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Daniele Marino IL MISTERO

DEL RESPIRO DEI BRONZI DI RIACE

La scrittura e l’immagine per catturare l’ineffabile

Breve saggio illustrato

Titolo: Il mistero del respiro dei Bronzi di Riace. La scrittura e l’immagine per catturare l’ineffabile Autore: Daniele Marino

Impaginazione interni e copertina, revisione testi: Barbara Sonzogni – Studio editoriale

© Daniele Marino, 2022 Independently published. Tutti i diritti sono riservati.

È vietata la riproduzione dell’opera o sue parti, con qualunque mezzo tecnologi co, sia in Italia che nel resto del mondo. Parte delle immagini pubblicate sono opera di Francesca Propocopio, che ha concesso all’autore l’autorizazione all’utilizzo e alla pubblicazione in questo vo lume.

Codice ISBN:

La Bellezza è l’unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l’una sull’altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni e un possesso per tutta l’eternità.

Introduzione

Quest’opera nasce da un intento preciso e si pone come il primo vo lume che anticipa un romanzo e un saggio. Un ampio progetto che vede come soggetto comune i Bronzi di Riace, esplorati sia dal pun to di vista narrativo che da quello della critica d’arte.

Ho proposto a Francesca Procopio di realizzare un servizio foto grafico sui Bronzi al museo archeologico di Reggio Calabria, cer cando di cogliere quell’inafferrabile senso di mistero che spira da quei corpi metallici e si irradia tutt’intorno, coinvolgendo anche lo spazio circostante. Ne è nata l’idea di utilizzare una parte delle foto in questo breve saggio, propedeutico alle altre opere.

Ho avuto la fortuna di conoscere l’allora Soprintendente per l’Ar cheologia, le Belle Arti e il Paesaggio della Calabria, Simonetta Bonomi. Immediata è stata la condivisione di alcune linee di stu

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dio sui Bronzi di Riace e l’esigenza di riportarli in auge, come ai tempi della loro prima esposizione dopo il restauro al museo ar cheologico di Firenze e, tra il 1980 e il 1981, al Palazzo del Qui rinale.

La fotografia coglie ciò che agli occhi non appare, o non si accor gono di vedere. Sarà che, nonostante le intenzioni del fotografo, la macchina sembra agire per proprio conto, libera da schemi e so vrastrutture predeterminate. Prova ne è che l’attesa per una nuova foto serba nella curiosità il disvelamento di ciò che è invisibile all’occhio, mentre il freddo sguardo metallico l’afferra. L’obiettivo inquadra quel tanto di luce che si rifrange sul suo specchio e rive la ciò che separa dalla verità.

La fotografia come terzo occhio!

I due libri, “Il respiro del Bronzo” (romanzo) e “I Bronzi, tra visibi le e invisibile” (saggio), hanno genesi diverse. Il primo è un roman zo che nasce da una storia personale, iniziata nel 1980, anno in cui mi trovavo a Firenze al primo anno di studi universitari. Il secondo è un saggio, che indaga i Bronzi partendo dalla Grecia e dalle pro babili aree geografiche di provenienza. Un viaggio nella storia che,

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seguendo le tracce, ripercorre l’itinerario che ha portato le statue a inabissarsi nel mare della Calabria.

Fu proprio in quell’anno che i Bronzi di Riace apparvero al pub blico per la prima volta, il 15 giugno, esposti alla mostra tempo ranea al Museo Archeologico di Firenze, dopo un lungo restauro durato cinque anni. Fu un intervento profondo che liberò le statue da gran parte del materiale estraneo consolidatosi sui loro corpi come parte connaturata. Erano trascorsi circa otto anni e quattro mesi da quando, il 16 agosto del 1972, il sub Stefano Mariottini li scoprì durante un’ultima battuta di pesca, immergendosi nel mare di Riace, a una distanza di circa trecento metri dalla battigia e a una profondità di otto metri.

«A un certo punto arrivo a un gruppo di scogli che vedo da lonta no, in mezza luce, non erano neanche tanto chiari. Arrivo sopra, in una sabbia molto chiara, e vedo una spalla che usciva dalla sabbia e quindi ho pensato che vi fosse un cadavere sepolto sotto la sabbia. Era tardi, era il momento di rientrare a casa, erano quasi le due».1

Il sub romano nella sua inconsapevole casualità aveva scoperto i Bronzi di Riace, le statue che avrebbero imposto una nuova pro spettiva sull’arte classica greca, e non solo.

1. S. Mariottini, “I Bronzi di Riace” a cura di SKY arte 2015.

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In me è ancora vivo in tutta la sua assoluta chiarezza il ricordo del la prima visita al museo archeologico di Firenze, quando entrai nel Salone del Nicchio, un grande ambiente ricavato in occasione dell’esposizione. Un salone allestito con poco: due parallelepipedi fungevano da basamenti per le statue, alle pareti un tessuto copriva delle strutture che si intravedevano dietro, una serie di teli scuri rivestivano il soffitto da cui pendevano due strutture metalliche modulari, su ciascuna delle quali erano fissati quattro faretti, uno su ogni lato. L’allestimento illuminotecnico mostrava una casuale approssimazione, che probabilmente solo in pochi notarono. Basta osservare le foto in cui si vedono gli sguardi dei visitatori impres sionati e calamitati dalla vista di quelle statue provenienti da un altro mondo.

“Eravamo quattro gatti, gli addetti ai lavori, qualche familiare qual che amico passaparola. Fu fatto un discorsetto, una cosa modesta. Fu messo un custode a guardare la sala e fu fatto l’ingresso libero. Ve dendo un manifesto, uno striscione, qualcuno cominciò ad entrare.”2

All’inizio, il pubblico non aveva ancora imposto il suo flusso di pre senze, ma ben presto, come attratti dal bagliore di una stella not

2. Marcello Miccio (chimico dell’equipe dei restauratori a Firenze) durante la trasmissione televi siva Italia Viaggio nella bellezza. I Bronzi di Riace: storia di un mito (24.10.2022).

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turna, i primi visitatori sedotti dai Bronzi iniziarono rapidamente a diffonderne con clamore e grande rapidità la notizia. Quella espo sizione ebbe un tale successo di pubblico che la data di chiusura prevista per l’11 gennaio venne prorogata al 24 giugno. Giusto il tempo necessario a far circolare la voce e quei gruppi iniziali di 1520 persone si trasformarono in file interminabili fuori dal museo. Mai quel museo aveva visto qualcosa del genere. L’impatto su un pubblico soprattutto nazionale fu fortissimo. Il mondo accademi co non comprese l’interesse del pubblico. Chiusi all’interno degli studi che avevano i libri e le immagini come oggetto d’indagine, gli studiosi, impreparati e gelosi delle proprie conoscenze, non sep pero comprendere l’interesse del pubblico. Successe un fenomeno clamoroso, in poche settimane un’onda lunga toccò la curiosità ge nerale e spinse centinaia di migliaia di persone a lunghe attese pur di vedere le due statue per quelle che erano e non con lo sguardo degli archeologi.

In molti percepirono ciò che forse neanche i restauratori fiorenti ni avevano ben compreso. Il mare aveva restituito al mondo due “esseri” che avrebbero segnato una svolta nel panorama artistico classico, proiettando oltre i limiti percettivi la visione di un mondo greco che si era materializzato grazie a quanto ora si mostrava sotto i loro occhi in quella sala.

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I Bronzi lasciarono Firenze dopo sei mesi e mezzo milione di vi sitatori assetati di vedere ciò che non sarebbe più capitato loro di vedere. Ma non tornarono subito al museo di Reggio Calabria. Ac cadde infatti che, visto il clamore suscitato tra la gente comune, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si fece interprete dello spirito popolare e li volle esposti alla Sala della Vetrata al Quirina le, legittimando con il loro passaggio a Roma un patrimonio iden titario comune a tutti gli italiani.

