndreaGrignaffini 118 VINO - LucaGardini 119 POSTA - StefaniaRossini 120 106 11
CULTURA
88
Massimo Troisi
L’EUROPA DENTRO UNA GUERRA CHE NON È LA SUA
Esistono margini di trattativa?
O si ritiene invece che debba seguire al ritiro di uno dei contendenti? Può il conflitto tra Nato (Usa) e Russia, “via”
Kiev, giungere a un simile esito?
PRIMA PAGINA IL CONFLITTO IN UCRAINA
28 19 febbraio 2023
ATTACCO
Un aereo Antonov
An-225 Mriya distrutto durante i combattimenti tra le forze russe e ucraine
all'aeroporto di Hostomel in Ucraina
19 febbraio 2023 29
Un coro di eroi sulla pelle degli altri si leva sempre più assordante: «Inter pacem et bellum nihil est medium», tra la pace e la guerra non esiste mediazione possibile. Nessuna citazione (questa da Cicerone) è stata mai usata più a sproposito. Nessuna persona dotata di intelletto ha mai pensato che un contrasto per quanto profondo debba inevitabilmente portare al «bellum nefandum» sempre per Virgilio Tutte le guerre sono evitabili, poiché tutti i casi umani sono appunto casi e cioè non necessari. E per tanti versi nessuna guerra era meno imprevedibile di questa. Di nessuna le cause appaiono più chiare e più chiaramente affrontabili, ammesso appunto che lo si voglia. Ma ormai il discorso corrente prescinde totalmente da queste banali considerazioni. Tutto si svolge a prescindere – a prescindere dalle ragioni del conflitto, a prescindere dagli interessi strategici che vi stanno dietro, a prescindere dai nuovi assetti geopolitici che sta già producendo. Esiste soltanto la guerra da portare avanti e l’unica soluzione che essa sembra consentire è la vittoria sul campo.
Una guerra che assume questa forma non potrà mai essere, nel mondo contemporaneo, una guerra locale. Essa assumerà per forza il carattere di una guerra volta a trasformare gli equilibri di potenza. E finiamola con odiose ipocrisie: l’Europa è in guerra, come titola l’importante libro di uno che di guerre si intende davvero, il generale Fabio Mini. O, meglio, l’Europa, che non dispone di altra politica di sicurezza comune se non quella rappresentata dai comandi Nato, ha assunto questa drammatica decisione di entrare in guerra e dica ora come intende farvi fronte. Esistono per essa margini politico-diplomatici di trattativa? Quali sono? Se sì, li esponga realisticamente. O si ritiene invece che la trattativa debba seguire alla sconfitta e all’incondizionato ritiro di uno dei contendenti? Evidente che questa strada equivale alla continuazione della guerra fino a quella “trattativa” che consiste nella firma delle condizioni di resa. Può la guerra tra Nato (Usa) e Russia, “via” Ucrai-
BOMBE
Una donna ferita dopo un attacco aereo che ha danneggiato un complesso di appartamenti fuori Kharkiv
na, giungere a un simile esito? Certo che in teoria esso è possibile, la disparità di forza è immensa (basti il dato elementare che la spesa in armamenti in Russia è oggi dieci volte inferiore a quella americana) –ma soltanto grazie all’aiuto in armi, carri, aerei? Grazie a questo aiuto sarà possibile soltanto un “gioco” di logoramento. Anche ammesso di giungere a una situazione di parità nei mezzi di guerra, la dimensione degli eserciti che potrebbero giungere a confrontarsi è incomparabile. L’Ucraina, per quanto armata al 100 per cento delle sue richieste, non potrà mai vincere da sola. E fino a quando la Russia non metterà sul campo tutta la propria potenza, costringendo a questo punto Nato (Usa) a un intervento diretto per evitare la sconfitta? Sempre a prescindere dal fatto che continuando l’escalation, l’”incidente”, che fa esplodere tutto, contro le intenzioni dei duellanti, è dietro ogni angolo. Si dice: il logoramento logorerà l’attuale lea-
PRIMA PAGINA
CONFLITTO IN UCRAINA
IL
La Ue non dispone di una sicurezza comune al di fuori di quella rappresentata dai comandi Nato.
Perché escludere nel
Donbass e in Crimea un referendum controllato dalle Nazioni Unite?
30 19 febbraio 2023
MASSIMO CACCIARI
dership politico-militare russa. E se invece l’odore di sconfitta finisse col rafforzare il “fronte interno” proprio nei suoi settori più oltranzisti? E non potrebbe anche accadere che una guerra di logoramento renda più difficile – presidenziali alle porte – lo stesso aiuto americano all’Ucraina?
L’Europa non dovrebbe sostenere, sempre in base ai propri conclamati valori, che, come la Russia violando clamorosamente la sovranità di uno Stato deve ritirarsi oggi senza se e senza ma, così, contestualmente, sussiste un principio di auto-determinazione dei popoli per cui non è ammissibile che in uno Stato minoranze etniche siano discriminate o perseguitate? Perché escludere nel Donbass e in Crimea un referendum controllato dall’Onu, al di sopra di ogni sospetto, per stabilire l’autentica volontà delle popolazioni russofone?
E oltre ai propri valori, così spesso dissacrati, l’Europa non avrebbe anche qual-
che interesse? O agli Usa soltanto è lecito, a detta di Henry Kissinger, non aver alleati ma soltanto interessi? Nella guerra in corso c’è chi fa grandi affari e chi, ancora più, se li ripromette (Antony Blinken ha dichiarato che la distruzione di infrastrutture energetiche europee costituisce una grande opportunità per le esportazioni americane). E c’è chi, invece, statistiche alla mano, subisce danni economici da gravi a gravissimi (l’Italia). Che gli Usa abbiano sempre ostacolato la crescita politico-economica dell’Europa è un segreto di Pulcinella. E, di grazia, che altro significato geopolitico ha avuto la Brexit? Volodymyr Zelensky lo ha capito assai bene, visitando il Regno Unito prima degli amici franco-tedeschi. Se l’Europa esiste dia un segno di autonomia, in base ai suoi valori e ai suoi interessi. I suoi valori sono quelli di una federazione tra popoli, di un equilibrio policentrico, in cui la pace non significhi l’egemonia di una sola potenza. I suoi interessi sono certamente quelli di un’espansione a Est economica, commerciale, politica, non militare, non in chiave antagonistica verso Russia e Cina. La posizione americana è oggi ben comprensibile: il confronto strategico globale con la Cina si fa sempre più ravvicinato e drammatico e in tali condizioni gli Usa debbono consolidare in tutti i modi la propria posizione europea. Da qui la strategia di espandere la Nato, del tutto a prescindere dagli impegni assunti alla caduta del Muro. Certo, l’Europa deve mostrare di comprendere bene le preoccupazioni strategiche del grande Impero alleato. Ma ha il dovere altresì di far valere i principi di relazioni internazionali su cui è nata (e su cui l’Onu è fallita: principi che escluderebbero la guerra tra Stati membri!) e l’interesse dei suoi popoli. Arte di mediazione, di compromesso nel senso più alto, volontà e capacità di dialogo. Discorsi da “anima bella”? E allora lasciamo che in Ucraina continuino a parlare i cannoni e auguriamoci tacciano almeno le atomiche.
Pagine 28-29 Vadim GhirdaAp / La Presse. Pagine 30-31: Getty Images
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E alle 4 di notte l’ammiraglio dice: “Invadono”
Ecco cosa accadde nei palazzi romani il 24 febbraio 2022, tra previsioni sicure e speranze deluse. Il giorno più lungo del governo italiano (e dell’Europa) raccontato ora per ora
ala il buio in sala e ci si accomoda nel terrore. La notte fra il 23 e il 24 febbraio 2022 accadde ciò che da settimane è descritto nei rapporti per i governi con esemplare pignoleria dai servizi segreti occidentali. In Ucraina, fianco destro d’Europa, si proietta uno spettacolo cruento. La Russia di Vladimir Putin, che invade per aria, terra, mare, è scontata quanto feroce. La notte fra il 23 e il 24 febbraio 2022, e in quelle a venire, ciascuno agisce come previsto nelle ciniche previsioni. Risorge l’alleanza militare atlantica Nato. In Europa la politica e le imprese, ex amici coccolati, rinnegano Mosca. Gli Stati Uniti tornano guardiani del mondo e Kiev ne è la capitale suffraganea. Con particolari inediti e colloqui con le autorità istituzionali del tempo, l’Espresso ha ricostruito in versione italiana la notte fra il 23 e il 24 febbraio 2022 e il prologo che l’ha forgiata mesi prima.
ORE 3:39
A Washington hanno l’annuncio ufficiale in bozza. L’armata russa sta per lanciare un attacco su larga scala e sta per essere trasmesso il discorso registrato di Putin. Il senatore repubblicano Mark Rubio segnala il massiccio movimento di mezzi nel Donbass. Le strutture informatiche ucraine sono bersagliate.
3:39
I ministri italiani vanno a dormire con il telefono acceso e la suoneria ben alzata.
ORE 4:02
L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato Maggiore della Difesa, comunica con un messaggio l’avvio delle operazioni al ministro Lorenzo Guerini. Ne seguono altri per illustrare l’offensiva russa sul versante orientale e soprattutto nei sobborghi di Kiev. Le informazioni fra gli alleati provengono da americani e inglesi e sono condivise all’istante nel gruppo dei “cinque” per l’Ucraina che si è formato nel settembre 2021. In quel periodo di mendace tepore, tra estate e autunno, la Russia ha svolto una esercitazione militare congiunta con la Bielorussia che ha coinvolto 200.000 soldati. Così gli americani e gli inglesi, che hanno incrementato le relazioni ucraine dopo l’annessione
Foto: Ansa, F. Fotia / AGF, A. Serrano' / AGF PRIMA PAGINA
UN ANNO DI GUERRA
C
CARLO TECCE
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russa della Crimea (2014), creano il “Gruppo dei Cinque”, il quintetto, per muoversi compatti in qualsiasi scenario: la collaborazione viene allargata a tedeschi, francesi, italiani. Se la storia in cammino, come la verità, non si può fermare, secondo le puntuali analisi angloamericane, presto Putin sarà costretto a innescare la guerra. Per ragioni interne. Per disfunzioni nel regime. Perché una volta allertate le furerie e accesi i motori, non resta che sparare. Come in quel folle indugiare e rilanciare di fine luglio tra il kaiser Guglielmo II e lo zar Nicola II che portò alla Grande Guerra.
I francesi sono scettici, non conviene a Putin. I tedeschi sono cauti, non conviene a loro. Berlino come Roma dipende dal metano di Mosca e Berlino più di Roma fatica a credere che la diplomazia degli ultimi vent’anni, tornita con le sapienti tattiche di frau Angela Merkel, vada distrutta, elimi-
nata, possibilmente cancellata. Roma non ha esitazioni, nonostante Mosca avesse investito parecchio sugli italiani.
Il presidente Mario Draghi ha i suoi contatti con gli americani e non esprime opinioni dissonanti. Non ha dubbi su dove porre l’Italia appena la Russia farà partire il primo colpo. L’energia è il suo principale timore. È un timore che attraversa anche gli apparati di intelligence. In autunno differenziare i rifornimenti e rafforzare la presenza in Africa è già una ipotesi concreta. Il viaggio di Sergio Mattarella in Algeria (6-7 novembre 2021) è di grande conforto. Quando Draghi ordina alle aziende italiane di disertare la videoconferenza con Putin (26 gennaio 2022), è sicuro che il processo di avvicinamento alla guerra sia ormai irreversibile. Forse per le recenti abitudini (i partiti hanno usato bussole diverse in geopolitica) o
Qui sopra: il ministro della Difesa dell’epoca Lorenzo Guerini. In alto: il Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone. A sinistra: un elicottero russo attacca il vecchio aeroporto di Hostomel, a pochi chilometri dal centro di Kiev
PRIME ORE
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OPERATIVI
Il generale Giuseppe Figliuolo. A destra: Luigi Di Maio, all’epoca ministro degli Esteri. A sinistra: il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg
6:00
QUELL’ULTIMO E INUTILE TENTATIVO DI SCHOLZ
La Germania entra nella crisi Ucraina con un governo fresco di nomina.
18 Gennaio 2022. A 40 giorni dal giuramento, la ministra degli Esteri Annalena Baerbock vola a Mosca. Davanti alla stampa il capo della diplomazia russa Sergej Lavrov esprime «il suo interesse per una cooperazione con il nuovo governo tedesco», con un occhio allo scambio commerciale. Baerbock non raccoglie: «anche se la Germania ha un interesse fondamentale per lo scambio commerciale con la Russia ancora più importante è l’interesse a un ordine di pace europeo». Lavrov perora la causa dell’apertura del gasdotto Nord Stream 2. Ma anche questo non fa breccia nella ministra, da sempre contraria al progetto. I Verdi del resto non sono neutrali, già dal 2021 sostengono Kiev. Se Mosca si aspettava di trattare sull’Ucraina con un’emissaria del governo a gui-
7:00 10:00
da Spd, ha sbagliato. La 42 enne al primo incarico non si lascia scippare la linea di politica estera.
7 Febbraio. Olaf Scholz vola a Washington per la prima volta in veste di cancelliere per incontrare Joe Biden. Deve dimostrare agli Usa di essere un partner affidabile, fugando i sospetti di ipotetica intelligenza con il nemico, suggeriti dalle uscite dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder, amico e socio in affari di Putin. In quanto socialdemocratico, Scholz è considerato epigone della Ostpolitik. Da “sorvegliato speciale” di parti opposte il cancelliere pecca di cautela eccessiva e in conferenza stampa riesce a non pronunciare mai il nome “Nord Stream”. Dirà soltanto: se la Russia violerà l’integrità territoriale dell’Ucraina, allora subirà «costi molto, molto alti».
8-9 Febbraio. Per Berlino sono giorni di speranza in un canale diplomatico europeo. Il giorno dopo il viaggio di Scholz a Washington, Macron vola a Kiev e poi a Mosca. Il faccia a faccia di 5 ore tra Macron e Putin viene definito un “successo” dal francese. «Putin mi ha assicurato
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Uski Audino
Qui Berlino
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per propensione all’ottimismo, i generali italiani sono più in sintonia con i colleghi europei: Putin non può andare oltre le provocazioni.
ORE 6:00
La Nato convoca subito gli ambasciatori a Bruxelles, l’Unione europea dà appuntamento in serata. Roma è rappresentata presso la Nato da Francesco Maria Talò, che poi sarà chiamato a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni come consigliere diplomatico. La Nato è ancora lo strumento di risposta degli occidentali per preservare o inoculare la democrazia. La stessa Nato che ad agosto era scappata da Kabul sotto l’assedio dei talebani dopo decenni di morti, soldi, errori. La stessa Nato che per il francese Macron era «morta». Per non replicare l’Afghanistan e sciogliere qualsiasi dubbio nella pubblica opinione, l’intelligence angloamericana ha utilizzato
dall’inverno la tattica di una inusuale trasparenza per servizi che per definizione sono segreti: vengono rilasciate all’esterno notizie sulle intenzioni dei russi, dettagli, particolari, fotografie. Un doppio successo. Questo livello di penetrazione fa impazzire il sistema di Mosca e prepara le popolazioni angloamericane al deciso supporto di Kiev con denaro e armamenti. Anche l’Italia deve partecipare.
ORE 7:00
Il generale Francesco Paolo Figliuolo, conclusa la campagna vaccinale da commissario, è passato al Comando operativo del vertice Interforze. All’alba ha già ricontrollato le procedure con i suoi e parlato col ministro Guerini. A Figliuolo spetta il compito di organizzare le spedizioni di ma-
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che da parte sua non ci sarà un’escalation», mentre agli ucraini strappa un nuovo round negoziale del Formato Normandia con Russia e Ucraina, per applicare gli accordi di Minsk. Sulla via del ritorno si ferma a Berlino, dove si tirano le somme con polacchi e tedeschi.
10 Febbraio. A Berlino si riunisce il Formato Normandia al livello di consiglieri diplomatici. Russi, ucraini, francesi e tedeschi siedono attorno a un tavolo, ma è pura forma. Non si fanno passi avanti. Il luogo deputato alle trattative tra russi e ucraini, nel quale tedeschi e francesi riponevano tante speranze si rivela un guscio vuoto e gli accordi di Minsk seppelliti. Lo stesso giorno Scholz riceve i tre capi di Stato baltici: il lituano Nauseda, la estone Kallas e il lettone Karins. Anche qui si parlano due lingue diverse. Mentre Scholz rivolge un appello a Putin - «la descalation è l’offerta del momento»aggiungendo che «sulle questioni di sicurezza della Russia siamo disposti a parlare» - i Baltici sono già oltre e chiedono di rafforzare la difesa del fianco orientale. Vogliono uomini e armi. La via della trattativa sta tramon-
tando. Il cancelliere non lo ha capito o vuole ignorarlo.
11-12 Febbraio. Su Der Spiegel viene pubblicato un leak della Cia in cui si dice che la Russia potrebbe iniziare il suo intervento il 16 febbraio. Il giorno dopo il ministero degli Esteri chiede ai concittadini di lasciare il Paese.
14-15 Febbraio. Scholz vola a Kiev e poi a Mosca. Respinge le richieste ucraine di fornitura di armi e a Putin ribadisce che «è nostro dannato dovere evitare la guerra». Ma la visita arriva fuori tempo massimo. I reporter tedeschi registrano «un’atmosfera glaciale».
18-20 Febbraio. Alla Conferenza di Monaco i russi non hanno accettato di partecipare e agli incontri bilaterali si serrano i ranghi in vista di una guerra, considerata inevitabile. Uno sguardo alla lista degli invitati mostra l’intera coalizione che alle Nazioni Unite voterà in sostegno dell’Ucraina. «Quello che mi rende ottimista in questi momenti difficili è sapere la forza e l’unità della nostra alleanza atlantica», dice Baerbock.
Foto: J. Thys / AFP via Getty Images, Minichiello / AGF, A. Serrano' / AGF
Da settembre Usa e Gran Bretagna condividono le informazioni con Francia, Germania e Italia. Draghi non ha dubbi su quale sia la posizione che il Paese deve prendere
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teriale bellico in Ucraina per il tramite polacco. L’indomani il Consiglio dei ministri (Cdm) comporrà la cornice legislativa per un Paese che ripudia la guerra. Quella costituzionale è garantita dal Quirinale. «L’equipaggiamento militare non letale di protezione» è pronto da settimane. Un vecchio accordo di cooperazione fra gli eserciti di Roma e di Kiev permette di sapere, e poi gli angloamericani lo sanno perfettamente, di cosa ha bisogno Kiev e cosa può offrire (non molto) nell’immediato Roma. In una riunione europea presieduta dal commissario Josep Borrell, Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, francesi, tedeschi, spagnoli e italiani - con i primi abbastanza indifferenti - scelgono di secretare gli elenchi di armi da inviare a Kiev: non per non dare indebiti vantaggi ai russi (sciocchezze, tutti sanno
tutto), ma per non spaventare i propri concittadini e dunque per poter affermare che l’Europa non fa la guerra alla Russia, ma soccorre gli aggrediti dell’Ucraina. Quando il decreto interministeriale di Guerini viene firmato (2 marzo 2022), decolla il primo C-130 con le armi per Kiev.
ORE 10:00
Draghi presiede il Comitato per la sicurezza della Repubblica, ci sono i cinque ministri che lo compongono, il sottosegretario Franco Gabrielli che ha la delega all’Intelligence, l’ambasciatrice Elisabetta Belloni che è capo del Dipartimento di Coordinamento dei servizi segreti. Le questioni italiane sono due: il flusso di gas da Mosca e l’arrivo di decine di migliaia di profughi. Putin potrebbe giocare con la manopola del metano, anche se non può rinunciare ai soldi europei, oppure potrebbe sfruttare la situazione umanitaria per esportare scompiglio nella società. Per tali ragioni nel Cdm che segue il Comitato, Draghi darà la parola a Guerini (Difesa), Di Maio (Esteri), Cingolani (Energia).
La situazione è monitorata dall’intelligence, l’unica ossatura statale che ha diminuito e però non interrotto, non si interrompono mai, i contatti con i russi.
ORE 13:30
Draghi parla ai giornalisti nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi prima di partire per un Consiglio europeo straordinario e poi collegarsi con un G7 allargato al Segretario Generale della Nato. Il presidente fa un discorso appassionato sui valori della democrazia e ribadisce tre concetti: sostegno agli ucraini, coesione europea, strategia Nato. È il momento in cui l’Italia fissa il suo ruolo e poi è il momento in cui la politica, fin lì distratta, quasi non interessata, se ne occupa con tutte le speculazioni che pian piano emergeranno. Perciò Draghi ha gestito la vicenda con il suo gabinetto e l’intelligence. Roma non può farfugliare, le sanzioni sono necessarie,
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Mentre i servizi non interrompono i contatti con i russi, il generale Figliuolo ha pronti gli aiuti da spedire a Kiev. Quella che appare una prova di efficienza e compattezza è stata preparata da mesi
13:30
17:00
Giorgio Chigi Palazzi girevoli
ma possono spingere l’inflazione, i rincari dei prezzi, il disagio sociale. Il pericolo per l’Italia e per l’Europa in generale viene esposto agli interlocutori americani che hanno l’agio della distanza economica e geografica.
ORE 16:15
Al Quirinale si tiene il Consiglio Supremo di Difesa, leggermente in anticipo per non sovrapporsi all’imminente incontro Nato a distanza per i ministri della Difesa. È l’occasione per ribadire la linea tracciata già dal presidente Draghi e offrire riparo istituzionale a ogni tipo di aiuto.
ORE 17:00
Allenati i muscoli col lavoro diplomatico e presto dimenticata la disfatta afghana, la parte militare Nato può eseguire il piano di reazione: protezione dei confini, forniture agli ucraini. Sembra una prova estemporanea di coraggio e di solidità, invece è la riproduzione in un giorno e in una notte di quanto studiato per mesi, anni.
PRESIDENTI
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NUOVE NOMINEna direttiva del 31 gennaio interna al Mef, a firma del Ministro Giancarlo Giorgetti stabilisce un nuovo metodo per individuare i profili funzionali alle nomine: l’indicazione avverrà su base politica in sinergia con il gabinetto del Ministro e non più soltanto tecnica tramite il dipartimento del Tesoro e le società di “head hunters” come Egon Zehnder, Key2People e Heidrick&Struggles, questa ultima per i consiglieri di minoranza su incarico di Assogestioni. Una operazione di trasparenza di potere da parte del Mef, saranno quindi Alberto Bagnai, Licia Ronzulli e Giovanbattista Fazzolari a gestire questa delicata partita su indicazione dei propri leader. Ma c’è un’altra novità che sta generando non poco fermento e diverse fibrillazioni. Sta circolando una bozza relativa al regolamento che fissa i requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia dei componenti degli organi amministrativi e di controllo delle partecipate. Innanzitutto si trovano i consueti paletti giudiziari, che impediscono di ricoprire le cariche apicali a chi è stato condannato, anche con sentenza non definitiva, per reati finanziari, bancari, immobiliari e assicurativi. Importante novità riguarda l’inserimento, tra i requisiti necessari, dell’esperienza professionale di almeno un triennio per i consiglieri e un quinquennio per i presidenti e AD in settori attinenti al settore operativo della società comparabili anche per dimensione e complessità. Non manca, ovviamente, la parte che suscita sempre più interesse: le leggendarie tabelle relative ai compensi. Viene definita una ripartizione che varia in base a parametri come il valore della produzione in milioni di euro e il numero dei dipendenti. Per le realtà che si collocano a oltre 200 milioni e che annoverano più di mille dipendenti, l’amministratore unico può guadagnare al massimo 240mila euro. All’interno di un meccanismo organizzato in cinque fasce si procede a scalare, fino all’ultima, con un emolumento di massimo 120mila euro per chi guida società con una valore della produzione entro i 30 mln e con meno di 100 dipendenti. Non certo briciole, seppur per poltrone di consolazione.
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Foto: F. AmmendolaUfficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica, Ukrainian President's Office/ZUMA Press Wire Service / Ansa, Foto A3
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Sopra: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella presiede il Consiglio Supremo della Difesa. A sinistra: Mario Draghi incontra la stampa per riferire a seguito dell’invasione russa in Ucraina 16:15
NUOVE REGOLE
La chiave dem Il congresso a porte chiuse
Alla vigilia delle primarie chiamate a scegliere tra Schlein e Bonaccini, si proclama il solito “torniamo sui territori”. Il racconto del giovane segretario di un circolo storico. Senza sede per sfratto
PRESIDIO
L’esterno della sezione del Pd di via dei Marsi, a Roma, riaperta eccezionalmente per le primarie
POLITICA I TORMENTI DELLA SINISTRA
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IDENTITÀ
L’interno della storica sezione del Pci di via dei Marsi, poi arrivata al Pd, chiusa da maggio per morosità
Tutti questi dirigenti dicono che bisogna tornare al territorio, però poi i circoli li chiudono, anziché aprirli. E come fai a stare sul territorio se non hai un circolo, una casa? Cosa siamo, maghi?». Sono le quattro del 21 gennaio, nel mezzo dell'assemblea del Pd voluta a Roma da Enrico Letta, il segretario più lungamente uscente che la storia ricordi, irrompe la realtà. La voce più vitale del consesso – a detta di tutti, più simile a un funerale che a una Costituente – arriva di botto, senza preavviso, senza palco. Dalla penultima fila. È quella di Marco Giordano, un perfetto sconosciuto al grande pubblico, un esempio magnifico della dannazione del Pd, partito che sembra ispirato a una qualsiasi vignetta di Altan (tipo: «Ho sognato che la sinistra si era unita. Nessun sopravvissuto»). Una piccola storia emblematica la sua, intrecciata con quella del Pd: Giordano è infatti l'appassionato segretario di un circolo chiuso. Una storia che parte da Roma, quartiere San Lorenzo, ma che racconta meglio di tante analisi perché il centrosinistra si sia appena ritrovato 20 punti sotto il centrodestra, nelle Regionali di Lazio e Lombardia, e quale razza di dissoluzione (con, però, insospettabili risorse) sia in corso nel principale partito che lo incarna.
Giordano ha 31 anni, ne aveva 16 quando nacque il Pd, a 23 ha avuto il primo incarico, come segretario dei giovani. Un militante, un nativo democratico. Uno che ci crede, sorprendentemente. «Vengo da Cerignola, Foggia, mi sono formato leggendo Giuseppe Di Vittorio. Sono arrivato qui per fare l'università, ora ho aperto una azienda agricola, non avevo un amico né un parente, ho passato i primi anni girando le sezioni, ho conosciuto Roma così, in autobus». Adesso, un mese dopo quell'assemblea-funerale-costituente, Giordano racconta meglio ciò che ha provato a dire quel giorno. E lo fa nel lunedì delle elezioni, proprio nelle ore in cui il suo partito sta perdendo dopo dieci anni la guida della Regione. Parole che non pendono per Elly Schlein o per Stefano Bonaccini, ma riguardano chiunque guiderà il Pd: «Quanti
circoli hanno chiuso, in tutta Italia? Non ci sono numeri ufficiali, ma è impressionante. E metà delle federazioni sono commissariate. Ci sono al fondo scelte patrimoniali; e gli immobili bisogna pagarli, certo; e in cassa non ci sono soldi; e le fondazioni vogliono sistemare i propri conti. Sono tutti discorsi ragionevoli, ma a pagare sono i militanti». Siamo davanti alla sede della sua sezione, storica sezione del Pci di via dei Marsi. Che, appunto, è chiusa da maggio. Per morosità, cioè perché - tra le norme della legge spazzacorrotti e i pochi soldi in cassa dopo la fine del finanziamento pubblico - non riusciva a pagare l'affitto, arrivato a 700 euro al mese. Troppi.
Così il fabbro ha cambiato le chiavi il 19 maggio, dieci giorni prima che il circolo compisse sessant'anni ininterrotti di attività, e alla vigilia delle elezioni politiche e regionali. Le campagne elettorali qui le
POLITICA I TORMENTI DELLA SINISTRA
Giordano, 31 anni, ha triplicato gli iscritti, ma non ha più accesso alla sezione di San Lorenzo: “Le chiudono, anziché aprirle. A breve non avremo chi monta i gazebo”
SUSANNA TURCO
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hanno fatte così, da senzatetto, itineranti, appoggiandosi ad altre associazioni e ai cofani delle automobili. Adesso per le primarie c'è l'apertura eccezionale: «Per fortuna possiamo aprire per le votazioni degli iscritti e per le primarie. Ho scritto alla Fondazione che è proprietaria e Ugo Sposetti ci ha dato le chiavi». L'ultimo tesoriere del Ds - paradosso - finisce per rappresentare la garanzia democratica del Pd: altri circoli, quelli che hanno debiti con l'Ater o con l'erario, non hanno neanche questa possibilità. «Ecco, al netto delle questioni economiche e patrimoniali, il dato politico è che i dirigenti del Pd tante volte in questi anni hanno scelto la strada del partito liquido, e alla fine si sono ritrovati un partito gassoso, nel quale si sono persi i luoghi di confronto. Ma le persone hanno bisogno di un incontro fisico, solo così si crea sintesi, elaborazione. Soprattutto dopo la pan-
demia. I tweet vanno bene, ma non bastano mica. Senza una casa le comunità si sgretolano», dice Giordano.
