Accordi Migratori Italia-Tunisia: costi umani e derive securitare

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ACCORDI MIGRATORI

ITALIA–TUNISIA:

costi umani e derive securitarie

Introduzione e metodologia

Negli ultimi anni, le politiche migratorie dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri hanno subito una profonda trasformazione, segnata da una crescente tendenza all’esternalizzazione delle frontiere. Questo processo si traduce in una delega, sia formale che informale, delle funzioni di controllo migratorio a Paesi terzi — in particolare a quelli situati lungo le principali rotte verso il continente europeo — con l’obiettivo di contenere i flussi migratori al di fuori delle frontiere dell’Unione.

In questo contesto generale, la Tunisia si è imposta come un attore strategico nel Mediterraneo centrale. Da un lato, l’Unione Europea ne ha fatto uno dei pilastri della sua politica di vicinato e del suo «approccio integrato alla migrazione»; dall’altro, è soprattutto l’Italia ad aver promosso un partenariato politico e operativo privilegiato con Tunisi. Infatti, l’Unione Europea agisce come quadro istituzionale e finanziario, orientando e sostenendo le politiche di controllo (attraverso strumenti quali Frontex, NDICI–Global Europe e il Trust Fund for Africa), mentre l’Italia svolge il ruolo di attore-ponte e di motore, traducendo la strategia europea in accordi bilaterali concreti. Da oltre vent’anni, Roma è il principale promotore della cooperazione con le autorità tunisine in materia di rimpatri, pattugliamenti congiunti, formazione delle forze di sicurezza e supporto logistico.

La firma del Memorandum d’intesa tra l’Unione Europea e la Tunisia del 16 luglio 2023, fortemente sostenuta dal governo italiano, ne è una chiara dimostrazione: si tratta di un accordo formalmente europeo ma politicamente radicato nell’iniziativa italiana. Questa dinamica conferma l’esistenza di tre livelli distinti ma interdipendenti:

• un livello europeo, che fornisce il quadro politico e i finanziamenti;

• un livello nazionale italiano, che traduce tali orientamenti in cooperazione bilaterale e influenza l’agenda europea;

• un livello tunisino, che riceve risorse e mandato di controllo, ma all’interno di una relazione di potere profondamente asimmetrica.

Questo triplice livello costituisce il filo conduttore del presente rapporto, che mira ad analizzare le politiche migratorie e i loro effetti sui diritti umani tenendo conto di queste distinzioni.

Il rapporto ha l’obiettivo di documentare le conseguenze concrete delle politiche di esternalizzazione e della cooperazione italo-tunisina ed euro-tunisina, prestando particolare attenzione alle violazioni dei diritti fondamentali che colpiscono sia i cittadini tunisini sia i migranti originari dell’Africa subsahariana.

Questo documento vuole anche essere uno strumento di advocacy, volto a mettere in luce le responsabilità condivise ma differenziate dei vari attori coinvolti — Unione Europea, Italia e Tunisia — e a incoraggiare una riorientazione delle politiche migratorie nel senso del rispetto della dignità e della protezione delle persone.

1.1 Gli accordi tra l’Italia e la Tunisia dal 1998 a oggi

La cooperazione migratoria tra Italia e Tunisia si è sviluppata negli ultimi venticinque anni attraverso una serie di accordi e protocolli bilaterali che riflettono l’evoluzione di una relazione al tempo stesso strutturata e asimmetrica, fondata sull’interazione tra sicurezza, controllo delle frontiere e assistenza tecnica. Questi strumenti, spesso firmati al di fuori di qualsiasi procedura di ratifica parlamentare, hanno progressivamente definito una governance bilaterale delle migrazioni che anticipa e completa le politiche europee di esternalizzazione.

Nel 1998, uno scambio di note tra i due governi segna la firma del primo accordo formale. Esso prevede la riammissione «senza formalità» dei cittadini di Paesi terzi transitati dal territorio tunisino, nonché la fornitura, da parte dell’Italia, di mezzi materiali e assistenza tecnica per il controllo delle frontiere. Questo accordo si inserisce nel quadro della legge italiana n. 40/1998 (Turco-Napolitano), che istituisce i centri di detenzione amministrativa e formalizza il rimpatrio come strumento ordinario di gestione migratoria.

Nel 2011, in seguito alla rivoluzione tunisina e al repentino aumento delle partenze verso Lampedusa, Italia e Tunisia firmano un nuovo accordo il 5 aprile, tra i ministri dell’Interno Roberto Maroni e Habib Friaa. Questo documento, definito verbale di incontro, stabilisce il principio del rimpatrio accelerato dei cittadini tunisini in situazione irregolare e prevede un’assistenza italiana alla polizia tunisina per la sorveglianza costiera e le pattuglie congiunte. La Tunisia diventa così un partner funzionale della politica europea di contenimento, accettando missioni di controllo in cambio di sostegno economico e politico.

Nel 2017, un documento congiunto firmato dai ministri degli Affari Esteri Angelino Alfano e Khemaies Jhinaoui amplia la cooperazione al di là del solo ambito migratorio. Benché non si tratti formalmente di un accordo sui rimpatri, la dichiarazione stabilisce un legame esplicito tra cooperazione economica, sicurezza e gestione delle frontiere, riaffermando una logica di condizionalità: aiuti e incentivi finanziari in cambio di una gestione più rigorosa delle

partenze e di una collaborazione rafforzata con le autorità italiane nella lotta contro il traffico di esseri umani. Anche in questo caso, le garanzie riguardanti i diritti delle persone coinvolte risultano del tutto assenti.

Nel 2020, la cooperazione assume una dimensione essenzialmente operativa. Un nuovo protocollo bilaterale prevede finanziamenti italiani destinati alla Guardia costiera tunisina, la fornitura di equipaggiamenti e il rafforzamento delle procedure di identificazione e rimpatrio.

Considerati nel loro insieme, questi accordi delineano una traiettoria di continuità che attraversa governi e contesti politici differenti, mantenendo però la stessa logica di fondo. La Tunisia riceve mezzi, risorse e riconoscimento politico in cambio del suo ruolo di filtro dei flussi migratori diretti verso l’Italia e, più in generale, verso l’Europa. L’Italia consolida così il suo ruolo di promotrice e intermediaria tra Tunisi e l’Unione Europea, traducendo la strategia europea di esternalizzazione in strumenti bilaterali di controllo e rimpatrio.

Ne risulta un sistema di interdipendenza asimmetrica: da un lato, il sostegno economico e tecnico; dall’altro, la progressiva perdita, da parte della Tunisia, di una piena autonomia in materia di politica migratoria. Questo modello, nato come risposta d’emergenza alle partenze, è divenuto nel tempo uno dei pilastri della politica estera italiana nel Mediterraneo.

