QUI ACCANTO. Una storia di Via Pindemonte

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TITOLO: QUI ACCANTO. una storia di via pindemonte ARTISTI: FRANCO TANEL, PAOLO COLTRO CURATORE: RICCARDO CALDURA DATA INIZIO 15.11.2014 DATA FINE 30.11.2014



STANZE PER AMICI Riccardo Caldura

Molti anni fa, Jan Hoet, direttore della nona edizione di Documenta (1992), aveva proposto una particolarissima mostra diffusa nella città: Chambre d’amis. A Gent, nel 1986. Un unicum non più ripetuto, che avrebbe portato non solo fama al curatore, ma che avrebbe dato un notevole impulso al profilarsi internazionale del museo cittadino per le arti contemporanee (S.M.A.K.) diretto dallo stesso Hoet fin dal 1975. Ciò che ha contraddistinto quella mostra era la particolarità dei luoghi in cui era stata realizzata: abitazioni private, aperte per accogliere le più diverse soluzioni, compatibili con l’abitare quotidiano, proposte dai molti artisti chiamati a partecipare. In una bella intervista raccolta dal collettivo Blauer Hase (www.blauerhase.it) fondato a Venezia nel 2007, Jan Hoet ricordava come alcune delle opere proposte allora (quelle di Spalletti e di Salvadori ad esempio) sarebbero poi rimaste come parte integrante dell’abitazione. Ma la questione di fondo che quella iniziativa poneva riguardava la relazione fra quel che può essere definito spazio pubblico e cosa si intende per spazio privato. L’abitazione è il luogo per eccellenza del vivere civile per quel modo di definirsi dell’esistenza che si definisce ‘borghese’. Cioè un modo di vivere che introduce l’idea di comfort, di spazio accogliente ma senza una esplicita vocazione

rappresentativa. Se non appunto quella di rappresentare tutt’al più il sentire di chi lo abita. Un luogo raccolto, protetto, che tende ad escludere (il mondo esterno, i suoi problemi, le sue tensioni) più che ad includere. Nello spazio urbano, le abitazioni private sono luoghi seriali, prodotti da un’architettura che sul criterio di funzionalità e di salvaguardia delle funzioni dell’esistenza (la conservazione e lavorazione del cibo, il dormire,

le funzioni igieniche) ha generato sterminate distese di edifici relativamente simili l’uno all’altro. L’anonimia urbana è frutto anche della standardizzazione e della serializzazione di una diffusa idea di comfort, come spazio della rigenerazione individuale, e di quel nucleo fondante la nostra società che è la famiglia. O meglio di quella famiglia dal numero limitato di componenti, così da coniugare presente a futuro: ai

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lavoratori proprietari di un’abitazione (i genitori) si succederanno nuove generazioni per altre abitazioni ect. Una volta chiusa la porta dietro di sé, ci si può rilassare; divenendo la porta una soglia netta di demarcazione fra quell’ampio esterno che è di tutti, fra quell’esterno più ridotto, definito dalle eventuali quote millesimali di proprietà comuni, che è di pochi, e quel che è lo

spazio interno dell’abitazione , e dunque indiscutibilmente, quanto legalmente spazio individuale. Una mostra come quella proposta da Hoet tendeva a sfumare queste distinzioni fra gli spazi (privati, comuni e pubblici) e a mettere in gioco altre forme di relazione, o meglio di permeabilità fra ambiti la cui distinzione, in una società progressivamente sempre più integrata e connessa,

