Me and the Devil

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Me and the Devil

Me and the Devil – Vampire

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“Chi o cosa sia, la sua origine, la sua residenza, il suo destino e i suoi poteri sono fonte di perplessità per i teologi più acuti, sono questioni sulle quali è impossibile indurre un credente a pronunciarsi in modo definitivo. Egli è il punto debole della fede popolare, il ventre vulnerabile del coccodrillo.” (“On the Devil and Devils” di Percy Bysshe Shelley)

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We'll bury my body down by the highway-side That way my evil spirit Can rise up, take a Greyhound bus and ride (Seppelliranno il mio corpo vicino al ciglio della strada così il mio spirito maligno potrà alzarsi, salire su un Greyhound e correre)

Greenwood (Missisipi), 1938

L’aria era impregnata dell’odore di sudore, di sesso e whisky scadente. Il fumo denso delle sigarette rollate a mano aleggiava pigro fra i corpi bagnati che si agitavano al ritmo di blues. Un vecchio con un cappello di paglia scolorito calcato sulla testa si cullava pigramente su una scricchiolante sedia a dondolo di vimini. Osservava, compiaciuto, una donna dalla pelle nera come la notte che scivolava sulla schiena di un uomo intento a baciare una sedicenne discinta. L’atmosfera era tesa. L’aria vibrava di desideri e peccati. Il proibito aveva preso le sembianze di una donna in quel posto dimenticato da Dio, rubando l’anima agli schiavi non ancora liberati. Il chiasso era assordante. Le voci si affastellavano come i pensieri degli ubriachi. La confusione, il caos, erano l’unico sogno più vero della realtà. Una porta si spalancò ed un uomo magro, dai lineamenti scolpiti nell’ebano, fece il suo ingresso nella sala. Come un branco di lupi affamati tutti i presenti si voltarono quasi all’unisono nella sua direzione, ed un silenzio pesante e confuso calò come un sudario. La band riunita sul piccolo palco, fatto di travi di legno grezzo, smise di suonare ed attese. L’uomo aveva un sigaro consumato incastrato fra le labbra carnose. Il suo incedere era lento, incurante, ipnotico. Aveva una chitarra acustica, tenuta per il manico, stretta nella mano destra, ed una bottiglia di brandy quasi vuota in quella sinistra. Si avvicinò al bancone del bar e ve la poggiò. Una donna inguainata in un tubino rosso, con i capelli ricci e corvini che le ricadevano scompigliati e arruffati sulle spalle nude, gli si avvicinò, lo cinse per la vita e premette con veemente lascivia le labbra contro le sue. “Puttana”, sibilò il proprietario del locale dall’altra parte del bancone. L’uomo ricambiò il bacio e spinse la donna su uno dei tavoli ingombri di bicchieri vuoti e mozziconi di sigarette. La folla cominciò a rumoreggiare, prendendo parte all’amplesso. L’uomo dietro il bancone fece per raggiungere la coppia, ma una mano lo trattenne serrandogli un braccio: “Non così, Larry. Non così”. “Ma è mia moglie”, ringhiò il barista. “E cosa vuoi fare? Ucciderlo davanti a tutti? E’ il loro idolo, il loro Dio…ti lincerebbero”. Larry dischiuse i pugni e si appoggiò sul bancone imprecando: “Maledetto…”, quasi singhiozzò. L’uomo alla sua destra pescò qualcosa da sotto il bancone e gliela porse assicurandosi di non essere visto da nessuno. Gli occhi di tutti erano ancora incollati sul groviglio di corpi che si contorceva sul tavolo al centro della sala. Larry afferrò la bottiglia che l’amico gli aveva fatto scivolare fra le mani e la fissò interdetto: “Non se ne accorgerà?”, gli chiese in un sussurro. “No…il diavolo non lo proteggerà stavolta”. Il barman prese la bottiglia abbandonata sul bancone e la sostituì con quella che teneva stretta fra le mani tremanti. “Hey…Bobby Joe!” Sonny Boy, ritto sul palcoscenico, aveva notato lo strano parlottare intercorso fra i due Me and the Devil – Vampire

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uomini dietro il bancone del bar. L’espressione dei loro volti lo aveva allarmato. “Bobby Joe…abbiamo uno spettacolo da mandare avanti…”, insisté, urlando per sovrastare il vociare assillante della folla. Robert Johnson si staccò dal corpo nudo della moglie del proprietario del locale dove si sarebbe dovuto esibire. Scrutò la donna con divertito disprezzo, raccattò la chitarra che aveva lasciato abbandonata vicino al tavolo, e riprese il suo lento incedere verso il palco. Claretta lo guardò allontanarsi con disappunto. Scese dal tavolo e si riallacciò alla ben e meglio il vestito. Poi, ravviandosi con la mano una ciocca di capelli che le si era incollata sulla fronte, si voltò nella direzione di suo marito e gli sorrise beffarda. Robert si fermò a pochi metri dal palco. Tornò sui suoi passi e prese la bottiglia che aveva lasciato sul bancone. “Gran puledra la tua signora”, disse rivolto al barista, poi si allontanò. “Bobby Joe, ma che diavolo ti è preso?”, gli chiese Sonny Boy infilandosi la tracolla della chitarra, “scoparti la moglie del proprietario davanti a lui ed a tutti i suoi clienti…”. Robert sorrise e cominciò a pizzicare le corde della sua chitarra. “Bobby Joe”, continuò Sonny, “prima o poi qualcuno te la farà pagare”. L’uomo rise ancora più di gusto e gli rispose: “Stai calmo negro, nessuno mi toccherà mai quassù…laggiù qualcuno mi ama”. Afferrò la bottiglia e ne ingollò un sorso lungo, possente e bollente. “Smettila di bere”, lo apostrofò Sonny, “sei già abbastanza ubriaco”. “Mai abbastanza, amico mio… mai abbastanza”. Robert raggiunse il centro del palco ed iniziò a cantare: Early this morning I heard you knock upon my door I said, "Hello, Satan I believe it's time to go" Me and the devil We were walking side by side I'm gonna love your woman, Satan Till I'm satisfied She said, "You may know your ways But I've been dogged around" "You may know your ways But I can hear you come to dog me around" Must be that evil spirit Way deep down in the ground (Questa mattina presto Ti ho sentito bussare alla mia porta Ho detto, "Ciao, Satana Credo che sia ora di andare " Io e il Diavolo Camminavamo fianco a fianco Amerò la tua donna, Satana finché non sarò soddisfatto Lei mi disse: “Puoi conoscere i tuoi mezzi Ma anch’io ho girato molto” “Puoi conoscere i tuoi mezzi Ma posso sentirti scodinzolarmi attorno” Deve essere stato quello spirito maligno Dal profondo della terra) Me and the Devil – Vampire

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Il pubblico era semplicemente in estasi. Ogni testa ciondolava all’unisono. Stregati, ammaliati, paralizzati da quella voce sofferente e straziante, da quelle note lente e cadenzate, dalle parole cantilenanti che uscivano dalla sua bocca. Robert li possedeva. Per Sonny era una sorta di prodigio assistere all’effetto che la musica composta dal suo vecchio compagno di giochi, e di disavventure, aveva su chiunque la ascoltasse. Anche Sonny Boy, in genere, perdeva la nozione del tempo e dello spazio ogni volta che suonava con Robert, ma quella sera era diverso. Quella sera era come trovarsi sulle rapide a bordo di una zattera. Sonny era nervoso, impaurito. Robert smise improvvisamente di suonare. Si portò una mano alla bocca e vomitò un potente fiotto di bava. Qualcuno fra il pubblico rise. Qualcuno urlò. “Bobby Joe…che succede?”, gli chiese Sonny Boy. “Niente…ho bevuto troppo..ed il brandy era più di merda del solit…”. Robert si piegò su stesso e vomitò di nuovo. Stavolta, però, sangue. Incredulo si asciugò le labbra ed osservò inebetito le sue dita inondate di rosso. “Oh cazzo”, urlò Sonny, “aiutatemi!”, gridò rivolto al resto della band, che era rimasto immobile alle spalle di Robert ad osservare, con le bocche spalancate e gli occhi sgranati, quello che stava succedendo. Il primo a muoversi fu il bassista, che si affrettò a prendere sotto braccio Bobby Joe. Poi si avvicinò il batterista, che afferrò Robert per la vita aiutando gli altri due uomini e rimetterlo in piedi. Il quartetto zoppicante si fece largo fra la folla che stava lentamente tornando padrona di sé. Era come se tutti i presenti si fossero appena svegliati da uno strano, lungo sogno. Robert cercava con lo sguardo il volto del vecchio seduto sulla sedia a dondolo, ma l’uomo sembrava essersi dissolto nel nulla. “Non può finire così”, bofonchiò Bobby Joe fra una bolla di sangue e l’altra, “non erano questi i patti”.

Van Nuys (San Fernando Valley - Los Angeles, California), 1986

Erano quindici minuti che aspettava Vinnie a bordo del furgone. Il biondino era entrato nel vicino Wallmart per comprare una bottiglia di vino e, come al solito, era sparito. Frank fumava una Marlboro affacciato al finestrino del posto di guida ed osservava lo scorrere del traffico, mentre con la mano destra tamburellava sul volante. Quel motivetto gli rimbalzava nella testa da un paio di giorni, ma non era ancora riuscito a ricavarne nulla di buono. Si voltò in direzione del supermercato. Una grassona stava mangiando un gelato e lo guardava sorridendo. - Oddio -, pensò, - se si avvicina metto in moto e lascio Vinnie a piedi -. La cicciona si portò il cono alle labbra e, fissandolo intensamente, lo leccò con lenta maestria. Frank trattenne a stento un sorriso, si aggiustò gli occhiali da sole, eternamente in bilico sul naso dritto, e pescò un’altra sigaretta dal fondo della tasca della sua giacca di jeans. Finalmente Vinnie apparve all’orizzonte. Aveva una bottiglia sotto il braccio destro mentre con l’altro cingeva la vita di una rossa prosperosa. La ragazza era fasciata in un paio di pantaloni di cotone rosa carne, sovrastati da una maglietta bianca scollata fino alla punta dello sterno. Frank si perse letteralmente fra le sue grazie, gettò il mozzicone ancora acceso fuori dal finestrino e scese dal furgone. “Amico”, gli disse Vinnie sorridendo, “questa è Lorena”. Frank strinse la mano della giovane senza staccare gli occhi dal suo seno. “E’ un vero piacere, Lorena”, le disse facendole l’occhiolino. “Lorena è una vera esperta di vini”, proseguì Vinnie, “e di musica…”. “Ma davvero”, replicò Frank sornione, “ed in che altro sei esperta, Lorena?”, le chiese prendendola sotto braccio. “In un mucchio di cose, bello”, rispose lei pizzicandogli il fondoschiena. Vinnie scoppiò a ridere e la invitò a salire sul furgone. “E dove vorreste portarmi?”, chiese la giovane ai due ragazzi. “Ovunque tu voglia”, le rispose Frank mettendo in moto. Me and the Devil – Vampire

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“Ma che cavalieri…un posto tranquillo andrebbe bene…un posto un po’ più appartato dove conoscerci meglio”. Frank e Vinnie si scambiarono uno sguardo di complice intensa. “La nostra tana non è molto distante da qui”, aggiunse Frank. “Tana?”, chiese la ragazza sorpresa. “Siamo animali, tesoro, nulla di più”, replicò Vinnie ridendo. Lorena fissò i due per qualche istante, poi incrociò le braccia sul seno traboccante ed aggiunse: “Allora, andiamo?”. Frank partì sgommando. Quel motivetto non voleva proprio smetterla di tormentare il suo cervello. Prese la chitarra appoggiata contro la parete e ricominciò a pizzicarne le corde. Lo sguardo fisso avanti a sé, i capelli lunghi e corvini che gli ricadevano scomposti sulla fronte, le labbra contratte ed un senso di inutile frustrazione che si era impadronito del suo animo. Tre mesi che non scriveva una canzone. Tre mesi che passava da una sbronza all’altra in cerca di un straccio di ispirazione. Tre mesi che evitava il padrone di casa perché non sapeva con cosa pagare l’affitto. Era arrivato a Los Angeles nel 1978 dopo aver abbandonato la sua città natale, San Josè, con quindici dollari in tasca, una Fender di seconda mano a tracolla ed il sogno di suonare rock and roll. Aveva dormito per strada, negli ostelli, a casa di amici occasionali incontrati in un locale o in qualche scantinato. Aveva militato in diverse band, suonato a feste di compleanno, matrimoni e funerali. Si era esibito in ogni bettola, in ogni buco, in ogni strip bar del distretto e, alla fine, era riuscito a mettere insieme un suo gruppo: i X-Mas. Ma la fortuna, almeno per ora, non aveva decisamente indirizzato il suo sguardo benevolo nella sua direzione. Aveva scritto una trentina di pezzi e li aveva fatti ascoltare ad altrettanti produttori, ma la risposta era stata sempre, più o meno, la stessa: stile interessante, un po’ troppo confusionario, un buon ritmo, per carità, ma non siamo interessati al genere. Stava continuando a tormentare le corde della sua chitarra, quando Vinnie entrò nella stanza ed accese la luce. Frank si coprì gli occhi verde giada con una mano. L’amico si gettò sul divano e si tirò su l’elastico dei boxer. “La ragazza?”. “Dorme”, rispose Vinnie con noncuranza. Frank sorrise appena e ricominciò a suonare. “Ancora quel maledetto riff…”, quasi imprecò Vincent. “Ne verrà fuori qualcosa di buono”, gli rispose Frank. “Già, qualcosa di buono. Siamo al verde, bello, e fra un paio di settimane il padrone di casa ci caccerà a calci nel culo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più di un semplice ritornello. Abbiamo bisogno di un contratto”. “E allora alza le chiappe da quel divano e cerca di farti venire in mente qualcosa!”, gli urlò Frank scagliando la chitarra contro il muro. Vincent scattò in piedi. “Ma che cazzo fai?”, chiese sconcertato. Frank, per tutta risposta, sferrò un calcio contro il piccolo tavolo di legno che si trovava di fronte al divano dove poco prima era sdraiato Vinnie, spaccandolo in due. “Fuori di qui!”, gridò l’uomo. “Ma che succede?”, chiese insonnolita Lorena. Era nuda e avvinghiata allo stipite della porta. “Levatevi dai coglioni”, continuò a ringhiare Frank, “tu e quella stupida puttana”, disse rivolto alla donna che continuava a guadarlo con gli occhi velati dal sonno e dalla marijuana. “Il tuo amichetto sta dando di matto”, disse la ragazza rivolta a Vincent. Rideva e si dondolava come una bambina, “vieni da mamma, piccolo. Mamma è buona e ti farà dimenticare ogni guaio”, cantilenò spalancando le braccia verso Frank. “Mi state fottendo la vita”, rispose il chitarrista più rivolto a se stesso che alla donna che lo stava invitando. Afferrò la giacca e, dopo aver assestato un potente spintone a Vinnie, lasciò l’appartamento sbattendo fragorosamente la porta d’ingresso. “Se n’è andato?”, chiese Lorena stropicciandosi gli occhi arrossati. “A quanto pare”, replicò Vincent serafico. Me and the Devil – Vampire

