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Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2 e 3, Roma Aut. N. 6/2008

anno 6 â—? n. 15-16 settembre 2011 / aprile 2012

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Editoriale - “Un cammino pieno di speranza, nonostante tutto” / di Pasquale De Sole “Esperienze di speranza” / di Francesco Colizzi “Goreé 2011: ritorno verso l’umanità” / di Carlo Provenzano “Il viaggio eterno della vita” / di Erica Nicolardi Progetto Etiopia “Il ruolo dell’università nella cooperazione allo sviluppo” / di Pasquale De Sole Pensare sognando - “Prospettive” / di Emanuele Bucci Tam Tam - “Una lettera dal Sud Kivu” / di Teresina Caffi

Un cammino pieno di speranza, nonostante tutto di Pasquale De Sole

UBUNTU Quadrimestrale dell’Auci-Onlus Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale Anno 6 - Numero 15-16 settembre 2011 - aprile 2012 DIREZIONE E REDAZIONE Largo A. Gemelli, 8 00168 Roma Tel. 06/30154538 Fax: 06/35505107 E-mail: auci@rm.unicatt.it - segreteria@auci.org Sito internet: www.auci.org DIRETTORE RESPONSABILE Pasquale De Sole

Il cammino dei popoli, come quello di ogni uomo, è fortemente segnato, nel bene e nel male, dalla meta che ognuno ha davanti a sé; riconoscere che tale meta è sbagliata o, peggio ancora, evanescente come un vuoto fantasma, ci costringe ad ammettere che la nostra vita gira come trottola impazzita generando sofferenze personali e squilibri sociali.

Nel precedente numero di Ubuntu ci chiedevamo “dove vanno i popoli?”; ora vorremmo chiederci qual’è la loro meta, quale speranza si pone davanti a loro e con forza li attira facendo superare loro ogni ostacolo e abbattere ogni barriera.

Idealmente vorremmo ascoltare la voce di ognuno perché siamo sicuri che ogni uomo è portatore di una novità unica e irripetibile; siamo convinti che l’unica vera ricchezza dell’umanità sia l’uomo, ogni uomo, senza alcuna distinzione di sesso, cultura, censo, nazionalità, a cui va dato sempre ascolto.

Purtroppo abbiamo sotto i nostri occhi, come le cronache ci testimoniano ampiamente, ancora troppi segnali di un cammino tortuoso e intriso di lacrime e sangue.

Ciononostante, mossi da caparbia o ingenua fiducia, vogliamo credere che la speranza non sia ancora morta.

Siamo confortati in questa apparentemente impossibile fiducia da fatti, eventi, esperienze che personalmente e comunitari-

amente andiamo facendo. È il cammino dei poveri e con i poveri che alimenta il fuoco della speranza; è il cammino di compagni di viaggio che operano curvandosi amorevolmente sulle piaghe di tante lebbre che ci aiuta a procedere nei bui sentieri della notte in cui ci troviamo.

Di questi cammini vogliamo dare in qualche modo testimonianza sicuri che le tante immagini negative che troppo spesso si impongono ai nostri orizzonti non costituiscono l’unico scenario possibile. La “Carta dei Migranti”, nata dal basso, scritta “dai e per” i migranti (vedi articolo di Carlo Provenzano), è un esempio di questo coraggioso cammino lungo la scia luminosa della speranza come pure la viva testimonianza di Erica Nicolardi da Tabaka in Kenya.

Parlando di speranza, poi, ci piace condividere con i nostri lettori le vibranti riflessioni di Franco Colizzi pronunciate in occasione del convegno tenuto recentemente per i 50 anni dell’AIFO, dal significativo titolo: “Esperienze di speranza: volti di persone, storie di popoli”.

Lasciarsi permeare dalla speranza non è facile quando tutto sembra spingere verso il baratro della disperazione, ma è proprio per questo che dobbiamo lasciarci guidare da chi quel baratro l’ha superato ed è capace di testimoniare che nel buio della notte, nonostante tutto, brilla ancora la luce.

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REDAZIONE Emanuele Bucci Cinzia Callà Diego Casoni Paola Ceccarani Ilaria Olimpico Erica Nicolardi Carlo Provenzano Claudia Trevisani LAYOUT GRAFICO Studio Idea Comunicazione CORRETTORE DI BOZZE Pasquale Sbardella CHIUSO IN REDAZIONE IL 30 marzo 2012 Numero di copie stampate n° 1000 Autorizz. del Trib. di Roma n. 157/2007 del 17 Aprile 2007 VIDEO COMPOSIZIONE, INCISIONE, STAMPA E ALLESTIMENTO: Centro di formazione per le attività grafiche “Giancarlo Brasca” con annesso stabilimento tipografico denominato COOPERATE tel. 0766/571392 Testi e immagini possono essere utilizzati liberamente citando la fonte

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Esperienze di speranza di Francesco Colizzi (*)

1. Speranze in cammino.

“Hopeful steps”, “Vila Esperanca”, “Nayèe Asha”, passi di speranza, casa della speranza, nuova speranza… sono i nomi di alcuni dei progetti che AIFO ha sostenuto o sostiene all’estero. Lì in Guyana, in Brasile, in India, ma anche dove i nomi sono diversi, i nostri partner individuano la speranza come la sostanza dei progetti che condividiamo.