Focus: Il Piano Mattei e il nuovo quadro della cooperazione

A partire dal 2023, la relazione italo-tunisina si inserisce in un quadro politico più ampio definito dal Piano Mattei per l’Africa, presentato dal governo italiano come uno strumento di «partenariato alla pari» con i Paesi africani. Sebbene il piano annunci obiettivi legati allo sviluppo sostenibile, all’energia e all’innovazione, esso presenta anche una dimensione strategica migratoria: la Tunisia vi figura tra i Paesi prioritari, considerata un nodo centrale del Mediterraneo centrale.

Nella pratica, il Piano Mattei consolida un paradigma di integrazione tra coopera-

zione economica e controllo migratorio, in cui l’accesso ai finanziamenti e agli investimenti è spesso condizionato dalla capacità dei Paesi partner di gestire le proprie frontiere e prevenire le partenze.

Nel caso tunisino, gli impegni annunciati includono finanziamenti nel settore energetico (gas, elettricità, idrogeno verde), ma anche il proseguimento del sostegno tecnico e logistico alle autorità tunisine per la «gestione dei flussi migratori». Sotto questo profilo, il Piano Mattei non rappresenta una rottura rispetto agli accordi precedenti.

Questa convergenza rafforza la posizione dell’Italia quale mediatrice tra l’Unione Europea e la Tunisia, sollevando tuttavia interrogativi sul rischio di subordinare la cooperazione allo sviluppo a logiche di controllo e dissuasione, in contraddizione con i principi della cooperazione internazionale e della tutela dei diritti umani.

1.2 Un caso pratico: forniture in cambio di intercettazioni

Negli ultimi anni, la cooperazione migratoria tra Italia e Tunisia si è concretizzata principalmente attraverso un sistema di scambi materiali e tecnici, nel quale il sostegno economico e logistico fornito da Roma è strettamente legato all’impegno tunisino nel controllo dei flussi migratori verso l’Europa. È in questo contesto che ha preso forma un meccanismo ormai consolidato: la fornitura di mezzi ed equipaggiamenti in cambio di un aumento delle capacità tunisine di intercettazione in mare e di rimpatrio dei migranti.

Una svolta avviene nel 2020, quando il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, allora guidato da Luigi Di Maio, lancia — in collaborazione con l’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi di appoggio ai progetti (UNOPS) — il programma Support to Tunisia’s border control and management of migration

flows. L’obiettivo dichiarato è il «miglioramento della gestione delle frontiere marittime e terrestri tunisine»; nei fatti, il progetto diventa il quadro attraverso il quale l’Italia finanzia la manutenzione, l’acquisto e la consegna di motovedette, attrezzature di bordo e veicoli di pattuglia.

Tra il 2020 e il 2023, i finanziamenti italiani superano i 30 milioni di euro, ripartiti in più tranche. Tali importi coprono la riparazione di motovedette già fornite in passato, l’acquisizione di nuovi mezzi, la fornitura di pezzi di ricambio, carburante e sistemi di comunicazione. I documenti di bilancio menzionano in modo generico «interventi per il controllo delle frontiere», ma i bandi pubblicati dall’UNOPS rivelano un quadro preciso: piccole imbarcazioni veloci, lunghe fino a 11 metri, dotate di motori fuoribordo e destinate alla Guardia costiera tunisina per operazioni di inseguimento e intercettazione delle imbarcazioni dirette verso l’Italia. Parallelamente, la cooperazione si estende all’ambito terrestre, con la fornitura di veicoli fuoristrada, sistemi di sorveglianza e formazioni tecniche destinate agli agenti tunisini.

La logica di fondo resta quella della condizionalità: la Tunisia riceve risorse ed equipaggiamenti in cambio di un impegno rafforzato nel controllo dei flussi migratori. L’analisi dei dati e delle cronologie mette in evidenza una correlazione chiara: ogni aumento delle partenze dalla Tunisia verso l’Italia è seguito, nei mesi successivi, dalla firma di nuovi protocolli o da un’accelerazione delle consegne. Negli anni seguenti, il numero degli sbarchi tende a diminuire. Questo schema si ripete ciclicamente dal 2011, con effetti concreti sulla comunità tunisina rimpatriata — oggetto di accordi bilaterali di riammissione — e, più recentemente, sui migranti subsahariani, da quando la Tunisia è diventata uno dei principali Paesi di transito del Mediterraneo centrale.

Le stesse motovedette, gli stessi veicoli e gli stessi programmi di formazione sono oggi

utilizzati nelle operazioni di intercettazione e respingimento di cittadini originari dell’Africa occidentale e dell’Africa subsahariana, spesso al di fuori di qualsiasi quadro di protezione internazionale.

L’aspetto più critico riguarda l’assenza di trasparenza e di controllo indipendente sull’utilizzo degli equipaggiamenti forniti. I contratti e le consegne rimangono in parte riservati, mentre non esiste alcuna valutazione pubblica sull’uso effettivo di questi mezzi né sulle conseguenze delle operazioni in mare.

2. Il Memorandum UE–

Tunisia (2023): tra cooperazione economica e controllo migratorio

Il Memorandum d’intesa tra l’Unione Europea e la Tunisia, firmato nel 2023, si inserisce in un quadro di cooperazione già solidamente consolidato, nel quale l’Italia svolge un ruolo centrale per ragioni geografiche, operative e politiche. Negli anni precedenti, Roma aveva infatti costruito con Tunisi una rete di accordi tecnici, programmi di assistenza e forniture di materiali che si integrano pienamente nella nuova impostazione europea di gestione delle migrazioni. Questo memorandum non rappresenta quindi una svolta isolata, ma piuttosto la formalizzazione, su scala europea, di una dinamica bilaterale preesistente, nella quale gli strumenti di cooperazione economica, securitaria e migratoria convergono

verso un unico obiettivo: il controllo esternalizzato delle frontiere europee.

2.1 Contesto politico e genesi dell’accordo

La La firma del Memorandum d’intesa tra l’Unione Europea e la Tunisia, avvenuta a Tunisi il 16 luglio 2023, segna una tappa importante nel processo di esternalizzazione delle politiche migratorie europee. Presentato come un «partenariato globale» articolato attorno a cinque pilastri — migrazione, energia, economia, stabilità macrofinanziaria e relazioni interpersonali —, l’accordo nasce in un contesto di profonda instabilità politica e finanziaria in Tunisia, aggravata dal rallentamento delle negoziazioni con il Fondo monetario internazionale (FMI) e dal progressivo rafforzamento del potere presidenziale di Kaïs Saïed.