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“E ora? Che facciamo?”. “Potremmo riprendere il discorso che abbiamo interrotto qualche ora fa”, le rispose il biondino assestandole una potente pacca sul sedere. “Sì, ma…ne hai ancora?”. “Tesoro, ho tutta l’erba che serve per farci un viaggetto in paradiso”. Camminava da quasi un’ora. Le mani affondate nelle tasche dei pantaloni di pelle, la testa incassata fra le spalle. Van Nuys di notte era la brutta copia del nono girone dell’Inferno. Prostitute, travestiti, papponi, spacciatori, portoricani ubriachi, messicani fatti di crack, accattoni e senza tetto si aggiravano indisturbati fra auto della polizia parcheggiate davanti ai locali a luci rosse. Gli uomini in blu contrattavano il prezzo con le battone e la vita di quel maleodorante sobborgo sospeso fra la magnifica opulenza di Hollywood ed il confine con il Messico, andava allegramente a morire nello scarico di un enorme cesso. Erano otto anni che viveva lì nell’attesa di trasferirsi a Los Angeles. Ad ogni rifiuto di un discografico, ad ogni ingaggio rescisso dal gestore di un locale, ad ogni porta sbattuta in faccia, vedeva le colline della città degli angeli allontanarsi sempre più. Calciò via una lattina di birra abbandonata sul selciato e si sedette su una panchina nei pressi della Chiesa Cattolica di Santa Elisabetta, uno dei pochi monumenti degni di interesse presenti nel cuore pulsante della San Fernando Valley. La città di Van Nuys era sorta nel 1911 attorno ad un insediamento di industrie di legname, e per molti decenni aveva rappresentato un punto di riferimento per i californiani in cerca di lavoro. Doveva il suo nome all’ultimo discendente di una famiglia di nobili olandesi, Isaac Van Nuys, che nel 1869 aveva fondato in quella terra desolata un consorzio di coltivatori, grazie al quale erano sorte le prime industrie ed i primi insediamenti urbani. Fino agli inizi degli anni sessanta la ridente cittadina di Van Nuys era stata una sorta di isolotto felice, abitato da famiglie medio borghesi che consumavano la loro vita fra gli orari dei turni nelle fabbriche di legname ed i cantieri della General Motors, e la meticolosa cura dei loro piccoli ed ordinati giardini sui quali si affacciavano, rassicuranti, delle dignitose villette in stile vittoriano. Sul finire degli anni sessanta, però, qualcosa era cambiato. La vicina Los Angeles aveva esportato il suo profumo di lusso, di gloria e di dissoluzione sulle ali delle pellicole cinematografiche che venivano sfornate a ritmo incessante dagli studios di Hollywood, mentre il vuoto di idee e di aspirazioni che aveva fatto seguito alla morte della Beat Generation e al suicidio dei movimenti pacifisti sorretti dai Figli dei Fiori, aveva attirato sulle spiagge assolate della nuova Eldorado musicisti ed artisti di ogni fatta e di ogni genere, tutti protesi alla ricerca della loro personale versione del sogno americano. Van Nuys si era così trasformata da tranquilla cittadina industriale che poggiava le sue fondamenta sulle solide basi del duro lavoro e del timore di Dio, in una sorta di immensa anticamera dove immigrati, aspiranti attori, aspiranti scrittori, aspiranti musicisti ed aspiranti suicidi attendevano il loro turno per abbeverarsi alla fonte del moderno idromele. “Hey, gringo, hai qualche spicciolo?”. Un portoricano dagli occhi arrossati fissava Frank con aria inquisitoria. L’uomo si alzò spazientito dalla panchina sulla quale era seduto e riprese il suo girovagare senza voltarsi indietro. Odiava quella città. La sua babele di lingue, il suo caldo opprimente, la sua stramaledetta vicinanza con i suoi sogni. Sembravano così raggiungibili, certe notti, così dannatamente a portata di mano, che quasi riusciva a sfiorarli. Era stanco e confuso. Voleva tornare a casa, farsi una birra e svenire sul letto, ma non voleva incontrare Vinnie, né, tautomero, quella sgualdrina da quattro soldi che aveva rimorchiato al supermercato. Che squallore, pensò. Era per questo che a diciotto anni era scappato di casa? Per sbattersi una sconosciuta, farsi una canna e giocare a rimpiattino con il padrone di quel lurido buco che chiamava affettuosamente casa? No, Cristo! Doveva esserci una via d’uscita. Una porta ancora aperta che lo conducesse fuori. Una feritoia per ricominciare a respirare. Si fermò nei pressi di un bar. Scrutò la vetrina illuminata. Il piccolo locale era vuoto. Entrò. Dietro al bancone un ragazzo di colore con delle variopinte treccine rasta stava lucidando un bicchiere. Gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Una birra”, disse Frank poggiando una banconota da cinque dollari sul bancone. Il ragazzo gliela versò in un boccale e gli porse il resto senza replicare nulla. Frank si voltò verso l’entrata del locale. “Serata fiacca”, disse al barista senza troppa enfasi. “Mi riposo”, rispose il giovane alzando le spalle. Me and the Devil – Vampire

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“Già…avrei bisogno di riposarmi anch’io”. “Giornata pesante?”, gli chiese il ragazzo abbozzando un sorriso. “Giornata di merda”, replicò Frank scolandosi metà del boccale. “Sei un musicista?”. “E tu che sei? Un mago?”, gli chiese innervosito dalla domanda. Il giovane scosse la testa ridendo: “Capelli lunghi, pantaloni di pelle, tatuaggi…siete tutti così uguali che vi si riconosce al primo sguardo”. Frank si rilassò un po’, si guardò divertito il tatuaggio che aveva sull’avambraccio destro, un diavolo seduto sornione su di un teschio, e aggiunse: “Vero, facciamo tutti parte della stessa gang di sfigati”. “Cosa suoni?”. “Sono uno stramaledetto chitarrista rock”. “Forte”, disse il ragazzo, “hai una band?”. “Se vuoi chiamare band quattro tossici con poco talento, beh...sì, allora faccio decisamente parte della miglior band a nord di Los Angeles”. L’afroamericano si accigliò di colpo: “Hey, devi avere avuto davvero una pessima giornata, amico. Vuoi un consiglio?”. “No”, replicò Frank serafico. “Te lo do lo stesso”, il ragazzo tirò fuori dal taschino della sua camicia azzurra un bigliettino e lo porse al suo amareggiato avventore. “Cos’è? Il numero di telefono di un produttore della Geffen?”, ridacchiò Frank. “No, è l’indirizzo di un locale. Stasera ci suonano alcuni miei amici”. “Con tutto il rispetto, cioccolatino, ma che cazzo vuoi che me ne freghi?”. “Tu valli a sentire, potrebbero migliorare il tenore della tua serata”. Frank finì la sua birra, intascò il biglietto ed uscì senza aggiungere una parola. Il ragazzo attese che l’uomo fosse giunto dall’altro lato della strada, quindi si affrettò ad abbassare la serranda del locale. Che serata, rimuginava Frank mentre si accendeva l’ennesima Marlboro, l’ultima per la precisione. Si voltò verso il bar dal quale era appena uscito, doveva assolutamente comprare un pacchetto di sigarette. Che strano, pensò, il locale aveva improvvisamente chiuso. La cosa lo lasciò più perplesso del dovuto. Un forte ronzio iniziò a vibrargli nel centro della testa e la vista gli si annebbiò. Fu costretto ad appoggiarsi sul cofano di una macchina parcheggiata per non perdere l’equilibrio. - Ma cosa mi succede - , pensò allarmato. Repentina così com’era si era manifestata, quella strana sensazione di librarsi nell’aria come un palloncino gonfio di elio svanì. L’uomo si rimise dritto in piedi e scosse violentemente il capo per schiarirsi le idee. D’un tratto l’aura di oscuro catastrofismo che lo aveva avvolto come un sudario per l’intera serata si sciolse in una piacevole sensazione di rilassatezza. Si sentiva più leggero, più sereno, quasi appagato. Ricominciò a camminare spedito, spavaldo, animato dalla stessa sensazione di beata onnipotenza che lo aveva accompagnato durante i primi mesi della sua permanenza in quella città di confine. Poteva ancora avere il mondo ai suoi piedi, dopo tutto. Si avvicinò ad un distributore automatico di sigarette e, dopo essersi frugato a lungo nelle tasche, si accorse di non avere spiccioli. L’unica cosa che trovò fu il bigliettino spiegazzato che gli aveva dato il barista poco prima. C’era scritto: “Way down to Hell” tributo a Robert Johnson. Robert Johnson… non aveva la più pallida idea di chi fosse, eppure quel nome gli suonava sinistramente familiare. Lo spettacolo si sarebbe tenuto al Rainbow, al 1155 di Van Nuys Boulevard e sarebbe iniziato allo scoccare esatto della mezzanotte. Frank dette una fugace scorsa all’orologio: le undici e trentacinque. Se correva poteva ancora arrivare in tempo. Van Nuys Boulevard era un’enorme strada che divideva quasi esattamente a metà le due anime della città. A nord, proprio a ridosso delle colline di Los Angeles, facevano bella mostra di sé caseggiati signorili e piccoli fabbricati ordinati, mentre la parte sud era interamente occupata da edifici fatiscenti, capannoni industriali e binari della ferrovia. L’insegna a neon del Rainbow era perfettamente incastrata fra l’ostello dei poveri, sulla cui facciata troneggiava la scritta “Gesù vi salverà”, ed un cinema porno di terza categoria. Frank conosceva Me and the Devil – Vampire

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abbastanza bene quel locale, ci aveva suonato con i suoi X-Mas una decina di volte. La loro ultima esibizione in quella bettola era stato un vero tripudio, se così si può considerare un concerto a cui assistono centocinquanta persone, che termina con una rissa e degenera in quindici arresti per ubriachezza molesta, resistenza a pubblico ufficiale, spaccio e detenzione di stupefacenti. Una gran serata, pensò Frank sorridendo. Il buttafuori del locale lo riconobbe e gli fece cenno di avvicinarsi. “Se vuoi entrare”, gli disse con fare circospetto, “sbrigati, amico, stasera c’è davvero una gran folla”. “Il gruppo è così in gamba?”, chiese Frank con aria interessata. “Non so nemmeno chi siano i negretti che si esibiranno qui stasera, ma suoneranno l’intero repertorio di Robert Johnson”, disse il corpulento portoricano con una scintilla di eccitazione che gli bruciava nel fondo degli occhi scuri come chicchi di caffè. “Eccitante…”, replicò il chitarrista ironico. “Puoi dirlo forte”, gli rispose il buttafuori senza cambiare espressione, “stasera qui si evoca il diavolo, amico mio, e non è cosa da tutti riuscire a prenderlo per la coda”. Frank rise di gusto a quella battuta, ma il sorriso gli morì sulle labbra quando vide un’espressione di vivo e furente disappunto dipingersi sul volto del suo interlocutore. Senza perdersi in altre chiacchiere entrò nel locale. La sala era gremita. Sembrava proprio che solo lui ignorasse chi fosse questo fantomatico Mr. Johnson. Il palco era stato allestito nel migliore dei modi possibili. Gli strumenti erano poggiati sui loro trespoli in attesa dell’arrivo della band. Alle loro spalle imperava un enorme telo, sul quale un’artista di indubbio talento aveva dipinto una sorta di murales, che ritraeva un nero sulla trentina, alto e magro, con un sigaro incastrato fra le labbra carnose, intento a suonare una chitarra acustica. Alla sinistra dell’uomo era disegnato un diavolo sorridente ed alla sua destra era stata tratteggiata sommariamente una croce latina. Sotto al ritratto era scritto in pomposi caratteri gotici: “When I leave this town I’m’ bid you fare…farewell And when I return again You’ll have a great long story to tell” (Quando lascerò questa città, vi lascerò un’offerta… addio E quando tornerò di nuovo Avrai una lunga storia da raccontare) Frank cominciava a sentirsi a disagio. Il senso di euforia che aveva provato fino a poco prima, si stava rapidamente dileguando. Osservava la gente accalcata nel locale con sospetto. Aveva un pressante cerchio alla testa ed una fottuta voglia di bere. Si sedette ad uno dei pochi tavoli ancora liberi, ma un nero dalla mole imponente gli piantò saldamente le mani sulle spalle costringendolo ad alzarsi. Infastidito si diresse verso il fondo della sala, facendosi largo a spintoni fra la folla. Avrebbe volentieri venduto l’anima al diavolo per far sì che un tale delirio si verificasse ai suoi concerti. Il senso di attesa e di venerazione che leggeva negli sguardi dei presenti era disarmante. Si appoggiò contro un muro e chiuse gli occhi. “Venderesti la tua anima per essere immortale?”. Frank si voltò di scatto verso la sua sinistra. Una donna asiatica gli sorrise lascivamente. “Come hai detto?”, gli chiese con il cuore che gli martellava all’impazzata contro la gabbia toracica. “Non ho detto nulla, straniero”, gli rispose la ragazza continuando a fissarlo dritto negli occhi. Frank si allontanò velocemente e si sedette sugli scalini d’ingresso del locale. - Oh, cazzo-, pensò, - ma che diavolo mi sta succedendo questa sera?-. Si alzò di scatto e si diresse verso l’uscita del Rainbow. Voleva tornare a casa. Fare pace con Vinnie e dimenticare quell’inutile serata. Le luci si spensero. Le note vibranti di una chitarra presero corpo nell’aria. Frank si irrigidì. Si voltò lentamente nella direzione del palco. Da quella distanza non riusciva a mettere a fuoco le fattezze dell’uomo che, ritto al centro del cerchio lattescente della luce di un riflettore, stava suonando il miglior assolo che avesse mai sentito. Tornò sui suoi passi. Si sedette nuovamente su uno dei gradini di pietra dell’entrata e chiuse gli occhi. [………] The House of Blues era una vecchio e malconcio negozio di dischi e strumenti musicali usati nascosto nella Me and the Devil – Vampire