Spesso sentiamo dire da alcuni partner che non sono i soldi ciò che si attendono innanzitutto da noi ma la nostra presenza. E’ anche la convinzione espressa da Follereau agli inizi della sua avventura, di fronte alla lebbra ancora priva di terapie efficaci: “Se non posso curare posso amare”. Dobbiamo allora imparare a coltivare questa competenza umana, evitando di cadere nella trappola del denaro come effettiva risposta ai bisogni degli ultimi. Una persona senza speranza non sa che farsene del denaro, così come un malato disperato spesso rifiuta le medicine e perfino il cibo.

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2. Sinfonie incompiute.

“Uno dei più angosciosi problemi della nostra umana esperienza è che pochi riescono a veder realizzate le proprie più vive speranze. Le speranze della nostra infanzia e le promesse dei nostri anni maturi non sono che sinfonie incompiute”. Così rifletteva Martin Luther King jr. la cui vita stessa, recisa a 39 anni, nel pieno della sua maturità, è stata una sinfonia incompiuta. Eppure, come aveva detto poco prima di venire ucciso, era salito sulla cima della montagna, aveva visto la speranza universale. Del resto, più volte Raoul Follereau, già entrato nella vecchiaia, ha definito la sua lotta come incompiuta, sentendo il bisogno di redigere un testamento morale: ”Il tesoro che vi lascio è il bene che non ho fatto, che avrei voluto fare…”. Attenzione, allora, al mito della completezza, o della perfezione, che può erroneamente far ritenere inutile o inefficace quel che si riesce a fare delle proprie speranze. Anche le sinfonie incompiute sono già, di per sé, grandi 3

esperienze di speranza. Ascoltate la sinfonia “Incompiuta” di Franz Schubert. Due soli movimenti, anziché i canonici quattro. Nonostante la malinconia, si emerge dall’ascolto dell’Incompiuta col cuore gonfio d’amore: l’elaborazione del dolore compiuta da Schubert ci dà speranza.

3. Speranza ed esistenza.

Le sinfonie incompiute mostrano la grandezza dell’anima umana e la sua capacità di indirizzarsi sempre verso i luoghi della speranza e del sogno, nelle dimensioni dell’eutopia, cioè del bene per nezza/ e la sua volontà di uomo”.

Coltivare la speranza attiva, per Follereau, è anche il segreto per rimanere giovani.

Anche don Tonino Bello era convinto di ciò: “…il cuore può rimanere giovane per tutta la vita. Si è giovani non sulla base del numero degli anni, ma sulla base degli ideali coltivati, per i quali vale la pena battersi”.

La speranza può certo tramutarsi in illusione, ma essa in sé non è illusione. Non

UBUNTU è sospesa nel vuoto e senza fondamento.

Si tratta, al contrario, di una esperienza psicologica e umana consustanziale alla vita, una categoria esistenziale radicale di cui non possiamo fare a meno. Secondo Blaise Pascal, “il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere”. Dice cose forti Pascal.

4. La speranza cerca l’Altro.

Di cosa è fatta la speranza? Qual è il suo fondamento? Verso chi e verso cosa essa protende le sue mani? Quando seguiamo l’aquilone della speranza avvertiamo come una sorta di nostalgia per una felicità che non abbiamo mai conosciuto e, pure, sentiamo che è possibile. Gli altri ci hanno insegnato a sperare, gli altri sono ragione di speranza per noi, aspiriamo a una salvezza comune, siamo responsabili del destino di chi conta su di noi.

La speranza vera è la ricerca dell’altro, l’Altro che ci chiama, si appella a noi e a cui noi possiamo rispondere attraverso la speranza come dinamismo proprio dell’esistenza responsabile. La speranza responsabile si lega alla capacità di dare una risposta d’amore alla sofferenza, alle molte forme del male, alla morte. .

Ecco, allora, che la speranza si rapporta a volti e a storie, di singole persone e di interi popoli, alimentando anche la nostra liberazione interiore. La speranza chiede di essere esperita e testimoniata giorno per giorno nel modo di agire e di vivere.

Riporto qui la felice sintesi espressa dal filosofo Roberto Mancini, la cui ricerca

segnalo con grande affetto e condivisione: “Chi onora un simile compito, chi anziché arrendersi allo scoramento si impegna ad essere una piccola fonte di speranza per qualcuno, diviene testimone dell’unità della speranza umana, che in tutti è anelito di liberazione dal male e dalla morte.

