Sandro Spinsanti
Una morte su misura: destino, fortuna, responsabilitĂ personale
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Collana BibliHospice Una morte su misura: destino, fortuna, responsabilità personale Autore: Sandro Spinsanti © Ponte Blu Edizioni • 2013 Consiglio editoriale: Ayres Marques, Alessandro Finucci, Marina Baldoni Consulenza: Gigliola Capodaglio Fotografie: Marina Marques (copertina), Ayres Marques (ritratto dell’autore) Stampa
• Recanati • 10/2013
ISBN 978-88-98132-03-4 2
Una morte su misura: destino, fortuna, responsabilità personale Sandro Spinsanti Una morte “à la carte”? Immagina che l’Angelo della Morte bussi alla tua porta, presentandoti la lista delle morti possibili. Cortese come un cameriere di ristorante che ti sottoponga il menu, si dichiara disposto a metterti a disposizione la morte che preferirai. Che cosa sceglieresti? Lo scrittore David Lodge ha provato a stare al gioco: “Una morte indolore, ovviamente, ma non tanto improvvisa da non avere il tempo di prenderne atto, di riuscire a salutare la vita, di tenerla stretta tra le mani, per così dire, prima di lasciarla scivolare via comunque, non un evento prolungato da diventare tedioso o terrificante. Un addio indolore, dignitoso (senza padelle o cateteri), in totale coscienza, con le proprie facoltà intatte, non troppo veloce, non troppo lento, a casa e non in ospedale, perciò non con un attacco cardiaco, né un colpo apoplettico, né un incidente aereo o automobilistico. Oh, che senso ha, niente ci andrà mai bene: più semplicemente non 3
vogliamo affatto disporre della morte, sotto qualsiasi forma o di qualunque tipo, a meno di non essere dei suicidi (i terroristi suicidi decidono per tutti)” (1). Supponendo che decidiamo di interloquire con il premuroso Angelo della Morte, la prima alternativa che sentiremmo proporci sarebbe formulata come: “Desideri una morte ‘umana’ o da animale?”. Perché tutti i viventi che appartengono al regno animale muoiono, ma in modo differente. La consapevolezza della morte e la capacità di configurarla a nostro gradimento ci appartengono come caratteristiche che qualificano la nostra condizione di esseri umani, a differenza degli animali. Come muoiono gli animali (escludendo dalla lista l’immensa ecatombe degli animali che alleviamo industrialmente per ucciderli e mangiarli)? Una esemplificazione avvincente è quella offerta dalla cagna dello scrittore francese L. F. Céline. Al ritorno in Francia, Céline aveva portato con sé la cagna che aveva confortato il suo esilio in Danimarca. L’ha tenuta con sé, fino alla morte dell’animale: “È rimasta in vita almeno quindici giorni… oh non si lamentava, ma io vedevo… A un certo punto, un mattino, ha voluto uscire di casa. Si è allungata dolcemente… ha incominciato a 4
rantolare… Si è distesa in direzione del ricordo, da dove era venuta, dal nord, dalla Danimarca… È morta dopo due, tre rantoli. Oh molto discretamente, senza nessun lamento, con una postura davvero molto bella, slanciata, in fuga. Ma su un fianco, stremata, finita. Il naso verso le sue foreste in fuga lassù da dove veniva, dove aveva molto sofferto. Dio sa quanto. Oh ne ho viste di agonie, qui, là, dappertutto, ma mai nessuna così bella, discreta, fedele. Quello che danneggia l’agonia degli uomini è il tralalà. L’uomo, malgrado tutto, è sempre su un palcoscenico” (2). Possiamo sintetizzare la differenza dicendo che la morte degli animali avviene secondo modalità naturali, mentre quella degli uomini obbedisce a una natura rivestita di cultura. Ovvero - mutuando da Céline un’espressione più pregante – che noi umani facciamo della nostra morte una rappresentazione: quando la nostra morte non avviene in maniera improvvisa e incontrollabile, ci ostiniamo a morire su un “palcoscenico”. La malattia, quando diventa mortale, ci induce a recitare una nuova parte in commedia. Ersilia, la protagonista della pièce teatrale Vestire gli ignudi di Pirandello, è il personaggio che più esplicitamente ha teorizzato la drammatizzazione 5