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estrema periferia est di Van Nuys. Frank ci aveva comprato un basso elettrico un paio di anni prima. Il proprietario era un vecchio nero dai capelli candidi ed ispidi, che fumava degli odiosi sigari puzzolenti. Vi giunse verso le sei e mezza del pomeriggio. Tommy e Vincent avevano lasciato il suo appartamento poco dopo la fine della loro amabile conversazione. Sicuramente non avevano dato alcun peso a ciò che aveva detto, considerando il suo sfogo come il frutto di una brutta serata, o di uno sballo di troppo. Non avevano idea di quanto si stessero sbagliando. Si specchiò nella vetrina del negozio e, dopo essersi aggiustato la maglietta ed i capelli, entrò. Il locale era esattamente come lo ricordava: piccolo, maleodorante e vagamente claustrofobico. Decisamente rassicurante. Una ragazza bionda gli venne incontro. “Posso esserti d’aiuto?”, gli chiese sorridendo. “Sì”, le rispose, “sto cercando un disco…un vecchio disco”. “Beh, allora sei nel posto giusto. Qui di nuovo non c’è proprio niente”, gli rispose la giovane. “Si intitola Me and the Devil di Robert Johnson”. La ragazza si mordicchiò l’unghia dell’indice e strizzò l’occhio sinistro. “Non credo di aver mai sentito nominare né questo musicista, né, tanto meno, l’album che mi hai chiesto”, aggiunse dopo qualche attimo di esitazione. “Credo che sia stato inciso a metà degli anni ’30”, disse Frank. “E’ stato composto nel 1937 ed inciso nel 1938”, la voce del signor Stevens, il proprietario del negozio, rimbombò dal sottoscala. “E’ un capolavoro assoluto”, proseguì l’uomo salendo a fatica gli ultimi scalini dello scantinato, “come stai, figliolo?”. Frank rimase sorpreso da quella domanda. Non metteva piede in quel negozio da due anni. Non era possibile che quell’uomo si rammentasse di lui. Doveva averlo scambiato per qualcun altro. “Sto bene…”, rispose titubante. “E il basso che ti ho venduto, lo suoni ancora?”. - Cristo santo -, pensò, - si ricorda di me -. “Veramente non ho mai nemmeno provato a suonarlo”, gli rispose Frank un po’ imbarazzato. “Un vero peccato”, disse l’uomo poggiandogli una mano sulla spalla, “davvero un peccato. Il mondo è pieno di mediocri chitarristi, che si fanno notare solo perché strimpellano uno strumento solista, ma la vera anima di ogni buona band è un bravo bassista, e di quelli ce ne sono pochi, molto pochi”. “Proverò…”, replicò Frank alzando le spalle. “Certo…certo…proverai. Ma veniamo alla tua richiesta. Me and the Devil, un disco da intenditori. Ma non suonavi rock and roll?”. “Lo suono ancora, non che interessi a molti, sia ben chiaro…”, rispose Frank ridendo. “Eh, la vita degli artisti è dura, ragazzo mio. E la strada verso il successo è lastricata di cocci di vetro, ma tu non ti arrendere. Vieni con me”, gli disse. Il signor Stevens lo condusse in un angusto corridoio laterale, ingombro di vinili polverosi dalle copertine stinte ed ingiallite, antichi grammofoni, vecchie radio a valvole e strumenti a fiato appesi ad arrugginire. “Vediamo un po’”, disse infilandosi gli occhiali che teneva appesi al collo, “se non mi sbaglio dovrebbe essercene una copia proprio qui…ma dove…”, il vecchio frugava fra una pila di dischi ammonticchiati in equilibrio precario sul ripiano di una mensola scricchiolante. Le sue mani deformate dall’artrite si muovevano con inaspettata agilità. “Ah!”, disse trionfante, “eccolo qui”. Porse a Frank un settantotto giri avvolto in una sottile velina. Il disco e la copertina erano sorprendentemente ben conservati. Il ragazzo si rigirò l’oggetto fra le mani e rimase stupidamente deluso. Per un attimo aveva creduto che toccare quel disco gli avrebbe fatto provare di nuovo quella stupenda sensazione di assoluta dannazione che aveva assaporato la sera precedente. Ma non fu affatto così. Era solo un vecchio vinile, nulla più. “Hai in mano l’unica copia originale di Me and the Devil”, disse il proprietario del negozio con una scintilla di orgoglio negli occhi, “una vera perla rara, figliolo. Questo disco è stato registrato durante alcune esibizioni di Robert Johnson. Lui non ha mai messo piede in una sala di incisione, non era nel suo stile”, aggiunse l’uomo sorridendo, “dopo la sua morte sono state realizzate molte versioni di quest’album, usando registrazioni amatoriali, e molti musicisti hanno tratto ispirazione dalle sue canzoni. Ma quella è l’unica incisione che Bobbie Joe abbia mai autorizzato. Se ne occupò Paul Johnson, fratello di Robert, nel 1938, e l’ultima canzone dell’album fu registrata la notte che morì”. Me and the Devil – Vampire

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La sensazione di formicolio alla testa e di annebbiamento della vista si fece sentire più forte che mai. Il canale era di nuovo aperto. Frank sorrise beato. Il signor Stevens sfilò con delicatezza il disco dalle mani del giovane e si diresse con passo spedito verso il registratore di cassa. “Allora, giovanotto”, disse togliendosi gli occhiali da presbite, “sono millequattrocentosessanta dollari”. Frank scoppiò a ridere. Si appoggiò con i palmi delle mani sul tavolo dietro il quale si trovava il proprietario del negozio, e continuò tranquillamente a sghignazzare. Il nero lo guardò in silenzio. “Sei uno spasso”, gli disse Frank asciugandosi una lacrima con il dorso della mano, “non pago l’affitto da tre mesi. In tasca ho esattamente venticinque dollari ed una manciata di spiccioli. Se mi vendo quello schifo di basso che ho comprato da te e la Fender di seconda mano che mi ha regalato il mio vecchio, forse potrei arrivare a racimolare la fantastica cifra di duecento dollari”. Stevens fece prontamente sparire il vinile sotto il tavolo e restò a fissare la faccia di Frank evidentemente accigliato. “Allora credo che la nostra conversazione possa ritenersi conclusa”. Il ragazzo si ravviò nervosamente i capelli dalla fronte. “Potrei almeno ascoltarlo?”, gli chiese serio. Il nero sbuffò spazientito. “E’ importante”, aggiunse Frank, “non so nemmeno io perché, ma è davvero importante che io senta ancora una volta quella musica”. Stevens prese di nuovo il disco e lo consegnò nella mani del musicista che lo ringraziò con uno sguardo colmo di gratitudine. “Lisa”, chiamò il proprietario a gran voce, “accompagnalo nella mia stanza”. La ragazza che lo aveva accolto, arrivò dopo qualche istante. Prese Frank sotto braccio e lo scortò in una stanzetta nel retrobottega. La camera era piccola ed estremamente ordinata. C’era un letto vicino all’unica finestra. Un grazioso scrittoio con sopra una macchina da scrivere ed un lume decò. Una sedia a dondolo di vimini nell’angolo vicino alla porta e, sull’altra parete, un armadio a muro con le ante di legno. Sul pavimento, vicino alla branda, era poggiato un giradischi risalente, ad occhio e croce, agli anni sessanta. “Accomodati”, gli disse Lisa. Frank si sedette sul letto e sollevò il coperchio di plastica del giradischi. “Tu sei il chitarrista dei X-Mas, vero?”, gli chiese la ragazza. “Sì, sono proprio io”, le rispose senza staccare gli occhi dal disco di Johnson. “Siete bravi. Vi ho sentiti suonare qualche mese fa al Pit’s”, continuò sedendosi accanto a lui. “Spero ti sia divertita”, le rispose Frank voltandosi nella sua direzione. Lisa gli si avvicinò e gli poggiò una mano sul braccio. L’uomo la strinse per le spalle e la allontanò con delicatezza. “Vorrei restare solo”, le disse. La ragazza si alzò stizzita dal letto e si diresse ancheggiando verso la porta. “Credevo che il gay fosse il cantante”, gli disse prima di lasciare la stanza. Frank mise in funzione il giradischi e si sdraiò sul letto con gli occhi chiusi. Un vecchio negro su una sedia a dondolo lo fissava. I suoi occhi erano rossi come tizzoni ardenti. Fischiettava una motivetto ripetitivo e lo guardava con aria inquisitoria. Una donna dai capelli arruffati si stava avvicinando. Indossava un abito rosso scollato e attillato. L’ebano della sua pelle riluceva di sudore. Le mani della donna erano sulle sue spalle, sul suo petto. La lingua di lei si infilava fra le sue labbra. Erano sdraiati su un tavolo e stavano facendo l’amore, mentre centinai di occhi erano puntati su di loro. Non riusciva a vedere nessuno, ma era certo che lo stessero osservando. Sentiva il loro ansimare che cresceva con la passione che animava il suo ventre. Poi la musica riecheggiò con la violenza di un’esplosione. La sua voce roca rimbombava in ogni angolo della sala. Le sue dita scivolavano sul manico della chitarra con una velocità di esecuzione che non gli era mai appartenuta. Poi vide il sangue sulle sue mani. Sui suoi pantaloni. Sulle sue scarpe. E l’odore. Un odore di morte antica. Si svegliò gridando. Si guardò attorno frastornato. Non riconobbe la stanza in cui si trovava. Si sedette sulla sponda del letto, affondando la testa fra le mani. Si scompigliò i capelli. Ricordava solo di essere entrato nella camera del signor Stevens per ascoltare l’album di Johnson. Ecco dove si trovava! E poi? Cosa era Me and the Devil – Vampire

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successo? Doveva essersi addormentato. Dette una rapida scorsa all’orologio: le ventidue e trenta. “Oh, Cristo”, disse alla stanza vuota. “Ben svegliato, figliolo”. Frank si alzò di scatto ed il signor Stevens accese la piccola lampada che era appoggiata sul pavimento vicino alla sedia a dondolo. L’immagine di quell’anziano uomo di colore che si cullava sulla seggiola di vimini, gli procurò un devastante senso di dejà vu. “Mi dispiace”, fu tutto quello che riuscì a balbettare. “E di cosa?”, gli chiese bonariamente il vecchio, “tutti abbiamo bisogno di riposare. Hai fame?”. Il musicista si portò istintivamente una mano allo stomaco. Era una vita che non metteva qualcosa sotto i denti. “Un po’”, gli rispose abbozzando un sorriso sbilenco. “Ho degli avanzi in cucina. Se ti accontenti…”, gli rispose Stevens alzandosi ed incamminandosi verso il negozio. Frank lo seguì ancora un po’ intontito. Scesero nel sottoscala e, con sorpresa, il ragazzo vide che non si trattava affatto di un magazzino, ma di una sorta di appartamento sotterraneo, con un ampio salotto, un angolo cottura molto ben attrezzato ed una porticina che doveva condurre, probabilmente, nel bagno. “Questa è casa mia”, disse il vecchio sorridendo. “Notevole”, gli rispose Frank. Stevens prese un piatto dal frigorifero e fece cenno al ragazzo di sedersi sul divano di pelle nera. Dopo poco lo raggiunse ed attese in silenzio che il suo ospite divorasse un paio di sandwiches. “Ti porto qualcosa da bere”, disse alzandosi e ridendo. Dopo la seconda birra, Frank si sentì decisamente più rilassato. Il suo inaspettato benefattore lo intrattenne con chiacchiere piacevoli, e poco impegnative, sulla musica, sull’aumento degli affitti, sull’afa che aveva soffocato la città negli ultimi giorni. Frank scoprì anche che Louis, questo era il nome di battesimo di Stevens, non si era mai sposato, aveva quasi sessantanove anni e da giovane era stato un promettente batterista. “Perché volevi quel disco?”, gli chiese improvvisamente l’anziano signore. “Ho sentito una band suonare alcuni dei brani di Johnson l’altra sera al Rainbow”, gli rispose, “e non sono più riuscito a levarmeli dalla testa”. “Capisco”, disse il vecchio annuendo con un cenno del capo, “sei stato stregato da Bobbie Joe”. “Da chi?”. “Robert Johnson, per tutti noi della terza strada, era semplicemente Bobbie Joe”. “Lo hai conosciuto?”, chiese Frank incredulo. “Molto bene”, rispose Louis, ed i suoi occhi si velarono di una dolce tristezza, “siamo cresciuti insieme a Huzlehurst, nella parte più meridionale dello Stato del Mississippi. Un mucchio di baracche costruite attorno alla chiesa metodista, a ridosso dei campi di cotone dove quasi tutti noi lavoravamo ancora come schiavi”, schioccò rumorosamente le labbra, “ci spaccavamo la schiena per meno di tre dollari alla settimana. Che tempi. Integrazione… una gran cazzata”, aggiunse. “Che tipo era?”. “Bobbie Joe? Era un nero come tanti altri. Magro, brutto, non molto intelligente a dire il vero. Si divertiva a dare la caccia alle lucciole e a chiuderle nei barattoli di vetro, poi le regalava ai bambini dicendogli che ogni volta che una smetteva di brillare, significava che un angelo aveva perso le ali”, rise, “un povero sciocco. Faceva il mezzadro nei campi dove i suoi antenati erano stati frustrati e seviziati, ma non gliene importava niente. Pensava solo a spassarsela con le ragazze del villaggio e a strimpellare la sua dannata armonica a bocca”. “Non suonava la chitarra?”. “Non all’inizio, no…”, Stevens tacque d’improvviso. Frank restò per qualche istante in attesa che riprendesse il suo racconto, ma sembrava che il vecchio non avesse più molta voglia di parlare. “Continua”, gli disse con una vibrante nota d’ansia che gli incrinava la voce. “Cosa hai visto?”, gli chiese Louis a bruciapelo. “Niente”, rispose prontamente Frank, “di che parli?”. La testa del ragazzo, intanto, aveva di nuovo preso a vibrare. Era come se un treno stesse per investirlo. Non lo vedeva, ma poteva benissimo sentire il rombo sordo dei pistoni sulle rotaie. Stevens trasse un profondo respiro e, finalmente, riprese le fila della sua storia. “Verso i vent’anni decise di trasferirsi a Memphis. Un ubriacone che suonava blues gli aveva detto che da Me and the Devil – Vampire