Sebbene la proposta sia stata negoziata a livello comunitario, il ruolo dell’Italia è rimasto determinante nella fase preparatoria e nella costruzione politica dell’accordo. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha partecipato alla missione congiunta con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e con il primo ministro olandese, Mark Rutte, presentando l’accordo come un elemento chiave del “Piano Mattei per l’Africa”. L’Italia ha così agito come intermediario privilegiato tra Bruxelles e Tunisi, garantendo una continuità tra la cooperazione bilaterale già esistente e la nuova architettura europea.

Il pacchetto finanziario complessivo del Memorandum è stimato a circa 1 miliardo di euro, ripartito tra diversi strumenti:

PAQUET FINANCIER

GLOBAL DU MÉMORANDUM

Gestione delle frontiere e dei flussi migratori:

105 milioni di euro

1 MILIARDO DI

EURO

(stima complessiva)

Assistenza macrofinanziaria d’urgenza

150 milioni di euro

Sviluppo economico e cooperazione energetica

300 milioni di euro

Nonostante sia privo di valore giuridicamente vincolante, il Memorandum ha prodotto effetti tangibili: gli arrivi dalla Tunisia verso l’Italia sono crollati drasticamente nel giro di pochi anni. Nel 2024, le partenze di cittadini tunisini sono diminuite di circa l’80%, passando da 96 160 a 19 246 persone rispetto al 2023, anno in cui la Tunisia aveva superato la Libia come principale punto di partenza sulla rotta del Mediterraneo centrale.

2.2 Struttura e finanziamenti: la dimensione materiale della cooperazione

Il pilastro migratorio del Memorandum si traduce in un insieme complesso di programmi operativi e tecnici, finanziati principalmente attraverso il bilancio dell’Unione Europea e attuati da agenzie internazionali o da organismi collegati ai ministeri degli Stati membri.

L’obiettivo ufficiale è sostenere la “gestione integrata delle frontiere” e il “rafforzamento delle capacità operative” tunisine. Nella pratica, questi programmi convergono verso un potenziamento della sorveglianza costiera e terrestre e verso un aumento delle capacità di intercettazione e rimpatrio.

Programma / Intervento

Programmi di protezione

Importo stimato (€)

Lotta al traffico e alla criminalità organizzata

Sostegno alle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) in Tunisia

Border Management Programme for the Maghreb Region (BMP–Maghreb)

Supporto alla gestione delle frontiere marittime della Tunisia

Agenzia o organismo di esecuzione

Importo stimato (€)

UNHCR 8 000 000

OIM 13 000 000

UNODC 18 000 000

Civipol (Francia) 17 000 000

ICMPD 30 000 000

UNOPS 18 000 000

Ces programmes illustrent la dimension matérielle de la coopération euro-tunisienne : un dispositif dans lequel les moyens logistiques, la formation et la technologie deviennent les instruments d’une politique de dissuasion migratoire, mise en œuvre sous couvert de “renforcement des capacités”.

2.3 Attuazione e impatti sul terreno

A un anno dalla sua firma, il bilancio dell’attuazione del Memorandum presenta una situazione sbilanciata. Tra agosto 2023 e agosto 2024, le intercettazioni effettuate dalla Guardia costiera tunisina sono aumentate di oltre il 45%, mentre il numero di partenze verso l’Italia è diminuito di quasi il 60% rispetto all’anno precedente.

Parallelamente, si sono moltiplicate le segnalazioni di respingimenti collettivi, di abbandoni nel deserto al confine libico e di

Ambito di intervento

Assistenza e protezione per rifugiati e richiedenti asilo, supporto legale e amministrativo

Programmes de rapatriement “volontaire” et de réintégration dans les pays d’origine

Rafforzamento della cooperazione di polizia e della lotta contro il traffico di migranti

Riparazione e manutenzione della flotta, ristrutturazione del MRCC di Tunisi, formazione della Guardia Costiera

Fornitura di radar, sistemi di sorveglianza e supporto tecnico alla Guardia Nazionale

Acquisto e consegna di nuove motovedette, pezzi di ricambio ed equipaggiamenti navali

detenzioni arbitrarie in strutture informali che prendono pour cible la popolazione migrante subsahariana.

Il Memorandum UE–Tunisia rappresenta così la formalizzazione, a livello europeo, di un paradigma già ben radicato nella cooperazione italo-tunisina: il controllo in cambio di sostegno economico. Dietro la retorica del «partenariato globale» si consolida un modello di cooperazione condizionata, in cui i fondi destinati allo sviluppo o alla sicurezza diventano strumenti di deterrenza migratoria.

Le conseguenze più visibili — intercettazioni violente, respingimenti, sparizioni in mare e nel deserto — dimostrano che la cooperazione tecnica e la fornitura di equipaggiamenti non sono neutrali, ma costituiscono una componente essenziale di una strategia di contenimento che compromette i principi stessi fondatori dell’Unione europea: il rispetto della dignità umana e la tutela dei diritti fondamentali.

3. Violazioni nei confronti dei migranti tunisini: responsabilità italiane

La cooperazione tra Italia e Tunisia costituisce uno dei pilastri della gestione migratoria nel Mediterraneo centrale. Si tratta di una relazione antica e solidamente radicata, che combina strumenti politici, amministrativi e operativi. Negli ultimi anni, questa collaborazione ha acquisito una dimensione strategica: da un lato, garantisce all’Italia la possibilità di rimpatriare regolarmente cittadini tunisini; dall’altro, rafforza il ruolo della Tunisia come partner chiave delle politiche europee di controllo dei flussi migratori.

Oggi l’Italia è il principale Paese di destinazione per i cittadini tunisini che attraversano il mare e, contemporaneamente, il principale promotore delle procedure di riammissione. A differenza di altri Paesi del Nord Africa, la Tunisia mantiene un canale bilaterale stabile che permette la programmazione di voli charter regolari. Questi voli, gestiti dal Ministero dell’Interno italiano in accordo con le autorità tunisine, costituiscono l’elemento centrale del sistema di rimpatrio.

Secondo i dati ministeriali e le analisi di organizzazioni indipendenti, tra il 2020 e il 2023 tra 1.500 e 2.000 cittadini tunisini sono stati rimpatriati ogni anno. Nel 2024 il numero è sceso a circa 1.200 e, nei primi otto mesi del 2025, si è registrata un’ulteriore diminuzione, con circa 360 rimpatri e la sospensione temporanea dei voli estivi.

Parallelamente, gli arrivi via mare mostrano un’andamento irregolare. Dopo il picco del 2011, quando più di 23.000 tunisini raggiunsero l’Italia, i flussi diminuirono per poi risalire a partire dal 2017. Nel 2023, la Tunisia figurava tra i principali Paesi di partenza, con oltre 17.000 arrivi. Tuttavia,

gli anni 2024 e 2025 segnano un’inversione di tendenza, con una diminuzione superiore al 60% delle partenze, legata in parte all’aumento delle intercettazioni in mare e al rafforzamento del controllo costiero tunisino.