consapevole della propria morte. Avrebbe desiderato morire vestita da “fidanzata”, ma la finzione viene smascherati da giornalisti curiosi e spietati. Sul letto di morte, dà voce alla sua disperazione: “Ciascuno vuol fare una bella figura. Più si è… più si è… e più ci vogliamo far belli, ecco. Dio mio, sì, coprirci con un abitino decente, ecco. Allora io volli farmela per la morte, almeno, una vestina decente. Ecco, vedete perché mentii? Per questo, vi giuro. Me ne volli fare una - bella - per la morte - la più bella - quella che era stata per me come un sogno, là - e che mi fu strappata subito, anch’essa - quella di fidanzata; ma per morirci, per morirci, per morirci e basta. Ebbene no! No! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No! Morire nuda! Scoperta, avvilita, e spregiata! Ecco qua: siete contenti?” (3). Ma non c’è solo la commedia che ci proponiamo di rappresentare, rivolta agli altri e non in piccola parte a noi stessi. Ogni morte di un essere umano, nelle infinite varietà in cui si realizza, fissa il protagonista in un’immagine definitiva. Un vasto campionario è offerto da Eugenio Baroncelli in Mosche d’inverno (4). Il sottotitolo precisa: “271 morti in due o tre pose”. Scegliendo a caso tra le morti che conosciamo di tanti personaggi storici, allinea 6
morti secondo modalità fisiche (di freddo, di spada, di un male, per acqua, per scelta, per vecchiaia…), ma anche secondo le più varie modalità scenografiche. “La morte è il montaggio fulmineo della vita di una persona”, ha dichiarato, con sensibilità di regista, Pier Paolo Pasolini. La versione più attuale della volontà di palcoscenico è quella di chi decide di vivere la propria morte in diretta, aprendo un blog e postando tutte le informazioni relative al progressivo approssimarsi dell’ora fatale. A cadenza regolare il palcoscenico informatico è occupato da qualche personaggio che, dopo aver dato la notizia di essere affetto da una malattia a prognosi infausta, si impegna a rimanere affacciato alla finestra del suo blog fino all’ultimo respiro. Gli esseri umani e il “tralalà” della morte Secondo l’osservazione pungente di Céline, oltre al “palcoscenico”, ciò che rende più problematica la morte degli uomini rispetto alla morte degli animali è il “tralalà”. Che cosa possiamo intendere con questa espressione? Senza voler essere denigratori, si può ricondurre al “tralalà” due dimensioni tipiche della morte umana, ovvero l’interrogativo filosofico- metafisico e la preoccupazione etica. In parole semplici, abbiamo a che 7
fare con le due domande che si pone ogni essere umano consapevole: “Perché la morte?” (metafisica) e “Come morire?” (etica). Religione e filosofia, fede e ragione hanno fornito una quantità di risposte alla prima domanda. Risposte che soddisfano alcuni e scontentano altri. La ricerca del perché si muore è a tutt’oggi un cantiere aperto… Ai nostri giorni, tuttavia, possiamo osservare che il centro di gravità si è piuttosto spostato sulla seconda domanda, come morire, ovvero: che cosa dobbiamo fare affinché la morte abbia una caratteristica morale positiva? L’etica del morire occupa il posto che in passato era proprio della metafisica. Tuttavia dietro gli interrogativi etici sono presenti quelli di natura filosofico-religiosa. Un esempio molto chiaro di questa sovrapposizione si può trovare nel romanzo Patrimonio, di Philip Roth (5). Il romanzo ha una forte impronta autobiografica: Roth racconta la morte del padre, un signore ultraottantenne che muore di cancro al cervello. Il racconto è pieno di interrogativi etici, a cominciare per il dilemma che si pone per il neurologo se informare l’anziano signore, comunicandogli la diagnosi, o prendere le decisioni con il figlio. E poi c’è la decisione se eseguire o non eseguire l’intervento chirurgico, che è soggetto a grandi rischi: potrebbe prolungargli la vita, ma potrebbe anche ledere le capacità cognitive del malato e ridurlo a uno stato 8