sembra essere sempre meno netta. Macro fenomeni ambientali, nel caso di Chambres d’Amis, la concomitanza temporale con il disastro di Chernobyl avvenuto nell’aprile di quel medesimo anno (1986); ai giorni nostri la diffusione di internet, e le profonde trasformazioni del mondo del lavoro connesse con la crisi attuale tendono a rendere lo spazio privato sempre più permeabile. Si può arginare questa permeabilità, affidandosi ad uno stuolo di dispositivi di protezione e sorveglianza: dalle porte blindate alle telecamere di strada. Cioè rendendo lo spazio permeabile, lo spazio che oscilla fra pubblico e privato, uno spazio monitorato e sorvegliato per ‘motivi di sicurezza’. Oppure, si prova ad accettare la permeabilità, elaborando modalità di apertura della porta della ‘propria’ abitazione che consapevolmente, programmaticamente, non escludano l’esterno, ma lo considerino una componente ineliminabile, da riconoscere e da accogliere. Facendo così della propria abitazione, non solo il luogo del proprio comfort, ma anche di una disponibilità non diffidente verso l’esterno. Nel caso della Settima Onda lo strumento di questa apertura è l’esperienza artistica, come modalità di comprensione, restituzione e condivisione, anche molto concreta,di

quel che si può intendere oggi come un abitare non più basato solo sulla netta , quanto improbabile, separazione fra interno ed esterno. Un tentativo di generare uno spazio di prossimità che sta fra il privato e il pubblico, spazio che non aspira ad una qualche forma di rappresentatività istituzionalmente definita, e che nondimeno, o meglio, proprio per questo, fa mostra di sè come spazio accogliente. Non vi sono monumenti, punti di addensamento riconoscibili (un grande parco, un edificio che faccia da landmark), non vi è alcunchè da ‘mostrare’ a qualcuno, che possa giustificare una visita nel quartiere padovano della Guizza, piuttosto che in qualsiasi altro quartiere decorosamente semiperiferico di una città contemporanea. Gli spazi, quelli pubblici, sono funzionali a chi vi abita: strade, marciapiedi, negozi, supermercati, parcheggi, distributori di benzina, fermate d’autobus, aree verdi. Sembra impossibile che in questi luoghi si generino storie e fatti che possono invece riguardare la vita di tutti. La risposta consueta dell’intervistato che si vede improvvisamente sotto l’occhio delle telecamere a far fronte alla non meno consueta domanda, fra il concitato e il frettoloso, del cronista di turno (“ma lei conosceva…, sapeva che…”) è

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sospesa fra l’incredulo e il vagamente offeso (”… ma si immagini, questo è un quartiere tranquillo, di gente che lavora, anche fra vicini non ci sono mai stati problemi…”). Nel 1982 in un appartamento di una strada padovana, dedicata ad uno squisito letterato neoclassico, era stato detenuto, e poi liberato dopo 42 giorni di reclusione, uno dei vertici militari della Nato: il generale J.L.Dozier, obiettivo della strategia terroristica di un commando delle Brigate Rosse. La vicenda è nota e, al contrario di altre vicende la cui fine tragica segnerà profondamente la storia italiana, si è risolta in modo positivo. Tale esito, l’ allontanarsi dell’attenzione dei media prima e lo sfocarsi poi dell’accaduto nella memoria collettiva, ha consegnato quella medesima vicenda all’oblio. Via Pindemonte vive ora altri cambiamenti, non più quelli drammatici del terrorismo, ma quelli meno eclatanti e più profondi, legati ai nuovi arrivati da paesi lontani. Ciò che è accaduto trenta e più anni fa è un evento sconosciuto, o comunque difficile da comprendere, per una intera generazione. Le storie dei luoghi però si fanno anche di avvenimenti drammatici e poi rimossi: quella detenzione avvenuta in uno dei tanti appartamenti che sono pensati per tutelare e proteggere la

vita privata, iscrive nel senso stesso dell’abitare, allora come ora, l’ombra dell’inquietudine, dell’insicurezza, della diffidenza, e della paura. Riportare alla luce quella vicenda, grazie a foto di archivio che vengono proposte per la prima volta in sequenza, ripercorrere oggi quei medesimi luoghi ritraendoli fotograficamente per osservare se vi sia qualcosa, come un carattere nascosto, che contraddistingua l’apparentemente tranquilla anonimia delle facciate, delle finestre, degli ingressi condominiali, delle strade (quelle medesime strade), è stato il modo attraverso cui si è provato a restituire il senso di una dimensione pubblica non invasiva della sfera privata. Aprire la porta per una mostra, per qualcosa da vedere che riguarda i luoghi e le storie di una comunità è un modo per non trincerarsi dietro la diffidenza delle porte chiuse e risolvere la relazione con gli altri in dispositivi di sicurezza. Paradossalmente, qui accanto, si prova non più a segregare e a detenere, a chiudere e a precludere, ma a comprendere, osservare, ricordare e dialogare.