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quelle parti c’era da divertirsi. Così Bobbie Joe, senza pensarci troppo, decise di seguirlo. Salì con lui su un carro bestiame e sparì per un paio di anni. Nel frattempo io avevo compiuto quattordici anni ed avevo iniziato a lavorare nei campi di cotone con i miei undici fratelli, tutti più grandi di me. Fu in quelle estenuanti giornate di caldo e fatica che scoprii la magia delle percussioni. Ogni notte, dopo aver finito di mangiare come bestie attorno al fuoco, ci scatenavamo. Picchiavamo come pazzi sui bidoni di latta e sui tronchi vuoti raccolti sulle rive del fiume”. Frank ascoltava incantato. Immaginava dei ragazzi sporchi e magri che saltavano come indemoniati attorno ad un falò, gridando e ballando sotto un cielo senza anima e senza pietà. Doveva essere stato inebriante. “Era uno schifo di vita”, sentenziò il vecchio, spezzando il magico romanticismo della visione del suo nuovo amico, “ma era l’unico svago che conoscevamo, o almeno che io conoscevo, finché Robert non fece ritorno in città. Arrivò una mattina di settembre. Aveva degli abiti nuovi e sgargianti, un cappello nero sulla testa rasata, una chitarra a tracolla ed una bambolina sorridente sotto braccio: Virginia Travis, sua moglie. Ci disse che si erano trasferiti a Robinsville, un’accogliente cittadina a circa venti miglia ad ovest del nostro maleodorante villaggio. Ci descrisse la meraviglia delle grandi città, ci fece ascoltare i pezzi che aveva imparato a suonare con la chitarra e ci disse che era riuscito ad ottenere un buon ingaggio presso un night club alla moda. Era felice”, Louis si strofinò le guance ispide di barba e socchiuse gli occhi stanchi. “Sentirlo suonare deve essere stata un’esperienza indimenticabile”, disse Frank. “In realtà all’epoca era davvero un mediocre musicista. Ci fece sentire qualche assolo…nulla di eccezionale”, gli rispose l’uomo. Il ragazzo lo guardò esterrefatto. “Tre mesi dopo Bobbie Joe tornò a vivere nella sua vecchia baracca”, riprese Stevens, “sua moglie morì di parto, e con lei se ne andò anche il loro primogenito. Robert era distrutto. Non faceva altro che bere e bestemmiare, imprecare e sbronzarsi. Era fuori controllo. Non si separava mai dalla sua sei corde, ma più che ricavarne melodia, ne traeva strazio e lamenti. La sua compagnia era diventata insostenibile. Una notte lo sentimmo gridare davanti all’entrata della chiesa metodista. Il giorno dopo era svanito. La vita nella nostra vecchia fogna riprese come se niente fosse accaduto. Nell’arco di qualche mese nessuno parlò più di Johnson, della sua musica e della sua stramaledetta sfortuna. Io, però, pensavo spesso a lui. Ai suoi modi gentili da bravo villico ed allo scempio che aveva fatto di se stesso dopo la morte della moglie. Era il luglio del 1933 quando lo vedemmo riapparire all’orizzonte. Era cambiato, e molto. Camminava con fare spavaldo e sicuro, aveva una chitarra nuova di zecca, vestiti di alta sartoria ed un sigaro eternamente incollato fra le labbra. Del mezzadro che cacciava le lucciole per far sorridere i bambini, non era rimasta alcuna traccia. Parlava poco, ma la sua lingua era diventata affilata come un rasoio. Sembrava che i suoi occhi ti penetrassero dritti nell’anima ogni volta che ti fissava. E suonava quella dannata chitarra con l’abilità di un demonio. Di un demonio”, ripeté abbassando il tono della voce, “non se ne separava mai. La suonava giorno e notte. Lui che conosceva a malapena tre accordi, scriveva musica e componeva testi all’impronta come se non avesse fatto altro per tutta la vita. La sua fama crebbe in fretta e presto giunsero ad applaudirlo gli appassionati di blues, gli impresari e i musicisti di tutto lo Stato. La gente lo venerava, le donne lo imploravano di fare l’amore con loro. Il sud intero dell’America degli anni trenta era letteralmente impazzito per quel negretto dagli occhi spauriti. In meno di due anni divenne un’assoluta leggenda”. “Incredibile”, disse Frank. “Impossibile, è il termine più appropriato. Io non mi perdevo una sua esibizione. Ero in suo potere. Lo aspettavo fuori da ogni locale, sotto casa sua, all’uscita dei bar. Non mi diceva mai granché. Ero solo un ragazzo che pendeva dalle sue labbra. Uno come tanti, ma una sera mi parlò…”, il nero si schiarì la voce rumorosamente, “e quello che mi disse mi terrorizzò”. Il chitarrista si accese una sigaretta e si appoggiò contro lo schienale del divano. “Aveva finito di suonare nell’unico nightclub di Huzlehurst, aperto in suo onore. Mi vide vicino all’entrata del locale e mi fece segno di raggiungerlo al suo tavolo. Mi offrì un bicchiere di whisky, ed io, per fare l’uomo, lo buttai giù tutto d’un fiato. Ci mancò poco che vomitassi anche gli occhi. Bobbie Joe rise fino alle lacrime e mi offrì una sigaretta. Non l’accettai…”, il vecchio sorrise, “Mi chiese se mi era piaciuto lo spettacolo, ed io gli dissi di sì. Mi chiese se suonavo ancora la batteria, ed io risposi di sì. Mi chiese di fargli sentire qualcosa. Mi alzai da quella sedia con le gambe che mi tremavano come foglie. Salii sul palcoscenico e mi sedetti al posto del percussionista. Mi esibii nel miglior assolo di batteria che fossi capace di suonare. Quando ebbi finito, tornai a sedermi al suo tavolo. Mi sbuffò una lunga boccata di fumo in faccia e spense il mozzicone del suo sigaro in un portacenere di vetro. Mi disse: cambia mestiere. Il cuore mi si fermò nel Me and the Devil – Vampire

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petto. Gli risposi che potevo migliorare…che avrei potuto imparare…che anche lui, pochi anni prima, non era stato altro che un mediocre chitarrista. I suoi occhi divennero furenti. Mi prese per il collo della camicia e mi alzò da terra. “Vuoi diventare bravo quanto me?”, mi chiese senza smettere di scuotermi e di gridare, “allora vendi la tua anima al diavolo. Posso presentartelo quando vuoi”, mi lasciò andare di scatto. Io corsi via dal locale senza voltarmi indietro. Non ci parlammo mai più. Pochi mesi dopo fu assassinato in un locale di Greenwood”. “Assassinato?”, chiese Frank sgranando gli occhi. “Si fece la moglie del proprietario davanti a tutti gli avventori. Il poveretto non sopportò l’affronto e gli rifilò una bottiglia di brandy al cianuro. Non fu mai arrestato. Robert era un musicista famoso, una leggenda fra i bluesmen dell’epoca, ma era pur sempre un negro. Alla polizia non interessava molto risolvere i casi di omicidio che avvenivano fra la gente di colore. Era solo un bastardo di meno. Il caso fu archiviato come morte accidentale”. Nella mente di Frank l’immagine del sangue che ricopriva le sue mani, il sapore delle labbra di quella donna vestita di rosso e l’odore di morte, si fecero più reali e devastanti. Si alzò e si mise a camminare per la stanza. Il vecchio lo osservò incuriosito: “La mia storia ti ha turbato?”, gli chiese incuriosito. “Sì…No…non lo so”. Stevens rise di gusto. “E’ solo una vecchia storia, nulla che ti riguardi. Eri curioso di sapere chi era Robert Johnson e te l’ho spiegato”. “Vendere l’anima al diavolo”, disse Frank fissando un punto imprecisato della stanza. “Era solo una stronzata detta per spaventare un moccioso che, secondo lui, gli aveva mancato di rispetto”. “Senz’altro”, rispose il ragazzo meccanicamente. “Però ora sono stanco”, disse il nero alzandosi a fatica dal divano, “me ne vado a letto”. Frank restò immobile al centro della sala. “Potrei restare qui…solo per stanotte”, chiese con un filo di voce. “Per me puoi restare quanto vuoi”, gli rispose inaspettatamente Louis, “puoi dormire sul divano…ah…e puoi tenerti quel dannato disco”. “Davvero?”. Il chitarrista era allibito. “Sì”, gli rispose Stevens sorridendo, “Bobbie Joe ne sarebbe contento. Ti ha stregato”. Si addormentò come un sasso. Fu svegliato dal vociare rumoroso che proveniva dal negozio. Si alzò un po’ indolenzito. Si infilò la maglietta nei pantaloni, si aggiustò i capelli con le dita e salì le scale. Il sole che filtrava dalla vetrina lo accecò. Louis stava conversando allegramente con un paio di ciccione ricciolute. Lo salutò con un fugace cenno del capo. Frank si sedette dietro il registratore di cassa. Si sentiva bene. Che strana sensazione, pensò. Erano tre giorni che non si ubriacava, che non ingoiava pillole e che non si accendeva uno spinello. Eppure si sentiva rilassato e quasi felice. Uno stato d’animo davvero insolito. Il signor Stevens si avvicinò in compagnia delle grassone. “Le signore pagano questi”, disse porgendo a Frank un paio di dischi di Aretha Franklin. Il giovane lo guardò interdetto. Poi prese i vinili e batté l’importo sul registratore. Infilò i dischi in una busta di plastica raccattata sotto al bancone e ringraziò le due gentil dame con un amabile sorriso da canaglia. “Attraenti”, disse ridendo appena le due balene lasciarono il negozio. “Missy, la rossa”, gli bisbigliò Louis all’orecchio, “a letto è un portento”. Frank fissò il vecchio allibito. “Cosa credi?”, gli disse Stevens un po’ risentito, “Che abbia mandato in pensione l’attrezzo?”, e se ne andò infuriato. “E tu, cosa ci fai qui?”. Lisa lo osservava dall’entrata con le mani appoggiate sui fianchi. Indossava una minigonna di pelle nera ed una canottiera rosso ciliegia. “Sono stato appena arruolato come cassiere in seconda”, le rispose Frank sorridendo. “Grandioso”, replicò lei volgendo lo sguardo al cielo. Gli lanciò un’occhiata sbilenca e si diresse dall’altra parte della stanza. “Hey”, la chiamò Frank. Lisa si voltò appena. Me and the Devil – Vampire