vegetativo; insomma, in questo intervento sono maggiori i rischi o i benefici? Fino al momento in cui il figlio, parlando con il padre, si sente rivolgere la vera domanda che l’anziano ha in mente. Prima il padre dichiarava: “Vorrei dieci anni di vita in più… Mi basterebbe un anno di vita in più, a certe condizioni… Vorrei sapere se mi conviene o no rischiare l’intervento chirurgico…”. Alla fine però arriva la domanda non riferita alle perplessità etiche, ma a un’inquietudine di altra natura: “Perché devo morire?”. E il figlio riconosce che si sente spiazzato: non sa rispondere. Non ha una fede religiosa, non ha nemmeno certezze filosofiche. Di fronte a questi problemi si trova muto. Una questione di forte impronta antropologica è quella dell’impatto che ha la consapevolezza della morte sulla vita morale degli individui. È convinzione tradizionale che l’avvicinarsi della morte sia un tempo privilegiato nell’esistenza di un essere umano, l’inizio di una fase che accelera la crescita sotto il segno della saggezza. L’orizzonte della fine imminente è visto come induttore di buone decisioni. Il modello ideale è quello del “buon ladrone” evangelico, che sulla croce prende consapevolezza della sua vita sbagliata e si converte. Certo, è una possibilità; ma senza dimenticare l’altro ladrone, che di fronte alla stessa prospettiva si incattivisce ancora di più. 9
L’irrisione del luogo comune che considera l’incombere della fine come occasione di intensificazione della vita morale di una persona ha avuto un successo spettacolare con la serie televisiva Breaking bad. Walt White, il protagonista, è la personificazione contemporanea del cattivo ladrone. L’occasione per il cambiamento nella sua vita arriva improvvisamente con una diagnosi di cancro. Cambiamento non in bene, ma in male (“breaking bad” è, appunto, un’espressione gergale americana che equivale a “prendere una cattiva strada”). Sfrutta le sue conoscenze di chimica per mettersi a sintetizzare una potente droga, la metanfetamina, ed entra nel giro dello spaccio. “Mia moglie è incinta di sette mesi di una figlia che non avevamo programmato. Mio figlio ha quindici anni e una paralisi cerebrale. Io sono un insegnante di chimica al liceo, troppo qualificato per quel lavoro. Quando posso lavorare, guadagno 43.700 dollari all’anno. E tra otto mesi sarò morto. E tu mi chiedi perché lo faccio?”: è la giustificazione che Walt offre a chi gli chiede perché, posto in faccia alla morte, abbia scelto la via del crimine. Gli interrogativi etici di fronte alla morte si concentrano per lo più sulla pretesa di morire in un certo modo. Esprimono l’auspicio di una morte aggettivata: la si desidera “buona”, “dignitosa”, “accettabile”, “bella”… (avendo come referente negativo la possibilità che 10
la morte sia “indegna”, “brutta”, “inaccettabile”, “disumana”). Il “tralalà” degli uomini riguardo alla morte - per riprendere l’espressione provocatoria di Céline gira intorno al modo di accordare sostantivo e aggettivo. Che tipo di morte vogliamo? E come possiamo ottenere ciò che vogliamo? Destino? Fortuna? Un modo semplice per indursi a non fare nessuno sforzo per combinare il sostantivo (la morte) con l’aggettivo (quella che riteniamo auspicabile) è convincersi che l’abbinamento non dipenda da noi, ma da qualche forza esterna sulla quale non abbiamo nessun controllo. Come il DESTINO o la FORTUNA. Anche nel linguaggio comune ci si riferisce a queste due entità come regolatrici di ciò che ci capita nella vita. E soprattutto al destino o alla fortuna viene fatta risalire la qualità della morte: come quando si commenta di qualcuno che ha avuto la “fortuna” di morire nel sonno, o si attribuisce al “destino” la lunghezza o brevità della vita di qualcun altro. Come se gli esseri umani fossero marionette appese a fili, che altri muovono. Nelle due grandi versioni, religiosa e laica, di questo scenario il ruolo di chi tira i fili è attribuito, rispettivamente, a Dio e alla Natura. 11