QUI ACCANTO, IERI COME OGGI

Franco Tanel

Via Pindemonte, quartiere della Guizza, a sud di Padova, subito al di là del Canale Scaricatore e del nodo del Bassanello. Un posto anonimo come tanti in città, ci ero passato centinaia di volte senza memorizzare nulla. Ricordavo solo che faceva angolo con via Guizza, dove c’era il supermercato del quartiere. Quando la mattina del 28 gennaio 1982 il telefono del nostro studio fotografico squillò (niente cellulari allora e oggi ci sembra impossibile) e dal giornale ci dissero “precipitatevi subito alla Guizza, sta succedendo qualcosa, forse riguarda Dozier”, per fortuna sapevo come arrivare rapidamente attraverso stradine secondarie. Il generale americano James Lee Dozier era stato rapito a Verona dalle Brigate Rosse a metà dicembre e naturalmente seguivamo tutti la vicenda chiedendoci quando, come e soprattutto dove, si sarebbe svolto l’epilogo. Forse era la volta buona. Decine di persone sostavano incuriosite sul marciapiede, tenute lontane dal grande palazzo del supermercato da un cordone di poliziotti in divisa e in borghese, molti mascherati con passamontagna e calze da donna calate sul viso. Non poteva essere una qualsiasi rapina. Appena provai ad avvicinarmi con la macchina fotografica in mano fui bloccato da un agente che mi appoggiò la canna della mitraglietta sullo stomaco. Niente da fare, arrivare all’ingresso del civico 2 di via Pindemonte era impossibile. Mi confusi

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tra la folla e riuscii a scattare alcune immagini delle macchine civili della polizia che sgommavano trasportando verso la questura i brigatisi arrestati. Una in particolare era significativa, con gli agenti mascherati protesi fuori dal finestrino armi in pugno. Dozier era stato liberato, anche se io, del suo salvataggio non ero riuscito a vedere nulla. Bisognava correre a sviluppare il rullo, mentre Marco

Bruzzo, uno dei miei colleghi in studio, mi sostituiva e realizzava le altre immagini dell’evento e del “covo”, esposte nella mostra. Già allora pensammo che la scelta di quell’appartamento non poteva essere stata casuale. Un grande palazzo composto di miniappartamenti, sul pianerottolo lo studio di un dentista,

sotto un supermercato: il via vai a tutte le ore rafforzava l’anonimato che l’architettura stessa dell’immobile, il classico condominioalveare degli anni ‘70, assicurava. Un edificio del tutto avulso dalle caratteristiche del quartiere, dove prevalevano villette e piccoli condomini. Padova allora era al centro delle tensioni politiche e sociali degli “anni di piombo” e progressivamente per molte persone la casa era un luogo in cui rifugiarsi, trovare sicurezza e tranquillità, ignorando il più possibile quello che accadeva intorno. Un modo di difendersi, certo, ma anche una scelta che ha permesso di trasformare senza problemi l’appartamento accanto, in una prigione dove privare della libertà un uomo per quasi un mese e mezzo. O magari di essere, invece che spazio di serenità, luogo nascosto di violenza domestica. Rileggere le immagini di quel giorno, a oltre trent’anni di distanza, al di là della cronaca dell’evento, porta a guardare oggi via Pindemonte e le strade limitrofe in modo meno distratto, a chiedersi se e come sono cambiate. Il titolo della mostra è, non a caso, “Qui accanto”. Nel 1982 qui accanto c’era (anche) il generale Dozier prigioniero dei brigatisti. Chi c’è oggi, qui accanto? Cosa accade? L’abitudine ci porta a vedere quello che abbiamo intorno, senza davvero guardarlo. Eppure osservando i particolari possiamo vivere in maniera meno superficiale la strada e il quartiere che percorriamo tutti i giorni. E magari allacciare relazioni con i nostri vicini.

