La fotografia nella sociologia visuale: un'indagine sul cappello e la sua espressività

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Sede di Milano Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Linguaggi dei media

La fotografia nella sociologia visuale: un’indagine sul cappello e la sua espressività

Relatore: Prof. William Caretti Willinghton

Tesi di laurea di: Sara Bazzeghini N. Matricola: 5007936

Anno Accademico 2022/2023

Indice

Introduzione

5

1. La sociologia visuale

7

1.1 Il problema identitario

7

1.2 La nascita della sociologia visuale

9

1.3 La metodologia

12

2. Il cappello e l’identità

17

2.1 Una breve storia sull’uso del cappello

17

2.2 Scelte e vincoli dell’identità

20

3. Il processo produttivo

23

3.1 Il luogo

23

3.2 Obiettivi della ricerca

24

3.3 L’indagine sul campo

25

4. Restituzione dei risultati: il reportage

27

Conclusioni

57

Bibliografia

61

3

Introduzione Gli indumenti in quanto oggetti così attaccati al nostro corpo esprimono anche la nostra anima.

(Elisabeth Wilson, 2003) Le pagine a seguire parleranno precisamente di un poliedrico indumento e di anime1.

Il corpo è un involucro per l’anima, ma ci è dato fin dalla nascita senza troppe possibilità di scelta; non sempre ci si sente rispecchiati da esso, e così, tra le tante manipolazioni possibili, scegliamo gli abiti per riflettere la nostra anima o per mascherarla agli occhi degli altri.

A partire da questa considerazione, il cappello, in quanto indumento poliedrico e ancestrale, può essere usato quasi come metafora identitaria. Nella mia ricerca è stato utilizzato seguendo questa accezione; il cappello ha infatti avuto il ruolo di strumento conoscitivo.

Il punto di partenza del mio progetto di tesi si basa sul seguente interrogativo: quanto un accessorio di abbigliamento, come lo è il cappello, può raccontare dell’identità di un paese e dei suoi abitanti?

Pertanto, con l’intento di svelare le personalità e gli aspetti identitari di alcuni soggetti, ho esaminato il caso specifico del paese di Grosio, in Valtellina.

Affidandomi alle tecniche della sociologia visuale e scegliendo il genere del reportage fotografico come modalità d’indagine e restituzione dei risultati, ho effettuato una ricerca su 30 campioni.

Fotografando la gente locale con i propri copricapi e ponendo loro domande riguardo al legame che essi e il paese di Grosio hanno con questo particolare accessorio, ho cercato di ricostruire una piccola realtà di montagna svelandone origini, tradizioni, preconcetti, abitudini e costumi. È importate sottolineare che il seguente progetto di tesi non intende ricostruire l’identità di Grosio nella sua interezza, ma svelarne alcune sfumature.

1

In greco antico «ψυχή», tra le varie accezioni quella di «elemento distinto dal corpo».

5

2. Il cappello e l’identità Il seguente capitolo si concentrerà sulla funzione sociale del cappello, considerato come fonte di comunicazione nell’interazione sociale. Attraverso riferimenti sociologici e una breve esplorazione della storia del cappello, saranno esposte alcune delle interviste fatte agli abitanti di Grosio.

Il primo paragrafo offrirà una breve panoramica dell’evoluzione del cappello, collegandola a leggende, tradizioni e detti celebri del paese di Grosio.

Nel secondo paragrafo, invece, si cercherà di definire il ruolo dell’identità sociale: approfondendo le esperienze e le prospettive dei personaggi da me intervistati, verrà evidenziata la complessità delle scelte identitarie nella società attuale, in particolare in un contesto tradizionalista.

2.1 Una breve storia sull’uso del cappello Cappello, copricapo che asseconda la forma della testa, circondato quasi sempre da un breve lembo sollevato o abbassato, detto tesa. Se ne trovano tracce fin dalla più remota antichità e presso tutti i popoli. (Finzi et al., 1930) Il cappello è considerato uno degli accessori di abbigliamento più antichi, come attestato dalla Treccani15, alcuni dei primi copricapi di cui si ha testimonianza furono ritrovati in epoca preistorica.

Fin dall’antichità, il cappello è simbolo di protezione; originariamente nasce con lo scopo di pura protezione fisica, ma con lo sviluppo della società inizia ad acquisire significati sempre più ampi come quello di custode dell’identità. Presto, questo indumento entra a far parte di riti e cerimonie, acquista nuovi significati, diventando simbolo di riconoscimento e appartenenza, rappresentando, ad esempio, uno status sociale, domini di potere, appartenenza a quella o l’altra comunità religiosa.

Ogni secolo è caratterizzato da un particolare copricapo, che assume di volta in volta diverse sfumature, modificando il proprio aspetto anche in base alle diverse aree geografiche.

Nel Cinquecento, in Italia, compaiono per la prima volta cappelli e berretti; ogni città possedeva un proprio modello che variava per forma, materiale e colore. Il cappello oltre a identificare la città di appartenenza, distingueva i nobili dal popolo; quest’ultimo, infatti, ha continuato per molto tempo ad utilizzare il cappuccio, copricapo ereditato dal Medioevo.

15

Treccani. (s.d.). Cappello. In Enciclopedia Treccani online. https://www.treccani.it/enciclopedia/cappello

17

Il cappello moderno, così come ce lo immaginiamo oggi, nasce nell’Ottocento. In questo contesto è significativo menzionare la città di Alessandria in Italia, la quale nel 1857 vide la propria fortuna nella bottega di Giuseppe Borsalino da cui si sviluppò un’industria di fama mondiale che ancora oggi porta il suo nome.