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“Il gay è davvero il cantante”. La ragazza emise un risolino simile allo squittio di un topo e svanì fra due scaffalature traboccanti di cianfrusaglie. Non aveva mai preso in considerazione di lavorare come commesso in un vecchio negozio di dischi. Non aveva considerato l’ipotesi di condividere la casa con un vecchio signore di quasi settanta anni. L’idea di frequentare una sola ragazza non lo aveva più sfiorato da quando frequentava l’ultimo anno delle superiori. Eppure, era lì. Dormiva da tre mesi sul divano del salotto di Louis, e le sue vertebre avevano assunto la caratteristica forma bombata dei cuscini. Era diventato un esperto conoscitore di dischi d’epoca e anche l’unico in grado di trovare, in meno di quindici minuti, un qualsiasi articolo in mezzo a quella confusione di cartoni, copertine, strumenti e spartiti ingialliti. La sera, chiuso il negozio, portava Lisa a mangiare fuori, oppure al cinema o a sentire un po’ di musica. Fare all’amore con lei sui sedili posteriori della sua Buick era diventata una piacevole abitudine. Non si era più esibito. Non aveva più incontrato i suoi fedeli compagni di disavventure. Si era rintanato in quel piccolo mondo fatto di arte e tranquillità. Non si domandava mai cosa provasse, se fosse realmente felice. Si sentiva protetto, e quella sensazione assolutamente inusuale gli bastava. Le chiacchierate con Louis la domenica mattina, Frank seduto sul dondolo ed il vecchio sdraiato sul suo letto a sorseggiare caffè nero bollente, erano decisamente il suo momento preferito della settimana. Stevens raccontava le sue avventure di giovane musicista di colore, e si infervorava ripercorrendo le battaglie per l’integrazione razziale che aveva dovuto, suo malgrado, sostenere fino alla fine degli anni settanta. Gli parlava per ore dei suoi ricordi, dei personaggi, più o meno famosi, che aveva incontrato, delle donne che aveva conosciuto e in particolare di quella che gli aveva rubato il cuore. Il ragazzo ascoltava con interesse e confidava al vecchio tutto quello che non aveva mai avuto il coraggio di dire a nessuno. Il suo rapporto conflittuale con la madre. Il dolore per aver dovuto subire l’abbandono di suo padre. La voglia di diventare famoso. Il suo amore per la musica. “Ma non ti vedo più prendere una chitarra in mano”, gli disse una mattina Louis sorseggiando il suo caffè. “La mia l’ho lasciata nel vecchio appartamento”. “In negozio ce ne sono quante ne vuoi”, gli rispose Stevens calmo. “La verità è che suonare non mi interessa più. Ho altro per la testa…”, rispose Frank vago. “Oh, certo”, acconsentì Louis sogghignando, “fare il commesso in questa bettola, ascoltare i ricordi di un vecchio o spassartela con una bambolina svanita, sono impegni gravosi”. Frank sorrise. “Non è più tempo”, aggiunse dopo qualche attimo di silenzio il chitarrista, “ho avuto la mia occasione è l’ho sprecata. Otto anni a Van Nuys non mi hanno portato a nulla più di questo”, terminò indicando la stanza circostante, “e va bene così”. “Davvero?”. Frank annuì. “Fallito”. “Cosa?”, replicò esterrefatto il ragazzo. Tutto si sarebbe aspettato, tranne che essere insultato dall’unico amico che gli fosse rimasto. “Hai capito bene cosa ti ho detto. Sei un fallito. Hai lasciato la tua casa, la tua famiglia, gli studi, per cosa? Per lavorare in un negozio di dischi usati? Potevi farlo prima”. “Le cose non stanno esattamente così”, ribatté il ragazzo sulla difensiva. “Ah, no? E come stanno? Spiegamelo, dai. Hai suonato in tutte le bettole della città e nessuno ti ha notato. Hai messo su una band e gli impresari vi hanno snobbato. E allora? Cosa credevi, culo pallido, che bastassero i tuoi begli occhi verdi e qualche tatuaggio sulla pelle per diventare famoso? Fallito”. Frank si alzò dal dondolo e scese nel sottoscala. Era furioso. Quel vecchio lo stava insultando impunemente. Prima gli aveva offerto la sua ospitalità, gli aveva dato l’illusione di una casa e di una specie di famiglia, ed ora gli sbatteva in faccia degli stupidi giudizi. Louis lo raggiunse e si fermò sulla soglia della porta. Frank lo guardò con gli occhi serrati, ridotti a due fessure, ed i pugni stretti contro le gambe. “Stai piangendo, piccolo?”, lo apostrofò Stevens ridendo. “Brutto negro bastardo!”, inveì Frank, “Chi cazzo ti credi di essere per parlarmi così? Tu e la tua bettola Me and the Devil – Vampire

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puzzolente, siete solo merda. Merda sotto le mie scarpe. Che ne sai tu della musica? Che ne sai di cosa vuol dire avere qualcosa dentro e non riuscire in nessun modo a tirarlo fuori? Che cazzo ne sai tu, vecchio, di cosa significa essere un’artista? Tu che in tutta la tua squallida vita hai solo osservato la grandezza di chi ti passava accanto. Tu sei il fallito. Tu sei la nullità”. Louis iniziò a battere le mani lentamente. “Bravo”, disse continuando a sorridere, “molto bravo”. Frank imprecò e si voltò dall’altra parte. Era pericolosamente vicino alle lacrime. “Che fine ha fatto il disco che volevi tanto?”, gli chiese calmo e pacato il signor Stevens. “E’ lì”, disse Frank indicando uno stipetto vicino al divano. Louis prese il vinile ed uscì dalla stanza. Vi fece ritorno poco dopo con il disco in una mano ed una chitarra acustica incastrata sotto il braccio. Fissò il ragazzo dritto negli occhi e gli consegnò il tutto. “E adesso, suona”, fu quello che aggiunse prima di lasciare la stanza. Frank si grattò energicamente la testa lasciando cadere a terra lo strumento. Si rigirò per qualche istante il disco fra le mani e, finalmente, si decise a metterlo sul piatto del giradischi. Posò la puntina sul primo solco con la delicatezza con la quale si maneggia la dinamite. La voce di Robert Johnson echeggiò nella stanza vuota. Il ragazzo si distese sul divano, ancora coperto dalle lenzuola spiegazzate, incrociò le braccia dietro la testa e chiuse gli occhi. Dapprincipio fu solo un formicolio alla base del cranio, poi una leggera sensazione di corrente elettrica che gli attraversava il cuoio capelluto. Poi ci fu dentro. Lo vedeva. Poteva quasi toccarlo. Quel nero dagli occhi spauriti, con il sorriso sbilenco ed il cappello scuro calzato sulla testa rasata. Era a pochi metri da lui. Dondolava il capo al ritmo della musica, ed il suo sguardo era perso oltre il confine della realtà. Le sue pupille ardevano, le sue mani scivolavano sui tasti della chitarra come animate di vita propria. La musica non era disturbata da alcun rumore. Si diffondeva dal centro esatto del silenzio per prendere corpo nella mente di chi la stava ascoltando. Era come sfiorare l’assoluto. I'm a drunken hearted man, my life seems so misery I'm a drunken hearted man, my life seems so misery And if I could change my way of livin', it would mean so much to me I been dogged and I been driven, ever since I left my mother's home I been dogged and I been driven, ever since I left my mother's home And I can't see the reason why that, I can't leave these no-good women's alone My father died and left me, my poor mother done the best that she could My father died and left me, my poor mother done the best that she could Every man likes that game you call love, but it don't mean no man no good Now, I'm the drunken hearted man and sin was the cause of it all (spoken: Oh, play 'em now) I'm a drunken hearted man, and sin was the cause of it all And the day that you get weak for no-good women, that's the day that you bound to fall (Sono un uomo dal cuore ubriaco, la mia vita sembra così miseria Sono un uomo dal cuore ubriaco, la mia vita sembra così miseria E se potessi cambiare il mio modo di vivere', significherebbe molto per me Sono stato in giro e sono stato guidato, da quando ho lasciato la casa di mia madre Sono stato in giro e sono stato guidato, da quando ho lasciato la casa di mia madre E non capisco perché non posso lasciare queste donne cattive da sole Mio padre è morto e mi ha lasciato, la mia povera madre fatto il meglio che poteva Mio padre è morto e mi ha lasciato, la mia povera madre fatto il meglio che poteva Ogni uomo ama quel gioco chiamato amore, ma non significa nessun uomo sia buono Me and the Devil – Vampire

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Ora, io sono un uomo dal cuore ubriaco, e il peccato è stato la causa di tutto (parlato: lasciali suonare) Sono un uomo dal cuore ubriaco, e il peccato è stato la causa di tutto E il giorno che diventerai debole per una donna di mal affare, quello è il giorno in cui sarai destinato a cadere) Quelle strofe descrivevano così dannatamente bene la sua vita. Sembravano scritte per lui, o meglio, da lui. Frank spalancò gli occhi. Si alzò di scatto dal divano ed impugnò la chitarra. Si sedette accanto al piccolo ed antiquato giradischi ed iniziò a suonare. All’inizio si limitò a seguire la melodia che stava ascoltando, ma presto le dita cominciarono a scorrere da sole lungo le corde, a pizzicarle con maestria, a trarne variazioni e virtuosismi che ignorava di saper eseguire. Il giovane sorrideva beato mentre la sua musica si mescolava, si accavallava e copriva quella di Mr. Johnson. Louis, seduto sul pavimento dietro la porta chiusa della stanza, ascoltava compiaciuto. Frank continuò a suonare per tutta la mattinata. Saltò il pranzo, disdisse il suo appuntamento con Lisa, mangiò un panino al volo e si dedicò al suo primo amore fino alle luci dell’alba del lunedì seguente. Quando ripose la chitarra contro il muro era esausto. I polpastrelli della mano sinistra erano piagati e quelli della destra quasi sanguinanti. Si abbandonò sul suo letto improvvisato e cadde in un sonno senza sogni. Il mattino dopo si trascinò in negozio verso mezzogiorno. Lisa era impegnata con alcuni clienti, mentre Stevens era seduto dietro il registratore di cassa fumando uno dei suoi orridi sigari. “Ma guarda chi si vede!”, disse rivolto a Frank. Il chitarrista si sedette accanto al suo momentaneo datore di lavoro e gli poggiò una mano sulla spalla. “Grazie”, gli sussurrò in un orecchio. “Di averti insultato?”, gli rispose Louis soffiandogli una lunga boccata di fumo azzurrognolo in faccia. Frank si portò una mano alla bocca e si voltò teatralmente dall’altra parte. “Anche”, replicò tossendo. “Aspetta a ringraziarmi, figliolo. Fa’ colazione e torna a dedicarti a quello che ti viene meglio. Hai la giornata libera”, gli disse il vecchio ridendo. Il ragazzo gli indirizzò una strizzatina d’occhio e si avviò verso il sottoscala. “Frank…”. “Dimmi, Lisa”. “Che facciamo stasera?”, gli chiese poggiandogli una mano sull’avambraccio. “Tesoro, stasera ho da fare. Ne riparliamo domani, o.k.?”. “Ma…”, fu tutto quello che la ragazza ebbe il tempo di obbiettare, prima che Frank le voltasse le spalle. Si preparò una caraffa di caffè ben zuccherato, prese una scatola di biscotti al cioccolato dalla credenza sopra al lavandino e si sedette sul pavimento con la sua ritrovata amica appoggiata sulle gambe incrociate. Bevve un sorso di caffè e accarezzò le corde della chitarra. “Va bene”, disse in un sussurro, “sono qui Bobbie Joe. Fammi vedere come si prende il diavolo per la coda”. […….] Due ore dopo era barricato nel suo appartamento, seduto a gambe incrociate sul pavimento davanti al caminetto spento, rigirandosi fra le dita il biglietto da visita che gli aveva lasciato Miranda. Denunciare Michael poteva essere una soluzione. Non aveva le prove di quanto il bassista gli aveva raccontato, ma era certo che se avesse riferito le informazioni di cui era venuto in possesso alla detective Larson, lei non avrebbe avuto grossi problemi a procurarsele. Compose il numero dell’ufficio della donna. Mentre gli squilli si susseguivano, si sentiva come l’ultima carogna sulla faccia della Terra. Stava per vendere la pelle di uno dei suoi migliori amici agli sbirri. Solo cinque mesi prima gli sarebbe sembrata un’ipotesi a dir poco impossibile. “Larson”. “Miranda, sono Frank”. “Ti sei deciso a dirmi di chi era la voce che ha chiamato il pronto intervento dal negozio del vecchio Louis, oppure vuoi invitarmi a cena?”. “Ho deciso di dirti come è morto Deveroe”. Me and the Devil – Vampire

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“Ti ascolto”, il tono della poliziotta perse ogni traccia di brio. “Non per telefono, e nemmeno nel tuo ufficio. Vieni a casa mia. Centotrentadue di Whittier Boulevard, Boyle Heights”. “Arrivo”, disse la donna prima di riagganciare. Frank si strofinò i palmi delle mani sui pantaloni. Aveva una gran voglia di fumare. Entrò nella sua camera e pescò dal fondo del cassetto del comodino una busta di hashish. Si distese sul letto e si rollò meticolosamente una sigaretta anestetica, come Tommy chiamava affettuosamente le canne. La accese e fissò il lampadario di cristallo che pendeva immobile dal centro del soffitto. Le gocce trasparenti rilucevano nel riflesso arancio del tenue tramonto che filtrava dalla finestra spalancata. Il vento che spirava nella stanza era tiepido e piacevole. Frank iniziò a rilassarsi. Socchiuse gli occhi e restò in ascolto. I rumori che provenivano dalla strada erano stranamente sommessi, concilianti. “Frank”. Spalancò gli occhi e si drizzò a sedere sul letto. “Frank”. La voce proveniva dal soggiorno. Gettò la sigaretta a terra e si incamminò verso quel richiamo. “Frank”. Il salotto era vuoto. Entrò nella cucina. Vuota anch’essa. Spalancò la porta del bagno. Corse nella stanza dove teneva le chitarre e gli amplificatori. Bingo. Un uomo alto, con dei pantaloni di velluto, stava accarezzando il manico della sua Stratocaster. Gli dava le spalle. Era lo stesso uomo che aveva visto galleggiare nel nulla del suo subcosciente subito prima che la folla del Palladium impazzisse. L’uomo si accorse della sua presenza e si voltò. Non aveva volto. Solo dei folti capelli neri ed un ovale regolare, i cui tratti somatici erano stati cancellati da un colpo di spugna. Frank indietreggiò. “Ti ho spaventato?”, chiese l’estraneo. Il rosa della sua pelle sembrava gonfiarsi ed arrossarsi nel punto in cui le labbra si sarebbero dovute dischiudere per permettergli di parlare, “Il mio aspetto ti disturba?”. Il chitarrista non rispose. “In genere mi presento in modo più appariscente ai miei amici, ma ero molto indeciso su come manifestarmi a te. Voi artisti rappresentate sempre un grosso problema”. “Che vuoi da me?”, riuscì a gracchiare Ferrano. “Oh, quello che volevo da te l’ho già ampiamente ottenuto, mio caro. Il punto è che non mi va che con la tua insulsa stupidità, tu possa corrompere la mia opera”. “La tua opera…”, fece eco meccanicamente il ragazzo. “Esatto”, l’uomo sorrise, e la gelatina della sua faccia si arricciò. Il chitarrista trattenne a stento un conato. “Sei un ottimo strumento, Frank”, proseguì l’apparizione, “come tutti i veri artisti. Siete così potenti. Così creativi. Così meravigliosamente utili. Uno spiraglio attraverso cui ghermire le anime, catturare i sogni, liberare le menti”. “Chi sei?”. “Cosa?”, l’essere sembrò sorpreso da quella domanda, “Chi sono? Non lo immagini?”. Frank scosse la testa. Si sentiva ardere dall’interno. Era una sensazione che non aveva mai sperimentato prima. I muscoli, i tendini, le ossa, le cellule del suo corpo emanavano calore. Aveva la certezza che se avesse poggiato le mani sul muro, vi avrebbe impresso delle bruciature nerastre. “No, è solo la mia presenza che ti fa sentire così. Il tuo corpo sta bene, la tua mente è un pochino agitata”, gli rispose il suo inaspettato ospite. “Chi diavolo sei?”, gridò Frank con tutto il fiato che aveva in corpo. “Mi hai appena nominato, figliolo”. “Il diavolo?”, chiese il ragazzo inebetito. “Satana ti piace di più? Belzebù è un nomignolo con cui amano chiamarmi i bambini, ed è uno dei miei nomi preferiti. Lucifero è più biblico, però…mi da un’aria più importante, più distinta. Oppure potresti chiamarmi Louis, che ne dici? Louis, ti piace?”. “C-cosa?”, balbettò Frank. Il volto informe dell’uomo si trasfigurò sotto i suoi occhi. L’incarnato roseo divenne gradualmente olivastro, fino ad assumere una compatta sfumatura color noce. I capelli diventarono crespi e bianchi. Poi gli occhi, il naso e le labbra di Louis Stevens presero forma. “Ne hai fatta di strada, ragazzo”, disse il vecchio nero, “lo sapevo che con una piccola spinta nella giusta direzione nulla ti avrebbe più fermato. Avevi solo bisogno di ritrovare la fiducia in te stesso”. Me and the Devil – Vampire