È una sede storica, quella di via dei Marsi. Dominata dal murales di Ennio Calabria, alle porte le maniglie forgiate dal primo segretario, che era un fabbro. Inaugurata da Togliatti nel 1962 con un comizio che riempì tutta via dei Latini (lo si vede dalla foto a pagina 43, tratta dal libro "Il popolo di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer"), era stata comprata dagli iscritti per 11 milioni di lire, 4 anticipati dalla direzione e gli altri 7 attraverso un mutuo. Era l'alba del primo centrosinistra, l'anno dopo il Pci avrebbe preso il 24 per cento e la Dc il 37. Un altro mondo. Anche se, ancora dieci anni, fa la fila per votare alle primarie girava il palazzo e arrivava giù fino in piazza. «Sono diventato segretario dei Giovani democratici di San Lorenzo nel 2013, e del
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Pagine 39 P. Caprioli –Toiati. Pagine 40-41: A. Sabbadini
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circolo nel 2019. Anni difficili, prima la scissione di Pierluigi Bersani, e poi quella di Matteo Renzi, e poi di Carlo Calenda. I militanti erano spaesati, molto delusi. Nel 2016 persino qui vinsero i Cinque Stelle, per dire», racconta Giordano. In un triennio però gli iscritti sono quasi triplicati, da 33 a 85. Esistono ancora, quindi? «Certo che esistono, e anzi mi rincuoro a guardare gli iscritti molto di più che a guardare i dirigenti. Hanno più consapevolezza. E non credo, in generale, che le persone siano distaccate dalla politica, ma sono stanche di non essere ascoltate. Se impegniamo settimane a scrivere documenti e queste idee non trovano orecchie, che utilità c'è a iscriversi e discutere?».
È a monte che andrebbe invertito il processo, è la testa che dovrebbe ascoltare, e che sembra invece aver interiorizzato proprio il modello grillino. Per questo, dice Giordano, «chi usa la retorica del “ripartiamo dai territori”, vuol dire che in questi anni non ha fatto politica territoriale, perché i circoli del Pd per la maggior parte già funzionano così. È quindi proprio chi lo dice, che deve ripartire dai circoli. Noi ci siamo».
Semmai, appunto, è il partito che manca, svilisce la militanza per poi sventolarla all'ultimo minuto come una risorsa. «In un quartiere, il segretario di sezione è come il parroco di un paesino, finisce per entrare in tante cose». La politica, i progetti, ma anche i problemi personali di ogni tipo: «Ma oggi non so chi chiamare. Prima c'era una rete che funzionava dal basso, avevi a chi rivolgerti, magari per una bolletta di una persona in difficoltà, c'era tutta una trafila che magari salendo arrivavano al deputato di turno. Oggi se alzi il telefono, devi pregare che ti rispondano», racconta Giordano. «Non so come siamo arrivati fin qui. Ho visto l'allontanarsi del Pd, negli anni, dall'o-
rizzonte indicato dai militanti. Più andavamo avanti e più l'idea del partito liquido è avanzata. Sicuramente Renzi ha contribuito, ma poi ognuno ci ha messo il suo pezzetto. Non c'è mai stata la capacità di fare veramente sintesi, nella fusione tra i due partiti, Ds e Margherita. Anche oggi, e lo dico da nativo democratico, mi fa specie vedere come tanti cerchino di collocarti in una cultura o nell'altra: io sono nato nel 1991, per me ci sono entrambe». E distinguerle serve a poco: «Un giovane vuole le idee chiare e risposte sull'oggi: il passato va studiato, ma non possiamo darci forza d'azione partendo dal pensiero comunista o democristiano».
È per questo che i ragazzi si iscrivono più facilmente all'Anpi o a Legambiente che al Pd? «I giovani hanno interesse alla politica e quelli sono contenitori identitari chiari, idee in cui è più facile riconoscer-
POLITICA I TORMENTI DELLA SINISTRA
È prevalso il partito liquido, l’antipolitica. Colpa di Renzi, ma non solo. Dovevamo dire che la democrazia costa. Chi ora predica “ripartiamo dai circoli”, non li ha frequentati
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si. I partiti invece vengono da anni di diffamazione. E noi, invece di dare un orizzonte, siamo stati perdenti, nei confronti dell'antipolitica. Dovevamo dire che ad esempio il finanziamento pubblico non si toglie, perché la politica costa. Nella mia città natale, ogni settimana c'è una rapina in farmacia: ma la soluzione non è chiudere la farmacia, è aumentare la sorveglianza». Invece è stato proprio Enrico Letta a volere l'abolizione del finanziamento ai partiti. Difficile ora tornare indietro. «Dobbiamo capire che partito vogliamo e come finanziarlo. E lavorare sulla comunità. Se non si mette mano lì, con questo congresso, tutto il resto sarà inutile. Perfino i gazebo: se continuiamo così, a breve non avremo neanche i militanti che te li montano». Ah già i gazebo. Quelli dove tra una settimana si sceglierà tra Bonaccini e Schlein.
Partita aperta, tra città e viceré
Mai s'era vista, nella storia delle primarie, una battaglia circolo a circolo, provincia a provincia, con tanto di cartine colorate, per rivendicare gli esiti del voto tra gli iscritti. Quella tra Stefano Bonaccini ed Elly Schlein rischia di essere la corsa alla segreteria dall'esito meno scontato che la storia ricordi: in pratica l'unica, insieme con le primarie di coalizione del 2012 vinte da Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi. Un precedente peraltro da segnarsi, quello renziano: sconfitto dall'apparato nel 2012, il Rottamatore vinse infatti (con l'apparato) nel 2013.
MEMORIA
Marco Giordano. In alto, il comizio di Palmiro Togliatti. A sinistra, la sezione Pd di San Lorenzo, in via dei Marsi a Roma
In attesa dell'esito degli ultimi congressi di circolo di Lazio e Lombardia, che hanno avuto una settimana in più, i risultati parziali riportati ufficialmente dalla Commissione Nazionale del Pd, diffusi dopo giorni di guerra mediatica sui risultati, dicono che a votare sono stati in 127 mila: Stefano Bonaccini ha preso il 54,35 per cento (68.950 voti), Elly Schlein il 33,7 per cento (42.758), Gianni Cuperlo il 7,46 per cento (9.469), Paola De Micheli il 4,49 per cento (5.697).
La differenza tra i due primi classificati è in teoria sufficiente a tenere aperta la partita. A favore di Schlein, il fatto che i risultati migliori arrivino dalle grandi città, come Milano, Firenze, Bologna, Napoli: luoghi dove più persone potranno partecipare alle primarie aperte del 26 febbraio. A favore di Bonaccini, la netta prevalenza che si è già manifestata nella gran parte del Sud, soprattutto grazie all'appoggio di Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, i due governatori viceré del Pd. Un impegno che ha portato a risultati record come quello di Salerno e provincia, dove il governatore dell'Emilia ha superato l'80 per cento: numero assai festeggiato da Piero De Luca, figlio e parlamentare dem, nonché responsabile per il Sud della mozione Bonaccini.
Foto: A. Sabbadini, A. Masiello / Getty Images
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Il dopo Letta
I programmi Pd Quelle promesse da non tradire
IL SIMBOLO
La sede del partito democratico durante una tornata elettorale
POLITICA PRIMARIE DEM
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LOREDANA LIPPERINI
Quando il mondo era giovane, per l’esattezza dal 1989 al 1994, in un bellissimo programma di RaiTre che si chiamava “Cartolina”, Andrea Barbato si rivolgeva ogni sera a un personaggio, che poteva essere un politico, uno scrittore, ma anche un anonimo (la cartolina indirizzata al nuovo utente del “telefonino portabile” è struggente, a riascoltarla). In una delle prime puntate, Barbato si rivolse a Batman. In quei giorni si pubblicizzava il film con Michael Keaton nel ruolo del titolo, e dunque c’erano i cartelloni affissi nelle città: ma a Roma si votava per il nuovo sindaco, dunque accanto ai manifesti di Batman c’erano quelli elettorali. Barbato ironizzò sulle promesse dei candidati, così simili alle azioni di Bruce Wayne quando si vestiva da pipistrello: proteggere i deboli, vendicare i torti, far trionfare il bene. Vinse Franco Carraro. Ora, leggendo le mozioni dei candidati alla leadership del Pd, ci si chiede se gli anni non siano passati invano. Raddrizzare le ingiustizie, coinvolgere i giovani e le donne, lavorare contro il cambiamento climatico: tutto viene promesso. Non che queste cose non siano fondamentali, ovviamente, ma ci scoraggia sempre un po’ nel vedere che le promesse vengano esposte con rari o nulli tentativi di fantasia, e in modo didascalico. Certo, non si pretende che un programma elettorale diventi un testo dell’OuLiPo, ma verrebbe da fare una considerazione che in effetti vale per tutto quello che riguarda la comunicazione dei nostri giorni, e che in realtà è stata fatta molti anni fa da un editore, Valentino Bompiani: il problema non è facilitare le cose, ma accendere l’interesse in chi non le conosce e instillare il desiderio di capirle meglio. Pazienza. Cominciamo. La mozione di Paola De Micheli ha come slogan “Concretamente. Prima le persone”. Per quanto riguarda la seconda parte della frase, va rilevato che è già stata usata da parecchi (da Nicola Zingaretti alla Pirelli post Covid passando per ActionAid e Amnesty International), ma, di nuovo, pazienza. Sulla concretezza si è già detto nella puntata dedicata ai programmi regionali, ma qui è stato usato l’avverbio e Stephen King avrebbe molto da dire. Lo ha detto, anzi, in “On writing”: «Con gli avverbi, l’autore rivela che teme di non esprimersi chiaramente, di non comunicare in modo adeguato concetti
o immagini». Ammettiamo pure che sia ininfluente e passiamo alla parola «privilegio», che De Micheli usa moltissimo. Tutto è privilegio: essere il Pd, sbagliare come fa il Pd e volersi rialzare come il Pd, e infine: «È un privilegio essere donna, lavorare senza tregua per lasciare a mio figlio un mondo migliore e vivere ogni giorno la tenerezza della maternità». Io non so se essere donna sia un privilegio (al momento, è una faticaccia), né se lo sia davvero la maternità (immaginavo fosse una scelta): so che forse non è esattamente una parola che coinvolge. Ma pazienza, e quattro (ci sarebbe anche un cinque: la proposta di far organizzare alle correnti del Pd giornate di formazione «per dare e non solo per chiedere», ma non so quanto le giornate di formazione con, che so, Goffredo Bettini, siano allettanti).
La mozione di Gianni Cuperlo è bellissima. Non tanto per il titolo, “Promessa democratica”, ma per il modo in cui è stata concepita. In pratica, è un fotolibro di Cuperlo. Tra un testo e l’altro, infatti, c’è una sterminata galleria fotografica, di quelle che, sui social, attirano la pubblicità che ti offre di stampare e raccogliere in album tutte le tue immagini al costo di 30 euro. E dunque Cuperlo e Chiamparino. Cuperlo e Majorino. Cuperlo con leggio. Cuperlo su maxischermo. Pubblico che ascolta Cuperlo. Cuperlo in visita a Bologna. Cuperlo con la Costituzione. Cuperlo a Palermo. Cuperlo con le donne ucraine. C’è anche una foto con una ragazza di spalle con la bandiera tricolore, però non è Cuperlo.
Elly Schlein è la più moderna, sia nell’uso del punto esclamativo nello slogan
Foto: A. CCasasoli / FotoA3
Dagli avverbi di De Micheli, alle parole di Schlein, dalle foto di Cuperlo alle citazioni di Bonaccini. Chi corre alle primarie prende impegni su tutto. Ma senza troppi sforzi di fantasia
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La bocca della verità Marco Ulpio Traiano
Brunetta al Cnel
Pardo gira al Maxxi
Cnel, dopo Treu aspettano Brunetta
Candidati
(“Parte da Noi!”) sia perché è chiara e non retorica, e si permette anche di parlare di giustizia sociale (ricordate? «La libertà senza giustizia sociale non è che una conquista fragile e si risolve per molti nella libertà di morire di fame», diceva Sandro Pertini), sia di pronunciare la parola «patriarcato», sia di dire chiaramente che «diritti sociali e diritti civili sono inscindibili», sia di parlare di cultura («La cultura è il collante della comunità»). Sarà durissima.
Da sinistra, Stefano Bonaccini, Elly Schlein, Paola De Micheli e Gianni Cuperlo
Da un vicentino a un veneziano. Nel palazzo del Cnel, il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro, dopo Tiziano Treu attendono come presidente Renato Brunetta. L’ex ministro della Pubblica amministrazione, classe 1950, viene definito da molti come «perfetto» per ricoprire la carica più alta dell’organo costituzionale. Non un parcheggio per pensionati: il Cnel si occupa anche del Pnrr. Ma il limite d’età? È sufficiente ricordare l’emendamento al decreto Milleproroghe che recitava: «Dopo il comma 22, aggiungere il seguente: 22-bis. Fino al 31 dicembre 2026, le previsioni di cui all’articolo 5, comma 9 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito con legge 7 agosto 2012, n. 135, non trovano applicazione per gli incarichi di vertice presso enti, istituti o aziende di carattere nazionale, di competenza dell’amministrazione statale, conferiti da organi costituzionali previo parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari». E poi il Cnel è un elisir di lunga vita: tra gli ex presidenti c’è Giuseppe De Rita, nato nel 1932 e in piena attività.
La mozione di Stefano Bonaccini è austera. Neanche un colore, tutto nero su bianco e ben 71 cartelle di testo, diviso per capitoli. Capitolo primo, “Le ragioni della mia candidatura”, dalla nascita alla crescita alla decisione. Il senso: «La nostra gente ha sogni ma non vive sulle nuvole». Quindi la politica è fatta di compromessi, ma dobbiamo tenere insieme il sogno e la risposta concreta (ovviamente con l’aiuto delle Donne e dei Giovani Democratici). Bonaccini usa molte frasi in esergo dei vari capitoli: Enrico
Berlinguer. Aldo Moro. Liliana Segre. Naomi Klein. Sandro Pertini. Filippo Turati.
Alexander Langer Adriano Olivetti Carlo
Petrini Franco Arminio. Non per sfiducia nei testi scelti (gli autori sono tutti nobilissimi, o quasi), ma alla fine mi è venuta voglia di rileggere Robert Frost, che Kennedy volle all’inaugurazione della sua presidenza. In quell’occasione Frost recitò “Fermandosi accanto a un bosco in una sera di neve”.
Dove dice: «Ma io ho promesse da non tradire/ Miglia da fare prima di dormire». Le promesse da non tradire, soprattutto. Perché non è che si possa sbagliare in eterno.
Pardo con prole va al Maxxi
«Hai visto? C’è Pierluigi Pardo al Maxxi con il figlio Diego», diceva una visitatrice del museo romano a un’amica, dopo aver ammirato le opere di Bob Dylan. Era proprio lui, il popolare telecronista sportivo, con prole al seguito: e non mancava la sua metà, Lorenza Baroncelli. Pardo si presenterà spesso nell’istituzione culturale di via Guido Reni, perché la sua compagna, architetto, urbanista, già nota come direttrice artistica della Triennale di Milano, ora guida il dipartimento di architettura del Maxxi, subentrando a Margherita Guccione. In passato, Baroncelli era stata assessora alla rigenerazione urbana a Mantova, con sindaco il pd Mattia Palazzi. È stata consulente per le strategie urbane e culturali per Edi Rama, primo ministro albanese, ed Erion Veliaj, sindaco di Tirana, per cui ha lavorato con Stefano Boeri alla stesura del nuovo piano regolatore della capitale del Paese. Vittorio Sgarbi, presentando il suo libro “Roma. Dal Rinascimento ai giorni nostri” proprio al Maxxi non ha nascosto la sua storica polemica con Boeri, elogiando piuttosto il «non architetto» Carlo Scarpa. Ma sulla famiglia Boeri il miglior ritratto è sempre quello scritto da Michele Masneri nel libro “Dinastie”. Per Pardo una vera manna, perché a pochi passi dal luogo di lavoro della compagna c’è lo stadio Olimpico.
Scrivete a laboccadellaverità@lespresso.it
Foto: F. Fotia / Agf POLITICA PRIMARIE DEM
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L’Italia ha bisogno di un codice delle ricostruzioni
MAURIZIO DI FAZIO
Italia è un territorio vulnerabile, flagellato da terremoti, alluvioni e frane. Nell’ultimo mezzo secolo sono state sei le calamità sismiche devastanti. Ma non è solo colpa della geologia e del caso. È come se non imparassimo mai dall’ultima tragedia. Dai nostri errori. Bisognerebbe uscire dalla cultura infantile dell’emergenza per entrare nell’età adulta della prevenzione. Con una politica nazionale di riduzione del rischio, l’unica strategia spendibile specie alle nostre latitudini. Si risparmierebbero anche fior di miliardi. Tutte speranze, però, eternamente vane. Prova adesso a dare la sveglia un gruppo di organizzazioni della società civile riunite nella campagna #SicuriPerDavvero, intrapresa nel 2019 da ActionAid. Con un white paper, un documento d’indirizzo rivolto al nuovo governo per dotare il Belpaese di un codice delle Ricostruzioni. Un unico, organico strumento giuridico che faccia tesoro delle esperienze passate e semplifichi, omogeneizzandolo, il groviglio di discipline preesistenti. Dopo una falsa partenza. Come scrive ActionAid Italia, infatti: «Un anno fa, il 21 gennaio 2022, il consiglio dei ministri aveva approvato una legge delega in tal senso. Un passo storico, richiesto e atteso per garantire equità, velocità e centralità delle persone e dei territori nei processi di ricostruzione e ripresa che riguardano gran parte degli italiani». Purtroppo il percorso si è interrotto col tramonto della precedente legislatura «e nessun passo è stato ancora fatto» dall’esecutivo subentrato. Serve ricostruire rapidamente, ma bene, per evitare recidive future. «L’assenza di un quadro normativo di riferimento porta con sé enormi difficoltà e lentezze nell’identificare ruoli, responsabilità e procedure adeguate, nonché gravi ripercussioni sulla vita dei cittadini colpiti», aggiunge la vicesegretaria Katia Scannavini. Senza un codice delle Ricostruzioni, sostiene l’organizzazione, è come se si ricominciasse sempre daccapo, affastellando commi e prassi a ogni nuovo disastro e successiva (pachidermica) ricostruzio-
ne. Nonostante i rischi siano ben mappati e la ciclicità delle catastrofi sia presente a chiunque.
Ogni cent’anni si verificano oltre cento terremoti di magnitudo tra 5 e 6, dai cinque ai dieci superiore a 6. Dal Belice a oggi, si sono contati più di 5 mila morti. Le scosse telluriche sono costate alle casse dello Stato, negli ultimi undici anni, 40 miliardi di euro. Il 36 per cento dei Comuni è in zona sismica 1 e 2, dov’è altamente probabile o plausibile che avvengano eventi. Vi vivono 22 milioni di persone, per un totale di sei milioni di edifici, il 56 per cento dei quali realizzato prima del 1970.
A questo si sommano i fenomeni meteorologici estremi, lievitati del 55 per cento nel 2022. Frane, alluvioni ed erosione costiera, assicura l’Ispra, minacciano addirittura il 94 per cento dei nostri centri abitati. Complici l’abusivismo e la cementificazione. Non c’è più tempo da perdere.
PAESE IN DISSESTO
Un edificio in bilico a Casamicciola, Ischia, dopo la frana del novembre scorso. Sotto, una delle mappe elaborate dall’Ispra per L’Espresso pubblicate con l’inchiesta sulle zone a rischio sul n.6 del 12 febbraio scorso
Foto: AP / LaPresse LA CAMPAGNA POLITICA
Per tutelare il nostro territorio fragile occorre puntare sulla prevenzione. Perciò il governo dovrebbe unificare e semplificare le norme sull’edilizia post-calamità. Imparando dagli errori
L’
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Immobili Inps spreco continuo
Vent’anni esatti sono passati, e ancora ci lecchiamo le ferite. Le avevano chiamate «cartolarizzazioni». Trasformare i mattoni dello Stato in carta, denaro frusciante, per ridurre il debito pubblico. Missione, però, clamorosamente fallita almeno da questo punto di vista. Il giudizio, incontrovertibile, si trova facilmente in varie relazioni della Corte dei conti, dove si elencano gli esiti delle operazioni Scip 1 e Scip 2. Due società veicolo, come si dice in gergo, costituite dal secondo governo Berlusconi per le cessioni di immobili e crediti degli enti previdenziali. Due società dello Stato italiano ma chissà perché di diritto olandese, utilizzate per la più grande svendita di patrimonio immobiliare pubblico. Infatti l’operazione si risolve subito in un grande regalo per chi può comprare a prezzi stracciati, ma in un pessimo affare per i proprietari, cioè tutti gli altri contribuenti. Nel marzo 2006 il magistrato contabile Luigi Mazzillo pubblica i primi dati: 43.415 appartamenti degli enti previdenziali ceduti al 31 dicembre 2004, con il mercato immobiliare alle stelle, per un prezzo medio di circa 78 mila euro ciascuno. Per un incasso totale di 3,4 miliardi. Ma alla stessa data gli immobili invenduti erano ancora 66.682, per 3,9 miliardi. Nel giugno 2012 tocca invece al presidente della Corte Raffaele Squitieri denunciare che all’Inps sono tornati indietro più di 10.500 cespiti immobiliari. Forse senza immaginare gli altri guai che gli stanno per piovere addosso.
Perché nel frattempo l’istituto di previdenza si sta già dissanguando con i canoni dei suoi immobili strumentali, che è stato costretto a vendere alle banche e poi riprendere in affitto a prezzi senza senso stabiliti per legge. Della pazzesca operazione Fip (Fondo immobili pubblici) tutta a vantaggio della speculazione immobiliare e congegnata parallelamente a quella delle Scip,
Dopo le vendite in saldo, le case
nessuno vuole
L’Espresso (n°3 del 22 gennaio 2023) ne ha già rivelato quattro settimane fa l’impatto disastroso sui conti pubblici. Ma ora vengono fuori anche altre magagne.
Dalla catastrofica avventura Scip, relativa alla vendita del patrimonio abitativo degli enti previdenziali, sono rimasti sul groppone dell’Inps circa 10 mila immobili.
Racconta il direttore generale Vincenzo Caridi: «Quando nel 2008 le Scip sono finite in liquidazione, l’Inps si è visto restituire un insieme frammentato di unità immobiliari. Erano le meno appetibili, e dunque rimaste invendute, per un valore di circa 2 miliardi. Nel corso degli anni siamo riusciti comunque a venderne per oltre 700 milioni».
Il problema è quello che è rimasto. Parliamo di 7.500 appartamenti, più 2.500 locali commerciali, garage, cantine e terreni. «Nel 2022 - dice Caridi – abbiano fatto aste per circa 1.100 immobili, sulla base di un valore di 85 milioni stimato dalle agenzie fiscali. E il 73 per cento è andato deserto». Poco male, si potrebbe concludere. Gli appartamenti invenduti si potranno sempre affittare. Per poco che sia, faranno sempre incassare qualcosa. Niente affatto. Il direttore generale dell’istituto spiega che «dal 2012 una norma ha imposto all’Inps la completa dismissione del patrimonio da reddito». E per quanto sia difficile da credere, la
POLITICA CONTI PUBBLICI
che
restano all’Istituto. Non possono essere affittate e vengono occupate abusivamente. E intanto costano 60 milioni l’anno
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SERGIO RIZZO
conseguenza di una disposizione così assurda è questa: «Da oltre dieci anni l’Istituto non può affittare gli appartamenti e gli altri immobili che si liberano, né rinnovare gli affitti scaduti. Possiamo solo vendere. Intanto spendiamo una barca di soldi per le manutenzioni e le tasse».
LA SEDE
Il palazzo dell’Inps al Casilino-Prenestino di Roma, in via Emilio Longoni
I numeri consentono di apprezzare il livello di masochismo raggiunto da chi ha fatto quella legge. E gli sprechi inenarrabili conseguenti. Dei 7.500 appartamenti quelli sfitti sono 2.300. A questi se ne devono però aggiungere altri 1.900 occupati abusivamente. Il succo è che il 56 per cento del patrimonio abitativo ancora posseduto dall’Istituto della previdenza sociale non produce alcun reddito. Causa anzi perdite rilevanti. Fra manutenzioni straordinarie, gestione ordinaria e tasse, le case dell’Inps costano ogni anno 112 milioni di euro. Metà di questa cifra, oltre 50 milioni, se ne va soltanto per gli appartamenti vuoti e occupati dagli abusivi. Il rimanente 44 per cento, vale a dire circa 3.300 appartamenti, genera entrate per 43 milioni l’anno. Con il risultato che sul patrimonio abitativo residuato dall’assurda operazione Scip l’Inps ci perde una sessantina di milioni l’anno.
Eliminando il divieto di riaffittare le abitazioni
vuote potrebbe recuperarne forse 40, di milioni. E sarebbe già qualcosa. Per risolvere il problema, tuttavia, ci vorrebbe ben altro. Caridi suggerisce una norma per conferire tutto il patrimonio teoricamente a reddito dell’Inps a un fondo immobiliare che abbia mano libera nella sua gestione. Oppure di impiegarne una parte per alleviare l’emergenza abitativa nelle grandi città come Roma e Milano.
Quella sessantina di milioni perduti ogni anno è una briciola in confronto a una spesa pubblica di mille miliardi. Buttarla dalla finestra però è colpa imperdonabile. Un’aggravante ulteriore del peccato originale, la follia delle Scip.
Con 60 milioni di perdite l’anno, in sei anni sono evaporati i 375 milioni incassati per le 3.712 case dell’Inps vendute con le famose cartolarizzazioni. Senza lasciare traccia. E, quel che è peggio, senza un responsabile che sia uno di tale scempio del patrimonio pubblico.
Foto: Simona Granati / Corbis / Getty Images
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Quel raid militare dietro la morte di Luca Attanasio
ANTONELLA NAPOLI
Io e i miei familiari siamo in pericolo. Se chi vuole far calare il silenzio sul caso Attanasio mettesse insieme gli elementi che riconducono a me e avesse conferma che sono stato sentito dagli inquirenti italiani, sarei un uomo morto».
IL LIBRO
In libreria dal 22 “Le verità nascoste del delitto Attanasio” di Antonella Napoli, edito da All Around, pag. 130, (16 euro)
A parlare è un alto ufficiale congolese, di cui non riveliamo l’identità per proteggerlo. È lui il superteste dell’inchiesta sull’uccisione dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio (in foto). Il militare ha fornito elementi sulla tesi di un attacco deliberato e non di un sequestro finito male. Nell’agguato nel Nord Kivu del 22 febbraio 2021, oltre al nostro diplomatico, persero la vita il carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci e un autista del convoglio del World food programme, Mustapha Milambo. Secondo il testimone, quella dei «criminali comuni», arrestati nel gennaio del 2022 e attualmente sotto processo davanti alla corte militare di Kinshasa, «è una messinscena». «Chi ha agito proveniva dal Ruanda, supportato da un colonnello delle forze armate della Repubblica democratica del Congo», conferma l’ufficiale. «Quelli che hanno operato a Kikumba appartenevano a un gruppo strutturato, con un obiettivo politico. Ma le indagini delle autorità in Congo su questa pista sono state sospese e il fascicolo chiuso. Spetta all’Italia fare chiarezza», spiega il militare. Già nel 2021, le informazioni della fonte erano state acquisite dagli inquirenti italiani, guidati dal pm Sergio Colaiocco, attraverso l’allora incaricato d’Affari presso l’Ambasciata d’Italia a Kinshasa, Fabrizio Marcelli. E, da quanto emerge da-
gli atti giudiziari, il magistrato che era nel team di inquirenti dell’Auditoriat militaire di Goma - che aveva condotto le fasi iniziali delle indagini sull’uccisione di Attanasio - aveva disposto l’arresto di alcuni soldati delle forze armate del Congo. Secondo l’ufficiale, gli assalitori erano sul posto già dal sabato precedente l’attacco. E poco prima della missione a Goma organizzata dal vicedirettore del Wfp in RdC, Rocco Leone, era stato inspiegabilmente rimosso il posto di blocco dell’esercito istituito in località “Trois Antennes”, l’area dove poi si era consumato l’agguato. Ma a inizio marzo del 2021, quando è arrivata da Kinshasa una commissione incaricata di sovraintendere alle indagini della procura militare di Goma, l’inchiesta è stata congelata. Il comandante del battaglione che abbandonò il posto di blocco si è assunto la responsabilità della decisione ma non ha fornito spiegazioni sul perché. La commissione aveva liberato i fermati e non aveva ritenuto opportuno sentire il colonnello a capo dell’altro reggimento congolese impegnato nella zona. A volerci vedere chiaro era rimasto solo l’ufficiale che coordinava le indagini. Frustrato dall’atteggiamento dei superiori, aveva chiesto di lasciare. Al rifiuto delle dimissioni è seguito poi un repentino trasferimento a Kinshasa. E con la rimozione anche la smobilitazione dell’intera squadra che si occupava del coinvolgimento dei soldati congolesi. Da quel momento si è proseguito solo sulla pista di un attacco di predoni. I militari sono usciti di scena: la richiesta dei tabulati telefonici dei sospetti è rimasta lettera morta. E resta un interrogativo sul passaggio senza intoppi di un altro convoglio con operatori umanitari, poco prima di quello di Attanasio. Un ulteriore indizio che porta all’ipotesi di un attacco mirato.