Questo contesto evidenzia l’interdipendenza stretta tra le capacità operative tunisine e l’andamento dei flussi migratori verso l’Italia. La cooperazione bilaterale non si limita ai rimpatri: comprende anche la fornitura di equipaggiamenti navali, formazione tecnica e supporto logistico destinati a rafforzare la sorveglianza marittima tunisina. Questo modello si è evoluto in un sistema integrato di gestione migratoria, dove la riduzione delle partenze e la regolarità dei rimpatri costituiscono indicatori di efficacia della cooperazione.

A livello interno, le modifiche introdotte dal decreto-legge n. 20/2023 (cosiddetto Decreto Cutro) hanno consolidato il carattere amministrativo e accelerato delle procedure di detenzione e rimpatrio. La durata massima della detenzione nei Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) è stata portata a 18 mesi, mentre le procedure frontaliere sono state accelerate, riducendo i tempi di esame e di ricorso. Nella pratica, i cittadini tunisini, provenienti da un Paese considerato “sicuro”, sono quasi automaticamente sottoposti al rimpatrio, con accesso molto limitato all’assistenza legale e alla protezione internazionale.

Il percorso tipico di un cittadino tunisino verso l’Italia segue ormai tappe standardizzate: partenza, eventuale intercettazione in mare, sbarco, trasferimento nei centri di accoglienza e successiva detenzione amministrativa in un CPR in attesa di rimpatrio. Ognuna di queste fasi comporta rischi specifici di violazioni dei diritti fondamentali, legati alla privazione della libertà, alla mancanza di informazione e all’assenza di garanzie effettive di difesa.

Percorso tipo dei migranti intercettati in mare: rischi di violazioni ad ogni fase.

I casi analizzati nelle sezioni seguenti — Hamza, Wissem Ben Abdellatif, Fedi Sassi e il naufragio di Zarzis — illustrano come queste politiche si traducano in violazioni concrete dei diritti umani. L’obiettivo non è solo documentare episodi isolati, ma analizzare il funzionamento di un sistema in cui i meccanismi di cooperazione e sicurezza coincidono con la produzione di vulnerabilità e violazioni strutturali.

3.1 Il caso di Hamza

La storia di Hamza, cittadino tunisino di 30 anni, costituisce un esempio emblematico delle pratiche di detenzione amministrativa e rimpatrio applicate ai migranti tunisini in Italia. La sua esperienza si colloca nel perio-

do successivo alla pandemia di Covid-19, in un momento in cui i rimpatri verso la Tunisia erano ripresi regolarmente, sostenuti da una cooperazione bilaterale intensa tra i due Paesi.

Hamza è partito da Sfax il 14 dicembre 2020 ed è sbarcato a Lampedusa il giorno successivo insieme ad altre 126 persone. Dopo una prima fase di accoglienza che descrive come “corretta”, il trattamento riservato ai passeggeri è rapidamente cambiato. Tutti i non tunisini presenti a bordo sono stati progressivamente rilasciati, mentre i tunisini adulti sono stati separati, trasferiti sulla nave-quarantena GNV, poi condotti all’aeroporto di Siracusa e infine a Roma. Da questo momento, il suo racconto mette in luce una successione di pratiche particolarmente discriminatorie e violente.

Durante i sei mesi di detenzione amministrativa trascorsi in Italia, Hamza riferisce condizioni di vita degradanti: cibo insufficiente, assenza di assistenza medica adeguata, impossibilità di comunicare con la famiglia e difficoltà di accesso a una difesa legale effettiva.

Sebbene fosse prevista un’assistenza legale, questa non ha permesso di garantire un controllo reale sulla legittimità della detenzione: nonostante un’ordinanza di sospensione pronunciata dal tribunale, Hamza è stato espulso prima della decisione definitiva.

L’espulsione si è svolta in condizioni coercitive: secondo la sua testimonianza, è stato legato mani e piedi, immobilizzato per ore e sedato contro la sua volontà. Descrive un uso sproporzionato della forza, accompagnato da insulti e derisioni da parte degli agenti di polizia.

L’esperienza di Hamza trova riscontro nelle indagini e testimonianze pubblicate nel libro Gorgo – CPR (Altreconomia, 2023), che descrive pratiche simili di coercizione, isolamento e violenza psicologica nei centri di detenzione italiani. Questi resoconti do-

Partenza (Sfax / Zarzis / Mahdia)
Intercettazione in mare
Trasferimento verso i centri di accoglienza
Detenzione in un CPR (Italia)

cumentano casi di immobilizzazione prolungata, somministrazione forzata di psicofarmaci e abusi della contenzione fisica in contesti amministrativi, spesso giustificati da motivi di “sicurezza sanitaria” o di “gestione comportamentale”. Diverse testimonianze coincidono con il racconto di Hamza e rafforzano l’idea di una continuità sistemica, in cui la violenza non appare come un’eccezione, ma come risultato prevedibile di un modello di detenzione privo di qualsiasi controllo indipendente.

Il caso di Hamza non è isolato. Testimonianze raccolte tra il 2020 e il 2024 mostrano che i tunisini rimangono la nazionalità più frequentemente detenuta nei CPR italiani, con una durata media di detenzione superiore a quella di altre nazionalità. Spesso, non sono informati del diritto di richiedere asilo, e i rimpatri vengono eseguiti attraverso procedure accelerate, in violazione dei principi di proporzionalità e di non-refoulement sanciti dal diritto internazionale.

L’esperienza di Hamza illumina così il funzionamento complessivo della cooperazione italo-tunisina in materia di rimpatri: un sistema che privilegia la rapidità di esecuzione a discapito della protezione individuale e che, in assenza di qualsiasi meccanismo di sorveglianza indipendente, genera forme di violenza strutturale difficilmente verificabili, ma ampiamente documentate.

3.2 I casi di Wissem Ben Abdellatif e Fedi Ben Sassi

Le storie di Wissem Ben Abdellatif e Fedi Ben Sassi illustrano due momenti emblematici della vulnerabilità estrema a cui i cittadini tunisini sono esposti nel sistema italiano di gestione migratoria. Questi due percorsi si inseriscono in un quadro di politiche in cui sicurezza, controllo e detenzione si intrecciano per produrre forme di esclusione e violazioni sistemiche dei diritti fondamentali. Le loro morti non sono incidenti isolati, ma il riflesso di un modello che disumanizza i migranti, in particolare i tunisini, riducendoli a semplici oggetti di procedure amministrative o penali prive di garanzie reali.