Il modello etico corrispondente si riduce ad adattarsi con docilità ai movimenti del “burattinaio”. Ovvero ad adattarsi alla volontà di Dio, che determinerà quando e come moriremo; o a lasciar fare la natura, attribuendo il più alto valore alla “morte naturale”. Sia l’uno che l’altro modello della morte come destino prestano il fianco a parecchie critiche. Per quello religioso possiamo limitarci a ricordare quelle contenute nel libro di Giobbe. Lo scrittore sacro presenta Dio come immensamente lontano dall’immagine che se ne fanno i credenti: Dio stesso prende in giro le interpretazioni della sua volontà che danno i teologi, pronti a spiegare come e perché Giobbe sia coperto di tanti mali (i tre “amici” che lo confortano all’inizio della storia). Il grande limite di queste spiegazioni tramite la volontà di Dio è di confondere la causa ultima - eventualmente riconducibile alla divinità - con le cause penultime. Come si può presumere di sapere con certezza: “Questa è la volontà di Dio; qui Dio è in azione”, quando quello che noi vediamo sono solo le cause seconde? Per non dire della caricatura che, secondo i più sensibili tra i credenti, si fa di Dio quando gli si attribuisce direttamente il male del mondo. Secondo il gesuita P. Teilhard de Chardin, attribuire a Dio la sofferenza degli uomini induce a odiare onestamente il cristianesimo… Le cose non sono più semplici nella versione laica del 12
destino, in cui il posto che i credenti attribuiscono a Dio viene assegnato alla natura. Tra le tante voci che hanno tolto alla natura la supposta maschera benevola merita di essere riascoltata quella di Leopardi. In una delle Operette morali, il “Dialogo della Natura e di un Islandese”, immagina un confronto diretto tra l’Islandese e la Natura personificata: “L’Islandese: Tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di tutte le opere tue; ora c’insidi ora ci minacci ora ci assali ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; per costume o per instituto, sei carnefice della tua famiglia, de’ tuoi figlioli e, per così dire, del tuo sangue e delle tue viscere (…). Tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci sopprimi. La Natura: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa tua? Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. L’Islandese: 13
A chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che ebbero appena la forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno” (6). Anche senza il supporto di considerazioni letterarie, non abbiamo difficoltà a riconoscere che morire in braccio alla natura può essere tutt’altro che un idillio. Non è vero che si muore meglio quando la morte è “naturale”: sappiamo quali scempi può procurare la malattia nella sua fase terminale. La medicina si fa un punto di onore di contrastare il degrado naturale, a cominciare dalla lotta contro il dolore. Nessuno si sogna di contestare i progressi, frutto congiunto della scienza e dell’organizzazione sociale, che ci hanno permesso di posticipare sempre più la morte e di controllarne le modalità, surrogando le funzioni corporee quando vengono meno. Le strategie di dilazione della morte - quelle che il film di Ingmar Bergman Il settimo sigillo affidava simbolicamente alla partita a scacchi tra il cavaliere e la morte personificata – ora sono in mano 14
ai servizi sanitari. Dipende per lo più dal loro impiego quanto a lungo vivremo e soprattutto come moriremo. Il destino è, dunque, in buona misura in mano umana. Anche la nozione di FORTUNA non esclude un coinvolgimento attivo in ciò che ci capita. Perché il simbolo della fortuna, così come ci è stato trasmesso dall’antichità, non contiene solo l’idea di imprevedibilità: la tradizione retorica ha anche valorizzato il ruolo attivo del soggetto nei fatti di fortuna. Lo testimoniano i proverbi latini: Audaces Fortuna iuvat (“La fortuna aiuta gli audaci”: il proverbio è trapassato in tutte le lingue europee) e Arbiter suae quisque fortunae (“Ognuno è artefice della propria fortuna”). Ancor più il concetto dell’intervento della persona per determinare la fortuna favorevole è presente nel mito greco del kairòs. Questo è rappresentato come un giovane alato, che corre velocemente. Ha una curiosa caratteristica: ha un ciuffo di capelli sulla fronte, ma è rasato sulla nuca: un modo simbolico per dire che lo puoi afferrare solo nel breve momento in cui ti passa dinanzi, ma una volta passato non c’è più modo di afferrarlo… Kairòs implica un altro concetto del tempo: mentre kronos è il tempo lineare, con segmenti sempre uguali gli uni agli altri, kairòs è piuttosto “il tempo opportuno”. In questa accezione è presente nella predicazione evangelica: il tempo del Messia è un’opportunità unica, 15