Infatti chi agisce dando una risposta di bene alle aggressioni del male manifesta la credibilità della speranza proprio lungo la frontiera su cui grava la pressione dell’ingiustizia, della violenza, del disprezzo, dell’abbandono, del lutto”.

5. La speranza del mondo.

Secondo Martin Luther King, la speranza del mondo è ancora nelle mani di una ridotta minoranza impegnata, il cui compito è di lavorare in modo inflessibile per convincere la maggioranza di indifferenti. Ed aggiunge:”La nostra speranza di una vita creativa in questo mondo che abbiamo ereditato risiede nella nostra capacità di restituire scopi morali alle nostre vite, nel carattere personale e nella giustizia sociale. Senza questo risveglio spirituale e morale, distruggeremo noi stessi facendo cattivo uso dei nostri stessi strumenti”.

L’età media della popolazione mondiale è di 28 anni e da un punto di vista statistico e sociologico possiamo dire che attualmente l’uomo medio sulla Terra, quello che esprime il modello più diffuso, è un giovane ventottenne cinese, di etnìa han, che guadagna meno di 12.000 dollari l’anno, non ha un conto in banca ma possiede il cellulare. Qual è la speranza di quest’uomo medio? E dav-

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vero spera o è disperato? Nel corso del Novecento molti aspetti della condizione umana sono migliorati ed oggi vengono racchiusi e misurati attraverso i parametri dell’ISU, indice di sviluppo umano.

Oltre allo standard di vita, classicamente misurato dal PIL reale procapite, sono cresciuti i risultati scolastici ed è aumentata la longevità. La speranza di vita alla nascita è aumentata, ma con gravissime ed intollerabili ingiustizie. Chi nasce nel principato di Monaco può attendersi di vivere 89,73 anni e chi viene alla luce in Angola 38,76 anni.

E’ giusto perseguire lo sviluppo della scienza e della tecnica, tuttavia occorre battersi affinchè non si utilizzi – come è avvenuto lungo tutto il Novecento – lo sviluppo tecnico-scientifico per la riproducibilità tecnica dell’orrore. Dobbiamo riprodurre la speranza attiva, concreta, di diminuire le malattie, la violenza, le disabilità, l’ignoranza, e di incrementare la qualità della vita, la fraternità, la vita stessa. Sarebbe bene, perciò, che sul tema della speranza non si accendessero dibattiti esasperati quanto, piuttosto, si prendesse atto che continuiamo ad oscillare, come sempre nella storia umana, tra la disperazione e la speranza e che è bene affidarsi solo a “ragionevoli speranze”, esemplificate dai progressi più importanti dell’umanità, come l’espansione della democrazia, la diminuzione della mortalità infantile, il lungo periodo di pace in Europa, anche se non ancora universali: l’amore politico nonviolento è, tra le ragionevoli speranze, quella fondamentale, il motore di tutte le altre.

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6. Gli ultimi e la speranza.

L’attore e regista Pino Petruzzelli ha scritto un libro intitolato “Gli ultimi”, nel quale, attraverso dodici interviste, sostiene la tesi che l’umanità si scorge meglio dal fondo, che la speranza profonda dell’emancipazione e del futuro alberga tra gli ultimi, così individuati: ”Gli ultimi sono tutti coloro che non rientrano negli schemi, che vengono esclusi dalle masse, non solo perché sono poveri. Gli ultimi sono l’ultima barriera di un’umanità che resiste contro la barbarie delle mode,

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dei pensieri e degli stili di vita di quello sciame inquieto di consumatori che popola le nostre strade. Gli ultimi sono quelli che ritengono i banchieri più pericolosi degli zingari.(…) Gli ultimi sono quelli che credono nel lavoro e nella fatica e non nell’intrallazzo e nelle raccomandazioni. (…) Gli ultimi sono coloro che credono nella pace come valore universale. (…)

Gli ultimi sono i bambini di tutte le razze. (…) Gli ultimi sono coloro che anche da morti chiamiamo clandestini. Gli ultimi sono tutti quelli che scelgono di stare sempre dalla parte dei più deboli”. Al cuore dell’impegno solidale deve esservi il riconoscimento, il cui valore è davvero rivoluzionario, che le più grandi e significative esperienze di speranza vengono da quella grande parte dell’umanità esclusa e sofferente, dagli ultimi, dalle ‘pietre scartate’ che, secondo la profezia evangelica, diventeranno le pietre d’angolo della universale civiltà dell’amore. Le esperienze di speranza, tutte, vanno nella direzione della folgorante definizione di persona data da Paul Ricoeur: “Auspicio di vita vissuta, con e per gli altri, all’interno di istituzioni giuste”.