Foto: Ansa IL GIALLO POLITICA
Un ufficiale del Congo smentisce la tesi del sequestro per l’omicidio del diplomatico italiano.
“Azione mirata di un commando venuto dal Ruanda, i soldati sapevano”
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Affari e sanità Il ras veneto aveva una spia
PAOLO BIONDANI
Mantoan ora guida Agenas. Il capo dei Servizi lo avrebbe avvertito di essere sotto intercettazione.
L’indagine svelava il monopolio degli appalti per i pasti agli ospedali
Il 14 agosto 2020 un potente manager pubblico, Domenico Mantoan, direttore generale della sanità veneta da oltre un decennio, prende la macchina e sparisce, lasciando un messaggio laconico: ha appuntamento con «uno molto informato». A metà pomeriggio si ferma a Brendola, un paese della provincia di Vicenza, e spegne il telefonino. Qui viene raggiunto da un uomo di mezza età, arrivato anche lui da solo, su un’auto noleggiata. L’incontro dura tre ore, fino alle otto di sera. Poi Mantoan riaccende il cellulare e chiama la sua convivente, funzionaria della sanità regionale, usando un linguaggio in codice, come avverte lui stesso. Per le notizie più riservate, le manda dei disegni, protetti con messaggi a scomparsa. Il senso, secondo i magistrati di due procure, è comunque chiarissimo: allarme rosso, c'è una nuova inchiesta a Padova, attenzione alle telefonate, di questo e altri problemi dobbiamo parlare di persona. La settimana dopo Ferragosto, negli uffici della Regione a Venezia, i suoi più stretti collaboratori cominciano a preoccuparsi, a discutere di indagini in corso e a confidare di sentirsi controllati.
I carabinieri, che stanno effettivamente intercettando Mantoan e il suo staff per una grossa istruttoria sulla sanità veneta, in teoria ancora segretissima, avvertono la Procura di Padova della fuga di notizie, che rischia di bruciare anche altre indagini, collegate alla prima. Urge identificare il misterioso interlocutore del super manager regionale, che gestisce un bu-
dget di spesa da dieci miliardi all’anno. Una telecamera ha ripreso la targa della sua auto, noleggiata a Roma: il contratto è intestato alla Presidenza del Consiglio, la partita Iva fa capo al Dis, la direzione centrale dei servizi segreti. Quella macchina risulta assegnata al capo dell’Aise per tutto il Nordest. Dunque il sospettato, S.M., non è un agente qualsiasi: è il numero uno dei servizi segreti militari con competenza su tre regioni. L’ufficiale viene indagato per rivelazione di segreti d’ufficio. La sua abitazione viene perquisita. I magistrati lo accusano di aver abusato del suo ruolo per carpire «notizie e documenti» da una fonte interna al palazzo di giustizia, mai identificata: la talpa è tuttora «ignota». E sul caso ora incombe una mossa difensiva di portata istituzionale: il segreto di Stato.
Il procedimento per la presunta soffiata anti-intercettazioni, trasmesso per competenza a Vicenza, è solo l’ultimo atto di una trama giudiziaria più ampia e complessa: un fascio di indagini su maxi-appalti sanitari,
Foto: Shutterstock POLITICA POTERE DI SPESA
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parcelle d’oro, truffe sull'emergenza Covid, rapporti con i servizi. Inchieste derivate dalle stesse intercettazioni, che sono arrivate a coinvolgere anche l’avvocato della Lega che oggi è vicepresidente del Csm.
Tutto parte da una querela temeraria. Il giornalista Renzo Mazzaro spiega sul Mattino di Padova come un imprenditore vicentino, Mario Putin, classe 1949, cinque figli e 45 nipoti, gran lavoratore, titolare della Serenissima Ristorazione, «ha raggiunto il monopolio degli appalti» per i pasti negli ospedali veneti. La sua azienda controllava il 61 per cento delle forniture già nel 2010, quando il governatore leghista Luca Zaia è subentrato al berlusconiano Giancarlo Galan (poi condannato per le tangenti del Mose). Nel 2018 è sempre Serenissima Ristorazione a stravincere la gara bandita da Azienda Zero, la centrale regionale delle spese sanitarie, per la bellezza di 303 milioni di euro. Il principale concorrente, Dussmann Italia, denuncia all'Autorità anticorruzione (Anac)
di essere stata penalizzata da una clausola «su misura»: vietato usare le cucine degli ospedali, bisogna avere un mega-centro esterno di cottura. L’unica che lo possiede è la società di Putin, che peraltro l’ha costruito con fondi della stessa Regione.
Prontamente querelato da Azienda Zero, il giornalista viene assolto con una sentenza trionfale: il giudice definisce l'articolo «un esempio di giornalismo d'inchiesta» ed evidenzia che «i fatti riportati sono tutti veri!». Quindi l’Anac boccia la clausola su misura e il Consiglio di Stato, nel 2020, ordina di rifare la gara. La Regione, a quel punto, fissa un tetto: la stessa società non può ottenere più di metà degli appalti. Intanto la Procura fa partire le intercettazioni. L’indagine si chiude nel 2022 con il rinvio a giudizio dei responsabili di due società che hanno vinto 5 appalti su 6: Serenissima Ristorazione ed Euroristorazione. Le intercettazioni, secondo l'accusa, mostrano che Putin sarebbe il «dominus effettivo» di entrambe. Le
CANAL GRANDE
Palazzo Balbi, storica sede dell’esecutivo della Regione Veneto, che gestisce un budget di spesa sanitaria di oltre dieci miliardi di euro all’anno
19 febbraio 2023 53
due aziende avrebbero fatto «offerte concordate», presentandosi «falsamente» come separate e concorrenti, ma a comandare era sempre lui. Le intercettazioni fanno scattare anche un’accusa di truffa allo Stato: gli stipendi di cinque dipendenti sarebbero stati scaricati sulla «cassa integrazione Covid», anche se in realtà lavoravano in azienda a tempo pieno. L’imprenditore Putin e gli altri indagati respingono tutte le accuse e con i loro legali contestano la validità e l’interpretazione delle intercettazioni. Vanno tutti considerati innocenti fino alla sentenza finale. E la lentezza dei processi, soprattutto in appello a Venezia, gioca a loro favore, con alte probabilità di prescrizione o «improcedibilità sopravvenuta».
La seconda indagine nasce nell’aprile 2020, in piena emergenza Covid. Le intercettazioni vanno ancora a gonfie vele, quando Mantoan chiama la dirigente dell’ufficio legale della Regione e le dice, papale papale, di pagare più parcelle possibili a un avvocato della Lega, Fabio Pinelli. La dirigente sa che il legale difende politici come Armando Siri e altri big del partito che guida la Regione Veneto, ma gli risponde che non si può fare: è lecito usare legali esterni solo in casi eccezionali e motivati, per ardue procedure amministrative, mentre Pinelli è un penalista e non è neppure nella lista dei consulenti autorizzati. E poi la legge vieta di dare incarichi diretti, a trattativa privata, sopra i 40 mila euro. Mantoan però rilancia: le propone di frazionare le fatture e pagargli tante parcelle sotto i 40 mila. E per rassicurarla aggiunge che, con tutti i miliardi che la Regione spende per il Covid, nessuno andrà a controllare. La dirigente resta spaventata e chiede consigli ad altri avvocati veneti, sentendosi dire che Pinelli avrebbe una pessima fama: un maneggione, un raccomandato salito sul carroccio della Lega. Le parole testuali sono molto più pesanti, ma un’apposita legge-bavaglio intitolata alla
LA COPPIA DI DENARI
Fabio Pinelli, avvocato della Lega, oggi vicepresidente del Csm.
A destra, Domenico Mantoan, direttore generale della sanità veneta per oltre un decennio, ora al vertice dell’Agenas, l’agenzia nazionale per gli ospedali
ministra Marta Cartabia vieta ai giornalisti di virgolettare le intercettazioni, anche se vere e dichiarate rilevanti dai giudici.
L’otto aprile 2020 viene intercettata in diretta la stesura di una delibera a favore di Pinelli. L'incontro è organizzato da Mantoan. La dirigente regionale scrive il testo insieme a Pinelli che ne beneficia. Il giorno stesso inizia la festa: l’avvocato della Lega emette una fattura di 39 mila euro. La seconda, con la stessa data, è di altri 19 mila. La Guardia di Finanza conteggia, fino alla fuga di notizie del 2020, un totale di 21 parcelle deliberate da Azienda Zero, «con affidamento diretto», a favore dell'avvocato Pinelli, in qualche caso insieme a un altro legale, per cifre comprese fra 2.990 e 35 mila euro, con due eccezioni: due fatture da 95 mila e 47 mila euro, che risalgono però al settembre 2019. Nella fase più tragica della pandemia, Pinelli ottiene dalla Regione anche un incarico a percentuale: il 15 per cento di tutte le tasse da recuperare sulle bollette elettriche delle Asl, con parcella massima finale di 465 mila euro.
La chiusura dell’indagine è un'archiviazione con una coda velenosa. I magistrati spiegano che le ultime riforme dell'abuso d'ufficio, invocate da legioni di sindaci e funzionari perseguitati, hanno raggiunto l'eccesso opposto: se c’è un potere discrezionale, anche il favoritismo più smaccato non è più reato. Con tutte quelle parcelle all’avvocato Pinelli, lo staff di Mantoan «ha violato i doveri di imparzialità, selezione e ro-
POLITICA POTERE DI SPESA
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Nei dialoghi, le pressioni del dg sull’ufficio legale della Regione per liquidare superparcelle all’avvocato Fabio Pinelli, oggi nominato in quota Lega vice del Csm
tazione degli incarichi», scrivono i giudici, ma l’accusa penale è stata abolita. La Procura di Padova però trasmette gli atti alla Corte dei Conti, per valutare possibili risarcimenti. E il giudice del tribunale denuncia Pinelli all’Ordine degli avvocati, per la sua mega-tariffa a percentuale, ritenuta un illecito disciplinare. Il decreto finale ordina anche nuove indagini su Mantoan e il suo staff, per una parte delle parcelle di favore.
Intanto l’avvocato e il super manager, che si sono sempre proclamati innocenti, hanno fatto fortuna a Roma. Pinelli è stato eletto vicepresidente del Csm, il primo con la targa della Lega e il plauso di Matteo Salvini: «È un amico». Mantoan è diventato il direttore generale dell’Agenas, l’agenzia nazionale che controlla le spese di tutti gli ospedali italiani.
Peggio di tutti se la passa l’ex capo del servizi nel Nordest, per ora sospeso dall'incarico. Ma anche lui confida in una riabilitazione totale. Il suo avvocato, Virio Nuzzolese, ha presentato una memoria difensiva che contesta le intercettazioni: sono state fatte in un’indagine diversa e non sono utilizzabili per provare una fuga di notizie. L’ufficiale però si difende anche nel merito: conferma di aver incontrato Mantoan, ma giura di non avergli rivelato indagini giudiziarie, che i servizi nemmeno conoscevano. E di cosa ha parlato con Mantoan? È vero che l’ufficiale potrebbe opporre ai giudici il segreto di Stato? «Non posso confermare né smentire», è la risposta del difensore.
Gianfranco Ferroni
Le mire di Cingolani e il Ponte di Salini
erano 500 casse acustiche per 215 mila watt, come in un grande concerto rock. Non si trattava del Festival di Sanremo ma della Convention Magic Allianz nel centro congressi Allianz MiCo di Milano, voluta dall’ad Giacomo Campora per coinvolgere oltre duemila agenti assicurativi. La star più applaudita? Il fisico Roberto Cingolani, già ministro della Transizione ecologica nel governo Draghi, ora consigliere sull’energia della premier Meloni. Oltre che membro “indipendente” del cda di De Nora, società che si occupa di idrogeno verde, partecipata da Snam. Il vero progetto di Cingolani però è crescere nel gruppo nel quale già lavora, Leonardo: sul tema qualcuno lo ha assicurato, ma Allianz non c’entra. Il sogno nel cassetto, coltivato di nascosto? Hitachi.
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Sarà un pomeriggio da ricordare, quello con Luca Cordero di Montezemolo e Pier Luigi Bersani. Il 23 febbraio, a Roma, presso il Centro Congressi Cavour, alcuni protagonisti della nascita di Ntv parteciperanno al convegno “Trasformare i trasporti: attualità di Giuseppe Sciarrone”. L’ingegnere mantovano (1947-2022), soprannominato «l’uomo dei treni», era stato uno degli ideatori e fondatori di Italo, e il suo primo ad. A celebrarlo ci saranno anche Mario Sebastiani, Paolo Costa, Ercole Incalza e Lanfranco Senn.
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Dietro a una nomina importante c’è sempre un famoso avvocato. Specie nell’alta moda. Un esempio? Per Sabato De Sarno il passaggio da Valentino a Gucci, per ricoprire il ruolo di direttore creativo, posto occupato in precedenza da Alessandro Michele, è stato seguito da Federico Torzo, socio responsabile del dipartimento del diritto del lavoro di Ughi e Nunziante –Studio Legale. Un professionista specializzato nelle operazioni straordinarie di licenziamento collettivo e nel trasferimento di azienda.
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Pietro Salini vuole mostrare a tutti cosa è capace di fare Webuild: così il mese di marzo inizierà con la presentazione nella Triennale di Milano di “Costruire il Futuro”, un’esposizione ideata per scoprire le principali opere infrastrutturali realizzate nel mondo dal gruppo. Il prossimo obiettivo? È nel report presentato al governo: il ponte sullo stretto di Messina. Intanto nella capitale fino al 28 febbraio Webuild, nella sala Zanardelli del Vittoriano, propone “Roma Silenziosa Bellezza”, con le fotografie scattate da Moreno Maggi durante il lockdown. Con un video mapping sulla facciata di Palazzo Venezia, proiettato ogni sera dall’edificio delle Assicurazioni Generali.
Foto: S. Carofei / Fotogramma
C’
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Affari vostri
Virman Cusenza
Balneari, proroga con stangata Tanto tuonò che piovve. Con sette imprenditori candidati alle ultime elezioni, una squadriglia larga di sostenitori in Parlamento e il titolare del “Papeete” in sella a Strasburgo, non poteva che finire con l’ennesimo rinvio. Così, in barba alla sentenza del Consiglio di Stato che intimava la scadenza di fine 2023 e alla diffida della Commissione europea, le concessioni ai titolari degli stabilimenti balneari slittano fino a dicembre 2024, anzi fino a tutto il 2025 per i Comuni alle prese con ritardi. L’asse FdI-Lega-FI ha segnato con il famigerato Milleproroghe un gol al Senato
Per i balneari
per le categorie protette. Si tratta di almeno 6.823 stabilimenti e di 103.620 concessioni. Il canone minimo per l’affitto di una spiaggia o un pezzo di litorale, demaniali e quindi pubblici, è stato rialzato a gennaio: da 2.698 a 3.377 euro. Introito per lo Stato attorno a 110 milioni (evasione altissima). Briciole, se il fatturato nazionale è di un miliardo secondo Confcommercio e il giro d’affari di 15 miliardi secondo la Corte dei conti. Per di più il blitz potrebbe costare carissimo per i conti pubblici. Non solo per la pioggia di ricorsi che sta per abbattersi su giudici e Comuni. Ma soprattutto per la procedura di infrazione della legge comunitaria sulla concorrenza, che è già stata aperta per mancata parità di trattamento tra gli operatori e il rischio monopolio. Chiedere al Portogallo che per le stesse ragioni (chi ha concessioni le tramanda di padre in figlio) è finito nel miri-
Nuova proroga ma, tra diffida europea e Consiglio di Stato, l’infrazione potrebbe costarci cara
no. Il tutto mentre chiediamo a Bruxelles maggiore flessibilità per il Pnrr (la concorrenza ne è un capitolo cruciale) e attendiamo due rate per 36 miliardi quest’anno. Sapore di sale, ma per chi?
Meno parlamentari, nessuna stanza vuota Le aule non sono più «sorde e grigie» ma spaziose. Eppure, le stanze riservate a studio per i parlamentari - ridotti di un terzo - non lasceranno libero nemmeno uno strapuntino. Due ragioni ufficiali: sono aumentati i gruppi (quest’anno 10, erano 9), nonché i segretari di presidenza, e soprattutto deputati e senatori erano «ammassati» e costretti a condividere l’ufficio con un collega. Così, nonostante il Senato conti sui Palazzi Carpegna, Cenci, delle Cinque Lune, degli Spagnoli e Giustiniani, i 100 onorevoli in meno e le commissioni ridotte da 14 a 10, staranno semplicemente più larghi. Lo stesso per gli inquilini di Montecitorio che, pur dopo il taglio di 230 seggi, possono contare sugli uffici al Palazzo dei Gruppi, di San Macuto, Valdina, Theodoli, nonché nell’ex Banco di Napoli. Non era meglio razionalizzare gli spazi e dare un segnale al pubblico, se non all’Erario?
Poche leggi molte parole
Il Servizio studi della Camera ha passato ai raggi X i primi tre mesi della legislatura. E il colpo d’occhio parla da solo. A fronte di un record, pochissime leggi approvate, è tutta un’esplosione verbale. La legge di bilancio, composta da 1.017 commi e 105.128 parole, rispetto al testo iniziale è cresciuta di 381 commi (+ 159,91%) e di ben 39.485 parole (+160,15%). Bulimia lessicale analoga per i decreti e le leggi di conversione: composti da 405 commi e 49.659 parole, vale a dire il 38,52% in più dei primi e il 41,33% in più delle seconde rispetto alla versione base. Eccessi dovuti al poco tempo a disposizione o a troppo pochi giuristi?
PALAZZOMETRO
c’è tempo nonostante la Ue
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#ifeelsLOVEnia #myway SLOVENIA. RIGENERARSI A MODO MIO. www.slovenia.info
Stragi del ’93 l’altra donna delle bombe
SIMONA ZECCHI
Sebbene la Procura di Firenze abbia individuato in Rosa Belotti la donna presente in via Palestro a Milano, a seguito di una fotografia trovata nel 1993 in un villino di Alcamo, in realtà, la presenza di più donne per le stragi di quell’anno è un fatto ancora tutto da indagare e L’Espresso è in grado di fornire nuovi elementi. Rosa Belotti, intanto, pur riconoscendosi nella foto, nega il suo ruolo nella strage.
«È bruna, con i capelli a caschetto, è alta circa cm. 160/165, età 30/32 anni, occhi verdi chiari (con taglio diverso e più arrotondato rispetto all’identikit)». E poi ancora: «Alcuni anni fa avrebbe lavorato per circa un anno presso l’Alfa Romeo di Arese e in seguito sarebbe stata impiegata presso enti pubblici tra cui la Regione Lombardia dove avrebbe prestato la sua opera negli uffici territoriali, con impiego specifico presso l’ufficio Vidimazioni. Fino al luglio-agosto 1992 avrebbe usufruito di aspettativa».
Sono solo alcuni dei particolari, mai emersi prima, che descrivono la bombarola o le bombarole delle stragi sulle quali gli investigatori di Firenze stanno indagando da tempo. A redigerli è il vecchio servizio di sicurezza civile (Sisde) oggi Aisi. Il documento numero 93TER.9975 – H.1/1993/022
(3^) di tre fitte pagine e datato 19 agosto 1993, è conservato dall’Archivio centrale dello Stato a Roma, all’interno di un dossier più ampio, e racconta molto sul piano di destabilizzazione messo in atto in quel periodo e anche sul ruolo de-
gli “esterni” che avrebbero preso parte alle stragi «in Continente». Forse proprio quel «nucleo operativo oscuro» di cui ha riferito Report lo scorso gennaio e su cui la gip di Caltanissetta Graziella Luparello, nel maggio del 2022, ha chiesto di approfondire. Ruolo sul quale anche la Commissione antimafia della scorsa legislatura si è soffermata, indicando, a esempio, la strage di via dei Georgofili a Firenze del maggio ‘93 come un’operazione di Falsa Bandiera, ossia fatta commettere da alcuni (mafiosi) ma voluta e supportata sul terreno da altri.
L’appunto, redatto a solo un mese dagli attentati avvenuti tra il 27 e il 28 luglio del 1993 a Roma e Milano, fa riferimento al commando che avrebbe portato a termine quello lombardo di via Palestro.
A intervenire sarebbe stato un gruppo composto da 4 persone di cui due artificieri «di circa 32/35 anni e capelli molto corti e neri», recita l’appunto del Sisde; un’altra in-
Foto: M. Frassineti / Agf POLITICA ESCLUSIVO / ATTENTATI AL NORD
Un’ex impiegata di Arese nel commando di via Palestro a Milano. Era legata a uno degli artificieri. Il suo aspetto e una minuziosa descrizione in un appunto del Sisde
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vece avrebbe avuto il ruolo di autista «chiesto in prestito» alla malavita milanese per la conoscenza che aveva delle strade cittadine. La quarta persona del commando poi è lei, legata sentimentalmente, secondo il documento, a uno degli artificieri: una donna che l’identikit, da sempre fatto girare, mostra come bionda, ma che invece «sarebbe bruna con capelli a caschetto». Secondo la fonte del Servizio, «operante nell’ambito della criminalità organizzata», la donna avrebbe anche «una cicatrice su una coscia, causata da una ferita riportata in un incidente stradale avvenuto circa 5 anni orsono» e in passato «soprannominata cipollina» per via della capigliatura (che però può essere stata anche posticcia applicata sui capelli corti). Particolare questo confermato a L’Espresso dall’ex pm Enzo Macrì che nel 93 lavorò su un’altra donna, tale Rosalba Scaramuzzino di Reggio Calabria, il cui cognome emerge qui per la prima volta.
Ma l’appunto prosegue su un altro aspetto: «La suddetta non sarebbe la stessa donna “bionda” dell’attentato perpetrato il 14 maggio 1993 in via Fauro a Roma». Insomma, i nostri servizi avevano già tutte informazioni più che dettagliate per individuarla, comprensive di suoi spostamenti «sul lago di Garda» nei fine settimana.
STRATEGIA TERRORISTICO-MAFIOSA
L’intelligence aggiunge poi altri elementi quando avverte che «per il prossimo futuro» – quindi non di lì a breve - si stavano per preparare azioni criminali in altre città. In particolare Venezia che – si legge – «verrebbe coinvolta per la sua valenza primaria in un attentato di grandi proporzioni». Ma non basta. L’appunto si conclude con un’analisi quasi degna di un autore di fiction sugli ideatori della strategia terroristico-mafiosa attuata da «un coacervo di forze politico-massoniche con agganci nell’alta finanza e in
GEORGOFILI
La strage nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 a Firenze, in via dei Georgofili, vicino agli Uffizi: cinque i morti
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organizzazioni straniere». Il riferimento a Venezia fa tornare alla mente un evento ormai rimosso dalla cronaca, quello del rogo al teatro La Fenice, simbolo di valore artistico istituzionale proprio come gli obiettivi di Roma, Firenze e Milano, andato in fumo la sera del 29 gennaio 1996 e ricostruito solo nel 2003. Episodio per il quale l’ombra della mafia era apparsa al tempo delle indagini per poi essere archiviata. A gennaio del 1996 era da poco iniziato nell’aula bunker di Mestre, davanti alla corte d’Assiste d’Appello di Caltanissetta, il Borsellino Bis.
LE SEGNALAZIONI CHE ANTICIPAVANO IL BOTTO
Ma c’è un altro appunto datato 28 luglio 1993, che il 4 giugno indicava già la possibilità di un attentato programmato nel capoluogo lombardo in via Zimagna, vicino allo Stadio San Siro e insieme una nota: «Le relazioni semestrali Sismi (oggi Aise, ndr) e Sisde avevano previsto la possibilità di ul-
La memoria
teriori azioni violente con modalità di tipo terroristico. Al riguardo era stata attirata l’attenzione dei Servizi». Attenzioni che per un servizio di sicurezza equivalgono a intervenire per prevenire certe azioni, non semplicemente a registrarle.
Nell’elenco Aise invece, proveniente dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, e riguardante materiale Gladio che ancora non è possibile visionare, si legge un altro nome di donna più volte comparso in queste vicende, quello di Virginia Gargano di cui L’Espresso ha scritto più volte: la donna che avrebbe accompagnato Giovanni Aiello, alias Faccia da Mostro ad alcuni incontri con uomini della ’ndrangheta e non solo. La documentazione che la riguarda versata il 21 dicembre 2021 nelle stanze degli archivi consterebbe di 12 pagine e non riporta alcuna data.
Lo Stato ricordi il prefetto Sodano
Un ulivo nel Giardino della memoria per ricordarlo e la richiesta che il ministro dell’Interno assegni la medaglia al valor civile all’ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano. L’iniziativa è di Tina Montinaro, moglie di Antonio, il caposcorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso con lui a Capaci assieme alla moglie del magistrato Francesca Morvillo e ai colleghi Rocco Dicillo e Vito Schifani. Per Sodano si tratta di un riconoscimento postumo dovuto a un servitore dello Stato, isolato e poi estromesso dalla frontiera trapanese da Antonio D’Alì, il più influente dei colletti bianchi complici dell’allora superlatitante Matteo Messina Denaro. Fu infatti l’allora sottosegretario all’Interno con delega ai collaboratori di giustizia, oggi in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, a pero-
L’ARRESTO
Il boss Matteo Messina Denaro, arrestato dopo trent’anni il 16 gennaio scorso alla clinica La Maddalena di Palermo
POLITICA ESCLUSIVO / ATTENTATI AL NORD
Enrico Bellavia
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All’opera, insieme con la mafia un “nucleo operativo oscuro” che dopo Roma, Firenze e Milano, progettava un’azione anche a Venezia dove nel 1996 un rogo distrusse La Fenice
rare l’allontanamento del prefetto. Il decreto di trasferimento fu firmato dal ministro Giuseppe Pisanu.
D’Alì si è consegnato a Opera giusto un mese prima della cattura del superboss. Una circostanza temporale sottolineata in un appunto della vedova di Fulvio Sodano, Maria che L’Espresso ha pubblicato all’indomani della cattura del capomafia.
Il marito morì nel 2014, fiaccato dalla Sla che ne aveva minato il corpo, privandolo della parola ma lasciandolo lucido fino all’ultimo.
Sodano era arrivato a Trapani nel 2000. Gestendo la Calcestruzzi Ericina, patrimonio confiscato al boss trapanese Vincenzo Virga, non volle rassegnarsi alla penuria di commesse che con la gestione pubblica stavano segnando la fine dell’azienda e dei lavoratori. Contrariato, D’Alì, in un pranzo a quattr’occhi, minacciò obliquamente il prefetto, ricordandogli di avere carta bianca sul trasferimento dei prefetti. Sodano andò dritto per la propria strada e nel 2003 il prefetto fu trasferito ad Agrigento su disposizione del governo Berlusconi. Ci rimase fino al 2005.
Tre i boati che squassarono la notte fra il 27 e il 28 luglio 1993 a Roma e Milano. Qui, in via Palestro (nella foto), in particolare, rimasero uccisi un vigile urbano, tre vigili del fuoco e un cittadino extracomunitario: Alessandro Ferrari, Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno e Driss Moussafir che dormiva su una panchina. Della logistica ormai si sa tutto (un pollaio in provincia di Varese e un’abitazione di Arluno come basi). Ma chi portò in via Palestro la Fiat Uno imbottita di esplosivo, e chi guidò l’auto di appoggio del gruppo di fuoco mafioso, poche ore prima che a Roma altri uomini della stessa struttura facessero esplodere autobombe contro le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, di tutto questo ancora nulla si conosce. Il documento inedito di cui scriviamo aggiunge un tassello fondamentale.
Possidente con interessi diretti nella Banca Sicula, poi ceduta alla Comit, D’Alì aveva avuto Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo come campiere, ruolo poi ereditato dal figlio. A chi gli rinfacciava quei rapporti sosteneva di averli subiti. La realtà delle indagini racconta di una disponibilità ininterrotta nei confronti dei boss.
Attento ai rapporti con la comunità che gli valse l’epiteto di prefetto del popolo, Sodano, contribuì al risveglio delle coscienze trapanesi, come gli riconobbe il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. «Per questo – dice Tina Montinaro – va chiuso il ciclo e restituita la memoria che merita al prefetto Sodando da parte di quello stesso Stato che lo ha mortificato: chiederò al ministro Piantedosi il conferimento della medaglia e nel giardino di Capaci pianteremo un albero di ulivo per Sodano. Gli altri alberi, in ricordo delle tante, troppe vittime del dovere, danno già i loro frutti. Produciamo l’olio per le funzioni sacre in loro ricordo. Un olio che idealmente contrapponiamo all’olio sporco di sangue di cui Messina Denaro menava gran vanto».