che chiama a decisioni rapide e responsabili. Nel greco biblico troviamo puntualmente il termine kairòs, e non kronos, quando si parla del tempo della rivelazione e delle decisioni personali a essa connesse. Soprattutto nella prospettiva della morte il tempo che conta è il kairòs più che il kronos: è il momento opportuno, il momento delle scelte. Quelle scelte dalle quali dipende con quali aggettivi si lega il sostantivo: se la morte sarà dignitosa o indegna, bella o brutta, umana o disumana. La morte volontaria Ci sono molti modi per uscire dalla vita. Nessuno è piacevole, ma alcuni sono più spiacevoli di altri. Talvolta la fine del viaggio ci è imposta dall’esterno, da eventi che non riusciamo in alcun modo a controllare: lo potrebbero testimoniare le vittime di catastrofi naturali, di disastri aerei, di attentati terroristici, di azioni belliche. All’estremo opposto collochiamo le morti che dipendono totalmente dalla volontà del soggetto. Le forme possono variare. Parlando di morte autoinflitta, l’associazione più spontanea è quella con il suicidio che nasce dalla chiusura di qualsiasi orizzonte di speranza. Ma esistono numerose varianti di morti volontarie. Per esempio la scelta di 16
immolarsi per protesta: non per mancanza di speranza, ma come supremo tentativo di accendere la speranza in coloro che sopravvivono. In alcuni casi l’uscita volontaria dalla vita non ha alcuna connotazione drammatica, ma è considerata un punto di arrivo naturale, come il destino di un frutto che si stacca dall’albero quando è giunto a maturazione. Esistono culture che abbinano la capacità di morire a un atto della volontà, coronamento di un’evoluzione spirituale. Una versione, condita di ironia, della possibilità di morire per decisione volontaria è fornita dal film Piccolo grande uomo, di Arthur Penn (1970). Il saggio capo indiano, vecchissimo e cieco, che è solito ripetere: “Oggi è un buon giorno per morire”, si fa condurre dal suo figlioccio sulla cima di una montagna, dichiarandosi pronto a morire; ma dopo due giorni di concentrazione meditativa si accorge di essere ancora in vita. Ridiscende allora alla sua tenda e si fa preparare da mangiare: il “buon giorno per morire” verrà un’altra volta…! Anche al di fuori delle tradizioni sapienziali che valorizzano il dominio che la volontà può avere sul corpo, qualche traccia della trascendenza dello spirito sulla materia si può riscontrare nelle esistenze più secolari e immanenti. Il maggior numero di decessi dopo la data fatidica del capodanno 2000 - considerato simbolicamente il volger del millennio - indica che per molti quella data 17
era tanto significativa da monopolizzare energie interiori per arrivarvi. Statisticamente significative sono anche le morti dopo certe solennità o avvenimenti a cui si annette un grande valore (un matrimonio, la prima comunione di un nipotino, il conseguimento di una laurea…). Abbiamo pochi dati attendibili sulla correlazione tra il tempo di sopravvivenza di malati giunti alla fase terminale della malattia e certi eventi identificati come una meta da raggiungere. Non sono state fatte ricerche esaurienti. Elementi parziali e aneddotici, tuttavia, sono sufficienti a giustificare il sospetto che la resa alla morte dipenda dalla volontà - quanto meno da una parte della volontà che trascende la consapevolezza - più di quanto siamo inclini a concederle. Facendo un po’ di violenza a categorie mentali che di solito teniamo distinte, possiamo parlare di morte volontaria in tutta una serie di situazioni che vanno dal suicidio deliberato alla morte legata all’autorealizzazione spirituale. Una fattispecie riconducibile alla volontarietà di fronte alla morte è quella che si verifica quando una persona rinuncia a trattamenti medici in grado di prolungare la vita, ma in condizioni soggettivamente non accettabili. Subentra una valutazione critica circa la vita che potrebbe essere guadagnata con trattamenti intensivi: può essere talmente sfavorevole da indurre a preferire una vita più breve. L’ultima intervista rilasciata da Margherita Hack è 18