La mostra si inaugurò il 29 giugno 1981. Già dal primo mattino i romani a centinaia si riversano in piazza e si allineano in religioso silenzio davanti ai cancelli. Le temperature erano alte, ognuno si difese come poteva, qualcuno addirittura svenne. Il delirio colletti vo per i guerrieri venuti dal mare pervase la città eterna e ciò creò le premesse per la nascita di un mito. Le esposizioni di Firenze e Roma portarono i Bronzi all’attenzione di tutti. Il fascino dell’an tico, il mistero sulla loro provenienza, l’enigma di chi fossero quei due guerrieri, chi li avesse realizzati, il ritrovamento del tutto fortu ito nel mare della Calabria, contribuirono in quei mesi a costruire la loro immagine iconica.

Ritornati a Reggio Calabria, il 3 agosto 1981 vi fu l’inaugurazione della mostra a cui parteciparono oltre a tre ministri della Repub blica, anche dieci ambasciatori esteri. Sull’onda mediatica delle due

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precedenti esposizioni, che fecero dei Bronzi ciò che oggi defini remmo un fenomeno virale, anche al museo di Reggio Calabria sfilarono centinaia di migliaia di visitatori.

Da quel momento in poi però la loro iconica fama si sarebbe man mano affievolita. Non più protagonisti nei luoghi centrali del no stro Paese attraversati dai grandi flussi turistici, sulle due statue si sarebbe depositata la polvere del tempo.

Una forte ripresa d’interesse vi fu durante il terzo restauro, negli anni dal dicembre 2009 al dicembre 2013. In seguito alla ristruttu razione del museo archeologico di Reggio Calabria, le due statue furono spostate a palazzo Campanella, sede del Consiglio regiona le della Calabria. In quella occasione fu approntato un laboratorio vetrato, accessibile allo sguardo di chiunque. Fu proprio in quegli anni che si registrò la presenza di innumerevoli personalità inter nazionali, della politica, del cinema, delle professioni. I protagoni sti di quel restauro furono Paola Donati e Cosimo Giorgio Schepis. A loro si deve non solo la rimozione delle rimanenti terre di fusione interne, ma l’aver riportato lo splendore negli occhi dei Bronzi e reso le superfici vivide del metallo.

La rivelazione che da quel momento prese avvio fu una delle più straordinarie scoperte nel campo dell’archeologia ma, come si ve drà col tempo, il destino di quelle statue ne avrebbe proiettato l’im

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magine oltre gli stessi ambiti disciplinari dell’arte. Quel senso di stupore che i visitatori avrebbero provato di fronte ad esse li avreb be consentito di gettare un lussureggiante sguardo sulla Grecia classica, estendendone i confini oltre ogni immaginazione. Era il mito dei Bronzi che stava nascendo.

Ma cos’era che attraeva così tanto quelle folle di visitatori, impassibili nonostante le lunghe attese anche sotto il sole estivo? Forse la volon tà di immergersi nell’utopia del passato, necessaria per comprendere la bellezza di quelle statue? Un senso di nostalgia verso ciò che si è perduto per sempre, ma per il quale si avverte l’incolmabile desiderio di respirare un attimo di eternità? Quelle statue rispondevano a un bisogno latente di vedere cosa ci fu in un tempo così lontano, in gra do di determinare il nostro universo culturale moderno?

Forse la risposta si trova nel fatto che i Bronzi di Riace non ispira vano solo un sentimento di bellezza, ma erano i custodi delle radici dell’Occidente, i tutori della nostra natura. Rappresentavano ba gliori di luce che conducevano in un sogno mitico lungo le peripe zie del viaggio di Ulisse, che scese nell’Ade incontrando l’indovino Tiresia; l’audacia di Perseo che uccise Medusa senza guardarla negli occhi; la forza invincibile di Eracle; l’astuzia di Teseo che uccise il Minotauro nel buio del Labirinto; infine, la sprezzante temerarietà di Achille che uccise Ettore.

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Dopo un sonno millenario che li vide giacere sepolti dalla sabbia, i due guerrieri si erano risvegliati e ora vigilavano sull’uomo e sul mondo.

Non sapevo dell’inaugurazione della mostra e, quando mi ci recai per la prima volta, ciò che per me era del tutto inimmaginabile ap parve in tutta la sua vastità. Entrai nella sala e vidi a distanza i due colossi come in uno stato di attesa. Avvicinandomi ebbi la sensa zione di essere investito dalla potenza vitale della storia, che come un’onda d’urto mi attraversava. Il passato riaffiorava in tutta la sua sconcertante universalità.

Oggi scrivo e immagino cosa abbiano provato quegli scienziati tro vandosi di fronte alla scoperta delle onde gravitazionali, ipotizzate da Einstein, provenienti dallo spazio profondo e da un tempo side reo. Vedere quei lampi cosmici materializzarsi nello spettro visivo “ci fa capire che qualunque corpo venga raggiunto da quell’onda può avere informazioni sulla sua sorgente”. Essere investiti da un tale flusso psichico permea l’anima di un sussulto vitale e abilita la connessione con il tempo dell’origine dei Bronzi, cosicché tramite essi il canale si riapre e il flusso di coscienza e conoscenza riprende a fluire. I Bronzi erano la porta d’ingresso di un mondo in cui lo spirito umano, non ancora affondato nella sensualità, non incarnato

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con essa perdendo le ali, viveva con gli Dei nel mondo aereo, dove ogni cosa è vera e pura.3

Giungevano a noi quei due guerrieri da una distanza di venticin que secoli ed era come trovarsi di fronte alle soglie della nostra co scienza, a una forza chiarificatrice capace d’illuminare. Una felice epifania si manifestava nel nostro presente cingendolo di un’eterna aura lucente. D’altronde erano statue mai viste prima, figure pos senti, in grado di produrre una singolare reazione in chi le vedeva dal vivo per la prima volta. Si presentavano con quei corpi arma ti semplicemente della loro nudità eroica, rivestiti di una bellezza gentile, ma anche di una fatale inquietudine. La loro calma esibiva un controllo solo apparente, i loro corpi plasmati da uno sguar do abbagliante, dissimulavano sotto la superficie l’azione di forze striscianti di enigmatica natura duale. Il maschile era ostentato nel virile assetto eroico, mentre il divino e l’umano si attivavano simul taneamente nel presente come energie agenti e pronte a scattare ed emettere il potente spiritus metallicus4 .

I Bronzi erano lì in un’indomabile attesa, la presenza si stagliava chiara sulla linea sottile di un confine evanescente, tra presente e

3. «Prima che lo spirito umano affondasse nella sensualità e ne fosse incarnato perdendo le ali, viveva con gli Dèi nel mondo aereo, dove ogni cosa è vera e pura» Platone.

4. Alito metallico.

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passato, tra visibile e invisibile. L’appartenenza a più dimensioni di svelava un desiderio di apertura verso l’umano. Quelle membra dal modellato perfetto erano la chiara trasposizione di un logos dall’e strema raffinatezza, espressione di un pensiero creativo libero dai condizionamenti della materia. La pienezza della forma si offriva senza indugio alla percezione dell’ignaro spettatore con la prepo tente forza della verità. Ciò nonostante, i due eroi portavano con sé un fardello umbratile di un mondo estinto. Segreti inaccessibili si dispiegavano nella sostanza addensata e scabra, percorsa da una sottile volontà di condividere la loro millenaria solitudine. Il carat tere fermo s’irradiava dai loro volti eroici, propagandosi nello spa zio circostante come onde fluttuanti. I due esseri trasfusi nel corpo delle statue dalle fattezze inafferrabili erano a pochi centimetri, ma una distanza siderale li proiettava in un tempo sfumato. Doni cu stoditi dal mare, creature del sogno e della notte. Figli di un tempo rivelante un’ignota natura, la cui forma più spettacolare e distan te da ogni immaginazione apriva ai principi costitutivi dell’essere, racchiusi in una finitezza incommensurabile. Nei due eroi nulla vi è d’immobile, un sottile vaticinio ci introduce sulla soglia del respiro e del moto sublimato, immesso nella stessa umana dimensione. Lo scultore greco creatore della statua A stava avvolgendo l’osservatore nelle spire dell’arte. Ora come allora, quel la statua non era un corpo estraneo allo spazio esterno, ma il fluire

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del tempo nell’essere, il connettore proteso a eternarne l’esistenza. Si percepiva come la forza del chiasmo creava il moto nella statua attraverso l’osservatore, che diveniva parte attiva del suo congegno κίνημα -ατος, kinema–atos5 .