Foto: Ansa, La Presse
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Foibe ostaggio dell’uso politico della storia
Dopo le solite discussioni furibonde e tutte ideologiche che hanno coinvolto persino il festival di Sanremo in occasione del Giorno del Ricordo (10 febbraio), è il caso di aprire una riflessione pacata sulle foibe, senza semplificazioni di parte e tenendo conto della complessa e tormentata storia del nostro confine orientale.
C’è un presupposto imprescindibile per qualunque analisi serena e mondata da interessi partitici: la Venezia Giulia, l’Istria tutta, avevano storicamente tre radici: italiana, slovena e croata. I tre gruppi etnici convissero più o meno pacificamente fino a metà Ottocento quando cominciarono ad affiorare sentimenti di appartenenza che sfoceranno nella formazione degli Stati nazione. La regione faceva allora parte dell'impero austro-ungarico che, dopo la perdita del Veneto nella Terza guerra d'indipendenza, temendo l’irredentismo italiano e la volontà di riunire quei territori al neonato Regno d’Italia, ne favorì la slavizzazione «con energia e senza riguardo alcuno» per usare una frase dell'imperatore Francesco Giuseppe al Consiglio della Corona del 12 novembre 1866. Si può far risalire a quell'epoca l’inizio di tensioni, odi e vendette che si protrarranno per quasi un secolo.
Dopo la sconfitta dell’Austria-Ungheria nella Prima guerra mondiale, l’Italia con il Trattato di Rapallo del 1920 ebbe il controllo di una larga fetta dell’Istria e di una parte del litorale, in cui abitavano circa 356 mila italiani e 490 mila slavi. Benito Mussolini, anche prima di arrivare al potere, aveva idee chiare su come risolve-
re per le vie spicce il rapporto con le altre popolazioni. A Pola, il 22 settembre 1920, disse: «Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. Io credo che si possano più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».
E bastone fu. Squadre in camicia nera si occuparono di dare contenuti alle parole del duce. Fu proibito l’uso delle lingue slovena e croata, fino all’episodio estremo di un anziano di 92 anni impiccato al campanile di una chiesa perché parlava nel suo idioma non conoscendone altri. L’opera di pulizia culturale fu spietata. Case del popolo bruciate, così come le scuole degli slavi, italianizzati i cognomi persino sulle lapidi dei cimiteri, abolite le associazioni culturali, sociali e sportive. Italianizzazione forzata (leggi il libro “Il martire fascista”, di Adriano Sofri, Sellerio). Interi paesi bruciati, contadini espropriati delle loro terre a favo-
POLITICA ANNIVERSARI E POLEMICHE
Il silenzio della sinistra e la rivalsa ideologica della destra. Ecco perché non si riesce a costruire una memoria condivisa sulla tragedia del fronte orientale tra 1943 e 1945
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GIGI RIVA
re dei coloni italiani mandati a mutare la composizione demografica della regione, pestaggi e arresti indiscriminati, centinaia di processi sommari a chi si opponeva al regime. Omicidi, ovviamente. E il gerarca Cobolli Gigli che minacciava chi si ostinava a usare la propria lingua: «Corre il pericolo di trovare sepoltura nella foiba». Si calcola che almeno centomila persone furono internate nei campi di concentramento. Ancora Mussolini: «Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazione e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali». Una prassi diffusa nel Ventesimo secolo che usò anche Stalin.
La situazione peggiorò con l'invasione dell’Italia fascista del 1941 e la creazione della provincia di Lubiana, quando crebbero fucilazioni e deportazioni. Per fare un esempio, il 12 luglio del 1942 su ordine del prefetto della provincia di Fiume Te-
SCOPERTA
La scoperta, nel Dopoguerra, dell’apertura di una foiba usata come fossa comune
mistocle Testa tutti i 91 uomini del villaggio di Podhum di età compresa tra i 16 e i 64 anni furono fucilati.
Questo il quadro prima del 1943, dell’armistizio, dell’operazione Nubifragio con cui i nazisti volevano assumere il controllo della Venezia Giulia, della controffensiva dei partigiani di Tito che toccò il suo apice di crudeltà con gli infoibamenti.
Le foibe sono cavità carsiche profonde fino a 200 metri in cui furono gettati i corpi di migliaia di italiani. Alcuni ancora vivi e che morirono dopo un’indicibile agonia. Migliaia di italiani. Già ma quanti? Gli storici più prudenti accreditano una cifra tra i 3 e i 5 mila, altri arrivano a quattro volte tanto, 20 mila. Fra di loro non solo fascisti, ma innocenti uccisi perché italiani. Seguì più tardi l’esodo verso l’Italia di 250-350 mila italiani che non volevano restare nella Jugoslavia comunista.
La nostra sinistra ebbe l’indiscussa colpa di coprire per lungo tempo con un velo di silenzio queste tragiche vicende in nome dei buoni rapporti tra Palmiro Togliatti e Tito e per il timore che l’intera questione fosse decrittata con la lente dell’ideologia: una vendetta comunista contro gli italiani fascisti. Mentre, se è innegabile che esistesse anche questa componente, la vendetta scaturiva anche dai torti subiti nel ventennio fascista e dunque era piuttosto una rivincita etnica.
La destra, all’opposto, ha voluto usare solo la lente ideologica, come se si potesse racchiudere il problema del confine orientale limitandosi all’analisi del periodo 1943-45 e senza mai rammentare i nostri misfatti precedenti. Un uso della storia à la carte, a seconda del proprio interesse elettorale. Ogni anno, per il Giorno del Ricordo, istituito dal governo Berlusconi nel 2004, riemergono queste tendenze e contrapposizioni a causa delle quali risulta impossibile creare una memoria condivisa. E questo nonostante gli sforzi soprattutto dei presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella di leggere i fatti con uno sguardo mondato dai pregiudizi. Per quanto li si possa contraffare, i fatti sono ostinati e, alla lunga, riemergono come un fiume carsico.
Foto: Ansa
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Nicola Graziano
Non vi è dubbio che le vicende che negli ultimi anni hanno caratterizzato lo svolgimento delle attività del Consiglio superiore della magistratura abbiano minato, e non poco, la credibilità dei magistrati italiani, tanto è vero che con questo dichiarato intento è stato riformato il sistema elettorale.
Il tentativo era quello di superare l’egemonia delle correnti ed il sistema di relazione politica-magistratura che ne è alla base, attraverso l’occupazione di ruoli chiave e apicali da parte dei magistrati ordinari, specie nel ministero della Giustizia, così a volte confondendosi ruoli e responsabilità.
Al nuovo Csm occorre un deciso cambio di passo
Ma il sistema elettorale ha prodotto risultati deludenti, presentando una composizione, quanto ai magistrati togati eletti, tra magistrati moderati e magistrati democratici che in sostanza si è concretizzata in due blocchi in contrapposizione.
Ancora più deludente è stata la scelta del Parlamento che, ignorando del tutto l’elenco di quanti spontaneamente hanno proposto la loro candidatura secondo la nuove disposizioni normative, ha provveduto a scegliere i componenti cosiddetti laici, al di là della loro indiscussa alta professionalità, secondo un chiaro sistema basato sul riflesso delle forze politiche parlamentari.
Si è aperta quindi la votazione del vicepresidente secondo una sorta di ballottaggio tra due candidati, esponenti dei due blocchi in Consiglio, ed è stato eletto l’avvocato Fabio Pinelli, vicino alle posizioni della Lega ma con capacità di relazioni trasversali visto
che è socio con Luciano Violante della Fondazione Leonardo e di ItaliaDecide. Il neo eletto ha immediatamente raccolto l’invito del presidente della Repubblica dichiarando di voler prestare sempre ascolto a tutti per auspicabili scelte condivise e meditate.
Questa in sintesi la cronaca a margine della quale resta da vedere quali azioni in concreto porrà in essere il nuovo Csm per recuperare autorevolezza e credibilità.
Non certamente continuando sulla falsariga di un’azione posta in essere negli ultimi anni dal gruppo di maggioranza che, con protervia e chiusura al dialogo, ha compiuto decisioni a volte troppo partigiane e con il sistema dei due pesi e due misure.
Intanto si è dichiarata la necessità di superare la notevole mole di arretrato nei procedimenti di nomina dei direttivi e semidirettivi, non nascondendosi nemmeno che troppe valutazione di professionalità languono davanti a irrisolte situazioni critiche.
Sarà questo il Consiglio della trasparenza e dell’efficienza? Sarà questo il Consiglio che con determinazione e senza passi incerti porterà avanti una azione senza compromessi per il bene della magistratura e quindi della giustizia?
È presto per dirlo ma è davvero auspicabile perché un cambio di passo rispetto al passato è del tutto necessario.
Intanto divampa la polemica su proposte di legge che riguardano l’ordinamento giudiziario, a cominciare dal possibile disegno di legge costituzionale sulla effettiva e reale separazione delle carriere.
Anche in questo, e con riferimento a tutti gli atti che attengono all’esercizio della funzione giurisdizionale, il Csm è chiamato a svolgere, con propri pareri, un importante ruolo di interlocuzione.
Intanto va sottolineato che per la prima volta nella storia della magistratura italiana, è stata scelta, all’unanimità, una donna come primo presidente della Corte di Cassazione.
PAROLE DI LIBERTÀ
Dal Consiglio superiore ci si aspetta un recupero di trasparenza e credibilità ma anche di efficienza
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TASSI IN SALITA BANCHE IN FESTA
Bilanci record, super dividendi, boom in Borsa. Per le aziende di credito la ripresa degli interessi è una nuova età dell’oro. Che è solo all’inizio. A farne le spese sono imprese e famiglie
ECONOMIA IL RITORNO DELLA FINANZA
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FRANCOFORTE La “torre” sede della Bce a Francoforte 19 febbraio 2023 67
ECONOMIA IL RITORNO DELLA FINANZA
La Borsa festeggia a suon di rialzi. Analisti e commentatori annunciano la svolta, mentre un esercito di azionisti verrà presto premiato con ricchi dividendi. Ecco, ci siamo, il lungo letargo della finanza è finito davvero. Dopo anni di tassi d’interesse vicini allo zero, e spesso anche sotto, l’aumento del costo del denaro ha messo il turbo ai profitti delle banche. Salvo poche eccezioni, notevole quella del Credit Suisse, tutti i colossi europei del credito hanno appena annunciato risultati record nei bilanci del 2022. A tal punto che in Spagna, il governo a guida socialista di Pedro Sanchez ha deciso di imporre un’imposta supplementare su questi utili miliardari con l’obiettivo di finanziare, tra l’altro, i sussidi alle famiglie per il caro bollette.
La logica del provvedimento spagnolo è simile a quella che un anno fa giustificò un prelievo extra sui profitti dei produttori di energia, premiati dall’impennata delle quotazioni del metano. Allo stesso modo, i rialzi dei tassi decisi nei mesi scorsi dalla Bce spiegano l’anno d’oro del credito. In Italia, però, la linea dura di Sanchez trova pochi sostenitori tra i politici, mentre sembra ormai improbabile anche la preannunciata (e temuta) recessione economica, che avrebbe potuto innescare un aumento dei crediti in sofferenza. D’altra parte, le riserve accantonate nel patrimonio degli istituti di credito sembrano più che sufficienti ad assorbire l’impatto negativo del rallentamento della crescita, già evidente dall’autunno scorso e destinato a proseguire ancora almeno per qualche mese.
Per il momento, quindi, sono i clienti delle banche a pagare il conto del nuovo scenario. La crescita repentina dei tassi si è rivelata un toccasana per i bilanci dei gruppi finanziari, ma ha prodotto un netto aumento del costo dei prestiti a carico di famiglie e imprese. Gli interessi sui mutui già a novembre avevano superato la soglia del 3 per cento, oltre due punti in più rispetto a un anno prima, e ormai viaggiano verso quota 4 per cento.
Le aziende invece, in base alle rilevazioni dell’Abi (Associazione bancaria italiana), a gennaio dovevano far fronte a un onere medio sui finanziamenti intorno al 3,7 per cento, contro l’1,2 per cento del dicembre 2021. Questi dati, come da tempo evidenziano tutti gli analisti, segnano in qualche modo il ritorno alla normalità, dopo la lunga parentesi, senza precedenti nella storia, del denaro a costo zero. Altrettanto eccezionale, però, è anche la raffica di rialzi dei tassi con cui la Bce, negli ultimi dodici mesi, ha cercato di arginare la crescita dell’inflazione, dopo averla a lungo erroneamente liquidata come un fenomeno «transitorio».
La fiammata dei prezzi non si è ancora esaurita, anche se il carovita ha un po’ rallentato la sua corsa. Nel frattempo, però, la stretta monetaria ha dato fuoco alle polveri dei bilanci bancari. L’aumento dei profitti si spiega infatti in buona parte con la crescita del cosiddetto margine d’inte-
I cinque più importanti istituti nazionali, Intesa, Unicredit, BancoBpm, Monte Paschi e Bper, hanno chiuso il 2022 con utili di 12,7 miliardi. Un aumento del 65 per cento rispetto al 2021
SIENA Piazza Salimbeni a Siena, sede del Monte Paschi
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VITTORIO MALAGUTTI
resse, che misura la redditività della gestione caratteristica della banca, ovvero la differenza tra quanto incassato prestando denaro e gli oneri per remunerare i depositi della clientela.
La forbice tra ricavi e costi si è molto allargata nel 2022, soprattutto nell’ultimo trimestre dell’anno. Il motivo è semplice. Tutti gli istituti di credito hanno più volte aumentato il costo dei prestiti adeguandosi quasi in tempo reale alle decisioni dalla Bce. D’altra parte, invece, i tassi riconosciuti ai titolari dei conti correnti sono rimasti molto vicini allo zero, con ritocchi di qualche decimale al massimo. Secondo l’Abi, a gennaio (ultimo dato disponibile) gli interessi sui depositi non superavano in media lo 0,49 per cento, mentre sei mesi prima viaggiavano intorno allo 0,3 per cento. L’incremento si misura in una ventina di centesimi, mentre nello stesso arco di tempo famiglie e imprese hanno visto crescere i tassi sui finanziamenti
di oltre un punto percentuale, dal 2,21 di giugno al 3,51 per cento di gennaio. Questi numeri giustificano in buona parte la crescita record dei profitti delle due banche leader sul mercato italiano, Intesa e Unicredit. Entrambe sono riuscite a guadagnare quasi il 20 per cento in più alla voce margine d’interesse grazie anche a un particolare meccanismo finanziario messo in moto dalla Bce. A partire già dal 2014, infatti, l’istituto di Francoforte ha concesso prestiti miliardari alle banche europee a tassi vicini allo zero. Lo scopo di questi finanziamenti, arrivati a 2.100 miliardi a metà del 2022, era quello di aumentare la liquidità degli istituti di credito destinata a sostenere l’economia reale. Una parte di questo denaro è però tornata là dove era partita, cioè nei forzieri della Bce. Per i banchieri era infatti diventato conveniente parcheggiare il denaro a Francoforte, che nel frattempo aveva aumentato i tassi sui depositi.
Foto: A. Pierdomenico / Bloomberg via Getty Images; pag. 66-67: Ixefra / Getty Images
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ECONOMIA IL RITORNO DELLA FINANZA
NUMERI UNO
Andrea Orcel e (a destra) Carlo Messina. Guidano rispettivamente Unicredit e Banca Intesa
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Per mesi, quindi, la liquidità fornita dalla Bce ha garantito profitti extra alle banche della zona euro, comprese quelle italiane. Nell’ottobre scorso, però, sono cambiate le regole del gioco. L’istituto presieduto da Christine Lagarde ha allineato il tasso dei propri finanziamenti a quello sui depositi, azzerando così i facili guadagni incassati fino ad allora da decine di istituti di credito europei. Poco male. Con il costo del denaro in continua ascesa, per le banche era già cominciata una nuova età dell’oro, come dimostrano i dati dei bilanci pubblicati nei giorni scorsi.
Il gruppo dei cinque più importanti istituti nazionali, che oltre a Intesa e Unicredit comprende anche BancoBpm, Monte Paschi e Bper, ha chiuso il 2022 con utili netti per 12,7 miliardi, con una crescita del 65 per cento rispetto al 2021. La metà di questi profitti, circa 6,4 miliardi, arriva da Unicredit, che ha festeggiato il miglior risultato del decennio. Il solo Mps viaggia
in perdita per circa 300 milioni, ma il rosso in bilancio si spiega con gli oneri straordinari per 925 milioni sborsati come incentivo all’esodo di oltre 4 mila dipendenti prepensionati.
Com’era prevedibile, la pioggia di utili ha messo le ali ai titoli bancari, prolungando una cavalcata al rialzo che aveva preso il via già nell’autunno scorso, con la svolta di politica monetaria della Bce. Negli ultimi sei mesi, l’indice dei titoli del credito ha guadagnato quasi il 50 per cento alla borsa di Milano, 15 punti in più rispetto alla media del listino, e i conti record di Unicredit, pubblicati il 31 gennaio, sono stati premiati da un balzo della quotazione di quasi il 20 per cento in una decina di giorni.
Per gli azionisti ora sono in arrivo ricchi dividendi. Tenendo conto dell’acconto di novembre scorso, Intesa distribuirà 3 miliardi, Unicredit arriverà a 1,9 miliardi ed entrambe le banche hanno anche an-
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EFFETTO TASSI
SUI PROFITTI
Margine di interesse in milioni di euro delle cinque principali banche italiane
nunciato programmi di riacquisto delle azioni proprie per un totale di oltre 5 miliardi, una somma che di fatto si andrà ad aggiungere alla cedola destinata ai soci.
Per i clienti, invece, il futuro prossimo non sembra altrettanto promettente. Gli interessi sui conti correnti continueranno a crescere al rallentatore, mentre spese e commissioni varie fanno segnare aumenti ben più consistenti. Secondo un recente rapporto dell’Osservatorio Sos Tariffe, l’incremento dei costi allo sportello è stato pari al 7 per cento tra febbraio 2022 e lo scorso gennaio. Qualche soddisfazione in più arriverà dai conti di deposito. Gli istituti di credito hanno aumentato il rendimento di questi particolari prodotti fino al 4 per cento (al lordo delle tasse), nel tentativo di renderli competitivi con i Btp.
Sul fronte della raccolta, comunque, i banchieri possono stare tranquilli. A fine 2022 i risparmi di aziende e famiglie parcheggiati nei conti correnti ammontava-
PERCENTUALE
L’aumento dell’indice dei titoli bancari alla Borsa di Milano negli ultimi sei mesi
no ancora a oltre 1.800 miliardi. E con i tassi d’interesse che in prospettiva, come già annunciato dalla Bce, potrebbero far segnare nuovi rialzi, anche i profitti degli istituti di credito alla voce margine di interesse sembrano destinati ad aumentare ancora.
Nel futuro prossimo, però, non mancano le incognite. La crescita economica è minacciata dalle conseguenze della guerra in Europa, dall’inflazione e dai prezzi ancora elevati dell’energia. Non per niente, nei giorni scorsi l’Autorità bancaria europea (Eba) è tornata a raccomandare prudenza e nuovi accantonamenti in bilancio per far fronte a uno scenario ancora pieno di rischi. Di questi tempi però, tra profitti alle stelle e rialzi in Borsa, in banca nessuno sembra disposto ad ascoltare le Cassandre di turno.
MILIARDI DI EURO
Il valore dei depositi nelle banche italiane a fine 2022, in calo di 25 miliardi rispetto a un anno prima
Milioni di euro 2.500 5.0007.50010.000 PERCENTUALE L’aumento dell’utile netto delle cinque principali banche italiane +19,2 +18,6 +13,4 +26 +21,3 1.835
6548 INTESA UNICREDIT BANCOBPM MPS BPER 20212022 7.971 9.500 9.019 10.692 2.041 2.314 1.221 1.538 1.505 1.826
Foto: Bloomberg / Getty Images (2)
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L’autorità europea (Eba) raccomanda ancora prudenza e accantonamenti. Restano i rischi sulla crescita, sull’energia e sui prezzi dovuti alla guerra. Ma pochi credono al pessimismo
Alberto Bruschini
Finita l’era delle Partecipazioni statali non si può fare a meno di constatare che è notevolmente diminuito il numero dei grandi gruppi capaci di agire nello scenario economico mondiale.
Si è creato un vuoto incolmabile, indipendentemente dalla qualità del nostro apparato produttivo che conta imprese di primario standing. Sono venuti meno quei centri decisionali in grado di pilotare processi e innovazioni a carattere globale in cui si sommi la qualità della ricerca di base e applicata con la managerialità. La triste vicenda di Alitalia ne costituisce la cartina di tornasole, al pari di quella Telecom spa e dell’Ilva spa,
Perché in Telecom si riflettono le nostre fragilità
tanto per nominare le più significative. L’ingloriosa storia della Sip meriterebbe di essere studiata senza veli da parte di un qualificato team di esperti, come è stato fatto, per esempio, per la Terni, l’Ansaldo e la Banca commerciale. Questa amara riflessione viene fuori dalla lettura dei recenti fatti su Telecom/Tim, venuti alla ribalta dopo le discutibili privatizzazioni degli anni ’90.
A quei tempi, molti imprenditori del capitalismo industriale si sono buttati nell’acquisto della Telecom, ricorrendo quasi esclusivamente all’indebitamento finanziario.
L’acquisto, in altre parole, fu fatto con inadeguate immissioni di capitale fresco, considerando basso il rischio industriale. Telecom, infatti, possedeva un’impresa leader nella telefonia mobile, la Tim, che era un formidabile generatore di cash flow.
Non casualmente si arrivò a far incorporare la Tim spa da Telecom spa. In quel modo si
sostenne che si sarebbe potuto costruire una nuova Telecom spa, dotata di cassa sufficiente per pagare il servizio del debito finanziario. I discorsi, però, non fecero farina. La Telecom è passata infinite volte di mano. Ora siamo all’ultimo miglio e ritorna di attualità la Tim.
L’offerta non vincolante da parte di un fondo americano per l’acquisto della rete di Tim potrebbe far incassare a Telecom 20 miliardi di euro sufficienti a neutralizzare l’indebitamento finanziario. La Telecom, infatti, vive una sorta di catalessi industriale, sancita dai litigi tra il socio di maggioranza relativa Vivendi e gli altri soci, tra cui la Cassa depositi e prestiti.
Il governo deve affrontare un dossier bruciante. Non casualmente il ministro dell’Economia, nel commentare il dossier che tocca un’infrastruttura strategica, ha teso a ribadire che «sarà necessario capire come verrebbero garantiti gli interessi generali».
La vicenda della Telecom, purtroppo, è lo specchio dell’impoverimento strutturale della nostra base produttiva per l’inadeguata efficacia di grandi gruppi nei settori trainanti dell’innovazione, intesa in senso shumpeteriano. Abbiamo una serie di imprese che sono dei veri e propri fiori all’occhiello, leader nel mondo, come testimonia l’andamento dell’export. E, tuttavia, non abbiamo la capacità per far fare a queste importantissime imprese il salto di qualità in modo che diventino dei grandi gruppi, capaci di interagire con la galassia degli operatori globali. Dato che appare ormai acclarato come l’intervento dello Stato non sia più il nemico del mercato ma il suo supporter, credo che nel Paese e nel Parlamento si debba riprendere a discutere il tema della programmazione economica e della politica industriale al fine di individuare azioni e politiche che consentano, anche alle medie imprese leader, di avere la possibilità di diventare degli operatori globali, in un quadro di politica industriale europea, tutta da costruire.
BANCOMAT
È diminuito il numero dei grandi gruppi capaci di agire nello scenario economico mondiale
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ECONOMIA NOMINE PUBBLICHE
Al porto di Palermo è sbarcato un marziano
SERGIO RIZZO
Auguri» è l’unico vocabolo che gli esce dalla bocca. Traboccante di livore. Poi il capo dei concessionari del porto di Palermo si alza e se ne va. Fine estate del 2017: l’accoglienza per Pasqualino Monti è gelida. Ma forse, visto il contesto, non è una sorpresa. Il nuovo presidente dell’autorità portuale ha 43 anni e a Palermo è un marziano. Non è siciliano, è nato a Ischia dove la sua famiglia ha un albergo a quattro stelle. E arriva da Civitavecchia. L’ha spedito lì Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture del governo di Paolo Gentiloni, nel tentativo di mettere una pezza a una situazione disastrosa. Il porto di Palermo cade a pezzi. Il molo Vittorio Veneto della Stazione marittima, quello dove attraccano le navi da crociera, si sta sgretolando e per questo è sotto sequestro. Alla Camera i grillini chiedono le dimissioni del presidente dell’authority Vincenzo Cannatella con un velenoso riferimento alla «logica spartitoria» che avrebbe indotto il ministro Maurizio Lupi a fare presidente dell’autorità portuale l’ex capo dell’Unasca, l’associazione delle autoscuole e dei consulenti automobilistici, perché «uomo considerato molto vicino al senatore Renato Schifani». Cioè il promotore del suo partito, il Nuovo Centrodestra, oggi presidente della Regione siciliana.
Gli appalti sono bloccati da anni, non c’è un terminal passeggeri degno di tale nome. Gli uffici dell’autorità chiudono tassativamente alle 14. Il porto è un suk, circondato da baracche dove si vende di tutto, dalle sedie di plastica alle magliette del Palermo calcio. Nella totale, ma interessata, indifferenza della politica per com’è ridotto un patrimonio simile in mezzo al Mediterraneo, comandano i titolari di un centinaio di concessioni demaniali che si perpetuano con logiche imperscrutabili. Magazzini obsoleti e depositi fatiscenti alimentano minuscoli ma intoccabili giri d’affari senza alcun vantaggio per la collettività. Spazzare via quelle rendite di posizione, revocando le concessioni, è la prima
cosa che il marziano proveniente da Civitavecchia decide di fare. Demolire ettari di robaccia: altrimenti è impossibile perfino pensare di poter aprire un cantiere. Il risanamento del porto è pura illusione.
Non è facile e lui lo sa. Così si presenta a comunicare la lieta novella ai concessionari accompagnato da una persona. Tanto per far capire che la musica è cambiata. Il suo nome è Leonardo Agueci, magistrato. E il sodalizio con Monti non nasce per caso.
Ex procuratore antimafia di Palermo, Agueci è grande amico di Mario Almerighi, con il quale nel 1988 fonda la corrente Movimento per la Giustizia. Da sempre in prima linea contro la corruzione, Almerighi è il magistrato che nel 1974 fa scoppiare lo scandalo dei petroli, soffocato subito dai politici con la legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Quando Monti viene collocato nell’estate 2011 da un governo Berlusconi ormai sul viale del tramonto a capo del porto di Civitavecchia, Almerighi è presidente del tribunale di quella città. E stende la sua ala protettiva sul giovanotto sponsorizzato per quell’incarico dal sindaco Pdl Giovanni Moscherini, ex presidente a sua volta dell’autorità portuale dove l’aveva già avuto come dirigente. L’importanza del rapporto con Almerighi non è marginale. Gian Antonio Stella racconta sul Corriere della sera che il porto di Civitavecchia in pochi
Lo stop allo strapotere dei concessionari e al suk intorno alle banchine gli è valso le prime minacce. Chi è Pasqualino Monti, l’uomo che con il turismo vuole rilanciare il bacino siciliano
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anni cambia faccia. Anche se non tutto fila liscio. Per esempio le divergenze con il nuovo sindaco Pietro Tidei, ex deputato del Pd che sarà sfiduciato dalla sua stessa maggioranza, sono sempre più profonde.
Una veduta aerea del porto di Palermo con, sullo sfondo, Monte Pellegrino
In confronto a quello che lo aspetta in Sicilia gli scontri con i politici di Civitavecchia però sono una passeggiata. Il benvenuto a Palermo? «Due pesantissime lettere di minacce e tre proiettili di kalashnikov arrivati per posta. Ma se ti fai impaurire non cominci nemmeno», dice Monti. Che invece comincia. Dal porticciolo turistico di Sant’Erasmo, luogo magnifico ma violentato dal degrado e seguito da una fama sinistra. Lì c’era la camera della morte di Cosa nostra, dove i nemici dei corleonesi venivano strangolati e sciolti nell’acido. «In un anno si è dimostrato che Sant’Erasmo si poteva rimettere in piedi. E quello», secondo Monti, «è stato certamente il segno della svolta».
