L'Espresso 6

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STRAVIZI CAPITALI

Disuguaglianze, sanità, servizi e grandi opere. Il giudizio su Roma e Milano ipoteca il voto Regionale. Ma è davvero tutta colpa dei sindaci?

POLITICA

L’elisir Farnesina fa sopravvivere Tajani

ECONOMIA

Floridi: altro che transizione green. La burocrazia frena il digitale

IDEE

Non è solo un film. Le direttrici d’orchestra si sono prese il podio

numero 6 - anno 69 12 febbraio 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioFranciaGermaniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaSpagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5,90Inghilterra £ 4,70 SETTIMANALE DI POLITICA CULTURA ECONOMIA 4 euro

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EDITORIALE

Dal voto nelle regioni, più ancora che dalle primarie, dipenderà il futuro della sinistra in difficoltà

M

entre questo numero de L’Espresso va in edicola, circa 12 milioni di cittadini in Lazio e Lombardia avranno la facoltà di votare per le elezioni regionali: chissà quanti poi lasceranno davvero cadere la scheda nell’urna. La volta precedente furono circa due terzi (8 milioni) e probabilmente anche il 12 e 13 febbraio il calcolo dei votanti non si discosterà molto da queste cifre. In Lombardia ci sono sei candidati, nel Lazio quattro. Ma l’attenzione è concentrata sui due rappresentati di punta della destra e sui due della sinistra, gli altri fanno volume: Attilio Fontana e Pierfrancesco Majorino in Lombardia,

Francesco Rocca e Alessio D’Amato nel Lazio. L’esito sembra scontato a vantaggio del centrodestra. Un miracolo che inverta i pronostici ci può sempre stare. Ma, appunto, un miracolo. Il test è interessante soprattutto per capire cosa accadrà dopo. In Lazio e Lombardia si presentano due offerte molto diverse: al Nord una coalizione guidata da Majorino che comprende oltre al Pd e ad altri satelliti, il Movimento 5 Stelle; al Centro il Pd corre alleato di Matteo Renzi e Carlo Calenda. Come dire: un centrosinistra-sinistra e un centrosinistra-destra. Gli esiti elettorali, di conseguenza, potrebbero avere ripercussioni anche sul congresso del Pd che dovrà scegliere tra Stefano Bonaccini (più vicino alla lista laziale) e Elly Schlein (più organica a quella lombarda). Ma potrebbero averne anche sul centrodestra se, come pare, la Lega e Forza Italia perderanno voti a vantaggio di FdI.

C’è da capire come sarà il centrosinistra che uscirà dalle elezioni regionali e poi dal congresso del Pd: da una parte c’è una proposta che ricorda l’esperienza renziana, dall’altra manca lo spazio perché già in gran parte occupato dal Movimento 5 Stelle degrillizzato. Comunque vada e da qualunque parte si appoggi il Pd, gli mancherà sempre un pezzo per un’alleanza in grado di contendere almeno numericamente il governo alla destra. Carlo Calenda e Giuseppe Conte non potranno mai stare assieme a Bonaccini o Schlein, non sono il Vinavil della politica che tiene insieme i cocci. Il problema è che a sinistra la musica è cambiata: l’evanescenza del Pd non è solo nei numeri ma nella mancanza di una proposta politica netta. Ormai ci si aggrega sempre di più sulle cose: contro un inceneritore o una discarica, a favore di un’area verde, di una scuola o di un asilo. La destra si ritrova in parole d’ordine semplici come Dio, patria e famiglia che però non sono da conquistare, al massimo da difendere, non incidono sulla carne viva del Paese. La sinistra invece ha fatto scelte più complesse e coraggiose come quelle dei diritti civili, ma se non si ha la pancia piena hanno più presa i diritti sociali: il lavoro, il salario minimo, gli asili nido. Sia i diritti civili sia quelli sociali incidono eccome sulla vita di tutti i giorni, anche al limite della sopravvivenza. Per questo c’è bisogno di un progetto politico che non conti le tessere ma parli al Paese, alla gente disillusa ma pronta a tornare ad essere protagonista: non per le parole ma per le cose. Non aiutano le performance amministrative non brillantissime dei due sindaci delle capitali d’Italia, Roma e Milano, come racconta la nostra storia di copertina. Non aiuta nemmeno la lontananza del governo dagli enti locali su cui riversa sempre meno risorse. Eppure la sinistra ha dalla sua una storia di buongoverno delle città. Se si ammacca anche quello cosa rimane?

Città bengovernate e diritti sociali Il Pd riparta da qui 12 febbraio 2023 3
Alessandro Mauro Rossi

PROTAGONISTI SU OGNI STRADA

Il successo è qualcosa di molto personale e dipende dalla sicurezza con cui si affronta la propria strada, qualunque essa sia, chiunque noi siamo.

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Sebastiano Messina FIORELLO

Anche se tutti dicono che lui sarebbe il conduttore perfetto, Fiorello ha sempre detto no a Sanremo, «perché non mi accontenterei di presentare, vorrei fare tutto io, a cominciare dalle canzoni». Eppure anche stavolta lui ha dimostrato di essere capace di tutto, convincendo RaiUno a dire «Viva RaiDue» per un dopo-festival più atteso dello stesso Festival. Il vero protagonista è sempre lui: quando c’è, quando non c’è e anche quando riaccende il video dopo che hanno spento le luci dell’Ariston.

MATTEO RENZI

Elly Schlein lo accusa di aver «ridotto il Pd in macerie», Gianni Cuperlo dice «basta col renzismo» e Pierluigi Bersani appoggerà «chi si allontana di più dal renzismo». Persino la Treccani ha dovuto registrare l’esistenza di un nuovo verbo: «Derenzizzare». Sono passati cinque anni da quando Matteo Renzi si è dimesso da segretario del Pd (e tre anni e mezzo da quando è uscito dal partito), ma nelle stanze del Nazareno continuano a dare la caccia alla sua ombra.

FLAVIA PERINA

Invece di ripetere che qualcuno vuole impedire la rivincita degli esclusi, la destra dovrebbe capire che «non è più il piccolo Davide con la fionda in mano: è diventato Golia». Solo Flavia Perina, prima donna a dirigere il Secolo d’Italia - una che ha militato nel Msi, in An e in Fratelli d’Italia - poteva smontare con tanta efficacia la narrazione meloniana di «un mondo ostracizzato che, conquistata la guida del Paese, deve battersi contro chi vorrebbe ricacciarlo nelle fogne». Chapeau.

Il leader leghista vuole dare la linea a Sanremo. Il conduttore di Viva RaiDue protagonista ovunque

MATTEO SALVINI

Non ha gradito le parole di Zelensky. Non gli è piaciuto Benigni che elogiava la Costituzione. Si è lanciato in una censura preventiva con Paola Egonu. E ha detto che non avrebbe guardato la serata finale. Forse Matteo Salvini credeva che tra i poteri del vicepresidente del Consiglio ci fosse anche quello di dare la linea a Sanremo. Non si aspettava che Amadeus gli rispondesse che «se non gli piace il Festival basta non guardarlo». Ridimensionandolo al ruolo di telespettatore.

BEPPE GRILLO

Il suo Movimento è ormai il partito di Giuseppe Conte, che lo paga 300 mila euro l’anno come “consulente per la comunicazione”. Ma è proprio quello il campo nel quale Beppe Grillo è ormai l’ombra di se stesso. Il suo post sul reddito di cittadinanza si concludeva con il solito appello: «Leggete e condividete!». Ma in 24 ore è stato condiviso su Facebook solo da 132 seguaci (su 1,7 milioni) ed è stato ritwittato da appena 168 dei 2,4 milioni di followers. C’era una volta Grillo.

CARLO CALENDA

Non basta dire che era solo una battuta, se dal palco di una manifestazione hai definito Giorgia Meloni «una nazionalista semi-fascista». Ti chiami Carlo Calenda e guidi un partito che nei sondaggi ha scavalcato Forza Italia, dunque dovresti sapere che quella definizione sarà ricordata come la gaffe di un leader. Perché si può essere fascisti, neofascisti, postfascisti o antifascisti, ma non si può essere fascisti a metà. I semi-fascisti sono reali quanto un semi-Calenda

Foto: Agf (6) CHI SALE E CHI SCENDE
12 febbraio 2023 5

Mentre scrivo sono al rifugio per animali Agripunk, nella Val d’Ambra, con una decina di persone. Assieme a noi ci sono Desirée Manzato e David Panchetti che nel 2014 hanno contribuito alla chiusura di un allevamento intensivo di tacchine — se ne allevavano 30 mila ogni tre mesi — e hanno preso in affitto questo posto riuscendo a trasformarlo in rifugio. Le tacchine vivevano, come sempre negli allevamenti, intensivi o non, in condizioni di sfruttamento, torture e abusi. Da allora Desirée e David hanno fondato l’onlus che accoglie animali non-umani provenienti da maltrattamen-

Storia di Pablo e dei cinghiali erranti in città

ti, cessioni, fughe, abbandoni ed evasioni da qualsiasi tipo di allevamento. Tra le storie di liberazione animale che si ascoltano camminando tra questi campi liberi, quella di Pablo è emblematica perché aiuta a tracciare la storia di un cinghiale e, soprattutto, comprendere l’arrivo di queste specie nelle metropoli.

Nel 2014 Desirée e David vengono a conoscenza della presenza di un cinghialino, probabilmente orfano per mano di cacciatori, sfamato da diverse persone di San Leolino, a meno di una decina di chilometri dal rifugio. Quando il cinghiale viene segnalato alla polizia provinciale, questa, come spesso accade, gli spara un colpo in testa. Gli sfondano il setto nasale, ma non riescono a catturarlo. Il cinghiale, ormai ferito, si rifugia nel paesino in cerca di accudimento e cibo. Quando inizia a crescere, alcune persone del posto chiama-

no di nuovo la polizia provinciale, che lo cattura. Successivamente Agripunk viene contattata e, seppur con intenzionali difficoltà burocratiche da parte degli agenti, Pablo — così l’hanno chiamato — viene accolto nel rifugio nell’ottobre 2015 ricevendo da quel giorno cure specifiche, affetto e soprattutto protezione.

Per capire la storia di Pablo e l’arrivo del cinghiale in una metropoli, dobbiamo comprendere il ruolo dei cacciatori nello sconvolgimento degli equilibri della fauna selvatica e soprattutto del ripopolamento delle aree dedite alla caccia. Dobbiamo comprendere come, nonostante sia una pratica illegale, quando i cacciatori sparano alla madre di un branco di cinghiali, questi perdono la struttura familiare, vengono destabilizzati e sono biologicamente spinti a riprodursi di più. Dobbiamo osservare con oggettività che la caccia, negli anni, non ha mai risolto il “problema” dei cinghiali né in città né nelle aree coltivate, perché ne è di fatto la causa. Bisogna considerare le pratiche di foraggiamento e ripopolamenti venatori, la ridicolezza machista del recente emendamento sulla caccia.

È necessario applicare soluzioni lungimiranti e non cruente come la sterilizzazione temporanea. Dobbiamo finanziare e supportare i rifugi che di fatto sopperiscono a una mancanza nella cura a lungo termine di animali spesso torturati e disabilizzati dall’industria agroalimentare. Dobbiamo chiederci se esista, nella nostra società, un luogo di libertà: senza i nostri dogmi e dettami, una libertà della natura che appartiene solo a sé stessa e di cui noi siamo, come scriveva Élisée Reclus, una parte che ha preso coscienza di sé. Dobbiamo, in ultima istanza, chiederci perché ci arroghiamo il privilegio di specie di decidere chi deve morire invece di trovare vie di coesistenza con le altre specie e immaginarci più morali di così.

RESISTENTI
Le attività umane sconvolgono gli equilibri della fauna. A danno della coesistenza delle specie
Diletta Bellotti
12 febbraio 2023 7

Con l’inflazione è tornato anche un fenomeno di grande importanza economica e sociale, di cui abbiamo continue manifestazioni, ma che, per sua stessa natura, è ignorato dai più.

È quello che gli economisti chiamano illusione monetaria.

L’illusione monetaria è il fenomeno per cui le persone sono influenzate, nei propri comportamenti, dal valore nominale di prezzi e retribuzioni, piuttosto che dal valore in termini di potere d’acquisto.

Facciamo un esempio. Se nel 2021 guadagnavo 50.000 euro e nel 2022 continuo a guadagnare 50.000 euro, ma i prezzi nel

misura ben al di sotto del tasso di inflazione. Ci sono state lamentele ma nulla in confronto a quello che sarebbe successo se la pensione in euro fosse stata tagliata: qualcuno magari sarà persino stato contento dell’aumento ricevuto.

Spese sanitarie: il governo rivendica di averle aumentate di ben due miliardi. Ma sono poca cosa di fronte a quello che sarebbe stato necessario (almeno 15-16 miliardi) per mantenerne invariato il potere d’acquisto. Ma anche qui ci si lamenta meno del dovuto.

Depositi bancari: sono remunerati a tasso zero, per cui il loro valore reale è stato tagliato in misura pari al tasso di inflazione cumulato nel 2021-22, ossia del 15%.

È la più grossa patrimoniale dalla seconda guerra mondiale. Ci ricordiamo ancora della patrimoniale del 1992 che era dello 0,6% e non si protesta per una patrimoniale del 15 percento.

frattempo sono aumentati del 10%, il mio stipendio in termini di potere d’acquisto è sceso del 10%, pari al tasso di inflazione. Dovrei protestare come se il mio stipendio in euro fosse stato tagliato (più o meno) del 10%. Se non mi lamento o se mi lamento poco è perché, abbagliato dall’illusione monetaria, guardo al mio stipendio in euro che non è cambiato.

Ci sono molteplici manifestazioni di questo fenomeno.

Retribuzioni: molti contratti sono stati rinnovati a inizio 2021, incluso quello dei metalmeccanici. Da allora i prezzi sono aumentati del 15% a fronte di aumenti salariali del 2-3%, il che comporta tagli di potere d’acquisto del 12-13%. La gente si lamenta dell’inflazione, ma se il salario in euro fosse stato tagliato del 12-13% non sarebbe scesa in piazza?

Pensioni: Il governo le ha indicizzate in

L’inflazione confonde le idee anche sui tassi di interesse. La Bce è accusata da molti di voler uccidere l’economia per aver portato i tassi al 3%. Che sarebbe tanto se l’inflazione fosse quasi zero, come un paio d’anni fa. Ma, anche prevedendo un calo dell’inflazione nel 2023, un tasso di interesse del 3% è ancora ben negativo in termini reali. Ultima considerazione sul fatto che ci si concentra troppo sui valori nominali e non sul potere d’acquisto. Riguarda il dibattito sull’aumento degli stipendi pubblici per chi lavora in aree in cui il costo della vita è più alto. Si dice che questo creerebbe disuguaglianze a parità di lavoro. A me sembra che le disuguaglianze ci siano ora visto che chi vive in aree (per esempio le grandi città) dove il costo della vita è più alto ha un minore potere d’acquisto.

Certo, l’illusione monetaria tende a ridursi nel tempo e la gente comincia a protestare in modo più netto a fronte di aumenti dei prezzi. Ma ancora non siamo a quel punto: la grande illusione continua.

PER PARTITO PRESO
Con l’inflazione le retribuzioni reali perdono valore. Molti non se ne accorgono. È “l’illusione monetaria”
Il taglio dei salari contro il quale nessuno protesta
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Quando entri nella comunità Kayros di Vimodrone, alzi gli occhi e leggi un cartello con la scritta: «Non esistono ragazzi cattivi».

Che tu spacci, che tu uccida, che tu rubi, qui non sei percepito come fossi irrecuperabile. Non ci sono sbarre alle finestre o cancelli, perché la libertà soverchia il pregiudizio ed è il metodo educativo su cui si fonda ogni ingresso.

Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere Beccaria di Milano e il fondatore della comunità che accoglie in questo momento cinquanta minori provenienti dal carcere e da difficili condizioni familiari.

Per don Claudio non esistono ragazzi cattivi

Con lui i giovani si sentono al sicuro, più che in qualsiasi altro contesto che ha sabotato il loro diritto alla felicità. Perché qui sentono di appartenere a una comunità.

«Bisognerebbe entrare nelle loro case e capire che spesso non hanno alternative culturali. In questi contesti è difficile aderire a un modello di vita differente».

Questi adolescenti hanno a che fare con un mondo fuori asse: una mancanza, un abbandono, una storia di difficoltà, di sacrifici, di rabbia. Il reato è, nella maggior parte dei casi, la loro palude.

Un ragazzo di origini marocchine ha iniziato a rubare a dodici anni ed è scappato da venticinque comunità, prima di arrivare alla Kayros. Sogna di diventare un operatore cinematografico o un montatore dal giorno in cui ha visto una telecamera accesa. E si è acceso anche lui.

Da qui non sta scappando, gli altri ragazzi

sono diventati protettivi, fratelli maggiori. Se gli chiedi perché non va via, alza gli occhi e, come fosse la cosa più naturale del mondo, risponde: «Perché qui sto bene».

«Quando uno viene dal basso ha più fame», dicono i ragazzi. A volte quella fame porta alla rovina, ma prima o poi può portare a tirare fuori delle capacità insospettabili. Kayros è la risposta a una richiesta di aiuto, che non sempre viene esplicitata, un’opportunità senza protervia che, attraverso lo sport, il teatro, la musica, permette al ragazzo di specchiarsi in una versione migliore di sé stesso. Scoprendo risorse inimmaginabili.

Il carcere dovrebbe essere un aiuto, ma è concepito come un castigo, una vendetta che non educa, ed è difficile che ti cambi. Perché ti incattivisce. «Una bara che ti prepara a un’altra sepoltura», insomma.

Il recupero, per don Claudio, è più importante della pena. Bisogna smettere di pensare che sbattere il mostro in cella basti per farci sentire al sicuro o migliori, perché animati dall’ansia di giustizialismo.

Un giorno don Claudio ha avuto un dialogo con un ragazzo in carcere.

«Don, è inutile che ti sbatti per me, tanto sono un tossico. Ti ringrazio, ma lo so che, quando uscirò, niente cambierà».

«Non mi dire che sei un tossico. Sei un ragazzo che ha usato sostanze».

E lui: «Vabbè, che differenza fa?»

Don Claudio gli ha spiegato che, invece, cambia tutto. Cambia il mondo. Perché, se un ragazzo pensa di essere il problema che ha, resterà chiuso, senza le infinite possibilità di bellezza che la vita può offrire.

«Vabbè, non mi hai convinto». Gli ha risposto quel ragazzo.

Dopo due settimane, però, qualcuno l’ha chiamato dal fondo della cella e gli ha urlato: «Oh, sfigato!». Lui si è girato e, davanti a don Claudio, ha risposto: «Non sono sfigato. Sono un ragazzo che ha sfiga».

Anche una storia sbagliata merita salvezza.

La comunità Kayros di Vimodrone accoglie minorenni autori di reato. Ma qui nessuno è irrecuperabile
12 febbraio 2023 11 BELLE STORIE

è una popolazione, anche fitta, che si mette davanti al televisore intorno alle ore 13.30/14.00 e ci rimane sino al telegiornale della notte. Li chiamano gli “Sfascia divani” e sono in genere coppie adulte che hanno i figli sposati e fuori casa, oppure coniugi in pensione. Si raccontò, una volta, la difficoltà per gli “Sfascia divani” di mettere insieme un palinsesto. Cioè: tu vuoi vedere questo, io voglio vedere quello. Sta di fatto, però, che le coppie sono il tessuto connettivo più forte dell’ascolto televisivo. Sono loro che hanno creato i grandi successi del passato o che, allon-

sono il pungolo della televisione

tanandosi dal video, hanno decretato la chiusura dei programmi. Sono gli stessi che hanno molto amato Mike Bongiorno, Corrado, Fabrizio Frizzi e, talvolta, non hanno consentito a volti giovani di uomini o donne di salire alla ribalta.

È talmente vero questo che, nell’ultima edizione del “Grande Fratello Vip”, a fare opinione sono Orietta Berti e Sonia Bruganelli che in altri momenti avrebbero fatto le presentatrici. A condurre il “Grande Fratello Vip” c’è Alfonso Signorini che ha sempre fatto il giornalista e non ha mai pensato di muoversi davanti a telecamere che lo seguissero passo passo. A proposito di Berti e Bruganelli, c’è anche Giulia Salemi che legge, in tempo reale, i messaggi dei telespettatori. Anche questa è una novità. Sono certo che nessuno “Sfascia divano” si è mai espresso via computer per dire: bravo quel can-

Coppie adulte o pensionati sono l’anima degli ascolti. E decretano il successo (o no) dei programmi

tante, pessima quell’attrice.

Alla base dell’affezione degli “Sfascia divani” c’è il fatto che spesso s’interrogano: «Ma cosa avremmo fatto se non ci fosse stata la televisione?». È vero, ma è anche vero che molte ore al giorno lavorano. In questi casi, le mogli degli “Sfascia divani” hanno creato quel pubblico femminile che predilige le telenovela o, su Rai Uno, “Il paradiso delle signore” e, a seguire, “La vita in diretta”. C’è anche in questi programmi una intelligente scelta di ospiti chiamati a intervenire, che esprimono giudizi talvolta, o spesso, non banali ma che comunque sono parenti stretti di chi segue a casa.

Se il mondo della televisione si muove con tranquillità, passando di successo a insuccesso, di colpo si parla di eventi accaduti nelle scuole.

Maria Luisa Finatti, insegnante di Scienze e Biologia in un istituto di Rovigo, qualche mese fa è comparsa in un video girato dai suoi studenti, che la riprendevano mentre altri della classe le sparavano con una pistola ad aria compressa. Si è venuto a sapere che alcuni studenti avevano organizzato il tutto, chiedendo a uno di portare la pistola, a un altro di sparare, e tutti hanno filmato con i cellulari. Penso al povero Edmondo De Amicis, autore di “Cuore”, che a leggere queste notizie si gira disperato nella tomba.

Ma di storie strane ne accadono più d’una e mi fa piacere riferirle. Una ventisettenne di Cesena ha fatto causa al Comune (di Cesena) perché non le aveva rinnovato il contratto da vigilessa, sostenendo, a base del ricorso, di essere stata discriminata a causa della sua avvenenza fisica. Al momento — se non mi sbaglio — il giudice del lavoro ha respinto il ricorso presentato dalla giovane donna. Non so, adesso, che lavoro faccia la ventisettenne e non so se la vicenda potrà eventualmente avere un seguito.

C’ 12 febbraio 2023 13
Gli “Sfascia divani”
PER BUONA MEMORIA
14 12 febbraio 2023
L’ESPRESSO ICONOGRAFICO DI OLIVIERO TOSCANI

Lascia che ti sfiori, che ti tocchi, che ti stringa, che ti strozzi. Lascia che ti protegga, che ti allontani, che ti isoli, che ti rinchiuda. Lascia che ti parli, che ti spieghi, che ti sgridi, che ti comandi. Lascia che sia sincero, che ti illustri i pro e i contro, che ti butti lì una proposta, che ti ricatti. Lascia che ti accarezzi, che ti baci, che ti lecchi, che ti stupri. Non vuoi?

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W. KohsarAFP / Getty Images
EDITORIALE A. GeaReuters / Contrasto

Ma come puoi amare un altro, toccare un altro, parlare a un altro, guardare un altro? Come puoi tradirmi, lasciarmi, allontanarti, uscire di qui? Come puoi ricominciare, ritornare a sperare, ricordarmi comunque, respirare ancora? Io non ci riesco, sai? Il fatto è che sei così dolce, così delicata, così fragile, così debole.

Sei così emotiva,

EDITORIALE O’ReillyReuters / Contrasto

così umorale, così lunatica, così isterica.

EDITORIALE A. VermaReuters / Contrasto

Sei così misteriosa, così particolare, così diversa, così inferiore. Sei così piena di interessi, di passatempi, di svaghi, di inutili cazzate. Dà retta a me: vivi meglio senza calcoli, senza numeri, senzaparole,senzapensieri.Vivimegliosenzamulte,senzacambiali,

senza documenti, senza libri. Vivi meglio senza nemici, senza estranei, senza pettegoli, senza colleghi, senza amici. Vivi meglio senza vizi, senza alcolici, senza medici, senza vita. Lo dice la scienza, lo dice la natura, lo dice la sapienza, lo dice Dio. Lo dice la storia, lo dice la tradizione, lo dice la legge, lo dice l’ayatollah. Adesso mettiti una gonna più lunga, uno scialle che ti copra le spalle, un velo che ti copra la faccia, un burqa

EDITORIALE
T. MelvilleReuters / Contrasto

che ti copra un po’ tutta. E ora togliti la sciarpa che c’è caldo, il maglione che non ti guardo, la gonna che siamo soli, le mutande che sennò è peggio. Fammi controllare i tuoi messaggi,iltuoestrattoconto,ituoispostamenti,ituoipensierinel sonno, la tua vagina. Dopotutto hai le mestruazioni, le voglie, le caldane, l’istinto materno, meno forza nelle braccia, il bisogno di mentire, le mani piccole per richiudere la pasta ripiena.

EDITORIALE

Dopotutto, ci sono io che lavoro, ci sono io che fatico, ci sono io che decido, ci sono io che ho un pisello.

V. PintoAfp / Getty Images
Enrico Dal Buono

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala rilancia l’allarme sui conti del Comune. Un buco che richiede tagli per 50 milioni

Frane, alluvioni e terremoti minacciano milioni di italiani. Ma gli enti locali continuano a rilasciare permessi. E si cementifica

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Cresce il numero di persone con disturbi psichici. Il Servizio sanitario ne accoglie una piccola parte. Per gli altri restano le cure private

Magagne capitali Sergio Rizzo 28 Affanni di bilancio, la Madonnina non è più dorata Gianfrancesco Turano 34 Gli italiani si fanno sempre riconoscere Gianfranco Ferroni 37 POLITICA Per Tajani l’elisir Farnesina Carlo Tecce 38 L’infinita fantasia di Walter Veltroni Marco Ulpio Traiano 42 Cambio anch’io. Liturgia da spot Loredana Lipperini 44 Con Calderoli una Brexit all’italiana Diego Roveta 46 Il terreno frana. E io costruisco Paolo Biondani 50 La lunga serie di errori del Pd sull’immigrazione Corrado Giustiniani 55 Inferno Cpr, dove muore l’umanità Marika Ikonomu, Alessandro Leone e Simone Manda 56 Su Daniel si muove il Parlamento Simone Alliva 58 Cara presidente, venire al mondo non è un reato Anna Maria Gehnyei 59 Polizia razzista, riforma difficile Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni 60 I sabotatori del 41 bis, dall’interno Enrico Bellavia 62
PRIMA PAGINA
Disagio mentale, malattia da ricchi Gloria Riva 66 Al Meyer di Firenze un centro d’avanguardia 71 Studenti suicidi, il lato oscuro dell’eccellenza Chiara Sgreccia 72 34
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numero 6 - anno 69 - 12 febbraio 2023

Marin Alsop, Beatrice

Venezi, Oxana Lyniv,

Per approfondire o commentare gli articoli o inviare segnalazioni scrivete a dilloallespresso@lespresso.it I nostri giornalisti vi risponderanno e pubblicheremo sul sito gli interventi più interessanti

ECONOMIA Prezzi in salita, salari in discesa Vittorio Malagutti 74 Golden power di Meloni su Priolo in vendita 79 Brexit presenta il conto, ecco la crisi peggiore Eugenio Occorsio 82 La Cina nello spazio con i capitali privati Emilio Cozzi 84 Il digitale frenato dalla burocrazia colloquio con Luciano Floridi di Enzo Argante 86 CULTURA Podio e potere Lisa Ginzburg 90 Narcisismi con la bacchetta Fabio Ferzetti 95 Benvenuti al festival che non c’è Sabina Minardi 96 Match point per un bestseller Aisha Cerami 100 New York col sole di Roma Giuseppe Fantasia 102 Finalmente una stella colloquio con Giancarlo Giannini di Claudia Catalli 104 Nel suo intervento, Diletta Bellotti parla delle attività umane che sconvolgono gli equilibri della fauna. A danno della coesistenza delle specie Copertina di Oliviero Toscani e Marco Morosini Foto: M. Balsamini / Contrasto, I. Magliocchetti Lombi / Contrasto CITTÀ BENGOVERNATE E DIRITTI SOCIALI. IL PD RIPARTA DA QUI Alessandro Mauro Rossi 3 Opinioni CHI SALE E CHI SCENDE Sebastiano Messina 5 RESISTENTI Diletta Bellotti 7 PER PARTITO PRESO Carlo Cottarelli 9 BELLE STORIE Francesca Barra 11 PER BUONA MEMORIA Maurizio Costanzo 13 PALAZZOMETRO Virman Cusenza 49 L’OPINIONE Franco Corleone 64 BANCOMAT Alberto Bruschini 81 BENGALA Ray Banhoff 122 Rubriche IO C’ERO - Oliviero Toscani 14 LIBRI - Sabina Minardi 109 TEATRO - Francesca De Sanctis 110 ARTE - Nicolas Ballario 111 MUSICA - Gino Castaldo 113 TELEVISIONE - Beatrice Dondi 114 CINEMA - Fabio Ferzetti 115 ANIMALI - Viola Carignani 117 CUCINA - Andrea Grignaffini 118 VINO - Luca Gardini 119 POSTA - Stefania Rossini 120 104 Giancarlo Giannini 90
Speranza
così tante
Scappucci. Mai
le donne che dirigono orchestre
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Rifiuti, servizi, strade. Assenteismo e sprechi. Clientele che gonfiano gli organici di Campidoglio e municipalizzate. Mentre le correnti del Pd si fronteggiano. I mali di una metropoli a tratti ingovernabile. E dove il peso di Tari e addizionale Irpef è da record

MAGAGNE CAPITALI

PRIMA PAGINA ROMA
28 12 febbraio 2023

IL SINDACO

Roberto Gualtieri, Pd, ex ministro, già deputato ed europarlamentare, è da 15 mesi il sindaco di Roma

12 febbraio 2023 29

PRIMA PAGINA ROMA

Parola di Sabrina Alfonsi: «I cinghiali vanno a piazza Mazzini non per i cassonetti dei rifiuti, ma perché è piena di ghiande» (Ansa, 30 gennaio 2023). Le ghiande?!

L’assessora all’Ambiente e ai rifiuti del Comune di Roma è stata anche alla guida del municipio del centro storico della capitale. E non può non sapere che a piazza Mazzini le ghiande abbondano da quasi un secolo. Senza che prima d’ora si sia mai visto un cinghiale.

FIAMME

Guasti, manomissioni, surriscaldamento: la Capitale si segnala anche per il numero di mezzi pubblici andati a fuoco

Ma che qui il contatto con la realtà sia uno dei problemi più rilevanti non si fatica a capirlo, leggendo il fumoso piano industriale dell’Ama, l’azienda comunale incaricata di tenere Roma pulita. In attesa che si materializzi il termovalorizzatore promesso dal sindaco Roberto Gualtieri vogliono riempire le piazze con giganteschi cassoni. Dove la gente può buttare tutto. Cento cassoni in cento piazze, sono previsti. Cioè una piccola discarica “fai da te” in ogni piazza. In alternativa, per chi preferisce la differenziata, ecco le domus ecologiche. Anziché cassoni, cassonetti. Ma chiusi in recinti: occhio non vede, cuore non duole. Perché il cuore duole, assai. E duole anche il portafoglio, visto che la tassa sui rifiuti più cara d’Italia è nella città più sporca. Non per i cassonetti che tracimano: quasi sempre, magari in ritardo, ma li svuotano. È che le strade sono luride. I marciapiedi ridotti a letamai. I giardini pubblici, indecenti. Come prima. Come sempre.

Gualtieri è sindaco ormai da 15 mesi. Ed è lecito chiedersi che cosa stia succedendo a Roma. La città è un immondezzaio. Il trasporto pubblico, deprimente. Per gli altri servizi, buona fortuna. Dovete fare la carta d’identità? Dal 20 gennaio primo appuntamento utile: 24 aprile. Tre mesi, e leccatevi i baffi. Lasciamo perdere il resto.