Wissem Ben Abdellatif, giovane tunisino di ventisei anni, è deceduto nel novembre 2021 all’ospedale San Camillo di Roma, dove era stato trasferito dal Centro

di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Ponte Galeria. La sua storia mette in luce le conseguenze estreme della detenzione amministrativa in Italia, un sistema presentato come temporaneo ma che, nella pratica, priva le persone della libertà e della protezione legale per lunghi periodi. Wissem era appena arrivato in Italia e si trovava in attesa di rimpatrio. Secondo diverse testimonianze di operatori e detenuti, il suo stato di salute fisica e psichica si era rapidamente deteriorato. Nonostante ciò, non è stato disposto alcun trasferimento immediato verso una struttura medica adeguata, né è stata garantita una sorveglianza medica qualificata in modo continuativo.

Quando fu finalmente trasferito in ospedale, Wissem rimase per diversi giorni legato, mani e piedi vincolati, e sottoposto a sedazioni ripetute. Il suo corpo fu liberato solo dopo la morte, avvenuta in circostanze ancora oggetto di indagine giudiziaria.

La morte di Wissem non è un caso isolato: nei CPR italiani, il ricorso alla costrizione fisica e alla medicalizzazione forzata rappresenta una pratica diffusa, riflesso di una cultura istituzionale basata sul controllo piuttosto che sulla protezione.

Alcuni anni dopo, nel luglio 2024, un’altra morte riaccese il dibattito sul trattamento riservato ai tunisini in Italia.

Fedi Ben Sassi, ventenne, fu trovato morto nel carcere di Sollicciano a Firenze, dove era detenuto per reati minori commessi durante l’adolescenza.

Il suo percorso ripercorre dieci anni di vita in Italia, iniziati quando era bambino, nascosto in un camion di olio al porto di La Goulette, e terminati in una cella di isolamento.

Durante la detenzione, Fedi aveva conseguito un diploma professionale in cucina, un successo modesto in un percorso segnato dalla precarietà e dall’assenza di punti di riferimento familiari stabili. Pochi giorni prima della morte, aveva tentato di

contattare la sua famiglia in Tunisia, senza riuscirvi.

Il rimpatrio della salma avvenne alcune settimane dopo, su un volo di linea Roma–Tunisi. La bara fu consegnata in un’area cargo dell’aeroporto, dietro una barriera metallica, sotto il sole cocente di luglio.

La nonna del giovane, vedendo arrivare la bara, pronunciò parole che riassumono il senso di disumanizzazione vissuto da molte famiglie: “Ce l’hanno restituito come una valigia.” In Tunisia, la morte di Fedi ha riaperto il dibattito sul destino dei giovani partiti minorenni, cresciuti nella marginalità e diventati adulti in un sistema penale che raramente comprende percorsi di reinserimento.

La morte di Fedi Ben Sassi si inserisce in un contesto più ampio di allerta sulle condizioni di detenzione degli stranieri in Italia. I dati del Garante dei diritti delle persone private della libertà indicano un aumento costante dei suicidi in carcere, con un’incidenza particolarmente elevata tra i cittadini nordafricani.

Le barriere linguistiche, la mancanza di assistenza psicologica, la difficoltà di accesso alla difesa legale e l’isolamento sociale contribuiscono a una vulnerabilità estrema. I percorsi di Wissem e Fedi, pur distinti, si inseriscono in un continuum di esclusione che inizia con l’arresto o la detenzione amministrativa e prosegue fino alla morte.

Queste tragedie rivelano il volto meno visibile delle politiche di esternalizzazione e controllo: un sistema in cui il principio di sicurezza prevale sul diritto alla vita e alla dignità, e in cui i tunisini — prima nazionalità tra le persone rimpatriate dall’Italia — diventano anche i più esposti alle violenze istituzionali e all’assenza di giustizia.

3.3 Zarzis 18/18

Il naufragio di Zarzis avvenuto nel settembre 2022, noto come “18/18”, rimane

uno degli episodi più tragici e rivelatori della recente storia migratoria della Tunisia. Diciotto persone — per lo più giovani residenti nei quartieri popolari di Zarzis, tra cui diversi minorenni e una madre con il suo neonato — sono scomparse in mare mentre tentavano di raggiungere l’isola di Lampedusa.

Le loro famiglie, ad oggi, non hanno ricevuto alcuna risposta ufficiale sul destino dei propri cari.

L’evento ha assunto una dimensione simbolica importante per la società civile tunisina, diventando il punto di partenza di una mobilitazione contro il silenzio dello Stato e contro le complicità tra il sistema di sicurezza tunisino e le politiche europee di controllo migratorio. A Zarzis, la tragedia è ormai radicata nella memoria collettiva.

Le famiglie delle vittime raccontano i giorni successivi alla partenza come un’attesa interminabile, interrotta solo dalla scoperta fortuita di alcuni corpi sulle spiagge, senza alcuna comunicazione ufficiale. Le autorità tunisine hanno sospeso le ricerche dopo pochi giorni, lasciando che i familiari conducano le proprie indagini. Karim Lassoued, padre di uno dei dispersi, spiega di aver ritrovato i primi corpi spiaggiati cinque giorni dopo la scomparsa, prima di apprendere che altri erano stati sepolti dalle autorità senza prelievo del DNA né notifica alle famiglie. Come molti a Zarzis, è convinto che l’imbarcazione sia affondata a seguito di un inseguimento condotto dalla Guardia costiera tunisina.

Il contesto di questa tragedia è quello di una cooperazione securitaria sempre più stretta tra Tunisia, Italia e Unione Europea. Dal 2011, Bruxelles ha destinato oltre mezzo miliardo di euro a programmi di “riforma e modernizzazione” del settore della sicurez-

za tunisino, finanziando equipaggiamenti, imbarcazioni veloci, sistemi radar e corsi di formazione per la polizia e la Guardia nazionale. Questi finanziamenti, presentati come supporto alla transizione democratica e allo “Stato di diritto”, hanno in realtà rafforzato un apparato repressivo ereditato dal regime di Ben Ali, mai realmente riformato. Dopo il colpo di mano presidenziale del luglio 2021 e la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente Kaïs Saïed, le forze di sicurezza hanno recuperato la piena autonomia, operando in un clima di impunità generalizzata.

Zarzis, città costiera del sud con una lunga tradizione di pesca e migrazione, incarna questa contraddizione: da un lato, punto di partenza per centinaia di giovani spinti all’esilio dalla crisi economica e dalla mancanza di prospettive; dall’altro, teatro di una crescente militarizzazione delle coste e di criminalizzazione della mobilità.

Dopo il naufragio, le famiglie hanno organizzato sit-in, marce e veglie per chiedere verità e giustizia.