Cinque anni dopo, anche il porto di Palermo sta cambiando aspetto. «In cinque anni», sostiene il presidente dell’authority, «si sono messi in moto investimenti per un miliardo. Qui si producevano 17 milioni l’anno di gettito Iva, ora siamo a 700 milioni». C’è un terminal passeggeri nuovo di zecca, il bacino di Fincantieri per le navi da crociera finanziato per il 70 per cento con fondi euro-
pei promette di garantire un bel po’ di lavoro in una città massacrata dalla disoccupazione, e nel 2022 le navi da crociera hanno sbarcato 554.279 turisti. Il porto di Palermo, città sul mare che non aveva neppure una trattoria sul mare, ospita adesso pure il ristorante dello chef di Termini Imerese Natale Giunta, per anni sotto scorta dopo aver rifiutato di pagare il pizzo. Troppo presto, forse, per cantare vittoria. La rinascita dei porti è ovviamente cruciale per lo sviluppo economico della Sicilia. Anche se non può risolvere tutti i problemi di quell’isola meravigliosa. Senza poi contare i colpi di coda della politica, e la scarsa qualità della classe dirigente non garantisce che il percorso sia irreversibile.
Il contrasto di questa storia con la narrazione di un Sud ripiegato su sé stesso, vittima di sprechi, inefficienze, malaffare e commiserazione, è tuttavia la prova che cambiare si può. Ci vuole coraggio e forse anche un po’ di incoscienza. Ma si può fare, anche senza eroi.
Foto: F. VillaGetty Images
IL GOLFO
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Così il football dribbla le sanzioni
GIANFRANCESCO TURANO
Qualcosa si muove nell’Inghilterra depressa dal dopo-Brexit e arriva dal profondo dell’orgoglio nazionale, il football. Gli inventori del calcio tentano di uscire dalla morsa dei capitali stranieri che sta distruggendo ogni principio di leale concorrenza sportiva. Sono state le associazioni e le fondazioni di tifosi, così diverse dalle bande di ultras che comandano nelle curve italiane, a lanciare il messaggio al governo conservatore e a pretendere un’autorità di regolazione indipendente, chiamata Iref. Hanno imposto princìpi e chiesto all’esecutivo tory di farsene carico in un “white paper” dedicato all’argomento con il sostegno di Tracey Crouch, ex ministra dello Sport con Theresa May a Downing street.
In prima linea sul banco degli accusati ci sono il Manchester City emiratino e il Chelsea dell’industriale statunitense Todd Boehly. Fra i bersagli c’è anche il Newcastle controllato dal Public Investment Fund saudita e presieduto da Yasir Al-Rumayyan, uno dei più stretti collaboratori del principe Mohammed bin Salman. Il quale intende giocare un ruolo sempre più attivo sul palcoscenico del pallone globale, dopo il mondiale in Qatar, candidandosi a organizzare la manifestazione nel 2030.
Il City — uscito dalla sudditanza verso
l’altro club di Manchester, lo United, con la vittoria in quattro degli ultimi cinque campionati di Premier League — è finito sotto esame da parte della magistratura per una serie di reati che sarebbero stati commessi fino al 2018. Cioè quando “Football leaks” rivelò le irregolarità finanziarie nei bilanci del gioiello della corona del City group,
una conglomerata calcistica che controlla dodici squadre, fra le quali il Palermo, in quattro continenti, Africa esclusa. L’allenatore Pep Guardiola è passato in pochi giorni dalle dichiarazioni bellicose verso i suoi stessi datori di lavoro alle accuse di complotto ai danni del City. Già nel 2020, ha ricordato l’ex centrocampista di Barcellona e Brescia, gli azzurri erano stati sanzionati dall’Uefa per 30 milioni di euro con due anni di inibizione al patron Mansour bin Zayed Al Nahyan. All’appello davanti al Tribunale arbitrale dello Sport di Ginevra la multa era scesa a 10 milioni di euro, meno di metà dello stipendio annuale del fuoriclasse belga Kevin De Bruyne, e la squalifica per il dirigente era stata annullata.
Per restare al passo con i rivali di Manchester, i blues del Chelsea hanno forzato i principi di fair play finanziario fissati dall’Uefa, che impone alle sue federazioni contratti quinquennali ai giocatori salvo
Tra bilanci gonfiati e cifre da capogiro, i capitali stranieri conquistano il pallone inglese. Ma anche al di qua della Manica impera un’oligarchia di club con scarsa attenzione al fair play finanziario
ECONOMIA CALCIO MILIONARIO 76 19 febbraio 2023
diversa decisione da parte della federazione nazionale. Con questa specie di comma 22, il club londinese ha potuto acquistare in un biennio calciatori per poco meno di un miliardo di euro spalmando gli ammortamenti in oltre otto anni contro i cinque in vigore negli altri tornei maggiori dell’Europa. La campagna acquisti è stata vertiginosa. Il più recente fra i colpi di mercato è da record: 121 milioni spesi per il genietto del centrocampo dell’Argentina campione mondiale, Enzo Fernández. Altri 100 milioni sono serviti per l’ucraino Mykhaylo Mudryk, 80 per Wesley Fofana e 66 per il terzino spagnolo Marc Cucurella, che non è certo il nuovo Roberto Carlos. I 38 milioni dati al Napoli per Kalidou Koulibaly sono argent de poche per un club ceduto per 5 miliardi di euro da Roman Abramovich, sanzionato con altri oligarchi russi dopo l’invasione dell’Ucraina.
Con ritardo sta ritrovando nerbo an-
IL CAMPIONE
che la Uefa, rimasta a guardare mentre le federazioni nazionali smontavano il fair play finanziario lanciato dall’ex presidente continentale, il francese Michel Platini. L’attuale numero uno, l’avvocato sloveno Aleksander Ceferin, è sotto pressione da parte della Liga e della federazione spagnola, che hanno scoperto i bilanci virtuosi dopo anni di follie, e dal fronte tedesco che, invece, si è sempre attenuto alle regole con precisione teutonica salvo accorgersi che i club della Bundesliga hanno perso competitività nei tornei continentali con due sole Champions e una Europa League vinte negli ultimi vent’anni.
L’altro caso allo studio della federazione europea è quello del Paris Saint-Germain, preso undici anni fa dalla famiglia reale del Qatar ai margini del calcio nazionale e trasformato in una corazzata continentale che ha chiuso la stagione ’21-’22 con 700 milioni di euro di ricavi e 370 milioni di perdite. Anche il club guidato da Nasser Al-Khelaifi si è destreggiato senza troppo danno fra le sanzioni sul fair play dopo accuse di bilanci gonfiati attraverso sponsor statali come la compagnia di bandiera Qatar Airways, che versa ai parigini 80 milioni all’anno, quando Emirates ne dà 70 al Real Madrid, il club più vincente del mondo. A settembre dell’anno scorso il Psg è stato uno degli otto club sanzionati dall’Uefa assieme a quattro società italiane (Inter, Milan, Juventus e Roma), ad altre due francesi (Olympique Marsiglia e Monaco) e al Besiktas di Istanbul. La multa era la più alta,
Kylian Mbappé, del Paris Saint-Germain, durante una partita di Champions League a Parigi 65 milioni di euro, ma le regole prevedono che se ne versi solo il 15 per cento in attesa dei successivi gradi di giudizio.
Il club che batte bandiera qatariota non è sembrato troppo preoccupato della sanzione. Anzi, ha risposto con un rilancio senza precedenti rinnovando il contratto a Kylian Mbappé, corteggiato dal Real per 636 milioni di euro in tre anni. Il triennale da 110 milioni di euro netti concesso al compagno di squadra Leo Messi nel 2021 sembra quasi un’elemosina, mentre Cristiano Ronaldo se n’è andato a giocare nell’Al-Nassr di Riyad con un quinquennale da 190 milioni l’anno.
A questi livelli di spesa, il resto del mondo avrà presto l’unica consolazione di tifare contro.
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ECONOMIA RISCHI DELL’INNOVAZIONE
Cospirazionismo versione chatbot
ALESSANDRO LONGO
Questa novità cambierà il mondo. Come hanno fatto i computer e Internet». Parola di Bill Gates. E non solo. Il padre di Microsoft e dell’informatica moderna è in ottima compagnia di esperti nel giudicare rivoluzionario quello che sta succedendo in questo periodo. L’avvento di un’intelligenza artificiale «generativa» (questa la definizione tecnica), che condensa il sapere universale e ce lo distilla in un testo. Che risponde a domande su tutto, scrive per noi mail, ricette, canzoni e saggi scientifici (tra le altre cose). «Una novità che cambierà per sempre sia il modo con cui accediamo alla conoscenza, all’informazione, sia il modo con cui la produciamo», riassume Giovanni Boccia Artieri, professore ordinario all’Università di Urbino, tra i primi sociologi ad aver compreso la trasformazione digitale.
Il cambiamento questa volta si è annunciato, a dicembre, nella forma di un chatbot un po’ rudimentale: ChatGpt. Nel giro di due mesi è diventata l’applicazione internet di maggiore rapido successo nella storia (più di Facebook). Cento milioni di utenti hanno provato finora questa chat intelligente.
ChatGpt è di una società americana valutata circa 30 miliardi di dollari e forte soprattutto del supporto di Microsoft, che ne ha investiti dieci di recente. Appare come una chat via Web, gratuita, sorretta dalle ultime tecnologie di intelligenza artificiale, in grado di elaborare un testo che risponda alle richieste degli utenti. Ci riesce perché è stata addestrata con milioni di pagine web e di libri. Le si chiede di spiegare una teoria scientifica, di riassumere la Seconda guerra mondiale o di scrivere «il testo di una canzone dedicata ai migranti nello stile di Fabrizio De André» e quella più o meno ci riesce (rime a parte). Anche se a volte scrive
inesattezze oppure inventa nomi e fatti di sana pianta.
Ma ciò che è risultato evidente al mondo, a febbraio scorso, è che ChatGpt era solo l’inizio, acerbo e sperimentale, di un cambiamento; il cui profilo già ora si palesa con maggiore nettezza. Microsoft qualche giorno fa ha integrato questa stessa tecnologia di OpenAi, dopo averla migliorata, nel proprio motore di ricerca Bing, nel browser Edge, e si accinge a fare identica cosa con tutti i suoi prodotti, come Word e Outlook. Google, negli stessi giorni, ha dichiarato di essere sul punto di fare un passo simile e anche Meta (Facebook, Instagram) ci sta lavorando, con tecnologie analoghe.
Significa, per esempio, che cambia il modo in cui accediamo alle informazioni su Internet. Invece di una lista di risultati che portano a siti esterni, il motore ci dà la risposta immediata e dettagliata. Consigli per una cena vegetariana per quattro persone. Quale auto comprare per una famiglia che viaggia due volte l’anno ed è attenta all’ambiente. Il ciclo di Krebs (in chimica) spiegato con parole adatte a un ragazzo di 14 anni.
Prende sempre più piede l’intelligenza artificiale generativa, capace di elaborare risposte a ogni domanda. E di scrivere mail, ricette, canzoni, saggi. Ma pure di produrre testi di disinformazione
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Ma anche i motivi per cui l’Europa non vuole dare i jet all’Ucraina (Bing a differenza di ChatGpt riesce anche a fare sintesi di informazioni attuali). Tutto subito disponibile, senza più bisogno di fare lunghe ricerche tra diversi siti, dei cui testi comunque il motore si serve per offrire quelle risposte.
Per ora il servizio è disponibile a un numero limitato di utenti e la stessa società lo considera ancora imperfetto; al tempo stesso davvero cambia tutto, come abbiamo sperimentato in una nostra prova. Sì, confondeva i vincitori di diverse edizioni del festival di Sanremo, ma quasi sempre fa risparmiare tempo e dà spunti inaspettati. Al momento non consente di scrivere testi lunghi con una sola domanda (ma è possibile ottenerli in più tentativi). Quando sarà parte di Word o di Excel semplificherà la scrittura di qualsiasi testo o la gestione di dati e calcoli. «In futuro nessuno si metterà a scrivere con un foglio bianco; avrà già una bozza preparata dall’intelligenza artificiale», ha spiegato Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, al Wall Street Journal.
Qui qualcuno potrebbe cominciare ad
avere i sudori freddi. Chi per lavoro scrive mail, articoli, presentazioni, copy per marketing. Alcuni professionisti trarranno vantaggi dall’Ai, come dice Nadella. «Altri, quelli che producono testi di livello medio basso, rischiano di essere sostituiti dalla stessa», teme Artieri e concorda un noto filosofo come Luciano Floridi (nell’intervista a L’Espresso sul n.6 del 12 febbraio scorso). In generale ci sono teorie discordanti sull’impatto dell’Ai sul lavoro; a fronte di voci ottimiste (che spesso vengono dall’industria, secondo cui nasceranno nuovi lavori a sostituire quelli che spariranno), c’è chi teme un aumento di diseguaglianze e licenziamenti. Tra questi economisti come Lawrence Katz (Harvard) e Carl Benedikt Frey (Oxford), intervenuti di recente anche su ChatGpt. Molti altri sono incerti sugli effetti, ma dicono che probabilmente dovremo prepararci al cambiamento, anche con nuove politiche del lavoro e reddito di base (McKinsey, Accenture, Mit di Boston).
«Di certo dovranno prepararsi la scuola e l’università; al nostro interno ora ne stiamo parlando perché l’Ai può già scrivere
Foto: Shutterstock
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L’AD MICROSOFT
Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, durante un evento nella sede dell’azienda a Redmond, negli Usa
tesi e compiti al posto degli studenti; dovremo cambiare i metodi d’insegnamento e di verifica», dice Artieri. Alcuni insegnanti, negli Usa, cominciano a farlo, spingendo gli studenti a usare ChatGpt come un ulteriore strumento di apprendimento.
L’altro fronte di rischi riguarda l’accesso all’informazione. Già negli Usa escono studi (Stanford University, Georgetown University) sulla possibilità di usare ChatGpt per produrre in automatico testi di disinformazione politica e sui vaccini, nonostante i filtri etici applicati da OpenAi. L’Ai risente del fatto che i dati con cui è stata addestrata contengono pregiudizi (contro donne, minoranze...) e disinformazione, cospirazionismo.
Ma c’è un problema più sottile, come cominciano a denunciare esperti quali Sayash Kapoor dell’americana Princeton University e Chirag Shah dell’University of Washington. Ossia la morte del pluralismo, se per comodità, invece di fare ricerche, ci fermeremo tutti alla voce dell’oracolo artificiale. Le sue posizioni partigiane e i suoi errori fattuali si affermerebbero senza contraddittorio.
Ci si chiede inoltre come potranno sopravvivere gli editori se nessuno cliccherà sui risultati della ricerca (i motori sono la
principale fonte di traffico, ormai, per loro).
C’è anche un problema di privacy, come evidenziato da un recente rapporto di Boston Consulting Group e come conferma Guido Scorza, componente del Garante Privacy: «A queste Ai siamo portati a dire i nostri fatti personali, che le aziende potrebbero sfruttare per profilarci; e, per la loro natura conversazionale, siamo spinti a dare loro molto credito, anche per questioni delicate come farmaci e salute». Il Garante ha appena bloccato un’app, Replika, basata sulla stessa tecnologia, che fungendo da amico o partner virtuale arrivava a chiedere foto sexy a minorenni.
Microsoft e Google hanno riconosciuto questi timori e assicurano di voler sempre tutelare il pluralismo delle fonti (citate ora dal bot di Bing, anche se in piccolo), come anche la sopravvivenza degli editori, senza cui, peraltro, non ci sarebbe nemmeno la materia prima per l’intelligenza artificiale. E di continuare a lavorare per tenere a bada la disinformazione.
L’aspetto positivo è che le BigTech rispetto a qualche anno fa sono molto più consapevoli delle proprie responsabilità. Sono, del resto, nel mirino delle authority mondiali. La società tutta è più informata sugli impatti del digitale. La tecnologia, però, si è mostrata capace di farsi strada a balzi, tra di noi. E ora più che mai costringe i cittadini, i lavoratori e la politica a reagire in fretta.
Foto: Chona Kasinger / Bloomberg via Getty Images ECONOMIA RISCHI DELL’INNOVAZIONE
L’Ai impatterà sul mondo del lavoro, sostituendo alcune figure. Anche scuola e università dovranno cambiare metodi d’insegnamento. E bisognerà vigilare su privacy, pluralismo e affidabilità delle fonti
80 19 febbraio 2023
Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare», scriveva Luigi Einaudi nelle sue famose Prediche inutili (1959). Un principio che nella nostra postmodernità è stato convertito nel «conoscere per prevedere» dell’odierna economia della conoscenza che, a tale scopo, accumula senza sosta dati da processare. Nella società industriale la pianificazione venne introdotta per cercare di ridurre progressivamente la probabilità degli imprevisti. E la società dell’informazione ha dato sempre maggiore slancio alle finalità di previsione, rispondendo a un’esigenza strutturale dei sistemi produttivi, come
pure a un bisogno profondo della natura umana. E quanto più le società e i sistemi sono complessi – ovvero, come ha evidenziato Ulrich Beck, «società del rischio» – tanto più cresce l’ansia da imprevedibilità e, quindi, il desiderio di prevedere. Un anelito eterno che vede oggi al posto degli antichi aruspici – con percentuali di successo incomparabilmente superiori –gli algoritmi predittivi. Ed è precisamente di essi che si nutrono l’intelligenza artificiale e il machine learning (che è un sottoinsieme della prima), il cui obiettivo a ben vedere non è tanto il comprendere –ecco perché, nella fattispecie, alcuni studiosi (come la sociologa Elena Esposito) mettono in dubbio la stessa espressione di intelligenza, preferendo quella di «comunicazione artificiale» –, ma il prevedere. A questo servono, giustappunto, i big data. Gli algoritmi non individuano re-
lazioni causali, ma ricercano correlazioni; e, dunque, dal momento che tendono sostanzialmente a delineare e “scoprire” le strutture esistenti dei processi e dei fenomeni, non riescono a ridurre veramente l’incertezza che circonda il futuro. E, infatti, questo è – o piuttosto dovrebbe essere, come racconta quella delusione che si traduce nell’incessante avanzata dell’astensionismo – il compito della politica, e non quello di assegnare ad agenti autonomi che prescindono dal controllo umano un potere decisionale sulla vita collettiva. L’impatto dell’Ai (Artificial Intelligence) sarà quello, a ogni livello, di una nuova dirompente rivoluzione (post)industriale che produrrà ulteriori metamorfosi sociali. Ecco perché l’Ai va sottoposta a una serie di regolamentazioni, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle piattaforme (le quali, comunque, possiedono una funzione eminentemente commercial-pubblicitaria, e vengono largamente utilizzate in chiave ludica). Le implicazioni dell’intelligenza artificiale, invece – ancora più massicciamente di quanto si sia visto con i social network –, investono (e invadono) il campo politico. L’Ai risulta già ampiamente in grado di generare video deep-fake sempre più realistici e chatbot simulanti alcune argomentazioni del discorso pubblico tra umani, offrendo ad attori che perseguano fini di destabilizzazione delle “armi” impressionanti, inimmaginabili in precedenza.
E, allora, la sfida consiste nel ritorno a una forma di «politica pedagogica»: vale a dire, la “spiegabilità” e la trasparenza (almeno parziale) di quegli algoritmi che influiscono sulla vita pubblica, così da rendere l’impiego dell’Ai ancora più proficuo per l’intera collettività. Altrimenti il rischio ulteriore è quello di ritrovarci presto al cospetto di manifestazioni di neoluddismo dalle conseguenze (appunto...) imprevedibili.
L’OPINIONE
L’impatto dell’Ai senza regole
è destabilizzante
È ampiamente in grado di generare video deep-fake, armi improprie del discorso politico
Massimiliano Panarari
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Il lato oscuro della Silicon Valley
ome si vive nella Silicon Valley, il luogo mitico, quasi un santuario, della tecnologia? Per prima cosa è molto difficile da scovare a occhio nudo. La carta geografica la posiziona nella parte meridionale della San Francisco Bay e nell’immaginario comune ci si aspetta che la sua famosa effervescenza di intelligenze e tecnologie sia palpabile e vivibile anche per strada. Anche perché da queste parti si produce il 20 per cento del Pil degli Stati Uniti. Invece per strada non c’è proprio nessuno. I geni sono tutti chiusi in casa o in azienda a programmare e a lavorare, non è facile conoscerli se non in qualche sporadica conferenza.
zioni per il divertimento e la cultura, la Silicon Valley è notevolmente più tranquilla ed offre meno opportunità per chi cerca intrattenimento fuori dal mondo della tecnologia. Molti residenti della Silicon Valley lamentano, infatti, la carenza di bar e locali notturni nelle città principali come San Francisco e San José. I ristoranti chiudono alle 19, poco più tardi nel weekend. Ciò non significa che non ci sia nulla da fare in Silicon Valley di sera, ma le scelte sono decisamente limitate.
Prima di trasferirsi in Silicon Valley per un Master a San Francisco si ha una visione idilliaca di questo luogo, s’immagina una comunità effervescente e piena di geni brillanti che lavorano insieme per creare il futuro, ma la realtà quotidiana è molto diversa dalle aspettative. La vera Silicon Valley è un luogo dove sono concentrate le più grandi menti del pianeta che lavorano senza orari con una tale ambizione di cambiare il mondo da trascurare, quasi totalmente, la vita sociale. Gli eventi di networking sono rari e incontrare i veri leader del settore può essere difficile, se non in occasione di conferenze o incontri specifici (solitamente molto esclusivi e di difficile accesso).
E cosa succede quando il sole tramonta e gli impiegati dei tech giant escono dalle loro torri di vetro? Purtroppo, la vita notturna e culturale nella Silicon Valley è pressoché inesistente. A differenza di città come New York o Miami, dove la night life è sempre vivace e con innumerevoli op-
ALL’OPERA
Giovani di una startup tecnologica lavorano al bootcamp Boost VC a San Mateo, in California. Boost fornisce spazi per uffici e alloggi a imprenditori e startup
La vita lavorativa è estremamente competitiva e stressante, con ritmi serrati e la pressione costante di dover sempre performare al top. La cultura del «fail fast, learn faster» prevale, le aziende incoraggiano i dipendenti a sperimentare idee nuove, anche rischiando il fallimento, esigendo, al contempo, che imparino rapidamente dai propri errori e continuino a progredire. E così, molti lavoratori tech, malgrado il pressing quotidiano, affrontano queste sfide per le opportunità esclusive di lavorare con i migliori del settore. Il lavoro in Silicon Valley ruota molto attorno alle competenze tecnologiche e anche per posizioni “basiche” come quella del product manager è richiesta una solida comprensione dei principi di base della programmazione, nonché la capacità di lavorare e di adattarsi in un ambiente in costante evoluzione. Il prezzo da pagare per vivere nel cuore mondiale dell’innovazione tecnologica è esorbitante. L’affitto medio per un appartamento di una camera da letto può raggiungere i 4 mila dollari al mese. Anche i costi per il cibo e i servizi sono molto più alti rispetto ad altre città americane. E poi, bisogna sempre rammentare che la vita, soprattutto per un giovane, non è solo lavoro ma anche socializzazione e magari qualche occasione per il tempo libero.
Foto: Ramin Talaie / Corbis via Getty Images POLO TECNOLOGICO ECONOMIA
C
LUCA BIFOLCO
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Poche opportunità sociali, vita notturna all’osso, costi per affitto e cibo stellari. Per strada non c’è nessuno. I geni sono tutti chiusi in casa o in azienda a programmare e a lavorare
ECONOMIA LA DIFESA DELL’AMBIENTE
Rinasce con i ribelli il bosco di Monte Cairo
EMANUELE COEN
Arrivano la mattina presto i ribelli del Monte Cairo. Vengono da Amatrice, dalla Tuscia, da Roma, dalla Toscana, ma anche da Francia, Spagna e Germania. I volontari, di solito un centinaio, si ritrovano al rifugio delle Casermette a 1.300 metri di altitudine, in lontananza vedono i Monti Aurunci, le isole del Golfo di Napoli e nei giorni di tramontana anche la capitale. Un’iniziativa che coinvolge famiglie, anziani, donne, uomini e bambini, gli attivisti radicali di Extinction Rebellion e gli scout del mondo cattolico, ricercatori universitari e militanti ecologisti. Piantano i semi degli alberi pionieri tipici della regione, lavorano fianco a fianco per far rivivere la montagna della Ciociaria, che durante la Seconda Guerra Mondiale divenne una roccaforte della linea di difesa tedesca Gustav, a dieci chilometri dall’abbazia di Montecassino. Un luogo simbolico prima devastato dal conflitto e ora da due incendi dolosi, nel 2017 e nel 2020, che hanno compromesso la sicurezza della zona e incenerito gli alberi che la popolazione locale aveva piantato nei primi anni Cinquanta, per riscattarsi dalla guerra. «È una mobilitazione senza precedenti: all’operazione partecipano volontari di tutte le età, che hanno alle spalle esperienze diverse. Ora è fondamentale che non ci siano forti anomalie del clima, prolungate siccità e ondate di calore che potrebbero danneggiare le giovani piantine», afferma Danilo Mollicone, 54 anni, coordinatore scientifico del progetto, ecologo forestale della Fao impegnato nella protezione delle foreste in giro per il mondo.
Dall’inizio del 2022, quando è partita l’operazione, i volontari si sono incontrati sul monte diverse volte. Quando arrivano si dividono in squadre di tre persone e piantano i semi, ciascuno nel terreno assegnato. Secondo i piani, entro marzo, l’80 per cento dell’area sarà seminata e per completare l’opera servirà un altro fine settimana a fine ottobre. I volontari utilizzano una tecnica
Attivisti di Extinction Rebellion, scout e
innovativa rispetto a quella tradizionale, che prevede la piantumazione di piantine cresciute nei vivai, diventata troppo onerosa dal punto di vista della manodopera. «Per diversi motivi, gran parte dei boschi italiani è molto povera di biodiversità. Con la semina diretta delle specie pioniere a seguito di un incendio doloso vogliamo provare a invertire la tendenza», prosegue Mollicone: «Se l’esperimento su larga scala avrà successo questa pratica potrebbe diventare di uso comune in Italia e nel bacino del Mediterraneo. Se le piantine supereranno il primo anno, a partire dalla primavera 2024 il monte sarà sensibilmente più verde».
Il caso Monte Cairo non è isolato: quasi il 30 per cento del territorio italiano (dati Ispra), infatti, risulta a rischio desertificazione. Qua e là, da Nord a Sud, gruppi di volontarisiattivanoperrigenerareiterritori,mal’operazione in Ciociaria presenta alcune novità sostanziali dal punto di vista botanico e organizzativo. «In pochi anni si potrebbero avere centinaia se non migliaia di persone che aiuteranno la natura a diffondere i suoi semi», dice Antonio Di Cintio, 32 anni, presidente di Driade-ODV, l’associazione di volontariato che ha dato vita al progetto. Laureato in Economia ambientale a Copenaghen, oggi frequenta un dottorato di ricerca all’università di Pisa in strategie per il miglioramento dell’efficienza del-
ricercatori recuperano la foresta simbolo della Ciociaria. Gli abitanti la alimentarono per riscattarla dall’orrore della guerra ma due incendi l’hanno distrutta
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le aree protette. «È la prima volta che vedo una partecipazione così ampia. Da qualche anno è scattata una nuova consapevolezza. E anche una sfiducia crescente nei politici, che dicono di piantare un milione di alberi e poi si spostano con i jet privati. La polvere è diventata troppa per nasconderla sotto al tappeto», conclude il presidente di Driade.
IN MONTAGNA
Un gruppo di volontari sul Monte Cairo, in provincia di Frosinone, impegnati nel progetto di riforestazione dopo una serie di incendi dolosi
Fin dall’inizio, l’associazione ha collaborato con Fiorella Gazzellone, 54 anni, sindaca di Terelle, il comune di poco più di 300 abitanti alle pendici del monte. La sindaca ha aderito con entusiasmo all’iniziativa, cercando di sensibilizzare la popolazione locale, inizialmente diffidente. Nel frattempo si è organizzata una coalizione con l’università La Sapienza, il Parco regionale degli Aurunci, il comitato scientifico del Club alpino Italiano (Cai), l’associazione universitaria degli studenti forestali di Viterbo. Anche la Fondazione Enel ha offerto un piccolo contributo per la ricerca. A ottobre l’iniziativa e il nuovo approccio metodologico sono stati presentati e discussi in un evento a latere di una conferenza scientifica all’Accademia dei Lincei, a Roma. «Nessuno ci credeva, neanche i consiglieri comunali, e invece il progetto si è avverato. Questa operazione rappresenta una strategia di prevenzione contro le calamità natura-
li, le radici degli alberi proteggono la valle dalle alluvioni», sottolinea Gazzellone, che auspica anche un ulteriore effetto: «La Ciociaria si è spopolata, spero che la rinascita della montagna spinga molti giovani che vivono all’estero a tornare a casa».
Dalla Spagna, nel frattempo, è arrivata a Roma Carmen Morales. Consulente della Fao sui temi dello sviluppo e della conservazione degli ecosistemi, 33 anni, è un’attivista di Extinction Rebellion. Anche lei partecipa alle semine, in rappresentanza del movimento radicale internazionale che si ribella contro l’inerzia dei governi. «Sento la responsabilità di fare qualcosa per cambiare le ingiustizie di questa crisi ecologica e climatica», afferma l’attivista spagnola: «Oggi in molti stanno imparando a conoscere il territorio in cui vivono. Più conosci la natura, più avrai voglia di conservarla, ma serve un cambiamento culturale totale. Sul Monte Cairo ho trovato lo spirito giusto».