E pensare che secondo l’Acos, l’agenzia del Comune di Roma per il controllo della qualità dei servizi, i romani non sono mai stati così felici della propria amministrazione da 15 anni a questa parte. Tanto da premiarla con un bel 6,74. Voto che frana, però, davanti a una storiella.

Piazza Sant’Eustachio, Roma: primo feb-

braio 2023, ore 11 del mattino. Solito delirio di auto blu, scorte e furgoni in tripla fila. Ci sono, bontà loro, anche i vigili urbani. Ma solo per rimuovere i motorini, gli unici mezzi parcheggiati regolarmente negli appositi spazi a 50 metri da palazzo Madama perché il Campidoglio ha decretato lì il divieto di fermata. Ragioni di sicurezza per la visita ufficiale della presidente ungherese Katalin Novàk, in programma nei giorni 31 gennaio e primo febbraio, con tappa in Senato. La richiesta viene dalla questura. Ma si dà il caso che sia arrivata il 28 gennaio, mentre i solerti uffici comunali l’hanno evasa soltanto il 30 gennaio. E siccome le regole dicono che per rimuovere i veicoli servono almeno 48 ore di preavviso, quando la presidente ungherese va dal presidente del Senato Ignazio La Russa, il 31 gennaio, le 48 ore non sono trascorse e i motorini sono ancora lì. Nonostante ciò, il giorno dopo li rimuovono ugualmente, anche se tutto è finito da un

La città più sporca paga il tributo più alto. Lo smaltimento arranca, la differenziata è ferma al 45 per cento. E in attesa dell’inceneritore, l’amministrazione escogita cento cassoni in cento piazze
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SERGIO RIZZO

bel pezzo. Un capolavoro.

Ti diranno: corri di qua, corri di là, non è facile stare dietro a tutto. Soprattutto con poco personale. Il sindaco Roberto Gualtieri vorrebbe assumere altri mille vigili. Forse per compensare quei 945 che esibiscono, come ha raccontato Repubblica, un certificato medico per il quale risultano inabili al lavoro? Chi non può stare all’esterno o lavorare di notte, chi non può guidare l’auto o la moto, chi non può soffiare nel fischietto. Insomma, quel 6,74 in pagella non sarà troppo generoso?

Ogni sindaco che arriva promette la svolta, e magari ci crede davvero. Poi però finisce inghiottito dalle sabbie mobili di un apparato irriformabile. L’unica sarebbe rovesciare il tavolo. Spazzare via rendite di posizione sindacale, pelandroni e dirigenti incapaci, affarismi che inquinano l’attività amministrativa e favoriscono la corruzione. Incrostazioni profonde, sedimentate fin dai tem-

pi delle giunte democristiane che reggevano il sacco ai palazzinari come documentato già nel 1955 da Manlio Cancogni nella coraggiosa inchiesta pubblicata da L’Espresso con un titolo che ha fatto epoca: “Capitale corrotta, nazione infetta”. E poi sopravvissute, evolvendosi anche grazie alle giunte di centrosinistra.

Ma per riuscirci, o almeno provarci, ci vorrebbe un fisico bestiale. Anche perché non dovresti guardare in faccia nessuno, nemmeno chi ti ha fatto eleggere.

Ce l’avrà Roberto Gualtieri? Storico cresciuto all’Istituto Gramsci con Giuseppe Vacca. È un secchione, il che gli torna utile al Parlamento europeo. Studia, lavora e non fatica a emergere. Alla vigilia delle Europee del 2019 l’autorevole sito Politico.com lo classifica terzo parlamentare più influente. Ma a Roma è tutta un’altra storia. E fare il sindaco anziché il ministro dell’Economia è storia ancora diversa. Il Pd romano è una

Pagine 28-29 F. Fotia –Agf. Pagine 30-31: A. Masiello –GettyImages
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marmellata di correnti e clan, spesso in guerra fra loro. Che però non hanno alcuna intenzione di farsi da parte.

L’uomo forte si chiama Claudio Mancini. È considerato l’ombra di Goffredo Bettini, il grande manovratore del Pd romano dietro l’operazione Gualtieri. Dunque in Campidoglio è più influente di Nicola Zingaretti, nonostante controlli metà dei consiglieri zingarettiani.

Sulle nomine ha lui l’ultima parola. E ne abbiamo viste: l’ex deputata non rieletta Patrizia Prestipino a Garante degli animali, e il presidente uscente del consiglio regionale trombato alle politiche Marco Vincenzi al Giubileo (gratis)…. Ma pure il consiglio di amministrazione dell’Ama, al cui vertice viene proiettato Daniele Pace, alto dirigente di Invitalia. Il secondo presidente in un anno, dopo i cinque in cinque anni della gestione Virginia Raggi. Auguri: ne ha bisogno.

A Roma non c’è svolta senza risolvere il problema dei rifiuti e della pulizia. Che non è un problema solo cittadino. Perché una capitale europea in queste condizioni non è presentabile.

Fosse privata, i libri dell’Ama sarebbero da anni in tribunale. Un’azienda di servizio pubblico dove 1.500 dipendenti su 7.500 hanno un certificato medico per qualche inabilità al lavoro e altrettanti possono assentarsi per assistere un parente ma-

lato, semplicemente non sta in piedi. E la cosa non si risolve con una nuova valanga di assunzioni. Tutte quelle fatte negli anni passati, senza mettere fine all’andazzo, l’hanno solo alimentato. Mortificando i molti dipendenti bravi e coscienziosi.

Se l’assenteismo viaggia a sprazzi oltre il 20 per cento e più di un terzo dei mezzi è antiquato o inservibile, la qualità del servizio non può che essere in proporzione. Certo i mali, lo sappiamo, vengono dal

passato. Roma è l’unica capitale europea che non chiude il ciclo dei rifiuti nel proprio territorio. Mancano gli impianti e lo smaltimento ha costi astronomici, di media 230 euro a tonnellata, contro un prezzo di mercato di 150. E la scelta del termovalorizzatore, senza dubbio coraggiosa ma contrastata nella stessa maggioranza, ha tempi drammatici. Cinque, forse sei anni. Ma intanto la raccolta differenziata non si schioda da un avvilente 45 per cento. La città continua a essere sudicia. E se la mossa decisiva sono i cento cassoni in cento piazze stiamo freschi.

La verità è che l’Ama è lo specchio di una città imprigionata da logiche e interessi che prescindono dai bisogni dei suoi abitanti. L’assenteismo è una cartina al tornasole. I tassi di presenza delle strutture comunali si aggirano intorno all’80 per cento. Al Comune di Milano è al 90 e oltre. Per non parlare di certi numeri. Il gabinet-

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La società che gestisce bus, metro e tram ha 11 mila dipendenti ed è la più grande d’Europa. Al traffico infernale corrisponde un numero enorme di incidenti: 11 mila nel 2021, 30 al giorno di media 32 12 febbraio 2023

to del sindaco di Roma conta 294 persone. Quello del sindaco di Milano, 70. Succede negli uffici comunali e succede anche all’Atac, la società di trasporto, municipalizzata più grande d’Europa con 11 mila dipendenti. I trasporti funzionano peggio di quanto potrebbero e il traffico è mostruoso. Con un numero altrettanto mostruoso di incidenti stradali: nel 2021 ben 11 mila, 30 al giorno.

L’eredità, verissimo, non è stata semplice. Quando si è insediata, la vicesindaca Silvia Scozzese, responsabile del bilancio, ha scoperto che nei conti c’era più di un miliardo non speso dall’amministrazione Raggi. Anche per le strade malmesse, ovvio. Siamo certi che quei soldi vengono ora utilizzati al meglio, ma non basta, ahimè, per la svolta.

Anche perché le incrostazioni profonde hanno prodotto negli anni effetti anche collaterali micidiali cui nessuno ha mai po-

sto rimedio. Posti di lavoro inventati, società inutili, sprechi insensati. Tutta roba che contribuisce a far pagare ai romani l’addizionale Irpef più alta d’Italia. Pur non avendo mai avuto alcuna ragion d’essere. Qualche esempio? Risorse per Roma: creata dal nulla per supportare (!?) gli uffici comunali, occupa più di 550 persone. Il Comune possiede anche 45 farmacie, con circa 300 dipendenti. Perdono 2 milioni e mezzo l’anno. Dulcis in fundo, Roma è l’unica città al mondo proprietaria di una compagnia di assicurazioni, la AdiR. Nata decenni fa per assicurare i mezzi comunali, ora conta fra i suoi clienti la città di Chioggia e la Provincia di Cuneo. E assicura anche il Comune di Napoli. Per l’esattezza, 310 autobus. Napoli… Ma che senso ha?

EMERGENZE

Un branco di cinghiali in cerca di cibo tra la spazzatura in città. A sinistra, una voragine apertasi improvvisamente a Tor Pignattara inghiotte due auto

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Foto: F. Fotia –Agf, A. Serranò –Agf
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Affanni di bilancio La Madonnina non è più dorata

GIANFRANCESCO TURANO

ilano è diversa da Montecarlo per due motivi. Non c’è il mare, ma ci sono i poveri. Basta passare da viale Toscana, sulla circonvallazione della funicolare, per vederli in fila a centinaia poco dopo le 11 davanti ai cancelli della onlus Pane quotidiano. Più della metà sono italiani costretti sulla difensiva da una città dove si passa da un aperisushi al nuovo ristorante fusion nippobrasiliano, da un bosco verticale a un’olimpiade invernale. Sono quelli rimasti indietro nella corsa della metropoli lombarda che, a sua volta, rischia di farsi staccare dal ritmo infernale di una bolla immobiliare in espansione infinita.

La città più ricca d’Italia dovrebbe quanto meno essere libera dagli affanni di bilancio che schiacciano Roma e Napoli. Non è così.

Il sindaco Giuseppe Sala ha rilanciato l’allarme sui conti del Comune. Un buco che richiede tagli per 50 milioni di euro. Per colpa dei prezzi di elettricità e gas schizzati alle stelle.

E della nuova metro

Il sindaco Giuseppe Sala detto Beppe, già city manager ai tempi della giunta guidata da Letizia Brichetto Moratti, ha rilanciato l’allarme sui conti comunali nei giorni scorsi. Servono 50 milioni per evitare i tagli, ha detto il sindaco che ha accusato il governo di indifferenza verso la polis meneghina.

Rieletto a ottobre del 2021 sotto le bandiere di una coalizione a guida Pd con quasi 26 punti percentuali di vantaggio sul rivale di centrodestra, Sala ha ancora ampi margini di consenso in una città che, mentre la Lombardia va alle urne, finora è rimasta sorda alle sirene leghiste e forse resisterà anche alla svolta meloniana.

Questa è sicuramente una parte del problema. Le polemiche sulla sicurezza fra il sindaco e l’ex consigliere comunale di palazzo

Marino e ora ministro Matteo Salvini sono, a loro volta, una sicurezza. Poi è intervenuto Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che pretende di bloccare la demolizione dello stadio di San Siro contro il parere del suo stesso ministro, Gennaro Sangiuliano. Nella conferenza stampa di lunedì 6 febbraio, Sala ha attaccato l’esecutivo a tutto campo. «Io sto continuando a vedere ministri che passano da Milano e fanno grandi passerelle e fotografie. Ma a me di questo non interessa, non mi viene in tasca nulla».

La gestione delle finanze comporta un lavoro continuo, poco evidente, fra la giunta e il governo su un deficit che potrebbe invertire la ripresa del consolidato 2021, chiuso con 145 milioni di utile netto dopo il -102 della pandemia. In larga parte, è colpa di elettricità e gas, schizzati alle stelle per il conflitto ucraino lo scorso anno. La sola Atm, la società del trasporto pubblico, ha

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triplicato la bolletta da 50 a oltre 150 milioni di euro.

Poi ci sono le spese per investimenti infrastrutturali. La nuova linea blu, che ha inaugurato le prime stazioni lo scorso novembre, costerà 42 milioni di euro nel 2023 e altri 100 milioni per il biennio successivo, quando se ne prevede il completamento.

«Roma sbaglia a non investire su un’area urbana ad alta competitività e con questo governo i rapporti si stanno un po’ esasperando», dice l’assessora alla Mobilità Arianna Censi. «Il fondo nazionale trasporti ci dà in cifra assoluta 2 milioni di euro in meno di quanto prendessimo undici anni fa. Nel frattempo, abbiamo costruito la linea 5 della metro e parte della linea 4. Venezia ha preso 19 milioni di euro senza comprare un mezzo nuovo. È vero che per il rinnovamento della flotta concorrono anche fondi Ue e del Pnrr, ma poi bisogna adeguare i depo-

siti e questo è a nostro carico. Il nostro sistema ogni giorno trasporta 1,3 milioni di passeggeri, quasi equivalenti all’intera popolazione residente, e continuiamo a investire, nella misura di 50 milioni l’anno, a sostegno di chi è in difficoltà. È vero che dopo il Covid-19 le presenze sui mezzi pubblici sono rimaste al di sotto del periodo pre-pandemico, ma il vero motivo per cui Milano prima ce la faceva sono i dividendi delle partecipate».

La Sea, società degli aeroporti di Linate e Malpensa controllata al 54,8 per cento dal Comune, ha smesso di spartire utili dall’esercizio 2018 e il bilancio 2021 segnala un debito verso gli azionisti per 85 milioni di dividendi straordinari non versati dal 2019. Il gettito di utili dalla multiutility dell’energia A2a, dove palazzo Marino ha il 25 per cento a pari quota con il Comune di Brescia, è sceso. Atm è in deficit men-

Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, detto Beppe. È stato rieletto per il secondo mandato a ottobre 2021

Foto: Nicola Marfisi / Agf
L’EX CITY MANAGER
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tre MM, che gestisce le metropolitane e il patrimonio immobiliare dell’edilizia residenziale pubblica, presenta utili in discesa. Ma non tutti sono d’accordo nell’addossare le responsabilità ai governi centrali. «Fare città costa», dice Paolo Pileri, urbanista e docente del Politecnico. «Pensare di trovare soldi attraverso nuovo consumo di suolo in affidamento ai privati è una strategia perdente. Si festeggia quando si incassano, una tantum, oneri di urbanizzazione per il 5 o il 10 per cento. Ma poi quei quartieri vanno gestiti con il denaro di tutti. Se si spendono centinaia di milioni di euro per una stazione della metro, la valorizzazione degli immobili dell’area non viene intercettata in alcuna misura dal Comune, perché l’Imu della mia prima casa è uguale a quella del Bosco verticale, benché la mia casa non valga 12 mila euro al metro quadrato. E poi ci sono i costi occulti, in larga parte scaricati sui Comuni dell’hinterland, come quelli della logistica e dello stoccaggio merci al servizio dei consumi cittadini. Se i camion continuano a entrare, le strade avranno più bisogno di manutenzione. Se ci saranno deroghe all’ingresso dei diesel Euro 5 nell’area B in nome del car pooling, chi controllerà? Il nuovo stadio sarebbe un progetto privato, ma poi bisogna spostare il sottopasso Patroclo con soldi pubblici. Ci vorrebbe un lavoro culturale sulla nuova fiscalità che il Co-

mune non sta facendo».

Forzando sul paradosso si potrebbe dire che la soluzione al caro alloggi della città è vivere in un dehors. I tavolini apparsi nell’immediato post-Covid con l’incarico di rilanciare la città attaccata dalla pandemia sono passati da provvisori a fissi nell’80 per cento dei casi. Eppure i ricavi del Comune dalle attività all’aperto di bar e ristoranti farebbero arrossire il gestore di lidi più avaro. Mentre i concessionari balneari versano

un minimo di 2.500 euro l’anno nelle casse dello Stato per lavorare pochi mesi, i ricavi dei dehors hanno portato un massimo di 3 milioni di euro nel 2019. Per il 2023 si prevede che arrivino 2 milioni. Significa che i 2.400 locali con dehors, dei quali 1.300 sono in zona centrale, pagano in media 830 euro l’anno. Per molti è l’incasso di qualche ora. Eppure è ancora troppo per l’opposizione di centrodestra che si è battuta per chiedere esenzioni totali fino a pochi mesi fa.

Senza contare che la coperta è corta. Più dehors significano qualche migliaio di posti macchina in meno e un calo dei ricavi da parcheggio. Così l’assessore al Bilancio Emmanuel Conte, figlio dell’ex ministro craxiano Carmelo, punta sulle multe (da 232 a 251 milioni di euro), sulla tassa di soggiorno (da 35 a 55 milioni di euro) e sui tagli alle corse. Difficile che bastino. Solo i traspor-

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Palazzo Marino accusa il governo: «Roma sbaglia a non investire su un’area urbana ad alta competitività».
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Intanto la città è immersa nella bolla immobiliare. E i poveri fanno la fila per il pane

Il cantiere della linea della metropolitana M4 con i nuovi treni in fase di test, nel 2019

ti hanno fatto segnare un disavanzo di 220 milioni di euro e un -20 per cento di passeggeri che si tenta di recuperare in parte con l’aumento del biglietto a 2,20 euro, entrato in vigore a gennaio con parecchie polemiche. «È abbastanza chiaro», dice il consigliere comunale di centrosinistra Enrico Fedrighini, «che se aumenta il biglietto dei mezzi pubblici bisogna disincentivare l’uso del mezzo privato. Oggi l’ingresso nell’area C, che comprende la zona più ricca di Milano, costa 5 euro. Con due persone a bordo la macchina diventa competitiva».

L’ipotesi di portare l’area C a 8,50 euro sarà messa in discussione a valle delle elezioni regionali con la prevedibile alzata di scudi delle associazioni di commercianti. Una volta erano loro a comandare a Milano. Adesso gli equilibri sono cambiati. Regnano le grandi immobiliari. Per chi non tiene il passo, c’è la fila da Pane quotidiano.

Gli italiani si fanno sempre riconoscere

Ex politici M5S al Formez. Si occupa di tante cose il Centro di formazione e studi per il Mezzogiorno, associazione di diritto privato costituita nel 1965 che ha il compito di fornire assistenza tecnica e servizi formativi e informativi soprattutto alle amministrazioni locali. Tutti lo chiamano Formez ed è sottoposto al controllo, alla vigilanza e ai poteri ispettivi della presidenza del Consiglio dei ministri – dipartimento della Funzione pubblica, che ne detiene la quota maggioritaria. A Roma, nella sede dell’Associazione della Stampa estera in Italia, Formez ha presentato il nuovo voluminoso rapporto, sottolineando il tema «del reclutamento di nuovo personale nel comparto pubblico, per rispondere ai bisogni conoscitivi degli stakeholder di riferimento». Fatto sta che i giornalisti stranieri hanno subito notato che «il presidente del Formez Alberto Bonisoli è un ex titolare del dicastero dei Beni culturali, che la ricerca sulla transizione digitale nelle pubbliche amministrazioni è a cura di Paola Pisano, già ministra per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, e che il presidente dell’Internet Governance Forum, protagonista del rapporto, è Mattia Fantinati, già sottosegretario alla Pa. E sono stati tutti del Movimento 5 Stelle». Lasciando pure un commento che fa male: «All’estero vi fate sempre riconoscere, voi italiani, e senza nemmeno uscire dalla nazione».

Tria “battezza” la Finance Law Academy di Orrick

L’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha “battezzato” la nuova edizione della Finance Law Academy di Orrick, lo studio legale internazionale che in Italia ha sedi a Milano e a Roma. Il corso universitario in Diritto bancario e finanziario coinvolgerà una cinquantina di giovani professionisti con un’esperienza lavorativa almeno biennale presso banche, istituti finanziari e large corporate e in possesso di una laurea in Economia o in Giurisprudenza. I talenti selezionati provengono da Banca d’Italia, Cdp, Intesa Sanpaolo, Tim, Snam, Crédit Agricole, Gruppo Finanziaria Internazionale, Bper Banca, doValue, Intrum e Cerved Group. Alla lectio inaugurale è intervenuto Patrizio Messina, european senior partner di Orrick. Il percorso didattico sarà articolato attraverso un ciclo di lezioni in videoconferenza, con temi quali la regolamentazione dell’attività bancaria e la gestione delle crisi, oltre all’approfondimento della disciplina nazionale ed europea delle cartolarizzazioni.

Foto: Nicola Marfisi / Agf
I CANTIERI
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Per Tajani l’elisir Farnesina

Sempre più debole, isolato nel suo partito, il titolare degli Esteri riesce a sopravvivere politicamente grazie al ministero.

Dove si muove il meno possibile ma rilascia parecchie interviste

38 12 febbraio 2023 POLITICA GOVERNO

i sono politici che posano la prima pietra, a volte neanche la posano, e ci sono politici che posano l’ultima pietra o comunque lasciano intendere ammiccanti che qualcosa hanno posato. A quest’ultima categoria appartiene il pluridecorato Antonio Tajani, il forzista moderato o moderante che ha la ventura da ministro degli Esteri di sorseggiare ogni giorno un “elisir” di eccellente, se non proprio longeva, vita politica: la Farnesina.

CAMERA

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il ministro degli Esteri Antonio Tajani sui banchi del Governo alla Camera dei deputati

La diplomazia italiana fa belli i ministri, consegna già agghindati relazioni, eventi, seminari, accordi, bilaterali, poi sta ai ministri meritarsi la bellezza e renderla duratura oppure fugace, transeunte, estemporanea come le dichiarazioni. E del ramo dichiarazioni, tuttavia, il Tajani è un esperto di livello mondiale, poiché ha rilasciato 25 interviste ai quotidiani in circa 3 mesi di governo e si è esibito, dunque pluridecorato ma anche polivalente, in politica estera, ovvio, energetica, migratoria, comunitaria, perciò alleanze, tattiche, progetti per i continenti più vicini e quelli più lontani. La scorsa settimana ha annunciato con patrio «orgoglio» il vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari che si terrà a Roma a luglio con la partecipazione di 193 Paesi e le rispettive autorità istituzionali e politiche come se avesse strappato la sede e le date in quel preciso istante. Macché.

Alle conferenze degli ambasciatori (dicembre) e sui Balcani (gennaio) ha esposto (ostentato?) ai ministri e pure alla presidente Giorgia Meloni la sua esemplare immersione nei meccanismi della Farnesina. Ha addirittura accompagnato i colleghi ministri di Turismo e Sport a una manifestazione di semplice «avvicinamento» (mancano sette mesi!) alla Ryder Cup di golf che fu assegnata all’Italia nel 2015 (sette anni fa!): «Lavoriamo a una strategia sulla Ryder Cup che si svolgerà a Roma in autunno. Vogliamo accendere i riflettori sull’Italia - ha detto dopo una riunione con Daniela Santanchè e Andrea Abodi - per promuovere Roma attraverso lo sport come elemento di diplomazia. La Ryder Cup servirà a rafforzare i rappor-

ti fra Europa e Stati Uniti. L’Italia giocherà da protagonista».

Sotto la pietra, o il Tajani, c’è l’esigenza di sorreggere la claudicante carriera di partito con la brillante carriera alla Farnesina. Tajani è ministro degli Esteri, vicepresidente del Consiglio, coordinatore nazionale di Forza Italia, capodelegazione nel governo, ma è isolato e parecchio ostracizzato in Fi, rappresenta più o meno sé stesso e un antico legame con Silvio Berlusconi che il tempo (e i rivali) hanno scalfito. Nel governo non è riuscito a cooptare (va bene anche posare) un amico, non Paolo Barelli, non Raffaele Nevi, non Francesco Battistoni. È scontato che il probabile fallimento elettorale di Forza Italia alle regionali gli si abbatterà contro a urne chiuse. Qualcosa deve cedere. Ha troppo per essere così solitario. Un generale senza truppe. Per l’esattezza, Tajani è un ufficiale di complemento

Pagine 38-39: L. Santese / Cesura. Pagine 40-41: A. Masiello / Getty Images 40 12 febbraio 2023 POLITICA GOVERNO
La politica estera del Paese è saldamente in mano a Palazzo Chigi. Il ministro cerca di tenere buoni rapporti con Giorgia Meloni portando in dote le proprie relazioni con il Ppe
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dell’Aeronautica. Il papà Raffaele, origini salernitane di Vietri, era un ufficiale dell’Esercito. Un paio di cose da annotare: l’estrazione salernitana e la disciplina militare. (Alle minacce ricevute sul caso dell’anarchico Cospito ha infatti reagito dicendo:«Mi sento garantito dalle forze dell’ordine»).

Il viceministro Edmondo Cirielli, carabiniere di Nocera Inferiore che siede alla Camera da vent’anni e che si è congedato col grado di generale di Brigata, è stato presidente della provincia di Salerno. Cirielli ha un ruolo di rilievo in Fratelli d’Italia, è presidente della direzione nazionale. Non è un viceministro decorativo. Ha l’assoluta fiducia di Meloni. Ha la delega alla cooperazione internazionale. La politica estera del governo Meloni è abbastanza scolastica: fermamente aderente all’Alleanza Atlantica con la Nato e alle priorità degli Stati Uniti per coerenza storica se-

guendo l’atteggiamento mai tentennante di Mario Draghi. Nessun dubbio, a cascata, con l’Unione Europea, se non quel tentativo di ottenere successi e vendicare maltolti dopo presunti scontri muscolari a beneficio dei media e del consenso «nazionale». Il bagaglio politico di Tajani, da ex presidente del Parlamento, sono proprio l’Europa e i suoi amici nel Partito Popolare che in futuro possono servire a incipriare il volto ruvido di Fratelli d’Italia.

Le questioni energetiche e migratorie, l’Africa sono centrali per il governo Meloni. Lo dimostrano le visite in Egitto, Algeria e Libia. Alessio Nardi, finanziere generale di Divisione, è il Consigliere per la Sicurezza di Tajani e quindi per l’Africa. Nardi è il punto di contatto del ministro con Cirielli e la Farnesina per le attività su questi temi. A Raito di Vietri, comune del papà di Tajani, nel Salernitano di costiera amalfitana del viceministro Cirielli, svetta Villa Guariglia, una ex casa colonica con giardini terrazzati che la nobile famiglia ha donato alla provincia e che oggi ospita il museo della ceramica. Lì ha vissuto l’ambasciatore Raffaele Guariglia, che fu ministro degli Esteri nel governo Badoglio e senatore del partito nazionale monarchico. Il nipote Riccardo Guariglia, diplomatico da tre generazioni, a marzo su nomina di Tajani assumerà la carica di Segretario Generale della Farnesina. La carrellata di aneddoti si può concludere citando il passato giovanile monarchico di Tajani.

Oltre alle curiosità che danno ordine al caso della vita, c’è sostanza nelle scelte del ministro degli Esteri. Guariglia Segretario Generale, Francesco Genuardi Capo di Gabinetto, Francesco Maria Talò, ex rappresentante italiano a Bruxelles presso la Nato, consigliere diplomatico a Palazzo Chigi (l’ha indicato Meloni, certo, ma Tajani ha inciso) sono coerenti con il suo approccio: nessuna increspatura nella politica estera del governo, un navigare tranquillo. A settant’anni da compiere in agosto, dopo la fortunata stagione in Europa, Tajani ha ottenuto la

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consacrazione in Italia, però già vacilla, perde pezzi, è contestato nel partito. E non bastano le interviste a temprarsi. Se le tensioni in Forza Italia (e le bizze di Berlusconi) rappresentano un pericolo concreto per il governo Meloni, Tajani ne rappresenta la garanzia antirottura. È l’unico forzista al governo capace, dopo la freudiana morte del padre, ormai vista e rivista in qualsiasi ambito, di organizzare un battaglione (scusate i termini militari, però ci stanno) a difesa del governo Meloni. Non si possono biasimare coloro che adesso sogghignano pensando a Luigi Di Maio, il predecessore in molti sensi, e alla sua disgraziata «operazione draghiana»: allestita per salvare il governo, finì per accelerarne la fine.

DIPLOMATICI

La bocca della verità Marco Ulpio Traiano

L’infinita fantasia di Walter Veltroni

La fantasia di Walter Veltroni è infinita: lo ha ammesso con ironia a Manuela Moreno in un divertente servizio fake su un «romano che tornato a casa dal lavoro ha trovato subito un parcheggio», trasmesso da Fiorello a “Viva Rai2!”. L’ex sindaco di Roma è in grado di inventare qualsiasi cosa, pure sul finto parcheggio dei miracoli, perché a una storia, anzi a un fenomeno culturale di massa, ha affermato di poter dedicare «una riflessione, un articolo, un documentario, un libro, un film, una canzone, un balletto, uno spettacolo d’intrattenimento». Infatti all’ex segretario del Pd il lavoro non manca: “Quando”, il suo nuovo film, sarà presentato in anteprima assoluta al Bif&st, lunedì 27 marzo al Teatro Petruzzelli di Bari, e tre giorni dopo uscirà nei cinema.

È il luogo amato da Kevin Spacey per trascorrere qualche giornata romana in assoluta riservatezza.

E qui Luca Guadagnino si ritira in una suite con terrazza per creare nuovi film. A pochi passi da piazza Farnese, il piccolo hotel De’ Ricci offre sempre sorprese: wifi eccellente e vini per i palati più esigenti, fino a 28 mila euro a bottiglia. Con lo Charade Bar che nasconde una cigar room. Ma l’offerta non può soddisfare la domanda: chi prova solo ora a prenotare per il periodo della Ryder Cup, ovvero il mondiale di golf in programma a fine settembre, non trova posto.

A differenza dell’ex grillino pentito, Tajani ha più risorse da offrire a Meloni, per esempio i suoi agganci con il già citato Partito Popolare Europeo e la quotidiana e formale sorveglianza di Forza Italia (le dimissioni da capo politico dei Cinque Stelle hanno aiutato Di Maio nel breve e medio periodo e l’hanno logorato poi quando serviva contarsi e pesarsi).

Tajani deve conciliare i voti forzisti nella sua Ciociaria e la crisi umanitaria nel Nagorno Karabakh sapendo che lo salva la Ciociaria, non il Nagorno Karabakh. Hai voglia a emanciparsi fra Europa e Farnesina. La politica se non è locale, è glocal. Anzi no: è golf. Non sai mai dov’è la prossima buca.

I frequentatori della Biblioteca del Senato della Repubblica, nella romana piazza della Minerva, ogni tanto trovano su un bancone qualche pubblicazione «a portar via», gratis: le ultime, da quando a palazzo Madama come presidente c’è Ignazio La Russa, sono le opere di Amintore Fanfani. Qualche titolo? “La Dc e la svolta degli anni ’80”, “L’indebitamento estero dei Paesi in via di sviluppo: situazioni e prospettive”. E un preziosissimo testo come “La doctrine de Smith, la critique de Marx et la crise actuelle”.