La stima del Borsalino, in particolare del modello Fedora, è legata a un forte universo simbolico diffuso dalla sceneggiatura hollywoodiana16 e ancora oggi è un accessorio iconico che permette a chi lo indossa di identificarsi in un più ampio universo di valori. La sua iconicità è emersa anche nella mia ricerca nel paese montano di Grosio, molti degli intervistati hanno infatti menzionato il Borsalino, pronunciando celebri detti come “Dove c’è un gran cappello, c’è una grande testa”, o ancora, “Sotto il Borsalino ci sta una persona intelligente”. Probabilmente indossare questo cappello permette loro di identificarsi come persone agiate e autoritarie, attribuendo così particolari sfumature alla loro identità.

La valenza sociale e la forza comunicativa del cappello sono sempre state rilevanti, a testimoniarlo, l’esperienza del cappellaio londinese Herrigton che nei primi anni dell’Ottocento fu denunciato come perturbatore della quiete pubblica, soltanto per avere creato il cappello a cilindro.

Nonostante ciò, fu proprio il cilindro a dominare la scena dell’Ottocento, cappello formale ed elegante, indossato per lo più da ricchi uomini borghesi.

Anche le donne, fin dall’antichità, hanno indossato il cappello; in certi periodi storici e secondo certe religioni è stato persino obbligatorio portarlo in segno di rispetto e sudditanza. Per questo, nel corso degli anni il cappello è diventato simbolo di emancipazione e indipendenza nella moda femminile, grazie alla manipolazione che alcune donne ne hanno fatto come, ad esempio, la famosa paglietta indossata da Coco Chanel, rubata alla tradizione maschile.

Secondo il sociologo Veblen lo sfarzo degli abiti femminili serviva a rendere visibile la ricchezza dei mariti o della famiglia alla società, e la scomodità dettata da questi sfarzi a riflettere l’esenzione delle donne borghesi dal lavoro manuale e a evidenziarne il privilegio. I cappelli femminili dei primi anni del Novecento, dalle forme più disparate e fantasiose, ricchi di piume e decorazioni, ne sono un esempio lampante. Negli anni le dimensioni e gli sfarzi di questi cappelli crebbero sempre di più, arrivando addirittura a essere ornati con uccelli esotici imbalsamati.

16

Dagli anni Quaranta il Borsalino acquisisce un ruolo importante anche nella storia del cinema, essendo indossato da personaggi iconici come, ad esempio, da Humphrey Bogart in Rick Blaine di Casablanca, o trent’anni più tardi da Harrison Forde nei panni di Indiana Jones. Presto il modello Fedora promosso dalla celebre saga degli anni Settanta diventerà essenziale per la narrazione, attribuendo al cappello il ruolo di personaggio sui generis.

18

La tesi sostenuta da Veblen trova riscontro anche nella mia ricerca, in riferimento alle mude17 grosine. Il costume tradizionale grosino comprende cinque diverse tenute (muda da contadini, da montanari, da festa, da lutto e da sposi). Negli abiti maschili il cappello è fisso in tutte le tenute, privo di ornamenti e di forma semplice; negli abiti femminili è decorato da piume di struzzo e associato unicamente alle celebrazioni e ai giorni di festa. Nei giorni feriali, invece, le donne indossavano il fazzoletto e tutt’ora, coloro che svolgono lavori manuali, lo portano per proteggersi dal sole, dalla terra, dal fieno o dalla polvere.

L’uso quotidiano del fazzoletto è emblematico per descrivere l’archetipo della donna grosina: obbediente, servizievole e laboriosa. Le donne a Grosio sono sempre state abituate ai lavori pesanti, riportando le parole di una mia intervistata: “Spesso ti capitava di vedere le donne con il gerlo in mano, pieno o di legna o di fieno, e dietro, l’uomo con solo un rastrello.”

Siccome molti uomini migravano per cercare lavoro, dapprima a Venezia e poi in Svizzera, le mogli per lunghi periodi dell’anno dovevano gestire la numerosa prole, i prati e il bestiame. Il cappello tipico femminile, dunque, sarebbe stato d’impedimento durante lo svolgimento delle mansioni quotidiane: secondo una testimonianza riportata negli Annali universali di statistica (1834) dallo studioso Melchiorre Gioia, in tempi lontani, le donne grosine portavano cappelli «simili a quelli di cui fanno uso gli uomini».

Nonostante ciò, gli sfarzi tipici del tempo ricaddero nel vestiario, infatti, le mude femminili sono mutate negli anni, arricchendosi di ornamenti e colori. Il vestito da contadina è però rimasto il più semplice e comodo.

Il progresso e le evoluzioni tecnologiche degli anni Cinquanta hanno influito sull’uso del cappello e i nuovi mezzi di trasporto come treni, automobili e aerei lo hanno reso scomodo e ingombrante.

Nello specifico, le dimensioni ridotte delle nuove automobili hanno complicato l’uso del cappello durante la guida, poiché veniva schiacciato dal tettuccio e limitava la visuale. Non a caso, nel paese di Grosio è ancora in voga un famoso detto: “Non fidarti mai di un uomo col cappello su una Panda”.

Così, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, questo antico copricapo è stato indossato sempre meno, per poi diventare simbolo di ribellione nelle nuove generazioni, come nel caso del berretto da baseball usato al contrario. È curioso sottolineare che, tra i giovani del paese esaminato, l’unico cappello utilizzato è proprio il berretto a visiera, spesso portato all’indietro. Durante un’intervista ho chiesto a una ragazza di 17 Termine dialettale, in questo contesto rappresenta “l’insieme dei capi del costume tradizionale feriale (de tuc’ i di) o festivo (de la fèsta). (Antonioli et al., 2012)

19

vent’anni se, guardando serie tv o film, le fosse mai venuto il desiderio di indossare un qualche cappello in particolare; riporto di seguito le sue risposte, che non necessitano di parole aggiuntive: “Una volta al mare avevo preso un cappello di paglia, io verde e la mia amica azzurro, bello grande, però una volta tornate non lo abbiamo più messo ovviamente.” e ha continuato dicendo “Invece, quando sono andata in vacanza sia a Corfù che a Valencia, ho comprato dei cappelli con la visiera a becco e quelli li ho usati anche per uscire qui. Alla fine, è l’unico modello più accettato tra i giovani.”