La speranza somiglia agli ultimi: è una immensa ma pudica energia, ancora prigioniera del vaso di Pandora. Cosa ci trasmette il mito esiodeo di Pandora, raccontato 2700 anni fa ne “Le opere e i giorni”? Pandora, sotto la spinta della sua grande curiosità, apre un vaso dona5

tole malignamente da Zeus col comando di non aprirlo mai. Ne vengono fuori tutti i mali possibili, i quali si spargono per il mondo. Resta, però, al fondo del vaso, la speranza. “Sola lì rimase Elpis, la Speranza, nella casa infrangibile, dentro, al di sotto del bordo dell’orcio, né se ne volò fuori, perché Pandora prima ricoprì la giara…”. La terra divenne desolata e inospitale finchè Pandora non riaprì il vaso e finalmente la Speranza potè andare per il mondo. E’ essa stessa un male, magari un male minore? Oppure, come mi piace pensare, è ciò che sempre si può rintracciare scavando sotto tutti i mali, sapendo guardare oltre il buio degli orrori e delle tragedie umane? Forse occorrerà sempre liberare la Speranza, rannicchiata nel buio dell’umanità. Ma come può accadere ciò, cosa può accendere la fiamma della speranza?

E’ l’incontro con i sofferenti, con gli emarginati, con i disperati, con gli ultimi, ad accendere in noi la speranza, questo vento dell’anima che ci è dato non per noi stessi ma per i disperati, come ha scritto Walter Benjamin in “Angelus novus” :”Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza. (…) L’ultima speranza non è mai tale per chi la nutre, ma solo per quelli per cui è nutrita”. Dobbiamo coltivare la speranza, dunque, sapendo che essa è l’ultima, forse, per chi è disperato, sapendo che la nostra speranza non ci appartiene ma appartiene ai senza speranza.

UBUNTU 7. L’esperienza della speranza universale di Follereau.

Nel mondo vi è un immenso giacimento di eutopia da svelare. La speranza è un luogo del mondo abitato da tutti gli uomini ma spesso inesplorato, escluso concretamente dalla storia. La speranza è la guida di tutti i movimenti di libertà che avanzano verso il non-ancora-conscio, il non-ancora-divenuto. Quale speranza albergava nel cuore e nella mente del giovane giornalista Raoul Follereau nel suo fatidico viaggio in Africa che lo condusse a scoprire l’esistenza dei malati di lebbra? Speranze largamente individuali, desideri, attese, aspettative, pur nobili, di chi cerca la realizzazione nel suo lavoro.

Ma cosa accade nell’incontro con i malati di lebbra? Si accende, quasi a sua insaputa, la fiamma della vera speranza, quella che ci è data per gli altri. Ed essa continua ad ardere in silenzio finchè Follereau non viene accolto, nel 1939, in un convento di suore alla periferia di Lione, per sfuggire ai nazisti. Lì madre Eugenia, di ritorno dalla Costa d’Avorio, dove ha visto con rabbia e dolore i malati di lebbra, gli parla della cittadella che vuole realizzare per accoglierli al posto dell’isola Désirée, vero e proprio cimitero vivente dei malati di lebbra nella laguna di Abidjan. La fiamma della speranza riceve nuovi ceppi da

ardere, Follereau inizia a fare conferenze per raccogliere fondi. Inizia la battaglia della lebbra, fondata su continui messaggi di speranza. E più la battaglia si presenta come universale, più l’anima del giornalista diventa essa stessa universale. Via via, l’esperienza di Raoul e di sua moglie Madeleine diventa un’esperienza della speranza universale, capace di mobilitare milioni di persone e di proiettarsi nel tempo, oltre le loro vite, come profezia dell’eutopia realizzabile.

8. Imparare a sperare.

Dice il filosofo Ernst Bloch nel suo monumentale lavoro “Il principio speranza”: “L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire (..), e cerca nel mondo stesso quel che può aiutare il mondo; e lo si può trovare”. I sogni ad occhi aperti di chi non rinuncia, contengono nel nocciolo la speranza che è insegnabile, specie attraverso le esperienze e le buone pratiche della speranza. Poiché la mancanza di speranza è intollerabile, tutti la predicano, rinchiudendola nella pura interiorità o rinviandola consolatoriamente nell’aldilà: occorre invece farne esperienza.

Nell’epoca della frammentazione post-

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moderna e del disincantamento del mondo, in cui il nichilismo recide e svuota di senso le relazioni umane, la speranza rimane il filo invisibile che tesse e ritesse, con infinita pazienza, la tela dell’umanità.

Siamo dentro una mutazione antropologica che stenta a cogliere la vocazione e l’apertura infinita della persona eppure sono innumerevoli le tracce di un modo nuovo di porsi dinanzi al futuro. Se ben illuminate, le tracce collettive in ogni parte del mondo, le tracce individuali attorno a ognuno di noi e le tracce riscontrabili dentro ognuno di noi, si mostrano come uno sterminato giacimento di esperienze di speranza. Nessuna di esse, anche quando sia stata schiacciata dalla violenza, sfigurata dall’ignoranza o svalutata dalla fredda razionalità calcolante, va mai perduta.

Come sosteneva Che Guevara, di cui qui assumo essenzialmente la passione per i popoli oppressi, “le battaglie non si perdono, si vincono sempre”.