Le manifestazioni sono state più volte represse — con gas lacrimogeni e arresti — in particolare durante il Vertice della Francofonia del novembre 2022 a Djerba, quando la mobilitazione rischiava di attirare l’attenzione internazionale.

Ancora oggi, Zarzis rimane una ferita aperta: l’immagine di un Mediterraneo in cui la frontiera non è solo geografica, ma politica, e in cui il diritto alla verità si scontra con la logica della sicurezza. Per le famiglie delle vittime, la ricerca continua — nei tribunali, sulle spiagge, nella memoria di una comunità che rifiuta di accettare il silenzio come unica risposta.

4. Le violenze strutturali

contro i migranti subsahariani in Tunisia

Il 21 febbraio 2023, il presidente tunisino

Kaïs Saïed pronuncia un discorso che segna una svolta radicale nel trattamento riservato ai migranti subsahariani nel paese. Davanti al Consiglio di sicurezza nazionale, Saïed denuncia la presenza di “orde di migranti provenienti dall’Africa subsahariana” come una minaccia per la “composizione demografica” della Tunisia.

Le sue parole, amplificate dai media e rilanciate da diversi funzionari pubblici, inaugurano una fase di repressione sistematica che trasforma il territorio tunisino in uno spazio di violenza istituzionale e discriminazione razziale.

Da quel momento, centinaia di persone vengono arrestate, espulse o abbandonate nelle zone di confine del sud, in un clima di crescente impunità.

Questo discorso, spesso presentato come la svolta della politica migratoria tunisina, si colloca tuttavia nel continuum delle relazioni costruite tra Unione Europea e Tunisia attraverso il Memorandum di luglio 2023 e gli accordi bilaterali precedenti con l’Italia. Le istituzioni europee, che pochi mesi dopo avrebbero firmato il Memorandum con Saïed, avevano già rafforzato la capacità operativa delle forze di sicurezza tunisine. In questo contesto, il linguaggio del controllo migratorio e quello della difesa nazionale finiscono per confondersi, mentre le risorse europee e italiane — finanziarie, tecniche e simboliche — contribuiscono a consolidare l’apparato repressivo tunisino.

Dall’inizio del 2023, le violenze contro i migranti subsahariani hanno assunto un carattere strutturale. I rastrellamenti, le espulsioni collettive e gli abbandoni nel deserto, ai confini con Libia e Algeria, si sono moltiplicati, mentre in mare le intercettazioni e i naufragi sulle rotte verso l’Italia si sono intensificati.

Operazioni in mare e intercettazioni (4.1)

Strumenti europei di controllo (4.2)

Ambiguità del ruolo delle agenzie internazionali (4.3)

Le autorità tunisine agiscono con ampio margine di autonomia, sostenute da una retorica di legittimazione interna e da un tacito consenso internazionale che, in nome della lotta ai flussi migratori, riduce le violazioni dei diritti umani a semplici effetti collaterali della cooperazione.

Tutti questi elementi compongono un quadro coerente di esternalizzazione delle frontiere e di normalizzazione della violenza istituzionale.

FORME DI VIOLENZA SISTEMICA

4.1 Contesto delle violenze e delle intercettazioni in mare

Nel periodo 2023–2024, la Tunisia è diventata un punto nevralgico della rotta migratoria del Mediterraneo centrale.

2023 – 2024

La Tunisia, fulcro di intercettazioni e violenze crescenti.

Intensificazione delle intercettazioni in mare

Violenza sistematica durante le operazioni

Le osservazioni indipendenti convergono su tre constatazioni principali:

• L’intensificazione delle intercettazioni in mare;

• La sistematizzazione delle violenze che accompagnano queste operazioni;

• La prosecuzione dei trasferimenti forzati all’interno del territorio tunisino.

I rapporti dell’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura (OMCT) — in particolare la serie Le rotte della tortura — documentano un radicamento delle pratiche abusive lungo l’intero ciclo del controllo migratorio: detenzioni arbitrarie, percosse e umiliazioni, confische di beni personali, privazione di cure, spostamenti forzati verso i confini libico e algerino.

Questa normalizzazione della violenza non fa distinzione di status: colpisce sia le persone in transito, i richiedenti asilo, i rifugiati, sia i lavoratori migranti stabili o stagionali.

Sul piano marittimo, diverse indagini — tra cui il rapporto Interrupted Sea di Alarm Phone — descrivono la pratica delle intercettazioni di imbarcazioni in partenza da Sfax, Mahdia e Zarzis, spesso accompagnate da violenze fisiche, distruzione dei motori, abbandoni in mare o trasferimenti forzati.

Trasferimenti

forzati all’interno del territorio tunisino

Le testimonianze raccolte tra il 2023 e il 2024 confermano l’esistenza di una strategia volta a impedire la navigazione piuttosto che garantire il salvataggio.

Le unità marittime tunisine, coordinate dal Ministero dell’Interno, operano in un contesto di forti pressioni politiche e diplomatiche esercitate dai partner europei per contenere le partenze.

I dati del Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES) indicano che nel 2023 il numero di morti e dispersi lungo le coste tunisine ha raggiunto un livello molto elevato, con picchi in primavera, parallelamente a un utilizzo crescente delle intercettazioni.

Nel 2024, le note del FTDES segnalano decine di migliaia di persone “impedite di partire” già nei primi mesi dell’anno, prevalentemente originarie dell’Africa subsahariana. Contemporaneamente, si osserva una forte diminuzione degli arrivi in Italia dalle coste tunisine, accompagnata da un aumento dei respingimenti e delle operazioni di “ricollocamento” a terra. Questi elementi rivelano l’implementazione di una strategia di controllo più densa e routinaria.

Le testimonianze dirette raccolte sul cam-

po illustrano concretamente questa catena di pratiche repressive. Habib, 19 anni, originario del Senegal, racconta il suo arresto a Sfax, tre mesi di detenzione a Tyna in condizioni di sovraffollamento e privazione, seguiti dalla sua liberazione e poi dalla deportazione nel deserto. Durante quattro tentativi di partenza tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025, descrive intercettazioni marittime con rimozione dei motori, abbandoni in mare e perdite umane in almeno un episodio. Il suo racconto coincide con le constatazioni dell’OMCT e di Alarm Phone, dove l’intervento in mare costituisce il primo anello di una catena che prosegue a terra, attraverso detenzioni arbitrarie e trasferimenti forzati verso le zone di confine.

Nel 2024 e all’inizio del 2025, le violenze non si limitano più alle operazioni in mare. Le distruzioni ripetute dei campi informali nella regione di Sfax, i rastrellamenti, gli arresti di attivisti e operatori umanitari, nonché le restrizioni imposte alle organizzazioni internazionali, creano un ambiente ostile che riduce ulteriormente gli spazi di protezione. L’intercettazione marittima diventa così una componente di un sistema più ampio, che combina repressione, deportazioni interne e marginalizzazione forzata.