Come si è visto, anche se il cappello ha subito l’influenza delle mode del tempo, non è mai scomparso e mai scomparirà completamente grazie alla sua funzione intrinseca, cioè di protezione dagli agenti atmosferici. Inevitabilmente, questo indumento conserverà per sempre anche il suo significato allegorico: “Il copricapo è simbolo di protezione: un individuo che indossa un cappello tutela la propria identità.

Oppure ne cerca una nuova. Alterando il corpo con un cappello si rende una persona differente dalle altre attraverso il linguaggio visivo; infatti, il copricapo rappresenta una comunicazione nell'interazione sociale.” (Vanni, 2004: 35)

2.2 Scelte e vincoli dell’identità Secondo le teorie della psicologia sociale, l’identità è multipla, o in altre parole “un percorso di significato mai unico e definitivo”, ma in continua negoziazione “lungo assi di auto ed eteroriconoscimenti” (Talamo e Roma, 2007); le interazioni sociali sono considerate come luogo di gestione dell’identità, e in questo contesto possiamo considerare il cappello come un’importante fonte di comunicazione, attraverso cui scegliamo di presentare, o meglio rappresentare, le nostre identità.

Come riporta la Bovone in Rappresentarsi nel mondo. Comunicazione, identità, moda gli uomini impongono significati agli oggetti e li utilizzano per espandere la propria influenza nel mondo, cioè per comunicare. Tra i tanti oggetti che adoperiamo gli abiti sono quelli che più ci coinvolgono, essendo la rappresentazione quotidiana delle nostre identità.

Secondo la teoria drammaturgica di Goffman, nel palcoscenico della vita quotidiana, ogni individuo sceglie quale identità portare in scena al fine di «salvarsi la faccia» in una data situazione: L'individuo ritiene, di solito, di esercitare un controllo sul modo in cui appare agli occhi degli altri. Per questo ha bisogno di cosmetici, vestiti, e di strumenti per adattarli, aggiustarli e renderli più belli; […] in

20

breve, l'uomo ha bisogno di un corredo per la propria identità, per mezzo del quale poter manipolare la propria facciata personale. (Goffman, 1961, citato in Bovone, 2014, p. 39)

L’abbigliamento non è solo una scelta di gusto, ma anche l’adesione a un universo valoriale. Ogni giorno e in ogni acquisto scegliamo se aderire o opporci agli stereotipi sociali, cerchiamo un equilibrio tra le influenze culturali e le nostre volontà più intime. Eppure, non è affatto semplice, poiché la nostra esteriorità, fin da quando siamo giovani, è oggetto di discussione per le generazioni precedenti. Cresciamo con la consapevolezza che i nostri abiti possano creare incompatibilità con chi ci sta di fronte o generare contraddizioni che non sempre vogliamo affrontare.

Le influenze sociali risultano ancora più evidenti in un piccolo paesino tradizionalista, in cui tutti gli abitanti si conoscono tra loro. È come se, crescendo, ognuno definisse una e una sola identità che non può più essere cambiata nel corso degli anni, dal momento che è così che tutti nel paese ti conosco e ti accettano. Tra i miei intervistati, sia uomini che donne hanno acquistato nella loro vita dei cappelli che «non hanno mai avuto occasione di indossare». Spesso, il cappello è stato acquistato in vacanza e, una volta tornati al paese, riposto in un cassetto.

Un caso in particolare si è rilevato molto rappresentativo; durante un'intervista a una figura autorevole del paese, è stato chiesto se egli ritenesse che a Grosio fosse diffuso un preconcetto secondo cui solo le persone anziane e gli uomini potessero indossare il cappello. L’intervistato ha dapprima affermato “In paese si fanno dei commenti, ma non è che con questo si vieta alla gente di vestirsi come vuole. Io non mi sento condizionato, se volessi portare il cappello, lo metterei tranquillamente, indipendentemente da quello che possono pensare gli altri”, in seguito, dopo avergli mostrato alcune fotografie di personaggi eccentrici del paese ritratti mentre indossavano un panama (cappello tipico Sudamericano) ha confessato “Ho comprato anche io dei panama quando sono stato in Sud America, li ho portati qua pensando di metterli, ma non ho mai avuto l’occasione.

Però là, nell’ambiente, visto che lo portavano abitualmente, lo portavo anche io” e ancora “In paese effettivamente mi sento un po’ condizionato, e questo è vero. Nel senso che, bisogna vedersi quando lo indossi, se ti trovi a tuo agio. Io tendenzialmente il cappello non lo porto, e per questo, anche se li ho portati da fuori e ce li ho lì, concretamente qui non li metto”.

Mi viene naturale pensare che l’intervistato, indossando un cappello non tradizionale, avrebbe rischiato di contraddire l’identità scelta e costruita, e di generare confusione tra alcune delle sue relazioni sociali.

La stessa percezione è diffusa anche tra i giovani, una ragazza di vent’anni ha dichiarato: “Se inizi a mettere indumenti un po’ più particolari, accessori e cappelli, sei visto come uno strano” e ancora

21

“Io alla fine sono abituata, è che adesso mi sento bene così… è un po’ come se mi si fosse cucito sulla pelle, sono talmente abituata che mi vesto così perché mi sembra normale”.

Le abitudini cambiano e anche in un paese come Grosio, così legato alla tradizione, il cappello è passato in disuso e tende a richiamare oltremodo l’attenzione dei passanti. Alison Lurie, nel suo contributo a Il mutevole vocabolario della moda, descrive egregiamente l’uso del cappello nell’era post-moderna: “esso oggi sopravvive soprattutto come protezione dalle condizioni meteorologiche, come parte di un abbigliamento rituale (per esempio, in matrimoni formali) o come segno di età o di eccentricità individuale.” (Alison Lurie, 1981, in Baldini, 2005, p.152) Come avremo modo di vedere, le parole di Lurie si concretizzano anche nel reportage da me realizzato (vedi cap. 4). In paese il cappello è infatti indossato prevalentemente da anziani signori, personaggi eccentrici, durante alcune cerimonie formali o dal gruppo folkloristico grosino, con l’intento di tramandare il costume tradizionale.