Le esperienze di speranza sono diversissime tra loro. Una di queste fu, nel 2002, la nascita della casa editrice cilena “Crediamo ancora nei sogni”. Così si espresse, nel discorso di presentazione alla Biblioteca Nazionale di Santiago del Cile, lo scrittore Luis Sepùlveda, che durante la dittatura di Pinochet era stato esule: ”Sogno, non m’importa se una certa

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UBUNTU visione del lucro come unico traguardo dell’uomo stigmatizza i sogni e i sognatori.

Mi considero un sognatore, ho pagato un prezzo abbastanza alto per i miei sogni, ma sono così belli, così pieni e intensi, che ogni volta tornerei da capo a pagarlo.

Credo che non ci sia sogno più bello di un mondo dove il pilastro fondamentale dell’esistenza è la fratellanza, dove i rapporti umani sono basati sulla solidarietà, un mondo in cui siamo tutti d’accordo sulla necessità della giustizia sociale e ci comportiamo di conseguenza. I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi, resistenti, e si antepongono all’orrore dell’incubo dittatoriale (…) Ho molto mondo, molta strada dietro le spalle, e in tutti i posti in cui sono stato ho scoperto le tracce di tanti sognatori come noi, oppure ho incontrato donne e uomini che sono una sorta di prolungamento dei nostri sogni, perché anche noi sogniamo i loro”.

C’è un artista cinese, Liu Bolin, che realizza fotografie di diversi ambienti urbani e naturali della Cina dipingendo se stesso, il suo corpo, come parte dell’immagine. Lui, l’uomo invisibile-visibile delle fotografie, rappresenta la protesta contro la censura di Stato, rappresenta la speranza che l’essere umano non debba essere culturalmente o eticamente mutilato, non debba camuffarsi per potersi esprimere. Un altro grande cinese, l’intellettuale Liu Xiao Bo, premio Nobel per la pace del 2010, è attualmente in carcere e vi resterà fino al 2020. Nessuno, neppure un suo familiare, ha ottenuto l’autorizzazione a recarsi ad Oslo per ritirare medaglia e attestato che, durante la cerimonia, sono stati posti su una sedia vuota. Condannato per il reato di incitamento alla sovversione del potere dello stato, Liu Xiao Bo incarna la speranza di cambiare il sistema politico attraverso il cambiamento sociale nonviolento.

“La grandezza della resistenza non violenta risiede nel fatto che, nel momento in cui l’umanità deve confrontarsi con la tirannia e con i suoi tormenti, la vittima – diversamente da come ci si aspetterebbe – risponde all’odio con l’amore, al pregiudizio con la tolleranza, all’arroganza con la modestia, all’umiliazione con la dignità, alla violenza con la razionalità (…) per superare il circolo vizioso del rispondere alla violenza con la violenza”.

E aggiunge ancora, per chiarire i passaggi concreti di tale atteggiamento eutopico: “Non è necessario che il movimento non violento di difesa dei diritti miri a cambiamenti epocali, ma bisogna che si sforzi di mettere in pratica la libertà nella vita quotidiana con azioni di tutela dei diritti civili, con l’espressione di opinioni e portando la luce della ragione nelle piccole

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cose della vita; che accresca le risorse di moralità, di giustizia e organizzazione nonché esperienza e abilità di lotta della gente comune, continuando ad accogliere ogni richiesta di tutela di diritti. (…) Ogni individuo deve lottare tenacemente per vivere da uomo libero…”.

9. Attraversare la speranza.

Il male guarda chi opera il bene sogghignando. Sa di risultare spesso più credibile e di venire frequentemente più creduto del bene. Come mai accada questo lo ha ben spiegato il sociologo Franco Cassano nel suo testo “L’umiltà del male”. “Nella sua partita contro il bene, il male parte sempre con un netto vantaggio perché, avendo molta più confidenza del suo avversario con la fragilità dell’uomo, è più capace di volgerla a proprio favore. Il bene, invece, è così concentrato sullo scarto esistente tra la purezza esemplare del dover essere e le imperfezioni dell’essere, che finisce per sapere ben poco della debolezza dell’uomo e tale disattenzione lo conduce a giudizi sommari e spesso ingiusti”. Per affrontare il male occorrono certo le figure esemplari, ma non bastano i santi e gli eroi. Anzi, il loro modello, se non è mediato da altre, più umili o più strutturate esperienze, appare troppo distante e irraggiungibile dalla maggior parte delle persone. Al più alcuni possono proclamarlo, ma non certo realizzarlo.