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“Non è vero”, disse Frank con la voce spezzata, “sei solo una fottuta allucinazione. Louis è morto. Tu non esisti. Tu…”. “Io, cosa?”, gli chiese il suo vecchio e defunto amico. “Sono solo il frutto della tua immaginazione? Se credere questo ti rende le cose più facili, fallo pure. Io adoro il modo che voi umani avete di ingannarvi. Siete così bravi a plasmare la realtà, facendo in modo che segua i ristretti schemi della vostra comprensione. E quando tutto diventa troppo insopportabile, vi rivolgete al trascendente, sia esso demoniaco o divino, l’importante è ottenere qualcosa, non è vero? A chi importa da chi lo si ottiene?”. “Non capisco”, disse Frank sconsolato, “Louis è morto…lui…“ “Certo che Louis è morto. L’ho ucciso io. Povero vecchio bastardo. Mi aveva evocato per tutta la sua miserabile e squallida vita. Voleva che lo rendessi immortale. Che facessi di lui un grande artista. Povero sciocco, non ha mai capito niente. Mi ha implorato così tanto di dargli un segno tangibile della mia esistenza, che, alla fine, non ho potuto esimermi dall’accontentarl0, a modo mio, naturalmente. Non solo gli sono apparso, ma gli ho addirittura rubato il corpo. L’ho manovrato come un docile burattino e gli ho fatto scoppiare il cuore, dopo averlo costretto a annientare tutto quello che aveva costruito in tanti anni di insulsa esistenza…la distruzione di The House of Blues mi ha procurato una certa soddisfazione, devo ammetterlo, ma l’anima di Stevens ha finalmente raggiunto la sua definitiva dimora”. “Allora la storia che Louis mi hai raccontato…”. “Quale?”, chiese la creatura che cominciava a non assomigliare poi tanto a Stevens, “Robert Johnson che vende la sua anima a me per comporre una musica capace di stregare chiunque la ascolti?”. Frank annuì. “Sei meno scaltro di quanto pensassi, Frank. Johnson mi vedeva e mi sentiva, esattamente come mi vedi e mi senti tu, ma non è mai stato mio, come non lo sei tu”. Il chitarrista si portò una mano alla testa. “Ma io l’ho sentito, gli ho parlato…la sua chitarra, il disco…”. “Erano quello di cui avevi bisogno. Avevi l’assoluta necessità di credere in un dono, di credere che qualcuno operasse attraverso di te. E’ sempre stato il tuo punto debole: illuderti di aver bisogno di una guida, di non essere in grado di farcela con le tue forze”. Il volto di quell’essere iniziò a mutare ancora. La carnagione divenne chiara, quasi diafana. I capelli gli crebbero fino a sfiorargli le spalle. Gli occhi assunsero il colore nero della notte, il naso da camuso si fece aquilino. Una folta barba rossiccia, come la chioma fluente, gli nascose le labbra sottili ed il mento. “Papà”, mormorò Frank sconcertato. “Il tuo unico desiderio era conquistare il suo affetto, la sua approvazione. Volevi che fosse fiero di te, che ti amasse, quando quell’idiota non era capace nemmeno di badare a se stesso. Hai cercato il suo sguardo in ogni persona che ti è passata di fianco, e non hai mai smesso di chiederti perché ti abbia abbandonato. Il vostro senso di colpa è la cosa più divertente che il burlone dei piani alti abbia mai creato. Lo coltivate fin dalla più tenera età. Fate in modo che vi divori, che si nutra del vostro spirito e che vi ingabbi in una prigione senza sbarre. Tuo padre era solo un perdente, non ti ha mai voluto bene, e allora? Non avevi bisogno del suo amore, né della sua presenza. Ma non hai mai voluto accettarlo”. “Mio padre non c’entra niente con tutta questa storia”, l’effetto alone che lo aveva quasi paralizzato fino a quel momento stava lentamente scemando, “questa è una faccenda fra me e te. Se non ti appartengo, cosa sta accadendo ai miei amici?”. “Le tue debolezze sono la mia forza”, disse la creatura. Il suo volto si sciolse di nuovo in quella bolla informe di carne rosa, “io non posso possedere un’anima come la tua. Chi crea è fuori dalla mia portata. Fuori dalla mia giurisdizione. L’arte, in tutte le sue forme, è creazione. La creazione non mi interessa”. “Ma la distruzione sì, immagino”. “Nel grande disegno dell’universo ognuno ricopre un ruolo. L’ordine, per essere riconosciuto come tale, necessita del caos. Il bene non può esistere senza il male. Dio senza di me si annoierebbe. L’uomo senza di me non avrebbe nessuno che lo apprezza e che lo difende”. “Balle”. “Non mi interessa la tua opinione in merito…”, disse l’apparizione alzando le spalle. “Non hai risposto alla mia domanda”. “Tu, come molti altri prima di te, sei un tramite. La tua arte è pura, non lo sono le menti di coloro ai quali è indirizzata”. “La mia musica…”. Me and the Devil – Vampire

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“Esatto. La tua musica è frutto solo del tuo genio, della tua anima se vuoi vederla così. Non ci sono malie, non ci sono miei interventi, è tutta farina del tuo sacco. Non esiste nessun fantasma di Robert Johnson, quello sì che è stato un parto della tua immaginazione. Bobbie Joe è stato un mio impareggiabile strumento, esattamente come tu lo sei ora. La sua arte è stata interamente al mio servizio, come la tua. I tuoi amici, quei tre parassiti, loro si che mi appartengono. I vostri ammiratori che commetteranno atti impuri, che si suicideranno in nome del signore delle tenebre che tu invochi nei tuoi testi, che faranno scempio della loro carne perché i loro idoli lo fanno, anche quelli saranno indiscutibilmente miei, e li avrò raggiunti grazie a te”. “Ma io posso fermare tutto questo”. “Non è così facile, ragazzo”. “E questo cosa cazzo vuol dire?” “Creare è molto più impegnativo che distruggere. Per fermare la creazione è necessario annientare il creatore e ciò che ha plasmato. Sei disposto a tanto?”. Il campanello della porta dell’appartamento di Frank suonò. “E’ la tua nuova amica, Miranda. Falla entrare. Sarà un vero piacere fare la sua conoscenza. Ho avuto modo di sfiorarla appena, e quello che ho assaggiato mi è piaciuto molto”. Frank si precipitò fuori dalla stanza. Corse fino alla porta d’ingresso e si voltò per vedere se qualcuno l’avesse seguito. “Frank, sono Miranda. Aprimi”. Le mani gli tremavano. Faticò ad afferrare la maniglia. Sospirò. Chiuse gli occhi. “Frank!”, chiamò la donna picchiando contro la porta. Ferrano aprì. “Che bello vederti, piccola”, disse sorridendo. “Piccola?”, chiese Miranda accigliandosi. “Fammi entrare, dobbiamo parlare”, concluse con tono sbrigativo. Frank spalancò l’uscio e piantò le braccia sugli stipiti. “Io stasera non ho esattamente voglia di parlare”, le rispose. “Senti…mi hai chiamata dicendomi che sapevi chi ha ucciso Deveroe…”. “Già…Deveroe…un’ottima scusa per portarti nella tana del lupo, non credi?”. “Ma che stai dicendo?”, sbottò la poliziotta. “Mi hai dato il tuo numero. Hai detto che potevo chiamarti anche per invitarti a cena. Io stasera ho fame”. “Stavo scherzando, Frank, ma, evidentemente, non era il caso di mostrarmi troppo amichevole con te. Ora basta. Se hai delle informazioni sulla morte di Deveroe, sei pregato di parlare, o vuoi che torni con un mandato?”. “Un mandato”, replicò il ragazzo ridendo, “sai cosa ci farei con il tuo mandato? Avevo solo voglia di vederti e di divertirmi un po’”. “Che stronzo”, sbuffò la detective, “O.K., Ferrano, domani i tuoi avvocati riceveranno notizie dal mio distretto. Buonanotte”. Frank la afferrò per un braccio e la attirò a sé. Miranda tentò di svincolarsi, ma lui le bloccò le braccia dietro la schiena e la schiacciò con il suo corpo contro il muro del corridoio del pianerottolo. “Non fare la stupida”, le sibilò in un orecchio, “non minacciarmi, piccola, non ti conviene. Non hai nulla contro di me. Non puoi farmi niente. Ma io posso fare qualcosa per te…posso farti stare bene…”, aggiunse leccandole uno zigomo. “Lasciami”, gli disse Miranda tentando di liberarsi dalla sua stretta. “Stai ferma, dai…lo so che lo vuoi anche tu…o forse ti piace essere presa con la forza? Avevo in mente qualcosa di più romantico, ma mi eccita anche così”. L’uomo le fece scivolare una mano sotto la camicetta e le morse un lobo. La donna gridò, piantò una possente ginocchiata nell’inguine di Frank e si liberò dal suo abbraccio. Il chitarrista si piegò in due portandosi entrambe le mani sulla patta dei pantaloni. “Puttana”, uggiolò. Miranda estrasse la pistola dalla fondina che teneva sotto alla giacca e la puntò contro il musicista. “Non muoverti”, disse. Aveva il volto bagnato di sudore. Frank alzò le mani e scoppiò a ridere. “Vuoi spararmi?”. “Perché no”, gli rispose con la voce che le tremava, “mi hai aggredita. Sono un poliziotto e…”. “Io ti ho aggredita? Davvero? Sai cosa dirò al tuo superiore quando ti denuncerò e ti farò cacciare dalla Me and the Devil – Vampire

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polizia? Gli dirò che ti ho chiamata perché tu me lo avevi chiesto. Gli dirò che volevo collaborare con la tua indagine e che tu mi hai chiesto di venire a casa mia. Gli dirò che hai provato a venire a letto con me e quando ti ho respinta ti sei infuriata… e mi hai minacciato con una pistola”. “Non ti crederà nessuno”, gli rispose. “Non sai quanto ti sbagli, tesoro. Il denaro rende tutti santi e compra ogni coscienza”, il chitarrista sorrise ed abbassò le mani, “per evitare che ti distrugga la vita, puoi fare solo due cose, piccola: andartene o ammazzarmi”. - Sparami -, pensò Frank, - dai, Miranda, che aspetti. Piantami una pallottola in testa e finiamola qui…-. La donna restò immobile. Gli occhi ridotti a due fessure. Abbassò l’arma. “Mi fai schifo”, sibilò, “sei solo un tossico di merda che gioca a fare Dio. Sei niente, Ferrano. Hai ragione, il tuo denaro può comprare la legge, ma non può fare di te un uomo. Non attraversarmi mai più la strada. Potrei non vederti ed accelerare”. Ripose la pistola nella fondina, si voltò e si incamminò verso l’ascensore. Frank rientrò in casa. Chiuse la porta del suo appartamento. Si appoggiò contro il legno freddo e scivolò lentamente sul pavimento. Si prese la testa fra le mani. “Credi di averla salvata?”, gli chiese l’essere comodamente seduto sul divano. “Ora mi odia”, disse Frank senza aprire gli occhi, “non ascolterà di certo la mia musica e non si avvicinerà mai più a me. L’ho salvata? Non lo so, ma, almeno, ci ho provato”. “Sei un vero enigma, mio caro amico”, gli rispose l’apparizione con tono accondiscendente, “sai di avere un potere immenso. Con me al tuo fianco potresti realizzare ogni tuo più recondito e proibito desiderio, e ti preoccupi per la sorte di una donna che nemmeno conosci? Bobbie Joe era un uomo decisamente più divertente. Parlavamo molto, sai? Ed il più delle volte ci trovavamo in perfetto accordo. Era un essere umano davvero notevole, innamorato solo di se stesso. Una perla rara. Tu, invece…sei così…ordinario. In un certo senso sei una delusione, mio caro”. “Lieto di non piacerti, sporco figlio di una cagna”. “Oh, al contrario, mi piaci molto. Non mi diverti, ma mi piaci moltissimo. E’ una vera gioia per me assistere allo strazio della tua anima. Non posso possederti, non posso manovrarti, ma, almeno, posso godere del tuo dolore. Johnson mi ha raggiunto all’inferno subito dopo la sua dipartita, tu non credo che ti unirai a noi, e questa è una vera soddisfazione per uno come me. Sapere che la tua anima non mi appartiene, ma che posso servirmi lo stesso di te per i miei scopi, mi da un dolce senso di onnipotenza”. “Ho capito”, sibilò Frank serrando i pugni. “Vuoi che me ne vada?”. “Mi faresti questo favore?”, replicò l’uomo. “Certo…”, disse l’essere prima di svanire. [……] Il diavolo è l'amico che non resta mai fino alla fine. (Georges Bernanos)