22

3. Il processo produttivo Un giorno, leggendo Sul guardare di John Berger, sono stata colpita dall’analisi dello scrittore sull’antologia fotografica di August Sander, in particolare sulla fotografia intitolata Contadini che vanno a una festa da ballo (1914).

Lo scrittore ha scelto come chiave di lettura gli abiti indossati dai tre contadini rappresentati in foto, concentrandosi sul modo con cui tali vestiti erano portati. Una frase, in particolare, ha colto la mia attenzione, cito testualmente “Il solo indumento che sembrano portare con una certa disinvoltura è il cappello.”; l’associazione al paese d’origine di mio nonno e al ricordo dei miei prozii sono state immediate. Non riuscivo a immaginare i miei parenti senza un cappello in testa, non mi era mai capitato, effettivamente, di vedere la loro nuca.

La mia ricerca e la scelta di Grosio come paese d’esame nascono proprio da questa epifania.

Nel seguente capitolo, si cercherà di spiegare al meglio gli intenti e gli obiettivi della mia tesi, contestualizzando il luogo di indagine e mostrando le fasi di sviluppo.

3.1 Il luogo Grosio è un comune lombardo della provincia di Sondrio. Secondo gli ultimi dati ISTAT è abitato da 4338 cittadini.

Ha origini antiche e un vissuto florido, a testimoniarlo, la Rupe Magna con le incisioni rupestri di epoca preistorica, e i due castelli costruiti al suo fianco, il Castello di S. Faustino (X-XI sec) e il Castello Nuovo di periodo Visconteo (1350-1370).

Nella Guida alla Valtellina, edita dal CAI nel 1873, la Val Grosina è descritta come “un labirinto di valli, di balze, di varchi, di boschi, di pascoli, sormontati da ghiacciai e cime superbe […] Anche gli abitanti sono di tipo bello e robusto, e vi è tradizionale la riputazione di avvenenza del sesso femminile.”

In questa valle si viveva prevalentemente di pastorizia e coltivazione, ma fin dal 1500 si ha testimonianza di migrazioni temporanee a Venezia da parte di molti uomini Grosini, che partendo in cerca di lavoro, delegavano la conduzione dell’azienda domestica alle donne, le quali erano conosciute dai più per loro tempra e bellezza.

23

L’impegno verso la Serenissima ha influito molto sulla cultura Grosina e i suoi costumi; le fogge degli abiti tradizionali fondono insieme la cultura alpina e lo stile orientale, diventando prova tangibile di questo antico legame. È da questo stesso legame che nasce una delle leggende più conosciute in paese: la Serenissima Repubblica di Venezia avrebbe donato, come gesto di riconoscenza ai lavoratori Grosini, alcune delle più belle schiave armene.

Lo studioso Gabriele Antonioli, all’interno di Grosio cinquemila anni di storia, smentisce in parte questa narrazione e nell’interessante chiacchierata fatta insieme, ha affermato: “Io ho fatto ricerche storiche, per esempio, negli archivi di Venezia, e la deportazione di schiave armene non è testimoniata da nessuna parte… essendo questo avvenimento non in epoca preistorica, ma storica, in cui ci sono tanti documenti, è improbabile che questo sia accaduto. Di reale c’è che noi dal 1500 abbiamo avuto una forte corrente migratoria verso Venezia, e quindi, quando gli uomini tornavano in patria portavano quelle novità e quei costumi che erano presenti a Venezia.”

Questa leggenda, dunque, potrebbe essere falsa e vorrebbe contribuire a diffondere l’idea dell’archetipo della donna Grosina: laboriosa, affascinante e servizievole.

Per quanto riguarda il cappello, il suo uso in paese è sempre stato molto diffuso, essendo composto da un popolo di pastori e contadini. Dalle analisi fatte su alcuni inventari ottocenteschi, raccolti sempre da Antonioli, è emerso che per lungo tempo nella valle è stato in voga un cappello a cilindro, con forma troncoconica, tipico di quel periodo. In seguito, da metà Ottocento, è entrato in uso il cosiddetto capèl de Val Stagna, prodotto da un feltrificio di una delle valli laterali, che confluiscono verso Vicenza.

Dall’Ottocento fino ad oggi, le migrazioni si sono spostate in Svizzera, la tradizione della pastorizia si è persa nel tempo, e solo raramente capita di respirare per le strade odore di fieno e di stalla.

Secondo la mia percezione, questo cambiamento si è manifestato anche nella perdita del tradizionale uso del cappello.

3.2 Obiettivi della ricerca In accordo con la teoria di Diana Crane (2000), l’uso del cappello nella società industriale permette di costruire un’interessante chiave di lettura dell’epoca moderna, svelando tradizioni e costumi, rapporti di genere e relazioni tra classi sociali; inoltre, questo accessorio sarebbe uno specchio dell’identità sociale in tale epoca, considerata come prescritta a priori dalla classe di appartenenza e 24

necessariamente orientata sul lavoro. Nel postmoderno, invece, il cappello cede il posto alla T-shirt, capo duttile, senza nome, libero da costrutti sociali, riflesso di un’identità «fluida». (vedi Fig.1) Partendo da questa teoria, la mia ricerca si propone di dimostrare quanto il cappello, accessorio dall’origine antica, possa essere ancora una chiave di lettura della società, in grado di unire il passato con il presente.

Figura 1. Identità e abito (Bovone, 2014: 43)

L’importanza culturale che ha avuto questo capo nei secoli precedenti mi ha spinta a pensare che avesse ancora molto da raccontare. Così, come da tradizione antropologica, mi sono posta l’obiettivo di conoscere un paese e la sua gente attraverso un oggetto ordinario e materiale.