Una domenica a tutta birra. “Tutti pazzi per il rugby”: questo il titolo del servizio andato in onda nel Tgr Lazio di Rai3 per descrivere la gioia dei tifosi. Sì, perché allo stadio Olimpico è andata in scena la partita d’esordio dell’Italia nel torneo Sei Nazioni. Iniziano le interviste e sui cappellini con il logo dello sponsor viene realizzato «l’effetto pixelato» per non far riconoscere il brand. Ma non dura a lungo: quando tutti hanno già intuito il nome dell’azienda, ecco apparire in assoluta libertà la scritta «Birra Peroni».

scrivete a laboccadellaverita@lespresso.it

Foto: Alamy, Agf 42 12 febbraio 2023 POLITICA GOVERNO
Francesco Maria Talò. A sinistra: Riccardo Guariglia
ABBONAMENTO ANNUALE CARTACEO 52 NUMERI + LA GUIDA “Cioccolato - 100 Eccellenze italiane” a soli Telefono: 0864256266 | E-mail: abbonamenti@gedidistribuzione.it | ilmioabbonamento.gedi.it ABBÒNATI QUI UN ANNO IN FILA Il mistero del ragazzo italiano morto in una prigione francese GIUSTIZIA Putin cancella la storia. La denuncia della Nobel Irina Scherbakowa UCRAINA numero 5 - anno 69 5 febbraio 2023 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco ovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra 4,70 Fratelli coltelli d’Italia. Con Meloni al governo il partito litiga e sbanda POLITICA Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco ovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra 4,70 numero 4 - anno 69 29 gennaio 2023 Abbonandoti a L’Espresso entro il 18/02/23 riceverai in esclusiva La guida de L’Espresso “Cioccolato - 100 Eccellenze italiane”. Il regalo intelligente per San Valentino! La guida definitiva sul prodotto principe della festa dell’amore €59,90 SCONTO 73% € 223,00 Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27/02/04 n.46) art.1comma 1-DCB Roma Austria Belgio Francia Germania Grecia Lussemburgo Portogallo Principato Monaco ovenia Spagna 5,50 C.T. Sfr. 6,60 Svizzera Sfr. 6,80 Olanda 5,90 Inghilterra 4,70 2 68 15 gennaio 2023 L’ITALIA DI DOMANI

Cambio anch’io Liturgia da spot

Aessere Lewis Carroll, sarebbe tutto più facile: potremmo dire, come fa l’autore di “Alice nel paese delle meraviglie” nella “Canzone del giardiniere pazzo”, di aver incontrato un serpente a sonagli che parlava in greco antico e che era già a metà della prossima settimana. I programmi dei candidati alle elezioni regionali sono in parte come il serpente di Carroll: si pongono «a metà della prossima settimana» e dunque insistono su un futuro da riconquistare, ma hanno qualche problema con il greco antico, e questo non ha niente a che vedere con la discussione recente sul liceo classico ma con la capacità di saper narrare esperienza e progettualità. Il giudizio non è politico ma, appunto, narrativo e riguarda il modo in cui le proprie intenzioni vengono raccontate, sia che quel modo sia prolisso (l’equivalente di 28 cartelle fitte per Attilio Fontana, candidato del centrodestra per la Lombardia) o volutamente sintetico come quello di Mara Ghidorzi, candidata per Unione Popolare nella stessa regione, sia che sia dotato di accattivanti finestrelle web (Pierfrancesco Majorino, candidato della sinistra e del Movimento 5Stelle) o di efficienti icone (Letizia Moratti, Terzo polo), sia che rassicuri sul fatto che il candidato è «uno di noi» (Alessio D’Amato, centrosinistra nel Lazio) o che prometta di «ripartire dalla persona» (Francesco Rocca, candidato centrodestra), o di portare «aria nuova» (Donatella Bianchi, Movimento 5Stelle), o di cambiare rotta, passo e facce (Rosa Rinaldi, Unione popolare).

Sembrerà strano cercare qualcosa che unisca programmi che per forza di cose devono essere diversi, eppure quel qualcosa c’è: per cominciare, la sindrome di Estragone (che in “Aspettando Godot” di Samuel Beckett aveva quel problemino con le scarpe, tanto da far esclamare a Vladimiro: «Ecco gli uomini! Se la prendono con la scarpa quando la colpa è del piede»). In parole povere significa che tutto quel che è avvenuto prima è

È

del

da attribuire agli altri: il che in certi casi può essere vero, ma non sempre (perché, a ben vedere, si era comunque presenti e attivi quando quelle colpe venivano commesse). In secondo luogo, e qui andiamo sul facile, si cerca di dire quel che si presume l’elettorato desideri: e dunque si parlerà moltissimo di sanità e di case in Lombardia e di trasporto pubblico e sicurezza sulle strade a Roma, per esempio. Dettagli (ma non troppo): Letizia Moratti indica la famiglia come «insostituibile ammortizzatore sociale, i cui compiti di cura, educativi e di sostegno economico non possono essere demandati ad altri, se non a costi elevatissimi per la collettività». Parole molto simili si trovano nel programma di Francesco Rocca: famiglia come una «rete di tutela, un ammortizzatore sociale, una scuola e un’officina di cittadinanza, un’impresa sociale solidale e produttiva» (sì, è citatissima, ma come si fa a non citarla di nuovo? Margaret Thatcher: «La società non esiste, esistono le famiglie»).

I nomi però sono diversi: i punti dei programmi si chiamano, per Attilio Fontana, «pilastri», in numero di sei, dunque il doppio dei pilastri scelti dal Pd alle ultime elezioni politiche (anche in questo caso si può evocare Ken Follett col romanzone su Thomas Becket, “I pilastri della terra”, ma a Enrico Letta non ha portato benissimo), per Moratti sono approfondimenti tematici

POLITICA LE ELEZIONI REGIONALI
la settimana
voto in Lombardia e Lazio. Viaggio, letterario, nelle promesse e nelle intenzioni. Dalla casa alla sicurezza.
Dalla sanità ai trasporti. Tra orgoglio e vanità
44 12 febbraio 2023
LOREDANA LIPPERINI

(undici), per D’Amato bandiere (cinque). Gli slogan hanno ancora una volta diverse affinità, specie nel concetto più usato, cambiare: «La Lombardia cambia» (Majorino), «Per un futuro semplice: ripartire, insieme» (D’Amato), «Direzione futuro» (Rocca), e i già citati «Un’aria nuova» (Bianchi) e «Cambiare rotta, cambiare passo, cambiare facce» (Unione Popolare).

MANIFESTI

Propaganda elettorale per le elezioni regionali in Lombardia

Ora, il cambiamento è faccenda che si evoca spesso. Non solo dalla campagna elettorale di Bill Clinton del 1992, ma dai tempi di Ovidio e delle “Metamorfosi”: «Nulli sua forma manebat», anche se a ben vedere sotto la corteccia dell’alloro c’è pur sempre la fuggitiva Dafne, e questo potrebbe indurre al sospetto che sotto il velo ammaliante del cambiamento si rischia di rimanere identici nella sostanza. Ma non tutti gli slogan parlano di mutazione. Fontana, per esempio, sceglie la parola «orgoglio», e per l’esattezza, «l’orgoglio di fare». Coraggioso: l’accento è sul «fare» e dunque sull’efficienza, ma l’orgoglio è pur sempre luciferino, anche se Jane Austen ha avuto parole in sua difesa: «L’orgoglio si riferisce più all’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità a quella che si vorrebbe che gli altri avessero di noi». Anche qui c’è un’affinità: per l’esattezza con Letizia Moratti, che ha come slogan «Concreta, dinami-

ca e tenace come la Lombardia». Anche la concretezza è faccenda complicata: la frase «risposte concrete a problemi concreti» ha attraversato diversi lustri di campagne elettorali. Ma qui si fan le pulci alle parole, si dirà. Per forza, i programmi di parole sono fatti. Però come sarebbe bello che per una volta si rispondesse come fece Italo Calvino in un’intervista per Rai Tre di Alberto Sinigaglia e di Bruno Gambarotta, che in anni lontanissimi gli chiesero cosa avremmo dovuto portare con noi nel 2000. Intanto, disse Calvino, avremmo dovuto «imparare molte poesie a memoria; da bambini, da giovani, anche da vecchi», e poi fare operazioni di matematica (per essere concreti, appunto). Infine, «ricordarsi sempre che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all’altro». Pensate un programma così, che effetto farebbe. Perché in fondo a questo servono i libri: a riportare alla nostra memoria quante cose passano, e quante, per fortuna, restano.

Foto: Duilio Piaggesi/Fotogramma
12 febbraio 2023 45

Con Calderoli una Brexit all’italiana

DIEGO ROVETA*

Il

Autonomia

Roberto Calderoli, l’eminente riformatore pirotecnico della semplificazione legislativa, ha nuovamente colpito con il provvedimento dell’Autonomia regionale differenziata, approvato dal governo. In pochi mesi le elaborazioni dei livelli ottimali delle prestazioni pubbliche, che gli svogliati perditempo non hanno fatto nei decenni scorsi, ormai emarginati dai governanti del “fare” e da una granitica maggioranza parlamentare. La dovuta organicità nell’affrontare le modifiche costituzionali è raggiunta con il connesso presidenzialismo. In pratica, un colpo al cerchio del presunto decentramento ed uno alla botte della centralizzazione del potere decisionale. Il nostro Stato bistrattato ha in sé forza inusitata e inossidabile solidità se resiste ai roboanti processi di riforma messi in atto nei due decenni, tra i quali, una parte del Titolo V e la soppressione delle Province: un equivoco di portata storica. Di recente la riduzione in fretta e furia dei parlamentari senza curarsi degli effetti sul bicameralismo perfetto e millantando falsi risparmi di spesa.

Naturalmente, le opposizioni annunciano dure battaglie parlamentari e ciò avverrà con determinazione, tuttavia il quadro istituzionale regionale vive nell’imbarazzo tra chi aveva lanciato il sasso per poi nascondere la mano, chi sogna un ampliamento del regime di statuti speciali, chi pensa che nulla cambierà e, naturalmente, uno Stato centrale che torna decisivo nel governo del Paese Arlecchino. Si percepiscono i gemiti di chi vorrebbe ripartire dai territori, così

pensano alcuni sindaci che fan questo di professione e l’Anci, ma la politica evita accuratamente di compiere un’analisi implacabile della realtà del Paese, delle sue macroaree territoriali alle prese con mutamenti identitari socialmente rilevanti, piuttosto che con lo stato semicomatoso dei piccoli Comuni italiani.

Una visione organica dovrebbe prima comprendere la fragilità del rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione, dai più vicini enti locali e, via via, con quelli regionali e organi statali periferici. Da non trascurare funzioni e servizi pubblici di amministrazioni e poteri dello Stato. Attestiamo questa precarietà con la drammatica astensione elettorale dalle molteplici origini: le inefficienze della pubblica amministrazione, l’evanescenza dei partiti, la crisi economica che ha peggiorato le condizioni di vita di moltissimi, la sfiducia verso il futuro, immaginato come peggiore del recente passato.

POLITICA LE RIFORME
progetto di
differenziata rischia di smontare pezzi di Stato e dare vita a nuovi mostri. Potremmo presto pentircene. Come è capitato agli inglesi
46 12 febbraio 2023

Cominciamo con il dire che il tessuto connettivo del Paese reale sta in capo ai Comuni, anzitutto ai piccoli, il 70 per cento del totale, dove vive il 30 per cento della popolazione, tanti sotto i 1.000 abitanti, che perdono popolazione e non solo per il Covid. Gran parte del territorio italiano e del suo assetto è da questi presidiato e amministrato. Eppure soggetti alle stesse procedure generali, senza le risorse, annegano quotidianamente: ad esempio, come fa un piccolo Comune a gestire una gara di appalto europea per un’opera pubblica, senza avere un dirigente competente? E le risorse? Tolta l’entrata dell’Ici, sopravvivono con i trasferimenti decrescenti e multe da infrazioni stradali. Un vero scempio. La transizione ecologica, nella sua accezione più ampia e la messa in sicurezza del territorio, dovrebbero misurarsi con questa dura realtà a cui garantire risorse per migliorare la connettività sociale, qualità della vita, dei servizi sanitari, scuola e accesso a Internet, ecc.

Province fantasma sopravvivono in una ambiguità istituzionale che assomiglia a un labirinto. Si dovrebbero ricostituire enti elettivi di secondo livello, dotati delle competenze tecniche e giuridiche necessarie al funzionamento dei piccoli enti locali. Alle attuali Città metropolitane va tolto il piombo sulle ali, bisogna circoscriverne nuovi confini e puntare dritti al governo di area vasta cittadina dove le interconnessioni sovracomunali confinanti sono ormai decisive per il respiro dei singoli centri storici in asfissia.

MINISTRO

Roberto Calderoli guida il ministero per gli Affari regionali e le autonomie

Le Regioni. Nascono nel 1970, un ritardo nell’attuazione della Costituzione che la dice lunga sulla vecchia cultura statalista del Belpaese, con la preponderante funzione legislativa, via via scivolata per ragioni di potere verso la gestione di grandi servizi finendo per stravolgerne ruolo e mission istituzionale. Prima di differenziarne l’autonomia, smontando di fatto pezzi di Stato che non è mai pienamente riuscito nell’intento unitario, dando vita a nuovi mostri, occorrerebbe assumere sul serio la profondità delle diversità, se non altro per evitare a breve giro di rimpiangere il precedente assetto, esattamente come la Brexit in Gran Bretagna. Si potrebbero invece trovare altre soluzioni, con vere imprese pubbliche di gestione, capaci di investire, modernizzare, efficientare, badando al reale grado di meritorietà sociale raggiunto, anziché insistere ad ampliare, a prescindere, l’elenco delle competenze. Oggi si va dagli aeroporti alle fiere, dalle strade alle farmacie, dal latte al vino, quasi sempre in una perversa logica parapubblica. E i Comuni contagiati dalle strabiche multiutility pubbliche guardano più alla Borsa che ai cittadini utenti.

Serve una nuova bussola a sinistra ed una decisa iniziativa parlamentare che coinvolga l’Italia, organizzata nei suoi corpi intermedi, e gli enti locali, ma si sa: il governo deve fare e fare in fretta, salvo poi ritrattare a retromarcia, fin quando durerà la luna di miele. L’opposizione è per lo più dentro un congresso inesauribile che forse riuscirà a ridurre la sua pluralità correntizia e gli altri alla finestra ad osservare lo sconcerto.

*Con questo pseudonimo scrive per L’Espresso un ex sindaco di un’importante città del Centro Italia

Foto: Fotogramma
12 febbraio 2023 47

Il bis delle Province: 223 milioni in più per non cambiare

A volte ritornano, e non è sempre un bene. Soprattutto se tutto resta com’era. Da ente inutile e spendaccione, le intramontabili Province sono sulla rampa di lancio del Parlamento per una riedizione fotocopia. Sei disegni di legge in commissione al Senato, un consenso trasversale quasi unanime (alle proposte di FI, Lega, Fdi e Pd stanno per aggiungersi quelle di M5S e Iv) tutte mirate a ripristinare l’elezione diretta del presidente e dei consiglieri provinciali. Non certo a costo zero. Una relazione del ministero dell’Interno prevede 223 milioni di spesa aggiun-

Tutti d’accordo per rifare le province

tiva. Non sono pochi, checché se ne dica. E consistono essenzialmente nel pagamento dei futuri stipendi dei rappresentanti eletti direttamente dai cittadini. Proprio come una volta. L’obiezione sarebbe che l’abortita riforma Delrio che puntava ad abolire le Province, di fatto non ha abolito nulla visto che era agganciata alla riforma Renzi poi bocciata per referendum. Il tutto si è risolto in un limbo la cui fine è nota: oggi abbiamo 76 province nelle regioni ordinarie, 14 città metropolitane, 6 liberi consorzi (le ex province siciliane non trasformate in città metropolitane) e 4 province sarde. Un’anarchia nata sulle rovine lasciate da uno smantellamento a cui non si è sostituito un modello alternativo all’insegna dell’efficienza. Il corpo amministrativo dei vecchi involucri, nel frattempo, è passato alle Regioni. Adesso tutto tornerebbe come prima con la giustificazione che serve un organismo intermedio

Erano state abolite perché giudicate “enti inutili”. Ora ogni partito le vuole resuscitare

tra Comuni e Regioni e soprattutto la tutela dei piccoli centri. Bisogna cambiare: ma a beneficio dei cittadini o dei partiti?

La mitraglia dei decreti: 15 varati, nove approvati

In poco più di cento giorni, il governo Meloni procede a forza di decreti (15). L’impegno a ridurli, appena preso dalla premier con il presidente della Camera Lorenzo Fontana, non ha avuto il tempo di dispiegarsi. Va bene che in mezzo c’è stata l’anomalia di una legge di bilancio all’esordio. Ed è pur vero che nello stesso lasso di tempo il governo Berlusconi II aveva prodotto una raffica di 25 decreti. Come è un fatto che di fiducie l’esecutivo Meloni ne ha incassate 5, mentre il Prodi II ne contava 6. Ma il problema della legislatura è che le leggi approvate fino ad oggi sono tutte di iniziativa governativa e che l’86% di esse sono conversioni di decreti. Insomma, le Camere sono un votificio su commissione con contorno di infuocati dibattiti e connessi giurì d’onore (vedi caso Cospito).

Scricchiolii al Senato per la maggioranza: troppi in missione

A Palazzo Madama il centrodestra conta 116 parlamentari sui 206 totali (6 sono i senatori a vita). Un vantaggio netto ma non amplissimo, alla luce di più fattori. Su 15 votazioni il margine è di 37,9 voti. Sembrerebbe rassicurante. In realtà solo perché nella lista sono inclusi provvedimenti bipartisan come il fondo per la visita delle scuole ai campi di concentramento nazisti o l’istituzione della commissione d’inchiesta sul femminicidio. Ma su atti più politici i numeri cambiano: margine di 8 voti sul decreto rave, 12 sul riordino dei ministeri, 14 sull’Aiuti quater (Fonte: Openpolis). Fioccano i senatori in missione (23 sul Rave, 22 sugli Aiuti ter) nonché gli assenti per incarichi di governo. Sui provvedimenti più divisivi sarà una “chiama” con brividi.

PALAZZOMETRO
12 febbraio 2023 49

Il terreno frana E io costruisco

PAOLO BIONDANI

Sarno e Quindici (1998), Valle d’Aosta (2000), Val Canale (2003), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), poi naturalmente Senigallia (2014 e 2022) e Ischia (2022).

Sono alcune delle migliaia di zone d’Italia che, solo negli ultimi 15 anni, sono state colpite da frane e alluvioni disastrose, quelle «improvvise, rapidissime e a elevata distruttività», come le classificano gli esperti dell’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca ambientale (Ispra). Il dissesto idrogeologico è una cronica emergenza nazionale che con il cambiamento climatico diventa sempre più grave. L’Italia è per natura una nazione ad alto rischio di frane (più di un quarto del totale europeo), inondazioni, terremoti, eruzioni vulcaniche, ma da più di mezzo secolo è anche la più devastata dalla speculazione edilizia. Dal 1971 al 2021 smottamenti e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, 1.871 feriti, oltre 320 mila senzatetto. Eppure nel nostro Paese si continua a cementificare, ogni anno, più di 60 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari. Un’enorme crosta di asfalto e calcestruzzo, impermeabile, che cancella le difese naturali e favorisce il dissesto.

«Si continua a costruire in tutte le regioni perfino su terreni censiti ufficialmente come pericolosi», denuncia il professor Paolo Pileri che insegna Pianificazione territo-

PERICOLO IN CITTÀ

Le mappe di Genova e Roma elaborate dall’Ispra per L’Espresso evidenziano le costruzioni (in nero) in zone a «pericolo elevato» di frane (in marrone) e alluvioni (in blu). In rosso, i fabbricati realizzati dal 2006 al 2021

riale e ambientale al Politecnico di Milano. «L’Ispra pubblica sul sito EcoAtlante le mappe dettagliate di tutte le aree di rischio, con i diversi gradi di pericolosità per frane, alluvioni, terremoti e altro. Ma troppi enti locali ignorano questi dati e autorizzano nuove opere che aggravano il dissesto. Poi, dopo i disastri, si contano le vittime. Di questi problemi dovremmo ragionare prima, non piangere dopo».

E cosa si potrebbe fare subito? «Basterebbe applicare in tutta Italia una regola semplice: nelle aree a rischio, il consumo di suolo dev’essere zero. In tutti i Paesi più civili nessuno può costruire niente su terreni pericolosi», risponde il professore che precisa: «Le questioni ambientali sono di una scala di grandezza tale da non essere più gestibile dal singolo ente locale. Occorre un’autorità centrale, un organo tecnico indipendente, per censire e perimetrare tutte le zone a rischio e imporre vincoli assoluti, inderogabili. Per questo sono fondamentali istituti come l’Ispra».

Ampie fasce d’Italia sono minaccia-

POLITICA TERRITORIO FRAGILE
Smottamenti, alluvioni e terremoti minacciano milioni di italiani.
Ma gli enti locali continuano a rilasciare permessi. E si cementificano le aree più a rischio, perfino quelle già colpite da calamità
50 12 febbraio 2023

LEGENDA

Limiti comunali

Consumo di suolo

Suolo consumato nel

2021

Consumo di suolo dal 2006 al 2021

Pericolosità frane

Molto elevata

Elevata Media

Moderata

Pericolosità alluvioni

Elevata

Media

Bassa

GENOVA

ROMA
12 febbraio 2023 51
ISCHIA
POLITICA TERRITORIO FRAGILE 52 12 febbraio 2023
ALESSANDRIA

TRAGEDIE EVITABILI

A Casamicciola si spala il fango dopo la frana del novembre scorso. Nella pagina a fianco, le mappe elaborate dall’Ispra per L’Espresso evidenziano la massa di costruzioni (in nero) in aree ad alto rischio di frane (in marrone) e alluvioni (in blu) a Ischia e ad Alessandria: luoghi già colpiti da disastri idrogeologici. In rosso, i fabbricati realizzati dal 2006 al 2021

te da millenni anche dai terremoti, che negli ultimi decenni hanno causato migliaia di vittime dal Friuli all’Irpinia, dall’Umbria all’Abruzzo. Ciò nonostante, secondo gli ultimi dati raccolti dall’Ispra, anche nel 2021 sono state costruite nuove case, fabbriche, strade e sono stati creati nuovi parcheggi su ben 24 milioni di metri quadrati di terreni «a rischio sismico elevato» o «molto elevato», soprattutto in Campania, Calabria e Sicilia.

L’Espresso ha chiesto la collaborazione dell’Ispra per verificare la situazione edilizia in dieci luoghi simbolo già colpiti da pesanti calamità, anche più volte, negli ultimi vent’anni. Dal Nord al Sud Italia: Alessandria, Genova, Oltrepò pavese, Senigallia, Roma, area vesuviana, Sarno, Ischia, Fiumara, Messina. In queste pagine pubblichiamo quattro mappe, che evidenziano la massa di costruzioni e le aree a rischio di frane e inondazioni. I dati completi sono accessibili sul nostro sito (lespresso.it).

Le carte dei tecnici documentano che, in tutti e dieci i luoghi simbolo, le varie amministrazioni locali hanno continuato a concedere licenze edilizie, anche dopo i peggiori disastri, su terreni già classificati a livello nazionale come molto pericolosi. In particolare, nella provincia di Alessandria, nonostante le tragiche alluvioni del 1994 (70 vittime) e del 2000 (23 morti), oltre a calamità più recenti, il cemento resta il motore di una crescita insostenibile: dal 2006 al 2021 i nuovi fabbricati hanno invaso 51 ettari di terreni con «pericolo elevato di inonda-

zioni» e altri 45 mila metri quadrati ad «alto rischio di frane».

Nel fantastico gergo degli urbanisti, gli edifici collocati in zone «a pericolosità media» di inondazioni vengono chiamati «case allagabili». Nella mappa di Roma balza agli occhi la quantità di abitazioni in questa classe di rischio: migliaia di «case allagabili», realizzate anche negli ultimi quindici anni con nuove ondate di cemento, sotto giunte di ogni bandiera politica.

A Genova la crosta grigio-nera ricopre già un quarto di tutto il territorio: 5.695 ettari di cemento. In una città dove fiumi e torrenti sono stati ostruiti, intubati e ricoperti d’asfalto, per cui straripano a ogni nubifragio, oggi si contano più di sei milioni di metri quadrati di «case allagabili» e altri 3,8 con alluvioni «molto probabili». Spaventosi anche i dati sulle frane: «rischio elevato» per oltre quattro milioni di metri quadrati di immobili, «molto elevato» per altri 388 mila. Seppelliti i morti degli ultimi disastri, anche qui è ripartita l’edilizia speculativa: fino al 2021, le nuove costruzioni hanno cancellato altri 60 mila metri quadrati di verde in zone ad alto rischio di inondazioni e 110 mila nelle aree di massimo pericolo per le frane.

Se al Centro-Nord di solito si cementifica con tutti i permessi, al Sud non sempre. A Ischia, dove l’alluvione del novembre scorso ha ucciso 12 persone, Legambiente ha contato oltre 27 mila richieste di condono di abusi edilizi pendenti da decenni. Le mappe evidenziano che frane e alluvioni minacciano gran parte dell’isola. Ma l’assalto del cemento è proseguito, dal 2006 al 2021, al ritmo di 10 mila metri quadrati di nuove costruzioni l’anno.

In tutta Italia, oltre 2,4 milioni di persone vivono in case ad alto rischio di inondazioni. Sommando le zone «a media pericolosità idraulica», la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni. Le frane più gravi minacciano 565 mila abitazioni, con più di 1 milione e 300 mila residenti, e 84 mila aziende, con 220 mila dipendenti.

Foto: F. Fotia / Agf
12 febbraio 2023 53
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La lunga serie di errori del Pd sull’immigrazione

CORRADO GIUSTINIANI

La destra ringrazia

Salvataggio

Il salvataggio di un barcone di naufraghi nel canale di Sicilia

Giorgia Meloni ha ricevuto quel dono su un piatto d’argento, e si è ben guardata dal respingerlo. È così che si è tacitamente rinnovato per altri tre anni l’accordo siglato con la Libia dall’allora premier Paolo Gentiloni, il 2 febbraio 2017. Navi, addestramento, tecnologie alla guardia costiera libica in cambio di un lavoro sporco: ricacciare indietro uomini, donne e bambini che tentano di imbarcarsi nel Mediterraneo. È il sigillo più imbarazzante della politica fallimentare condotta dal Partito Democratico nel settore dell’immigrazione. Il 2017 è stato l’annus horribilis, aperto dal memorandum con la Libia e chiuso quando, il 23 dicembre, il Pd fece mancare al Senato il numero legale per la riforma della cittadinanza a favore di oltre 900 mila ragazzi nati nel nostro paese (o giunti da piccoli) e figli di immigrati regolari lungo soggiornanti. Qui i democratici conservano da trent’anni un imbarazzante scheletro nell’armadio. Perché l’allora Pds diede il suo voto favorevole alla legge n.91 del 1992 tuttora in vigore, secondo la quale un bimbo straniero nato nella nostra penisola deve trascorrervi 18 anni ininterrotti prima, non ancora di potersi dire italiano, ma di fare domanda per diventarlo. Norme che per durezza non hanno eguali nei paesi europei con i quali ci confrontiamo.

Ma non basta. Il 16 di novembre, sempre di quel 2017, il governo guidato dal Pd assisteva distratto all’approvazione, da parte del Parlamento Europeo, di una riforma totalmente favorevole all’Italia del cosiddetto “Regolamento di Dublino”, che impone al primo paese dove i migranti sbarcano di farsi carico di tutte le richieste di asilo. Con le nuove regole vi sarebbe stata invece una redistribuzione delle domande in base ai legami personali del richiedente asilo, alla popolazione e al Pil di ciascun paese. Bisognava cogliere la palla al balzo, intestarsi questa prima vittoria e spingere verso il traguardo finale, e cioè il voto vincolante del Consiglio dell’Unione Europea. Nulla di tutto questo venne fatto e la riforma si arenò. Da allora a oggi la battaglia del Pd sull’immigrazione si è limitata ad un pigro e ripetuto slogan: “Bisogna eliminare la legge Bossi Fini”.

Progetto oltretutto irrealistico, viste le forze in campo. Occorreva invece concentrare gli sforzi su singoli punti, per sperimentare, ad esempio, un “permesso di soggiorno per ricerca di lavoro”, della durata di un anno, in cambio di precise garanzie finanziarie rese dall’immigrato. Il Testo unico sull’immigrazione impone infatti che si varchino i nostri confini con il contratto già in tasca. Circostanza irrealistica, perché nessuno mai ti assumerà senza averti prima visto all’opera. Ed è così che si alimentano impieghi irregolari e successive sanatorie. Ma per questa soluzione, far incontrare domanda e offerta di lavoro alla luce del sole, il Pd in tutti questi anni non ha saputo battersi, avallando per giunta, nei governi che ha guidato con Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, “decreti flussi” non superiori ai 30 mila ingressi l’anno, dedicati in gran parte al lavoro stagionale e assai poco a quello subordinato, di cui imprese e famiglie, nell’Italia dell’invecchiamento e del crollo demografico, avvertono un acuto bisogno. Urge un rapido ravvedimento. Di più, un cambio di pelle.

Foto: Sopa Images / Agf L’INTERVENTO POLITICA
Non solo l’accordo con la Libia. Non aver sostenuto la riforma degli accordi di Dublino. E il mancato appoggio allo “Ius soli”. Una politica imbarazzante.
12 febbraio 2023 55

Inferno Cpr Dove muore l’umanità

MARIKA IKONOMU, ALESSANDRO LEONE e SIMONE MANDA*

Gli ho detto di venire a casa mia, ha risposto che sarebbe venuto. Poi io sono andato in quella direzione, verso il lavoro, e lui ha preso la strada per Ventimiglia. Non l’ho più sentito». Amadou Diallo racconta il suo ultimo incontro con Moussa Balde, dall’incrocio dove si sono visti per l’ultima volta. Per alcuni anni, i due ragazzi guineani hanno condiviso tutto, casa, quotidianità, aspirazioni, paure, fino a diventare «gemelli». Diallo si trovava già da un anno in Italia, quando Balde è arrivato al Centro d’accoglienza di Imperia. Lo descrive come un ragazzo positivo, amante del calcio e del divertimento. Faceva volontariato in un’associazione che aiutava le persone con disabilità ed era riuscito a trovare lavoro in una cooperativa di Bordighera. Anche quando Diallo si è trasferito a Sanremo, Balde andava a trovarlo e spesso restava da lui a dormire. Per tre anni ha aspettato l’esito della domanda di asilo, poi però ha deciso di andare in Francia. Rientrato in Italia, non sembrava più lo stesso.

che la legge assicura alle vittime di reati violenti. Da quel momento lui è tornato a essere un invisibile, un irregolare, un clandestino», spiega Gianluca Vitale, avvocato della famiglia Balde.

Migrante

Diallo ha di nuovo sue notizie da un video che fa il giro del Paese e che riprende un evento avvenuto il 9 maggio 2021: Balde viene picchiato violentemente con un tubo di metallo sul corpo e sul viso da tre ragazzi, Ignazio Amato, Francesco Cipri e Giuseppe Martinello, mentre chiede l’elemosina di fronte a un supermercato di Ventimiglia. Il video arriva anche agli aggressori, che, dopo essersi riconosciuti, si presentano in Commissariato sostenendo di essere stati derubati. «Nessuno si è preoccupato di offrire a Moussa le garanzie

Lo scorso 10 gennaio si chiude il primo capitolo della vicenda giudiziaria. La giudice del Tribunale di Imperia, Marta Maria Bossi, condanna Amato, Cipri e Martinello a due anni per lesioni, riconoscendo le attenuanti generiche. La sentenza viene accolta con favore sia dalla parte civile sia dalla difesa. Il risarcimento del danno, inoltre, viene portato dai duemila euro già corrisposti a tremila. L’aggravante dell’odio razziale, però, non era stata contestata. Ma la storia di Balde non termina con il pestaggio. In ospedale il ragazzo guineano resta per poche ore, prima di finire nelle celle di sicurezza del Commissariato di Bordighera, poi in Questura a Savona. Qui, una volta constatata la sua irregolarità, gli viene notificato un decreto di espulsione. Il giorno dopo viene rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino e

POLITICA
LA DENUNCIA
irregolare, Moussa Balde finisce nel Centro di permanenza per i rimpatri di Torino dopo un pestaggio.
Lì, abbandonato a sé stesso, si toglie la vita. La famiglia chiede giustizia
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messo in isolamento nell’Ospedaletto della struttura. Lì, nella notte tra il 22 e il 23 maggio, si toglie la vita.

Al Cpr nessuno tiene conto della situazione psicologica di Balde, viene esaminata solo la sua condizione fisica. Dopo la visita del medico dipendente dell’ente gestore, all’epoca Gepsa, viene dichiarato idoneo alla vita in quella comunità. L’ente sosterrà poi di non sapere che Balde fosse vittima del pestaggio. «Strano, perché era stato portato da Ventimiglia con un certificato medico. Mi auguro che attestasse l’aggressione subita», sottolinea Vitale. È la prima cosa, infatti, che Balde dice all’avvocato quando lo incontra: «Immagino che l’abbia detto anche quando è stato preso in carico nel Cpr». Vitale nota nel ragazzo una grande sofferenza, perché non solo era stato aggredito, «ma si trova pure prigioniero, come se la punizione dovesse toccare a lui».

I regolamenti sui Cpr del 2014 e del 2022 prevedono che la visita di idoneità sia svolta dall’Asl competente, un’istituzione indipendente. Ma in molti casi ciò non avviene.