In quel lasso di tempo si era manifestato qualcosa di singolare, le due statue iniziavano a schiudersi e con loro la percezione di uno spazio siderale incerto e labile che mirava a incantare. Una fuga metaforica e uno sguardo retrospettivo affioravano nella loro inte rezza davanti agli occhi. I greci avevano realizzato ciò che noi oggi non eravamo ancora riusciti a immaginare.

Il desiderio di comunicare insito nella loro mitica natura faceva di quelle creature i messaggeri che, risvegliati dall’oblio del tem po, si erano riattivati e con essi il mondo scomparso da cui pro venivano.

I Bronzi hanno in serbo un nucleo misterioso per gli uomini. La loro vastità preannuncia l’apertura di un mondo, il passaggio oltre i confini sensibili in cui s’intravede una floridezza avvolta da tenebre profonde. Esseri dall’aspetto implacabile, creature prodigiose che in cutono una devozione laica.

5. Cinematico

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Come due gemme splendenti erano di nuovo incastonate negli occhi degli uomini. Eretti e padroni della scena, miravano le lunghe processioni di sguardi esterrefatti, mentre il loro spiri to ricominciava a emettere una invisibile luce. La loro energia si era risvegliata, ricollegandosi al ciclo vitale dell’umano. La distanza che ci separava dal tempo che li aveva creati pareva dissolversi. La forma modellata dalla terra aveva trasformato l’i nerte in sostanza vivente. Ora quel tumulto di forze ritornava alla quiete di un museo, così come un guerriero placa se stesso nel riposo, in attesa della prossima sfida.

L’artista aveva transitato la materia da uno stato entropico alla di sciplina di un cosmo ordinato e conchiuso, aveva attivato la so stanza incorporea. In essa lo spazio sembrava incurvarsi con una fluttuazione geometrica che attraeva l’osservatore verso il corpo spirituale. Ora quella forza si era svegliata e con essa il suo potere di contagio. Sentirne l’energia immanente faceva vacillare ogni co scienza e introduceva a un vasto orizzonte di eventi.

L’immaginale6 sospingeva oltre ogni misura l’idea di quei corpi ma teriali, verso un’immagine di essi tale da vedersi spalancare d’innan zi l’avverarsi di un mondo seducente e al contempo tremendo. Ma

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[...]

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Linguaggio della psychè.

non bastava. Di fronte ai Bronzi non tutto era comprensibile tenendo aperti gli occhi, anzi per comprendere e sentire bisognava chiuderli. Chiudendoli si spalancava davanti allo spettatore una visione incom mensurabile, di gran lunga più vasta di quello che i sensi potevano percepire.

Quel che vidi e sentii durante quella visita al museo fiorentino, no nostante gli anni trascorsi, ricompare alla memoria profonda della mia coscienza; gli echi evocativi risultano ancora oggi per nulla svaniti.

Le conseguenze di quella scoperta resero labili i confini di quan to osservato e una fulgida luce adamantina permeò il mio campo visivo, forse troppo invischiato in un canone dai parametri solo in apparenza comprensibili. Duttile ed effimero si rivelò ogni mio pensiero sull’idea di una bellezza che trasfigurava l’illimitato nella misura, il cosmo nell’umano senso di vita.

Si spalancava davanti agli occhi una pulviscolare nebulosa di sen sazioni non circoscrivibili entro i confini conosciuti. La visione di quei territori che le statue inducevano a percorrere appariva protei forme e imprevedibile. Si allontanava velocemente una loro piena comprensione e si avvertiva la presenza di meccanismi dalle lun ghe articolazioni e dalle complesse variabili. Le due statue intera givano col vivente, condensando in un nucleo per nulla statico un

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insieme di antinomie, che attivandosi nell’interazione con l’umano generavano un senso d’infinito.

Un nuovo paradigma appariva all’orizzonte. Seppur fossero pale semente rintracciabili le analogie dal forte impatto emotivo riscon trabili in altre statue greche rispetto all’organizzazione della forma, queste si fermavano più all’ordine formale. Era invece lontana la natura profonda che le separava dal resto della statuaria antica. Appariva chiaro che i Bronzi di Riace erano delle statue non assi milabili ad altre esistenti. In esse la sussistenza di un processo tra scendente agiva oltre le leggi della sola contemplazione.

I Bronzi vivono all’interno dell’ordinamento che l’artista greco ha istituito a principio ontologico della loro esistenza. Egli si dimostra capace di dominare la realtà con il pensiero puro. I Bronzi, infatti, non sono solo esseri in sé e per sé appartenenti a una dimensione temporale e transitoria, ma entità dotate di un’esistenza, la quale però non appare a occhio nudo. «Come la luce che noi non vediamo mai [...] in sé, ma soltanto gli oggetti che da essa vengono illuminati»7 .

In questo quadro lo spettatore è parte attiva ogni qualvolta ne tra duce le strutture ontologiche nel linguaggio dell’“io”. Nell’interazio

7. La conferenza di Heidegger sull’Essenza della Verità, tenuta nel 1930.

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ne egli entra nel risvolto interno dello statuto fisico delle statue, per trascenderlo nella dimensione metafisica e nell’accingersi in questo viaggio, che esige però la rinuncia della dimensione del “sé”, si di spiega un’apertura all’invisibile.

L’artista ha inoculato nella statua lo spirito del tempo, ma anche quello dell’essere che lì è ritratto. L’uomo può risvegliare nel con tatto ravvicinato con il suo corpo fisico l’Essere incorporeo che lì giace, cioè la sua sostanza. Da essa si irradia una forza che è davanti a noi per liberarci dalla funesta cecità dei nostri occhi. Cecità che ci accompagna se l’uomo cammina all’interno dei suoi confini e rinuncia ad ascoltare il silenzio e a esperire l’infinito. Ma noi siamo lì di fronte a quelle statue, che sono esseri che si differenziano continuamente da se stessi. Cioè percepiamo che il loro essere non finisce nelle misure della loro esistenza fisica, che la parte visibile non coincide con quella autotrascendenza dell’es sere che è una melodia dalle vocalità composite.

Ponendo nuovi interrogativi di ordine filosofico, i Bronzi avreb bero spinto a varcare i confini della stessa storia dell’arte, nel senso che non solo di storia si trattava, per addentrarsi in speculazioni di un ben più vasto orizzonte. L’arte era stata in grado di trasfi gurare il metallo in un sembiante umano, che pareva a un certo punto essersi impossessato di un proprio statuto ontologico. Il

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diritto dell’essere, non più assoggettato dall’esterno, ma costruito nel Regno dell’Autoreferenza.

Un pensiero autopoietico, in grado di ridefinire continuamente se stesso in una perpetuazione autogenerativa, indipendentemente dalle modificazioni dello spazio storico e fisico in cui esso si trova.

Erano statue, ma anche sistemi che parlavano di se stessi. Le cose che i Bronzi avevano da dire di sé erano però essenziali per l’uomo, perché da esse altre sarebbero dipese. Quegli esseri avevano stretto in sé ciò che non riusciva a evadere. Ci avevano condannato a una perenne vertigine, come in mezzo a due specchi che riflettevano la nostra immagine all’infinito. Mi resi conto che quella vertigine non avrebbe mai potuto essere superata.

Se i Bronzi agivano sull’uomo in modo interattivo come entità dotate di una propria natura, ciò non poteva che significare l’avvento di un essere dalle proprietà connaturate nella dimensione dello spirito più che nella materia. L’artista demiurgo aveva catturato nella struttura formale perfettamente organizzata e definita del molteplice l’unità della creazione, che istituiva un ordinamento non solo fisico ma so prattutto metafisico.

A tutto ciò si aggiungeva la percezione tangibile di una tensione vibrante che le statue imponevano allo spazio circostante, creando

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tutt’attorno uno singolare campo di interazione magnetica. Quella stessa attrazione che sentii in quei primi momenti, si sarebbe ripre sentata negli anni a venire, ad ogni nuovo incontro.