Cindy era davvero fantastica. Così bella, così eccitante, così folle. Tommy non aveva mai incontrato una donna come lei prima d’allora. L’aveva conosciuta nel parcheggio di un cinema, nei pressi del Lincoln Boulevard. Quella sera avrebbe dovuto prender parte ad uno degli innumerevoli party promozionali organizzati dal loro produttore, ma per tutto il giorno era stato assediato da un fastidioso ronzio che sembrava espandersi dal centro della sua testa, e aveva preferito montare sulla sua Harley nuova di zecca e farsi un giro per Los Angeles. Dalla notte in cui aveva abusato di quella cameriera, le voci che sussurravano nella sua mente erano praticamente svanite, ma l’insonnia, il malessere ed il nervosismo non avevano fatto altro che accrescersi. Il massacro del Palladium, la terribile conferenza stampa che ne era seguita ed il presunto coinvolgimento di Mickey in un caso di omicidio avevano contribuito ad accrescere il suo Me and the Devil – Vampire

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opprimente senso di impotenza e di estraneazione. Aveva vagato senza meta per qualche tempo. Infine, aveva parcheggiato la moto nei pressi di un distributore automatico di sigarette, di fronte al parcheggio di un vecchio cinema di cui non rammentava il nome. Si era seduto a gambe incrociate sulla sella della due ruote ad osservare, assente, la gente che gli passava accanto. Qualcuno lo aveva occhieggiato con aria interrogativa: “Ma è il batterista dei X-Mas?”, aveva sentito bisbigliare da un paio di ragazzine. Si era limitato a voltare la faccia dall’altra parte e a far finta di nulla, aspettando che le scocciatrici se ne andassero. D’improvviso aveva sentito qualcuno toccarlo su una spalla. Si era voltato di scatto e si era trovato davanti ad una bionda in tuta da ginnastica che lo fissava sorridendo. La ragazza aveva un caschetto di capelli dorati che gli ricadevano ribelli sulla fronte, una miriade di lentiggini spruzzate sul naso e due occhi da gatta. “Bella moto!”, gli disse accarezzando la carrozzeria della Harley. Tommy le sorrise. “Già, è un gioiello”, le rispose. “Quanto fa?”. “Può sfiorare i duecento all’ora”. “Wow…”, replicò lei entusiasta, “l’hai mai lanciata a quella velocità?”. “No”, rispose Thomas scuotendo la testa, “ma credo che prima o poi mi toglierò lo sfizio di farlo”. “Grandioso…che fai qui da solo?”. “Mi rilasso”, disse sorpreso dalla naturalezza con la quale la ragazza gli aveva rivolto la domanda. “Se avessi un bolide come questo”, aggiunse lei indicando la motocicletta, “non avrei voglia di rilassarmi”. “Sei mai salita su una Harley?”. “Scherzi…certo che no! Al massimo posso permettermi una bicicletta”. “Io sono Thomas”, le disse il batterista porgendole la mano. “Cindy”, rispose lei abbassando gli occhi. “Monta”, le propose lui. “Davvero?”, replicò lei incredula. “Certo. Ho deciso che per stasera mi sono rilassato abbastanza”. La ragazza si ravviò una ciocca di capelli dalla fronte con un rapido gesto della mano. Fissò per qualche attimo Tommy, indecisa sul da farsi. Poi salì sulla moto e cinse la vita del ragazzo che mise in moto e sgommò sull’asfalto. Cindy lo strinse più forte e sfrecciarono a quasi centonovanta all’ora attraversando l’intero Lincoln Boulevard, insinuandosi in una serie di vie anguste, fino a raggiungere Playa del Rey. Una volta arrivati nei pressi del lungomare, Thomas inchiodò la moto sollevando un’impressionante nuvola di sabbia candida. La ragazza scese dal bolide, levò i pugni al cielo e scagliò un grido di puro giubilo verso le stelle. Tommy si sedette sulla rena a pochi passi da lei, che lo raggiunse qualche attimo dopo. “E’ stato fantastico”, gli disse appoggiandogli la testa sulla spalla. “Sali sempre sulle moto degli sconosciuti?”, gli chiese lui accendendosi una sigaretta. “Ma tu non sei uno sconosciuto”, gli rispose. “Ah…ora capisco. Vuoi un autografo? Una foto con dedica? O qualcos’altro?”. Lei rise e si sdraiò sulla spiaggia. “Ti confido un segreto”. “Quale?”, le chiese incuriosito. “Detesto i X-Mas”. “Cosa?”. “Lo so che ora mi lascerai su questa spiaggia in balia dei gabbiani che tenteranno di divorarmi e di qualche maniaco che riuscirà ad ammazzarmi”, continuò Cindy ridendo, “ma io la vostra musica proprio non la sopporto”. Tommy si distese accanto a lei. “Neanch’io”, le disse serio. Trascorsero l’intera nottata a parlare di tutto e di niente. Quando il sole oscurò la luna, erano ancora sdraiati sulla sabbia a raccontarsi sogni, incubi e deliri. Una settimana dopo Cindy si era trasferita a casa di Thomas. Il batterista decise di tenerla lontana dal resto della band e da qualunque cosa avesse a che fare con i X-Mas. Gelosamente custodita come un prezioso tesoro che nessuno doveva rovinare o rubare. Le sue notti brave con Vinnie e Mickey si ridussero drasticamente, ed il ronzio, le emicranie, l’insonnia e quell’aura di ansia e frustrazione si dileguarono come d’incanto. Me and the Devil – Vampire

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Tommy era seduto sul divano a bere una birra e a guardare una partita di rugby in televisione, mentre la sua dolce metà era intenta a preparare qualcosa per cena. Il telefono squillò e la ragazza si precipitò a rispondere. Thomas la osservò distrattamente con la coda dell’occhio, ma qualcosa nell’atteggiamento di Cindy attirò la sua attenzione. La ragazza aveva sbirciato da sopra la spalla per sincerarsi che il suo uomo fosse ancora seduto davanti alla tv, per poi chiudersi nella stanza da letto. Evidentemente voleva che quella conversazione rimanesse strettamente privata. - Chissà con chi sta parlando…-, sentì una voce bisbigliargli nell’orecchio. Tommy si voltò di scatto, ma nella stanza non c’era nessuno. Abbassò il volume della partita, ed ascoltò con più attenzione. - Si è chiusa nella vostra camera da letto -, proseguì la voce, - non vuole che tu senta -. D’improvviso fu assalito da una gran voglia di irrompere nella camera dove si trovava Cindy e strapparle il telefono dalle mani. - Cosa sai di lei? -, riprese più insistente e più corporea di prima la voce che solleticava la sua ira, - L’hai trovata per strada e hai lasciato che si infilasse prima nel tuo letto e poi nella tua casa. Hai cambiato le tue abitudini per lei, ma cosa sai di Cindy? -. Poco. In realtà della donna con la quale condivideva l’appartamento da quasi due mesi, sapeva molto poco. Informazioni sommarie, raccolte in conversazioni casuali. Stavano bene insieme, ma… - E’ solo una sgualdrina in cerca di soldi. Dei tuoi soldi. Sei l’uomo della sua vita? Te lo ha detto la seconda volta che facevate l’amore. Un po’ presto per esserne sicura. Una sbandata, senza famiglia, senza un posto dove stare, ti offre un po’ di affetto in cambio di una vita comoda e senza pensieri. E magari scopa anche con qualcun altro. Tu che ne sai? Tu non puoi saperlo. Quante volte sei stato via in questi ultimi tempi? Lei cosa ha fatto quando tu non c’eri? Sola in questo grande appartamento? Credi che abbia trascorso le notti struggendosi nel vostro letto nell’attesa del tuo ritorno? Non ti ha mai chiesto di portarla con te. Perché? -. “Già…”, sussurrò Thomas, “perché?”. - Perché voleva dimostrarti di non essere interessata alla fama? Alle foto sui giornali? Perché sapeva che volevi tenerla lontana dal marciume dello show business? O solo perché voleva liberarsi per un po’ di te? -. “Francamente non lo so”, disse Tommy alzando la voce, come se stesse veramente rispondendo alle domande poste da un amico invisibile seduto accanto a lui. Cindy uscì ridendo dalla stanza da letto e tornò davanti ai fornelli per girare gli hamburger che stava preparando per cena. “Accidenti”, disse dispiaciuta nel trovarli mezzi carbonizzati. “Qualcosa non va?”, gli chiese Thomas con noncuranza. “Ho bruciato gli hamburger…”, rispose lei con aria rammaricata. “Non fa niente”, la rassicurò lui sorridendo. Aveva il cranio attraversato da una galvanizzante corrente elettrica. Si sentiva carico e pronto ad esplodere. “O.K.”, aggiunse lei gettando la carne bruciata nel secchio della spazzatura sotto il lavello, “infilo un paio di pizze nel microonde?”, gli domandò. “Certo”, disse lui avvicinandosi e cingendola per la vita, “chi era al telefono?”. “Marzia”, gli rispose Cindy tranquillamente, “l’amica di cui ti ho parlato tante volte. Si vede con un tipo di New Orleans…e sembra sia una cosa seria, ma per lei sono sempre tutte storie di passione e di eterno amore”, aggiunse Cindy alzando le spalle. “Marzia”, ripeté meccanicamente Tommy, “non ricordo che tu mi abbia mai parlato di lei”. “Certo che l’ho fatto!”, rispose infastidita la ragazza, “E’ la mia unica amica. Ci conosciamo dai tempi del…”. “Del riformatorio…”, terminò il batterista stringendola con maggiore forza. “Mi fai male”, disse Cindy liberandosi dalle braccia dell’uomo, “che ti prende, Tommy?”. Il ragazzo la fissò per un attimo inebetito. - Si sta prendendo gioco di te -, ringhiò la voce nel centro della sua testa, - quella puttana crede di poterti prendere in giro come vuole -. L’uomo si passò nervosamente la lingua sugli incisivi. “Se stavi semplicemente parlando con una tua amica, che bisogno avevi di chiuderti nella nostra camera? Io non credo affatto che ti abbia telefonato Marzia…”, le disse Tommy serrando i pugni, lasciando volutamente aleggiare le ultime parole nell’aria. La ragazza lo fissò in maniera inespressiva. “Cosa hai fumato?”, gli domandò sarcasticamente. Thomas non le rispose, si limitò a darle un possente manrovescio che la fece cadere seduta sul divano. Me and the Devil – Vampire

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“Sei pazzo?”, gridò Cindy massaggiandosi la guancia scarlatta, mentre un rivolo di sangue le colava dal labbro superiore lungo il mento. “Con chi stavi parlando?”, le gridò in faccia l’uomo, costringendola a rintanarsi contro lo schienale del divano. “Te l’ho detto!”, gli urlò lei di rimando, portandosi le mani alle orecchie. “E io non ti credo!”, sbraitò lui. - Bravo -, tuonò la voce alle sue spalle, - falle vedere chi comanda-. “Ma perché dovrei mentirti?”, disse Cindy singhiozzando. Il labbro le si andava rapidamente gonfiando. Tommy vide per un attimo il volto della cameriera che aveva immotivatamente picchiato, sovrapporsi e fondersi con quello della sua ragazza, e la rabbia, invece che scemare, gli montò dentro con la furia di un’eruzione vulcanica. Afferrò Cindy per le braccia e la sollevò dal divano. La costrinse con le spalle contro il muro e le afferrò il volto con una mano. “Chi sei?”, le sibilò in faccia, “Cosa vuoi da me? Cosa mi nascondi?”. La ragazza aveva il volto bagnato di lacrime. Non riusciva quasi a respirare fra un singhiozzo e l’altro. “Tommy…ma che stai dicendo?”, provò a dire con calma, “Sai benissimo chi sono. Sai tutto di me. Io ti amo, e non ti ho nascosto mai nulla”. - Mente -, disse la voce perentoria. “Non ti credo”, ripeté Thomas, “Non credo ad una sola parola di quello che dici. Ti sei infilata nel mio letto e nella mia casa solo per approfittarti di me, dei miei soldi, di quello che ti potevo offrire…”. “Non è vero, Tommy, e lo sai…mi sono innamorata di te…non ti ho mai chiesto niente…”. “Certo, non me lo hai chiesto, me lo hai estorto!”, gridò lui furibondo, “Raccontandomi un sacco di balle…la povera ragazzina dalla vita infelice che si innamora del divo del rock…avevi calcolato tutto, vero?”. “Non capisco cosa…”. “Quanti uomini ti sei portata a letto quando non c’ero? Quanti ne hai fatti entrare in casa mia?”, le domandò stringendole un braccio fino a farla urlare. “Non ho mai fatto nulla del genere…da…da quando stiamo insieme”, rantolò lei piegandosi su se stessa. “Bugiarda!”, disse lui scaraventandola contro il tavolo dell’angolo cottura. Cindy cadde di schiena sul piano di legno. Gridò e rotolò sul pavimento. Alzò lo sguardo verso l’uomo dei suoi sogni e vide una fiera pronta ad abbattersi su di lei. Si raggomitolò contro il frigorifero. Le mani sopra la testa e le gambe piegate contro il busto. Thomas la guardò con un astio infinito. Improvvisamente sentiva solo disgusto e disprezzo per quella donna. L’amore, la tenerezza, la passione che aveva provato per lei solo fino ad un’ora prima, erano svanite. Voleva ucciderla. Bramava il suo sangue, la sua vita. Voleva cancellare quell’essere inutile dalla faccia della terra. Solo così il suo furore si sarebbe placato. Si avventò sul corpo tremante della ragazza e la sollevò da terra. L’afferrò per i capelli e le sbatté la testa contro il tavolo una, due, tre volte. Cindy perse i sensi e si accasciò fra le braccia del suo aguzzino. Tommy la lasciò cadere. Si diresse verso il lavandino. Riempì un bicchiere con dell’acqua e gliela gettò sul viso. Poi si chinò sulla sua vittima e cominciò a scuoterla. “Svegliati, puttana”, gridava, “non vuoi divertirti ancora insieme a me?”. La ragazza aprì gli occhi piano. Fissò il volto stralunato di Thomas e ricominciò a singhiozzare, stavolta sommessamente. Lui la prese in braccio e se la caricò su una spalla. “Adesso facciamo un gioco”, disse mentre la trasportava in camera da letto. La distese sul materasso e le disse: “Non provare a muoverti”. Cindy restò come paralizzata. Il batterista tornò poco dopo con una corda nella mano destra ed un coltello in quella sinistra. “No…No…ti prego”, mugolò la ragazza muovendo a fatica la bocca massacrata. “Sarà divertente”, sogghignò lui, “vedrai…”. Le legò le mani e i piedi alle spalliere del letto, quindi si mise a cavalcioni sopra la donna e cominciò a giocare con la punta del coltello da cucina sui suoi zigomi. Cindy seguiva i movimenti della lama con gli occhi sgranati. Tommy le praticò un paio di incisioni agli angoli delle labbra. “La prima cosa che mi ha fatto innamorare di te”, disse assente, “il tuo sorriso”. L’uomo si portò una mano alla testa. Si voltò verso la porta. Trasse un profondo respiro e alzò la mano che brandiva il coltello sopra il torace della ragazza. Cindy tentò di scostarsi, ma le corde che le trattenevano i Me and the Devil – Vampire