Occorre, allora, un’etica che si congedi dalla presunzione, dall’illusione, dal narcisismo e dall’onnipotenza che non scalfiscono il male, lasciando alla sua mercè 7

l’uomo concreto. Occorre, anche, un’etica che sappia congedarsi dalla disperazione, dal nichilismo, dalla resa, dalla delega e dalla semplice attesa. Occorre attraversare concretamente la speranza, farne esperienza viva assieme agli altri, attraverso la pratica del dono, del volontariato e di ogni approccio umano di tipo solidale e cooperativo. Il dono, in particolare, come ha mostrato Marcel Mauss, è capace di istituire legami sociali, di ricucirli, di ricrearli. Il dono è dunque la speranza dell’altro. E’ sperando assieme agli altri che si impara ad erodere i territori e la presa del male. Sperare solo per se stessi o sperare senza agire significa non sperare per davvero. Sperare davvero è, allo stesso tempo, porsi nell’atteggiamento che Cicerone definiva di “attesa di un bene”, sentire la “passione del possibile” descritta da Kierkegaard, stare, come dice l’evangelista Luca, “con la cintura ai fianchi e le lucerne accese”. Sperare per davvero significa agire, con pazienza, con fiducia, con impegno, per anticipare un possibile che ancora appartiene al futuro.

Fare esperienza, experior in latino, deriva etimologicamente da un verbo greco che significa passare attraverso, superare una prova, acquisendo così competenza e perizia. Attraversando la speranza, diventiamo esperti di questa virtù silenziosa ed indomabile, capaci di trasfigurare da subito la realtà, anche nei suoi aspetti più tragici ed impietosi, offrendo a ognuno la prova che il bene che attende è già qui e che possiamo realizzarlo, almeno in parte, nonostante le nostre debolezze e le nostre

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10. Diventare speranza.

Al termine dell’opera “L’aggressività”, il fondatore dell’etologia, Konrad Lorenz, svolge una “Dichiarazione di speranza”.

Gli uomini, sostiene lo scienziato, possono impegnarsi nell’impresa di conoscere se stessi e i fattori che influenzano il loro comportamento, possono imparare a sublimare le loro pulsioni aggressive, possono promuovere “la conoscenza personale e, se possibile, l’amicizia fra membri di diverse teologie o nazioni”, possono aiutare i giovani “a trovare nel mondo moderno cause genuine che valga davvero la pena di servire”, sapendo che “l’unico e solo valore sicuro che può venire apprezzato indipendentemente dalla morale razionale o dall’educazione è il vincolo dell’amore umano e dell’amicizia”.

Nonostante le debolezze umane, per Lorenz “la ragione può e vorrà esercitare una pressione selettiva nella direzione giusta”. A sua volta, lo psicoanalista Erich Fromm, concludendo il voluminoso saggio “Anatomia della distruttività umana”, sottolinea l’ambiguità della speranza. Si può costruire un mondo dove nessuno si senta minacciato, dove non sia necessaria

la reazione di difesa aggressiva, argomenta Fromm, e anche le forme maligne di aggressione, come il sadismo e la necrofilia, non essendo innate, si possono sostanzialmente ridurre. Ma occorre guardarsi sia dall’ottimismo, forma alienata di fede razionale, che dal pessimismo, forma alienata di disperazione razionale. I pessimisti diffondono l’idea che non si può fare nulla, mentre gli ottimisti fanno credere che non c’è bisogno di fare nulla. In realtà, constata Fromm, prevale l’indifferenza totale. “Aver fede significa osare, pensare l’impensabile, ma agire entro i limiti di quel che è realisticamente possibile; è la speranza paradossale che venga il Messia, ogni giorno, senza perdersi d’animo se non viene all’ora giusta. Questa speranza non è né passiva né paziente; al contrario, è attiva e impaziente, e ricerca ogni possibilità di azione entro la sfera delle possibilità reali. Meno che mai è passiva per quanto riguarda la crescita e la liberazione individuale. (…) La situazione dell’umanità, oggi, è troppo seria per consentirci di dar retta ai demagoghi – soprattutto quelli che sono attratti dalla distruzione – o ai leader che usano soltanto il cervello, perché il loro cuore ormai

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si è indurito. Il pensiero critico e radicale darà i suoi frutti soltanto quando si unirà alla più preziosa qualità umana: l’amore per la vita”.

Nelle condizioni più estreme, dove le cose e la grazia sono immobili sotto un silenzio ghiacciato, si possono sempre incontrare, in luoghi desertificati, i paesaggi dell’anima, si può sempre cercare e trovare l’uomo, l’uomo deturpato, dimenticato, escluso, e sperare assieme a lui. Il silenzio della speranza a volte è la nostalgia di un’altra speranza rispetto a quella mondana, è una speranza contro ogni speranza che vive ancora perfino in chi ha pensato o tentato di porre fine alla sua vita. Tocca ad ognuno di noi non lasciare cadere la speranza, far sì che la sua sia soltanto un’eclissi temporanea, non lasciare che la casa dell’uomo resti oscura, far filtrare la luce e la leggerezza della dignità.

L’essere umano è speranza per l’uomo e diventare persona significa, in fondo, diventare speranza incarnata.