In sintesi, la gestione tunisina delle partenze verso il Mediterraneo centrale si è strutturata in una catena operativa che inizia in mare e prosegue a terra, dove la persona intercettata si trova esposta a violenza, detenzione e spostamenti forzati.

4.2 Utilizzo dei dispositivi europei via terra e mare

Cooperazione tecnico-operativa

Tunisia – UE/Italia

Rafforzamento del controllo su due livelli chiave

Il mare

Intercettazioni in mare

- Rimpatri forzati verso terra

All’interno del territorio tunisino

Trasferimenti forzati

Spostamenti verso l e “discese nel deserto” nelle zone di confine

Le attrezzature fornite includono motovedette, veicoli, materiali logistici e programmi di formazione. Ufficialmente destinate alla lotta contro il traffico e alla “gestione integrata delle frontiere”, queste risorse sono in realtà utilizzate in contesti caratterizzati da violazioni ricorrenti dei diritti delle persone migranti.

Via marittima

L’aumento delle capacità di pattugliamento costiero si è tradotto in un ricorso più frequente e precoce alle intercettazioni di imbarcazioni in partenza da Sfax, Mahdia e Zarzis. Diverse inchieste hanno descritto manovre ad alto rischio per l’integrità fisica delle persone a bordo: approcci pericolosi, urti intenzionali, rimozione dei motori e abbandoni in mare.

Un caso emblematico è il naufragio del 5 aprile 2024 al largo di Sfax: ricostruzioni basate su testimonianze, video e immagini satellitari indicano che una motovedetta della Guardia Nazionale avrebbe effettuato una manovra detta di “dissuasione”, urtando ripetutamente una piccola imbarcazione e provocandone il crollo e il naufragio. Il bilancio ufficiale menziona un certo numero di corpi recuperati, ma le indagini in-

dipendenti riportano un numero maggiore di vittime, tra cui donne e minori. Le stesse indagini mostrano che, dopo le operazioni in mare, i sopravvissuti vengono raccolti sui moli e poi trasportati in autobus verso il confine sud, in un continuum mare-terra privo di garanzie procedurali. Non si tratta di operazioni di soccorso a scopo umanitario, ma di un dispositivo di dissuasione volto a interrompere le partenze.

VIA MARITTIMA

Cas emblématique :

Naufrage du 5 avril 2024 (Sfax)

-Manovra di “dissuasione” di una motovedetta

-Urti ripetuti - crollo - naufragio

-Vittime sottostimate (incluse donne e minori)

Natura delle operazioni

-Non si tratta di soccorso umanitario

-Dispositivo di dissuasione volto a interrompere le partenze

Manovre ad alto rischio documentate

• Avvicinamenti pericolosi

• Collisioni intenzionali

• Rimozione dei motori

• Abbandoni in mare

Via terrestre

Inchieste transnazionali collaborative hanno geolocalizzato e datato diverse operazioni di espulsione interna tra luglio 2023 e la primavera 2024.

Le persone intercettate in mare o arrestate a terra vengono caricate su camion o pickup e trasportate in convogli verso zone desertiche ai confini con Libia e Algeria, spesso senza acqua, cibo o assistenza. Queste indagini hanno evidenziato corrispondenze visive e documentarie tra i vei-

Dopo l’intercettazione

-Sopravvissuti raggruppati sui moli

-Trasferimenti in autobus verso il confine meridionale

-Continuum mare–terra senza garanzie procedurali

coli utilizzati durante queste operazioni (alcuni modelli di pick-up) e quelli forniti alla Tunisia dagli Stati membri europei negli ultimi anni.

I modelli visibili nelle immagini coincidono con lotti di forniture identificati in documenti pubblici, inclusi programmi italiani. Risultato: il territorio tunisino si trasforma in una frontiera mobile.

Le persone intercettate non vengono inserite in un percorso di protezione, ma respinte fuori dagli spazi urbani e istituzionali, in condizioni che gli standard internaziona-

VIA TERRESTRE

INDAGINI COLLABORATIVE ONG E MEDIA D’INCHIESTA

Geolocalizzazione + datazione di molteplici operazioni

Regione di confine: Sud-Est (Libia) & Ovest (Algeria)

INTERCETTAZIONE CARICAMENTO CONVOI

Persone intercettate (mare/terra)

Caricate su camion/pick-up

Trasferite in convogli verso zone desertiche

Assenza di acqua, cibo e assistenza

Effetto strutturale

Il territorio tunisino diventa una frontiera mobile (spostamenti forzati al di fuori delle zone urbane e istituzionali)

li qualificano come espulsione collettiva e trattamento inumano o degradante.

Catena funzionale e responsabilità

I due ambiti operativi — mare e terra — sono strettamente collegati: le intercettazioni in mare alimentano i trasferimenti forzati a terra; i trasferimenti interni rafforzano la dissuasione delle partenze; la disponibilità di attrezzature e logistica rende la pratica ripetibile ed estendibile.

In questo schema, la tecnologia europea — fornita dai programmi UE o tramite canali bilaterali degli Stati membri — svolge un ruolo di attivazione materiale. Le autorità europee presentano questi strumenti come strumenti di “capacità di controllo” e di “soccorso”, ma il loro uso reale avviene in un contesto di violenza sistemica, opacità e assenza di controllo giudiziario effettivo.

Il confine tra assistenza tecnica e corresponsabilità politica diventa così permeabile: quando i mezzi e le formazioni europee

Qualificazione delle pratiche

Nessun percorso di protezione Ripetuti respingimenti interni

Assimilabile a: espulsione collettiva trattamento inumano o degradante

vengono integrati in pratiche di intercettazione pericolose, detenzione informale e deportazione nel deserto, la questione del rispetto dei diritti umani diventa centrale — e, allo stato attuale, insufficiente.

Reazioni europee e aggiustamenti politici

A seguito di indagini giornalistiche che hanno documentato gravi abusi commessi dalle forze di sicurezza tunisine, diversi parlamentari europei e organizzazioni della società civile hanno richiesto spiegazioni alla Commissione Europea sulla conoscenza di queste pratiche e sulle misure adottate per prevenirle.

Sono state annunciate missioni di osservazione e una revisione delle modalità di finanziamento, con l’introduzione di condizioni più rigorose legate al rispetto dei diritti umani lungo l’intero ciclo operativo.

A lungo termine, questa evoluzione solleva due questioni strategiche principali: la necessità di criteri chiari per sospendere o

reindirizzare i finanziamenti in caso di violazioni accertate; l’obbligo di trasparenza sull’uso effettivo delle attrezzature (tracciabilità dei veicoli, registri di impiego, audit indipendenti delle operazioni marittime e terrestri).