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Claudia Sorlini
uasi tutti sono d’accordo sulla necessità di cambiare modello di sviluppo, ma finora ha prevalso il metodo dei due passi avanti e uno indietro. I grandi del mondo si sono mossi da tempo. Le Nazioni Unite hanno lanciato, nel 2015, gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Papa Francesco ha pubblicato l’enciclica Laudato sì’, affrontando il tema del degrado ambientale e sociale in modo complessivo e organico. La Commissione europea in piena pandemia ha elaborato l’European Green Deal. Il documento si propone di trasformare l’economia con l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica
Transizione verde L’Italia avanza tra luci e ombre
(equilibrio tra le emissioni climalteranti e il loro assorbimento) entro il 2050; e questo attraverso un processo che includa: la mobilità sostenibile, l’uso e il riciclo dei prodotti di scarto (economia circolare) per evitare di estrarre in continuazione materie prime dall’ambiente. Inoltre si propone di invertire il trend della perdita di biodiversità, ridurre sia l’uso di fitofarmaci e di fertilizzanti chimici in agricoltura sia l’inquinamento. Si tratta quindi di elaborare una strategia industriale per un’Europa competitiva, verde e digitale, dando un impulso forte alla ricerca e all’innovazione funzionali agli scopi. Lo stesso documento europeo fissa non solo obiettivi finali, ma anche obiettivi intermedi, tra cui la riduzione entro il 2030 del 55 per cento delle emissioni totali.
Non è mancato da parte dell’Europa l’impegno economico, soprattutto nei con-
Nel campo dell’economia circolare il nostro Paese è tra i più virtuosi. Ma frena sull’efficienza
fronti del nostro Paese, che nel 2021 ha potuto varare, su questa base, il suo Piano nazionale di Ripresa e Resilienza.
Purtroppo la situazione di contesto non è stata favorevole, perché, dopo la pandemia che ha sconvolto tutto il pianeta, la ripresa economica è stata funestata da una guerra nel cuore dell’Europa che ha provocato conseguenze devastanti sul piano umano, sociale ed economico.
Nonostante questo, una parte del mondo della finanza e dell’imprenditoria ha continuato a muoversi nella direzione della transizione ecologica sostenendo e adottando innovazioni digitali e processi di economia circolare con la conseguente creazione di posti di lavoro qualificati. Un’altra parte, invece, a livello sia nazionale sia internazionale, ha messo il freno alle iniziative virtuose in programma o in corso continuando a investire — o addirittura aumentando gli investimenti — sulle fonti energetiche fossili, compreso il carbone.
Di conseguenza il bilancio sullo stato di avanzamento della transizione ecologica nel nostro Paese mostra luci e ombre (vedi GreenItaly 2022). Da un lato l’Italia continua a mantenere un’ottima posizione in Europa nel campo dell’economia circolare, grazie all’alta percentuale di riciclo che riesce a realizzare.
Dall’altro lato, invece, c’è stata una riduzione di interventi nell’efficientamento energetico e un calo di produzione di energia idroelettrica, colpita dalla grave siccità di questi ultimi anni. È, al contrario, aumentata la produzione di biogas, anche grazie ai numerosi impianti realizzati negli anni passati.
L’obiettivo della transizione ecologica si raggiunge solo se tutti si impegnano nella stessa direzione e non deve essere disgiunto da quello della riduzione delle disuguaglianze sociali. Un problema molto grave in tutta Europa che non si risolve solo con le tecnologie avanzate.
L’INTERVENTO
energetica
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Q
Il far west così
Sembrava scomparso, dato per morto.
E invece il western ha rialzato la testa. Con film, nuove serie tv come “Django”.
E donne sempre più protagoniste.
Evoluzione di un genere vivo e pulsante
CULTURA IL RITORNO DEI COWBOY
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CULTURA IL RITORNO DEI COWBOY
Dei banditi assaltano un treno. Uccidono l’addetto al convoglio postale e il fuochista, fanno esplodere la cassetta dei valori, staccano il locomotore, derubano i passeggeri, ne trucidano uno che tenta la fuga. Inseguiti dallo sceriffo ed i suoi, cadono uno dopo l’altro. Giustizia è fatta. Non proprio: con nostra sorpresa uno di loro appare sullo schermo e spara sul pubblico. Si tratta del celebre gunshot de “La grande rapina al treno” (1903) di Edwin Porter, convenzionalmente indicato come “il primo western” della storia. In realtà non lo è affatto, anzi è il portato di esperienze grafiche, visive, letterarie (“pulp magazine”, “dime novel”, racconti di viaggio) e di momenti performativi (i “Wild West Show”) precedenti, ma questo film rappresenta l’emblema del mito popolare per eccellenza della storia americana: il far west.
Il racconto dell’epopea nazionale americana inizia con l’immagine emblematica di una canaglia, che Martin Scorsese riproporrà in “Goodfellas”, mettendo al posto del bandito Barnes Joe Pesci, ma il western si affermerà rapidamente, entusiasmando il pubblico con eroi senza macchia e senza paura, che portano alla vittoria il Bene sul Male e contribuiscono alla costruzione della nazione. Nel secondo dopoguerra gli eroi diventeranno più tormentati, interrogandosi su loro stessi, il loro ruolo, la loro posizione nell’universo che hanno contribuito a creare e di cui cercano di conservare o ripristinare l’ordine. Negli anni Cinquanta, pur restando nel giusto, su di loro pesano inquietudini, traumi, dissidi e la difficile scelta tra imperativo morale e disposizione personale, dovere e volontà. È negli anni Sessanta che entrano in un cono d’ombra e dalle maglie strappate della loro originaria integrità emergono pistoleri senza nome, canaglie, giocatori d’azzardo, ladri, assassini, vendicatori di poche parole. Il western all’italia-
SERIE TV
Una scena di “Django – la serie” con la regia di Francesca Comencini, su Sky e NOW
na conquista il pubblico e dona nuova vitalità al genere. Il coraggio diventa astuzia, il sorriso ghigno, la fierezza mediocrità, la violenza sadica esercizio istintivo, mentre resta immutata, anzi acquista nuovo dinamismo, l’abilità con le armi. I valori si polverizzano in un universo in cui regnano disordine e casualità, mentre emergono le imposture dei miti del West. Sergio Leone, dalla “Trilogia del dollaro” a “C’era una volta il West” (1968), prende il genere e ne fa un oggetto estetico da decostruire, maneggiare sul piano dell’espressività e della sensorialità. Sam Peckinpah, recuperando la tradizione storica e declinando il western in funzione antimitologica, realistica, brutale, lascia esplodere il potenziale di distruzione di cui sono capaci gli uomini e la violenza parossistica ne “Il mucchio selvaggio” (1969). Le canaglie del cinema primitivo si riappropriano dello spazio filmico. Le categorie etiche del cinema classico americano risultano per sempre ribaltate o polverizzate. I personaggi esprimono una continua tensione verso la vio-
Il western all’italiana conquista il pubblico e dona nuova vitalità al genere. Il coraggio diventa astuzia, il sorriso ghigno, la fierezza mediocrità, la violenza sadica esercizio istintivo
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DANIELA CESELLI illustrazione di Emiliano Ponzi
lenza e i “cattivi”, è noto, sono più interessanti dei buoni. E vanno forte nella serialità lunga.
Basti pensare alla varia umanità di ubriachi, drogati, giocatori d’azzardo, prostitute e boscaioli degli abitanti di Deadwood - la città dell’omonima serie del 2004 - coro di outsider, che maneggiano i loro affari sporchi e le loro vite scellerate tra tradimenti, vendette, sadismo, anarchia, multirazzialità, parolacce e sangue, prima che l’illegalità iniziale si commuti in società funzionante. O al moderno sceriffo della serie “Justified” (2010), cappello calato sugli occhi, stivali da cowboy e pistola semiautomatica austriaca Glock 17, che avverte sempre prima di sparare, ma se spara è per uccidere. O ancora al cacciatore di taglie della serie “That Dirty Black Bag” (2022), ideata da Mauro Aragoni e Brian O’Malley, che si porta dietro un sacco di teste mozzate in decomposizione, perché «una testa pesa meno di un corpo».
Al cinema il western era dato per morto con “Gli spietati” (1993), ma non è anda-
ta così. Clint Eastwood, con una robustezza vecchio stile, ha smontato definitivamente i cliché eroici ed ha percorso fino in fondo la strada di “Sfida nell’Alta Sierra”, mettendo in scena protagonisti anziani e male in arnese. I fratelli Coen hanno realizzato film western, in cui l’apparente adesione a personaggi e situazioni convenzionali comunicano in chiave comico-grottesca la casualità della vita e una evidente intenzionalità parodistica di demistificazione dei ruoli (da “Non è un paese per vecchi”, del 2007, a “La Ballata di Buster Scruggs” del 2018). Quentin Tarantino ha portato alle estreme conseguenze l’estetica di Leone e Peckinpah, mescolando abilmente vendetta, riscatto, violenza e spregiudicatezza con padronanza della superficie e dello stile, utilizzando ora un personaggio di Sergio Corbucci che lotta per amore tra le piantagioni di cotone dell’America prima della secessione in “Django Unchained” (2012), ora un branco di canaglie immobilizzate in un claustrofobico teatro dell’eccesso in “Hateful
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CULTURA IL RITORNO DEI COWBOY
QUEER WESTERN
Una scena del film
“Il potere del cane”
(2021) di Jane Campion
Eight” (2015). Alejandro Iñárritu ha assegnato al suo eroe, cacciatore di pellicce ed uomo di frontiera, la maschera di un guerriero di carne e ossa immerso in una sfida epica alla wilderness, che è lotta per la sopravvivenza e desiderio di vendetta in “Revenant” (2015). Lee Jones in “Le tre sepolture” (2005) ha trasformato una storia di confine tra Usa e Messico in una macabra ballata picaresca, in cui la promessa di una sepoltura diventa ricerca di se stessi, come già nella serie western “Lonesome Dove” (1989). Film come “The Assassination of Jesse James by the Coward” di Robert Ford (2007) hanno dato l’abbrivio ad un western-intimista, splendido nella fotografia pittorica, in cui si insediano ritratti di nature morte (sedie, lampade o recinzioni) a volte presentati con la distorsione e la messa a fuoco selettiva. Jane Champion ne “Il potere del cane” (2021) firma un queer western indimenticabile, magnifico nell’orizzonte visivo, potente nella struttura, affrontando in modo
Protagonisti
a sfida più ardua per lui non è stata ridare vita sullo schermo al personaggio western di Django, né confrontarsi con la performance di Franco Nero. È stata doversi ritrovare, per esigenze di sceneggiatura, a maneggiare le armi. «Non le ho mai amate, tanto meno in questo momento storico: l’unico modo che avevo per approcciare al ruolo era tornare con la mente ai giochi di infanzia, a quando giocavamo a cowboy e indiani. Trattavo le pistole come fossero bambole, altrimenti non avrei potuto neanche avvicinarmici». Non è uno che le manda a dire, l’attore belga Matthias Schoenaerts, classe ’77, protagonista della nuova serie liberamente tratta dal cult movie di Sergio Corbucci, dal 17 febbraio su Sky e Now.
Figlio d’arte dell’attore Julien Schoenaerts, ha debuttato sul grande schermo a 15 anni e oggi che ne ha 45 dice
contemporaneo la mascolinità tossica e la famiglia disfunzionale. E presto vedremo cosa ci regalerà Walter Hill con “Dead for a dollar”, uscita prevista a marzo, protagonista Christopher Waltz.
Il western continua le sue storie di antiche colpe, traumi, redenzioni; di leggende superiori alla realtà; di solidarietà maschile, istinto paterno, dignità personale, ma si ali-
di aver imparato una lezione importante: «Per un attore non esiste nessun momento d’oro».
Sulla carta non si direbbe: trent’anni di carriera, l’atteso film “The way of the wind” con Terrence Malick in arrivo e un ruolo importante come Django.
«Interpretare Django per me è un momento alto e sono grato per quello che faccio, ma mi limito a lavorare con grande cuore e impegno. Lo sappiamo, la vita toglie e la vita dà, l’unico modo per sopravvivere è andare avanti passo dopo passo».
Passo dopo passo il suo Django arriva nella città di New Babylon, dove si vive liberi e uguali. C’è spazio oggi per una nuova Babilonia?
«C’è spazio per una nuova etica. C’è bisogno di un nuovo modo di governare. La vera crisi oggi nel mondo non è economica, è politica. Il mondo non soffre tanto la fame, soffre a causa della cattiva amministrazione di certi governi».
Esistesse davvero Django, aiuterebbe?
«Quanto meno proverebbe a dare un contributo. Ogni
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L “Amo il mio Django ma odio le armi”
colloquio con Matthias Schoenaerts di Claudia Catalli
macrosistema parte da una microazione, ecco perché è importante che ognuno di noi faccia la sua parte. Tutto parte da come ci relazioniamo gli uni con gli altri, da come rispondiamo al vicino di casa o al collega, da come trattiamo l’amico e il parente, ma anche lo sconosciuto. Dobbiamo riconoscerci nell’altro, capire che ognuno di noi porta la sua croce, che a volte è la stessa croce. Capire qual è l’intenzione che muove ogni nostro gesto, sta qui ogni possibilità di cambiamento».
Come fa un pacifista convinto a interpretare bene un cowboy?
«Tirando fuori tutto l’entusiasmo dell’infanzia. E assicurandosi, come ho fatto io, che l’immagine del personaggio rilasciata nel mondo fosse senza armi. Buttiamole via».
Era già amante dei western prima di girare la serie?
«Come si fa a non esserlo, è un genere che ha dentro di tutto, il mistero, la colpa, la redenzione, la perdita, le crisi sociali e personale. Poi da amante della natura quale sono l’idea di passare la maggior parte del tempo nel-
menta anche di pulsioni violente, che obbligano all’azione; tradimenti; sete di vendetta, sangue, perdite e lutti. Conferma il suo inconfondibile corredo iconografico di taglie allettanti, cacce all’uomo e agguati; saloon e duelli; cespugli e polvere; fruscii di bestiame e cavalli frementi; fuochi nella notte e ranch lontani; geometrie di duelli e pallottole dalle traiettorie invisibili, che forzano i limiti del quadro. Conserva codici, stilemi, sintassi del cinema classico, ma anche colpi di scena, visual gag, accumulazione di dettagli, realismo di indumenti e corpi (pelosi, unti, maleodoranti) tipici del western italiano. Fuori da ogni sistemazione tassonomica, è un luogo di contaminazioni, di negoziazione tra tensioni culturali diverse, di connessioni tra produzione cinematografica, pubblico e critica. Non può sottrarsi alle ibridazioni, come già mostrava Takashi Miike nel 2007, in “Sukiyaky Western Django”, mescolando la tradizione del cinema dei samurai giapponese (da Akira Kurosawa a Hideo Gosha)
Foto: Getty Images
Il western continua le sue storie di antiche colpe, traumi, redenzioni. Di solidarietà maschile, istinto paterno, dignità, ma si alimenta anche di pulsioni violente: sangue e vendetta
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CULTURA IL RITORNO DEI COWBOY
con il western italiano (Leone e Corbucci in primis) e la drammaturgia di Shakespeare. Qualche esempio: “Bone Tomahawk” (2015), western-horror macabro e violento firmato da S. Craig Zahler, che segue le vicende di un gruppo di esploratori alla ricerca di una tribù indigena dedita al cannibalismo, è una rilettura raccapricciante, ma non banale, di “The Searchers” di John Ford. “Hostiles” (2017), western-odissea, in cui la violenza del pioniere bianco e quella del nativo americano sono messe l’una contro l’altra in una tragica equivalenza, è vicino ai dilemmi morali di Eastwood. “The Harder They Fall” (2021) di Jeymes Samuel, cinetico sgargiante western-drama interpretato da attori di colore (i bianchi appaiono poco e fanno una pessima figura, quando non sono crivellati di colpi), recupera il lato afroamericano spesso cancellato dal genere con un’estetica debitrice a Tarantino e gli spaghetti western.
“The Last Son” (2021), western-thriller, in cui un novello Crono psicopatico, con barba
Protagonisti
la vastità della natura mi piaceva».
CULT MOVIE
Una scena del film
“The Hateful Eight” di Quentin Tarantino. A destra, dall’alto: Clint Eastwood; dalla serie “Godless” su Netflix
cespugliosa, va in giro nella neve a sterminare i suoi figli in virtù di una profezia, si svolge all’interno di una messa in scena che ricorda “I compari” di Robert Altman.
Ma è nella serialità lunga che il western oggi gode di ampio successo e grande qualità. Simile a un archivio culturale, il genere diventa un paradigma di riferimento, su cui ritagliare frammenti narrativi ed ele-
mencini?
Si è ispirato alla performance di Franco Nero?
«Me la ricordo, ma non l’ho voluta rivedere prima di girare la serie, per non farmi influenzare. Nero resta un’icona indiscussa, non a caso ha anche una parte in questa serie».
Il suo Django è un eroe che soffre, si è divertito a rovesciare gli stereotipi della mascolinità tipica da film western?
«Quella di Django è una mascolinità più approfondita e raccontata a 360 gradi: non è lui ad essere vulnerabile, tutti gli esseri umani lo sono. Magari fino a due secoli fa gli uomini non lo davano a vedere, ma la fragilità fa parte di noi. Tutto sta nel “come” raccontarlo, in questo una serie come Django può risultare innovativa».
Tra l’altro è la prima serie della sua carriera. Come l’ha vissuta?
«Ho scoperto che mi piace: offre molto più tempo per ampliare e approfondire la ricerca del personaggio».
Come si è trovato ad essere diretto da Francesca Co-
«Sono un grande fan del cinema italiano, sono cresciuto guardando i film di Bertolucci, Pasolini, Visconti, e trovo che oggi ci sia un nuovo rinascimento del cinema italiano. Ho amato profondamente l’energia di Francesca, il suo modo di lavorare con metodo e cuore, la sua attenzione scrupolosa ai dettagli, il suo essere sempre “dentro” al film. E poi la sua grande pazienza».
Pazienza per cosa?
«L’ho riempita di messaggi. Ogni sera le scrivevo idee, intuizioni, frammenti di poesie».
Lo fa con tutti i registi?
«Non sono uno che crea a tavolino il personaggio, preferisco trovarlo mentre lo dipingo sul momento, attraverso un processo creativo continuo. Per cui sì, mi capita di disturbare il regista con nuove idee per il giorno successivo, a volte ispirate da una riflessione razionale, altre da un impeto interiore istintivo. Al personaggio devi dare il cuore, l’elettricità, altrimenti viene qualcosa di finto».
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menti significativi già insediati nell’immaginario collettivo. Il racconto con più linee narrative parallele li assembla liberamente ad uso e consumo di un pubblico vasto e eterogeneo, innestandoli nelle vicende dei personaggi e reinterpretandoli attraverso la lente delle contraddizioni e i discorsi dell’oggi. Ed ecco che la messa in discussione del machismo, l’omosessualità, gli amori saffici, il power female, le relazioni razziali, l’intolleranza, l’essere dentro/fuori la natura si fanno strada. Non prendiamo ad esempio quella saga familiare un po’ “Dallas” (1978-1991) un po’ “Il Gigante di Yellowstone”, ma la serie “Godless”, ideata da Scott Frank e Steven Soderbergh. Questo racconto della resistenza di alcune donne sole di fronte a dei banditi feroci, guidati da un criminale, fanatico della parola di Dio, è una bella rilettura in chiave femminista del western, esemplare per classicità, ritmica, cura per i dettagli e forza implicita della denuncia sociale.
Insomma il western dato ormai sul viale del tramonto se non proprio per spacciato, almeno da queste parti e in attesa dell’imminente “Django” di Francesca Comencini, sembra avere un luminoso avvenire.
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È nella serialità lunga che il genere oggi gode di successo e qualità. Paradigma di riferimento su cui ritagliare frammenti narrativi insediati nell’immaginario collettivo
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CULTURA PERIFERIE
SPORT TRA I PALAZZI
L’inaugurazione dello skatepark al Gratosoglio, nel 2015
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Nati ai bordi del Gratosoglio
a zona è 5 come i mesi/Che ho scontato da solo al freddo/La zona è 5 come gli anni/Dell’espatrio di mio fratello/Ho detto 5 sono gli anni/ Che avevo quando è morta mia madre». Così cantano i Group5, il gruppo di rapper del Gratosoglio, a proposito della zona 5 di Milano: la periferia dove sono cresciuti e da cui viene anche Mahmood
Quattro ragazzi, tute, cappucci, occhiali scuri: si chiamano Kerim Levrai, MadPrince, Marsiglia e Orfedi. Cantano in italiano, arabo, francese e spagnolo; sono italiani ma di origini diverse: c’è chi viene dal Perù o dal Cile, chi dalla Tunisia o dal Marocco, chi ha il padre calabrese. Prima del singolo “Zona 5” c’è stato “Grato 2”: «Parlare della strada e del quartiere è importante», dice Anas alias Marsiglia, vent’anni, un diploma in grafico pubblicitario. È importante per dire della rabbia di chi vive tra spaccio e mancanza di prospettive. Per darsi una possibilità: si inizia a scrivere sul telefono, sul diario, tornando da scuola. I ragazzi di Group5 si conoscevano da sempre, poi si sono riuniti in un garage e hanno iniziato a fare musica insieme. Adesso hanno un contratto con la Warner, ma tutto è nato per sfuggire alla noia. Perché qua, dice Marsiglia, «mancano le attività, i campi da calcio; manca qualsiasi cosa possa tenere i ragazzi lontani dalla strada».
Quando, molti anni fa, frequentavo il Politecnico, i professori sottoponevano agli studenti la ri-progettazione urbanistica di un’ampia zona del Gratosoglio. Ancora oggi agli studenti di Architettura viene presentato come luogo di possibile intervento. La
maggior parte di loro, però, non sa neanche dove si trovi. Il Gratosoglio è solo un’astrazione, non un luogo abitato da diecimila persone. Non un angolo di città quasi senza pizzerie ed esercizi commerciali, dove i rifiuti invadono le strade per giorni. La periferia è uno stato mentale: è ciò che sta al confine della nostra percezione.
«Bisognerebbe investire in educazione e risorse che siano sempre presenti sul territorio», dice Andrea Cainarca, direttore di Oklahoma Onlus, comunità che da quarant’anni accoglie i giovani. C’è chi arriva da situazioni famigliari difficili, chi dal carcere minorile, ci sono i minori stranieri non accompagnati. «Il Gratosoglio è rimasto una periferia più periferica delle altre». È un quartiere di anziani (sono circa il 33 per cento) e immigrati (il 17 per cento, di 30 nazionalità diverse) con molti problemi di coesione sociale e ritardo scolastico. E con
Foto: A. Barberis –Fotogramma
L Il quartiere, nella zona sud di Milano, è abitato da diecimila persone. Una sorta di dormitorio senza locali e attività per giovani. Ma arrivano segnali di rinascita. E vengono dal basso
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GAIA MANZINI
CULTURA PERIFERIE
un’emergenza abitativa data dai locali Aler fatiscenti e dall’occupazione abusiva. Dall’alto, il Gratosoglio è un rettangolo separato dalla città, fedele alla natura originaria di quartiere satellite, sorto per dare alloggio agli operai dell’ex cartiera Verona e dell’ex cotonificio Cederna. La campagna, un tempo disseminata di mulini, si infila a pettine tra i caseggiati; nei campi c’è ancora qualche antica cascina. Così, i palazzi sembrano capitati lì per caso. Se si arriva da Sud una mattina di nebbia, le case costruite a partire dagli anni Cinquanta sembrano la fortezza del “Deserto dei Tartari”. Le tre torri bianche svettano severe: progettate dallo studio Bbpr, lo stesso della Torre Velasca, dovevano accogliere abitazioni, negozi, piazze per la socializzazione. Con i loro 56 metri di altezza, erano state pensate per diventare centro nevralgico. Oggi, sebbene siano oggetto di un bando di riqualificazione, sono il cuore non pulsante del quartiere e delimitano una piazza rimasta senza nome. Chi si va a bucare di eroina in pieno giorno passa inosservato.
Della geografia umana del Gratosoglio ho parlato con Elena Borrone, che coordina con passione il Laboratorio di Quartiere e tesse le relazioni tra persone e associazioni presenti sul territorio, facendosi parte attiva di un progetto di rigenerazione urbana voluto dal Comune di Milano. Ho capito che la periferia non è uno stato mentale solo per chi la guarda dal centro, ma anche per chi la vive. Sentirsi marginali, non avere una voce o un racconto di sé. O meglio, non pensare di averlo: perché invece i segni di una rinascita ci sono, arrivano dal basso, basta saperli ascoltare.
«Una cosa che mi ha colpito del Gratosoglio, che nella narrazione è sempre un posto negativo, è la risposta delle persone. Quando ci sono delle proposte la cittadinanza partecipa sempre». Oklahoma ha organizzato una festa a settembre, sotto le torri. Quattrocento persone si sono riversate nella piazza per lo spettacolo di hip hop e danza acrobatica. Un po’ come quando i Group5
hanno girato un video tra le vie del quartiere. «Nessuno poteva credere che stesse succedendo qualcosa di diverso. Ragazzi, bambini, anziani sono scesi incuriositi: hanno partecipato alle riprese», dice Marsiglia.
Nella sede di Oklahoma, in molti partecipano alle “Cene di quartiere”. «Siamo presenti sul territorio grazie al laboratorio di cucina nato nel 2017 sull’onda di una tragedia», continua Cainarca: «Nel luglio 2016 un ragazzo albanese che era uscito dalla comunità a maggio è stato ucciso da una gang di sudamericani. Si chiamava Albert, tornava dal lavoro in tram. Il suo era un percorso modello: faceva il giardiniere e aveva un posto dove vivere». Il giorno dopo sarebbe andato a ritirare il permesso di soggiorno rinnovato e in estate sarebbe tornato a casa per la prima volta dopo tre anni. Era arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oklahoma ha raccolto fondi per rimandare la salma in patria. Ma una persona che lavorava in una fondazione, colpita dalla storia di Albert, ha fatto una donazione per un progetto che portasse i ragazzi ancora di più verso l’autonomia. La spinta per avviare il laboratorio di cucina animato da Rocio Balseca
Anche Marsiglia ha cucinato una volta con gli abitanti del Gratosoglio. Gli piace far parte di una comunità, nelle sue
La musica offre un’alternativa alla strada. Come il rap dei Group5, quattro ragazzi che cantano la vita ai margini. Poi c’è il teatro PimOff, una storia di ritorno
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parole c’è sempre una forte rivendicazione d’appartenenza. Soprattutto, ricorda don Giovanni e il suo oratorio: era l’unico che riuniva i giovani. Quando l’oratorio ha chiuso, molti sono tornati per strada. Ma Anas no: «Ho deciso che volevo crearmi qualcosa da solo». Gli piacerebbe andare a teatro, è curioso, non si tira mai indietro davanti a una nuova esperienza. Gli faccio notare che dall’altra parte di viale Missaglia, nell’angolo più residenziale della zona, un teatro c’è. «Davvero?», non ne ha mai sentito parlare, quasi che il viale fosse un confine invalica-
bile. Eppure, il PimOff racconta una bella storia. Il teatro è stato fondato nel 2005 da Maria Pietroleonardo, cresciuta nelle case popolari del Gratosoglio. Una volta sposata, Maria si è trasferita poco più in là, nel quartiere dei Missaglia; negli anni Settanta, suo marito ha aperto un’azienda chimica. Quando c’è stata la possibilità di finanziare la fondazione di un teatro, dopo un’esperienza in quartieri più centrali, il ritorno. Il PimOff si trova nel sito riqualificato delle ex cartiere Verona, un avamposto culturale; ha ospitato in residenza molte compagnie sperimentali e ha inaugurato alcuni progetti. Il collettivo artistico dei Dynamis ha lavorato con i ragazzi di una scuola di Rozzano su dinamiche di gruppo e uso dei social: «Si è consolidata una piccola comunità», dice Antonella Miggiano, project manager di PimOff. Anni fa, invece, la compagnia Acqua su Marte è stata invitata a lavorare sul Gratosoglio con interviste e passeggiate urbane che alternavano esperienza a realtà aumentata.
Eppure, non basta. «Il nostro è un pubblico di affezionati che arrivano da altre zone». Forse perché è difficile farsi conoscere. «Al Gratosoglio non ci sono locali. Ogni tanto vorrei appendere delle locandine, ma non so dove farlo. Le porto dal ferramenta, alla farmacia...». Per Marsiglia le cose belle sono la solidarietà tra amici e il provenire da culture diverse: «Si viaggia rimanendo qui». A volte, però, basterebbe solo attraversare un viale.