Ho individuato cinque aree d’indagine principali al fine di raccontare, attraverso il reportage, una storia il più completa e reale possibile: •

Le origini del paese (miti e leggende)

•

Il legame con la tradizione (antichi detti, usanze e gruppi folkloristici)

•

L’influenza sociale nelle scelte personali

•

Il cambio generazionale

•

Le sfumature identitarie di alcuni abitanti (il lavoro, le abitudini, i ricordi di giovinezza)

3.3 L’indagine sul campo Aver introdotto la sociologia visuale nel capitolo primo ci permette di comprendere al meglio le modalità di indagine utilizzate.

Per questa ricerca ho scelto di seguire un approccio di tipo qualitativo, e con l’uso della macchina fotografica ho sviluppato un nuovo modo di guardare al paese che, prima di allora, avevo vissuto solo durante le vacanze invernali ed estive, insieme a parenti o amici.

25

In questa occasione, invece, ho adottato un’osservazione partecipante18 prendendo parte a fiere, eventi sportivi e frequentando i luoghi di aggregazione abituali. In molte giornate si è rivelato complesso riuscire a incontrare persone; i bar storici, punti di ritrovo per eccellenza, stanno subendo una grande crisi in paese, per la quale molti proprietari si sono trovati costretti a chiudere temporaneamente o definitivamente le proprie attività.

Inizialmente ho provato ad approcciarmi alle persone in autonomia, ma per gli abitanti del paese sono considerata una forestiera e spesso la loro diffidenza li ha portati ad allontanarmi. Inoltre, i soggetti più anziani comunicano solo in dialetto e hanno difficoltà a comprendere il mio parlato. Per ovviare a queste problematiche, e rifacendomi all’esperienza di Cesare Zavattini e Paul Strand nella ricerca svolta per Un paese, ho chiesto ad alcuni abitanti del posto di accompagnarmi e introdurmi per primi ai soggetti che sceglievo di intervistare. L’utilizzo del mezzo fotografico, contrariamente a come si possa pensare, mi ha permesso di instaurare un rapporto più intimo con le persone, permettendogli di scegliere come mostrarsi.

Per le interviste ho scelto un modello non direttivo e semi-strutturato; ho chiesto agli intervistati di parlare del cappello e dei ricordi legati a questo indumento, limitandomi a riportare il dialogo sull’oggetto di studio solo in caso di ampie divagazioni. In base al contesto e alla situazione, ho effettuato sia interviste a due sia di gruppo (una sola è stata condotta per via telefonica). In totale, ho raccolto un campione di 30 intervistati.

Per sviluppare al meglio il progetto ho fatto miei alcuni degli gli insegnamenti della sociologia con le immagini, quali la fiducia nella soggettività e nella creatività, la veridicità delle fotografie a colori e della sequenza di immagini e l’utilizzo delle parole come guide di lettura.

Ho inoltre deciso di sperimentare l’’intervista con foto-stimolo su tre dei soggetti intervistati; dopo aver posto alcune domande riguardo al cappello, ho mostrato loro un campione di dieci immagini da me scattate, rappresentanti alcuni compaesani e luoghi tipici. Ho dato loro due direzioni: tenere sempre a mente il cappello ed esprimere i loro pensieri più immediati, proprio come se si trovassero davanti alle famose macchie di Rorschach usate in psicologia.

Questa tecnica, tutte e tre le volte, ha portato gli intervistati a scavare tra i ricordi più lontani, a far emergere pensieri più intimi e, come si è dimostrato al capitolo 2, ad ammettere la presenza di condizionamenti esterni nelle loro scelte di abito.

18 L’osservazione partecipante è un metodo di ricerca adottato dalle discipline etno-antropologiche, che implica una profonda partecipazione alla vita comunitaria della società o dell’oggetto di studio.

26

4. Restituzione dei risultati: il reportage Le fotografie scattate raccontano una storia che cerca di spingersi oltre l’estetica, catturando l’intimità dei soggetti. Il cappello, antico custode della tradizione, è il filo narrativo del mio racconto e accompagna lo spettatore tra le strade della città, invitandolo a respirare l’essenza dei luoghi più significativi del paese e a scoprire le vite degli abitanti. I testi scritti racchiudono i ricordi e le confidenze dei cittadini nel modo più autentico possibile, in un continuo salto tra presente e passato.

27

Un paese In un cappello

Non c’era un Feltrificio a Grosio. Però ho trovato un Maffi di Tiolo che lo chiamavano Feltrin, perché vendeva cappelli. Parlo nel 1600 però, non in epoca attuale. Noi a quell’epoca facevamo parte della repubblica delle Tre Leghe Grigie, con cui Venezia aveva fatto degli accordi commerciali. Aveva esentato il pagamento del dazio. Questo signore di Tiolo aveva importato dei cappelli e fa una dichiarazione presso il notaio per reclamare il pagamento del dazio a Brescia, che faceva parte anche lei della repubblica di Venezia. Tanto per dire che, ai tempi, c’era una vendita di cappelli qua in paese. A quell’epoca i cappelli non erano come ora. Diciamo che una caratteristica nostra era il capèl de Valstagna, finché ha funzionato il Feltrificio. Non so però quando esattamente abbia smesso di funzionare o perché. Sono sicuro che abbia lavorato nel corso del 1800.

Non ne avevano di cappelli le donne, o meglio sì, c’era quello da sposa. Era un cappello che veniva dalla Valstagna, verso Verona, quelle parti lì. La base dei costumi grosini viene da Venezia.Tanti grosini andavano a lavorare a Venezia, nel 1500-1600. Ho trovato una nota di 70 persone che lavoravano lì, avevano una cassa comune dove raccoglievano fondi per beneficienza. Qui parliamo dei primi anni del 1800. Un altare della chiesa di Grosio è stato pagato dai migranti di Venezia, l’altare della madonna del Rosario.