Implicazioni per il presente rapporto

Gli elementi disponibili mostrano che i dispositivi europei — navali e terrestri — sono integrati in una pratica di controllo che, nella realtà quotidiana, si manifesta più come interdizione e trasferimento forzato che come protezione.

Ciò non implica una causalità diretta per ogni operazione, ma richiede di comprendere l’insieme come una catena funzionale in cui fornitura, formazione e implementazione convergono.

La conseguenza è un aumento del rischio di complicità nelle violazioni e la necessità di raccomandazioni specifiche:

• Condizionalità basate su indicatori verificabili;

• Sospensione dei sostegni in caso di abusi;

• Sistemi pubblici di tracciabilità delle attrezzature e dei loro usi;

• Garanzie di accesso indipendente ai luoghi di detenzione e alle zone di confine.

4.3 Ruolo ambiguo dei partner esecutivi: l’UNHCR e l’OIM

Il caso di Kabba Anderson George e Kargbo Sakara Kadiatu, una coppia originaria della Sierra Leone, illustra in modo emblematico le contraddizioni legate alla presenza delle agenzie internazionali in Tunisia e il loro ruolo all’interno del sistema di esternalizzazione europeo.

Il loro percorso, documentato tra gennaio 2024 e l’autunno 2025, consente di osservare come i meccanismi formali di protezione coesistano con pratiche di esclusione e violenza istituzionale, spesso in continuità con le autorità che dovrebbero essere monitorate.

Arrivati a Tunisi nel gennaio 2024, Kabba e Kargbo hanno ottenuto, due settimane dopo, una carta di richiedente asilo rilasciata dall’UNHCR.

Questo documento, destinato a garantire loro una protezione giuridica minima, si è rivelato privo di effetti concreti: nessun sostegno abitativo, nessun aiuto economico, nessuna protezione in caso di arresto. Come molti altri rifugiati registrati, la coppia ha continuato a vivere in condizioni precarie, sotto tende o in ripari di fortuna, alla periferia della capitale.

Il 3 maggio 2024, durante lo smantellamento notturno del campo informale di Lac 1, la polizia ha arrestato Anderson, sua moglie e decine di altre persone.

Sono stati caricati su autobus e abbandonati nella zona desertica vicino a Tébessa, al confine con l’Algeria.

Dopo diversi giorni di cammino, grazie all’aiuto di civili tunisini, sono riusciti a tornare a Tunisi.

Nessuna comunicazione o assistenza immediata è giunta dagli uffici dell’UNHCR o dell’OIM, nonostante la coppia fosse registrata e in contatto regolare con i loro operatori.

Alla fine di agosto 2024, durante una visita all’ufficio dell’UNHCR per rinnovare i documenti scaduti, Kabba e sua moglie sono stati nuovamente arrestati dalla polizia, detenuti in commissariato e poi trasferiti a Sfax.

Da lì, sono stati inclusi in un convoglio di circa 130 persone — per lo più titolari di documenti UNHCR o registrati presso l’OIM — deportate verso il confine algerino. Quarantadue di esse, prevalentemente anglofone, si sono separate dal gruppo principale e hanno intrapreso una lunga marcia nel deserto.

Dopo due settimane di sopravvivenza in condizioni estreme, sono state soccorse dalla Croce Rossa in cooperazione con unità della polizia tunisina.

Questo “salvataggio” ha tuttavia segnato un nuovo episodio di violenza: percosse, confisca di telefoni e denaro, rilevamento delle impronte digitali senza spiegazioni né assistenza legale.

Il gruppo è stato poi trasferito a Gafsa, quindi separato e distribuito tra i centri di Tataouine e Médenine, dove l’OIM è intervenuta finalmente.

Nel centro di accoglienza di Médenine, la coppia è rimasta circa due mesi.

Gli agenti dell’OIM hanno presentato il rimpatrio volontario assistito come unica alternativa alla permanenza nella struttura: chi rifiutava di firmare doveva lasciare il centro.

Così, la logica dell’assistenza si confonde con quella del controllo, trasformando l’aiuto umanitario in uno strumento di pressione per rimettere in circolazione i migranti indesiderati.

La “protezione” promessa si riduce quindi a una gestione amministrativa del ritorno, legittimando, con un linguaggio tecnico, un contesto di costrizione e vulnerabilità.

Il caso di Kabba Anderson George non è isolato.

Indagini indipendenti condotte nel 2024

hanno documentato pratiche simili nei centri di Médenine, Zarzis e Tataouine, dove rifugiati registrati vengono ospitati temporaneamente prima di essere spinti verso la “scelta” del rimpatrio.

Le testimonianze mostrano che la distinzione tra volontarietà e costrizione è spesso puramente formale: la minaccia di espulsione o la perdita dell’unico alloggio disponibile rendono la decisione priva di reale libertà.

In questo contesto, UNHCR e OIM assumono un ruolo ambiguo: ufficialmente partner tecnici del governo tunisino e dei programmi di cooperazione europea, diventano elementi attivi di un sistema di dissuasione. Il confine tra assistenza e complicità diventa sfocato: le stesse istituzioni che dovrebbero monitorare le violazioni, per omissione o inerzia, diventano relè della continuità operativa.

La storia di Kabba e Kargbo mette così in luce una contraddizione strutturale della cooperazione migratoria: mentre l’Europa esternalizza il controllo, le agenzie internazionali, anziché costituire un contrappeso protettivo, sono progressi-

CATENA DI RESPONSABILITÀ DELLA GOVERNANCE MIGRATORIA

vamente integrate nelle logiche di confinamento e normalizzazione della violenza.

I confini tra sicurezza e umanitario si cancellano, e la protezione si riduce a una funzione amministrativa all’interno di un sistema di controllo multiforme.

Le stesse strutture che dovrebbero garantire assistenza e monitoraggio — centri OIM, uffici UNHCR, operazioni della Croce Rossa in cooperazione con la polizia — funzionano in pratica come estensioni di un dispositivo di controllo a più livelli.

La violenza, in questo quadro, non è più accidentale ma strutturale: si manifesta nel deserto, nei centri di detenzione informali, nei rimpatri “volontari” e nella normalizzazione della paura come condizione della vita quotidiana.

L’externalisation des politiques migratoires : La coopération Italie–Tunisie–Union européenne et ses impacts sur les droits humains

Autore: Matteo Garavoglia

Pubblicazione: Avocats Sans Frontières

© Avocats Sans Frontières, 2025

Tutti i diritti riservati. Il contenuto può essere riprodotto a fini non commerciali con citazione della fonte.

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Accordi Migratori Italia-Tunisia: costi umani e derive securitare by Avocats Sans Frontieres asbl - Issuu