esemplare in tal senso: “L’intervento cardiaco poteva essere risolutivo, ma presentava anche dei rischi. L’idea mi è venuta di notte, semplicemente. Mi sono resa conto che in ospedale mi mancavano la mia attività, mio marito, i miei animali e tutte quelle comodità, privacy compresa, che in ospedale non ci sono. Una vita a metà. E allora ho pensato: un’altra operazione a rischio, un’altra degenza e poi una lunga convalescenza? No, come va va. Meglio un giorno da leoni”. Il motivo per cui l’illustre astronoma ha rifiutato l’operazione al cuore, prendendo in conto una fine più veloce, non è stato un odio alla vita: tutt’altro, “Non voglio finire sotto i ferri per vivere qualche mese in più: non ne vale la pena. Preferisco morire sorridendo”. Così ha chiuso con coerenza la sua vita, con un ultimo sberleffo alla morte. Non sono rare le persone che, accuratamente informate dei percorsi di sopravvivenza che sono loro forniti da cure mediche intensive, rinunciano a benefici che considerano molto discutibili e preferiscono non proseguire il viaggio.
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Morire in braccio alla medicina La cura posta da Margherita Hack a uscire dall’ospedale non traduce necessariamente una diffidenza preconcetta nei confronti dei medici: può essere vista, in senso positivo, come la volontà determinata di mantenere fino alla fine il controllo, prendendo decisioni autonome. Perché è un fatto: oggi nelle nostre società sviluppate moriamo per lo più in braccio alla medicina e sono decisioni mediche quelle che determinano il tempo e il modo di morire. Da alcuni anni si stanno conducendo studi epidemiologici sulle decisioni di fine vita. Una ricerca europea, estesa a sei Paesi e realizzata negli anni 2001 e 2002, intendeva misurare l’estensione della variabilità delle pratiche riconducibili a decisioni di fine vita. Risultava che, prescindendo dalle morti intervenuta in maniera improvvisa e totalmente inaspettata (circa un terzo totale delle morti), più della metà delle rimanenti morti nel periodo in studio sono sopravvenute dopo che erano state prese decisioni mediche. Uno studio analogo, rivolto a conoscere le pratiche dei medici nell’assistenza ai pazienti alla fine della vita e le loro opinioni su questi temi, è stato condotto in Italia nel secondo semestre del 2007 (7). Il dato macroscopico è che anche in Italia, come già risultava dallo studio europeo, il 20
processo del morire è sempre più medicalizzato: circa un decesso su quattro è accompagnato da decisioni mediche capaci di accorciare - o non prolungare - la vita. Nel loro insieme queste pratiche includono le cure di fine vita (come il trattamento del dolore e la sedazione continua profonda), le morte medicalmente assistite (suicidio assistito e eutanasia) e le decisioni di non trattamento (astensione o sospensione dei trattamenti; desistenza terapeutica). L’altro fatto macroscopico da considerare è la varietà delle preferenze personali. Alcuni si attaccano alla vita con tenacia estrema e sono magari disposti a sfidare l’opinione diversa espressa dai clinici. L’oncologo Jerome Groopman racconta in un suo libro, Come pensano i dottori (8), la storia di un paziente che intraprende un lungo gioco per dare scacco alla morte, ricorrendo a tutte le cure disponibili e inventandosene delle altre. “Io non sono ancora pronto a morire”, dichiara al medico, che invece si arrenderebbe. Lo sfida e vince, malgrado le più realistiche previsioni. È una rappresentazione clinica di quello che avviene talvolta con persone che, di fronte all’imprevedibilità della morte, giocano tutte le carte: con l’astuzia, con la determinazione, con la costanza. Non tutti, però. È interessante tener presente quanto si differenziano le persone di fronte alle scelte finali. Potremmo citare la scrittrice Susan Sontag. Si attacca 21