LA ROTTA LIGURE

Una tendopoli in cui trovano riparo i migranti che cercano di arrivare in Francia, a Ventimiglia

L’ultimo protocollo d’intesa tra il Cpr torinese e l’Asl «risale al 2015, ma la visita al primo ingresso è stata fatta per molto tempo dal medico del gestore», spiega la garante delle persone private della libertà del capoluogo piemontese, Monica Gallo. Oggi, nonostante la visita «non gravi più sul medico del Centro, ma sia compito esclusivo dell’Asl», ancora non esiste un accordo su un nuovo protocollo. È lo stesso regolamento a elencare le patologie psichiatriche tra quelle «che rendono incompatibile l’ingresso e la permanenza nella struttura».

Balde non ha goduto di sostegno psicologico ed è stato anche collocato in isolamento per un’infezione della pelle, probabilmente una psoriasi scambiata per scabbia, nell’area distaccata dell’Ospedaletto. Una sezione che per il garante nazionale Mauro Palma configura un «trattamento inumano e degradante», un luogo che non è regolato da alcuna norma, privo di garanzie, di stimoli e di occasioni di socialità. Palma ne ha chiesto la chiusura, ottenuta per ordine della Procura solo dopo la morte di Balde e, ancora prima, nel 2019, quella di Faisal Hossein, cittadino bengalese di 33 anni.

Nessuno dei guineani rinchiusi nel Cpr di Torino negli ultimi due anni è stato rimpatriato: l’assenza di una simile prospettiva dovrebbe portare al rilascio immediato. Balde, invece, è stato abbandonato, «senza che nessuno si prendesse cura di lui. E questa situazione evidentemente per lui è diventata intollerabile, determinando la scelta tragica di togliersi la vita», commenta Vitale. La fa-

miglia non ha più avuto sue notizie fino alla morte. È stato Diallo ad avvertirla: «È stato molto difficile, ma era l’unica cosa che dovevo fare». Nessuno, né dall’ospedale né dal Cpr, aveva avvisato i parenti. «Nostra madre non fa che piangere», dice Thierno, fratello di Moussa: «All’inizio ci avevano detto che si era trattato di un incidente, solo dopo abbiamo scoperto che lo avevano lasciato morire». Dopo il suicidio, la Procura di Torino ha aperto un procedimento per omicidio colposo. Sono indagati la direttrice della struttura, il medico e nove poliziotti. La storia di Balde inizia con la fuga dalla Guinea, ai tempi del presidente Alpha Condé, sanzionato dagli Stati Uniti per le violenze contro gli oppositori prima del col-

Foto: M. Alpozzi –LaPresse
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POLITICA LA DENUNCIA

Simone Alliva Il caso

Su Daniel si muove il Parlamento

po di Stato del 2021. Diallo, che nel 2020 è tornato per un periodo nel suo Paese, racconta che la solitudine ha un forte impatto su Balde quando va a cercare fortuna in Francia: «Non trovava un amico come me». Vive allora di elemosina per strada. «Già a Ventimiglia palesava forti disagi psichici. Non parlava, non comunicava», afferma Vitale. Eppure, appena arrivato in Italia, Balde sembra fiducioso. In una delle prime chiamate dice alla madre: «Voglio rimanere, studiare la lingua. Cerco lavoro qui e cerco di darvi soddisfazioni». Le stesse parole le ripete aThierno durante il suo viaggio dalla Guinea all’Italia. Il fratello è il primo a sentire Moussa, quando questi è già in Libia. Dove viene imprigionato. «Non potevamo farci niente, non c’era nulla che lo convincesse a tornare». Balde richiama poi la famiglia dal nostro Paese, quando è ormai al sicuro.

«Spero che ciò che è successo a Moussa non accada ad altri. Dobbiamo chiudere questi Cpr», dichiara Thierno. Il trasferimento della salma di Moussa a Conakry, capitale della Guinea, è stato possibile grazie al Comitato Torino per Moussa. Lo stesso che ha portato Thierno in Italia per farlo assistere in ottobre all’udienza del processo di Imperia. L’avvocato Vitale ripete più volte che il Cpr di Torino è stato usato in varie occasioni dalla Questura di Imperia come una sorta di «discarica sociale». Tutte le persone che transitano da Ventimiglia per varcare il confine con la Francia rischiano di rimanere lì, bloccate in un limbo amministrativo che le rende invisibili. «Probabilmente non si arriverà a individuare tutte le responsabilità», si rammarica l’avvocato. La famiglia, però, chiede che venga fatta giustizia sia sul pestaggio sia sulla morte di Moussa. «Voglio che si rendano conto che quello che hanno fatto non è normale», aggiunge Djenabou, la madre: «È l’unica cosa che vogliamo. Aiutateci».

* L’articolo nasce dalla video-inchiesta “Sulla loro pelle”, vincitrice dell’ultima edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo under 30

Anche i lettori dell’Espresso, insieme con la famiglia, chiedono verità sulla morte di Daniel Radosavljevic, l’italiano suicidatosi in circostanze misteriose nel carcere di Grasse in Costa Azzurra. Aveva 20 anni. Dopo l’inchiesta pubblicata sul numero del 5 febbraio scorso, è stato assegnato dalla Procura di Milano l’incarico per l’esame autoptico in Italia.

Daniel Radosavljevic, il 20enne italiano trovato impiccato nel carcere di Grasse, in Francia, a gennaio

Daniel Radosavljevic era stato trovato impiccato nel penitenziario francese il 18 gennaio. Pochi giorni prima, il 15 gennaio, l’ultimo contatto con i parenti: era sereno, raccontano. La speranza nell’imminente rientro in Italia e nel futuro che sarebbe stato certamente migliore per lui, che sognava di diventare educatore minorile.

L’Espresso ha potuto visionare in anteprima la perizia psichiatrica effettuata a Grasse il 12 novembre 2022, dove si esclude la possibilità di istinti suicidi o autolesionistici. Si legge: «Non vi è alcuna indicazione per il ricovero in un istituto psichiatrico specializzato. Non ha una patologia psichiatrica che possa rappresentare un rischio imminente di disturbo dell’ordine pubblico. Non presenta un pericolo comportamentale immediato legato a un disturbo psichiatrico per sé o per gli altri».

Su lespresso.it, tra i documenti pubblicati in esclusiva, la telefonata di un detenuto che invita i familiari a investigare: potrebbero esserci delle responsabilità a carico della polizia penitenziaria. L’irruzione di una squadra antisommossa nella cella del giovane proprio nel giorno della morte. Prima ancora, i pestaggi. Il caso è arrivato anche sui banchi del Parlamento italiano: la dem Laura Boldrini ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri, Antonio Tajani. In Francia, invece, nessun dibattito pubblico, nessuna protesta o promessa: silenzio assoluto.

SUICIDIO SOSPETTO
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È

a Roma

immigrati. Una figlia d’Italia senza cittadinanza, sospesa, invisibile per legge. Perché nera. Lettera aperta alla premier da parte di chi rivendica il diritto a esistere

Cara presidente, venire al mondo non è un reato

ANNA MARIA GEHNYEI

Illustre presidente Giorgia Meloni, sono Anna Maria Gehnyei. Anche se sono nata in Italia, per buona parte della mia vita ho avuto la cittadinanza di un Paese che non avevo mai visto. Sono figlia di un’Italia che fatica ancora a riconoscermi in quanto tale. Forse perché sono nera o perché sono nata da genitori immigrati. Forse perché lei non vuole e non è ancora pronta al cambiamento. Per anni mi sono dovuta giustificare del perché sono italiana, del perché sono venuta al mondo, come se nascere fosse un reato. Come lei sa, il nostro Paese non concede la nazionalità per nascita sul territorio italiano da genitori stranieri. I figli di immigrati che, come me, sono nati in Italia mantengono la cittadinanza dei genitori poiché i principi di appartenenza nazionale in Italia sono fondati sulla linea di sangue e sulla bianchezza. Quello che forse non sa è cosa vuol dire nascere su questo suolo e non avere diritti, vivere nell’invisibilità appesi a un filo tra leggi e politiche.

Per molto tempo ho trovato insopportabile il fatto di non essere italiana anche in via ufficiale, sentivo di non poter più andare in giro bollata solo da un codice, in attesa di avere un permesso di soggiorno o la cittadinanza, né italiana né liberiana. Per anni sono stata un numero di pratica, ma quel numero non ero io, anche se finivo per identificarmici. Ricordo le file interminabili davanti all’ufficio Immigrazione. Avevo appena due anni quando una, se non due volte l’anno dovevo andare in questura a rinnovare il permesso di soggiorno. In braccio alla mamma o al papà, aspettavamo il nostro turno.

Ricordo tutte le volte in cui la maestra delle

IL LIBRO

“Il corpo nero” (Fandango Libri, 2023) è la storia di Anna Maria Gehnyei: nata a Roma da genitori liberiani, rapper con il nome d’arte di Karima 2G

elementari entrava in classe dicendo che «i figli di immigrati non arrivano lontano nella vita. Sono incapaci di studiare in quanto figli di immigrati». Il suo buongiorno era: «L’Italia è degli italiani» e non «degli immigrati che si sentono italiani». Per alcuni sono troppo nera per parlare egregiamente l’italiano, per altri sono troppo nera per essere istruita. Ciononostante partecipo alla vita politica e sociale di questo Paese. Un luogo, l’Italia, in cui il corpo nero è senza anima, un oggetto da non valorizzare o una pratica dimenticata tra gli scaffali della prefettura. Tra questi corpi sospesi vi sono bambini, ragazzi ormai divenuti adulti, scrittori, atleti e intellettuali, tutte e tutti parte del cambiamento per un futuro migliore. Sono anche loro figli dell’Italia che mira al successo e al progresso. Lei non faccia lo stesso errore della mia maestra di matematica. Mi auguro che tenga conto di quell’Italia di oggi di origine straniera, che oltre a essere il presente è anche, e sopratutto, il domani. Un patrimonio dello Stato non può trovare uno spazio umano nella legge 91 del 1992. Onorevole Meloni, l’Italia che lei governa deve poter contare su una generazione che esiste, ma che viene sepolta nell’ombra. Direbbe mai a sua figlia di non realizzare i suoi più profondi desideri o di non credere al suo talento? Di rinunciare agli studi o ai suoi più grandi obiettivi solo perché è sua figlia? Le impedirebbe di vivere a pieno i suoi diritti da cittadina?

È solo attraverso il riconoscimento sociale che una persona può affermare la propria identità, camminare nella luce verso lo sviluppo personale. Lei conosce la verità e non può negarla. Le chiedo, dunque, di porre fine a questa guerra sottile contro i figli di immigrati. Non credo sia diversa da molte altre guerre. Un essere umano ignorato è come un figlio abbandonato, forse ucciso alla nascita. Con i migliori saluti.

Foto: E. Cremaschi –GettyImages IUS SOLI POLITICA
nata
da genitori
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Polizia razzista riforma difficile

MANUELA CAVALIERI e DONATELLA MULVONI

L’urgenza è quella di onorare un debito mai estinto con la comunità afroamericana. Memphis si impegna a farlo oggi. Dalla città in cui cinquantacinque anni fa veniva ucciso Martin Luther King e con lui il sogno di uguaglianza, sono partite lo scorso gennaio le proteste per la morte di Tyre Nichols. Ventinovenne, disarmato, fermato per un presunto eccesso di velocità, pestato da cinque agenti afroamericani come lui e morto dopo tre giorni di agonia. Ora gli attivisti sperano che l’indignazione montata dopo la diffusione del video delle violenze, costringa il Congresso a mettere mano ad una riforma nazionale che cancelli la vergogna degli abusi della polizia sulle minoranze.

«Il sogno di Martin Luther King non è morto, anzi lo stiamo costruendo. È un impegno costante affinché le speranze, contenute nel suo discorso “I have a dream”, si realizzino», assicura dalla sua casa di Memphis, Amber Sherman, attivista di Black Lives Matter, una delle voci prominenti delle manifestazioni. «Le rimostranze della gente che per mesi inondò le strade americane quando nel 2020 furono uccisi Breonna Taylor e George Floyd non sono state vane. Portarono alle politiche che oggi hanno permesso di licenziare immediatamente gli agenti coinvolti (poi accusati di omicidio di secondo grado)».

In un’America già scossa, alla rabbia per la morte di Nichols si è aggiunta quella per l’uccisione del trentaseienne nero Anthony Lowe, disabile con entrambe le gambe amputate, freddato in uno scontro il due febbraio in California con diversi colpi di pistola.

Violenza e razzismo delle giubbe blu turbano anche i sonni dell’inquilino del-

Dopo i

la Casa Bianca. Joe Biden, incolpato dalla comunità nera, e persino da molti alleati, di tenere un comportamento troppo prudente, sente di dover giocare ogni carta per spingere il Congresso ad approvare una legge di riforma della polizia.

Il presidente democratico, che potrebbe presto annunciare la sua ricandidatura alle elezioni del 2024, non vuole deludere la comunità nera (dimostratasi fedele nella scorsa tornata), ma neanche far mancare il suo sostegno alle forze dell’ordine a cui non ha mai tagliato i finanziamenti.

Forti pressioni arrivano dal Black Caucus, il gruppo trasversale dei parlamentari afroamericani. A loro Biden ha assicurato l’impegno per un’azione legislativa che la vicepresidente Kamala Harris, prima nera a ricoprire questo ruolo, aveva definito «non negoziabile» intervenendo ai funerali di Nichols.

In verità i democratici ci avevano provato nel 2020 e nel 2021 con il “George Floyd Justice in Policing Act”. Il disegno di legge - che tra le altre cose prevedeva l’incremento dell’uso delle videocamere indossabili e la creazione di un database nazionale per gli agenti che si macchiano di cattiva condotta - non è mai passato al vaglio del Senato. Il presidente ha potuto quindi solo firmare un ordine esecutivo, che però non risolve il problema.

«Per una legge federale ci vorrà del tempo - spiega ancora Sherman - I democratici non hanno ancora i voti necessari. Per questo, intanto, ci battiamo per

POLITICA STATI UNITI
recenti omicidi il presidente Biden non vuole deludere la comunità afroamericana.
Ma nemmeno inimicarsi gli agenti. E al Congresso non ha la maggioranza
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un cambiamento a livello locale. Ad esempio, la fine dei fermi stradali pretestuosi e dell’uso eccessivo della forza. Stiamo vivendo un momentum che non dà segni di rallentamento».

PROTESTE

Manifestazioni di protesta a Oakland dopo l’uccisione di Tyre Nichols da parte della polizia

Ad alimentarlo è lo sdegno per l’ennesimo attacco fatale avvenuto, come dice Jelani Cobb sul New Yorker, ancora una volta sotto gli occhi di milioni di testimoni indiretti.

«I telefoni cellulari e le telecamere indossate dagli agenti hanno consentito di fare molti passi avanti». E nessuno può dirlo meglio di John Burris, leggendario avvocato per i diritti civili. Nel 1991 rappresentò l’afroamericano Rodney King, picchiato selvaggiamente dalla polizia di Los Angeles. Le immagini del pestaggio, riprese casualmente da un videoamatore, divennero virali provocando proteste violente in tutta la nazione. «Il caso King fu uno spartiacque per l’opinione pubblica. Mostrò a tutti la brutalità della polizia. Era difficile da accettare perché le persone non l’avevano mai vista prima», ricorda con noi il legale dal suo studio di Oakland, in California.

Burris, che tra i clienti illustri ha vantato anche Tupac Shakur, naviga da anni fra le trappole del razzismo sistemico. «La giustizia funziona a due livelli, uno per afroamericani e ispanici, l’altro per i bianchi. E in questo sistema i neri sono trattati con più durezza. Non importa se giudici e procuratori neri siano aumentati.

Il sistema è il sistema. Ed è intrinsecamente basato sulla razza».

Nonostante i bianchi vengano uccisi in numero maggiore dalla polizia, i neri e le minoranze sono colpiti in modo sproporzionato. Gli afroamericani rappresentano il 13,4% della popolazione, ma sono coinvolti nel 22% dei casi in cui si verifica un’azione letale delle forze dell’ordine. Un dato che non tiene conto però di una realtà più complessa e quotidiana che include pestaggi e fermi non giustificati, anche quando non si registrano morti.

Il problema non è solo l’addestramento delle forze dell’ordine. «È la cultura nei dipartimenti ad essere determinante. Gli agenti del caso Nichols erano afroamericani come lui. Una volta entrati in polizia, l’unico colore che conta per loro è il blu, quello della divisa».

Burris è comunque ottimista, crede che un cambiamento sia possibile. Le sue speranze sono riposte nella nuova leva di attivisti e di avvocati per i diritti civili. «Il mio compito oggi è aiutare i giovani a fare la differenza. Si tratta di una lotta continua. W.E.B. Du Bois diceva che il 10% di noi deve prendersi cura dell’altro 90%. È una responsabilità».

Foto: Getty Images
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I sabotatori del 41 bis Dall’interno

ENRICO BELLAVIA

Il portone della cella, sbarrato dalle 22 alle 7 in estate e dalle 20 in inverno. L’interruttore della luce, fuori, in corridoio. Libri centellinati e dalla biblioteca interna, mai più di uno, quattro se si studia. Ci sarebbe il dvd, a proprie spese, ma solo per leggere cd e mai la notte. L’abbonamento ai giornali, senza edizioni locali: potrebbero veicolare messaggi. E anche la tv ha un menu bloccato. La radiolina, solo in modalità Am. A passeggio nel cubicolo per due ore al giorno e una di attività fisica o socialità. Ovvero lo svago, al massimo con altri quattro detenuti: un mazzo di carte, qualche gioco da tavolo nell’area comune. Il computer, quando c’è, sta lì. Doccia due volte a settimana, tranne che per i superboss che l’hanno in cella. Il getto, equanime, dura però dai tre ai sette minuti. Una visita dei parenti al mese, dietro al vetro, e per un’ora. Neppure quella, se si opta per una telefonata di dieci minuti. Controllata come i colloqui. Il pacco con viveri e biancheria, al massimo dieci chili.

Nato per interrompere i legami tra i boss e l’esterno è diventato una pena accessoria esemplare. Con contorno di abusi e situazioni kafkiane. Come la bolgia sul caso Cospito

Più che duro doveva essere blindato. Impermeabile dall’esterno, a compartimenti stagni all’interno. Questa era l’intenzione di chi immaginava un carcere che, nel recinto della Costituzione, fosse in grado di interrompere il circuito di informazioni tra affiliati a mafia e terrorismo. Niente notizie, niente ordini, niente pizzini, nessun contatto fisico tra detenuti e familiari. Poche interazioni e mai tra componenti di uno stesso clan o di clan alleati. Controlli rigorosi, ascolti, telecamere e gli occhi degli agenti a scrutare ogni mossa e a memorizzarla.

Il 41 bis, la norma dell’ordinamento penitenziario massicciamente applicata dopo

l’orrore degli eccidi del 1992-1993, salvo alcuni episodi, ha realizzato quell’obiettivo. Lo ha mancato quando l’ordine di uccidere passato dalle maglie dei rigori ha colpito gli stessi agenti della polizia penitenziaria. Ha contribuito a stroncare la dittatura corleonese, ha poi spezzato la catena di proselitismo delle rinnovate Br. Ha scongiurato altro sangue. E alimentato un patrimonio di informazioni su quel che covava sotto la cenere. Perché il carcere è da sempre lo specchio di ciò che avviene nell’universo delle cosche. Voci di dentro, che la reclusione amplifica, segnali che, se colti, anticipano i tempi. Ma il 41 bis si è trascinato dietro anche una quantità di danni. In larga parte evitabili. Perché non la norma ma la sua applicazione, la prassi e la discrezionalità, fatta di circolari ministeriali, regolamenti carcerari, provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, hanno generato disparità, abusi, interventi estemporanei, fino a farne un surplus di pena, al limite della tortura. In un impasto di pressioni

POLITICA CARCERE E LEGGE
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psicologiche e situazioni kafkiane. L’albo dei ricorsi ne è pieno. Friggere melanzane due ore prima del pranzo è violazione da punire. Da fuori, sì alle patate al forno ma niente pollo. Per le dodici donne su un totale di 738 ristretti al 41 bis (nel ’93 erano poco di più di 500) c’è il limite al numero di assorbenti: tre. La nipotina alla quale è stato concesso di abbracciare il nonno per dieci minuti oltre il vetro ha però scartato una merendina. Il rumore ha coperto la registrazione e la circostanza è finita in una nota. La lista dei generi acquistabili a Opera è una, a L’Aquila cambia. Anche il numero di mollette da bucato è ballerino. Una o dieci da un carcere all’altro. E la risposta al ricorso contro l’applicazione del 41 bis (4 anni, poi estesi di biennio in biennio) arriva anche dopo che è stata confermata la proroga. E si ricomincia.

Il sistema che si arrabatta tra organici carenti, strutture fatiscenti e sovraffollate, lungaggini burocratiche e giudiziarie, non trova certo lì il proprio riscatto.

PIANOSA

Il supercarcere dell’isola di Pianosa, chiuso nel 1998

In nome di successi innegabili, poi, ci sono le violenze, tollerate, talvolta negate fino all’insabbiamento, relegate a una sorta di metaverso abitato solo da garantisti e pochi legali. Come Rosalba Di Gregorio, che da avvocato di fede radicale non ha taciuto. Non lo ha fatto quando il falso pentito della strage Borsellino, Vincenzo Scarantino, incubato proprio nell’inferno di Pianosa degli anni ’90 diventò l’accusatore eterodiretto che ha lasciato in cella per 25 anni sette ergastolani innocenti. Era il tempo delle irruzioni notturne delle temibili squadrette, dei soprusi, delle perquisizioni corporali a familiari e detenuti anche molto invasive. Del «pèntiti o marcisci qui dentro» e giù calci e vessazioni. Di Calogero Ganci, rampollo dei Corleonesi raccontarono che non sopportasse quella galera. Da pentito confermò: «A Pianosa i detenuti erano massacrati di botte. Il cibo arrivava con gli stessi carrelli della spazzatura». Da allora molto è cambiato, l’Asinara e Pianosa chiuse, alcuni correttivi introdotti ma sul rispetto rigoroso dello spirito del 41 bis bisognerebbe stare attenti a non deragliare. Tanto più adesso, di fronte al digiuno di Alfredo Cospito. Con trent’anni da scontare, fino a qualche mese fa poteva pubblicare sulle riviste anarchiche. Con il cambio di imputazione si è ritrovato al 41 bis. Quando forse sarebbe bastato lasciarlo nell’alta sicurezza censurandogli la posta.

Sostanzialmente indifferente ai tormenti penitenziari che non hanno grande appeal, neppure quando il numero dei suicidi dietro le sbarre raggiunge il numero di 84 in un anno, la giustizia da talk show replica il cliché. Richiama in servizio buonisti e manettari che oscillano tra Parlamento e salotti tv. E dà il via alla bolgia. Perfino l’ovvio, e cioè che i mafiosi guardano con favore alla battaglia di Cospito, anziché rafforzare la convinzione di attenersi al dettato della norma ed evitare derive indiscriminate, diventa terreno di speculazione politica d’accatto. Perché per difendere la bontà di uno strumento ritenuto essenziale bisognerebbe preservarlo dalle storture. E la vicenda dell’anarchico, con il suo boomerang mediatico, sembra andare nella direzione opposta, quella afflittiva, quasi una pena accessoria. Esemplare. Che la natura del 41 bis non ha. O non avrebbe mai dovuto avere.

Foto: E. Scalfari –Agf
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he lezioni si possono ricavare dal lungo sciopero della fame contro il 41bis e l’ergastolo ostativo di Alfredo Cospito, esponente della rete anarchica informale, responsabile di gravi reati di violenza? La prima è la superficialità con cui un detenuto, da nove anni nel circuito dell’Alta sicurezza, è stato spostato nel regime riservato ai componenti delle organizzazioni criminali.

È bastata la richiesta di una Procura generale per mettere in moto un meccanismo che lo ha equiparato a un capo di una struttura stragista con una catena di comando rigida e inflessibile. Con Cospito

Il prigioniero non dispone che del corpo

al 41bis si è fatto risorgere il fantasma del terrorismo e si è arrivati al ragguardevole numero di 738 rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza (il 40 per cento appartenenti alla Camorra, Cosa Nostra si attesta sul 28 e la Ndrangheta al 22). La seconda lezione: la decisione assunta con la legge 279 del 2002 di rendere permanente il regime speciale – che in precedenza era confermato ogni anno con una discussione in Parlamento – dovrebbe obbligare a una verifica rigorosa delle applicazioni concrete affinché siano funzionali alla motivazione originaria di rompere la catena di comando e degli specifici trattamenti previsti da circolari o prassi, affinché non siano contrari allo Stato di diritto. Le limitazioni circa il vitto, il possesso di libri e giornali, l’ascolto di radio e musica, l’esposizione delle foto di parenti, la presenza di agenti nei colloqui con il medi-

co, rappresentano pure vessazioni e si avvicinano pericolosamente al confine della tortura.

La terza lezione viene dalla scelta di Cospito di ricorrere allo strumento classico della non violenza, lo sciopero della fame, rendendo protagonista della vicenda il suo corpo, centrale nella detenzione. Il corpo privato della libertà ma anche di altri diritti fondamentali a cominciare da quello della sessualità, il corpo troppo spesso percosso e segnato dall’autolesionismo, il corpo ridotto a contenitore di psicofarmaci: sono tante facce della materialità della galera. Quel corpo è l’unica cosa di cui il prigioniero può davvero disporre.

Di fronte a questo scenario, il governo ha immediatamente innalzato la bandiera dell’intransigenza e esplicitato l’accusa di ricatto allo Stato, bloccando di fatto ogni possibile dialogo e ricerca di soluzione. È incredibile tanta iattanza unita a pochezza, specie guardando al passato: nel 1989 di fronte a uno sciopero della fame compiuto da Sergio Segio, leader di Prima Linea, contro il rifiuto del magistrato di sorveglianza di Torino di concedere il permesso di lavoro esterno presso il Gruppo Abele, non solo si mobilitarono tanti esponenti politici e intellettuali, ma il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli incontrò una rappresentanza del Comitato di sostegno, tra cui Padre Davide Turoldo e Luigi Ciotti.

La morte di Cospito farebbe assomigliare l’Italia alla Turchia, dove nel 2020 morirono l’avvocata curda Ebru Timtik e il musicista Ibrahim Gokcek, e assisteremmo a una sconfitta del senso di umanità. Non c’è però da stupirsi, Giorgia Meloni e il sottosegretario Andrea Delmastro sono i primi firmatari di una proposta di legge di stravolgimento dell’art. 27 della Costituzione sui fondamenti della pena come pensati da Cesare Beccaria e da Aldo Moro.

L’OPINIONE
È bastata la richiesta del Pg per equiparare Cospito a un capo di una struttura stragista
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C

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INCHIESTA SANITÀ / 2

DIPENDENZA

Vittorio, un paziente del Cedis di Roma, Centro di Ricerca e Trattamento per la Dipendenza Sessuale

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DISAGIO MENTALE MALATTIA DA RICCHI

Sono sempre più numerose le persone con disturbi psichici, soprattutto giovani. Il Servizio Sanitario riesce ad accoglierne solo una piccola parte. Per gli altri restano le cure private

COMPULSIVI

La dottoressa Maria Giambù con Luca (48 anni) in cura al centro Siipac di Bolzano, specializzato in disturbi compulsivi, dal gioco d’azzardo al sesso

La cartina di tornasole della salute mentale in Italia sono le 395.604 richieste di contributo al bonus psicologo fioccate sul sistema informatico dell’Inps lo scorso autunno. In palio c’erano una cinquantina di euro per al massimo dodici sedute, pochi spiccioli per cui gli italiani hanno sgomitato. Alla fine solo una domanda ogni dieci è stata accolta - 41.657 per la precisione - e i fondi sono stati stanziati non in base alla gravità del disagio (era sufficiente un’auto-psicodiagnosi di malessere post covid per partecipare alla lotteria del bonus), ma secondo la ricchezza del richiedente. E terminate le dodici sedute? Il governo ha rifinanziato la misura con cinque milioni per quest’anno e altri otto per il 2024. Spiccioli rispetto ai 25 milioni messi sul piatto nel 2022. In estrema sintesi, da quest’anno chi ha un disagio - e non può permettersi uno psicologo privato - dovrà contattare il centro di Salute Mentale della propria zona e sperare che qualcuno disdica all’improvviso una visita, per essere ricevuti e ascoltati da un medico specialista. Più di tutto, serve tanta fortuna per essere presi in carico dall’Ssn, il Servizio Sanitario Nazionale. Circa la metà delle segnalazioni pervenute al Tribunale per i diritti del Malato a gennaio riguarda proprio il deserto sanitario della cura mentale. Qualche esempio: il centro unico prenotazione del Molise ha risposto a una madre, disperata per il grave disturbo mentale del figlio, che la prima data utile sarebbe stata fra dodici mesi. È andata a finire che la famiglia sta pagando 90 euro a seduta, tre la settimana, nello studio di un medico privato. In Emilia Romagna, un bambino con una diagnosi di alterazione globale dello sviluppo psicologico non è stato preso in carico dall’Ssn perché non c’erano centri di neuropsichiatria infantile disponibili ad accoglierlo: anche in questo caso la famiglia si è sobbarcata l'intero costo delle cure. In Liguria, i cittadini e le associazioni dei famigliari di persone psichiatriche stanno raccogliendo le firme per chiedere alla Regione di consentire anche ai medici che stanno ancora studiando per diventare psichiatri e a quelli in pensio-

ne di essere arruolati nelle aziende sanitarie del territorio, che sono talmente sguarnite da avere una media di otto camici bianchi, anziché i 26 necessari per coprire i bisogni minimi locali. I più colpiti dal disagio mentale sono i bambini e gli adolescenti: «Da alcuni anni gli esperti registrano un trend in crescita, ma la pandemia ha impresso una forte accelerazione al fenomeno», spiega Alberto Zanobini, presidente dell'associazione ospedali pediatrici italiani, Aopi, che spiega come nel suo ospedale pediatrico, il Meyer di Firenze, «nel 2018 gli accessi al pronto soccorso per problemi psichici sono stati 226, mentre nel 2022 sono saliti a 624 casi. Nell’arco di soli quattro anni l'incidenza è triplicata. Il problema più frequente è quello dei disturbi alimentari, in crescita anche i casi di autolesionismo e i sintomi ansiosi. Occorre un’attenzione speciale da parte delle istituzioni al problema della salute mentale», ritiene il medico. In base a

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INCHIESTA SANITÀ /
Le persone con problemi finiscono al Pronto Soccorso. Dove al massimo prescrivono qualche farmaco. Solo un paziente pediatrico su cinque riesce a essere ricoverato in neuropsichiatria
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GLORIA RIVA Foto Simona Ghizzoni

un’indagine di Aopi solo un paziente pediatrico su cinque riesce a essere ricoverato in un reparto di neuropsichiatria e quattro su cinque vengono ospitati in reparti non appropriati, di cui uno addirittura nella psichiatria per adulti.

Ma è l’intero settore delle cure mentali ad attraversare un momento di grave criticità: «A fronte dell’aumento del disagio mentale, in particolare fra gli adolescenti, è nostro dovere etico dirvi che i Dipartimenti di Salute Mentale erogano con estrema difficoltà le prestazioni minime che dovrebbero essere garantite dai livelli essenziali di assistenza e operano in condizioni drammatiche», questo hanno scritto i 91 direttori sanitari dei dipartimenti di salute mentale di tutta Italia alle massime cariche dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la premier Giorgia Meloni, il ministro della Salute Orazio Schillaci, i presidenti di Camera

MILIONI

Gli italiani con disturbi mentali in Italia

800

Le persone che ogni giorno si recano in un pronto soccorso per patologie psichiatriche

MILA

Le persone prese in carico dai servizi di Salute Mentale

1.313

84,5

PER CENTO

Chi non è stato ricoverato e viene rimandato a casa

MILA

Il personale che manca nei dipartimenti di salute mentale, a fronte di 30 mila occupati

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Foto: Contrasto
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e Senato, in una lettera che suona come un campanello d'allarme. In Italia si sta sottovalutando la marea di quattro milioni di italiani con un disagio mentale, che solo in minima parte è assistita dal pubblico, visto che le Asl hanno in carico poco più di 800mila pazienti.