(*) Psichiatra, Consigliere AIFO

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Goreé 2011: ritorno verso l’umanità di Carlo Provenzano

“Bussate e vi sarà aperto”. È questa una delle tante declinazioni del comandamento dell’amore, caposaldo del messaggio di Cristo. Bussare. Ad una porta. Ossimoro per eccellenza. Bene lo sapevano gli antichi romani, che avevano eletto Giano, il dio bifronte, a nume tutelare della ianua.

La porta si può aprire e si può chiudere.

Si può aprire per accogliere nell’ambito familiare, dove ci può essere consolazione o castrazione dell’individuo; si può aprire per cacciare fuori dal nido, negando il conforto o rendendo la libertà al singolo.

L’apertura come segno di passaggio, di comunicazione tra due compartimenti, il dentro ed il fuori, noi e gli altri. La chiusura come barriera a questo transito, a questa libertà di mescolanza. Evoluzione contro mantenimento dello status quo.

La Maison des Esclaves di Gorée ne è rappresentazione perfetta: un quadrato di muratura, su un’isola appena al largo di Dakar, nel Senegal, all’estremo occidentale dell’Africa. In questo edificio dalla tin-

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ta sgargiante, un grande portone, rivolto ad est, al continente, da cui si vedono la costa ed il paesaggio della terra natia, la sicurezza del passato, che si apriva per far entrare coloro che fino a poco prima erano esseri liberi; una piccola porta, quasi una postierla, rivolta ad ovest, al mare oceano, da cui si vedono solo onde ed acqua a perdita d’occhio, l’insicurezza del futuro, che si apriva per espellere della merce, dei non-umani, gli schiavi. Tutto questo per tre secoli, trecento lunghi anni, un evento epocale che ha cambiato il volto di almeno due continenti, l’Africa e l’America. Da qui sono partiti a milioni, per un viaggio senza ritorno. Ma questo luogo-simbolo, oggi patrimonio dell’umanità, questa Auschwitz dell’Africa come è stata definita, lo scorso febbraio è stato teatro di un altro evento epocale: proprio da Gorée i discendenti di coloro che furono schiavi si sono fatti soggetti attivi di un cambiamento basato sulla tutela dei loro diritti con la presentazione della “Carta dei Diritti dei Mi9

granti”, che parte dallo slogan “Una Carta per un mondo senza muri”. Evento finale di un dibattito iniziato nel 2006 dai sans papiers di Marsiglia e continuato in questi anni nei vari continenti.

Qualcuno potrebbe obiettare che è l’ennesima carta dei diritti mondiali, che non aggiunge nulla di nuovo. Dimostrerebbe di non aver colto la sua caratteristica fondamentale, quella di essere stata scritta DAI migranti PER i migranti, l’unico progetto di scrittura collettiva a livello planetario. “Questo documento ha una particolarità che, prima ancora che dal suo contenuto, dipende dal modo in cui è stata costruita - spiega Cécile Kashetu Kyenge, portavoce nazionale della Rete ‘Primo Marzo’ –. Partendo cioè dal basso, dall’esperienza e dalla sensibilità di persone singole che hanno vissuto concretamente sulla loro pelle le problematiche relative all’emigrazione e che dunque sanno, proprio per averlo provato personalmente, di cosa si sta parlando. Questo

UBUNTU processo, muovere dai singoli per arrivare alle associazioni e alle ONG e quindi alle istituzioni, rappresenta il valore aggiunto della Carta, poiché mette realmente la persona al centro del percorso, Oggi più che mai, siamo tutti migranti, in atto o in potenza. Oggi davvero può capitare a tutti, per ragioni che vanno dalla ricerca di un lavoro alla necessità di sfuggire a un disastro ambientale, di dovere lasciare il proprio Paese. Pensiamo alla fuga dei cervelli dall’Italia ma anche a quello che sta accadendo in Giappone”.

1) L’uguaglianza dei diritti per coloro che vivono in uno stesso spazio geografico 2) L’esercizio di una piena cittadinanza va fondato sulla residenza e non sulla nazionalità “I migranti sono l’obiettivo delle politiche abusive “ afferma il preambolo della Carta. Queste sono politiche a scapito dei diritti universalmente riconosciuti ad ogni essere umano, imposte da sistemi che cercano di mantenere i privilegi dei pochi, sfruttando la forza lavoro dei migranti.

Ripenso ai respingimenti nel Mediterraneo, con la tragica conseguenza di migliaia di morti lungo il cammino, nel deserto o nel mare. E’ Gorée che si ripete. Ma non solo in Italia.

Ripenso alla drammatica situazione degli immigrati in Italia, usati come mano d’opera a basso prezzo e, quando non servono più, rispediti al mittente, come impone la legge Bossi-Fini.

LA CARTA DEI DIRITTI DEI MIGRANTI I migranti sono l’obiettivo delle politiche abusive. Queste, nonostante i diritti universalmente riconosciuti ad ogni essere umano, generano contrasti con gli esseri umani che tentano strategie discriminatorie, basate sulle appartenenze nazionali, religiose o etniche.