alla vita con tutte le forze e ricerca una terapia, anche se questa comporta pesantissimi effetti collaterali. Al medico, che le propone di passare alle cure palliative, risponde con violenza che lei non sa che farsene: a lei non importa niente della qualità della vita! Anche se c’è solo una minima speranza, lei punta su quella. Gioca fino alla fine la sua partita a scacchi con la morte: sa che perderà, ma vuol prolungare il gioco il più a lungo possibile. Una scelta completamente diversa quella fatta da Tiziano Terzani (9). Ha rifiutato una seconda linea di chemioterapia, perché era arrivato, secondo la sua valutazione, al momento di chiusura della sua vita; piuttosto che fare ancora una volta un altro giro di giostra medicalizzato, ha preferito nella parte finale della sua vita seguire un percorso diverso. Ancora un caso esemplare: il giurista svizzero Peter Noll. Nel libro autobiografico che racconta l’ultimo anno della sua vita: Sul morire e la morte (10) ha descritto il percorso personale che l’ha portato a fare scelte sotto il segno della saggezza. In precedenza aveva scritto un libro saggio sul rapporto tra legge e Vangelo, identificando nella figura storica di Gesù un modello altissimo di libertà. Quando gli viene diagnosticato un cancro alla vescica e i medici gli dicono che può farsi operare, dandogli però soltanto il 50 per cento di possibilità di guarigione, con in più il vincolo di una stomia permanente, Noll valuta i pro e i 22
contro e conclude che, benché mortalmente malato, non vuole essere un paziente. “Se io entro in questa strada, da adesso in poi sarà la medicina che deciderà la mia vita. Io voglio, come il ‘libero’ Gesù, poter scegliere e non lasciare che altri scelgano per me, non voglio lasciarmi guidare”. Si ispirava a un modello alto per dire no, anche se tutti intorno a lui si scandalizzavano per il suo rifiuto di andare in ospedale: quando si è malati, ci si ricovera in ospedale e si fa ciò che dicono i medici! Scandalizzava perché era contro i luoghi comuni e le convenzioni. È sopravvissuto con la sua patologia solo un anno, ma ha vissuto con grande intensità e gratificazione personale, con la sensazione di non aver perso niente della vita. Potremmo moltiplicare all’infinito gli esempi, che ci conducono tutti alla stessa conclusione: non esistono due persone che, di fronte alle scelte mediche finali, si orientano allo stesso modo. Ne segue che è fondamentale che il modello di rapporto medico-paziente, che siamo soliti qualificare come “paternalistico” (ovvero, il medico prende le decisioni per il bene del paziente che lui conosce meglio del paziente stesso, così come un buon padre o una buona madre decidono ciò che va bene per il loro figlio piccolo), ceda il posto a un modello diverso, nel quale la voce della persona malata sia ascoltata e rispettata. Il problema per ogni cittadino è trovare il medico giusto: non quello guidato nelle sue scelte da benevolenza 23
e filantropia, bensì quello che abbia interiorizzato il cambiamento che oggi è in atto nella medicina. È nostro compito come cittadini impegnarci a trovarlo: ottenere le cure migliori, cioè quelle che ci si adattano come un abito tagliato su misura, dipende anche da noi. Non è più soltanto una questione di fortuna, quella che ci permette di trovare il medico giusto: diventa una funzione della nostra responsabilità. Per esser assistiti come noi vogliamo, per essere rispettati nelle nostre scelte finali, non tutti i medici vanno bene. Ci sono medici che tendono a far prevalere la propria visione clinica ed etica, imponendola al malato. Un medico così non è adatto, se la decisione finale deve nascere da un dialogo, da un incontro. Le decisioni finali sono il frutto di un percorso accidentato tra destino e fortuna. Questo è, appunto l’ambito della nostra RESPONSABILITÀ PERSONALE.