Secondo i dati del ministero della Salute, in media ogni giorno 1.313 persone si rivolgono al pronto soccorso per patologie psichiatriche, «ma l’85,4 per cento non viene ricoverato», spiega Massimo Cozza, direttore del dipartimento Salute Mentale dell’Asl Roma 2, che continua: «Probabilmente, con un’adeguata rete pubblica di salute mentale le persone con disturbi psichiatrici potrebbero avere le giuste risposte senza dover andare al Pronto Soccorso dove, per altro, al di là del ricovero, si può fare solo una visita psichiatrica con un'eventuale prescrizione farmacologica, quando invece servirebbe un approccio globale, psichico e sociale, che può essere realizzato esclusivamente con una salute mentale comunitaria basata sulla relazione tra operatore - psichiatra, psicologo, educatore, terapista, assistente sociale - e paziente». In mancanza di personale medico e infermieristico, i medici di base e gli specialisti fanno sempre più ricorso ai farmaci: secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute, i pazienti trattati con antipsicotici erano 14 ogni mille abitanti nel 2015, oggi sono 20 ogni mille abitanti; quelli curati con antidepressivi erano 124, saliti a 126,5 ogni mille abitanti. Per chi se lo può permettere, l’alternativa ai farmaci è ricorrere a cure private, tant’è che i dati della cassa previdenziale degli psicologi raccontano come il reddito medio dei professionisti per le visite private è cresciuto del 27 per cento tra il 2020 e il 2021, mentre «le prestazioni psicologiche private hanno raggiunto il valore record di

Terapia di gruppo al Siipac, il centro di Bolzano per i disturbi compulsivi

1,7 miliardi di euro, in aumento del 25 per cento rispetto all'anno precedente», dice il report dell’Enpap, l’Ente nazionale di previdenza degli psicologi.

Si arricchiscono gli psicologi, a scapito dei dipartimenti statali: «La rete pubblica dei dipartimenti di Salute Mentale, sempre più sfilacciata, ha bisogno di un rilancio dei percorsi psicologico-psicoterapeutici per realizzare una salute mentale comunitaria in grado di dare risposte ai bisogni dei cittadini. Chiediamo risorse per i servizi pubblici, consentendo alle Regioni di attuare fin dal 2023 un piano di assunzioni straordinario, secondo gli standard per l’assistenza territoriale definiti a fine 2022 proprio da Agenas», scrivono i dirigenti delle Asl al governo. Si tratta di destinare ai dipartimenti di Salute Mentale due miliardi di euro per raggiungere l’obiettivo minimo del cinque per cento del fondo sanitario, così come richiamato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, la 22 del 2022. Oggi la rete della salute mentale riceve il 2,75 per cento dei fondi della sanità pubblica, ma la Corte Costituzionale ha richiamato lo Stato a rifinanziare il servizio per evitare che la carenza di cure nelle fasi iniziali della patologia possa sfociare in esiti dannosi per l’intera comunità.

INCHIESTA SANITÀ / 2
GRUPPO
70 12 febbraio 2023
Il Ssn conta 30mila operatori fra medici, infermieri, educatori e assistenti sociali. All’appello ne mancano 10mila per funzionare a dovere. Per assumerli bisogna spendere due miliardi in tre anni

«La nostra lettera non ha ricevuto alcuna risposta dal governo», dice lo psichiatra romano Massimo Cozza, che aggiunge: «Pensare di affrontare il disagio mentale con la politica del bonus psicologo è un’assurdità ed è controproducente, perché grazie al bonus oggi ci troviamo con molte persone che hanno avviato una terapia e non potendo permettersi altre sedute, l’hanno dovuta interrompere». Il Ssn conta 30mila operatori fra medici, infermieri, educatori e assistenti sociali, all’appello ne mancano 10mila per consentire ai dipartimenti territoriali di funzionare a dovere. Per assumerli è necessario spendere due miliardi nel prossimo triennio: si tratta di parecchi quattrini, considerato che l’intera spesa sanitaria nazionale si attesta attorno ai 20 miliardi di euro, ma non sono poi così tanti se si considera che l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, stima nel quattro per cento del Pil il costo totale della scarsa salute mentale, tenendo conto della riduzione della produttività e dell’aumento delle assenze sul lavoro, oltre all'incremento di spese sociali e di costi diretti per il sistema sanitario dove, alla fine, ricadono i casi più gravi di chi non è riuscito ad affrontare il malessere in stadio embrionale.

Infanzia

AL MEYER DI FIRENZE UN CENTRO D’AVANGUARDIA

La scorsa settimana all'Ospedale pediatrico Meyer di Firenze è stato inaugurato un centro all’avanguardia per la felicità dei ragazzi in un’epoca in cui i giovani sono sempre più tristi, ansiosi, depressi e demotivati. Tra le novità più interessanti della nuova psichiatria infantile c’è sicuramente la soft-room, la stanza morbida, dove ogni oggetto è stato pensato «per affrontare nel miglior modo possibile i momenti di crisi dei piccoli pazienti», annunciano dall’ospedale. Si tratta di un gigantesco passo avanti che va nella direzione indicata da Franco Basaglia - il padre della Legge 180 che portò alla definitiva chiusura dei manicomi -, quando affermava che «eliminando le cinghie di contenzione si sarebbero ribaltati i ruoli e sarebbe toccato allo psichiatra essere prigioniero», ovvero costringendo il medico a trovare la via di uscita dalla coercizione e la strada della guarigione. Un obiettivo che a distanza di decenni è stato tutt'altro che raggiunto, essendo la contenzione psichiatrica una pratica diffusa. Qualcuno potrebbe pensare che, nei luoghi in cui la contenzione meccanica si utilizza poco, si faccia ampio ricorso agli psicofarmaci. Sbagliato: Fabrizio Starace, direttore del dipartimento di Salute Mentale di Modena, documenta come le regioni italiane con un più elevato tasso di medici e operatori presentano un minor numero di prescrizioni di antipsicotici e di situazioni di contenzione psichiatrica. Questo per dire che la carenza di personale nei dipartimenti di Salute Mentale non è una questione di poco conto: perché l’assenza di professionisti impone la ricerca di soluzioni tampone, come il maggiore ricorso alla contenzione meccanica e all’abuso di farmaci. Qualcosa, per far fronte a questi complessi problemi, si è fatto al Meyer, dove i posti letto in psichiatria infantile sono saliti da 8 a 11, il personale è aumentato e si è dedicato uno spazio su misura per affrontare i momenti di crisi. Si tratta, tuttavia, di una goccia nel mare: «Su tutto il territorio nazionale servirebbero 150 posti letto nelle neuropsichiatrie infantili, specialmente al Sud e spesso si risponde ospitando i piccoli nei reparti di psichiatria per adulti», dice Alberto Zanobini, direttore del Meyer e presidente dell’associazione ospedali pediatrici italiani, che invita a non sottovalutare il dramma delle famiglie lasciate sole ad affrontare i gravi problemi dei ragazzi. G.R.

12 febbraio 2023 71
2. Continua

INCHIESTA L’UNIVERSITÀ

Studenti suicidi Il lato oscuro dell’eccellenza

Avent’anni non si dovrebbe credere di aver fallito. Non in modo così drastico da farla finita. Eppure succede. «Fallimento, università e politica», ha scritto nel suo messaggio d’addio un ventiduenne studente di Economia all’università di Palermo. Si è tolto la vita a una settimana dalla sessione d’esame, lo scorso 15 gennaio. In pochi ne avevano parlato. Almeno fino a quando la tragedia della studentessa di 19 anni, che la mattina del primo febbraio è stata trovata morta nel bagno dell’università Iulm che frequentava, a Milano, non ha riaperto il dibattito sul malessere degli studenti. Anche lei, prima di fermarla, aveva definito la sua vita «un fallimento».

«Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide», ha scritto l’Unione degli universitari di Palermo sullo striscione vicino al dipartimento di Economia. «Rompiamo il silenzio», hanno gridato quelli del collettivo Cambiare Rotta di Milano. Per ricordare «che quanto è successo non è un caso isolato». Nel 2022 sono stati almeno tre i suicidi tra gli universitari. A pesare nella loro scelta anche la percezione di inadeguatezza nelle tappe che scandiscono il percorso di studi. Altri due in un solo mese nel 2023. Sintomo che sempre più studenti si sentono schiacciati dal mito dell’eccellenza, dalle difficoltà d’accesso al mondo del lavoro, dal peso di trovare un ruolo in una società che gli lascia poco spazio.

«All’interno dell’università ci sono le stesse logiche di competizione che regola-

mentano il mondo del lavoro -spiega Giorgia Salvati, studentessa di Filosofia di 21 anni che fa parte di Cambiare Rotta - Tra noi studenti c’è una “guerra” nella speranza di poterci costruire un futuro dignitoso. Essere fuoricorso, ad esempio, è motivo di vergogna perfino con i compagni. Anche perché non significa solo dover pagare altre tasse che sempre meno persone possono permettersi, ma sentirsi esclusi da opportunità di impiego. Chi si laurea in anticipo o con il massimo dei voti fatica a trovare lavoro, figurarsi chi arriva in ritardo con gli esami».

Come spiega Laura Parolin, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, «tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccellenti, o eccezionali, fosse l’unico segnale possibile di successo. Questo tipo di educazione lascia fuori non solo ciò che non funziona ma anche tutto quello che è medio, normale. Generando la sensazione, in chi non raggiunge il massimo, di aver fallito. E, come conseguenza, l’incapacità di tollerare l’insuccesso. Che invece costituisce un valore nel processo di crescita personale, perché permette di ripensare, ripartire, ricostruire». Per Parolin, «il 30 all’esame, la laurea in tempo sono parametri rigidi. Guidano una generazione poco abituata a scoprirsi, a pensare ai propri talenti, a premiare le differenze». Il successo, insomma, come unico standard, uguale per tutti. Anche per Laura Nota, presidente della Sio, la Società italiana orientamento, «chi si occupa di indirizzare le scelte dei ragazzi non dovrebbe indicare la direzione, ovvero una professione o una scuola, ma partecipare alla costruzione del loro futuro. Per questo serve fornirgli strumenti per comprendere criticamente la realtà e trasformarla».

Foto: Stefano Montesi / Corbis / Getty Images
Schiacciati dal peso delle performance, preoccupati del futuro, terrorizzati dal mondo del lavoro, incassano solo delusioni. E nei loro messaggi d’addio si definiscono “falliti”
IN PIAZZA
Un corteo degli studenti de La Sapienza di Roma
72 12 febbraio 2023
CHIARA SGRECCIA

L’inflazione corre. Ma il reddito dei lavoratori diminuisce da anni. E se le famiglie spendono meno, la ripresa sarà più lenta. Mentre la Bce alza i tassi. Una situazione che mette in difficoltà il governo

PREZZI IN SALITA SALARI IN DISCESA

ECONOMIA CAROITALIA
74 12 febbraio 2023

ECONOMIA CAROITALIA

VITTORIO MALAGUTTI

ALIMENTARI

Gli scaffali di un supermercato. I prezzi dei beni alimentari sono quelli cresciuti di più, energia a parte

inflazione corre, i salari si muovono appena. Nell’Italia che viaggia sul filo della crescita zero, ma forse schiverà la recessione, aumenta di mese in mese il divario tra il costo della vita e il reddito dei lavoratori. Lo sa bene il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che sabato 5 febbraio, davanti a una platea di manager e politici riuniti per l’annuale assemblea del Forex, ha usato parole ancora più prudenti del solito: «Bisogna bilanciare il rischio di una ricalibrazione troppo graduale con quello di un inasprimento eccessivo delle condizioni monetarie». In sostanza, la Bce dovrebbe limitare allo stretto indispensabile i prossimi aumenti dei tassi d’interesse, perché l’eccessivo costo del denaro può dare il colpo di grazia a crescita economica già debole. Questo il messaggio di Visco indirizzato alla Banca centrale europea. Il governatore, però, chiama in causa anche le parti sociali, che dovrebbero - dice - adottare «decisioni responsabili». In caso contrario, l’aumento delle retribuzioni finirà per consolidare le aspettative di nuovi incrementi dei prezzi, innescando una spirale negativa che manderebbe fuori controllo l’inflazione. L’Italia ha già affrontato una tempesta di questo tipo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Adesso però, dati e statistiche descrivono uno scenario molto diverso da quello di quei tempi lontani. E non solo perché, a differenza di allora, non esiste più uno strumento di politica economica come la scala mobile che indicizzava automaticamente i salari all’andamento del costo della vita.

Il fatto è che nel nostro Paese il reddito reale dei lavoratori dipendenti viaggia da tempo in ribasso e accumula ritardo rispetto al treno dei prezzi. Il rapporto dell’Ilo (International Labour Organization), pubblicato poche settimane fa, rivela che in Italia le retribuzioni al netto dell’inflazione sono diminuite del 12 per cento rispetto al 2008. Un trend negativo che tra i grandi paesi industrializzati del G20 è comune solo a Regno Unito (meno quattro per cento) e Giappone (meno due per cento). Nello stesso arco di tempo, per dire, l’aumento supera il cinque per cento in Francia, mentre in Germania siamo ben oltre il dieci per cento.

Se si restringe l’analisi al periodo post pandemia, la situazione non cambia, anzi. Nel corso del 2022, quando il costo della vita ha preso il volo come mai era successo negli ultimi 40 anni, i rinnovi contrattuali siglati dalle più diverse categorie di lavoratori hanno spuntato adeguamenti men che modesti dei salari. A questo proposito, uno studio dell’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) segnala che nel 2022 la variazione media delle paghe non è andata oltre un incremento dell’1,1 rispetto al 2021, quando la crescita aveva fatto segnare uno striminzito più 0,6 per cento. Secondo l’Upb, anche nei prossimi due anni i redditi da lavoro dipendenti cresceranno al massimo del 2,3 per cento. A un ritmo, quindi, nettamente inferiore a quello dell’inflazione, che nelle previsioni della quasi totalità degli analisti, e anche della Bce, dovrebbe avvicinarsi al 2 per cento non prima del 2025. Nel frattempo,

L’aumento del costo della vita nel nostro Paese (10,9%) è più alto che in Francia (7%) e Spagna (5,8%).
non è
della
metà
E
previsto un rallentamento prima
seconda
dell’anno
L’
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però, è la conclusione dell’Upb, la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori «sarà rilevante» e andrà ad aggiungersi a quella accumulata negli ultimi due decenni.

Alla luce di questi dati, pare improbabile che l’inflazione riparta al seguito delle retribuzioni. Lo stesso Visco, nel suo discorso al Forex, ha spiegato che nell’intera area dell’euro, «non emergono segnali di avvio di una spirale tra prezzi e salari». Al momento solo i redditi dei pensionati sono protetti da un meccanismo che allinea l’assegno mensile alla crescita dell’indice del costo della vita. E infatti, dopo che l’anno appena trascorso ha fatto segnare un’inflazione che superiore all’8 per cento, nel 2023 le pensioni fino a quattro volte il minimo sono destinate ad aumentare del 7,3 per effetto di un’indicizzazione fissata per legge. Il tasso di rivalutazione sarà invece inferiore per le rendite più ricche, sulla

base di un sistema a scaglioni.

Il paracadute costerà caro alle casse pubbliche. Nella legge di bilancio di quest’anno, la spesa pensionistica dovrebbe aumentare di oltre 20 miliardi, superando i 320 miliardi complessivi, oltre il 16 per cento del Pil. Il governo si è anche impegnato a varare nuove misure per compensare il caro energia dopo i 21 miliardi già stanziati per il trimestre che finirà a marzo. Con il prezzo del gas, e quindi anche dell’elettricità, in deciso calo nelle prime settimane dell’anno, l’esborso per lo Stato è destinato a diminuire. «La politica fiscale resta espansiva», commenta Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo. «E si muove in direzione contraria rispetto alla politica monetaria della Bce, che almeno nei prossimi mesi, ridurrà ancora la liquidità con nuovi ritocchi al rialzo dei tassi». È questa la contraddizione di fondo che da mesi oppone i

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ECONOMIA CAROITALIA

SI RAFFREDDA L’ENERGIA

Variazioni tendenziali dei prezzi in percentuale (fonte Istat)

dicembre 2022 Gennaio 2023

governi europei alla Banca Centrale Europea. Con una sostanziale differenza tra l’Italia e altri Paesi come la Germania. Mentre Roma deve fare i conti con un debito pubblico da decenni al livello di guardia, il gruppo degli Stati nordici guidato da Berlino può permettersi manovre supplementari da decine di miliardi di euro per far fronte all’emergenza inflazione e al rallentamento della crescita economica.

Non è una sorpresa allora, se dall’esecutivo di Giorgia Meloni siano più volte partiti appelli in direzione di Francoforte per allentare le maglie della politica monetaria. «Ma - prevede De Felice - l’inflazione è destinata a rientrare molto lentamente. Nelle nostre previsioni l’obiettivo del 2 per cento a cui mira la Bce non verrà raggiunto prima del 2025». Difficile, quindi, attendersi ribassi nei tassi nel breve termine quando il costo della vita nell’area dell’euro viaggia anco-

GOVERNATORE Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Ha segnalato i rischi di un “inasprimento eccessivo” dei tassi d’interesse

ra, in base all’ultima rilevazione di gennaio, intorno all’8,5 per cento. Certo, i prezzi si stanno raffreddando. A dicembre, in Europa, l’indice segnava un incremento del 9,2 per cento su base annuale. Nonostante i forti ribassi delle tariffe energetiche, l’alta marea del caro vita si ritira lentamente, senza strappi, e l’Italia, in particolare, deve ancora fare i conti con un’inflazione più alta rispetto ai principali partner Ue. L’aumento rilevato dall’Istat per il mese scorso sfiora l’11 per cento (10,9), se misurato secondo parametri armonizzati con quelli europei. In Francia siamo al 7 per cento, in Spagna al 5,8. «Per i prossimi mesi prevedo ancora tensioni sui prezzi», dice Marco Pedroni, presidente di Coop Italia. Secondo il manager alla guida di uno dei colossi italiani della grande distribuzione, «solo nella seconda metà dell’anno» si potrà assistere un primo assestamento dei listini.

78 12 febbraio 2023 -100102030 13,1 ALIMENTARI BEVANDE ALCOLICHE ABBIGLIAMENTO ACQUA, GAS, ELETTRICITÀ ARTICOLI PER LA CASA SERVIZI PER LA SALUTE TRASPORTI COMUNICAZIONI SPETTACOLI ISTRUZIONE ALBERGHI E RISTORANTI ALTRI BENI E SERVIZI INDICE GENERALE 12,8 2,5 2,5 3,2 3,1 7,8 8,6 6,2 7,4 3,4 3,2 0,9 0,9 8,1 7,2 3,5 3,9 11,6 10,1 -1,3 -0,6 1 1,4 54,5 35,2

Già partire dall’autunno, oltre a petrolio e gas, anche i metalli e tutte le principali materie prime agricole, dai cereali, allo zucchero fino al caffè, hanno fatto segnare cospicui ribassi sui mercati internazionali. Le quotazioni restano però su valori superiori a quelli di un anno fa. È ancora presto, quindi, per attendersi una netta inversione di tendenza.

Già nel corso del 2021, per difendere le proprie quote di mercato, i supermercati hanno adeguato solo in parte i prezzi. I clienti però hanno comunque ridotto gli acquisti, o si sono orientati su prodotti meno costosi. E infatti la spesa delle famiglie, prevede l’Ufficio parlamentare di bilancio, crescerà solo dell’1 per cento quest’anno. Sempre di più, però, gli acquisti saranno finanziati con i risparmi accantonati in banca. È questo il prezzo da pagare all’inflazione, una tassa occulta che si aggiunge a tutte le altre.

GOLDEN POWER DI MELONI SU PRIOLO IN VENDITA

Li ha incontrati Renato Schifani. E si è subito sbilanciato: «Mi sembrano persone affidabili». L’ultimo giorno di gennaio il presidente della Regione Sicilia ha ricevuto a Palermo i manager di Goi Energy, la società di Cipro che ha siglato un accordo preliminare per l’acquisto della raffineria di Priolo messa in vendita dal gruppo russo Lukoil.

L’operazione annunciata un mese fa è però tutt’altro che conclusa. Sabato quattro febbraio, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha firmato il decreto che dichiara di «interesse strategico nazionale» l’impianto in provincia di Siracusa. Questo atto formale si era reso necessario per garantire allo stabilimento i finanziamenti pubblici necessari a proseguire l’attività, poiché le forniture di petrolio russo, unica fonte di approvvigionamento della raffineria, erano destinate a interrompersi per effetto delle sanzioni contro Mosca. Ora che all’orizzonte è comparso un compratore, il governo dovrà valutare la credibilità delle garanzie che Goi Energy si è impegnata a fornire sulla base della legge del Golden Power. Garanzie che dovranno tutelare le attività e l’occupazione di un impianto che da solo vale il 20 per cento del mercato nazionale della raffinazione e dà lavoro, compreso l’indotto, a circa 3 mila persone. La società acquirente, guidata dal manager sudafricano Michael Bobrov, è chiamata a presentare i propri progetti nei prossimi giorni, in modo che possano essere esaminati da un apposito comitato costituito presso la presidenza del Consiglio. In particolare, andrà approfondito il ruolo di Trafigura (cfr. L’Espresso n. 3 del 22 gennaio 2023), il colosso mondiale delle materie prime, che pur non comparendo ufficialmente come acquirente, di fatto garantirà la sopravvivenza dell’impianto. In base a quanto comunicato il mese scorso, la multinazionale con base in Svizzera si è infatti impegnata a fornire il greggio e a rivendere il petrolio raffinato con contratti di lungo termine. Al momento non è dato sapere neppure quanto pagheranno gli acquirenti per rilevare il controllo dell’impianto. In ambienti finanziari è stata accreditata una cifra di circa 2 miliardi di euro. A cui andranno aggiunte le garanzie di Trafigura, sul cui contenuto preciso non è però stata fornita nessuna informazione. Tocca al governo, adesso, fare chiarezza su un affare che lascerà in mani straniere un impianto strategico per la sicurezza energetica del Paese. V.M.

Foto:P. Tre / Foto A3
Aziende strategiche 12 febbraio 2023 79

Il governatore Ignazio Visco al Convegno del Forex del 3-4 Febbraio ha condiviso la manovra sui tassi della Bce pur sottolineando la necessità che la Banca Centrale «prosegua con la giusta cautela» e che «i rialzi dei tassi ufficiali sono gestibili per le finanze pubbliche del nostro paese dato che il costo medio del debito, grazie all’elevata vita media residua, aumenta in modo graduale». Considerazioni che rilevano un conformismo oggettivo della Banca d’Italia che partecipa con un proprio componente al board della Bce. Non avrebbero potuto essere di tono diverso, dato il voto favorevole espresso sulla proposta della presidente Lagarde. Fa

I mutui rincarano

mance di Unicredit e Intesa San Paolo, alla luce dell’inflazione, possono indurre anche a una riflessione ulteriore. Molto probabilmente sarebbero state buone lo stesso se, nell’ultimo trimestre del 2022, la crescita del margine di interesse, intorno più o meno al 30%, fosse stata ottenuta mantenendo la stessa forbice tra il costo del denaro dato a prestito e la remunerazione dei depositi di famiglie e imprese. I tassi dei mutui a tasso variabile e delle operazioni attive sono aumentati in linea con i rialzi della Bce, quelli dei depositi a risparmio, invece, sono rimasti gli stessi, come se niente fosse accaduto. Visco, infatti, rileva che «il differenziale tra i tassi applicati ai nuovi prestiti a famiglie e imprese e il costo marginale della raccolta si è ampliato di quasi un punto percentuale, passando al 2,2%». Un’asimmetria vista più volte in passato, che i risparmiatori pensavano fosse superata con l’azione a tutto campo della Bce.

riflettere, invece, la preoccupazione di Visco su l’accensione della “spirale prezzi-salari”. Aumenterebbe il peso dell’inflazione, proprio nel momento in cui, secondo Visco, «le aspettative di inflazione a breve termine sono in calo sui mercati finanziari e la dinamica retributiva si è lievemente accentuata da ottobre». In questo quadro forse una riflessione avrebbe potuto essere svolta sugli eccellenti utili dell’esercizio 2022 registrati da Unicredit e Intesa San Paolo (più di 5 miliardi di euro per entrambi). Nessuno credo non possa essere che soddisfatto della solidità patrimoniale e della redditività di questi due intermediari finanziari leader. D’altra parte il rapporto banca e impresa richiama il principio dei vasi comunicanti. Basta che uno di questi due batta in testa e il sistema economico vacilla. Rassicurano perciò le parole di Visco che intravede una luce in fondo al tunnel. E tuttavia le straordinarie perfor-

Nessuno mette in dubbio le conseguenze dannose della “spirale prezzi-salari”. Ma il pericolo in Italia non sussiste. La scala mobile è stata sepolta da un referendum molti anni fa. Mordono, invece, le crescenti difficoltà che l’inflazione a due cifre causa nei bilanci delle famiglie, dato che il costo della spesa su base annua, calcolato dall’Istat, nel 2022 è aumentato del 12%. Queste difficoltà stanno creando un profondo disagio in chi lavora. L’incremento della produttività, infatti, non si ottiene solo con gli investimenti in nuovi processi produttivi, ma anche con il mantenimento di una situazione lavorativa che non faccia lambiccare il cervello di chi torna a casa con il pensiero di far quadrare i conti della spesa. Il taglio del cuneo fiscale, sentite le parole del governatore Visco e le intenzioni della presidente Lagarde, diventa sempre più impellente al pari del rinnovo del sostegno pubblico a famiglie e imprese per il pagamento delle bollette, nonostante il calo delle aspettative sul prezzo del gas e sull’inflazione.

BANCOMAT
i depositi no e le banche godono
La manovra sui tassi della Bce ha permesso a Unicredit e Intesa di guadagnare ancora di più
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ECONOMIA GRAN BRETAGNA

Brexit presenta il conto ecco la crisi peggiore

EUGENIO OCCORSIO

Lunedì 6 febbraio più di 40mila infermieri e paramedici sono scesi in sciopero paralizzando la rete ospedaliera della Gran Bretagna, così come pochi giorni prima avevano fatto gli autisti delle ambulanze. Per tutta la settimana precedente l’85% delle scuole del regno erano rimaste chiuse per l’agitazione degli insegnanti. Volare su Heathrow e Gatwick è una scommessa dall’inizio dell’anno per i continui scioperi anche senza preavviso del personale aeroportuale, dei controllori di volo, degli addetti di terra delle compagnie. E andare in treno è difficile per i blocchi a intermittenza decisi dai ferrovieri e perfino dai macchinisti delle metropolitane. Qualsiasi richiesta salariale viene respinta al mittente per mancanza di fondi. «Sembra il lockdown, ma stavolta sarà più lungo», commentano i tabloid. In questo quadro, come stupirsi se il Fondo Monetario Internazionale ha decretato che l’economia britannica è l’ultima per crescita fra i quindici principali Paesi del mondo, con un -0,6% di Pil previsto nel 2023 (un peggioramento di 0,9 punti dalle previsioni di ottobre), peggio anche della Russia?

La Bank of England - che pure non ha rinunciato ad alzare ancora i tassi fino al 4% all’inizio di febbraio per combattere l’altra piaga dell’inflazione che ristagna intorno al 10% - prevede fra cinque e sette trimestri in negativo a partire dall’ultimo del 2022. «Questa non è recessione, è un disastro», decreta Foreign Affairs. Che aggiunge impietoso: «Il Paese ha ormai il peggior welfare state (sanità+pensioni, ndr) del mondo industrializzato, Stati Uniti compresi. Per di più, la crisi degli alloggi è senza precedenti, il Regno Unito è l’unico Paese europeo dove le aspettative di vita diminuiscono, il deficit commerciale si sta allargando irrimediabilmente. È una crisi peggiore di quella degli anni ’70, quando Londra subì l’umiliazione di dover chiedere un prestito al Fmi (lo fece pure l’Italia, ndr)».

Cosa succede nella perfida Albione? La risposta è racchiusa in una parola: Brexit. «Ormai è più diffuso un altro neologismo, Bregret, ovvero rammarico per la Brexit», commenta Brunello Rosa, che insegna alla London School of Economics. «Il Regno Unito si è tagliato fuori dal mercato comune europeo, che vuol dire assenza di controlli doganali, di dazi, di procedure tortuose per gli scambi commerciali, e ne sta pagando carissimo le spese. La prova è nelle file di camion al porto di Dover o all’accesso in Irlanda, dove oltretutto c’è il problema del confine fra le due parti dell’isola dalla cui soluzione può dipendere perfino la ripresa delle ostilità fra cattolici e protestanti». Tanti sono gli aspetti di questa crisi: «Prendiamo - aggiunge Rosa - la libera circolazione delle persone che vigeva con il Regno Unito nella Ue: unita all’attrazione che suscita una città come Londra, aveva creato un movimento vivacissimo di lavoratori di ogni livello che entravano, uscivano, contribuivano all’economia del Paese. Ora niente più di tutto questo, e la carenza di personale europeo, il più qualificato, che deve sottoporsi alle estenuanti trafile di chi arriva da posti lontani, è arrivata a livelli allarmanti. Con il risultato che chi resta deve fare doppi e tripli turni, e se chiede un aumento salariale viene respinto con perdite». Quanto alle banche, la perdita del “passaporto uni-

Recessione, scioperi, welfare a terra. Il commercio con la Ue (era più del 50%) segna il passo. Qualcuno propone un nuovo referendum per tornare indietro. Ma non è affatto semplice
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co” (una sola licenza per operare in tutta Europa) ha forzato ad aprire costose filiazioni nel continente. John Springford del Centre for European Reform di Londra, la mette giù brutale: «Se imponi barriere al commercio, agli investimenti, all’immigrazione con il tuo più importante partner, l’Unione europea (più del 50% degli scambi erano con l’Ue, ndr), cosa ti aspetti che succeda al tuo Pil?».

PROTESTE

I cartelli esposti dagli insegnati inglesi in sciopero per protestare contro i tagli ai bilanci scolastici

Ma fare un contro-referendum per rientrare in Europa come propone Fareed Zakaria sul Washington Post?

«È troppo complesso, aprirebbe un ennesimo capitolo che peggiorerebbe ancora di più la crisi», risponde Ferdinando Nelli Feroci, una lunga carriera da ambasciatore e analista con l’Istituto Affari Internazionali che presiede. «Si tratterebbe di reinstallare, ammesso che stavolta il popolo si pronunci pro-Europa, la complessa architettura di leggi e regolamenti che contemplava l’appartenenza all’Ue e si è appena finito di smantellare (il referendum è del 2016 ma la Brexit è operativa dal 1° gennaio 2021, ndr). È sconcertante un errore di calcolo di questa portata, così come sorprendenti sono stati i più recenti passi falsi in politica economica».

L’ultimo errore risale allo scorso autunno, quando la premier Liz Truss e il Cancelliere dello Scacchie-

re, Kwasi Kwarteng, deliberarono una riforma fiscale che tagliava le tasse ai più abbienti, priva di copertura per 47 miliardi di sterline. «Si credette di fare una manovra thatcheriana, nella speranza che così i ricchi avrebbero investito redistribuendo risorse sia ai poveri che alle casse dello Stato», spiega Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica. «Nulla di più sbagliato: la Banca centrale fu addirittura costretta a cambiare la sua politica varando un acquisto apposito di titoli di Stato ». Il parlamento di Westminster ha mandato a casa Truss e Kwarteng e il nuovo premier, Rishi Sunak con il suo Cancelliere Jeremy Hunt, hanno nei loro primi cento giorni appena scaduti controriformato il fisco con più tasse sui ricchi e meno sui poveri. Ma hanno solo in minima parte risolto il problema. «La verità - conclude Zakaria - è che oggi non si può parlare di Great Britain ma di Little Britain, per quanto il Paese è diventato marginale e isolato nel quadro mondiale».