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ONDE PER CUI Paolo Coltro

Eh sì, le altre sei sono normali, forse insignificanti, contano solo perché portano alla settima: quella che ti dà la libertà. L’onda più alta è una leggenda che nasce dal mare, come la vita primordiale. Fisici e matematici si son persi a misurare, controllare, verificare, hanno anche litigato per stabilire se la settima è proprio l’onda più alta. Numeri alla mano, hanno anche contestato: può essere la sesta, o l’ottava, e questi uomini delle certezze sono finiti nell’approssimazione. Hanno detto: la settima piace perché sette è un numero magico. Appunto, è la magìa delle leggende, che interpretano lo spirito, le leggi profonde che non sono solo numeri. Henri Charriere è il galeotto di “Papillon” che si è fidato del segreto della leggenda, e con la settima onda s’è lasciato alle spalle la Caienna. E’ la più cattiva, può frangersi con violenza, ma se la prendi dal verso giusto ti solleva e ti libera, ti porta in alto verso l’orizzonte, dove il niente è tutto, proprio come la libertà. Per questo è un simbolo, la trovi dentro di te, anche dove non c’è acqua, magari al quinto piano di un condominio. Dove c’è la voglia di non essere omologati, la stessa differenza tra le sei onde tutte uguali e quell’altra che si inerpica sul mare. Ha affascinato molti, questa leggenda corsa tra i popoli del mare, un film ha questo titolo, un paio di associazioni e chissà perché di donne coraggiose, e anche

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una canzone. Sarà un caso che i Nomadi, nel loro ventesimo disco, il primo senza la voce di Augusto Daolio, nel brano che si chiama “La settima onda” mettono queste parole: “Se la tua vita si ferma in una piccola strada che muore e senti quelli che raccontano storie”? Sembra una strofa fatta apposta per quell’appartamento al quinto piano e per la sua proprietaria ondivaga, nel senso che si dirige ovunque, guarda dappertutto, cerca nel sé e nell’altrui. La sua vita ha questo porto nel quale si è fermata per ripartire verso ogni dove, spinta dal vento di una curiosità sensitiva: un vento circolare che la riporta sempre lì, in quel porto dove attraccano idee, immagini, colori, arte, cibo. “Porto”, per Aurora Di Mauro è un sostantivo ma è soprattutto un verbo. Porta stimoli, esperienze, visioni, incroci. Porta soprattutto persone, di quelle che hanno qualcosa da dire ma soprattutto hanno fatto qualcosa. Fuori dai circuiti ufficiali, in una recherche molto orizzontale che si eleva fino al quinto piano. La definizione è “appartamento relazionale per la libertà delle arti”, in cui un tocco di civettuola indulgenza burocratica (“relazionale”) cede il passo al respiro profondo, al principio assoluto e forse alla cosciente utopia della “libertà delle arti”. Che l’arte sia libera per chi la produce, è già un bel problema. Che sia libera poi per chi la fruisce e per

come cammina nel mondo, è problema ancora più grosso. Nel porto dove ci deposita lo scroscio della settima onda non c’è mercimonio, non c’è affarismo, non ci sono le ombre lunghe del calcolo né le suggestioni costruite del mercato. E’ ospitata la spontaneità creativa e ne scaturisce la spontaneità del confronto, naturalmente banditi gli arzigogoli intellettuali e verbali, gli intorcolamenti e le superfetazioni. Succede che le forme espressive si presentino così come sono, senza involucri stereotipati o roboanti, senza ossessive autopsie: il corpo dell’arte resta sì nudo, ma intatto, non violato, offerto nella sua realtà oggettiva. Ma cosa c’entra tutto questo con “la piccola strada che muore” dei Nomadi? La piccola strada è via Pindemonte: non muore, anche se ha due stop; piuttosto vivacchia, assomiglia alle sei onde anonime come mille altre strade di quasi periferia. Non rifulge per bellezza, non si distingue per bruttezza, semplicemente è. Farne l’oggetto di una mostra non è una sfida, è una provocazione intelligente, e va al di là del pretesto adoperato: il fatto che questa qualsiasi via Pindemonte sia stata toccata dalla Storia, quel 28 gennaio 1982, con la liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito a Verona e poi tenuto prigioniero proprio qui, una porta più in là della Settima Onda. La piccola storia di via Pindemonte c’era prima ed è continuata