È questo sorprendente fenomeno – una “visione spirituale dei Bronzi” – che ho cercato, tra le altre, di comprendere e descrivere nei miei due libri, di cui questo breve saggio anticipa alcuni trat ti, ricorrendo anche alla fotografia, dove le immagini annullando ogni consistenza materiale si dissolvono nell’invisibilità delle mo dulazioni di luce.

Davanti a noi abbiamo la vastità indecifrabile e non opere rinchiu se nei confini di una dimensione finita e nei limiti della visione sensibile; la volontà di guardare dentro quel fondo oscuro, per af frontare il mistero di quei due esseri dotati di un concentrato di for ze, mitigate dal dominio rassicurante dell’arte. Notevoli in tal senso sono le testimonianze di visitatori colpiti dalle stesse sensazioni.

Ritorniamo a quel giorno, perché la visita durò a lungo. Girai più volte intorno alle due statue, la mente era attonita, lo sguardo spa lancato su un crinale oscuro, da cui affioravano forti interrogativi a fronte di sbiadite certezze. Chi erano quei due personaggi così arca ni, alteri e riservati, dalla fermezza millenaria, percorsi dall’eroica

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sapienza che incuteva un’ammirata soggezione? Il loro aspetto vivo e potente, facendosi scudo del corpo perfetto, mascherava la realtà di un’esistenza in cui il terrifico, il malvagio, il fatale si celavano nel profondo dell’esistenza, ma che solo in apparenza la dominava nella quiete. In quel piacere estatico della forma così abilmente ca muffata si agitava la forza della volontà, mai sopita nella tragedia, quale espressione più vera della perenne gioventù del mondo greco autentico, non corrotto ancora dalle certezze di un’egemonia del lo gos raziocinante e dall’ottimismo mitigante le forze oscure del caos dionisiaco.

Da dove provenivano, chi furono i sublimi artefici, modellatori di quelle figure eroiche che si ergevano a sostituti dell’umano per per petuarne la vera natura illusoria? Quale linea di pensiero e quale padronanza della tecnica era stata in possesso dell’artista che trovò un tale ordine e disegno che, sottraendo la materia al caos, aveva distillato i principi basilari delle leggi di natura? L’aver creato una for ma come sistema coerente che, definendo i rapporti delle parti che componevano la struttura unificante, elevava a una impressionante semplicità la molteplicità delle forme della natura umana. Ma non si trattava soltanto di una bellezza ideale, piuttosto in quei corpi e in quei volti agiva una tensione vibrante, un’ebbrezza arcaica.

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Miti tragici di un tempo rigoglioso, agitato dalla tensione per la conoscenza diretta dell’essere e del mondo esterno, non mediata solo dalle strutture della ragione e della logica ma pervase dal for te slancio per la vita. Nelle due statue vi era celata un’indubitabile magia. Il solo pensiero di immaginarle sepolte per secoli, con gli occhi conficcati nella sabbia, con lo sguardo rivolto alle voragini della terra, udirne il battito, ascoltarne il silenzio inudibile della loro solitudine, dava i brividi. Forti e indistruttibili contro ogni consunzione, rigurgitate dal mare, erano la resurrezione del mon do e dell’uomo.

Quelle statue videro la luce sotto il cielo attico, emerse dallo spirito agonistico greco che partorì capolavori e che, senza dubbio, li vide rivaleggiare tra gli esempi più sublimi della scultura, ondeggiare sul crinale di un rigido stile severo e un rilassato e sereno equilibrio classico. Un’età dell’oro fondata sul senso dell’estetica come dura bilità, alla pervicace ricerca di una bellezza sorretta dall’equilibrio simmetrico delle antinomie, mutuata nell’armonia della misura, retta dal luminoso sguardo di Apollo, dio dalla natura multiforme, spirito ordinatore che spinge alla creazione di forme definite, ra zionali e rassicuranti. Di ciò troviamo effige rappresentata nel fron tone occidentale del tempio di Delfi tra le muse, mentre sul fronte opposto sono rappresentati Dioniso e le Menadi. Dioniso, spirito divinatore, dio scatenante il principio vitale e orgiastico, fuori da

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ogni controllo, dall’irrefrenabile potere dell’ebrezza e del caos. Lo spirito apollineo si manifesta in pieno nella scultura governata dal la plastica proporzionalità, che contrappone una maestosa ripul sa dinnanzi «alla forza “grottescamente rozza” dei riti dionisiaci»8.

Le due entità dalla doppia presenza nella natura della creazione richiedono la reciproca esistenza, nell’oscillante andirivieni di un equilibrio che poco o nulla ha di stabile, ma che al contrario richie de l’apporto vitale dell’altro.

I bronzi dal corpo fiero e dalla nudità eroica, dotati di una poten te muscolaI Bronzi dal corpo fiero e dalla nudità eroica, dotati di una potente muscolatura atletica, si mostravano nell’elegante posa chiastica, unione simultanea di stasi e movimento, compressa nel nucleo da forze latenti. La presenza conturbante esponeva il vi sitatore al vitale e corroborante sorriso di quel volto incorniciato dall’acconciatura dai lunghi capelli ondulati, fermati da una benda sulla fronte. Il Bronzo A, dall’aria ostentatamente virile e dal gesto di incontenibile potenza sensuale, appariva fermo nel dominio di un’assoluta calma. E se da un lato un abisso incolmabile separava quella figura dal mondo circostante, dall’altro la statua si rivelava sensibile alla natura umana, al punto da apparire amichevole, do

8. F. Nietzsche, La nascita della tragedia

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tata di un’indole gentile e rassicurante, ma che non dissolveva l’ir requietudine di un’esistenza ancora tutta da rivelare. Era da quella natura duale che pareva aleggiare una forza contaminante, dotata di un principio di esistenza viva e inquieta.

Al momento non sapevo assolutamente niente di quelle opere, tuttavia capii che da lì in poi sarebbe mutata la nostra visione del mondo greco, da cui sicuramente dovevano provenire. I Bronzi proiettavano oltre l’immaginario limite dell’arte la nostra visione moderna, lasciando intravedere conquiste dalle sommità vertigi nose, profondità ancora più dense, tutte da sondare.

Era il tempo di andare. In quel primo giorno la visita si concluse e insieme alle emozioni portai con me le mie inquietudini e quelle immaginarie dei due personaggi che si celavano dentro le statue. Si erano spalancati nuovi scenari, da cui proveniva al tempo presente un bagliore di luce ammaliante dalla potenza oscura.

Erano suggestioni baluginanti che si accendevano nella mente - e un odore acre di colate di magma avvolte in miasmi caliginosi af fioravano nella notte attica. Lì, dove un logos spermaticos fecondò atomi elementari nella materia in cui si forgiava un’ideale uomo del futuro. Era il risveglio di un mondo che emanava nel potente respiro della creazione, le virtù di un ideale di universalità. [?]

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Ciò nonostante, appariva tutto ancora troppo incerto. Solo una cosa era chiara: quelle statue avrebbero cambiato per sempre lo sguardo dell’uomo contemporaneo che si apriva al limitare di quel mondo come a un principio costitutivo dell’essere, che lo avrebbe indotto a mutare anche la visione di se stesso. Con i Bronzi il passato si era avvicinato prepotentemente fino a lambire il presente e la distan za che separava l’uomo contemporaneo da quelle statue si sarebbe man mano ridotta, forse fino a svanire. All’uomo contemporaneo si presentava la grande occasione: riconciliarsi con le sue origini sto riche e culturali e ricomporre una sua unità, dilaniata da un tempo incoerente e frantumato, difficile e perturbante. La perfetta unità formale dei Bronzi era l’idea fisica e metafisica di un essere antro pocentrico, il cui microcosmo univa le componenti caotiche in un ordine supremo. Un nuovo Umanesimo appariva all’orizzonte del presente e con esso il miraggio di un’ideale e ricomposta unità delle differenze tra le categorie dell’esistenza. Lo spirito universale della narrazione trasformava in diafana la loro superficie, dalla quale tra luceva la luce millenaria dei miti.