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ECONOMIA GEOPOLITICA

La Cina nello spazio Con i capitali privati

Sette rampe di lancio e tre per i test nella regione di Obock, in Gibuti. Lì, nel Corno d’Africa, la Cina intende inaugurare nel 2027 uno spazioporto commerciale internazionale. Lo prevede il memorandum siglato a gennaio dal governo locale e da Hong Kong Aerospace Technology Group, compagnia specializzata nella produzione di satelliti e attività di tracciamento, disposta a investire più di un miliardo di dollari per la base. Nonvincolante, il memorandum implica la concessione di un’area di dieci chilometri quadrati per almeno 35 anni e la realizzazione di infrastrutture. I lavori dovrebbero iniziare a marzo, quand’è prevista la formalizzazione dell’accordo, e concludersi in quattro anni. Così fosse, sarebbe l’ennesimo esempio di quanto, per la Cina, lo spazio sia un tassello fondamentale per diventare la «potenza tecnologica numero uno entro il 2049»: il centenario della Repubblica popolare.

Al di là dei palloni (spia) nei cieli americani, «il memorandum ha una valenza geopolitica importante – conferma Marcello Spagnulo, consigliere scientifico di Limes –anzitutto perché siglato da una società privata. È un’azzeccata manovra diplomatica che permetterà di attivare la corporation facendone una propaggine della Repubblica popolare». Non solo. Sebbene la Cina possa già lanciare in orbita geostazionaria (quota cruciale per le telecomunicazioni, accessibile con decolli dall’Equatore), «l’accordo comporterebbe di poterla raggiungere anche dall’estero. Un approccio simile a quello adottato in Argentina, dove la Repubblica ha un radiotelescopio per le missioni lunari difeso dal proprio esercito. Peraltro, la Cina ha sviluppato mezzi di lancio

su piattaforme marine mobili e il suo parco razzi è impressionante».

Ma conviene riavvolgere il nastro: 9 giugno 1995, New York. La visita del presidente taiwanese, Lee Teng-hui, alla Cornell University scatena la terza crisi con la Repubblica popolare, che accusa Lee di muoversi per ottenere l’indipendenza formale e minaccia l’invasione. Nel marzo del ’96 l’Esercito popolare di liberazione lancia tre missili verso Taiwan: il primo cade a più di 18 chilometri dalla base di Keelung, a Nord di Taipei, e degli altri due si perdono le tracce. Secondo gli alti ranghi militari, la colpa sarebbe degli Usa, rei di aver sabotato il sistema Gps (di proprietà americana) installato sui missili balistici. Per Pechino è una «umiliazione indimenticabile» e un monito a ridimensionare le proprie ambizioni.

Flashforward: 23 giugno 2020. Pechino spedisce in orbita il 55° e ultimo satellite del sistema di radionavigazione Beidou, alternativo al Gps. È il compimento del progetto accelerato dalla “umiliazione” ed è evidente che l’impiego dei satelliti cinesi lungo la Belt and Road Initiative potrebbe rappresentare uno strumento d’influenza all’estero. Come ribadisce ora il memorandum con

Nel 2027 Pechino vuole inaugurare una base commerciale di lancio nel Gibuti. A chiudere l’accordo, una società specializzata. Lo Stato non è il solo investitore nella corsa a diventare prima superpotenza
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EMILIO COZZI

il Gibuti, diventare un polo attrattivo per le potenze spaziali emergenti è un obiettivo della Cina. Soprattutto da quando, per volontà statunitense, è esclusa da programmi come quello della Stazione spaziale internazionale.

Come ricorda Alessandro Gili, research fellow degli Osservatori Geoeconomia e Infrastrutture dell’Ispi, «la Cina è pronta a collaborare con i Paesi del Gulf Cooperation Council, in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per il telerilevamento e le comunicazioni satellitari, per l’utilizzo dello spazio e per la selezione e la formazione degli astronauti. Pechino considererà la creazione di un centro congiunto per l’esplorazione dello spazio lunare e profondo. Centrali saranno poi le relazioni con la Russia: oltre alla base lunare congiunta da costruire entro il 2036, i due Paesi hanno firmato un programma di cooperazione spaziale per il periodo 2023-2027».

A oggi, dei 177 miliardi di dollari stanziati ogni anno per la Difesa, non è dato conoscere la porzione investita nello spazio, ma già fra il 2013 e il 2018 potrebbe essere cresciuta da sei a undici miliardi. Alla luce di tutto ciò, si capisce come il ritardo del pro-

gramma spaziale cinese sia stato ridotto: nel 2019, l’Agenzia spaziale nazionale è stata la prima a manovrare un rover sulla superficie nascosta della Luna. «Oggi – continua Spagnulo – la Cina è l’unica in grado di sfidare la supremazia statunitense».

La centralità strategica dello spazio è corroborata dalle circa 100 mila persone impiegate nel settore. In Europa non si arriva a 40 mila. Ma — scrive Marc Julienne in “China’s Ambitions in Space: the Sky’s the Limit” — «il vero processo decisionale risiede nella State Administration for Science, Technology and Industry for National Defense, all’interno dell’Esercito popolare e in particolare nella Strategic Support Force». In pratica, «il Partito comunista mantiene un rigoroso controllo sulle attività aerospaziali».

È una centralizzazione che allarma l’Occidente. Ma è pure una realtà in fase di cambiamento dal 2014, quando si sono permessi investimenti privati in ambiti sensibili: «Da allora – sottolinea Gili — sono state create più di cento imprese che hanno generato affari per 4,85 miliardi di dollari. Nel 2021 circa il 50 per cento degli investimenti nel settore spaziale cinese è privato».

LA STAZIONE

Il lancio del modulo Mengtian della stazione spaziale Tiangong, nel Sud della Cina, il 31 ottobre 2022

Foto: CNS –Afp / GettyImages
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Il digitale frenato dalla burocrazia

colloquio con LUCIANO FLORIDI di ENZO ARGANTE

C’è un punto su cui dovrebbero essere tutti d’accordo: la transizione digitale può abilitare e accelerare processi di sostenibilità sociale e ambientale. È il famoso binomio Verde&Blu che spadroneggia su tutte le testate e travolge le sale convegni post Covid ma che a stento aleggia sui programmi politici e di governo non lasciando segni concreti al suo passaggio…

Perché per andare dalle parole ai fatti servono strategia e visione. Ma soprattutto concertazione: a monte, nello sviluppo delle tecnologie e delle sue applicazioni; quindi nella formazione delle competenze; a valle predisponendo regole che agevolano i processi di sviluppo, crescita, e protezione sociale e ambientale e ottimizzano le risorse.

Lo chiediamo a un osservatore superpartes, quel filosofo di Oxford Luciano Floridi che ha dato l’anima a il “il verde e il blu” nel suo libro e che l’università americana Yale ha appena chiamato a fondare e dirigere quello che già si preannuncia come uno dei più prestigiosi centri di ricerca del mondo, lo Yale Center for Digital Ethics. Con un “ponticello” che porta dritto dritto all’Alma Mater di Bologna dove Floridi ha messo il cappello anche sul quarto supercomputer più potente della terra made in Europe.

Chi guida il Paese dovrebbe guardare alla luna e non al dito. Da dove si comincia per andare dove?

«Ci vuole il coraggio, l’intelligenza e la capacità di progredire in modo costruttivo e affrontare la questione digitale adesso: investire sulle persone, sulla scuola, in formazione e progettazione. La svolta digitale non sparirà, non si può ignorare o

nostro Paese rischia di restare indietro nella transizione.

lasciarne la gestione a generazioni future, è un processo che bisogna cogliere appieno oggi, plasmandolo e gestendolo da protagonisti. È un errore cercare di arginare o contrastare le trasformazioni digitali, magari con provvedimenti episodici e scollegati, che raggiungono un solo risultato: ritardare i processi di innovazione. È facile parlare da filosofo, me ne rendo conto, ma chi fa politica e governa deve investire nelle strategie a lungo termine e accettare l’evidenza: questo Paese ha un bisogno enorme di formazione e di competenze, non solo ma anche digitali, sia per il mercato nazionale sia per quello internazionale. Rischiamo di lasciarci sfuggire un’occasione che potrebbe non riproporsi più».

Il collegamento tra scuola, università e imprese è un altro nodo da sciogliere; è l’unico modo per assicurare il “travaso” di queste competenze nel sistema produttivo.

«Anche in questo caso non bisogna guardare al passato come se fosse ricco di soluzioni che si possono semplicemente

Foto: G. Mereghetti –Universal Images Group / GettyImages ECONOMIA FUTURO SOSTENIBILE
Il
Occorre da subito una strategia e investire su scuola e formazione. Parla un filosofo italiano di fama mondiale
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PANNELLI

L’Azienda Agricola

San Maurizio di Merlino (Lodi) alimentata con pannelli solari

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applicare. Il passato è pieno di lezioni, di fiducia per quello che è stato fatto bene - pensiamo al successo del Tecnopolo di Bologna - e di errori da non ripetere, pensiamo alla mancata opportunità nucleare. Non investire nel rapporto tra digitale e sostenibilità sarebbe oggi un errore storico, una posizione novecentesca che rimpiangeremmo: l’Italia è una delle nazioni più importanti del mondo, di quelle che possono fare la differenza, basti pensare al G7, e ha la responsabilità di guidare come leader la politica europea, non svolgere un mero ruolo di comparsa, lasciando le decisioni più importanti a Berlino e Parigi. Un piccolo esempio. Nel Mare del Nord, l’energia elettrica prodotta dal vento potrebbe fare una differenza enorme per le politiche energetiche europee. Perché l’Italia non può avere un ruolo dominante, nel Mediterraneo, nel valorizzare la straordinaria opportunità solare che caratterizza questa regione dell’Europa, e diventare un serio contribuente alle politiche energetiche del continente? Chiaramente ci sono molti aspetti tecnici, finanziari, culturali e sociali, non voglio minimizzarli, ma questi devono essere inseriti in una strategia politica che può essere realizzata, volendolo, con intelligenza e lungimiranza».

Il sistema governativo dovrebbe incentivare quello d’impresa con provvedimenti adeguati (finanziari, fiscali, costo del lavoro)?

«Non so se ci sia bisogno di incentivi finanziari, sconti fiscali, o condoni. Ma sono convinto che bisognerebbe facilitare la vita lavorativa e imprenditoriale di chi vuole migliorare il Paese, e per far questo è necessario rimuovere gli ostacoli burocratici e creare una pubblica amministrazione che sia all’altezza delle sfide che dobbiamo affrontare. C’è tantissimo spazio per migliorare ed eliminare inefficien-

ze e costrizioni che rendono troppo complessi e costosi e soprattutto lentissimi anche i processi più elementari. Il Government Effectiveness Index (indice elaborato dal World Bank Group Gruppo della Banca) misura la qualità dei servizi pubblici, del servizio civile, la formulazione delle politiche, l’attuazione delle politiche e la credibilità dell’impegno di un governo per elevare o mantenere elevate queste qualità. L’Italia è al 63° posto su 193 Paesi classificati. Sarebbe bello se il governo s’impegnasse a un miglioramento per entrare tra i primi 50. Chi governa ha gli strumenti e le competenze per provare seriamente ad alleggerire il costo burocratico che frena l’Italia da troppo tempo». Anche le città, quindi i sindaci, hanno un ruolo decisivo: nella gestione della mobilità, dei servizi, dell’assistenza sanitaria. Una città “pensata” è una città che consuma e impatta meno.

«Sono questi i network produttivi che a volte sono anche meno condizionati dalla posizione geografica. Il Paese è un caleidoscopio composto da 1000 Italie tutte straordinarie e potenzialmente di succes-

ECONOMIA FUTURO SOSTENIBILE
“Le forze politiche devono capire che la vera sfida di oggi e del domani è quella sociale e ambientale. E che la soluzione passa dall’innovazione tecnologica e dalle sue applicazioni”
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so. La difficoltà sta nell’agire sul delicato equilibrio tra massima distribuzione del potere decisionale e esecutivo e la capacità di coordinamento complessivo. Una piccola analogia per intenderci: tanto più grande è l’orchestra tanto più bravo deve essere il direttore; ma non è lui che esegue la musica; né l’orchestra può funzionare senza direttore. Tanto più il sistema si decentralizza per distribuire risorse e capacità a livello locale, urbano ma anche regionale e ai network produttivi; tanto più l’amministrazione pubblica, il parlamento e il governo, e chi si occupa di policy, deve saperle coordinare in maniera abile ed equilibrata. L’Italia non è coesa, non è definita in una singola identità ma è un mosaico straordinario. Purtroppo oggi è frammentato, le parti a volte non combaciano più e forse alcune si sono perse. Non siamo ancora riusciti a raggiungere un buon equilibrio ma è una sfida, anche in questo caso, che si può vincere se si agisce in termini di network e non con una mentalità meccanicistica novecentesca, meramente accentratrice».

Verde e Blu vuol dire lavoro per i giova-

IL PROFESSORE

Luciano Floridi è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford. È stato chiamato a fondare e a dirigere lo Yale Center for Digital Ethics

ni, imprese che crescono, il pubblico che risponde alle esigenze del Paese. Tutti i partiti dovrebbero avere un piano. Ma questo non succede.

«Non succede soltanto oggi, e non soltanto nel nostro Paese. Certo da noi si lavora guardando spesso nello specchietto retrovisore, e chi guarda troppo al passato non pianifica con fiducia il futuro. Sa da dove veniamo, questo sì, ma per capire dove vogliamo andare ha bisogno di dare almeno un’occhiata al futuro, in modo progettuale e costruttivo. Se lo fa, allora può attivare quella politica con la p maiuscola che abilita e facilità lo sviluppo migliore. Le forze politiche devono capire che la vera sfida di oggi e del domani è proprio quella sociale e ambientale, e la sua risoluzione passa attraverso il digitale e le sue applicazioni: abbiamo bisogno di risorse distribuite meglio, una società più equa e più sostenibile. Non ci vuole molto per capirlo: si può non essere d’accordo sul come raggiungere l’obiettivo, e qui la politica ha il suo giusto campo di azione mediatrice, ma non sul fatto che bisogna raggiungerlo». Posizione scalabile a livello continentale. Anche qui c’è da lavorare molto in un’Europa sempre più segmentata. «Non possiamo pensare che l’Europa decida per noi. Dobbiamo essere più presenti per contribuire a governarla da protagonisti. Non ci si può certo lamentare delle scelte di Bruxelles e dimenticare che siamo una delle nazioni più influenti, con Germania e Francia. Siamo una grande economia e una grande cultura che può fare veramente la differenza. Dobbiamo smettere di pensare al parlamento europeo come un luogo distante e inutile. Un contributo influente a Bruxelles, di un grande Paese come l’Italia, è ormai inevitabile e auspicabile a tutti i livelli. Presenza, competenza, e buone idee da realizzare con coraggio e fiducia. Anche in politica è bello partecipare, ma l’ambizione ragionevole deve essere salire sul podio, e l’Italia ha tutte le ragioni per riuscirci».

Foto: J. Haas –picture alliance / Ansa
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CULTURA TALENTO E CARISMA

ENERGIA

DAL CANADA

Barbara Hannigan, soprano e direttrice d’orchestra di origine canadese

Podio e potere

Marin Alsop, Beatrice Venezi, Oxana Lyniv, Speranza Scappucci...

Mai così tante, e in ascesa in tutto il mondo, le donne che dirigono orchestre. E al cinema il ruolo è di Cate Blanchett

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CULTURA TALENTO E CARISMA

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Sollevata sotto forma di diatriba linguistica, e di genere, due anni fa, la questione: “Direttore” o “Direttrice” d’Orchestra? è stata risolta dall’Accademia della Crusca con il riconoscimento della liceità di entrambe le forme, pur ammettendo l’improprietà dell’uso del maschile “Direttore” quando sia una donna sul podio a tenere la bacchetta in mano. La potente interpretazione di Cate Blanchett nel ruolo del personaggio (inventato) di Lydia Tár riporta in primo piano il tema di una professione artistica in grande ascesa nella sua versione al femminile, riproponendo gli stessi temi e nodi in precedenza discussi dai linguisti. Più che questione di genere, il dato è un palmare progressivo affermarsi delle donne che dirigono orchestre. Risultato di un cammino non facile ma in ascesa: in tutta Europa, da un sei per cento di direttrici donne, negli ultimi anni si è passati al dieci. Percentuali comprensive di traiettorie luminose, anche oltreoceano, con la statunitense Marin Alsop, Direttrice dell’Orchestra di Stato di São Paulo dopo avere diretto London Symphony Orchestra e London Philarmonic, tra i rarissimi direttori chiamati a farlo – e qui l’uso del maschile è obbligato, trattandosi di onore e privilegio concesso davvero a pochi, uomini o donne, senza distinzione. Perfezionatasi con Leonard Bernstein, proprio come Lydia Tár nella finzione del film (dal ruolo impersonato da Cate Blanchett, Alsop si è dichiarata oltraggiata sia come professionista che come lesbica) conta dalla sua una parabola professionale esemplare, dagli albori di prima direttrice di grandi orchestre americane – New York, poi Los Angeles, Baltimora – sino alla conquistata reputazione di icona presa a modello da ogni donna che intenda intraprendere l’ardua carriera.

Accanto a ferrea, estenuante disciplina, una professione che conta insieme alle performance sul podio altre tappe e conquiste: anche interiori. Già visivamen-

te l’essere a capo di un’orchestra trasmette un’idea di forza dominatrice, e come ogni esercizio di potere presuppone massima vigilanza su di sé. Per assumere atteggiamenti e posture dimostrativi di quelle grinta e autorevolezza che devono essere di un buon direttore d’orchestra, va cercato e trovato un dosaggio delicatissimo tra autorità e capacità di ascolto. Avere polso, ma anche talento di entrare in relazione con gli altri, con ciascun singolo membro dell’orchestra, intanto coordinando la sintonia generale di un gruppo che è un micromondo – in scala ridotta, una collettività. Possedere piglio ma anche generosità, centratura e insieme altruismo: un equilibrio psicologico sottile, raggiungere il quale per ogni donna è una sfida, lanciata a sé stessa per prima.

Strade intraprese sin da giovanissime, spesso muovendo i primi passi non come direttrici, piuttosto da musiciste: così per l’ucraina Oxana Lyniv, arrivata sul podio dopo anni passati a studiare flauto, violino, canto. Dirigere era una delle prove in programma al Conservatorio a Leopo-

Pioniere, e orfane al tempo stesso, queste artiste esercitano una professione, ricercata con forza e disciplina, senza modelli da poter seguire o da smentire
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li, per lei un colpo di fulmine, inseguito in principio senza la certezza fosse strada accessibile alle donne. Diversi incarichi, un ultimo come Direttrice per l’Opera di Graz prima che a Lyniv venisse affidata la direzione del Teatro Comunale di Bologna, prima donna a capo di un ente musicale italiano.

Oppure, strada composita di artista creativa e dai talenti plurimi, come per la poliedrica direttrice canadese Barbara Hannigan (vincitrice del Gramophone Awards 2022), la cui sublime idea di unire a canto e a danza la direzione d’orchestra entusiasma le platee, lei incantevole mentre modula la voce di soprano e nel frattempo volta le spalle all’orchestra che pure tiene in pugno, donne e uomini che senza vedere, con la gestualità delle mani guida e dirige, anche quando con pochi perfetti cenni da quella stessa orchestra riesce a farsi accompagnare nel canto.

E poi, strade intraprese da chi sente di essere pioniera, e insieme anche orfana: la francese Claire Gibault riflette nel corso di pagine autobiografiche (“Direttrice

FASCINO E RIGORE

Da sinistra: Beatrice Venezi, mentre dirige “Gianni Schicchi - Suor Angelica”; l’ucraina Oksana Lyniv

d’orchestra”, ADD 2023) cosa significhi esercitare una professione priva di modelli precedenti da poter seguire o smentire. Un’orfanezza a lungo compensata da sforzi immani pur di acquisire prestigio e ottenere rispetto come donna, agli inizi però snaturandosi anziché coltivare le parti migliori di sé. «Prima, tecnicamente controllavo tutto» dice Gibault; «utilizzavo strategie per avere autorità. A partire dal momento in cui ho cominciato ad amare le persone davanti a me, solo allora ogni cosa fuori e dentro ha preso a trasformarsi». Negli anni di direzione dell’Opera di Lione, fine costante è stato «comprimere la femminilità». Solo in seguito, grazie a una lunga, molto felice collaborazione come assistente di Claudio Abbado («uomo profondamente amico delle donne, mai ambiguo, né in nessun momento misogino») quel continuo contenersi è diventato consapevolezza, maturità espressiva, liberatorio svincolarsi da qualsiasi dinamica di genere sessuale. Perché se la strada per la parità in questa professione più che in altre dell’universo musicale

Foto pagine 90-91:
of M.
92-93: J. Raule –
O.
courtesy
Borggreve, pagine
GettyImages, courtesy of
Pavliuchenkov
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CULTURA TALENTO E CARISMA

è ancora lunga, e frastagliata, il punto non è quanto di femminile o maschile entri in gioco al momento di dirigere; piuttosto, forza espressiva e capacità di dialogo con i singoli membri dell’orchestra. Conquistare la completezza di una umanità matura, ecco ciò che più rende autorevole chi è a capo di un’orchestra, Direttori o Direttrici che si sia. Gibault nel 2011 ha creato “La Maestra”, concorso internazionale presso la Paris Mozart Orchestra e in collaborazione con la Philarmonie de Paris. Vi partecipano giovani aspiranti Direttrici che arrivano a Parigi da tutto il mondo, valutate da una giuria rigorosamente mista che le seleziona e premia in nome di stesso criterio, di un carisma inteso come ascolto, capacità di interazione ben prima che duro e autoritario tenere il posto di comando.

Grandi solidarietà femminili durante

SOTTO LO SGUARDO DELLA PIONIERA

In senso orario: Speranza Scappucci; Claire Gibault; Antonia Brico. Sotto: una scena del film Tár

le audizioni de “La Maestra”, perché come che sia, quella di Direttrice d’orchestra è professione nuova che a fatica ma con forza va affermandosi, ne è convinta anche la giovane italiana Beatrice Venezi, la stessa che sul palco dell’Ariston con il chiedere di essere chiamata “Direttore” evocava il rischio discriminatorio della declinazione al femminile del termine. Come spesso accade, le risposte vanno cercate negli inizi, in figure ancora leggibili in filigrana sull’invisibile mappa del tempo. Antenata, una almeno esiste: Antonia Brico, nata nel 1902 e bambina da Rotterdam emigrata in California. Da una formidabile carriera di pianista passò a quella di Direttrice d’orchestra mossa da impulso fatale e assolutamente naturale. Era il 10 gennaio 1930 quando in Germania diresse una prima volta i Berliner Philarmonik, applauditissima; poco tempo dopo, due concerti consecutivi con la Metropolitan Opera a New York la consacrarono al successo offrendole tante esibizioni in giro per il mondo. Platee estasiate, entusiastiche rassegne stampa. Pionie-

La strada per la parità è ancora lunga e frastagliata. Però il punto non è stabilire quanto di femminile o di maschile entri in gioco, ma quanto talento e doti di relazione si possiedano
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ra e sola, Antonia Brico conobbe della solidarietà femminile anche le insidie: a Genova, lei stessa racconta in un documentario monografico di recente restaurato (“Antonia: a Portrait of the Woman di Judy Collins”), da una signora molto influente si sentì chiedere scusa dei pensieri (pregiudizi) nutriti prima di vederla dirigere. Il volto allungato, il grande naso, gestiva la bacchetta con gesti vigorosi, gli occhi dardeggianti a dire il dominio – del podio, della musica, di ogni singola partitura delle tante orchestre dirette nel corso della vita. Fondò la New York Women Symphony Orchestra, ma anche difese l’“asessualità” (sexless) del dirigere, nel corso di un infuocato dibattito con il direttore spagnolo José Iturbi, sostenitore di “limiti temperamentali” delle donne musiciste.

Oggi sarebbe contenta di tanto riuscire e realizzarsi di donne a capo di orchestre, nella consapevolezza che trattasi di professione per cui serve fluidità anzitutto. Rigorosa amorosa attenzione, fuoco e acqua nell’interpretazione.

Narcisismi con la bacchetta

Ese la bellezza fosse solo un alibi a prova di bomba? Se l’arte, la cultura, il talento, fossero il lasciapassare per una vita vissuta senza limiti e senza riguardi? L’intuizione del gelido, implacabile, irresistibile “Tár”, il film di Todd Field candidato a 6 Oscar (film, regia, attrice, script, montaggio, fotografia), è tutta qui: Lydia Tár, grande direttrice d’orchestra interpretata da una immensa Cate Blanchett, è nata per il potere. Stranamente è nata anche per la musica, infatti è una star strapagata e pronta a tutto. Per l’arte come per il potere. Di cui abusa quasi in buona fede, convinta che anche i privilegi più feudali le siano dovuti. Lydia Tár infatti non esiste se non sullo schermo, ma Cate Blanchett ne fa una figura più vera del vero (con tanto di falsa voce Wikipedia per il lancio, trappola infallibile).

Un paradossale concentrato di talento e arroganza, prepotenza e sensibilità, che Field, 58 anni e due sole altre regie alle spalle, sorregge con rigore seguendo una sceneggiatura studiatissima ma ispirata a un principio sapiente: l’allusione, l’ellisse, il fuori campo. Come usava quando gli spettatori erano considerati adulti e i film li invitavano a usare intelligenza e immaginazione anziché martellare il loro sistema nervoso.

Dietro questa donna amata e temuta che vive tra Berlino e New York, si staglia infatti una riflessione sulla nostra epoca, il MeToo e i suoi abusi, condotta con insolita finezza perché intorno a Tár vive una folla di comprimari incisi a fuoco. Colleghi adoranti e supini, assistenti asservite ma chissà, amanti fervide ma disilluse. E poi orchestrali devoti e sgomenti, musicisti appassiti e dimenticati, consulenti legali poco ascoltati, veri intervistatori del New Yorker (Adam Gopnik nei panni di se stesso). Figure di contorno, ma essenziali per dar vita a un mondo dotato di spessore e profondità. In cui la protagonista e gli spettatori, specchiandosi con attenzione, riconosceranno uno dei flagelli più subdoli dei nostri tempi. Il narcisismo.

Foto: Bettmann Archive, M. Mosconi –Hans Lucas / Contrasto
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Sullo schermo Fabio Ferzetti

CULTURA ESERCIZI DI FANTASIA

Benvenuti al festival che non c’è

Un film su una comunità che sprofonda nel sonno. Un kolossal su un borgo svuotato dei suoi abitanti, su musica di Nick Cave che invade la vallata. Un luogo chiamato “Vuota il sacco”, dove la gente riversa indignazioni e urla. Cortometraggi, installazioni, pièce che non vedremo mai. Perché Civitonia, festival di arti performative a Civita di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, è stato ideato per non essere realizzato. Immaginato per non accadere, o forse per “accadere altrimenti”. E, a dirla tutta, programmato perché chiunque arrivasse in ritardo. Restando col dubbio: non di un fake, ma di non aver fatto in tempo.

Hanno hackerato il reale l’attrice e performer Silvia Calderoni e Giovanni Attili, docente di Urbanistica alla Sapienza di Roma, che già in passato aveva riflettuto su questa località tra le più belle e più fragili d’Italia (“Civita senza aggettivi e senza altre specificazioni”, Quodlibet). Un borgo-museo nell’Alta Tuscia, noto come “la città che muore”, tenuto artificiosamente in vita da una massiccia turistificazione: dodici abitanti soltanto e un milione di visitatori all’anno.

Come riscriverne la fine? Come reagire all’assalto di un luogo che è unico ma so-

miglia a tanti altri piccoli territori-gioiello, esausti per incuria e miopia politica?

Attili e Calderoni, ideatori del festival Civitonia, hanno chiamato a raccolta attori, registi, performer, sceneggiatori e filosofi chiedendo loro uno sforzo di creatività e un patto di segretezza: per progettare e immaginare un festival senza limiti di budget, senza vincoli di realizzabilità, senza adempimenti burocratici da assolvere. E senza alcuna intenzione di realizzarlo per davvero.

E la comunità degli artisti ha risposto: da Chiara Bersani ai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, da Daria Deflorian a Francesca Marciano, da Vasco Brondi ad Alice Rohrwacher, da Michele Di Stefano a Emanuele Coccia e molti altri, i cui progetti vivono in un catalogo in due volumi (“Civitonia”, pubblicato da Nero Editions) che documenta l’esperimento situazionista: dai manifesti ai comunicati stampa, dai

Un borgo laziale, fragile e bellissimo. E una rassegna artistica con tanto di programma, inviti, manifesti, catalogo. Tutto finto. Perché Civitonia è immaginazione pura
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SABINA MINARDI

set fotografici alle performance, dalle campagne social alle mail per prenotarsi, il prima, il durante e il dopo della rassegna sono in piena regola. Ma è tutto finto. Incluso il senso della serata finale, al Museo Macro di Roma: chiamata generale più che per scoperchiare il mistero per riscriverlo, in piena arte del capovolgimento: «Chi ci dice che altri festival siano davvero avvenuti?», provoca un’artista.

«Civita ha dei caratteri paradigmatici: la sua fragilità è la stessa dell’80 per cento del territorio nazionale e il processo di sfruttamento turistico in atto è analogo a quello dei centri storici di città come Venezia, Firenze, Roma. È la città ideale per provocare una riflessione più ampia, oltre i suoi confini», interviene Attili, che ha scelto di ricorrere agli strumenti dell’arte, dopo aver esplorato quelli della politica e dell’università: «Organizzi assemblee, chiedi finanzia-

menti, provi a fare delle cose, senza risultati. Abbiamo pensato allora di tentare altre strade. La domanda di partenza è stata: può l’arte svolgere un ruolo riparatore rispetto a questo modello di sviluppo “cannibale”? La cosa che appare evidente a Civita è un’atrofizzazione della capacità immaginativa, l’inerzia rispetto alla possibilità di scommettere su un futuro differente. Qui il processo di museificazione è esasperato e certificato: per visitare Civita devi pagare un biglietto di ingresso. Si può fare, ci siamo chiesti, un lavoro più sottile? Si possono nutrire immaginari differenti?». Meglio se capaci di effetti pratici? «Sicuramente», nota Calderoni: «L’arte ha la capacità di reimmaginare il concreto. Fare e immaginare sono binari dello stesso treno. Questo abbiamo chiesto alle artiste e agli artisti coinvolti: come ripopolare il luogo di spiriti. Come risvegliarli e come immetterne di nuovi. Il libro

Tra il lago di Bolsena a ovest e la Valle del Tevere a est, nel comune di Bagnoregio, Civita è una località fondata dagli Etruschi. Lo scrittore Bonaventura Tecchi la battezzò “la città che muore”

NELLA VALLE DEI CALANCHI
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CULTURA ESERCIZI DI FANTASIA

che abbiamo realizzato è una cosa concreta, in fondo è il nostro festival stesso».

«La scommessa era riflettere su come qualcosa di inaccadente potesse fare presa sul reale», aggiunge Attili: «Ce ne siamo accorti sin dall’inizio, durante la campagna di comunicazione, che seguiva un principio di verosimiglianza rispetto a un festival tradizionale. Abbiamo fatto informazione sui social, ma anche attacchinaggio di poster e di claim provocatori interrogando il ruolo dell'arte, del turismo, dell’industria estrattiva, come temi di un festival che sarebbe dovuto accadere. Quei messaggi sono stati vissuti in modo minaccioso, e il comune di Bagnoregio ci ha diffidato dall’utilizzare riferimenti al territorio senza autorizzazione. Assistevamo a un paradosso: qualcosa che non avveniva scatenava reazioni reali: evidentemente le questioni poste erano spinose, urticanti, vere. Quando abbiamo annunciato che avremmo segretamente dato le istruzioni su come partecipare a una specie di rave, sono state persino preallertate le forze dell'ordine».

Sostenibilità, rispetto di un territorio, responsabilità verso un luogo da proiettare nel futuro. Ma non solo. La provocazione ha coinvolto anche l’iperproduzione artistica, e i troppi vincoli posti all’arte.