La leggenda di paese è che, durante la pestilenza di epoca Manzoniana, le donne grosine rimaste in paese furono decimate e quando gli uomini tornarono da Venezia, si ritrovarono senza più donne.

Così, la Repubblica di Venezia per ringraziare i lavoratori grosini donò loro tra le più belle schiave armene, portando anche nuovi materiali e colori nei costumi. La donna qui a Grosio ha sempre fatto i lavori pesanti. Gli uomini hanno sempre lavorato fuori, prima a Venezia poi in Svizzera, e la donna si trovava a dover guardare i campi e le mucche. L’uomo dopo due o tre mesi tornava.

Dopo sai, sembra che a Grosio ci tengano tutti a dire che hanno antiche origini, che le donne sono così: obbedienti, servizievoli e abituate a lavorare. Bisogna dire che, una volta le donne, siccome i mariti erano per la maggior parte emigranti, si sobbarcavano l’onere sia della conduzione del ménage famigliare, quindi dell’allevamento dei figli, sia dell’allevamento del bestiame e della campagna. Una volta i mariti portavano un po’ di soldi da questa migrazione, però la gestione dei beni che avevano qui a Grosio la facevano le donne. Quindi questa tradizione qua delle donne laboriose, è un dato di fatto, ma non vuol dire che prima fossero schiave.

Io mi ricordo delle donne anziane che mettevano il cappello, più per andare a Monte. Era un cappellino che sembrava residuo del cappello da sposa, non aveva più le piume di struzzo. Lo usavano per compiere le attività agricole.

Non c’è una regola perché metto il cappello.

Mi copre dal sole.

Da giovane ero più appassionato, adess al mét su mìa tant.

Dove c’è un gran cappello c’è una grande testa.

Sotto il Borsalino ci sta una persona intelligente.

I tempi sono cambiati, prima andavi al bar Centrale e trovavi tutti i compaesani con i loro cappelli. Era pieno.

A me porti miga el capèl, son cambiati i tempi.

Quando il cappello si rovina e diventa un po’ vecchio, allora si lascia di tutti i giorni e se ne prende uno bello per la festa. Sempre tenere quello bello.

In paese è cessata la moda e per mettere il cappello devi avere una certa esigenza, quasi che devi avere un’autogiustificazione interna.

Son tradizioni che si son perse.

Ma gli anziani che andavano a messa tutti lo avevano, un modello al posto che l’altro, ma tutti lo avevano.

Mio papà metteva sempre il cappello, la mia mamma no. Però metteva i fazzoletti, sai quello nero con su le roselline, quello lo portava.

Non fidarti mai di un uomo col cappello su una panda.

Quando ero giovane, il 70 percento della gente metteva il cappello. Adesso si usano i cappelli che ti regalano, che non sono cappelli. Il cappello deve essere serio, di marca, su misura.

Se inizi a mettere indumenti un po’ più particolari, accessori e cappelli, sei visto come uno strano… forse perché è un paese un po’ di vecchi, ci sono tanti pregiudizi.

Adesso nei ragazzi è una moda più che un’usanza.

Io invece non lo metto il cappello perché boh, sembra quasi di nascondersi. E non mi piace l’idea del fatto del nascondersi, mi crea un disturbo.

Io il cappello lo uso quasi sempre per nascondere i capelli, però la mia morosa non vuole, perché la mia morosa è più grande di me. Ha 22 anni in più, e quindi mi fa «con il cappello sembri il bambino con la mamma».

Fino a qualche anno fa si usava anche il cappello con la visiera piatta, perché andava di moda.

Da noi tanta gente li mette, i miei amici h24… ogni tanto ne parliamo, c’è chi lo mette per i capelli, chi perché fa figo; è la moda…

Grosio, è brutto da dire, ma c’ha una mentalità chiusa. Quindi devi rispettare questi standard, le persone dicono - buona - a Grosio la donna non ha il cappello, l’uomo può portare il cappello solo in determinati casi e rispettano queste cose.

Metto il cappello perché sto diventando pelato e perché c’ho i capelli tutti scompigliati. Ho scelto il cappello perché è Nike abbinato alle scarpe Nike.

Un tempo in questa foto sarebbero stati tutti e tre con il cappello, sicuramente. Qui c’è una sorta di modernità, anche l’unico cappello che si vede è un cappello moderno, che non ha attinenza con la tradizione locale. Tutti e tre gli uomini che vediamo nella foto avrebbero avuto il cappello e un cappello diverso da quello che si vede.

Anche da giovane l’ho sempre messo. Sono stato abituato così e dopo non si può più andar senza. E invece chi non l’ha portato non capisce, se io vado che c’è il sole mi fa male e se vado che non c’è il sole mi fa male. Il cappello mi serve perché sennò mi sento nudo. È un po’ forse una mania, però sento la mancanza.

Con lui davvero, fagli mancare i pantaloni ma non fargli mancare il cappello

Bepo è uno degli appassionati di cappello del nostro paese, però diciamo che lui esce dall’uso comune, è un vezzo che lui ha, che è ammirevole, a me piace molto, però è un vezzo.

Però il vezzo è diverso dall’uso del cappello come lo era una volta: io ho ancora un ospite in casa di riposo che aveva l’abitudine del cappello, lui era in carrozzina e non usciva, ma lo indossava lo stesso. Per lui l’uso del cappello era una parte del suo abbigliarsi, faceva parte di sé, ma non era un vezzo, era un seguire un modo di vestirsi reale, quasi come mettersi le scarpe. Questa è la differenza sostanziale, oggi magari sono aumentati i cappelli ma si sono quasi azzerate le persone che li portano.

Probabilmente quel genere di cappello che lui indossa è anche un modo per mostrarsi uomo di un tempo, ancora un po’ genuino.