Quel che vidi accese il lampo che scosse la mia salda aderenza al quo tidiano, l’essere agganciati a un’esistenza dalle pareti fortificate era in debolita nella solida coesione delle fondamenta. Era come se quelle statue fossero venute a rivelare all’uomo contemporaneo l’esistenza di un’identità greca sconosciuta, la cui mitica serenità sembrava più

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assuefazione a un’arcadia che una verità intangibile. Appariva un uomo fatale e inesorabile, solido nella sua vitale accettazione del sen so tragico della vita, in cui il pessimismo non indeboliva le strutture dell’esistenza, anzi, proprio per questo ne rinsaldava una coesione scattante e vitalistica, consolidandone la volontà di potenza.

Ero entrato in contatto tramite quelle statue con una dimensione di cui sentii l’indescrivibile forza e il vitale respiro interiore. Dal simbo lico sguardo bifronte, nelle due statue vedevo due occhi immaginari puntati non solo in avanti ma anche nella direziona opposta. Uno rivolto all’indietro e uno proiettato in avanti, in un lampo simultaneo che disintegrava ogni antitesi tra passato e presente. In essi, la terra che si era rarefatta ed eretta a modellazione plastica nella configura zione dell’umano aveva eternizzato la loro natura mortale, assumen do uno sguardo sincronico che univa passato e futuro. Nel mezzo c’era l’entità della forma viva nel presente che le statue avevano as sunto come atto di perenne creazione generativa. E ciò è testimonia to dall’inesauribile flusso vitale che esse riversavano sullo spettatore, che si sarebbe rinnovato a ogni incontro e che sarebbe apparso sem pre nuovo, nonostante il trascorrere del tempo.

L’intenso potere attivo che a loro mi univa, oltre che la provenien za originaria dal mare della Calabria, era come un richiamo dalle proprietà inebrianti. Sentii l’esotica meraviglia dell’arte greca, per

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nulla calma e distaccata ma generata dall’inebriante e caldo sole della Grecia, ne percepii le sue doti catartiche, capaci di sciogliere i grumi dell’esistenza, come un potente φάρμακον – pharmakon, un antidoto curativo dai veleni del mondo. La natura è mossa dalla bellezza e non induce verso il bene o verso il male ma verso di essa. Una bellezza capace di salvare il mondo? A patto che noi sapremo custodirne il nucleo originario e l’integrità dei principi universali che ne sono il valore autentico. La singolarità di quell’esperienza sensoriale fu la potenza di una bellezza penetrante che scuoteva l’anima, lo sfociare inarrestabile di una propagazione ideale, un do mino inarrestabile sulle cose del mondo. Quelle statue ponevano grandi interrogativi e oscillavano di fronte ad esse le certezze con solidate, facendole apparire ora intorpidite in rigide impalcature schematiche, conoscenze effimere innalzate al rango di verità.

La natura che è bellezza mandava all’uomo dall’oscurità della notte la fioca luce di una nuova primavera, il cinguettio di un nuovo ri sveglio si insinuava silenzioso e micidiale nelle orecchie. Lo spirito dell’uomo indolente si ridestava: «Allora c’è una salvezza, allora il mondo che ci circonda, con il suo cielo plumbeo e le sue ore digri gnanti, è soltanto un incubo, e la vita vera è il sogno, è l’ebbrezza!»9.

9. F. Nietzsche, La nascita della tragedia

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Ci sono momenti in cui la nostra vita cambia e ciò accade in seguito all’incontro con una persona, ma succede anche con rare e destabi lizzanti presenze dell’arte. In esse un mondo si apre e, spalancando la loro superficie, intravediamo un abisso profondo. L’emozione che ti investe altera il ritmo dei sensi, ti scuote dal didentro e at traversa la tua vera natura, diviene pensiero che incute terrore: un senso di disvelante certezza appare chiaro. Lo sconcerto ti inonda come un fiume carsico che affiora da un luogo recondito delle pro fondità del tuo essere.

Il passato ti appare ad un tratto con una prorompente forza scono sciuta. Familiare invece si rivela il congegno custodito nei secoli, nel le forme dell’umano; solido e universale giace nel doppiofondo della storia. Rivelazione di una forte presenza affiorante dagli abissi som mersi, estrae dal tunnel dello spazio-tempo creazioni inarrivabili. Una voragine pare aprirsi d’innanzi, nel baluginare di lampi im provvisi in cui emerge il magma amorfo e rosso come il sangue. È l’origine della Terra formatasi dallo scontro di forze oscure e titaniche del caos e nel suo pulsare senti la materia dibattersi nel fremito come un grande pesce fuori dall’acqua, trasmigrare nel re gno dell’ordine e farsi forma luminosa. Un simile stato ribollente diventa l’analogia con il flusso lavico che percorre nel processo di fusione i canali dei meandri della statua e ne solca le cavità oscu

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re, comprese tra due strati di terra. Liberate dalla cera, il bronzo incandescente ne ha percorso l’intercapedine e lo spazio vuoto ne diverrà la vitale esistenza materiale.

Lo sguardo vaga e lo scorrere fluido è in cerca di approdo. Si di stacca e si incammina sulla superficie dai riverberi nero-verdastri e iridescenti, con distacchi purpurei. Il colore dei Bronzi è una ta volozza che affiora dall’inesorabile opera del mare, la cui azione corrosiva è stata bloccata da una chimica prodigiosa, che ne ha re spinto il potere della consunzione. I Bronzi sono eroici e magici an che nella fisica sopravvivenza, in cui il tempo continua a scorrere, lambisce e s’incurva nei molteplici e radenti istanti perenni.

Al cospetto dei Bronzi i più contemplano la loro chiara ed enigma tica bellezza, ne rimangono estasiati, vi sostano dinnanzi per attimi ininterrotti, poi riprendono a girarvi attorno mirando le diverse par ti in riverente silenzio.

Ma cosa vedono gli occhi di coloro che più di altri ne scrutano con prudenza l’intoccabile invulnerabilità? E cosa avverte ciascun osser vatore nelle variabili tonali delle sensazioni che ondeggiano come una superficie elastica di un lago?

L’oscillazione delle variazioni risponde alla sensibilità di ciascuno, ma credo che i più lascino scivolare le loro percezioni sulla super ficie metallica, non oltrepassino il limite fatale che introduce a una realtà incorporea. L’oltrepassamento del luogo delle certezze visibili richiede la volontà animata dal dubbio di intraprendere un viaggio so litario, liberi dai vincoli del nostro sapere, sganciati dalle forme della

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consuetudine e del pensiero costruito sulle strutture condizionanti della sola ragione. Abbandonati i veli, destrutturati gli occhi, si è come portati da un vento leggero, Zefiro primaverile, cavalcando le ali del mito, sorretti e guidati dalle orme sicure di creature del sogno, oltre i limiti del proprio pensiero. In questo viaggio imma ginario slegati dall’inibizione, nel sentiero della notte, si faranno incontro a noi sconosciuti esseri dal magico e cangiante aspetto e dalla terrifica figura spettrale. Altro non sono che i sembianti della nostra natura, un io specchiante di luce apollinea e l’obliquo pro filo dell’ombra dionisiaca, che precedono il sentiero del giorno e il passo che avanza.

Il sublime si intervalla allo stupore e lo scalare avvicinamento a queste opere trasfigura e riforma la nostra visione dell’arte. Si di spiega dinnanzi il disvelante senso di un difforme vedere, che oltre la contemplazione sensibile fa dischiudere innanzi a noi un reame dall’impalpabile lucentezza.

I Bronzi prendono vita da un contesto figurativo che spinge gli ar tisti a perseguire l’ideale di perfezione come superamento dell’u mana natura. Due figure presiedono alla creazione artistica: «I due istinti, così diversi fra loro, vanno l’uno accanto all’altro, per lo più in aperta discordia fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della “volontà” ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l’uno con

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l’altro, e in questo accoppiamento finale generano l’opera d’arte, al trettanto dionisiaca che apollinea, [...]»1.