IL GRUPPO
I quattro rapper che compongono i Group5, Kerim Levrai, MadPrince, Marsiglia e Orfedi. Di fianco, gli spazi del teatro PimOff. Sotto: un laboratorio educativo di ciclofficina organizzato dalla Oklahoma Onlus
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Shopper da collezione
GIUSEPPE FANTASIA
Cose, parole, oggetti e il loro reimpiego. Se in una sorprendente mostra, “Recycling Beauty” alla Fondazione Prada di Milano, curata da Salvatore Settis con Anna Anguissola e Denise La Monica, è il silenzio delle parole a far sì che le cose prendano forza, nel mondo creativo e mai banale di Pietro Terzini, l’architetto-artista più popolare su Instagram e in quel suo specchio che è il presente reale, le parole si imbevono di senso e vanno oltre le cose stesse, superandole addirittura, se non migliorandole.
Classe 1990, nato a Lodi, Terzini ha conquistato in poco tempo Milano, la città dove vive, e con essa il mondo della moda e del design. Come? Scrivendo singole parole o frasi intere su sacchetti e packaging di brand di lusso per dare un significato geniale alla sua opera che emerge su quei loghi e colori riconoscibilissimi (il blu Tiffany, l’arancione Hermès e cosi via), fino a formare un tutt’uno che non li offusca mai. Un prodotto già esistente, un logo, una frase con doppi o più sensi che diventano così le sue espressioni, dimostrando appieno la tesi del Lavoisier secondo la quale ogni materia non può essere distrutta, ma solo trasformata. Subito dopo, diventano quelle di un pubblico che conosce certi prodotti, che li ammira e li desidera, che li osserva e, in alcuni casi, quando può permetterselo, li ottiene persino. «Mi sono laureato in Architettura al Politecnico, racconta lui, ho fatto un Master alla Bocconi e iniziato a lavorare prima in studi di archistar internazionali e poi, per sei anni, come Head of Digital nelle società di Chiara Ferragni, ma la mia vocazione è sempre stata creativa». Lo confermano anche i suoi genitori, la signora Gabriella e il signor Giulio, la sera dell’opening della prima personale organizzata da Glauco Cavaciuti nel suo spazio milanese,
poco distante dal palazzo della Triennale. Si intitola “Shoppers” non certo a caso e presenta 52 nuove opere di Terzini, quadri di grandi e piccole dimensioni che vanno a raccontare la moda da un altro punto di vista: il suo. «Quando ero in ufficio vedevo sempre passare buste e scatole di grandi firme», aggiunge: «Tutto è iniziato dall’idea di donare nuova vita a un packaging che, da lì a poco, sarebbe andato nel dimenticatoio. Volevo fare qualcosa che potesse funzionare sui social media, ma, allo stesso tempo, che potesse essere anche fisico. A casa avevo una camera molto bianca, prendevo quelle scatole e la arredavo. Una collega, con un fare un po’ inquisitorio, un giorno mi disse: perché le porti a casa tutte? Per salvarmi, presi al volo il coperchio di una di quelle scatole, la attaccai al muro, e le dissi: “Vedi, questo è un
CULTURA LA MOSTRA
Frasi e parole su sacchetti di marchi di lusso diventano richiestissime opere cult. A Milano va in scena Pietro Terzini, l’artista-architetto che spopola su Instagram e nelle gallerie
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quadro”. Ho capito in quel momento che il packaging poteva essere qualcos’altro, ma non avevo ancora sviluppato un’idea su come poterlo rendere contemporaneo e appetibile, quindi condivisibile. In quegli anni Instagram stava esplodendo e in maniera naturale mi è venuta l’idea di giocare con le parole che sono l’elemento tipico dei meme da applicare su questo elemento fisico».
La prima a essere realizzata è stata la scritta con acrilico sui sacchetti di Vuitton: “The Best Things Are Not Things” (Le cose migliori non sono cose). L’altra cult è “Love didn’t meet her t her best/it met her in Hermèss”, nata da una foto fatta all’ingresso del cantiere del negozio in via Monte Napoleone a cui aggiunse quella scritta con l’iPhone. La più recente è “Lock Your Love” con i sacchetti di Tiffany dove le tre
TRA SOCIAL E REALTÀ
Pietro Terzini, 32 anni, artista e architetto, ha lavorato in studi di archistar internazionali e nelle società di Chiara Ferragni
“o”, unite insieme, formano un nuovo prodotto della maison, ma ci sono anche “Prada from Nada”, “Gucci Gang”, “P-Etro” e una tela bianca con la scritta “You”, «che se la regali, spiega Cavaciuti, è il tuo tutto». «Terzini emoziona i ventenni come i collezionisti sessantenni», spiega. Il suo, aggiungiamo noi, è un gioco continuo tra essere e avere, spirito e materialità, grafica e concetto, provocazione e interazione, protagonisti assoluti di questi pezzi unici che non possono essere copiati, ma fatti di volta in volta. «I sacchetti li prendo ovunque, fuori i negozi o vicino la spazzatura quando non me li danno i miei amici. Sono la mia tela, la superficie su cui faccio qualcosa», precisa l’artista che oggi è anche un richiestissimo consulente strategico di marketing per brand e campagne pubblicitarie, con un profilo personale su Instagram e un altro, “Friday Fries” con frasi come: “Don’t follow the light be the light”.
Lo scorso Natale, sulla Torre Velasca, uno dei simboli dello skyline milanese, ha dato vita a un’opera ready-made con parole di luce sulla facciata che componevano la domanda “What do you really want? (cosa vuoi veramente?)”. La sua è un’arte d’immediata lettura che arriva velocemente a un pubblico più ampio, frutto di un’attenta osservazione della realtà in cui viviamo, un mondo globalizzato, consumista e interconnesso dove le griffe, grazie alla pubblicità e ai social, sono sempre più presenti nella vita delle persone, promuovono prodotti e stili di vita.
«Con il logo e il colore, quei sacchetti rappresentano l’identità del brand, ma anche i soldi spesi per comprare ciò che c’è dentro, il lavoro di chi l’ha prodotto, lo spirito con cui è stata comprata o regalata quella cosa. Io mi approprio di quell’involucro e così li decostruisco e li riattivo per descrivere in modo diretto e senza retorica la nostra contemporaneità». Alla fine, quindi, è più potente il sacchetto che ciò che c’è dentro e quel mondo lì è l’universo che rappresenta.
Foto: Lorenzo Bacci
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CULTURA MIRACOLO A VENEZIA
Il circolo delle lettrici in carcere
Sulla copertina del libro si vedono due gambe nude, una mano che tiene una sigaretta tra due dita, un posacenere pieno, una guida di Berlino. Non per tutti è chiaro se si tratti di una donna o di un uomo. «Come mai hai scelto di rappresentare una figura umana così ambigua? Volevi farlo o ti è venuto solo un po’ male il disegno?», chiede l’intervistatrice all’autore. «È una donna la protagonista», spiega l’illustratore Manuele Fior, aiutando a interpretare la copertina del suo ultimo lavoro, “Hypericon”. «Ma la prossima volta mi impegnerò di più», aggiunge sorridendo.
Ci troviamo nella sala colloqui della Casa di reclusione della Giudecca, il carcere femminile di Venezia. I presenti, una cinquantina di persone, sono concentrati, attenti, partecipi in un modo che forse molti avevano dimenticato. Tre o quattro guardie in divisa assistono in piedi all’incontro.
A condurre l’intervista all’autore sono Daiana e Georgiana, due detenute, coinvolte nel gruppo di lettura di Closer. L’associazione ha inventato un format, “Interrogatorio alla Scrittura”, in cui sono le ospiti della casa di reclusione a interrogare scrittrici e scrittori.
Per più di un mese, grazie alle visite setti-
manali dei volontari di Closer, hanno lavorato alla preparazione di questo incontro. Il numero delle partecipanti varia ogni volta, come agli incontri, dove qualsiasi detenuta può partecipare, dopo aver chiesto l’autorizzazione. I volontari propongono un libro, ne portano alcune copie da lasciare in biblioteca, mentre le detenute lo leggono, se lo passano, danno forma a dubbi e curiosità. Preparare un’intervista, dal carcere, è più complicato: le detenute non hanno accesso a internet, dunque non c’è modo di avere informazioni sugli autori. Accade che qualcuna si appassioni talmente a un libro da non volerlo più restituire. «A me non piace tanto leggere, ma mi piace molto scrivere», confessa Daiana. «Scrivo delle lettere, alla mia famiglia, a mia figlia, a mio marito. Tengo anche un diario e quando scrivo mi commuovo».
Fin dall’inizio, l’intento di Closer, asso-
Nella prigione della Giudecca le detenute incontrano e interrogano scrittrici e scrittori.
E mentre si appassionano ai libri suggeriti, condividono pensieri, emozioni, vita
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MARCO DE VIDI foto di Camilla Martini
ciazione nata tra alcuni studenti universitari nel 2016, è stato quello di creare un dialogo tra l’interno e l’esterno del carcere, tra le detenute del carcere femminile e la città di Venezia. Tra i progetti più recenti, c’è stato il laboratorio musicale con il cantautore Jack Jaselli, che ha realizzato una canzone scritta assieme alle donne del carcere, esperienza diventata un documentario televisivo. Poi c’è Piombi (dal nome delle antiche carceri di Palazzo Ducale), newsletter ideata durante la pandemia, quando l’ingresso nelle carceri da parte di persone esterne è stato molto limitato.
Il lavoro di Closer è andato a inserirsi nel solco già tracciato da alcune realtà che portano avanti progetti all’interno dei due istituti penitenziari di Venezia, il carcere femminile e quello maschile di Santa Maria Maggiore. La cooperativa Il Cerchio gestisce la lavanderia che ha come clienti mol-
ti hotel in città e un laboratorio di sartoria, mentre Rio Terà dei Pensieri ha avviato l’Orto delle Meraviglie negli spazi della casa di reclusione della Giudecca e un laboratorio di cosmetica; nel carcere maschile produce borse riciclando pvc, accessori e stampe su tessuto nella serigrafia. C’è un’associazione di volontariato, Il Granello di Senape, che da metà anni Novanta opera in questi spazi, gestendo la biblioteca, collaborando alla spesa alimentare per le detenute, aiutando chi esce dal carcere a trovare un’occupazione. Poi c’è Balamos, che in carcere porta dei laboratori teatrali.
«Diamo la possibilità di entrare in carcere a dei cittadini che normalmente non hanno neanche idea di dove si trovi», riflette Giulia Ribaudo, socia fondatrice di Closer. Dal 2016, almeno un migliaio di persone è entrato nella Casa di reclusione che si trova nell’isola della Giudecca, negli spa-
INCONTRI
A ogni presentazione assiste una cinquantina di cittadini, il numero delle detenute partecipanti varia ogni volta. Possono intervenire dopo aver chiesto l’autorizzazione alla direzione del carcere
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CULTURA MIRACOLO A VENEZIA
zi dell’ex convento delle Convertite.
Tra gli ospiti di Interrogatorio alla Scrittura ci sono stati Giorgio Fontana, Violetta Bellocchio, Melania Mazzucco, Vanessa Roghi, Eraldo Affinati, Veronica Raimo, Vera Gheno e molti altri.
Alcuni degli incontri sono stati organizzati in collaborazione con Incroci di Civiltà, festival letterario promosso dall’università Ca’ Foscari. Sono moltissime le relazioni avviate in città, l’ultima è quella con il museo Guggenheim, che ha offerto biglietti per le sue mostre.
Nel libro illustrato da Fior, che da un paio d’anni vive proprio a Venezia, si sovrappongono le storie di Teresa, archeologa che si trasferisce a Berlino dopo aver vinto una borsa di studio, Ruben, giovane scapestrato (e mantenuto) che vive in una casa occupata, e la vicenda di Howard Carter, l’egittologo britannico a capo della spedizione che scoprì la tomba di Tutankhamon: collante della narrazione è il fiore d’iperico, pianta curativa che ha attraversato i secoli. Teresa a un certo punto spiega la concezione del tempo che sosteneva la civiltà dell’antico Egitto: a differenza nostra, per gli Egizi il futuro è ignoto e dunque si trova alle nostre spalle, mentre c’è il passato davanti a noi, lo conosciamo già, è sempre visibile. «Per noi sarebbe un incubo», afferma Daiana.
La protagonista del libro, durante una notte insonne, si chiede: «Cosa ci faccio io
qui?». «Anche noi ci facciamo questa domanda costantemente», racconta Daiana. Nessuno sa quali reati abbiano commesso le detenute che si trovano qui dentro. E Georgiana domanda ai presenti: «E voi perché siete qui?». Il pubblico si apre, risponde in modo schietto. Una signora, venuta qui da una città vicino, si confida: «Io non ero mai stata in carcere prima, ma la mia vita è stata a volte come un carcere». C’è chi in carcere insegna, chi sta lavorando per portarvi dei progetti artistici, chi è qui perché vuole scoprire com’è la vita di chi si trova al di là delle finestre sbarrate della casa di reclusione.
Come rifletterà più tardi Manuele Fior, «in queste occasioni il dialogo è provare a creare un ponte tra cose molto distanti, tra vite forse inconciliabili, ma cerchiamo di far sì che queste due visioni guardino per un momento nello stesso punto. Come nel libro, sembra che delle cose siano lontane e invece in realtà sono vicinissime».
Perché questi sono scambi che creano legami, assottigliano la barriera con una realtà carceraria nella quale, nel 2022, ci sono stati 84 suicidi.
A incontro terminato, ci si dà appuntamento alla prossima presentazione. Le detenute tornano alle loro celle, dove dormono in quattro, in sei, in nove. Tutti gli altri, in pochi minuti si ritroveranno fuori, sulla Fondamenta de le Convertite. Nessuno sembra avere fretta di andarsene.
L’associazione Closer dà la possibilità di entrare in carcere a molti che non ci hanno mai messo piede
LA PRIMA VOLTA
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CULTURA ARTISTI INDIMENTICABILI
Il signore dei sorrisi
Se MassimoTroisi fosse stato un grande scrittore qualcuno dopo la sua morte prematura avrebbe frugato tra le sue carte e ci avrebbe dato un’edizione critica delle sue opere fitta di inediti e note a piè di pagina. Per fortuna Troisi, che il 19 febbraio avrebbe compiuto 70 anni, non era uno scrittore. Era forse l’ultimo vero grande artista popolare espresso dal nostro cinema. Così, a quasi 30 anni dalla scomparsa (4 giugno 1994), continua ad aggiungere vita alla vita, cioè consapevolezza, buonumore, intelligenza. Con grazia preziosa e tutta sua che un altro grande uomo di spettacolo, Mario Martone, ci restituisce in un documentario personale, anche se fitto di testimonianze (Fofi, Piccolo, Sorrentino, Ficarra e Picone), ed emozionante come pochi: “Laggiù qualcuno mi ama”, dal 23 febbraio in sala. Martone ha consultato le carte sconosciute di Troisi, disegni, appunti, bigliettini vergati con grafia ora nitida ora incerta, che il futuro autore di “Ricomincio da tre” accumulava fin da ragazzo. Una miniera di scoperte (e talvolta di tuffi al cuore, basti la poesia “La sorte e la morte”) che la sua compagna e sceneggiatrice Anna Pavignano, testimone e complice fondamentale del film di Martone, conservava aspettando qualcuno capace di riportarla in vita. Come fa Martone intrecciando quei foglietti con testimonianze e citazioni dal cinema, dal teatro e dalla tv di Troisi. Che nel confronto con la sua epoca, e col presente, emerge con la limpidezza di una voce che non ci ha mai lasciato ma parla ai giovani di oggi come fosse uno di loro.
Lo dice il gran finale, con quella folla di ragazzi riuniti per “Il Postino” nell’arena del Piccolo America a Monte Ciocci, a Roma. Ma è il senso complessivo di un film che restituisce a Troisi profondità, mistero, spessore politico ed esistenziale, estraendo dalla sua “scandalosa mitezza” una consapevolezza mai esibita ma radicata in tutta la sua poetica. Una poetica modernissima, capace di crescere e affinarsi anche quando recitava per altri, fossero lo Scola di “Splendor” e “Che ora è”, o il Radford
E sorprendenti inediti
del “Postino”, cui lui stesso affidò la regia dopo aver deciso di non andare negli Usa per un trapianto («Non farò “Il postino” col cuore di un altro»). Non molti ricordano che Troisi rinunciò a salire sul palco di Sanremo quando scoprì che avrebbe dovuto consegnare in anticipo il suo testo (non doveva nominare “terremoto, politica e religione”), o che l’esilarante sketch sull’Annunciazione costò al gruppo e alla Rai una denuncia per vilipendio alla religione. Pochi videro nella fragilità e nell’irrequietezza dei suoi personaggi una crisi del maschio con cui ancora facciamo i conti. Nessuno, se non Dario Fo, tra quelli nel documentario, sembrava trattarlo da uguale, i colleghi più anziani lo tenevano un po’ a distanza, come un alieno. Mentre Troisi, con la sua ritrosia, nascondeva il battito prepotente dell’autobiografia, e della malattia che lo minava fin da ragazzo, in quei foglietti privati, o in allusioni che tutti cercavano di non vedere (quanto amore e quanta morte nei suoi film...).
«Eppure un sorriso io l’ho regalato», scrive Troisi, citando la ‘’Antologia di Spoon River” riscritta da Fabrizio De Andrè. Quel sorriso arriva intatto fino a noi.
Foto: R. Petrosino –Archivio Tv Sorrisi e Canzoni / Mondadori Portfolio
“Laggiù qualcuno mi ama” è l’emozionante omaggio di Mario Martone a Massimo Troisi. A trent’anni dalla scomparsa, un viaggio tra ricordi, testimonianze.
FABIO FERZETTI
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UN MITO IN SALA Massimo Troisi in un ritratto del 1989
RAFFO ART COMMUNICATION ROMA
BOOKMARKS Sabina Minardi
Quando eravamo “noi”
A San Francisco, tra le teenager di Vendela Vida. La riscoperta della meraviglia. Nostalgia del grunge.
E Paula Hawkins in audiobook
Ripensare il mondo. Riflettere sul senso e sul ruolo delle emozioni. Lavorare sulle parole per rappresentare fenomeni nuovi. È un invito a riscoprire la meraviglia questo saggio dedicato a corpi città e architetture, che rivendica l’appartenenza collettiva dei luoghi contro l’idea che gli spazi siano solo perimetri da archistar. Perché la sfida di oggi è di pensare in maniera circolare la relazione uomo-natura. E di progettare territori inclusivi, con le persone al centro.
LA MERAVIGLIA È DI TUTTI
Luca Molinari
Einaudi, pp. 151, € 14
Anni Novanta, il ritratto di una generazione che cerca disperatamente la sua strada, sullo sfondo difficoltoso dell’acciaieria toscana in crisi. Quattro amici con una playlist comune e riconoscibile: la musica grunge. Colonna sonora – con i suoi testi e con le sue band - di questo libro, che è un atto d’amore per i Nirvana, i Pearl Jam, ma anche per il rock italiano, dai Cccp ai Litfiba. Prefazione di Ernesto Assante.
CAVALCHIAMO
LA MAREA
Vendela Vida
Neri Pozza Editore
pp. 238, € 20
Una casa con grandi finestre che guardano il Golden Gate. Un esclusivo quartiere. E due ragazzine di 13 anni, con un mare di rosee possibilità davanti: salvo quando sirene antinebbia suonano il campanello di allarme, come spie che anche nella vita non tutto va sempre per il verso giusto. Nel 2016 la casa editrice Neri Pozza pubblicò “Geometrie di un panorama sconosciuto”, il viaggio di una donna in fuga dalla Florida e dalle falsità, in direzione di Casablanca e di una vita nuova: la voce cristallina e avvolgente di Vendela Vida fu una scoperta entusiasmante. Oggi la scrittrice americana torna con il romanzo “Cavalchiamo la marea” (traduzione di Elena Dal Pra), che ha per protagoniste quattro ragazzine, quelle teenager che lei conosce bene anche per aver fondato 826 Valencia, organizzazione no profit che insegna scrittura creativa ai più giovani. Vida scava e trascrive il mondo interiore inquieto, misterioso, paludoso e ondivago dei preadolescenti. Sullo sfondo di una città, San Francisco, tutt’altro che tecnologica: più fatta di ragazzini ricchi che si sfiniscono di droghe nel salotto di casa, di garage alternativi nel ventre della metropoli e di controculture, che dell’onnipotenza tecnologica che ha ispirato i romanzi neppure troppo distopici di suo marito: lo scrittore Dave Eggers.
Voce narrante Eulabee, singolare nome ispirato a un pittore americano di miniature dell’Ottocento che, in tandem con Maria Fabiola, di origine italiana, capeggia il quartetto. Non a caso in prima persona plurale, come si addice a un’età della vita dove il gruppo conta più d’ogni altra cosa e detta comportamenti inimmaginabili per i singoli.
Noi, dunque: “Noi ci muovevamo su queste strade come se fossero nostre. Noi avanzavamo veloci sulla scogliera. Le altre non conoscevano la spiaggia come noi. Noi eravamo le eroine”. È quel noi il cuore del romanzo: noi dal quale smarcarsi per trovare sé stessi, noi dal quale emanciparsi, al prezzo di lacrime e graffi, per ribadire la propria unicità. Quel noi, al tempo stesso, dannatamente necessario per crescere.
GLI SCARAFAGGI
NON SI NASCONDONO IN CASA
Massimo Boddi – La Bussola edizioni, pp. 140, € 10
È tornata la regina del thriller (“La ragazza del treno”) con un nuovo romanzo pubblicato da Piemme. L’attrice Viola Graziosi dà voce all’audiolibro. Protagonisti della storia una coppia, il loro migliore amico, una casa sulla scogliera, davanti a un mare che tutto vede e tutto nasconde. E una morte da svelare, tra un sospetto che leva il sonno, verità che ignoriamo anche in chi ci sta accanto. E un disorientante triangolo d’amore.
A OCCHI CHIUSI
Paula Hawkins
Su Storytel
19 febbraio 2023 109
COLPO DI SCENA Francesca De Sanctis
Tre vite in un monologo
C’’è stato un tempo non troppo lontano in cui il teatro di narrazione ha rappresentato un bel banco di prova per grandi attori e attrici che ci hanno regalato spettacoli memorabili. Senza andare troppo indietro con gli anni, mi riferisco ad artisti che ancora oggi fanno del monologo la loro cifra stilistica (da Marco Paolini ad Ascanio Celestini). A un certo punto c’erano così tanti monologhi in teatro che si diceva: non ci sono soldi, impossibile scrivere testi con tanti personaggi! Sgombriamo subito il campo: il monologo, e nello specifico il teatro di narrazione, non è per tutti, e non è la via più semplice per un attore o un’attrice. Scegliere di essere soli sul palco è una sfida più che un ripiego, libertà più che costrizione, coraggio più che escamotage. Ma per lasciare il segno sono fondamentali un paio di cose: avere una storia forte da raccontare e saperla interpretare al meglio. Come? Saverio La Ruina (che forse ricorderete per “Dissonorata”, “La Borto”, “Italianesi”, “Polvere”, “Masculo e Fìammina”) da anni domina la scena con i suoi modi garbati e una lingua particolarissima che mescola dialetto calabrese e lucano, inventando personaggi spesso umili e ben caratterizzati. In “Via del popolo” – di recente al Teatro Basilica di Roma e prodotto dalla sua compagnia Scena Verticale —, Saverio è semplicemente Saverio e ci racconta la storia della sua famiglia. In quella Via del popolo in cui tutto accadeva e dove un tempo c’erano
Saverio La Ruina, autore e attore del monologo “Via del popolo”, in tournée
Saverio La Ruina si racconta in teatro. Ma la sua autobiografia è anche quella del suo quartiere, e dell’Italia degli anni Sessanta
botteghe, artigiani, perfino un cinema, vive ancora oggi il nostro autore e attore, che da bambino lasciò i monti del Pollino per trasferirsi a Castrovillari (oggi sede di un bellissimo festival da lui ideato con Dario De Luca e Settimio Pisano: Primavera dei Teatri). È una storia semplice semplice la sua. Una storia intima, che parte dagli anni Sessanta e riporta in vita Saverio cameriere nel bar di famiglia o il padre Vincenzo, che un giorno si perde e non si trova più. In questi racconti – fin troppo pieni di aneddoti – tornano atmosfere e ritmi di una volta, perfino quel clima politico alla Peppone e Don Camillo. Tempi lontani, come sembra suggerirci l’orologio fuso dipinto da Riccardo Di Leo in stile Dalì, tempi deformati che distruggono mondi per costruirne altri, nuovi, diversi.
Via del Popolo
di e con Saverio La Ruina
Calascibetta (Enna), Teatro Contoli di Dio, 23 febbraio. Catania, Zō Centro Culture Contemporanee, 25 febbraio. Villa Carcina (Brescia), 27 aprile. San Lorenzo al Mare (Imperia), Teatro dell’Albero, 29 aprile. Rubiera (RE), Corte Ospitale, 15 giugno. Poggibonsi (Si), Festival Internazionale delle Ombre, 16 giugno
APPLAUSI E FISCHI
Ma li avete visti i tacchi a spillo rosso fuoco di Giancarlo Commare in “Tutti parlano di Jamie”? Il musical diretto da Piero Di Blasio, manifesto dell’inclusività, è stato un grande successo della scorsa stagione. Se lo avete perso, sappiate che riprende la tournée a partire da Roma (al Teatro Brancaccio fino al 5 marzo)
La Fondazione Teatro Metastasio di Prato ha deciso di tagliare e ridurre le sue attività. Questo significa che non ci sarà l’edizione 2023 del festival “Contemporanea” e che verranno cancellati spettacoli anche internazionali. Il motivo?
Il taglio di ben 520 mila euro di finanziamento della Regione Toscana nel biennio 2021-2022
110 19 febbraio 2023
LaChapelle tra gli ultimi
Quanto ci arrabbiamo quando, in un museo, manca un capolavoro perché in prestito a qualche mostra? Nel caso del ciclo di Padernello di Giacomo Ceruti alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia non sarebbe un grosso danno, perché è stato spostato di qualche centinaio di metri (al Museo di Santa Giulia) per una grande mostra dedicata al pittore del ‘700 che ritraeva gli ultimi senza stereotipi: la vera magia dell’arte, però, sta nel saper fare di un’assenza una presenza. Ecco che allora la Fondazione Brescia Musei e il curatore Denis Curti chiamano uno dei più importanti fotografi contemporanei e chiedono di colmare quel vuoto, di offrire un punto di vista nuovo e diverso su Ceruti. David LaChapelle accetta ed ecco una mostra nella mostra, con un lavoro realizzato per l’occasione e alcuni tra i suoi scatti più iconici.
Ceruti ha immesso un codice nuovo nell’arte: fino a quel momento chi non apparteneva alle fasce abbienti della società veniva ritratto nel cliché del vizioso, del delinquente, dello zotico. Non erano poveri, ma poveracci da tener lontani o compatire. Ceruti è il primo a dipingere massaie, portaroli, frati, mendicanti, ciabattini, sarte, filatrici. Il tono non è moraleggiante, come accadeva nel ‘600, ma la cronaca di un’umanità che vive e non sopravvive. E anche se a un certo punto della vita disse «voglio essere sepolto da povero perché tale sono», nella sale della mostra sembra invece emergere una necessità di Ceruti di pescare tra quella gente perché aveva bisogno dei loro sguardi, della loro alte-
Opere del grande fotografo americano in un confronto a distanza con i “ritratti di poveri” del settecentesco Giacomo Ceruti
rità. Dei loro colori. Gli stessi che sembrano avere travolto LaChapelle quando tutti i giornali del mondo lo chiamavano per i suoi ritratti in bianco e nero. L’Aids in quegli anni decimava la comunità omosessuale di New York e a un certo punto LaChapelle era convinto di avere contratto il virus. Quando le analisi scongiurano quella paura, decide che da quel momento avrebbe visto la vita a colori. Abbandona il B/N e lo stile onirico e fiabesco diventa il suo marchio di fabbrica. E sbaglia chi pensa che le sue fotografie passino da una pesante postproduzione, perché in realtà sono frutto di set che necessitano ore e ore di preparazione. Questo aspetto si evince nelle fotografie della serie “Is Jesus My Homeboy” dove racconta i momenti della vita di Gesù trasportandoli però nei giorni nostri, con apostoli e discepoli che anziché sandali e tuniche indossano sneakers e felpe e vengono dai sobborghi delle metropoli. Ed è protagonista anche in “Gated Community”, lo scatto principale: una tendopoli che sorge davanti a un tempio dell’arte contemporanea, il Lacma di Los Angeles. Il Museo non è stato informato e chissà come prenderà il fatto che LaChapelle abbia scelto la loro struttura come fondale di un teatro di disperazione, proprio nei giorni in cui hanno concluso la raccolta fondi record di 750 milioni per l’ampliamento degli spazi. Da Versace a Chanel, passando per Gucci, Dior, Vuitton e Burberry, quelle tende sono griffate nella stessa sequenza delle boutique di moda di Rodeo Drive. In questa immagine leggiamo lo stesso impetuoso tentativo di Ceruti di colmare le distanze sociali, in una città dove vivono 80.000 (ma forse molti di più) senzatetto. La California è lo Stato più ricco e più a sinistra d’America, ma gli invisibili continuano a rimanere tali. LaChapelle tira in ballo moda e arte in questa partita, chissà se e come la giocheranno.