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dopo quel flash esploso all’improvviso. Ed è la storia di tutte le quotidianità: il cui senso è quello di inglobare bellezze quiete, scampoli di piacere in attesa di essere riconosciuti, guizzi che sai che ci sono ma devi trovarli. La quotidianità, in fondo, è il più gran contenitore di scoperte possibili. Si riacquista la vista, dopo il momentaneo accecamento del flash.E si vede che lo straordinario può continuare nell’ordinario.

L’odore bruciante degli pneumatici dell’auto dei Nocs che sgommano s’è volatilizzato subito, ma non nelle narici di chi ricorda. L’odore di fumo di una casa bruciata in via Pindemonte è recente. L’elettricità toccava i nervi di tutti, negli attimi della liberazione di Dozier, si spandeva dai poliziotti ai residenti e ai giornalisti. Era un’elettricità acuminata. Oggi la sola elettricità scorre nelle movenze dei giovanissimi allievi di una

scuola di judo, ed è elettricità in divenire. Per un attimo su questo palcoscenico c’è stato teatro drammatico, ed era la fotografia di quel mondo. Ora la fotografia racconta di anziane col trolley a far la spesa, di extracomunitari gentili che spingono un passeggino assieme alla moglie velata e alla suocera velatissima, di romeni che vendono buon vino, di passeggiate con il cane: una società diversa abita i condominii uguali ad allora. E vabbè che la normalità è piena di sorprese, altrimenti cosa sarebbe mai la vita, ma fotografare la normalità è una bella sfida: se non si cerca solo la documentazione, se non ci si limita alla mitragliata di scatti smartphone destinazione facebook, sono in agguato il banale, lo scontato, l’ovvio. Non c’è niente di peggio di una fotografia ovvia: il difficile è riuscire a metterci dentro un qualche valore aggiunto. Che sia l’estetica, o un concetto o un messaggio, ci vuole qualcosa per cui la foto si faccia sentire, oltre che guardare. Molto dipende dall’osservatore-ascoltatore ma il fotografo deve pur metterci del suo. Comincia così una camminata da flâneur con unico percorso via Pindemonte, a cercare l’insolito nel solito, a soffiare attraverso un obiettivo la polvere del conosciuto per scoprire qualche luccichìo. In pochi alzano la testa lungo

quei marciapiedi, i piedi sono lì e la testa chissà dove. Se lo fate, incrocerete lo sguardo delle finestre, il silenzio dei muri, forme e ombre dal linguaggio silenzioso. Va a finire che lo scatto non è un furto, ma un complimento fatto a chi non ne riceve mai. Anche via Pindemonte guarda e, per la seconda volta, è guardata.

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WALKING IN MY SHOES Aurora Di Mauro

Ora non sto cercando assoluzione Perdono per le cose che faccio Ma prima di arrivare a conclusioni Prova a camminare nelle mie scarpe Martin Lee Gore, Depeche Mode Walking in my shoes Guardo a terra dove metto i piedi e guardo la strada, che percorro per andare a prendere il tram, parecchi metri più in là. Non la percorro mai per intero via Pindemonte. Il portone del palazzo in cui abito è esattamente alla sua metà, almeno così sembra ai miei occhi incapaci di far calcoli precisi. Come nella vita. Se, uscendo, vado a sinistra, passo davanti alla porta del Bar King. Ora è solo una porta e una vetrina chiusa, dove la grande tenda argentata, memore di luci e fumi di sigarette delle notti bianche in cui restava aperto, si sta piano piano facendo lisa (mi manca il salutare Patrick uscendo e tornando dal lavoro, il vedere una luce sconfiggere il buio che ingoia solitamente via Pindemonte; ma credo di essere una delle poche persone a formulare simili pensieri). Altro argento: supero la griglia della porta che conduce al mondo sotterraneo dei garage e delle cantine e di tutti quei ‘cervelli’ che tengono acceso il riscaldamento, che fanno arrivare il gas in casa e chissà altro. Ho paura del buio e di ciò che non conosco. Vado raramente lì sotto; per questo il passo si fa svelto e subito costeggio il ‘lato oscuro’