Mah, io ho sempre portato il cappello, ho quello da tutti i giorni e poi ho questo qui, che sarebbe quello della festa che metto per andare alle fiere. Questo è un Hutter da Merano fatto su misura e su ordinazione, perché è in feltro speciale. È dal 1872 che produce questi capelli. Vedi com’è, il feltro sembra come il pelo di lepre. È un feltro proprio speciale.

Sul mio cappello ci sono le stelle alpine, e poi ci sono due stemmi, uno della vacca bruna e uno dello stambecco.

Da quando ho 20 anni porto il cappello, se vado in giro lo metto sempre. C’è quello della festa proprio, che è tutto nero. Per la pioggia ho un capèl gris, sempre un classico tirolese ma con un panno grosso che non penetra la pioggia. È un panno che non passa l’acqua.

Per arrivare in chiesa, nell’attesa delle celebrazioni, gli uomini avevano il cappello e se lo toglievano entrando. E per esempio, nella chiesa parrocchiale, sulle balaustre degli altari laterali, quando io ero un bambino e andavo a messa, c’erano una serie di cappelli appoggiati uno accanto all’altro, perché se lo toglievano entrando e lo appoggiavano lì, si andavano a sedere nei banchi e poi quando uscivano lo riprendevano. Alcuni lo tenevano sul banco, ma molti lo lasciavano lì, perché ovvio poi il cappello è scomodo se non ce l’hai in testa.

Per le feste importanti, come il corpus domini, si usano ancora i costumi e al posto del foulard le donne mettono il cappello

Il cappello da sposa è bellissimo, con le piume di struzzo.

Hai mai visto struzzi a Grosio però?

Come hanno fatto a fare un cappello così?

Il costume nasce nel 1500 come vestiario, le piume di struzzo del cappello da sposa sono arrivate dal porto di Venezia. Il gruppo folkloristico è nato nel 1920 e oggi mantiene viva la tradizione. I cappelli sono uniti esclusivamente all’abito che viene portato, per cui da sposo o da sposa, o da contadino nel caso dell’uomo; il contadino da donna non prevede cappello, ma il fazzoletto. Si indossavano i cappelli, ma una cosa importante da dire è che, quel cappello è con quel vestito, nessuno mai metterà quel cappello o avrebbe messo quel cappello senza il vestito.

Sui cappelli è un discorso grande, bisogna capire. Mio papà ne aveva tanti, io ne ho tre.

Mio papà era un appassionato di cappelli: veniva uno che vendeva i cappelli da noi in casa, facevano una cena e facevano lo scambio, gli dava l’usato e prendeva il nuovo. Sempre diceva «è come aver la moglie, le donne… bisogna sempre aggiornarsi, perché oggi il mondo corre».

Al ghe ‘l capèl de la festa e quél de tuc’ i dì. Metto sempre il cappello. Da sempre. Metto cappelli con forma, in base alla festa e in base alla cerimonia. Metto anche il berretto. La domenica metto il cappello della festa, quél gris. Questo è il cappello feriale, questo qui con visiera.

Questo qui è un cappello di servizio, però poi ci si abitua e non si riesce a farne a meno. E ora lo metto anche di giorno, anche quello in borghese. Son vent’anni che metto il cappello, da quando ho iniziato a fare il mio lavoro che è obbligatorio, mi viene proprio in automatico.

Lui lo porta sempre, lui porta sempre un berretto da baseball, in qualsiasi situazione, anche in chiesa viene con il berretto da baseball Giorgio. Fa parte di lui.

A me son sempre piaciuti i cappelli. Un giorno ho comprato un bel cappello, tipo cowboy, ma nero. Io una volta ero una bella ragazza e c’era un bel ragazzo che mi aveva invitata fuori. Allora io la sera ho messo questo cappello nero e guantoni neri. Salgo in macchina e questo qui mi grida «noo togliti quel cappello che ho paura». Ho dovuto togliere il cappello eh. Non ho più messo cappelli da quell’appuntamento talmente sono rimasta scioccata dalla reazione del ragazzo. Avevo anche il cappello di pellicia, ma non ho mai potuto metterlo. Non potevo metterlo perchè qua era uno scandalo.

Sono della Calabria, sono qui a Grosio da cinquant’anni, la mia gioventù l’ho fatta qui.

In Calabria usavano la coppola. Io metto il cappello per abitudine, perché a casa mia c’era mio zio che lo portava e io seguo lui. Mio zio non usava la coppola, ma questo tipo di cappello.

Una volta i ragazzi di 18 anni partivamo per la leva obbligatoria e stavano un anno alla naia. Per salutarli c’erano i coscritti che facevano una sorta di addio, le donne indossavano un foulard e gli uomini la bustina, con su le strisce tri colore e la classe. Questa cosa si è portata avanti negli anni ed è passata ad essere qualcosa di più scherzoso. Nel senso che ora si fa festa, per una settimana, dal 1 di gennaio fino al 7 di gennaio, poi si resta in carica per un anno come coscritti. Il 31 di dicembre c’è il cambio di bandiera in piazza, e si fa festa.

Adesso, al posto di bustina e fazzoletto, ci sono quattro diversi tipi di cappello per i coscritti: la cuffia, la beretta, il cappello da eschimese e quello da pescatore. Cambiano di colore insieme alla felpa, e poi c’è su la data.

Grosio, classe 2004.

Conclusioni I personaggi con cappello non possono, ai miei occhi, passare inosservati: questo particolare indumento è un magnete per la mia attenzione, ogni suo dettaglio mi sembra possa racchiudere pezzi di anima di chi lo indossa; quasi senza accorgermene mi perdo a fantasticare sulla loro storia.

Ho così deciso di smettere di immaginare e iniziare ad ascoltare; Grosio si è rilevato il luogo perfetto per dimostrare che ogni cappello sia in grado di raccontare una storia, e non una storia qualsiasi: quella della propria appartenenza a luoghi e persone.