“Gated community” di David LaChapelle: una serie tende griffate davanti a un tempio dell’arte contemporanea
19 febbraio 2023 111 smART
Nicolas Ballario
Truman Show senza fine
Il privato non è solo pubblico, è spettacolo, e che spettacolo. Rihanna aspetta l’half time del Super Bowl (100 milioni di spettatori solo in America) per annunciare di essere incinta per la seconda volta, Madonna per comunicare il suo ritorno live ha organizzato una cena tra amici, debitamente postata ovunque, così da darci l’impressione di sapere esattamente com’è una cena a casa Madonna.
Il festival di Sanremo è stata una mattanza di sovrapposizioni pubbliche e private compresa una verosimile, e probabilmente genuina, scenata di gelosia in diretta, il sabato sera su Rai1 davanti a mezza Italia che ha dovuto porsi la fondamentale domanda: ma la Ferragni era davvero arrabbiata col marito o era solo una pantomima? La verità è che il vecchio slogan degli anni ’70 secondo il quale il privato era da considerarsi politico, e quindi pubblico, ha fatto tanta strada, si è mutato nel tempo, diventando oggi la più sofisticata ed efficace forma di spettacolo. La privacy non è più un sacro luogo da rispettare, è merce, negoziabile, vendibile, e anche molto ricercata. Lo slogan nasceva per abbattere l’ipocrisia della contrapposizione
UP & DOWN
Dopo decenni Gianni Morandi continua a stupirci. La rivisitazione delle canzoni di Lucio Dalla che ci ha regalato è uno strappo del cuore. Il suo duetto con Sangiovanni su “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” è un allegro gioiello di dialogo tra adolescenti fuori del tempo.
L’impenitente cantante ex Smiths, Morissey, per aver accusato la sua etichetta, la gloriosa Capitol records, di promuovere quello che lui definisce il “satanismo” di Sam Smith tenendo al contrario il suo nuovo disco nel cassetto, a dispetto degli obblighi contrattuali.
Liti, inviti, gravidanze. Da Sanremo al Super Bowl tutto ciò che è privato fa spettacolo. E il pubblico si illude di conoscere gli artisti
La popstar Rihanna sul palco durante il Super Bowl: una esibizione che è servita anche ad annunciare la sua gravidanza
tra vizi privati e pubbliche virtù, suggeriva che la politica iniziava nella camera da letto, partiva dai rapporti interpersonali, il sesso, l’amore, l’educazione dei figli, tutto era messo in discussione e portato a giudizio etico fuori dalle mura di casa. Poteva addirittura diventare una forma d’arte. Lennon prese talmente alla lettera tutto questo da dire: bene, visto che la morbosità dei media ci impedisce di vivere dei momenti privati, allora trasformeremo la vostra ossessione a favore della pace. Vi invitiamo tutti nella nostra camera da letto dove saremo in luna di miele. Geniale. La foto del loro bed-in pacifista è una delle immagini più forti della storia del secolo scorso. Oggi ovviamente l’idealismo lennoniano è un ricordo lontano. I social hanno creato la più grande illusione collettiva di intimità che si potesse immaginare, roba da far impallidire “The Truman Show”.
Siamo tutti convinti di partecipare alla vita dei divi della musica, loro ci mostrano dove vivono, vediamo le loro case, gli armadi, i figli, ci mettono a parte anche dei dialoghi che intercorrono tra di loro artisti, spesso se hanno da dire cose lo fanno direttamente attraverso Twitter o Instagram, stabilendo un rapporto diretto con i fan, scavalcando i media tradizionali. Il nuovo spettacolo si è spostato nelle stanze private e in apparenza il biglietto è totalmente gratuito. Così come l’illusione.
Foto:
C. PolkVariety via Getty
Images
19 febbraio 2023 113 LE GAUDENTI NOTE Gino Castaldo
Il nonsenso comune
intervistatrice, con uno sguardo vacuo come un tailleur marrone, chiede a una docente emerita di storia medievale dell’University College di Londra: «Anche nell’antichità il 700 era il numero più grande?». A dire il vero, ribatte l’esperta impassibile, si può contare all’infinito. «Invece no, ho visto un video su Youtube che ne parlava, se vuole le giro il link». Succede così, quando meno te lo aspetti, come un temporale estivo: “Cunk on the hearth” su Netflix, un po’ Vulvia di Guzzanti, un po’ Marcorè nei panni di Alberto Angela che si confronta però con scienziati più veri del vero. E l’effetto è irresistibile. La magnifica operazione è quella del falso documentario: cinque episodi con tanto di immagini sontuose che dovrebbero raccontare la storia del mondo. Con tono autorevole la formidabile Diane Morgan si infila nei panni dell’improbabile divulgatrice Philomena Cunk. E per spiegare al suo pubblico i passi dell’evoluzione dell’“uomo umano”, alterna domande totalmente a caso con esperti autorevoli («L'invenzione della scrittura è stata uno sviluppo significativo o più un fuoco di paglia come il rap metal?») a considerazioni assertive, che tengono insieme il tutto. Così Gesù diventa un «falegname radicalizzato», il Titanic «il più grande sottomarino usa-e-getta del mondo» e i graffiti solo «storie noiose di mucche». Una inarrestabile sequenza di affermazioni stolide, rigorosamente sba-
Diane Morgan interpreta la “divulgatrice” Philomena Cunk nel mockumentary di Netflix
gliate, espresse con la sicurezza che solo l’ignoranza profonda può esibire, senza tentennare mai. Ma a un certo punto un retro pensiero si affaccia molesto, come un sapore assaggiato in un presente progressivo. Ovvero che con quel tipo di ignoranza abbiamo avuto a che fare parecchio nei nostri palinsesti, ma senza ridere neanche un po’. Il senso di ottusità che emana dalla parodia inglese fa scattare una certa assonanza con la triste abitudine a cui il pubblico ha ormai fatto il callo, quella dell’intervista insensata e spesso neppure plausibile. O con la normalità con cui sembra legittimo affrontare questioni scientifiche contrapponendo un esperto a un personaggio a caso che, di quella determinata materia, non solo non ne sa niente ma spesso e volentieri fornisce dati del tutto casuali che diventano dannosi con rapidità. Parafrasando insomma quel che Umberto Eco diceva a proposito dei social e che con la tv funziona a meraviglia: «Si dà diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel». Come Philomena Cunk.
DA GUARDARE MA ANCHE NO
Rigorosamente riservato ai nostalgici della settimana santa di Sanremo, il dietro le quinte del Festival (da recuperare su Rai Play). Una chicca inedita su tutte: «Avete spaccato», dicono ai Cugini di Campagna. «No, veramente noi non abbiamo spaccato proprio niente, quello era Blanco».
Neppure il tempo di finire la sbornia dell’ultima puntata con gli entusiasmi di Valeria Marini e quel gentiluomo di Pucci nello studio di Alessia Marcuzzi, che Boomerissima, il programma di Rai Due, in cui tutti si divertono parecchio, è stato già confermato per una seconda stagione.
Il geniale “Cunk on the hearth” ricorda in maniera neanche vaga un malcostume della nostra tv: l’ignoranza condivisa
L’
114 19 febbraio 2023
HO VISTO COSE Beatrice Dondi
L’Iran di oggi è un thriller
Un uomo percorre una strada di notte in motocicletta con una donna seduta dietro. Lo spesso chador che avvolge la donna non nasconde del tutto il suo viso sfigurato. La donna è un cadavere, l’uomo il suo assassino. Finire quella specie di Saraghina irridente, sboccata, più grossa di lui, non è stato facile. La lotta è stata selvaggia, il lungo primo piano della donna morente ancora più insostenibile degli altri. Eppure quell’uomo, Saeed (fenomenale Mehdi Bajestani, attore di teatro che con questo ruolo rischia non solo la carriera), è un padre di famiglia, volto onesto e mani da operaio. Se uccide le prostitute di Mashhad, città santa dell’Iran, è per “ripulire” le strade, obbedire al Corano, forse riscattare i suoi otto anni di guerra contro l’Iraq. Ecco perché la polizia non si danna per prenderlo. Forse.
Ormai rotti a tutto, sorprende trovare un film ancora capace di turbarci. “Holy Spider” ci riesce non solo in quanto storia vera (su YouTube c’è il docu di Maziar Bahari “And Along Came a Spider”), nonché agghiacciante metafora naturale di quanto avviene oggi in Iran, ma perché infrange molti tabù. Mai si erano vi-
AZIONE! E STOP
Tra i film-Ufo in tour per l'Italia ce n'è uno davvero bizzarro: “Gigi la legge” di Alessandro Comodin, surreale docu-comedy su un poliziotto friulano di campagna (zio del regista) in cui è tutto vero e tutto inventato. E lo scarto realtà/ fantasia è il cuore del film. Un Lynch del Nordest, esilarante e spericolato. Scoperto a Locarno.
Dopo Jafar Panahi, le autorità iraniane liberano anche Mohammad Rasoulof, regista di “Il male non esiste”, Orso d'oro a Berlino. Ottima notizia ma non abbassiamo la guardia: la scarcerazione è pro tempore. E per ogni nome illustre dato in pasto ai media, chissà quanti sono gli sconosciuti che restano in prigione.
Un serial killer deciso a ripulire le strade dalle prostitute. Una storia vera diventa un noir sconvolgente come il Paese che racconta
ste scene di sesso in un film iraniano (peraltro girato in Giordania e diretto da un regista naturalizzato danese), né corpi di donna. Anziché affidarsi a una violenza estetizzata o codificata dai generi, Abbasi poi alterna la frontalità più brutale a preziosismi orientali (quei piedi femminili ricorrenti). In un alternarsi di quadretti domestici, delitti ripugnanti, dettagli di grande impatto come le case delle prostitute, il consumo d’oppio, l’ampio consenso di cui gode il serial killer perfino in famiglia, che rende il tutto definitivamente perturbante.
Più strumentale, benché efficace, la cornice dell’inchiesta di una giornalista che oltre agli orrori del caso affronta una robusta dose di abusi e molestie. Anche se il gioco di rimandi fra personaggio e interprete (l’affilata Zar Amir Ebrahimi, palma a Cannes come miglior attrice), costretta a fuggire dall’Iran nel 2008 per la diffusione di un sextape, aggiunge forza simbolica a un film che ha il solo limite di dover dire troppe cose insieme. Fino a quell’epilogo giudiziario in cui il messaggio prende un po’ il sopravvento. Il ghiaccio è rotto comunque. La nostra immagine dell’Iran non sarà mai più la stessa. In bilico tra due mondi, l’autore del già inquietante “Border”, raro esempio di fantastico sociale, lavora come pochi sulle frontiere. Geografiche, biologiche, estetiche, morali.
HOLY SPIDER di Ali Abbasi Danimarca, Germania, Svezia, Francia, 117
19 febbraio 2023 115 BUIO IN SALA
Fabio Ferzetti
La difficile arte del richiamo
Tra i tanti problemi che abbiamo con il cane di casa, c’è quello del richiamo. Sciogliere il proprio quattro zampe per molti proprietari è un tabù. Come sempre, anche in questo caso, tutto si basa sulla relazione: se è buona, il cane tornerà al richiamo, se la relazione non esiste, il cane se ne andrà per conto suo, dove meglio crede. Intanto assicuriamoci che conosca il suo nome. Vi stupirà la velocità con cui lo impara. Teniamo a portata di mano dei premi, pezzetti di formaggio o di würstel e proviamo a chiamare il cane. Ogni volta che viene verso di noi, gli diamo il premio. Possiamo fare questo esercizio anche in casa o in giardino. Il rinforzo del cibo di solito funziona bene, ma possiamo anche alternarlo ad un rinforzo “sociale” cioè facendo un sacco di complimenti e carezze. Oppure usiamo un gioco, una treccia di pile è l’ideale. Piano, piano diventeremo molto interessanti per il nostro cane e la relazione comincerà a prendere forma. Ci sono, però, un paio di cose da non fare assolutamente: chiamarlo in continuazione, o cercare di prenderlo andandogli incontro. Nel primo caso, la ripetizione continua del nome, senza successo, non farà altro che desensibilizzarlo a quel determinato suono. Risultato: il cane se ne frega allegramente della nostra voce e dei nostri richiami. La seconda azione da evitare è quella di
CAREZZE E GRAFFI
L’esercizio del richiamo del cane va fatto una volta al giorno, anche in casa
Sono diverse le tecniche per far tornare il cane. Con il rinforzo del cibo, le carezze, un gioco. Ma evitate di chiamarlo di continuo
Esercitarsi sul richiamo con premi appetitosi, gioco, rinforzo sociale. Chiamatelo una sola volta e scappate via agitando il suo gioco preferito e quando arriva giocate con lui. Riponete il gioco e usatelo solo come premio.
Mai inseguire il cane nel tentativo di prenderlo. Crederà che è un gioco a chi scappa più veloce. Mai punire il cane se non torna al richiamo. Avrà sempre meno voglia di tornare. Mai cercare di agguantarlo a tradimento. Se lo ricorderà.
precipitarsi verso di lui o cercare di inseguirlo per prenderlo. La pressione non va messa, ma tolta. Quindi chiamate il cane, andando all’indietro o addirittura scappando nella direzione opposta. Quando le cose funzionano in ambito casalingo, è il momento di provare a sciogliere il cane in uno spazio nuovo. Il giardino di un amico, un’area cani recintata. Le buone abitudini non vanno mai perse. La ripetizione è alla base di ogni insegnamento, così come la coerenza. Quindi l’esercizio del richiamo va fatto almeno una volta al giorno, anche in casa. Infine non dimenticate mai l’ingrediente “pazienza”, ce ne vuole tanta. Le probabilità di successo dell’insegnamento al richiamo dipendono da tanti fattori. La volontà del proprietario di investire il tempo necessario per costruire un buon rapporto con il cane. Mettiamo in conto che non tutte le razze sono uguali, cioè non hanno le stesse capacità di apprendimento. Se poi il cane è un cucciolo o un adulto che arriva da un passato difficile, le modalità di insegnamento andranno modulate sulle necessità del cane. Nonostante tutti gli sforzi, il cane un bel giorno non tornerà al richiamo. Se succederà, e succederà ve lo assicuro, che il cane non dovesse tornare al richiamo, non vi arrabbiate. Punirlo non è la cosa giusta da fare, perché assocerà subito l’idea che il ritorno dal padrone è spiacevole. Respirate profondamente e ricominciate tutto da capo.
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19 febbraio 2023 117
AMICI BESTIALI Viola Carignani
GUIDE DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini
Mostarda tutti frutti
Contrappunto gustativo di preparazioni dal sapore neutro, rilevatore di sapidità, sferzata dolce-piccante, stimolo cromatico per rallegrare un piatto con un caleidosciopio di colori vividi. La mostarda assume il suo senso a seconda di come la si legga o la si gusti. Un uso che dura nel tempo. Caterina de’ Medici si fece addirittura suggerire da un veggente profetico, ma anche raffinato speziale, come Nostradamus, qualche ricetta di “moutarde”. Premessa per arrivare all’Agnoletti che nel 1822 definì la mostarda alla veneziana: «Abbiate tre libbre di cotogni, una libbra di melappie e tre libbre di pera, o di mela il tutto cotto con vino e zucchero come una marmellata. Pestate nel mortaio mezza libbra di scorzette di arancio sciroppate, ed un’oncia di scorzette di cedrato sciroppate; unite tutto insieme, mescolateci ancora tre libbre di mosto cotto, mezz’oncia di spezie sopraffine, e la mostarda di senape a piacere, secondo che la verrete piccante, indi conservatela nei barattoli in luogo asciutto». Già da nome la peculiarità: mustum arderns. Etimo infiammato di una famiglia allargata di salse e condimenti e simili. Ben prima che gli Arabi impiantassero lo zucchero in Trinacria, quando il miele ancora scarseggiava, per conservare la frutta fresca che sappiamo essere deperibile si usava annegarla nel mosto d’uva cotto, zuccherino a sufficienza per renderla sana e salubre,
Una delle mostarde più famose, quella di Cremona: una miscela di frutti canditi nello sciroppo e aromatizzati con olio essenziale di senape
Caterina de’ Medici, Nostradamus, gli arabi di Sicilia. Uniti da una salsa che cambia gusto e mantiene un successo sempre uguale
oltre che presentabile, fino a Natale. Si cominciò così a operare per svolgere al meglio il suo compito anche in ambito gustativo sostituendo per esempio il succo d’uva con il miele e poi lo sciroppo di zucchero; successivamente per correggere l’acidità si ricorse alla polvere dei sarmenti d’uva. Arrivò poi la protagonista del gusto anche se usata in dosi omeopatiche: la senape, nota da sempre per le sue virtù medicamentose. Per le sue qualità digestive e come condimento prettamente di origine contadino piano piano assurse alle tavole imbandite ricche delle famiglie patrizie nel periodo medievale. E ora arriviamo a una panoramica di ricettazioni dei giorni nostri che seguono il motto: paese che vai... Partenza obbligata dalla mostarda di Cremona, una miscellanea di frutti canditi separatamente nello sciroppo di zucchero e aromatizzati con olio essenziale di senape. Nei pressi ma differente quella di Mantova solitamente composta solo da mele (campanine, renette, cotogne a seconda). Nella mostarda vicentina invece troviamo mele cotogne, pere cotte in acqua e zucchero, setacciate e aromatizzate con senape e canditi. Molto più complessa invece la Cugnà piemontese ottenuta facendo bollire mosto di uve autoctone con mele cotogne, fichi, pere martin, frutta secca e spezie.
DOLCE E AMARO
IL SALSACOLTELLO
In un mondo gastronomico in cui c’è sempre meno da pungere o da tagliare una posata divenuta fondamentale è il salsacoltello. Si prende al meglio ergonomicamente il boccone e tutto diventa più facile raccogliendo la sua salsa.
LA MOSTARDA NON PICCANTE
A proposito della mostarda sta diventando sempre più raro trovarla piccante e senza questa peculiarità diventa pleonastica e stucchevole con bolliti e arrosti. A questo punto sarebbe meglio chiamarla frutta candita per essere più chiari.
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118 19 febbraio 2023
Aglianico per passione
Peppino Pagano è uno di quei personaggi carismatici di cui l’universo vitivinicolo ha sempre necessità. Originariamente imprenditore nel campo ristorativo-ricettivo, per lui la produzione del vino rappresenta un ritorno alla terra, oltre che un ricongiungimento con le tradizioni familiari, che vedono la sua casata coltivare la vite fin da fine ‘800. Galeotta fu, in questa sorta di “folgorazione sulla via di Dioniso”, la visita all’azienda Ruffino, ormai parecchi anni fa. Detto questo, gli esordi sono tutt’altro che facili. Giuseppe cerca terreno utile ad essere coltivato, ma la storia di quell’angolo, ai tempi misconosciuto, della provincia di Salerno non lo aiuta. Eppure Paestum - l’antica Poseidonia - è terra dalla vivacissima vocazione enoica, rinomata già ai tempi della Magna Grecia, quando gli Elleni, colonizzandola, importarono - date le condizioni perfette per la loro maturazione - i vitigni Aglianico, Greco e Fiano. Ora invece Il Parco Nazionale del Cilento, ovverosia l’area dove si trova collocata la maggior parte dei 100 ettari di San Salvatore, di cui circa 32 vitati, è una delle zone con più prospettive di crescita tra i territori del centro-sud. Produzione vinicola caratterizzata da principi antinterventisti, da sempre affiancata a quella dell’allevamento delle bufale, ora 450 capi destinati alla produzione della celebre mozzarella di bufala campana DOP, che da qui raggiunge ogni angolo del mondo. Tra le tante prove di consistenza della cantina ci sono i vari Aglianico in purezza, poi il Paestum IGP Greco Calpazio, che sa di mela annurca, mango, con tocchi di salvia e note di noci tostate al naso, bocca densa e compatta, ritorno officinale-fruttato e chiusura sapida, o il riuscitissimo Spumante Metodo Classico Brut Rosè Gioì Millesimato, anch’esso da Aglianico in purezza, che ha al naso note di lampone, tocchi di chinotto e gelsomino. Alla beva è teso e intenso, salmastro, con ritorno agrumato-fruttato e bella persistenza.
Un’azienda recente che rispolvera tradizioni di famiglia. E innesta nel Parco del Cilento una viticultura rispettosa dell’ambiente
Un vigneto dell’Azienda agricola San Salvatore. A destra: il proprietario, Peppino Pagano
PUNTEGGIO:
Una versione di Fiano davvero memorabile, affinato in solo acciaio, un viaggio a ritroso alle radici della tipologia. Si apre al naso, molto sfaccettato, con note di pesca tabacchiera, cenni di macchia mediterranea, poi salvia limonata, bocca tesa e croccante, con tocchi acido-sapidi, profondo, con chiusura ammandorlata. Perfetto, soprattutto in questi giorni, con un piatto di Lagane e Ceci, ma che siano quelli di Cicerale, giustificatissimo orgoglio cilentano.
AZIENDA AGRICOLA SAN SALVATORE
Contrada Zerilli, 84075 Stio, Salerno (SA)
Tel. 0828 1990900
info@sansalvatore1988.it
PAESTUM IGP FIANO PIAN DI STIO 2021
98/100
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GUIDE DE L'ESPRESSO IL VINO Luca Gardini
Chi ha ucciso la sanità pubblica
Cara Rossini, permetta un amarcord della nostra cara, vecchia, insostituibile mutua che ti passava tutto gratis e che ti consentiva di non perdere un intero pomeriggio nello studio di un medico di base. Ora la sanità, malata terminale, non ti passa quasi più nulla ed allunga in maniera esponenziale le liste di attesa col risultato che se hai i soldi forse campi e se non li hai muori. Il de profundis della sanità ha solo un nome: regionalizzazione, il vero assassino di un servizio sanitario che il mondo ci invidiava. Adesso ogni regione e conseguentemente i politici che governano quella regione dettano legge e considerando che il bilancio della sanità è il più elevato si comprende come il piatto è troppo ricco per non attirare gli appetiti di molti. Risultato: la sanità muore e con essa quei poveri disgraziati come il sottoscritto, pensionato ai minimi, che spera vivamente che lassù, ma molto lassù, in cielo per intendersi qualcuno gli voglia bene altrimenti time over, tempo finito. Una volta non era così ma com’è che quando parliamo dell’Italia dobbiamo sempre usare il tempo passato? Una volta c’erano scienziati, medici, scrittori, architetti, attori, cantanti e altri che il mondo ci invidiava. Oggi solo comparse, guitti, saltimbanchi dalla politica alla scienza. Io ho avuto la fortuna di vivere
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CAPOREDATTORI CENTRALI:
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UFFICIO CENTRALE:
Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice)
Anna Dichiarante
REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Angiola
Codacci-Pisanelli (caposervizio), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Gloria Riva, Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco
Turano (inviato), Susanna Turco
ART DIRECTOR:
Stefano Cipolla (caporedattore)
UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore), Davide Luccini (collaboratore)
PHOTOEDITOR:
Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice)
RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia
Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini
SEGRETERIA DI REDAZIONE:
Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio
CONTROLLO DI QUALITÀ: Fausto Raso
OPINIONI: Ray Banhoff, Fabrizio Barca, Francesca Barra, Alberto Bruschini, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Maurizio Costanzo, Carlo Cottarelli, Virman Cusenza, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Enrico Giovannini, Nicola Graziano, Bernard Guetta, Sandro Magister, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Claudia Sorlini, Oliviero Toscani, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza
COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Nicolas Ballario, Giuliano
Altre lettere e commenti su lespresso.it
in quella Italia. Compiango i giovani che vivono adesso in questo inguardabile pantano.
Marco Masolin
Caro Masolin, succede spesso che la nostalgia faccia apparire il passato diverso e spesso migliore di quanto sia stato. Questo è vero anche per personaggi che hanno segnato un’epoca e che ci sembrano insostituibili. Ma è davvero così? Il nobel per la fisica assegnato a Carlo Rubbia nel 1984 vale più di quello di Giorgio Parisi del 2021? E l’Oscar come migliore film straniero a “La grande bellezza” di Sorrentino (2014) conta davvero meno di quello ottenuto da Fellini con “Amarcord” nel 1975? Anche le grandi organizzazioni sociali soffrono di questo strabismo del ricordo. In realtà le vecchie mutue del Novecento, che lei ricorda come efficienti, erano un fattore di grande disuguaglianza perché l’assistenza dipendeva dal tipo di lavoro che si svolgeva. Soltanto dal 1978 godiamo di un sistema sanitario universale che vuole garantire prestazioni uguali per tutti. È imperfetto naturalmente, pieno di falle e di ritardi (un’inchiesta del nostro giornale l’ha recentemente raccontato), ma resta un bene per le persone e per la collettività che, visti i tempi che corrono, è necessario difendere.
Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Viola Carignani, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Stefano Del Re, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Luca Gardini, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Andrea Grignaffini, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Gaia Manzini, Piero Melati, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Massimiliano Panarari, Simone Pieranni, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valerio, Stefano Vastano
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120 19 febbraio 2023
Ray Banhoff
Avete presente il centro storico di Firenze? Vendiamolo. Invece che chiedere a Giorgia di legalizzare l’erba come hanno fatto i finti e ricchi provocatori dal privilegiatissimo palco di Sanremo, chiediamole di liberarci dal peso del passato per fare spazio a un po’ di presente. Questo è scioccante e provocatorio, mica farsi le canne. Tanto la Firenze del Rinascimento non esiste più. Al suo posto c’è solo il vago ricordo di un’anima che ha abitato quei luoghi ma che oggi è calpestata ogni giorno da migliaia di turisti. Ma non limitiamoci a Firenze. Camminiamo per le nostre vecchie città ed è come se
Largo al presente Cediamo all’estero i centri storici
il passato glorioso da cui discendiamo fosse una cappa che ci opprime, anche perché il confronto con quando contavamo qualcosa nel mondo della cultura è sinceramente impietoso. Siamo passati dalla bellezza delle architetture del Rinascimento e dal Romanticismo dei grandi pensatori all’era degli influencer, dei vestiti e dei capannoni quadrati in periferia (i capannoni rettangolari sono il cancro architettonico che uccide il paesaggio più dell’abusivismo e degli ecomostri. Non più volte, non più archi e colonnati, solo parallelepipedi brutti). Il Belpaese è solo uno slogan, siamo alla canna del gas. Inutile raccontarci che cresciamo dello zero virgola qualcosa e che il segno è positivo, monetizziamo un vecchio patrimonio culturale il cui peso impedisce in Italia qualsiasi cambiamento, qualsiasi cambio di prospettiva, qualsiasi ammodernamento.
L’Italia è un paese turistico? Basta. Non deve
esserlo più. Basta far scappare i cervelli e accogliere i consumatori. Cos’è il turismo se non un settore che ingrassa le tasche di pochi soggetti ma che depreda il territorio e si abbatte sui residenti e i lavoratori come una scure? Città come Venezia sono trasformate in parchi giochi distopici per adulti in cui nessuno si diverte, luoghi in cui vige la coda eterna, l’abbigliamento tecnico e lo shopping di paccottiglia terrificante. Il prezzo di un panino va alle stelle, un tragitto normale diventa impossibile, gli affitti fanno scappare i residenti.
Se volete rendervi conto di cosa dico andateci a Venezia ma per la mostra fotografica di Inge Morath. Capirete che pochi decenni fa quella era davvero una città con un’anima e una popolazione mentre oggi è solo un centro commerciale intasato.
La cupola del Brunelleschi, il Colosseo, Trinità dei Monti? Diamoli a Dubai o a Las Vegas. Spediamo via in blocco l’originale proprio e risaniamo il Pil. La sensazione sarebbe quella di quando liberi gli armadi da abiti e oggetti che non usi più… prima di farlo il terrore, poi, una volta osservati i sacchi neri, la catarsi.
Dopo avremmo due scelte: o rimpiazzare i monumenti con una copia tarocca ma identica come già si fa con le opere d’arte, oppure sfruttare l’occasione per qualcosa di rivoluzionario: fare spazio al nuovo. Pensate che enorme possibilità di lasciare un segno nei nostri tempi, che sensazione di sentirsi veramente artefici di qualcosa. Certo poi ci sarebbe il rischio che l’appalto venisse dato a un’azienda poco qualificata o raccomandata e che facessero qualche orrore verticale, ma non varrebbe la pena tentare?
La nostra storia è il passato, ed è enorme. Ma abbiamo bisogno di futuro o quantomeno di presente per cui non solo non ci sono i fondi, manca metaforicamente lo spazio. Se la politica non percorre strade così in salita sarà dura che qualcuno ritenga importante andare a votare.
BENGALA
Siamo passati dalla bellezza delle architetture del Rinascimento all’era degli influencer
122 19 febbraio 2023
DA 50 ANNI RIDIAMO VITA ALLA CARTA
Tecnologie di ultima generazione e una filiera integrata verticalmente, dalla raccolta della carta da riciclare alle cartiere, dagli ondulatori agli scatolifici: da 50 anni Pro-Gest dà vita a un modello di economia circolare 100% italiano.
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