del supermercato (non ricordo se era già Conad quando sono arrivata ad abitare qui, alla Guizza, nel 1995; oggi c’è l’Eurospar), là dove si fa lo scarico delle merci da una porta che accede al magazzino e dove, accanto, c’è un’altra porta, più, piccola: lì a volte mi capita di vedere i commessi che si prendono un momento di pausa fumando una sigaretta, stringendosi nella nicchia del vano di quella porta, come a nascondersi o a proteggersi da una strada che non li conosce. Un ingresso accogliente è quello del palazzo che sta al numero 2, sì, quello in

cui fu tenuto nascosto il generale Dozier. Mi piace perché, sulla sinistra, un po’ nascosto c’è un sedile in muratura che consente una sosta prima di entrare, o di aspettare comodamente qualcuno che deve scendere, o anche solo di appoggiare le borse della spesa. C’è un cancelletto che si apre su una scala, sempre open air, che porta ad un piano superiore là dove uno spiazzo conduce all’ingresso vero e proprio del palazzo. E’ un insieme più grande di appartamenti, ha addirittura due ascensori. Invidia. Il verde è limitato a inserti stile fioriera, ma i bambini giocano

lo stesso sulla spianata di cemento che copre, come un tetto, i vani adibiti a negozi, magazzini, garage, ovvero quegli spazi che danno sulla strada. Li sento spesso dalla finestra, quando sono nello studio della mia Settima Onda, i bambini, e poi le voci delle loro mamme che li osservano dai balconi. Un microcosmo di sicurezza e di svago si unisce sul piano asfaltato di una strada, parallela e pensile rispetto a via Pindemonte. Proseguo e giro l’angolo, vero la piazza dove c’è la fontana che simula un albero fatto di soli rami. Che brutta… Negli occhi mi resta il rosso acceso dell’arco trionfale che introduce al supermercato distendendosi per tutta la base del palazzo che si impone sul piazzale e che scendendo di lato quasi perfora i marciapiedi della mia via e di quella parallela, via Monti. Grandeur da mercanti del XXI secolo. Se invece vado a destra, il mio sguardo incontra subito le vetrine del parrucchiere, Enrico Maria Guercini. Un nome lungo e importante. Starebbe bene ad intitolare una via. E’ uno spazio amico, dove trovo volti che conosco e a cui rivolgere un saluto quando percorro il marciapiede. Appena dopo, c’è l’ingresso gemello del palazzo gemello e speculare al mio. C’è una foto di Paolo Coltro, tra quelle che non sono state esposte alla mostra “Qui accanto”, che unisce la visione dei palazzi nel loro riflesso sul vetro di un’auto. Così vicini e così distanti il civico 4 e il civico


6. Abitanti che non si conoscono del tutto, anzi, quasi per niente tranne qualche rara eccezione di abitanti ‘storici’ della via. Per il resto abitanti di etnie diverse, un melting pot che in realtà non si fonde. Seguono le porte a vetro della palestra: passandoci accanto sento il suono allegro della musica usata per dare ritmo agli esercizi. D’estate le tengono aperte per il caldo e si possono vedere gli sportivi, uomini o donne, che si scatenano alla ricerca della forma fisica perfetta. Nessuno si ferma mai a spiare. E anch’io, per vetero pudore, tengo basso lo sguardo, verso la strada. Sono arrivata all’incrocio con via Alfieri,