«Lo sfruttamento turistico e quello dell’arte come acceleratori di consumi fanno parte dello stesso paradigma», conferma Attili: «La nostra è una riflessione che riguarda la pratica artistica e anche il modo di abitare il mondo».

«Che cosa accade se ritorniamo a immaginare senza limiti? È questo l’esercizio di

volo che abbiamo richiesto. Perché è rarissimo in questo momento poterlo compiere: ci sono limiti di budget, di finanziamenti, di sponsor, di spazio di cui tenere conto», sottolinea Calderoni: «Ma se togli tutto ciò, che cosa produce l’immaginazione? Se togliamo questi paletti che limitano con aggressività soprattutto un certo tipo di arte, specie chi non è un grande nome, cosa viene fuori? Il risultato è stato meraviglioso: progetti incredibili, completi di schede tecniche, tutti fattibili».

Creare, con slancio furibondo. Senza gravità. Disincagliati da ogni nevrosi da prestazione. In due anni circa di lavoro, e di residenze artistiche, quelle sì concretis-

“Abbiamo chiesto alle artiste e artisti coinvolti un immaginare pieno e spensierato. I nostri compagni di viaggio non dovevano realizzare opere. Nessuna irruzione nel reale”
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sime, a Civita.

«Residenze senza limiti di tempo, per riflettere sul futuro di quella terra: alcuni sono ritornati più volte, altri hanno contattato la gente del luogo, c’è stato chi si è concentrato su letture, ognuno ha agito in maniera autonoma e con i suoi tempi», aggiunge Attili: «Perché uno degli obiettivi del festival era proprio di lavorare sul rallentamento, spezzando la velocità che vite e impegni ci impongono».

«Forse può sembrare un po’ naïf, ma l’idea di invitare questi artisti a Civita è stato un modo di vivere il borgo senza consumarlo - una foto e via - ma ripopolandolo di immagini e pensieri nuovi», dice Calderoni. E

Esperimento segreto

Un box con due volumi: il primo per documentare i lavori di ventuno artisti e artiste coinvolti dal festival. Il secondo, con lucchetto e combinazione segreta, per scoprire i meccanismi “del suo controverso accadere”. Il Catalogo è pubblicato da Nero Editions, a cura di Attili e Calderoni (€ 35).

gli artisti come spettri si sono aggirati nei giorni fissati per il festival. Convocati alla festa dove set fotografici fittizi immortalavano ciò che non era avvenuto.

GLI IDEATORI

Silvia Calderoni è attrice e performer.

Giovanni Attili è professore associato alla Sapienza di Roma, dove insegna Analisi dei Sistemi Urbani e Territoriali.

Nelle altre foto, momenti di varie performance a Civita di Bagnoregio

«Se avesse fatto realmente irruzione nel reale, il festival sarebbe stato immediatamente fagocitato dall’industria turistica, cioè quegli spettacoli, quelle performance sarebbero diventate mercanzia scintillante di nuovo utilizzata per attrarre flussi di turisti», dice Attili. E invece no: con alleati curiosi, come immaginarie paraistituzioni denominate Università della Decelerazione o Centro di studi coreografico, incubatori di pratiche alternative, «gli artisti si sono divertiti, reinventandosi in ruoli non propriamente loro: per esempio, Damiano e Fabio D’Innocenzo sono stati i curatori di un libro, Rohrwacher che in genere fa film ha dato vita a un progetto installativo», racconta Attili. Tutti attratti da un festival ideale? «Il festival ideale non esiste. Certo, immaginare di eliminare lo stress legato al fare è stato un vero lusso», ammette Calderoni. Come si prosegue? «Vogliamo organizzare incontri, riconvocare gli abitanti, invitare gli amministratori, in fondo questo progetto nasce anche come sfida al pensiero di chi governa quel territorio», dicono: «Sarebbe interessante ragionare intorno a ciò che è emerso. A questi progetti che forniscono indizi nutrienti sui bisogni di tutti». Semi caduti a Civita, per germogliare ora. E altrove.

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Match point per un bestseller

C’è un libro, in Italia, che sta per sfondare il tetto del mezzo milione di copie. Un libro che occupa un posto nelle librerie di migliaia di ragazze perché qualcuno ci ha creduto: un editor che ha il talento di stanare bestseller. Si chiama Marco Figini e il romanzo in questione, scritto da Erin Doom, si intitola “Fabbricante di lacrime”. Ma sarebbe un torto elogiarlo solo per questo incredibile traguardo. Figini di libri di successo ne ha pubblicati molti e continuerà a farlo, perché non è un ragazzo che per pura fortuna annusa l’aria e scova il tartufo bianco, no. Lui la fortuna se la tiene accanto, certo, ma è il suo modo di osservare che lo rende diverso da quasi tutti.

Nato nei dintorni di Lecco 36 anni fa, frequenta le scuole del paese dimostrandosi brillante e responsabile. Ha una vita familiare semplice: figlio di commercianti, non cerca nel futuro la fuga da una realtà monotona, al contrario si siede sul benessere di un piccolo mondo di provincia, e si diletta nello sport diventando un bravo tennista (giocherà persino contro Fognini). Non ci sono librerie sotto casa dove evadere. Non ci sono incontri illuminanti che gli mostrino altre possibilità. Tutto fila senza scossoni.

Con l’arrivo dei libri sugli scaffali dei supermercati, a dodici anni incrocia casualmente i romanzi storici, e si appassiona. Da lì la sua scelta all’Università: storia. Si mette a insegnare tennis per pagarsi gli studi, convinto di poter decidere dopo se continuare a fare l’allenatore o seguire le orme del padre, e si laurea in una di quelle materie che non ti garantiscono nulla. «Tanto ho le spalle coperte», pensa. Ma la vita ti fa lo sgambetto. L’attività dei genitori si riduce al minimo. Senza farsi prendere dallo sconforto, il fanciullo venuto dalla Brianza, comincia, con la tenacia degna di chi ha il talento che muove le fila, a macinare esperienze. Si iscrive a corsi di grafica, segue un master in editoria e, a soli 22 anni, entra nel settore marketing della casa editrice Salani.

«Mi occupavo di copywriting e quello che scrivevo era il filtro comunicativo tra l’editore e il libraio». Nel 2014 viene incarica-

to dell’art direction di Salani e realizza le copertine di oltre 250 volumi (tra cui tutte le nuove edizioni di Harry Potter), ma non vuole fermarsi all’involucro: vuole occuparsi delle pagine, di quello che le pagine dicono. Ha nel frattempo scoperto il suo desiderio: essere colui che decide cosa pubblicare. Nel 2017 diventa editor di Magazzini Salani. «L’amministratore delegato Gianluca Mazzitelli e l’editore Luigi Spagnol, mi hanno dato fiducia e mi hanno consentito di mettermi alla prova. A loro devo ciò che sono oggi». Lui li ripaga egregiamente. Quella che era soprattutto una casa editrice con una forte specializzazione nella produzione di gadget e merchandising legati alla lettura, diventa, grazie a Figini – «e ai miei collaboratori», ci tiene a sottolineare –, una delle più importanti case editrici di libri per ragazzi.

«In quegli anni iniziarono ad avere successo i libri legati al mondo web. Tante case

CULTURA DIETRO LE QUINTE DELL’EDITORIA
Sognava di fare il tennista. Poi si innamora dei libri. E scova youtuber, autori. E “Fabbricante di lacrime”, da mezzo milione di copie.
Marco Figini: l’editor che trasforma fenomeni social in storie da record
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AISHA

editrici prendevano contenuti trovati in Rete e li trasformavano in libri. La mia intuizione è stata quella di individuare personaggi di successo e con loro creare storie che avrebbero poi firmato come autori. Il mio primo libro da editor è stato “Slime”, un manuale di ricette per fare gli Slime, firmato dalla seguitissima youtuber Iolanda Sweets». Il manuale vende circa 40 mila copie e diventa il libro più venduto dell’anno da Magazzini Salani, dopo solo pochi mesi dall’ingresso di Figini. «Ho replicato lo schema con la pubblicazione della prima guida di Fortnite in Italia». Altro successo, ma Figini capisce che non gli basta continuare a navigare nel mare dove tutti navigano; la sovraesposizione rischia di far calare le vendite.

«Abbiamo cominciato a guardare come si muoveva il mercato internazionale rispetto a questo tipo di libri», racconta: «Ci siamo accorti che in Francia e in Spagna

A CACCIA DI SUCCESSI

Un’immagine del Salone internazionale del Libro di Torino. Sopra: un ritratto di Marco Figini, oggi direttore editoriale di Magazzini Salani. Il viaggio dietro le quinte del mondo editoriale prosegue nelle prossime settimane

stavano andando molto bene i romanzi di fiction ambientati nel mondo dei videogiochi. Avremmo potuto fare la stessa cosa. In Italia i ragazzi sembravano pronti a questo tipo di letteratura, visto quanto seguivano le avventure all’interno di Minecraft». Ed ecco che nasce un altro successo editoriale: La saga di Timeport firmata da Stef e Phere (un’epopea molto classica, con due ragazzini come protagonisti). La serie vende oltre 350 mila copie. Pare quindi evidente a Figini che il web non è solo fonte di personaggi famosi da mettere in copertina, ma un ricettacolo di storie da raccontare. Si ricorda di un social network che già aveva adocchiato molti anni prima: Wattpad, piattaforma di autopubblicazione dove tutti possono scrivere. «All’estero ogni Paese ha un proprio best seller femminile scovato su Wattpad. Perché noi no? Cerchiamo le storie più apprezzate e meglio scritte e arriviamo a “Fabbricante di lacrime”. La giovane autrice si era autopubblicata con Amazon. Mi accorgo del potenziale commerciale e decidiamo di proporle una nuova pubblicazione. All’inizio il romanzo vende più o meno 15 mila copie. Dopo pochi mesi notiamo che i numeri cominciano a salire in maniera costante. Nessun picco da “influencer” che pubblicizza il prodotto. Il merito arrivava da una marea di utenti di TikTok». Figini non solo ha trovato la storia giusta, ma l’ha confezionata a dovere con una copertina perfetta per essere mostrata in video.

Il ragazzino di provincia senza sogni, ma tenace e lungimirante, diventa, nel 2022, direttore editoriale di Magazzini Salani. Dove altro può arrivare?

Foto: M. D’Ottavio –Buenavista, per gentile concessione di: Y. Martellanz
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Roma New York col sole di

GIUSEPPE FANTASIA

arte deve vivere al sole, nelle piazze, tra il popolo!», recitava il manifesto dell’ODA (Oficina de Arte), sottoscritto da Gastone Novelli (Vienna 1925-Milano1968) durante un suo soggiorno in Brasile. Fu in quel Paese – come ricorda in “Scritti 43/68” (Nero edizioni) - che iniziò a spostare la sua ricerca pittorica sull’astrazione geometrica. Prima c’era stata una fase espressionista, testimoniata dai dipinti esposti nel 1950 alla sua prima personale italiana al Teatro Sistina, a Roma. Qui era tornato a vivere cinque anni dopo, inserendosi nell’ambiente culturale della città grazie all’amicizia con Emilio Villa, Corrado Cagli e Achille Perilli. «Con Perilli c’era un sodalizio che, se si vedeva poco nella pittura, era totale sul piano della condivisione intellettuale», ci spiega il figlio Ivan Novelli, presidente di Greenpeace Italia e responsabile dell’archivio paterno. «L’aspetto fondamentale, che oggi non c’è più, è l’amicizia tra gli artisti, la condivisione di una vita che andava da piazza del Popolo agli studi e alle abitazioni, in Italia (Saturnia compresa, dove Novelli fece costruire una casa che divenne il luogo d’incontro con gli amici scrit-

tori e artisti, ndr) e nel mondo», aggiunge. «Insieme gli amici sostenevano l’importanza del ruolo che l’arte doveva svolgere al di fuori degli spazi istituzionali e al servizio delle grandi masse e del paesaggio urbano». Un’arte per tutti, dunque, en plein air, ma soprattutto “al sole”, il sole italiano. Ivan Novelli è tornato da poco dalla Grande Mela dove la David Zwirner Gallery ospita “Roma/New York 1953/1964”, un’esposizione a cura di David Leiber che mostra gli effetti di quegli scambi, contaminazioni e contatti tra gli anni Cinquanta e Sessanta fra gli artisti. New York chiamò Roma e Roma rispose quasi intimorita, ma creando quel giusto mix tra il nuovo e vecchio, tra trasformazioni e antichità, tra consumismo sfrenato della pop art e un’espressione artistica più legata a gesti e materie. Due mondi distanti, ma uniti da una linea sottile quanto resistente, costruita grazie a scambi e confronti a colpi di estetica, etica, gesti e intelletto. Già Afro Basaldella, nel 1950, si recò negli Stati Uniti iniziando una ventennale collaborazione con la Catherine Viviano Gallery, mentre Piero Dorazio e Giusep-

CULTURA RISCOPERTE
L’
Gastone Novelli e Alberto Burri.
Giosetta Fioroni e Piero Dorazio.
E i loro amici americani. Una mostra a New York rende omaggio a un periodo di fervidi scambi con gli Stati Uniti
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pe Capogrossi lavoravano con la Wittenborn One-wall gallery e con Leo Castelli. Alberto Burri intanto era omaggiato con la personale alla Stable Gallery di Eleanor Ward dopo un’esperienza come prigioniero di guerra in Texas. Dall’altro lato, l’Italia attirò diversi artisti newyorchesi, tra cui Philip Guston, Franz Kline, Willem de Kooning, Rauschenberg, Salvatore Scarpitta e Cy Twombly, protagonisti alla Galleria dell’Obelisco di Irene Brin e Gaspero del Corso o alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Rauschenberg, accompagnato dall’amico Twombly, visitò nel ‘53 lo studio di Burri, della cui arte rimarrà influenzato, e quattro anni dopo, su suggerimento di Toti Scialoja, scelse Roma come città in cui vivere e in cui trovare nuova ispirazione. Scambi e confronti erano continui. Si pensi agli ingressi di elementi dalla sfera dei consumi o dalla dimensione urbana di matrice americana nelle opere di Angeli, Festa, Fioroni, Rotella e di Schifano che nel ‘62 espose da Sidney Janis. E ancora, ciliegina sulla torta che consacrerà la pop art americana: la vittoria di Rauschenberg del Leone d’Oro a Venezia nel

FAVOLOSI SESSANTA

In senso orario: “La totale estinzione” di Gastone Novelli, 1962; “Liberty” di Giosetta Fioroni, 1964; gruppo di artisti a Piazza del Popolo, Roma 1960. Da sinistra: Giulio Turcato, Achille Perilli, Gastone Novelli, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Piero Dorazio e Gino Marotta.

1964. «Sia in Italia che in America, l’arte funge da riscatto nazionale, proponendosi come simulacro di vita, capace di innescare una discussione sui malumori di una società votata alla tecnologia e al marketing dilaganti», disse Germano Celant: «Fu tra il 1945 e il 1964 che l’arte italiana si rivolse a quella americana nei confronti dei suoi ricercatori, collezionisti e mercanti e, allo stesso modo, gli artisti americani si concentrarono su una cultura le cui radici e la cui storia non potevano essere cancellate dall’era fascista». Celant parlò così nel 1993, in occasione della fortunata mostra “Roma-New York: 1948–1964” da lui curata alla Murray and Isabella Rayburn Foundation: quella odierna (visitabile fino al 25 febbraio) ne è un omaggio. Le opere “Sacco e oro” e “Rosso, Nero” di Burri sono in pole position, poco distanti da “Integrazione n. 7” di Carla Accardi, “United States of America” di Franco Angeli, i due quadri di Novelli (“La totale estinzione” e “Cose da conservare”) e “Liberty” di Giosetta Fioroni. Si resta abbagliati dal “Giallo (Totale)” di Piero Dorazio: un sole tutto italiano, segno di una rivincita appena cominciata.

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CULTURA PROTAGONISTI

Giannini finalmente una stella

colloquio con GIANCARLO GIANNINI di CLAUDIA CATALLI

Bello che me la diano da vivo, non trova?». Così Giancarlo Giannini, 80 anni, commenta la sua stella sulla Walk of Fame a Hollywood. Un riconoscimento che lo inorgoglisce, specie pensando che «a Venezia neanche un gatto nero mi hanno mai dato». Schietto, diretto, divertito e divertente, ama interpretare personaggi controversi. Come lo spregiudicato Dino De Gregorio, fondatore dell’agenzia di calciatori più potente in Italia visto nella serie su Sky e Now “Il grande gioco – I segreti del calcio mercato”. «Un personaggio alla Berlusconi, di quelli che comprano palazzi, squadre, giocatori, calato un ottimo racconto dei retroscena del calcio italiano».

Ironia della sorte, lei non è mai stato un patito di calcio...

«Divento tifoso solo per le partite importanti, ma non ne so molto. Per interpretare De Gregorio mi sono informato su questi procuratori che compravendono giocatori, ho persino parlato con un paio di loro a Milano confessando di non capirci granché, mi hanno risposto che ero sulla strada giusta».

De Gregorio dopo trent’anni di carriera non si diverte più, le capita mai?

«Ogni tanto sì, il mestiere dell’attore diventa ripetitivo. Viviamo in un mondo in cui l’immagine attraversa tutto e arriva a tutti, si vive di numeri, like, pollici in su o

CINEMA, TV, TEATRO Giancarlo Giannini, 80 anni, è un attore, doppiatore, regista. A lato: a Marostica negli anni Settanta

in giù e ci si limita a bissare i successi di ieri. Manca il coraggio di mettersi in gioco. Io non so se sono un bravo attore, mi sento sempre un perito elettronico che s’impegna e studia più possibile, ma ho sempre cercato di rischiare, diversificando tutti i miei ruoli».

Questo è un Paese che fatica a fare spazio ai giovani, lei crede nel ricambio generazionale?

«Ma certo, i giovani sono il futuro, il guaio è che i politici non fanno niente per loro. Io ho cercato di sostenerli sempre, ho interpretato varie opere prime, insegnato vent’anni al Centro Sperimentale. La politica invece non muove un dito per le nuove generazioni, per questo se ne vanno dall’Italia».

Anche i suoi figli hanno fatto questo tipo di scelta?

«I più piccoli vivono uno a Berlino e l’altro

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Gli aneddoti con Gassman e Wertmüller. La vita in scena, le riflessioni sull’esistenza. E ora la celebre mattonella sulla Walk of Fame a Hollywood. “Gli attori italiani? Sono ancora i più bravi al mondo”

a Londra. Sono convinto che non bisogna vietare ai figli l’esplosione delle loro fantasie, già la scuola tarpa un po’ le ali, vanno lasciati liberi. Come padre non sono sempre stato vicino ai miei figli, andavo in giro per il mondo a fare film, però ho sempre pensato al loro futuro lasciando massima libertà e aiutandoli in quello che volevano fare».

Le capita ancora di firmare autografi al posto dei vari Tognazzi, Gassman, Manfredi?

«È un periodo che viaggio meno, ma quando me li chiedono, scambiandomi per uno di loro, li accontento. Non potrei mai deluderli, o dire: “Ma signora, è morto anni fa”».

È vero che litigò con Gassman per questioni di fede?

«Vittorio era un mio carissimo amico, oltre che una persona di una cultura e intelligenza incredibili. Abbiamo recitato insieme in “I picari” e “Lo zio indegno”, l’ho accompagnato nel periodo della sua grande depressione: stavamo sempre insieme, ricordo che doveva mangiare la cioccolata per tirarsi su e andavamo in giro per Milano dividendoci le sue tavolette. Non abbiamo mai litigato, sulla fede abbiamo solo discusso, perché o succede o non succede. A lui non è successa. Diceva: “A volte vorrei anche solo un lumicino di questa luce, ma non ne vedo”. Gli volevo un gran bene, ho pianto molto quando è morto,

Foto: R. Petrosino –Mondadori Portfolio
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abbiamo passato periodi splendidi insieme. In Spagna eravamo nello stesso albergo di Monicelli, lui mi aspettava fuori e mi chiedeva dove andassimo a mangiare, a tavola poi ci riempiva di racconti unici, favolosi, come quando conobbe Charlie Chaplin. Era un piacere stare con lui, mi ha insegnato molto. Alcuni monologhi shakesperiani li faccio ancora pensando a lui».

Le manca Lina Wertmuller?

«A Lina devo tutto, senza di lei oggi non sarei qui. È stata la mia maestra, da lei ho imparato ogni cosa. È stata un genio non valutato abbastanza. Era una donna impulsiva, irrequieta, speciale: lavorare con lei era come lavorare con dieci registi uomini. Parliamo di artisti veri».

Ci sono oggi “artisti veri”?

«Ci sono attori e registi di spessore, mi vengono in mente Giuseppe Tornatore e tanti altri, ma i tempi sono diversi, anche quelli di lavorazione. Mi sono appena rivisto “La caduta degli dei” di Visconti, riusciremmo oggi a realizzare un capolavoro così?».

È ancora convinto che gli attori italiani siano i più bravi al mondo?

«Lo dissi anni fa e fui attaccato, eppure tutti i più grandi attori del mondo hanno origini italiane, da Leonardo di Caprio ad Al Pacino, fino a star come Frank Sinatra.

E che dire di Eduardo De Filippo? Non abbiamo nulla da invidiare ad altri».

A breve riceverà la stella sulla Walk of Fame di Hollywood. Che cosa prova?

«Sono uno dei pochi che ha lavorato tanto a Hollywood, la stella è meglio di un Oscar - a cui pure fui candidato nel ’77 per “Pasqualino Settebellezze” – perché significa “essere una stella per sempre”. Mi piace».

Nella sua autobiografia “Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” scrive: «Noi attori abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto».

«Siamo nati per continuare a raccontare

le favole ai grandi. Quando siamo cresciuti e non abbiamo più mamma e papà che ce le narrano prima di dormire ci pensano gli attori».

Non viviamo tempi di favole, somigliano più a incubi già visti…

«Non me lo dica, io sono nato sotto la guerra, mi ricordo carretti con bambini maciullati passare sotto i miei occhi, stukas tedeschi mitragliare una stradina di campagna. Ero lì su un camioncino di patate con mia madre e ci salvammo buttandoci tra i rovi di more. La guerra è la cosa più terribile che possa accadere. È uno spettro che ritorna. Inviando le armi si può ottenere la pace? Bisognerebbe risolvere in maniera diplomatica, ma fare la guerra no. Confido che le cose si sistemino».

È un incallito ottimista o sbaglio?

«Bisogna esserlo. Lo sono stati tutti i pensatori in fondo, Leopardi stesso non era pessimista, ha parlato di infinito e del naufragar “dolce” in questo mare. Dopo che cosa c’è? La morte, la fede, l’infinito? Non lo so, ma ci voglio credere. Sarà poi che ho vissuto molto a Napoli, c’è una parola che ne racchiude la filosofia e torna utile in questi tempi bui: “Futtetenne”».

“Dopo la vita cosa c’è? La morte, la fede, l’infinito? Non lo so, ma ci voglio credere. A Napoli c’è una parola che di questi tempi torna utile: Futtetenne”

Foto: Diageo Global –GettyImages
CULTURA PROTAGONISTI
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SUL SET COI GRANDI Giancarlo Giannini ha lavorato con i maggiori registi italiani, da Mario Monicelli a Lina Wertmüller
RAFFO ART COMMUNICATIONROMA

Il mago desnudo

Lubecca, inizio Novecento, due fratelli con l’inclinazione alla poesia, in una famiglia che li preferirebbe dediti a libri mastri e registri contabili. E uno specialmente, che di nome fa Thomas, destinato a fare l’impiegato in una compagnia di assicurazioni. La vita e la storia della letteratura andranno diversamente. Perché quel Thomas è Thomas Mann, al quale l’acuto Colm Tóibín dedica un romanzo intitolato “Il Mago” (Einaudi, preziosa traduzione di Giovanna Granato), che attinge alla vita del grande scrittore per scompaginare il genere biografico all’insegna della rielaborazione e dell’interpretazione. Operazione dichiarata (“questo romanzo si è ispirato agli scritti di Thomas Mann e dei suoi familiari”), che l’autore compie con affascinante spontaneità e con l’accattivante leggerezza di chi ha lungamente e profondamente frequentato le pagine del suo protagonista.

Tóibín incanta con Thomas Mann. Il ritorno in India di Rushdie. Le inquietudini di Sophie Daull. Tommaso Ragno legge Proust

Tutte le sere in centinaia di templi indiani la statua di una dea è spostata dalla nicchia in cui i fedeli le offrono burro e fiori e condotta incontro a Shiva. La dea è Parvati, e Rushdie ne fa la protagonista del suo ultimo, atteso romanzo. Una saga lunga quasi 250 anni dove vita, amore, mito e storia si mescolano grazie a una bambina di nove anni dal destino intrecciato con la dea. Fino a fondare un regno dove le donne contano quanto gli uomini.

LA CITTÀ DELLA VITTORIA

Salman Rushdie (trad. S. Mogni – S. Puggioni) – Mondadori, pp. 360, € 22

Chi ha amato “Il lavatoio”, Premio Unione europea per la letteratura nel 2019, con una vicenda faticosa dell’autrice sullo sfondo, ritroverà in questo romanzo dedicato alla madre un ideale legame. Non solo nello sforzo di ricostruire il vuoto, tra foto, testimonianze, scritti, come accadeva alla figlia della donna uccisa. Ma per la scrittura ipnotica, e l’occhio implacabile su vite che si perdono, destini che deragliano.

IL MAGO Colm Tóibín Einaudi pp. 500, € 24

E se in “The Master” Tóibín allungava lo sguardo su quattro emblematici, dolorosi anni nell’esistenza dello scrittore Henry James, qui la vita del tedesco, premio Nobel nel 1929, è scandita dai suoi spostamenti, trasferimenti, esili (Monaco, Lugano, Princeton, Washington, Los Angeles, Stoccolma). Diventando metafora di un’epoca e di una condizione umana, a partire proprio da quell’attitudine giovanile non prevista, “il presagio di una nuova debolezza che si insinuava nel mondo, specie in quella Germania settentrionale che andava fiera della propria mascolinità”. Toíbín scandaglia le incertezze, le paure, le ansie, l’esercizio a non venire allo scoperto di Mann, e il rapporto col fratello Heinrich, con la moglie Katja Pringsheim, facoltosa, colta e tutt’altro che ignara dei desideri dell’autore di “Morte a Venezia”. Ne sottolinea le vulnerabilità, l’impossibilità di essere apertamente sé stesso, la necessità di disciplinare le energie emotive rispetto a un’omosessualità che attirerebbe pregiudizi. In pieno stile Buddenbrook, ne racconta gli intrecci con i nomi del Novecento, Mahler, Einstein, Auden, Isherwood, l’odiato Brecht. E l’ascesa di Hitler al potere, le persecuzioni di ebrei, la condanna del Führer. In una fama letteraria spuntata dalla Storia.

LA SUTURA

Sophie Daull (trad. Cristina Vezzaro) Voland, pp. 192, € 17

“La Recherche” di Marcel Proust al capitolo VII, quello conclusivo, in formato audiobook. Da Parigi a Combray, la celebrazione dell’arte attraverso la memoria, che fa rileggere l’esistenza in maniera del tutto diversa da come era stata vissuta. Legge l’attore Tommaso Ragno, che completa una collezione di voci inconfondibili: Anna Bonaiuto, Massimo Popolizio, Iaia Forte, Paolo Pierobon, Sandro Lombardi e Lino Guanciale.

ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO “Il tempo ritrovato”

Emons Audiolibri – Emons App

12 febbraio 2023 109
BOOKMARKS Sabina Minardi

COLPO DI SCENA Francesca De Sanctis

Metti Godot tra le bombe

Può la messa in scena di un testo essere fedele alle intenzioni dell’autore anche se queste sono apparentemente stravolte? Perché no, se il punto di arrivo è lo stesso: toccare le corde dello spettatore. Così accade che paradossalmente l’attesa di Godot trasformi l’inatteso in qualcosa di profondamente vicino alla poetica di Samuel Beckett. Qui siamo nel perimetro del teatro dell’assurdo e parliamo di un testo chiave come “Aspettando Godot” messo in scena dal regista greco Theodoros Terzopoulos, un maestro che affonda le sue radici nella tragedia greca, punto di partenza anche per affrontare i testi beckettiani. Ve lo diciamo subito: “Aspettando Godot” è uno spettacolo dall’impatto molto forte, non semplice, ma assolutamente da vedere (una produzione ERT, Fondazione Teatro di Napoli-Teatro Bellini con AttisTheatre Company).

“Aspettando Godot” di Samuel Beckett per la regia di Theodoros Terzopoulos

Una scatola nera. Una croce di luce. I protagonisti distesi a terra. E il fragore di una guerra lontana. In un allestimento da non perdere

ca dalla quale spunta il messaggero di Godot (Rocco Ancarola, anche lui un allievo). Da quelle geometrie dell’impalcatura - che risente dell’influsso di Jannis Kounellis, con il quale regista greco ha avuto una lunga collaborazione - si aprono pannelli, spuntano botole, scale, attori dai volti insanguinati con lame affilate, e poi libri macchiati di sangue, mentre il rumore dei bombardamenti ad un certo punto fa piombare la sala in una cupa atmosfera postbellica, dove non c’è traccia neppure del famoso salice piangente diventato un bonsai.

Questo è Beckett direte voi? Certo che lo è, è un Beckett molto politico, che ha un forte legame con l’attualità (la guerra in Ucraina?) e che cerca di dirci quanto è difficile instaurare rapporti fra di noi e con noi stessi. Estragone e Vladimiro sorridono sarcastici con il volto insanguinato, ma alla fine, nonostante tutto, continuano ad aspettare Godot, l’inafferrabile, la speranzache restaviva. Aspettando Godot

di Samuel Beckett. Regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos.

Savona, Teatro Comunale Chiabrera, 14-16 febbraio. Belluno, Teatro Comunale, 18 febbraio. Napoli, Teatro Bellini, 24 febbraio-5 marzo

APPLAUSI E FISCHI

Terzopoulos costruisce una scatola-installazione nera dalla quale traspaiono, quando è completamente chiusa come fosse uno scrigno, due fili di luce a forma di croce, elemento ricorrente più volte nello spettacolo, a partire dalla disposizione stessa degli attori. Estragone e Vladimiro (Enzo Vetrano e Stefano Randisi, semplicemente esplosivi) sono sdraiati orizzontalmente per quasi tutto il tempo in una specie di teca rettangolare, mentre Pozzo (Paolo Musio, già collaboratore di Terzopoulos) e Lucky (Giulio Germano Cervi, allievo del regista greco) sono in posizione verticale, fino alla grande croce bian-

Nel 2023 ricorrono 50 anni dalla morte di Carlo Emilio Gadda. Pensate che c’è chi ha portato in scena per ben 34 anni un monologo tratto dal suo “Eros e Priapo” sul fascino di Mussolini subito dagli italiani. Lei è l’attrice Patrizia De Clara, che ora racconta la sua lunga avventura in un libro: “La fidanzata di Gadda” (EBS Print).

«Un taglio piccolo del bilancio che ha un grande impatto sui lavoratori». La denuncia arriva da Orizzonte 13/99, che riunisce 51 realtà attive in teatro, danza, musica dell’Emilia Romagna, dal Teatro dell’Argine ai Motus. La Regione ha infatti deciso di tagliare del 14% lo spettacolo dal vivo. Teatri a rischio di sopravvivenza?

110 12 febbraio 2023
Foto per gentile concessione di: J. Weber

Il vuoto è più pieno che mai

Gli artisti lo evocano come distacco dal mondo, Yves Klein lo vendeva. La Gamec gli dedica l’ultimo capitolo di una trilogia di mostre

Il vuoto non esiste, perché la natura lo rifugge riempiendolo con gas o liquidi e arrendendosi alla paura, a quell’horror vacui teorizzato da Aristotele. Ma siccome l’arte può riscrivere la storia e dunque anche la scienza, il vuoto può esistere o almeno essere evocato dagli artisti come possibilità di distacco dal mondo fisico. “Salto nel vuoto” è proprio il titolo dell’ultimo capitolo (curato da Lorenzo Giusti e Domenico Quaranta) di una trilogia di mostre che la Gamec di Bergamo ha dedicato alla materia.