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EPILOGO: TRA MEDICO E PAZIENTE: NUOVI DIRITTI, NUOVI DOVERI Il nuovo profilo della pratica medica non richiede solo un sanitario diverso, ma anche la formazione di un paziente più consapevole del compito che incombe su di lui nel cercare la giusta risposta ai problemi di salute, in collaborazione con il professionista sanitario. Il “buon paziente” dei nostri tempi non è colui che tace, si sottomette e segue alla lettera le prescrizioni. Essere un buon paziente oggi richiede intelligenza, volontà e un certo numero di virtù. Per questo, se sei malato, devi ricordare che: • Un buon medico non esiste senza un buon paziente. Si può fare molto, in quanto pazienti, per migliorare lo stato della medicina, cominciando a disporsi a essere un buon paziente. Gli orientali dicono: “Quando il discepolo è pronto, arriva il maestro”. • Il dottore non sceglie i suoi pazienti: è il paziente che sceglie il dottore. È un potere che chiede di essere esercitato con senso di responsabilità. Mettere tutto 25
l’impegno per trovare il medico adatto è una delle forme più produttive di investimento: “Un buon medico salva, se non sempre dalla malattia, almeno dai cattivi medici” (Jean Paul). • Il buon paziente non è quello che sopporta e tace. Parlare della propria malattia non è soltanto un diritto, ma un dovere. • Non lasciarti intimidire dalle apparecchiature diagnostiche e dai macchinari sofisticati. Anche il medico più orientato in senso tecnologico ha bisogno del racconto del paziente per capire che cosa la malattia significa per lui. • La medicina non è una scienza esatta. Anche il medico più competente non può escludere un margine di errore o una zona di incertezza. Il medico che ti consiglia di acquisire un parere complementare (o “second opinion”) non è meno bravo di altri: dimostra invece alta professionalità. • Il medico non è né un padrone, né un robot. Lui non può esigere da te un atteggiamento servile; tu non devi cercare di ridurlo a puro esecutore dei tuoi desideri. 26
• Non fare del tuo medico il complice per piccole frodi (certificati compiacenti, ricette “facili” ecc.): quello che potresti guadagnare su un piano, lo perderesti su quello della stima reciproca e della qualità del rapporto. • Diffida di un medico che ti chiede di sottoscrivere un modulo senza offriti un’esauriente spiegazione di che cosa ti stia proponendo. Lui sta forse eseguendo quella che ritiene una semplice procedura burocratica, ma per te capire è essenziale per poter dare un consenso vero, che ti permetta di partecipare alle decisioni cliniche. • Dopo la prestazione, tu hai pagato il medico; o il medico riceve lo stipendio dal SSN. Bene: si tratta infatti di un’opera professionale, non di un’azione caritativa. Ciò non ti impedisce, però, di mostrare la tua gratitudine a chi si è occupato della tua salute e l’apprezzamento per il suo lavoro. Questa piccola “gratuità” può avere effetti preziosi sulla relazione. • La medicina, oggi, può fare molto. Qualche volta può fare perfino troppo, per esempio prolungando la vita in condizioni che il paziente considera indegne. Per prevenire queste situazioni, fai conoscere al medico qual è per te il confine accettabile tra la buona terapia e l’accanimento terapeutico. 27
• Tra il paziente e il medico ci possono esser divergenze insanabili in materia di scelte etiche. Il medico non deve fare violenza alla tua coscienza; ma neppure tu devi farla alla coscienza del medico. Esaurite tutte le possibilità del dialogo, non ti resta che cambiare medico.
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Riferimenti bibliografici (1) David Lodge, Il prof è sordo, tr. it. Bompiani 2008. (2) Louis Ferdinand Céline, Da un castello all’altro, tr. it. Einaudi 2008. (3) Luigi Pirandello, Vestire gli ignudi, in Maschere nude, Newton 1997. (4) Eugenio Baroncelli, Come mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose, Sellerio 2010. (5) Philip Roth, Patrimonio, tr. it. Einaudi 2007. (6) Giacomo Leopardi, Operette morali, in Poesie e prose, Mondadori 1988. (7) Jerome Groopman, Come pensano I dottori, tr. it. Mondadori 2008. (8) Eugenio Paci, Guido Miccinesi, “Come si muore in Italia. Lo studio Itaeld”, in La Professione, n.1, 2008, pp.107-119. (9) Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra, Longanesi 2004. (10) Peter Noll, Sulla morte e il morire, tr. it. Mondadori 1995.
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