La statua rappresenta l’uomo, che tra tutte le creature è la più per fetta, in essa si compendia l’idea di un cosmo ordinato come unità di parti in relazione dinamica con il tutto, che ha come contrap posizione le forze indomabili del caos. Se pur nell’idea di mimesis rispetto alla natura, la figura umana esula da essa componendosi in un’entità autoreferenziale, in cui si condensano le qualità del bello e del buono, uniti nel termine Kalokagathìa, formato dalla coppia di aggettivi καλός καγαθός (kalòs kagathòs), cioè lette ralmente, bello e buono. Ma buono va inteso anche come sino nimo di “valoroso” in battaglia. È dalla fusione di questa polarità dinamica, insita nello stesso individuo, che i concetti di bellezza e valore morale diventano principio unitario che investe la sfera etica ed estetica. Un concentrato che scaturisce dalla sintesi d’in cardinare l’idea nella sostanza che diviene evoluzione in termini aristotelici dalla potenza all’atto, dalla materia alla forma. Circo scrivere nella dimensione del finito le forze irrazionali di un caos incontrollabile, in un’ideale di ordine (cosmos), che trova nella forma la conquista più audace.

1. F. Nietzsche, Superuomo, cfr. pp. 27ss., 34.

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Il dominio del molteplice nell’unità raggiunge nei Bronzi di Riace la magnifica sublimazione dell’ideale che nasce nella mente dell’arti sta, e nel configurarsi afferma il dominio della materia con la tekne. Nell’era contemporanea quell’antico principio è divenuto predomi nante su tutto il resto. Non è forse oggi la “tecnica” ad affermare la supremazia sulla scienza, in un mondo sempre più proiettato al superamento di ogni limite?

I Bronzi prendono corpo nell’agone greco in cui l’arte raggiungerà l’apice nell’età dell’oro, periodo che è stato definito Pentecontaetia: il cinquantennio di pace e progresso civile per la civiltà greca, e in spe cial modo per la polis di Atene, compreso tra il 479 a.C., con la fine delle guerre Persiane, e il 431 a.C., che diede inizio della Guerra del Peloponneso. Mezzo secolo in cui Pericle ad Atene fece ricostruire l’Acropoli, il Partenone, l’Eretteo e i Prophilei; ad Olimpia fu eretto il Tempio di Zeus; ad Argo si costruì l’agorà dei Sette a Tebe.

Si è detto del viaggio da intraprendere, là dove ogni aspetto e carat teristica mutano e s’inabissano nel mare oscuro della nostra natura. Il viaggio in cui si oltrepassa il limite del visibile e sulle ali di Icaro ci si allontana dalla nostra realtà per incontrare Ulisse alla ricerca di un approdo, che fugge da «Circe Diva terribile, dal crespo Crine

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e dal dolce canto ...»2. O vedere una bara alla deriva che contiene un bimbo e sua madre ancora vivi, quel bambino è Perseo il semidio audace che decapita Medusa riflessa nel suo scudo. Plutone inna morato di Persefone, che rapisce portandola nell’Ade e, in seguito all’inaridirsi della terra per l’abbandono della madre Cerere, sarà costretto a tenerla per soli sei mesi all’anno. Teseo che sfida il Mino tauro nel labirinto e lo uccide, camuffandosi tra i giovani ateniesi che lì venivano condotti per essere divorati dal mostro. Achille che, dall’invincibile abilità in battaglia, eleva le sue a gesta immortali, parte per la guerra di Troia pur sapendo che lì morirà. Aiace, eroe leggendario, dalla forza indomita. O Apollo e Dionisio, i due im pulsi essenziali dai quali nacque la tragedia attica, o meglio l’arte. Che i Bronzi di Riace fossero statue uniche e dall’aspetto impres sionante, autentiche meraviglie dell’antichità, apparve chiaro sin dalla prima esposizione del 1980 al Museo archeologico di Firenze, come abbiamo già detto in precedenza. Ma che in loro albergassero forze potenti e misteriose, era più un’ipotesi fantasiosa accarezzata da narratori visionari, creatori di miti e leggende metropolitane. La potente struttura corporea, l’impianto perfetto, le equilibrate misu re che ne distribuiscono le masse anatomiche in calcolati rapporti

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2. Omero, Odissea

interdipendenti, fluidificate nella raffinata plasticità delle membra, ne fanno organismi dall’aspetto vivente. Corpi dalle continue sor prese, in cui non è tutto lì ciò che si vede. Non è tutto ma solo una parte; in loro la storia è un ininterrotto proseguire. L’impostazione classica, sia pur con accenti differenti – di periodo severo la statua A, di epoca classica matura la statua B – esprime la ricerca della bellezza che tende alla compiutezza assoluta, in cui però si agita no passioni ed emozioni sotto il dominio di un’esecuzione stilistica che coniuga solo in parte – «nobile semplicità in quieta grandezza» – ciò di cui parla Winkelmann. Ma il bello è carico di tutte le virtù –appunto, kalos kai agathòs. Ed è proprio in questa unità di bellezza e valore morale (èthos) il compendio di un’idea di assoluto.

L’intensità dell’espressione artistica mirabilmente fonde forma e sostanza in un equilibrio perfetto di estetica ed etica. I Bronzi han no un’anima che racconta della loro vita, essi accendono uno sfol gorante registro di scoperte, che sembra condurre all’origine della creazione artistica in cui l’idea si trasforma in emozione. I Bronzi dall’eroica forza oscura, ma capaci di essere rassicuranti, nella loro gentile e potente calma dominano istinto e ragione. La loro bellez za è la stessa che muove l’universo, la scintilla vitale che aziona la natura della vita. Sono memoria viva la cui ombra ci precede e si unisce al nostro cammino divenendo attualità, e nel mescolarsi alla nostra vita ci prende l’anima.

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Quest’insieme di qualità hanno generato negli anni il mito dei Bronzi di Riace, sostenuto oltremodo dalle continue diatribe sull’attribuzione a questo a quell’autore, a questa o quella località della Grecia. E poi chi sarebbero quei due personaggi: divinità, eroi o atleti celebrati in qualche competizione particolarmente impor tante? Esiste una relazione tra loro o, come sembra, appartenendo a periodi differenti avrebbero mantenuto un’identità staccata l’uno dall’altro? Per non parlare del perché della presenza nel mare di Riace, a poca distanza dalla riva. Sta di fatto che le statue sono sta te trovate in posizione affiancata, parallele tra loro: non sarebbero potute finire in quella posizione ordinata se fossero state buttate in mare per liberarsi della loro pesante zavorra. Erano finite tra quegli scogli per il probabile affondamento della nave che le ha tenute vi cine come lo erano sul pianale a cui erano ancorate?

Tutti questi interrogativi si dissolvono e lasciano il posto ad altro quando si è davanti ad esse, dal vivo. In quel momento si estrinseca la loro conturbante potenza che ci proietta addosso un insondabile alone di mistero. L’irresistibile e feconda ispirazione che da essi ho tratto, mi ha condotto con naturale trasporto a seguirne il viaggio anche all’interno di un cosmo narrativo dagli esiti inimmaginabili. E infatti...

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[...] Il restauratore era fuori dell’ingresso del museo di Reggio Ca labria in attesa dell’arrivo del professor Deleuze, eminente studio so dell’École du Louvre di Parigi. Il taxi si fermò proprio davanti alle scale, il restauratore Cosimo Giorgio Schepis si avvicinò alla macchina e aprì lo sportello. Lo studioso scese e strinse con vigore la mano del restauratore, entusiasta di conoscerlo, convinto che avreb be potuto soddisfare i suoi molti interrogativi sui Bronzi di Riace. Entrati nel grande atrio del museo, persero una decina di minuti tra l’osservazione della struttura architettonica del tutto rinnovata e la curiosità per alcuni libri esposti sul bancone della hall, che at tirarono l’attenzione dello studioso, vorace come si può presumere per uno del suo livello per ogni fonte di conoscenza inerente tutto ciò che riguardava l’oggetto delle sue speculazioni conoscitive. Arriva ti di fronte all’anticamera che precedeva l’ingresso della sala in cui erano conservati i Bronzi, un custode fece aprire la porta scorrevole, per entrare in un’area di decontaminazione dalle polveri e da germi residui, nocivi per le statue. Deleuze vide quel momento come un metaforico pronao, l’anticamera purificatrice tra il mondo delle cose e l’altro mondo, prima di entrare in una sorta di tempio dell’arte, in cui si sarebbe trovato per la prima volta davanti a quelle icone sacre alla bellezza. D’improvviso la porta si mosse rumorosamente e i due si trovaro no inavvertitamente a pochi passi dal Bronzo A. Non vi fu nessun

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graduale avvicinamento, l’impatto fu immediato e l’impressione provocò nel professore un singulto epigastrico muto, che trasferì alla pupilla dell’occhio destro un’immediata dilatazione, una sorta di midriasi, di luce improvvisa che inondò vaste zone della coscienza prima oscure. Era una metafora che indicava una luce folgorante che penetrava nella retina e ne liquefaceva il velo opaco, curando quella sorta di maculopatia dell’anima, strappando il professore dai dogmi di cui anche i dotti sono afflitti. Era proprio un problema di occhi e dell’uso che ne facciamo, perché basta un attimo a cambiare tutto, un bagliore folgorante può aprirti la coscienza a mille visioni, in cui tempo e spazio si disintegrano nel nulla.