ma via Pindemonte non finisce lì. Potrei attraversare la strada e andare a scoprire la fine della mia via. Chissà come sarà? Ci credete? Non ho mai percorso quel pezzo di strada. A occhio e croce mi sembra una sorella diversa dal mio pezzo di strada. Ferma all’angolo, non vedo palazzi, ma solo villette. Ho ancora molto da esplorare in questa vita. Cominciando da dove vivo. Quando ho chiesto a Paolo Coltro di muoversi con il suo occhio obliquo a ‘leggere’ la mia via sapevo di dargli un compito difficile. Io la percorro tutti i giorni quel pezzo di strada. Conosco il

lato del mio marciapiede, e anche quello di fronte (anche lì ci sarebbero altre storie da raccontare: il dentista da cui non vado più, la palazzina che ha preso fuoco, il tipografo che mi regalò le foto di Raniero ovvero il clochard pittore della Guizza morto qualche anno fa, l’enoteca dell’ispano-moldavo Alex che ha preso il posto del calzolaio, il bar che è diventato di proprietà dei cinesi da qualche anno…) ma lui no. Gli ho chiesto di mettersi le mie scarpe e muoversi in mezzo all’anonimato di un luogo che, all’apparenza, non ha nulla da dire. Nessun elemento di attrazione estetica. Sapevo, però, che non avrei potuto chiedergli di dare rappresentazione fotografica a quello che vedo io tutti i giorni. Prima di tutto perché Paolo è un anarchico e uno spirito libero, che si muove “in direzione ostinata e contraria”. E poi perché non cercavo in lui il giornalista; o, meglio, non solo quello; ma anche il rabdomante di poesia visiva nel deserto del cemento. Roba da artisti. O da matti. La mostra che è venuta fuori – grazie alla sapiente mediazione di Riccardo Caldura, curatore di razza che ha operato chirurgicamente nello scegliere le fotografie in bianco e nero di Franco Tanel e Marco Bruzzo a documentare la via nel 1982 e quelle a colori di Paolo Coltro per la via contemporanea – ha saputo portare via Pindemonte (ma quante volte l’ho nominata?) dentro un appartamento di via Pindemonte (rieccola! Sembra un mantra…), la mia Settima Onda. Un intelligente allestimento ha consentito di far sì che la storia con la “S” maiuscola , quella

che ha acceso per giorni i riflettori d’Italia nel momento in cui i Nocs hanno liberato il generale Dozier tenuto ostaggio dalle Brigate Rosse, e quella delle ‘s’ minimali, quotidiane e oscure sembrino parte di una sola vicenda umana. Non è consueto chiamare un curatore e degli autori a partecipare ad un progetto che è tale solo nella testa di una committente eccentrica, che persegue una sua idea di abitare in condominio in relazione all’arte e alla sua godibilità. Riccardo, Paolo e Franco hanno accettato questa sfida, salendo sull’onda e surfando con leggerezza senza mai finire sott’acqua. Non è da tutti, e di questo gliene sono grata.

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Franco Tanel

inizia la sua carriera professionale come fotografo nel 1979, fondando con alcuni colleghi l’Agenzia Fotografica D-Day. La sua attività si indirizza verso il fotogiornalismo e il reportage. In breve tempo inizia a pubblicare per le principali testate quotidiane e periodiche italiane, e con alcune straniere. Ha collaborato con l’Agenzia Ansa, l’Agenzia Contrasto e l’Agenzia Grazia Neri. Parallelamente all’attività di fotografo, svolge quella di giornalista. Collabora con il Gruppo Sole 24 Ore scrivendo di trasporti, logistica ed edilizia, con il bimestrale in lingua inglese Railway Engineering e con altre testate a diffusione nazionale. Ha recentemente realizzato per la casa editrice White Star il volume illustrato “I Treni, dalla locomotiva a vapore all’alta velocità”.