La fotografia è stata per me il modo migliore per indagare e comunicare l’espressività, tanto intima quanto esteriore, di questo capo. Intrecciando alcuni scatti con aneddoti, detti e storie sul cappello, raccontati in prima persona dai cittadini di Grosio, è stato possibile scrivere una narrazione più ampia, capace di racchiudere il presente e il passato del paese e dei suoi abitanti.

Arrivata alla fine di questo progetto, posso dire di esser riuscita a rispondere all’interrogativo iniziale: quanto un accessorio di abbigliamento, come lo è il cappello, può raccontare dell’identità di un paese e dei suoi abitanti?

Questo poliedrico oggetto mi ha permesso di scoprire frammenti delle identità e del vissuto di Grosio, non solo rivelando l’età e il lavoro dei locali, ma anche portando alla luce i legami tra i compaesani. Il suo uso ha inoltre smascherato ipocrisie e preconcetti; i cappelli tradizionali hanno svelato le influenze interculturali di epoche passate, risalendo fino al 1500; i ricordi degli abitanti, scaturiti sempre dal cappello, mi hanno permesso di ricostruire parte del loro passato, di conoscere il legame del paese con la fede religiosa e come questo si sia modificato nel tempo; l’assenza del cappello femminile nella muda da contadina ha dichiarato il ruolo della donna nella famiglia tradizionale grosina; e poi ancora, ho potuto apprendere detti e usanze, tra cui una delle più significative, la coscrizione19, che mi ha permesso di delineare le differenze tra passato e presente. È stato per me sorprendete vedere come le parole scritte da Lurie nel 1981, già citate in precedenza20, suonino oggi ancora così attuali, rispecchiando appieno l’uso di questo indumento nel paese analizzato.

19

La festa dei coscritti rappresenta l'ingresso ufficiale in società dei giovani che raggiungono la maggiore età; anticamente riservata ai soli uomini che si preparavano a partire per il servizio militare, è da tempo aperta anche alle donne.

20 (c.f.r par. 2.2), Lurie riguardo al cappello ha detto: “oggi sopravvive soprattutto come protezione dalle condizioni meteorologiche, come parte di un abbigliamento rituale […] o come segno di età o di eccentricità individuale.”

57

A partire dalla mia indagine ho ipotizzato che, in un paese tradizionalista e lontano dalle grandi metropoli, in cui le novità tendono ad arrivare più lentamente, anche il disuso del cappello sia avvenuto più tardi. Seguendo questa ipotesi, sarebbe interessante in futuro analizzare in egual modo sia il centro della metropoli di Milano, che la mia città, Varese, una perfetta via di mezzo tra le grandi metropoli e i piccoli comuni.

Concludendo, posso dire di essermi avvicinata più alla realizzazione di un reportage socioculturale, tradendo spesso l’impostazione scientifica della sociologia visuale, persuasa da narrazioni più poetiche, ma essenziali e dirette, come il capolavoro foto-letterario Un paese, alla cui prefazione devo parte della mia ispirazione.

Infine, tra le rilevazioni più soddisfacenti per me: essere riuscita, grazie a questo unico capo, ad entrare nell’intimità di alcuni abitanti, conscendendo realmente importanti aspetti della loro personalità.

58

Bibliografia

Articoli su rivista Cersosimo, G. (2019). Alle origini della sociologia visuale: Jacob Riis, il giornalismo fotografico, le immagini nella ricerca sociale. Sociologia e Ricerca Sociale, (118), 5-28.

Ciampi, M. (2016). La sociologia visuale contemporanea. Un approccio introduttivo.

SocietàMutamentoPolitica, 7(14), 217–236.

Capitolo di volume Ciampi, M., (2015). La sociologia visuale tra episteme e metodo. in Id. (a cura di), Fondamenti di sociologia visuale. Bonanno Editore. 81-155 Libri Altin, R., & Parmeggiani, P. (Eds.). (2008). L'intervista con la telecamera: giornalismo, documentario e ricerca socio-antropologica. Lampi di stampa. 31-66 Antonioli et al. (2019). Grosio. Cinquemila anni di storia. Associazione pro Loco Grosio, biblioteca civica di Grosio & Graffito.

Baldini, M., (2005). Semiotica della moda. Armando Editore.

Barthes, R., (1980). La camera chiara: Nota sulla fotografia. Einaudi Berger, J., (2017). Sul guardare. Il saggiatore.

Bovone, L., (2014). Rappresentarsi nel mondo: Comunicazione, identità, moda. Franco Angeli De Paz, A., (2001). Fotografia e società: Dalla sociologia per immagini al reportage contemporaneo. Liguori Lombardi, M., (2003). Immagini dell'integrazione. F. Angeli Mattioli, F., (2007). La sociologia visuale: Che cosa è, come si fa. Bonanno.

Riis, A., (1890). How the Other Half lives: Studies among the Tenements of New York. Charles Scribner’s Sons Talamo, A., & Roma, F., (2007). La pluralità inevitabile: identità in gioco nella vita quotidiana.

Apogeo Editore.

Vanni, M., (2004)., Identità e diversità. Il cappello e la creatività. Cambi.

Zavattini, C., & Strand, P., (2021). Un paese. Einaudi (Originariamente pubblicato nel 1955)

61

Voci di Enciclopedie Antonioli, G., Bracchi, R., & Rinaldi, G., (2012). Muda. In Dizionario etimologico-etnografico grosino. Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca.

Finzi, I., Borgatti, M., & Boccardi, R. (1930). Cappello. In Enciclopedia Italiana. Istituto dell'Enciclopedia Italiana.

Treccani. (s.d.). Cappello. In Enciclopedia Treccani online. Ultimo accesso: 24 ottobre 2023, https://www.treccani.it/enciclopedia/cappello Sitografia: Abbigliamento nel tempo: https://abbigliamentoneltempo.wordpress.com/portfolio/il-cappello-nelprimo-novecento/ Lombardia beni culturali: https://www.lombardiabeniculturali.it/architetture/schede/1n120-00145/ Paesi di Valtellina: http://paesidivaltellina.it/grosio/index.htm#indice

62