L’incontro con l’espressione della statua A, dallo sguardo ardente, fu per Deleuze una scarica tremenda e seducente. L’apocalittico un tore di coscienza, armato di verga rovente dal metallico scintillare, stretta da mano cicatrizzata dalle mille bruciature, fu il divino fab bro Efesto a coniarne l’effige? Fu proprio lui, estraendo dal fuoco il crogiolo ricolmo di magma dagli zampillanti lapilli, a riversarla negli orrendi meandri dello stampo terroso, tra mefitiche esalazioni avvolti dal caliginoso miasma, come di un cadavere in decomposi zione. Fuori c’era la nebbia che sembrava avvolgere ogni cosa. L’or rendo sacrilegio da cui quella statua stava nascendo privò delle voci gli oscuri fonditori nudi, che con essa avrebbero voluto sciogliersi

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dopo aver saputo. Il fuoco divampante non avrebbe purificato nes suna delle loro anime e la maledizione sarebbe scesa implacabile e senza perdono alcuno dissolvendoli col tempo.

Le intercapedini viscerali, ricolme del metallo fuso, domarono l’oscu ro caos e la forma apollinea apparve nella sua solidificata potenza.

Ora era lì quell’essere che di forma viveva e si ergeva come uno dei titani dalla forza implacabile, vittorioso sul tempo e sugli uomini. Deleuze rimase immobile come di fronte a un muro invisibile, che sembrò impedirgli di procedere oltre. Schepis tenne sottocchio il professore e con lo sguardo obliquo ne scrutò le reazioni, il muta re dell’andatura, le oscillazioni del corpo e le sfumature dell’animo.

Lui sapeva già che non sarebbe stato il solo, vi sarebbero stati altri muniti del potere del senso e dello sguardo, armati di una percezio ne sovrasensibile, che sarebbero stati risucchiati nel lampo di quella occhiata vivente dall’istante infinito, da quella creatura del sogno forgiato dal dio della luce, ma anche sinistra e dall’occhio vuoto e sbiancato, d’indicibile terrore.

Il professore, superato il turbamento iniziale, si voltò verso il restau ratore per carpirne a sua volta la sensazione, se anche lui prima ancora fosse stato contagiato, avesse varcato il limite di un’inimma ginabile ipotesi (spaventosa).

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Schepis si mosse avanzando lungo il perimetro, quasi rasentando la parete della sala con gli occhi a terra. Rigido, non rivolse nessu no sguardo alla statua A, si allontanò a passo svelto con lo sguardo traverso come sentendosi osservato. Il professore capì e un brivido maligno gli salì lungo le fibre fin dentro il midollo spinale.

Ripensò alla frase che Schepis aveva pronunciato poco prima: «Mi ha sottomesso».

Deleuze, da studioso navigato sapeva parecchio su ciò che a volte alcune opere d’arte antiche, dal particolare potere conturbante, pos sono provocare, ma ciò che era passato sotto il suo sguardo e aveva percosso il ventre del suo spirito non contava precedenti, non c’era traccia in nessuna pagina di nessun libro da lui consultato, e mai, ne era convinto, ne avrebbe trovato memoria in nessun essere co nosciuto, né in luogo od oggetto alcuno. Quella frase pronunciata da Schepis rotolava come un latrato di cani in una notte ventosa e sperduta, era un’eco sinistra nel labirinto della psiche. Rimasero solo i brividi ad attraversargli la pelle, il resto fu solo negazione di ciò che anche l’inconscio blocca all’ingresso della coscienza. [...]3.

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3. Daniele Marino, Il Respiro del Bronzo (Romanzo).

Il Respiro dei Bronzi è energia che promana da statue immobili, ma solo in parvenza. L’energia non ha bisogno di movimento, di labbra o di petto che dilata e scuote l’animo; essa penetra e si propaga nel silenzio assoluto, è percepita dall’osservatore nella quiete. Ma poi, dopo un po’, da quelle statue in apparenza inerti, come in un ri sveglio, comincia una baluginante creazione, dapprima un leggero spasmo, segue un graduale moto dello spirito, e l’emozione dilata le tue cavità interne e ti prepara al respiro. Ma quello non è il tuo di respiro, è il loro. Tu stai respirando il loro respiro senza accor gertene. Quella emissione sottile e silenziosamente misteriosa che è l’energia emessa (dalla statua A in particolare), è la trasmissione inconscia di un riversamento psichico nell’umano, che assorbe in sé le fluttuazioni metafisiche di una realtà fisica e ne determina un trascendente superamento dello scibile. In altre parole, ciò che in veste lo spettatore che si trova davanti la statua è il “suo identico” ma dall’indefinibile nodo di un umano-non umano, uno stato evo luto “che si eleva al di sopra di sé per raggiungere il suo vero fine nell’essere sovra-umano”4 .

Ma al contempo, è l’ammirazione fino al parossismo dell’incorrut tibile eternità che vi è racchiusa, che scivola in noi con la leggerez

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4. Pierre Teilhard de Chardin, Lettera.

za vellutata di un essere che ha un che di vivente. L’universale si è annidato nel cuore della materia e nelle misure è divenuta per fezione. La statua si è scissa dall’atto della creazione dotandosi di un’integrale autosufficienza, mentre l’energia, nell’eternizzarsi, si è sublimata nello spirito.

La dimensione ontologica dei Bronzi si palesa nella fenomenologia dell’apparire, ma lo spirito si stacca dalla crosta ed è nella materia sublimata, nell’energia che in essi si trova. È in quell’interconnessio ne dello spirituale con la densità che la statua diventa respirante e vivente. L’idea della vita del respiro risiede nell’assoluta potenza cre atrice: ciò che da un corpo promana come un flusso sottile e investe lo spettatore e si propaga all’interno del suo spirito. Il seme primario di ogni creazione, quell’origine ingenita nella cellula seme, che è vita allo stato latente (entelechia). E come il seme per generare movimen to, crescita e trasformazione, ha bisogno delle condizioni ambienta li, e rimane silente, secco, statico, fino a che esse non si presentano nella giusta umidità e calore e lì inizia il risvegliamento. L’idea del risveglio che è nei Bronzi è pari alla genesi compressa nel volume proprio della statua. È come nel disgelo di forze d’interazione tra le particelle dotate di carica elettrica che esulano dai loro vincoli e si liberano dai legami molecolari, così da quell’unità solida si propaga una vibrante energia di particelle virtuali, in un processo pulsante di auto-creazione. Lo spirito dei Bronzi nel flusso con l’umano propaga

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nel vuoto la sua danza cosmica da cui appaiono nuove configurazio ni vibratili di energia.

Nella disposizione frontale le due entità si trovano a confronto; l’e lemento umano e la struttura inorganica della statua incrociano i loro destini in oscuri lampi di luce, scintille primordiali dell’inizio del mondo.

Di lì s’innesca il gonfiarsi di petto, l’aumento del battito cardiaco, il rapido fluire del sangue, moti dell’animo, principio da cui sgorga l’e mozione. In questo dinamico attivarsi, (animato-inanimato, organi co-inorganico) si aziona una meccanica prima silente, e in ciò risiede l’origine di ciò che chiamiamo respiro. La statua emette il suo halitus nell’attraversamento dell’umano, la vita fluisce dal soffio pneumatico del farsi anima. È dal fulmineo contatto tra la massa bronzea dalla forma assoluta e autosufficiente che tutto si origina. In quella inde terministica scintilla della creazione, l’assoluto si fa sostanza e una forza primigenia connaturata in essa si riversa nel mondo.