Paolo Coltro (Vicenza, 1953) ha sempre

voluto fare il giornalista. Nel 1979 è stato tra i fondatori de “il mattino di Padova”, dove ha percorso la sua carriera da cronista di giudiziaria a caposervizio cultura. Nel 1991 è stato prima vicedirettore e poi direttore del quotidiano Nuova Vicenza. Tornato nel Gruppo Espresso nel 1994 come caporedattore de “La Tribuna di Treviso”, nel ‘99 è diventato caporedattore per le pagine di cultura e spettacoli dei tre quotidiani veneti Finegil. Negli anni ha scritto su la Repubblica, Corriere della Sera, Sette e numerosi periodici. Alla fine del 2013 ha lasciato il giornale ma continua a scrivere e ha più tempo per fotografare. Ha pubblicato alcuni libri, sulla storia di Padova e sul Veneto, con immagini di Uliano Lucas; sull’arte di Elio Armano; sulle fotografie di Antonio Zuccon. Tempora & Mores è il suo ultimo libro edito per la Cleup di Padova. Ha una Nikon e la adopera. Con le sue foto sono state allestite alcune mostre: “Padova informale” al Centro culturale Altinate di Padova; “Le piazze” al palazzo della Gran Guardia di Padova”; per la Fiera delle Parole 2013 sempre al Centro Altinate; era presente alla collettiva “Tabula rasa” al Museo del Paesaggio di Torre di Mosto; è stato invitato per due anni ad esporre ad Arte Padova. Per lui la fotografia non è un hobby, piuttosto una passione.


PRATICA5000

GRAZIE A:

, cantiere espositivo.

Riccardo Caldura, per aver accettato questo progetto arrivato dall’onda e raccolto facendolo suo. Paolo Coltro e Franco Tanel, che partecipando a questa mostra hanno dimostrato coraggio e amicizia e tanta professionalità. Andrea Rinaldi, manovalanza specializzata nei giorni pari e performer nei giorni dispari, animatore di inaugurazioni. Chiara Drago e Patrizia Giuriolo per aver governato con eleganza le onde agitate della cucina. Le tante persone che sono intervenute alla inaugurazione della mostra. Tutti coloro che seguono Settima Onda e la sostengono con il loro affetto. E c’è ancora spazio per ricordare....

Un’idea, un progetto, discussioni, sopralluoghi, incidenti di percorso, revisioni di budget, cambi di opinioni in corsa, modifiche di progetto, incertezze, paure, rabbia, entusiasmo, abbandoni improvvisi di compagni di viaggio, nuovi avventurieri, persone che lavorano gomito a gomito, e poi il prodotto finale, mai finito, sempre perfettibile. E’ lo spirito di cantiere – quello stesso che ha portato alla nascita di Settima Onda e della nuova vita di chi la abita – ciò che guida il senso del contenitore di idee che diventano mostre chiamato “Pratica5000”, come il fascicolo di denuncia di inizio di attività depositato nel Comune di Padova per l’avvio dei lavori di ristrutturazione dell’appartamento al quinto piano di via I. Pindemonte n. 4 a Padova seguiti tra il 2011 e il 2012 da Edoardo Gamba e Davide Pesavento dello studio associato “duebarradue” di Dolo (VE). Il cantiere, con tutte le sue complessità ma anche con tutte le sue risorse emotive, è rimasto un’esperienza indimenticabile – e quasi un passaggio iniziatico necessario –

PROGETTO GRAFICO

GIULIA BROLESE.com

per la crescita del progetto di vita “Settima Onda”. Indipendente, libera, aperta nel cuore e nella mente, anima in viaggio nella vita propria e in quelle altrui, curiosa, intollerante alle convenzioni, Settima Onda è una persona e un luogo insieme. Le relazioni autentiche sono la sua unica ricchezza, che ama condividere con gli amici convinta che i rapporti umani sinceri possono cambiare il mondo e s-muovere in modo etico l’economia di base nel campo delle arti. Con questo approccio alla vita, la ristrutturazione di un appartamento privato è diventata occasione per aprire in modo diverso la porta di casa agli amici, agli artisti che vogliono incontrare altri artisti e curiosi dell’arte, condividendo idee, passioni, pensieri cupi, dubbi, ragioni di allegria e sguardi al futuro parlando di progetti e di se stessi, e gustando buoni vini e cibi biologici vegetariani. Ristretti incontri con ristretti amici in tempi ristretti.


Via I. Pindemonte n. 4 路 Padova


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