Yves Klein lo vendeva il vuoto, in cambio di oro puro che valeva l’esperienza di acquistare una “zona di sensibilità pittorica”, la perfezione. E proprio a una sua performance si deve il titolo di questa mostra: nel 1960 si lanciava nel vuoto dal tetto di un edificio per consegnarsi al cosmo.

Nella prima sala del percorso di questa mostra si comincia da una “tinta unita”, da opere bianche.Viene proprio da pensare al Blue Klein: lui detestava dare spiegazioni, ma quando si sentiva costretto raccontava un antico adagio orientale di un flautista che suonava una nota unica e che rispondeva «non è colpa mia se i miei colleghi stanno ancora cercando la nota perfetta, che io invece ho trovato» a chi lo accusava di non conoscerne altre. E quindi ha senso che “Salto nel vuoto” cominci con un’opera di Enrico Castellani, che fino all’ultimo giorno della sua vita (è scomparso nel 2017) ai giornalisti che chiedevano interviste rispondeva che ne aveva rilasciata una negli anni Ottanta: «Ripub-

blicate quella». Ci sono molti grandi nomi che vengono da prestigiose collezioni e non poteva mancare Yayoi Kusama con uno dei suoi Infinity Nets, tele nere cosparse di una rete bianca di particelle impercettibili. Le sezioni della mostra sono Vuoto, Flusso e Simulazione: come zona cuscinetto tra le prime due c’è una sala dedicata a Fluxus (tra gli altri Nam June Paik, John Cage, Yoko Ono) che ha sistematizzato il movimento mostrandoci l’evocazione del vuoto nel quotidiano. Le parti successive sono più minacciose. Sarete tesi davanti alla statua iperrealista di un uomo di Duane Hanson, che sembra così vera da farci sentire un gusto quasi perverso per l’inganno. A prima vista appare cinica e crudele Alexandra Domanovic che mostra l’aggiornamento dei numeri delle persone colpite dal Covid, senza commenti, lasciando quindi sugli schermi quelle immagini da stock che l’industria dell’elettronica utilizza semplicemente per provare il corretto funzionamento delle apparecchiature.

Ai Weiwei, “Untitled (After Seurat)”, 2021 Courtesy Seolhaeone Museum

Il periodo del lockdown ci ha convinti che la simulazione fosse l’acqua con cui riempire un bicchiere rimasto vuoto di realtà. E allora attraverso un visore ci si può perdere in una sorta di Caverna di Platone virtuale, dove le ombre sono più reali di chi le proietta, se è ciò che siamo abituati a vedere. Ed eccoci in un attimo passati dall’influenza della tecnologia sulla realtà alla tecnologia che diventa essa stessa la nuova realtà (non più?) virtuale, in una sorta di scontro prefigurato passo dopo passo da Dadamaino, Balla, Boccioni, Picasso, Magritte e molti altri in una mostra che riesce nella magia di negare il vuoto affermandolo. A chiudere il percorso è Ai Weiwei, che manipola Seraut aggiungendo la figura di un rifugiato a un’opera iconica che ricrea con i mattoncini Lego: richiama i pixel, ma soprattutto mette in discussione l’unicità dell’arte.

12 febbraio 2023 111 smART Nicolas Ballario

Il lato oscuro della leggenda

Bisognerebbe proporre una legge per la protezione dei miti, delle leggende, degli idoli sui quali abbiamo investito affetto, denaro, tempo, e amore. Non per difenderli da attacchi esterni, ma da loro stessi. Con l’ennesimo litigio, anche se questa volta per interposta persona, Roger Waters e David Gilmour continuano a duellare, eternamente e senza posa, tentando di distruggere l’incontaminata bellezza della loro musica. Tra pochi giorni, il primo di marzo, si festeggeranno i 50 anni dalla pubblicazione di una delle opere più potenti della storia della musica, il disco che non è quasi mai uscito dalle classifiche (con la prima edizione è rimasto nella top 100 americana per 15 anni consecutivi), una audacissima fantasia intitolata “The dark side of the moon”, risultato supremo della ambizione sfrenata di cui fu capace la cultura rock, una rivoluzionaria utopia d’arte che affrontava in poco più di 40 minuti, questo era il tempo massimo consentito dal vinile, tutti i più importanti temi dell’esistenza, la nascita, il tempo, il denaro, la pazzia, il sesso.

Riuscì talmente bene da diventare un enorme successo di massa, con una struttura complessa, sperimentale. Non aveva nulla

UP & DOWN

Colapesce e Dimartino sono riusciti in un’ impresa che poteva sembrare impossibile, tornare al festival dopo il successo devastante di “Musica leggerissima”, con una canzone che potrebbe essere intitolata “Musica leggerissima 2, la vendetta”, e uscirne comunque bene, anzi benissimo.

Hanno tutte le attenuanti di questo mondo, siamo d’accordo, però se andiamo ad ascoltare le parole delle canzoni che i più giovani hanno portato a Sanremo, c’è davvero tanta disperazione, e senza accenni di protesta, tanti amori difficili, andati a male, infelici. Ma davvero non c’è altro?

Il mondo celebra i cinquant’anni del capolavoro “The dark side of the moon”. Mentre David Gilmour e Roger Waters continuano a litigare

dei codici che attribuiamo all’idea di popolarità, eppure successe, ha venduto decine di milioni di copie e ancora oggi mantiene inalterato il suo potere attrattivo. Le ragioni di questa eterna giovinezza sono in parte misteriose, ma di sicuro derivano dallo stato di grazia in cui fu concepito, nel momento di massima coesione dei quattro della band, e dalla cultura del tempo che consentiva, o meglio incoraggiava la ricerca del nuovo, ovvero esattamente quello che manca alla produzione contemporanea. C’è tanta gente che ci ha lasciato il cuore su quel disco. Ma a rovinare la festa ci provano gli stessi protagonisti. Con un post al vetriolo di alcuni giorni fa, la moglie di Gilmour, la giornalista Polly Samson, ha infamato Waters con accuse gravissime: antisemita, filo-Putin, e poi ancora ladro, bugiardo, concludendo, e qui viene quasi da ridere, come se fosse l’accusa più grave di tutte: «Canti in playback». Una vera coltellata da dire a un Pink Floyd. Delle loro liti sappiamo tutto, si sono separati malamente, si sono fatti causa, ma questo non ha impedito che in casi del tutto eccezionali potessero ritrovarsi sul palco. E ora si esagera. Ci vorrebbe una legge che impedisse ai miti di tirarsi gli stracci in pubblico, di sporcare le loro opere, insomma il primo di marzo vorremmo festeggiare in santa pace la bellezza di “The dark side of the moon”, senza le penose interferenze di quelli che l’hanno realizzata.

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Foto: V. A. Jones
PA Images
GettyImages
12 febbraio 2023 113 LE GAUDENTI NOTE Gino Castaldo
Roger Waters, cofondatore dei Pink Floyd, in uno scatto del 2020

Se la quota pop diventa tassa

Mauro Corona, implacabile, continua a esternare le sue opinioni sullo scibile umano a Cartabianca. Senza un vero perché

Alcuni ingenui si erano cullati nella pia illusione che, con la saga della gallina, l’insulto piccino enunciato con veemenza contro Bianca Berlinguer nel lontano 2020 la presenza di Mauro Corona a “Cartabianca” fosse conclusa. Invece la natura matrigna, che allatta con vigore quello strano luogo di parole incrociate altrimenti detto talk show, ha deciso che delle esternazioni dello scrittore che vien dalla montagna non si potesse proprio fare a meno, quasi come quelle del professor Orsini. Così la somministrazione settimanale si è consolidata con implacabile rigore. In barba al detto che prova a mettere in guardia lo spettatore (per cui nel giorno di Marte “non si sposa, non si parte, non si da principio all’arte”), Maurizio Corona detto Mauro scultore, alpinista, sportivo e autore di innumerevoli volumi si regala al suo pubblico immoto come una cartolina. Inquadratura fissa, braccia scoperte e tono squillante, viene chiamato in causa ogni inizio di puntata per un tempo sempre più dilatato, che oltrepassa con agio la mezz’ora. Trentaquattro minuti per la precisione, in cui Corona descrive nel dettaglio la sua avvincente settimana, tra pelli di foca e neve fresca, e poi l’onore al dio Bacco, una buona fumata di sigaro, l’osservazione delle Dolomiti. E tra un paesaggio e l’altro viene mescolato come una grande materia indistinta, la sua personale opinione sulla guerra, la coltivazione diretta, l’educazione

Lo scrittore alpinista Mauro Corona interviene nel programma di Bianca Berlinguer “Cartabianca” (Rai Tre) il martedì in prima serata

dei figli, i prezzi, la conduzione sanremese firmata Amadeus, i cambiamenti climatici, l’igiene personale, la delocalizzazione, il nichilismo del Terzo Millennio, la lotta alla mafia, brava Meloni, mannaggia Pd e così via. Il tutto sapidamente condito da due tormentoni, tipo il ritornello tanto caro ai sopravvissuti dell’Ariston. Innanzitutto, la mano che corre spesso sul microfono pronto alla minaccia (che purtroppo raramente si concretizza) di lasciare lo studio. E poi quel “Bianchina” con cui ostinatamente appella la padrona di casa, un diminutivo che nel 2023 risulta gradevole come le unghie sulla lavagna e che potrebbe essere giustificato solo se nel suo studio Vespa venisse chiamato “Brunetto”. Insomma, dopo un quasi settennato imprescindibile a detta della stessa Berlinguer («Corona, lei ci sarà fino a che questo programma andrà in onda» ha dichiarato senza pietà), viene da chiedersi quanto sia bello il gioco quando, anziché poco, dura all’infinito. Perché si è capito che ognuno a suo modo ha deciso per amor di ascolti di pagare una tassa al pop neanche fosse una cartella esattoriale. Ma se si riuscisse seppur flebilmente a intravedere la luce della rottamazione in fondo al tunnel sarebbe cosa assai gradita.

DA GUARDARE MA ANCHE NO

Psicologo, padre, vedovo disperato, Jimmy cerca una strada plausibile per riemergere dalle difficolta della vita. Ovvero “Shrinking” (AppleTv), serie che fa bene al cuore, all’intelligenza e al senso dell’umorismo. Anche grazie alla presenza di Harrison Ford vecchio lupo solitario, cinico, sgualcito e irresistibile

“Mare Fuori”, serie fenomeno Rai e poi Netflix, ora di nuovo Rai con tanto di record di streaming, nella sua terza stagione perde qualche colpo di sceneggiatura. E fa a dire a Pinuccio, quello che per capirci ha ucciso un uomo a mani nude: «Vedi quanto è bella Napoli? Tu sei più bella ancora».

Foto: S. Chioccia –Ipa
114 12 febbraio 2023
HO VISTO COSE Beatrice Dondi

Nan Goldin in battaglia

Una testimone, una sopravvissuta, un’artista. È raro che queste tre condizioni convivano in una persona sola. Ma è ciò che succede con Nan Goldin, grande fotografa e protagonista totale del bellissimo “All the Beauty and the Bloodshed”, Leone d’oro a Venezia e ora candidato all’Oscar. Che ci avvince e ci scuote proprio perché va avanti e indietro nel tempo fondendo poco a poco questi piani in un’unica, poderosa corrente. Ecco dunque Nancy, la bambina ebrea della middle class che a 11 anni perde l’amata sorella maggiore, suicida, e quel che è peggio vede i genitori nasconderle la verità. Ecco la giovane ribelle espulsa da tutte le scuole e cresciuta in famiglie affidatarie, ribattezzata Nan dall’amico gay David Armstrong, con cui divide casa e vita spericolata nella New York underground anni ‘70 e ‘80. Ecco infine Nan Goldin, la fotografa di fama mondiale che dopo aver vinto una lunga dipendenza da farmaci oppioidi getta il suo nome e il suo corpo in una guerra che sembra persa in partenza. Quella combattuta dal collettivo P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now) contro la Sackler, colosso farmaceutico che ha macinato vite e mi-

AZIONE! E STOP

Se le grandi piattaforme segnalano raramente gli autori, Raiplay insiste a proporre “collezioni” di grandi nomi, classici e non. Così, accanto ai capolavori di Charlie Chaplin, sono disponibili anche diversi film di Hirokazu Kore-eda, il grande regista giapponese di “Un affare di famiglia”, “Little Sister”, Father and Son”. Che bellezza.

Si chiama multiprogrammazione. In teoria dovrebbe favorire varietà e qualità dell’offerta. In pratica è (anche) una nuova forma di deregulation che consente prezzi più alti per gli “eventi” in sala pochi giorni. Con biglietti fino a 17 euro, il film-concerto “BTS: Yet To Come in Cinemas” batte ogni record. Altro che spettacolo popolare!

La New York degli anni ’70 e ’80. La grande fotografa sfida la casa farmaceutica che macina miliardi con un antidolorifico letale

liardi con un antidolorifico che causa dipendenza e morte.

Naturalmente la testimone, la sopravvissuta, l’artista sono la stessa persona. Ma è quel trauma iniziale che farà di Nan Goldin una sonda sensibilissima all’indifferenza, al conformismo, allo stigma che colpisce i “diversi”. È l’aver attraversato la stagione dell’Aids, mentre i suoi amici della comunità queer morivano a mazzi (uno dei capitoli più struggenti, benché inascoltati quegli artisti erano grandi comunicatori), a rendere così preziose le magnifiche fotografie di cui è costellato il film, schegge incandescenti di un mondo scomparso. Mentre è la capacità d’ascolto di Laura Poitras (suo “Citizenfour”, docu-Oscar su Snowden), la delicatezza con cui ha raccolto i ricordi della Goldin, a rendere questo viaggio così straziante. Oltre che illuminante.

Partiti dal Metropolitan di New York, dove gli attivisti del P.A.I.N. inscenano flashmob contro i Sackler, filantropi celebrati nei più grandi musei del mondo, torniamo a casa Goldin, dove il padre e la madre dell’artista, ormai anziani, ricordano la figlia suicida in una scena breve quanto memorabile. Mai forse la follia, l’estraneità e insieme la familiarità dei nostri genitori, hanno prodotto luce più abbagliante e definitiva. Alla fine tutta quella bellezza e il sangue versato non saranno stati inutili. Ed è già moltissimo.

TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE di Laura Poitras Usa, 117’
12 febbraio 2023 115 BUIO IN SALA
Fabio Ferzetti

Attenti al lupo nel giardino

Ho visto il lupo. Per la verità erano due e belli grossi. Sono stata fortunata perché oltre e vederli da vicino, ho potuto assistere ad una vera azione di caccia. Abito in Valdichiana, in Toscana. Una zona di pianura molto antropizzata, senza boschi e con tanti campi coltivati: il paradiso dei fagiani e un tempo delle starne. A gennaio un piccolo branco di caprioli si è trasferito nell’oliveta davanti al giardino della mia casa.

Se da una parte mi faceva piacere vedere i loro occhi languidi e le orecchie a padella spuntare tra l’erba mentre sonnecchiavano ancora, dall’altra mi risuonava nella testa l’avvertimento di un agronomo forestale esperto in animali selvatici che avevo intervistato dieci anni fa. «Ricordati che quando la selvaggina si avvicina troppo ai centri abitati, vuol dire che dietro ci sono i predatori, cioè i lupi».

Aveva ragione. Ero a casa con la porta finestra aperta perché il sole era abbastanza tiepido nonostante fosse gennaio. Erano circa le dieci di mattina e stavo bevendo l’ennesimo caffè nel tentativo di schiarirmi le idee per affrontare la lunga giornata piena di impegni. Ad un certo punto i cani hanno cominciato ad abbaiare in quel modo che ti dà il senso di un pericolo imminente. Sono corsa fuori e ho visto i lupi. Hanno accerchiato i caprioli che hanno

CAREZZE E GRAFFI

Un esemplare di lupo: sono una specie protetta, e il loro aumento ha spinto la selvaggina a cercare rifugio vicino ai centri abitati

Un gruppo di caprioli. E l’attacco dei predatori. In Valdichiana, ma è allarme anche altrove: i branchi si avvicinano troppo alle case

Il Canis Lupus è una specie particolarmente protetta da molte leggi internazionali. Convenzione di Berna del 1979; Direttiva Habitat 92/43/ CEE recepita in Italia con il DPR 8 settembre 1997 n357; legge 157 del 1992 sulla caccia.

Non cercare di fare amicizia con i lupi. Non lasciare loro cibo a disposizione. Non lasciare animali domestici liberi la notte in aree non protette. A passeggio nei boschi o nelle campagne, tenere sempre il cane al guinzaglio.

cominciato a scappare in ogni direzione. Il meno fortunato ha tentato con un balzo di sfuggire al suo carnefice, senza riuscirci. Il lupo è stato più veloce lo ha agguantato al costato, atterrandolo. Intanto l’altro ha inseguito il resto del branco nella direzione opposta. Non sto a dirvi come mi sono sentita in quei momenti. Non ho idea neanche di quanti minuti o secondi siano passati. Avevo il cuore in gola, mi scendevano le lacrime, avevo paura e allo stesso tempo ero emozionata.

Ero come avvolta in una tempesta di sensazioni e non riuscivo a muovermi. Intanto il lupo, quello più grosso, che aveva inseguito il branco, è tornato indietro. Si è soffermato a guardarci senza interesse e ha proseguito verso il suo compagno che stava trascinando via la preda. Da quel giorno non siamo più usciti a fare le nostre lunghe passeggiate in campagna.

Il mio non è stato un episodio isolato. Emilia Romagna e Toscana detengono il record di presenza del grande predatore: da sei a dieci esemplari ogni cento chilometri quadrati.

Ad Arezzo si è tenuto un tavolo per l’ordine e la sicurezza pubblica convocato dal prefetto. Il consiglio è quello di starsene al chiuso, uscire con i cani al guinzaglio, tenere tutto sprangato. In poche parole siamo prigionieri in casa.

12 febbraio 2023 117 AMICI BESTIALI
Carignani
Foto: De Agostini –GettyImages
Viola

Come fondere la Raclette

Grigliato o nelle padelline, con le patate e i cetrioli sottaceto. Ma questo formaggio svizzero può anche essere solo grattugiato

Nelle verdi vallate del Vallese le mucche pascolano godendo di un’aria incontaminata grazie a un clima alpino che soffia tra le alte montagne attraversate da torrenti dalle acque limpide e contornate da una flora rigogliosa. Una serie di fattori che regalano all’uomo un latte ricco e saporito dal quale viene ricavato un formaggio da latte vaccino crudo a pasta semidura, di colore giallo paglierino, dal gusto tendente a un quid giusto di acidità ammiccante. Parliamo della famosa Raclette du Valais uno dei più famosi formaggi sviz-

Il nome Raclette deriva dal francese “racler”, ovvero raschiare, per ricette filanti

ri un po’ ingombrante, che richiama direttamente il metodo più ancestrale di fusione. In alternativa ci sono grill più contenuti - da porre magari a centrotavola per enfatizzare la parte conviviale di questa preparazione - che contengono varie padelline che permettono di scaldare piccole porzioni di formaggio che si cuocerà piuttosto rapidamente. Questa la premessa per la preparazione di questa fondente e voluttuosa ricetta che inizia (dopo aver eliminato le impurità) scaldando il formaggio sia che si tratti di fuoco o grill diretto raschiandolo poi sul piatto. Se invece si utilizzano i padellini si farà scivolare il formaggio con le apposite palette. A corollario saranno accomodati i classici contorni: calde patate lessate (ma anche ottime quella al cartoccio o ancor meglio sotto cenere) e mantenute a temperatura in un pannetto e gli immancabili cetriolini sott’aceto in una sorta di ideale contrappunto per ritrovare il sapore del formaggio filante adagiato su una base neutra (il tubero) e la nota croccante e acidula dei cetriolini. In abbinamento se si vuole qualcosa di non alcolico ma del tutto tradizionale si può sorseggiare una profumata tisana che con il calore amplifica il boccone e ne richiama al contempo gusti e profumi per un tuffo, anche ideale, nelle valli d’origine.

zeri, prodotto dal 2007 seguendo un rigido disciplinare destinato solamente alla Raclette Vallese Dop. Il nome si rifà a un termine che i pastori provenienti dal Valais utilizzavano e deriva dal verbo francese “racler”, ovvero raschiare o grattare. Infatti si può utilizzare così naturalmente accanto a un buon pane casereccio ovvero seguendo un rituale risalente già ai secoli scorsi nella versione cotta e filante. Ovviamente il fuoco migliore sarebbe quello crepitante di un camino con i suoi profumi che pervadono l’ambiente ma, ai giorni nostri, la cottura è stata surrogata da strumenti che ben fanno il loro dovere pur lasciando un po’ in disparte la parte magica della legna che brucia vicino alla toma dimezzata. In alternativa sono in vendita appositi grill in cui viene inserito il pezzo di formaggio che viene scaldato dall’alto tramite resistenze elettriche: un modo, maga-

DOLCE E AMARO

DRAGONCELLO

Anche detto Estragone (Artemisia draculunus). Tempo fa impazzava nell’alta cucina e per immediata emulazione anche in quella più basica per via di quell’aroma tra anice e levistico. Ora resta più che altro nel ricordo di quei tempi.

IMPIATTATA SPLASH

Quello che è un sapiente movimento del cucchiaio che crea nel piatto un effetto deflagrante per le salse, diventa terribile quando mal riuscito. Prima di cimentarsi col cliente meglio provare bene prima.

Foto: Getty Images
118 12 febbraio 2023
GUIDE DE L'ESPRESSO A TAVOLA Andrea Grignaffini

GUIDE DE L'ESPRESSO IL VINO Luca Gardini

Un perfetto anfiteatro

L’ossessione per la ricerca della qualità a Monte Rossa, inizia all’atto della fondazione, nel 1972, quando Paolo Rabotti, con la preziosa assistenza della moglie Paola, individua un anfiteatro di colline a sud del Lago d’Iseo. È lì che secondo lui la combinazione di terreni morenico-glaciali, esposizione e perfetta ventilazione permettono di coltivare uve adatte alle sue ambizioni. Quello di Paolo è progetto raffinato, che prima di altri introduce concetti moderni, sopra tutti l’idea di un vino evoluto, figlio di scelte ben precise in ogni tappa della produzione, utilizzo della tecnologia in primis. Non a caso fu il primo presidente del Consorzio di Tutela, nel 1990. Fin dall’inizio abbandona i vini fermi per le bollicine, optando per il Metodo Classico e realizzando una serie di etichette, tra cui il Cabochon, che hanno scritto la storia della tipologia.

Monte Rossa è arrivato nel 2022 ai 50 anni di storia, un progetto ora portato avanti egregiamente, con grande competenza, dal figlio Emanuele. I paradigmi sono sempre gli stessi, quelli che si concretizzano in grandi vini: impeccabile artigianato in vigna, ora 70 ettari di proprietà, modernissime strumentazioni nella nuovissima, fascinosa cantina e un utilizzo sapiente dei vini di riserva, che ha come esito una pulizia di fattura con pochi eguali. Si va dal Franciacorta DOCG Brut Blanc de Blancs P.R., la bottiglia dedicata ai fondatori, Chardonnay in purezza, almeno 24 mesi sui lieviti, naso con sensazioni di frutta a polpa gialla e mela verde, tocchi balsamici e di timo, palato con sferzate iodate, finale citrino e di fiori gialli, ritorno fruttato.

Poi c’è il Franciacorta DOCG Dosaggio

Zero Cabochon, una delle più alte espressioni franciacortine, vino di una raffinatezza inarrivabile. Chardonnay e Pinot Nero in blend, naso di bergamotto, pesca tabacchiera, con tocchi di camomilla e gelsomino. Bocca tesa e croccante, di grande persistenza, con ritorno floreale-agrumato.

Una combinazione di terreni morenico-glaciali ideali per il Franciacorta di qualità. Che si tramanda di padre in figlio

Le nuove cantine di Terra Rossa. A destra: Emanuele Rabotti

FRANCIACORTA DOCG BRUT CABOCHON

FUORISERIE N° 024

PUNTEGGIO: 100/100

Blend Chardonnay-Pinot Nero 70/30, con apporto del 20% di vini di riserva, uno dei “sempreverdi” della produzione aziendale. Fermentato in piccoli fusti di rovere, affinato 36 mesi. Naso con note di confetto, mandorla, frutto della passione, sferzate di menta selvatica. Beva di persistenza e croccantezza, con ritorno officinale-ammandorlato e finale fruttato. Davvero gustosissimo con un risotto salmerino e zafferano.

SOCIETÀ AGRICOLA MONTE ROSSA SRL

Cantina Monte Rossa del Barco

Via per Ospitaletto, 131

Cazzago San Martino (BS)

Tel. 030 725066

info@monterossa.com

12 febbraio 2023 119

Chi è orfano di Socialismo

Cara Rossini, la povera gente è diventata, nella nostra società, un’entità astratta, non ha né corpo, né voce, né chi li rappresenta. È scomparso dal linguaggio sociale e politico ogni riferimento a giustizia sociale, uguaglianza sociale, internazionalismo, pacifismo, diritti universali di uomini e donne. La legge del mercato, con tutto l’armamentario dei mezzi di comunicazione e degli strumenti informatici, sta divorando gli ultimi residui di razionalità e di pensiero critico. Le passioni, un tempo fermenti di forti cambiamenti sociali e politici, si orientano, oggi, verso illusorie mete di appagamento di bisogni indotti: «Sei per quanto consumi». E io mi sento orfano di Socialismo. La sinistra storica – Pci e Psi – ha rappresentato il momento più alto di partecipazione e progresso del nostro Paese: Statuto dei Lavoratori, maternità responsabile, divorzio, legge Basaglia, Sanità e Istruzione di alto livello europeo. Tutto questo grazie alle lotte sociali dei lavoratori e dei loro rappresentanti in Parlamento. Oggi dov’è la sinistra? Oggi chi parla di Socialismo? Nessuno! L’alternativa alla cultura populista ed egoista non sarà mai e poi mai il Partito democratico di Letta, Franceschini o altri che verranno. Allora cosa ci resta per raggiungere l’utopia

DIRETTORE RESPONSABILE:

Alessandro Mauro Rossi

CAPOREDATTORI CENTRALI:

Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario)

CAPOREDATTORE: Lirio Abbate

UFFICIO CENTRALE:

Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice)

Anna Dichiarante

REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Angiola

Codacci-Pisanelli (caposervizio), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Gloria Riva, Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco

ART DIRECTOR:

Stefano Cipolla (caporedattore)

UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore)

PHOTOEDITOR:

Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice)

RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia

Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini

SEGRETERIA DI REDAZIONE:

Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio

CONTROLLO DI QUALITÀ: Fausto Raso

OPINIONI: Ray Banhoff, Fabrizio Barca, Francesca Barra, Alberto Bruschini, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Maurizio Costanzo, Carlo Cottarelli, Virman Cusenza, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Enrico Giovannini, Nicola Graziano, Bernard Guetta, Sandro Magister, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Claudia Sorlini, Oliviero Toscani, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza

COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Nicolas Ballario, Giuliano

del Socialismo. Forse soltanto educare l’essere umano ad essere “umano”.

Capisco il suo smarrimento, signor Trotta, ma penso anche che i suoi rimpianti si basino su un mondo e su protagonisti un po' idealizzati. Senza nominarli, lei parla degli anni Settanta perché soltanto allora si realizzarono i grandi cambiamenti che enumera, ma sembra dimenticare che furono possibili grazie all'incontro tra la capacità di governo (e di compromesso) della Democrazia cristiana e le nuove energie di un Partito socialista anch’esso al comando. Il Partito comunista restava invece all'opposizione tanto che esitò su molte di quelle innovazioni: fu per esempio inizialmente contrario al divorzio e al suo referendum. Legato giocoforza alla tradizionale lotta di classe, non capì in tempo l'insorgere dei nuovi diritti. Incarnava però un’egemonia indiscussa in tutti i campi della cultura, dallo spettacolo alla letteratura, riuscendo a coniugare la ricerca della giustizia sociale con la libertà creativa. Un patrimonio di storia e di esperienza che oggi si è trasformato nel suo contrario: liberismo in economia e canoni politicamente corretti nella cultura. Per distruggere così ogni appartenenza.

Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Viola Carignani, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Stefano Del Re, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Luca Gardini, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Andrea Grignaffini, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Gaia Manzini, Piero Melati, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Massimiliano Panarari, Simone Pieranni, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valerio, Stefano Vastano

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120 12 febbraio 2023

Dov’è Oscar Farinetti che ho un’idea imprenditoriale da dar le paghe a Slow Food? Il mio brand si chiama Bar Degrado, ho già gli adesivi e li sogno fuori dai locali al posto di quelli delle guide stellate. Ora vi spiego. Il mondo è malato e facciamo tutti finta di no. Far finta è la malattia. Facciamo così finta che ormai crediamo alle nostre bugie. Confondiamo la realtà con una diretta sugli stramaledetti social, che sono tutto fuorché luoghi di socializzazione. La ridicolaggine dei comportamenti online contagia quegli esseri umani che ormai non lo sanno più frequentare il mondo reale, si

E poi ci troveremo come le star al Degrado Bar

annoiano. Se il telefono non ha campo li vedi andare letteralmente in astinenza da like e visualizzazioni. Quando abbiamo chinato la testa sugli smartphone, una decina di anni fa, non l’abbiamo più rialzata e siamo tutti rimasti un po’ a novanta. Nel mentre la malattia cresce: fanno così finta che letteralmente diventano finti. Donne-volpe con chiappe rifatte e due canotti al posto delle labbra vanno a scuola a prendere i figli. La stirpe degli uomini botoxati e coi denti bianco abbagliante ti sfanala col Suv per sorpassarti. Il delirio di onnipotenza impera. Tutto è sessualizzato, essere strafighi è l’unica cosa che conta ed è forse uno degli ultimi strumenti di ascesa sociale.

In questo caos mancano delle guide.

L’era degli intellettuali è finita. Pasolini, Arbasino, Calvino, Bene, Eco, chi c’è oggi come loro? Accendete la tv la sera e guar-

date i talk, ecco la risposta. Il vuoto. L’intellighènzia dei paginoni culturali italiani, invece che spiegarvi il mondo, si dedica alle celebrities e ve la mena col moralismo. Non è “artistico” se non è depresso o non parla di drammi personali, catastrofi, minoranze, coming out e depressioni. I romanzi che escono sono tutti pieni di questa roba, nessuno scrive perché si diverte. È una messa di valori indotti, infatti il popolo diserta la lettura e snobba la cultura. Eccoci quindi ai miei bar. «Io vivo un metro più in là, da quel che tu chiami realtà», il vecchio ritornello di Grignani è il mio mantra di questo periodo. Ho una Panda del 1999 color verde bottiglia e ho messo sul parabrezza un galleggiante da pescatori a forma di germano. La chiamo “Panda Quack” e con lei batto le statali in cerca di luoghi sinceri. Bar poco social in cui entri e ti squadrano tutti come in un saloon C’è il Bar della Lorella, ricavato dal piano terra di casa sua, in cui si fuma a serrande chiuse e qualcuno gioca alla PlayStation o alle slot e il bar di Garibaldi, che dice a tutti le previsioni meteo e racconta di quando mise un sacco di cemento nella Simca per non farle perdere aderenza in curva. Uomini con le scarpe antinfortunistiche fanno l’occhio languido alle bariste e coppiette di amanti si incontrano in posti in cui nessuno li conosce. La vita è ancora un romanzo. Da Biella a Bari, l’Italia è piena di bar degrado. Perché tutto è degrado, dal baretto dei poveri alla vita ostentata dai famosi palestrati e tatuati che stanno a petto nudo su Instagram.

Lo so che vi piacciono i miei bar, lo so che vorreste venirci, che sarebbe avventuroso. La realtà è talmente esotica per chi non la frequenta che quasi potrei diventare un tour operator del Degrado, ma non cederò. Mi sento come uno che scopre un habitat protetto che ha paura di distruggerlo. Sto preservando gli ultimi, li sto rendendo i primi anche in Terra.

BENGALA
Il mondo è inondato dalla finzione dei social. La proposta è riscoprire quei locali dove s’incontra la realtà
122 12 febbraio 2023

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