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polsi erano maledettamente strette. Thomas vibrò un fendente preciso e le recise i tendini della spalla destra. La donna gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. “Che peccato”, sibilò l’uomo, “ho sbagliato mira”. Sollevò di nuovo il coltello e si fermò con la lama sospesa a mezz’aria. Il volto di Cindy era irriconoscibile. Entrambi gli occhi erano gonfi, violacei e quasi chiusi, aveva il naso tumefatto, uno zigomo rotto, le labbra maciullate e due orribili tagli ai lati della bocca che la facevano somigliare ad un osceno clown. E il sangue…c’era sangue dappertutto. Sul lenzuolo, sulla coperta, sul cuscino, sul muro, sulle sue mani. Thomas si fissò le mani come se le stesse vedendo per la prima volta. - Continua - , tuonò la voce, - non fermarti, non ora -. “Sta zitto!”, gridò Tommy. Scese dal letto e gettò il coltello nell’angolo più lontano della stanza. Corse fuori dalla camera. Si appoggiò allo schienale del divano. Chinò il capo in avanti e vomitò. La testa gli pulsava. Il cuore gli rollava impazzito nel petto. “Che sto facendo?”, disse sbigottito asciugandosi la bava che gli stava colando dalla bocca. Aveva massacrato la donna che amava. Aveva tentato di ucciderla. Perché? Per una stupida telefonata? No…era stata la voce ad ordinargli di farlo. Quella maledetta, insistente pettegola che sembrava impossessarsi di lui ogni volta che ne aveva voglia. Si accostò alla porta e sbirciò nella camera dove Cindy giaceva ancora legata al letto. La ragazza non si muoveva. Tommy le si avvicinò con cautela. Era svenuta. Il respiro della giovane era irregolare, la sua gabbia toracica si sollevava in maniera strana, asimmetrica. “Oh, Dio…Dio mio….”. Thomas uscì dal suo appartamento e fuggì in strada. Cosa doveva fare ora? Andare alla polizia? Chiamare il pronto soccorso? Già vedeva i titoli sui giornali: “Famosa star picchia a morte la sua convivente. Un’altra triste storia dalla terra del sesso, della droga del rock and roll”. No…non poteva permettere che la sua carriera andasse in malora per uno stupido incidente. Un incidente? Si chiese atterrito e sorpreso dal tenore dei suoi stessi pensieri. Ma erano davvero di sua proprietà le idee che si agitavano nei meandri del suo surriscaldato cervello? Non ne era più tanto sicuro. Entrò in una cabina telefonica e compose il numero di Jason Collins. Il produttore rispose al secondo squillo. Tommy gli raccontò per sommi capi quello che era successo. L’uomo lo ascoltò in religioso silenzio. “Dove sei?”, gli chiese con fare perentorio. “Per strada. Ti sto chiamando da una cabina”. “Bene”, disse Collins, “Vai a casa di uno dei tuoi amici. Di tutto il resto mi occupo io”, terminò Jason interrompendo la conversazione. Thomas si sedette sul marciapiede ed attese. Dopo appena un quarto d’ora vide profilarsi all’orizzonte la Chevrolet del produttore. Collins lo riconobbe e gli si accostò: “Ti avevo detto di andare a casa di qualcuno”, gli disse visibilmente irritato. “Voglio sapere come sta Cindy…”, farfugliò Tommy. “Sali, imbecille”, lo apostrofò l’uomo al volante. Parcheggiarono in un vicolo non molto distante dalla casa del batterista. Collins salì nell’appartamento del giovane, mentre lui restò ad attenderlo in macchina. Il deus ex machina della Sony tornò poco dopo. “E’ priva di sensi. A occhio e croce, ha almeno una decina di ossa fratturate. E’ messa male”, Collins pronunciò quelle frasi con snervante disinteresse. “Cosa hai intenzione di fare?”, gli chiese Tommy atono. “Ho telefonato ad un mio amico chirurgo. Sarà qui il prima possibile con un’ambulanza. La farò ricoverare in una clinica di mia fiducia. Se la ragazza se la caverà, cercheremo di comprare il suo silenzio”. “Se la ragazza se la caverà…”, ripeté Thomas in evidente stato di shock. “Dopo tutto”, riprese Jason senza badare alle parole dell’uomo, “se non dovesse farcela, avremo una seccatura di meno di cui occuparci. Ha familiari?”. Thomas non rispose. “Hey, Mr. De Sade”, disse il produttore assestando un pugno sulla spalla del musicista, “ti ho chiesto se la ragazza ha per caso qualcuno che potrebbe venire a cercarla, chiedere informazioni…insomma, romperci i coglioni”. “No”, disse Tommy scuotendo meccanicamente la testa, “che io sappia, non ha nessuno”. “Meglio così”, aggiunse Collins tirando un sospiro di sollievo. “Eccoli”, disse indicando l’ambulanza che giungeva silenziosa con i lampeggianti e la sirena spenti. Me and the Devil – Vampire

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Jason scese nuovamente dall’auto e corse incontro alla vettura del pronto soccorso. Gli indicò dove parcheggiare, quindi parlottò per qualche secondo con un tipo in giacca e pantaloni di vigogna, l’illustre chirurgo, dedusse Tommy. Il medico, seguito da due infermieri che trasportavano una barella, si incamminò verso il portone del palazzo di fronte. Uscirono circa dieci minuti dopo. Il corpo di Cindy era stato assicurato alla lettiga con delle cinghie. La sua bocca era coperta da una maschera per l’ossigeno. Thomas riusciva perfettamente a vedere il rosso del sangue che imbrattava il volto della giovane, anche da quella distanza. L’immagine della donna di cui era innamorato, ridotta in fin di vita e coperta di sangue, si impresse a fuoco nella sua mente. Non riusciva ancora a credere che l’artefice di quello scempio fosse stato proprio lui. Chiuso nell’auto di Collins, aveva la mente interamente occupata da un unico, dominate pensiero: morire. [……] La festa organizzata dalla casa discografica per celebrare il terzo disco di platino conquistato da Devil’s Scream, si era rivelata di una noia mortale. L’unica nota di colore di quella grigia serata fatta di sorrisi preconfezionati e finto anticonformismo, era stata la presenza della nuova amica di Frank, Sandy. Dopo che il chitarrista aveva abbandonato il party, la ragazza era rimasta per qualche tempo in compagnia di Vinnie, della biondina che lo aveva praticamente assediato per tutta la serata e di Barrie. Poi, stanca di dover competere con l’invadente sconosciuta, la bella rossa si era messa a gironzolare per la sala alla ricerca del suo accompagnatore. Mickey l’aveva raggiunta mentre era sensualmente appoggiata allo stipite di una delle grandi finestre del locale. Il vestito scarlatto si stagliava nel riflesso lattescente della luce fioca della notte, esaltando le forme morbide del suo corpo. Il bassista le si era avvicinato posandole una mano sulla vita e porgendole un bicchiere di champagne. Lei gli aveva sorriso maliziosa ed era tornata ad osservare il cielo trafitto da migliaia di stelle, fredde e lontane. Avevano parlato per un po’, e in breve si erano ritrovati a fare l’amore nello stesso bagno dove Frank era stato aggredito da Cindy poche ore prima. Mickey aveva abbandonato la festa poco dopo per far ritorno a casa. Era stanco e assonnato. Gettò il bigliettino con il numero di telefono della ragazza, che lei gli aveva infilato nella tasca della giacca, prima di giungere nel suo appartamento. Era una gran donna, ma non aveva alcuna intenzione di rivederla. Aprì la porta d’ingresso ed immediatamente accese la luce del corridoio. Lui era lì ad attenderlo. Michael lo guardò con rassegnazione, gli indirizzò perfino un leggero cenno di saluto, prima di incamminarsi verso la camera da letto. Si spogliò in fretta, lasciando cadere gli abiti su una sedia. Si sdraiò ed accese la televisione. “Cosa hai voglia di vedere, amico?”. Il cadavere di Matthew non rispose. Girò il suo unico occhio in direzione della tv e si sedette in fondo al materasso, vicino ai piedi di Mickey, come un fedele cane da compagnia. Restò lì, muto e decomposto, a fissare lo schermo illuminato. La mattina seguente alla visione del suo suicidio, Michael era rimasto seduto, con la faccia coperta dal suo stesso sangue, nell’angolo vicino alla finestra del salotto. Rannicchiato e tremante come una bestia ferita, era restato lì nell’attesa che accadesse qualcosa, anche se non sapeva esattamente cosa. D’un tratto aveva sentito dei rumori provenire dalla cucina. Si era alzato a fatica, ed era andato a vedere da cosa fossero causati quei fruscii e quei leggeri crepitii. Aveva trovato il caro Deveroe seduto su una sedia, la stessa sulla quale lo aveva deposto dopo averne causato la morte nell’incidente in cui era andata quasi distrutta la sua adorata Corvette. In preda alla più assoluta, impotente e disarmante disperazione, aveva afferrato la carcassa per le spalle costringendo la salma ad alzarsi. Quindi l’aveva colpita sul volto massacrato con una serie infinita di pugni, gridando, inveendo contro il cadavere di quel povero ragazzo, ripetendogli all’infinito che non si sarebbe mai ucciso, che non voleva morire, che… Matthew non si era difeso in alcun modo, non aveva neppure accennato ad una benché minima reazione. La sua carne molle si spaccava docile sotto la veemenza dei colpi di Mickey, e brandelli di pelle e muscoli erano caduti sul pavimento come macabri coriandoli di carnevale. Quando l’uomo aveva smesso di picchiare quella sorta di morto vivente, lo zombie si era rimesso a sedere ed aveva detto con calma: “Sono già morto, non puoi farmi ancora del male”. Mickey era caduto in ginocchio ed aveva iniziato a singhiozzare come un bambino. Da quel giorno, Matthew Deveroe, o meglio, ciò che restava delle sue spoglie mortali, non aveva più abbandonato l’appartamento di Tall, divenendo il suo muto coinquilino. Gli era sempre accanto. Dormiva ai piedi del suo letto, lo osservava mentre si faceva la doccia, sedeva al suo fianco quando mangiava, ma non aveva più detto una sola parola. Mickey, ovviamente, non aveva raccontato a nessuno della sua singolare coabitazione con la salma in decomposizione dell’uomo che aveva accidentalmente ucciso. Non voleva Me and the Devil – Vampire

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essere preso per pazzo, e non voleva che nessuno mettesse piede in casa sua. Per evitare che un altro essere umano potesse imbattersi in quella inquietante presenza, aveva licenziato anche la donna delle pulizie, ed il suo appartamento si stava rapidamente trasformando in un porcile. Michael sintonizzò la tv sul canale delle televendite. “Che ne dici, bello”, disse rivolto alle spalle di Deveroe, “ordiniamo un panca per gli addominali? Per tenerci in forma…le pupe vanno pazze per i muscoli scolpiti”, aggiunse sogghignando. Matthew si voltò e sorrise scoprendo i denti spezzati ed arricciando le labbra nerastre e raggrinzite. Mickey si accorse che un lembo di pelle gli si andava lentamente staccando dallo zigomo destro, e che il padiglione auricolare sinistro era attaccato al cranio solo tramite un sottilissimo filamento di carne, che stava per spezzarsi. Un conato di vomito gli esplose in bocca dopo aver furiosamente risalito il suo esofago. Si premette una mano contro le labbra e trattenne a stento un grido.

Ovviamente continua….

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