E in ciò sta la nascita di tutte le cose, il principio generativo (l’ar chè), «la forza che determina il divenire del mondo, ossia è il “prin cipio” che, governando il mondo, lo produce e lo fa tornare a sé»5. È

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5. Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, I vol., pag. 34, BUR, Milano 2004.

dall’incontro chiastico tra due enti opposti ma polari che si spri giona una scatenante concatenazione di cause dagli effetti impre vedibili. Gli autori dei Bronzi hanno azionato un meccanismo che rientra nella formula moto e respiro=vita, consapevoli (o non) di poter animare la materia dopo aver raggiunto la perfezione, hanno trasfuso in essa un principio metafisico.

Questo è avvenuto nel crogiolo alchemico che ha fuso due elemen ti, uno dalle particolari proprietà elettriche: il rame e lo stagno, generanti il bronzo, metallo dalla natura anticorrosiva, metafora eternizzante in cui si è disciolto l’umano nell’unità cosmica.

Se nei Bronzi è stato catturato il codice genetico dell’arte in quanto pura creazione, cioè la composizione animante dell’esistenza, che dà anima al metallo, ci si chiede come ciò si possa replicarsi ad altre opere d’arte.

Se la statua con la potenza dell’arte può assumere una propria au todeterminazione ontologica, oltre i confini della sfera organica, il concetto di vita si espande oltre gli estremi conosciuti e lo spirito fluisce in essa.

Se «è lo spirito che dà la vita...»6, l’arte è nel pieno della sua legge ed esplica la sua funzione di creazione, inseminando di questi la materia.

6. Giovanni (Gv 6,63).

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Se nella statua si azionano meccanismi sconosciuti della creazione vi tale, allora vuol dire che esistono ed è possibile rivelarli e renderli intel legibili, in una sorta di iniziazione. Tali meccanismi sono azionati ge nerando un sistema autopoietico, e ciò significa che altre diverse forme particolari di vita possono compartecipare della creazione del mondo.

La vita non è soprattutto quella umana, ma anche quella delle piante. Queste, ad esempio, a differenza degli esseri umani e degli animali, non possono spostarsi e scappare, “ma sono più sensibili rispetto agli animali”. “Le piante sono autotrofe, cioè energetica mente autosufficienti”7.

Se spostiamo questi concetti nella dimensione dei Bronzi, ci accor giamo che in termini di energia sono addirittura più evoluti degli uomini, degli animali e delle piante, perché a differenza di questi non consumano nessuna energia, ma la producono. L’attività dei Bronzi interferisce con l’umano; il risultato prodotto è l’emozione, e questa viene convertita in energia spirituale.

Potremmo per similitudine affermare che come le piante i Bronzi sono autotrofi, cioè energeticamente autosufficienti, perché la loro

7. Stefano Mancuso, Direttore del laboratorio di neurobiologia vegetale di Firenze. (art. pubblicato sul sito: http://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2016/02/08/ intelligenza-piante).

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sopravvivenza non dipende da altri esseri viventi né dall’ambiente circostante. Sono auto-produttori di energia spirituale, dispensa tori di emozioni, coagulatori di ciò che definiamo bellezza, la cui origine sta nella potenza dell’autogeneratività, oltre ché nel cuore della natura.

La loro esistenza non prescinde dallo spazio e dal tempo né gravita all’interno di un cosmo immobile. La fluttuazione inferenziale che determinano nell’ambiente circostante si attiva nel contatto con l’osservatore, che traduce sul piano dell’energia il flusso emozionale che si dispiega all’esterno delle statue. Durante le fasi di osservazio ne si verifica un caleidoscopico ventaglio di possibilità, che muta nell’interazione con l’osservatore stesso. In ciò sentiamo accadere qualcosa di indefinibile che è all’opera nell’opera, cioè: «la sua es senza venga pensata e sperimentata come una messa in opera della verità [...]»8 .

Le strutture sintattiche del linguaggio delle statue sono all’opera, rimandano al visuale la traduzione dei caratteri di una grammatica universale. I Bronzi sono un organismo generativo che produce di continuo un’interferenza con lo spettatore, che a sua volta rigenera nel continuo dello spazio e del tempo la statua. Il senso del vivente

8. Martin Heidegger, Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti.

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emerge chiaro e palpabile dall’interazione creativa tra la statua e l’umano che di essa si alimenta, ma che ad essa apporta una parte di sé, in cui sentiamo affiorare un essere vivo e presente.

La statua come sussistenza9 spirituale si sostituisce all’umano im personificando il suo sogno dell’immortalità. In essi scorgiamo l’uomo di 2500 anni fa e anche l’essere che non c’è, che vive in un sogno oltre ogni tempo e limite, l’uomo del futuro. L’idea di un presente perenne, che riflette nel tempo i mutamenti della storia, rimanendo nel mondo, come testimonianza della nostra esistenza. In quella alchemica composizione, la creazione dell’arte vive un pe renne rinnovamento che ha mutuato il carattere della vita nel ciclo eterno di morte e rinascita. I Bronzi esigono il trasporsi dell’infor me nella forma e viceversa, ma a prevalere è l’affermazione dell’idea che in essi è generativa di bellezza ma non solo. Idea nel senso del termine usato sin dal principio della filosofia, indicante in origine un’essenza primordiale e sostanziale. Idea non solo intesa come ciò che è visibile, ma anche pensabile, e quindi intellegibile. La statua come oggetto immortale si fa idea tangibile nell’illusoria concretez za del mondo.

9. Vincenzo Gioberti, Introduzione allo studio della filosofia, “Ente possibile”, Volume 2. Parte 1.

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I Bronzi come archetipi ideali si pongono a fondamento ontologico della realtà e dell’ideale dell’arte, si costituiscono dell’essere che alli gna e vive nella rrealtà, attraverso le cui “forme” l’artista Demiurgo ha plasmato l’entità parallela all’umano. Ma in tal senso i Bronzi si pongono anche come fondamentale valore gnoseologico della real tà. Sono la causa che ci permette di pensare l’esistenza, di cui costi tuiscono il presupposto della conoscenza creatrice, che pone l’idea come il nucleo che addomestica la materia nel sembiante e vede la compresenza di aspetti diversi in una medesima realtà e ne segna il loro destino nella sintesi dell’umano.

In conclusione di questa trattazione, non è forse l’arte che ho de scritto? Non è forse l’uomo oltre l’umano e la sua eternità di cui ho scritto? Un eterno ritorno10 nel moto ciclico, un fluttuare geometri co all’interno di un cosmo animato il cui destino è morte e rinasci ta. Quell’impasto struggente di sostanza e spirito che è l’arte come cosmo vivente, luogo di creazione animante che è vita oltre la vita. È un respiro senza alito, è uno scorrere impercettibile che sibila nel silenzio ma corre veloce tra le molecole reticolari del vuoto denso.

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10. Friederich Nietsche

Fiato in quiete, moto dell’aria, pulsazione del cuore e dell’anima, quel sussulto che in noi provoca il regno del sogno.

Dei Bronzi, proveniente dalla Grecia è l’impasto che ne foggiò le membra; là i miti ingravidarono la terra deponendovi i semi gene rativi del tempo, fecondandone l’alito vitale che generò il Caos da cui nacque il Cosmo.

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Cosimo Giorgio Schepis - Restauratore dei Bronzi di Riace

A Cosimo Giorgio Schepis per le capacità tecniche e l’amore profuso nell’ultimo restauro dei Bronzi di Riace, che ha reso visibile la millenaria luce rivelatrice dei due grandi capolavori.

Il mio più vivo ringraziamento va a Francesca Pro copio, che ha usato la macchina fotografica come uno strumento artistico per creare sofisticati effetti magi ci, che era ciò che le avevo chiesto, di quel mistero in sondabile che sono i Bronzi di Riace.

Inoltre, anche quando la macchina fotografica l’ha usa ta in modo più tradizionale, ha svelato quel respiro che dagli occhi vividi, si promana al pneuma interno e che aleggia nelle profondità di quegli esseri vivi.

Finito di stampare nel mese di novembre 2022.

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