Tali criteri vengono adottati dai sistemi conservatori ed egemonici che cercano di mantenere i loro privilegi, sfruttando il lavoro fisico e intellettuale dei migranti. Tali sistemi usano le prerogative eccessive consentite dal potere arbitrario degli stati-nazione e dal sistema globale di dominazione.

I migranti sono privati in tutte le parti del mondo del pieno esercizio del loro diritto alla libertà di movimento e di residenza sul nostro pianeta. Sono privati dei loro diritti alla libertà e alla pace, così come dei loro diritti economici, sociali, politici e culturali.

Solo una grande alleanza di migranti può promuovere la creazione di nuovi diritti alla nascita per ogni persona, indipendentemente dalla loro origine, colore, sesso o credo. A tal fine, l’alleanza dei migranti si dovrà basare su principi etici che consentano ai migranti di contribuire alla costruzione di nuove politiche economiche e sociali, allo sviluppo di un nuovo concetto di territorialità e di sistema di governance globale diverso da quello attualmente dominante. Dovranno cambiare i fondamenti economici ed ideologici.

Ecco perché noi, migranti di tutto il mondo, sulla base dalle proposte ricevute a partire dal 2006 e dopo ampio dibattito su scala planetaria, adottiamo la presente Carta Mondiale dei Migranti.

Sulla base delle situazioni vissute dai migranti nel mondo, la nostra ambizione è di far valere il diritto per tutti di circolare e stabilire liberamente la propria residenza sul nostro pianeta e contribuire a costruire un mondo senza muri.

Per questo, noi, persone migranti che abbiamo lasciato la nostra regione o paese, per costrizione o di nostra spontanea volontà e che viviamo permanentemente o temporaneamente in un’altra parte del mondo, riunite il 3 e 4 febbraio 2011 sull’Isola di Gorée in Senegal, 10

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Ripenso al razzismo del Decreto Sicurezza del ministro Maroni, che impedisce a una immigrata che partorisce in ospedale in Italia di riconoscere il proprio figlio.

Ripenso alla (mai nata) legge-delega Amato-Ferrero, che doveva prevedere liste di collocamento all’estero, ingressi con lo sponsor, diritto di voto alle elezioni amministrative, rimpatrio volontario, accesso ai concorsi pubblici, superamento dei Cpt, via libera a colf e badanti.

“Se i nostri immigrati soffrono indicibilmente in Europa” grida Diouf durante il dibattito, “soffrono anche quando sono costretti a emigrare in altri paesi d’Africa, e diventa una catastrofe quando sono obbligati a migrare nei paesi nord-africani”. “È incredibile che questo avvenga proprio agli africani che,” come diceva uno dei partecipanti al Forum “sono stati in questi ultimi 500 anni deportati, come schiavi, colonizzati e schiacciati dall’imperialismo”.

Per Jelloul Ben Hamida, immigrato in Francia dalla Tunisia, oggi coordinatore della Carta, migrante è colui che ha conosciuto uno spostamento volontario o forzato e di conseguenza un cambiamen-

to; colui che ha l’identità sospesa tra due luoghi: un territorio d’origine e un territorio di accoglienza. Per Hamida l’adozione della Carta rappresenta un momento storico: “Gorée è un luogo carico di significati: è il simbolo della tratta, da qui parte la prima confisca dell’umanità e oggi si sono ritrovati i discendenti di coloro che furono schiavi o schiavisti per ridefinire la protezione dei diritti dei migranti e per costruire un mondo migliore senza muri. I migranti oggi non sono le vittime della crisi, ma i protagonisti di un cambiamento storico - continua Hamida - abbiamo iniziato a parlare della Carta a Marsiglia nel 2006 in 7-8 persone: oggi siamo qui a Dakar in duecento. Spero che il movimento diventerà sempre più numeroso intorno alla Carta. Ora è compito delle associazioni coinvolte appropriarsi dei contenuti e diffonderli organizzando manifestazioni e iniziative in tutto il mondo per renderla pubblica e raggiungere le istituzioni”.

NOI PROCLAMIAMO Poiché noi apparteniamo al pianeta Terra, tutti noi dobbiamo essere in grado di circolare e di stabilirci in qualsiasi parte del mondo.

Tutti dovrebbero essere in grado di muoversi liberamente dalla campagna alla città, dalla città alla campagna, da una provincia all’altra e da un paese ad un altro paese - qualsiasi esso sia.

Le leggi in materia di visti, autorizzazioni, approvazioni e tutte le altre leggi che limitano la libera circolazione e lo stanziamento dovrebbero essere abrogate.

I migranti del mondo dovrebbero godere degli stessi diritti dei gruppi nazionali e assumere le stesse responsabilità in tutti i settori chiave della vita economica, politica, culturale e sociale. Dovrebbero avere il diritto di voto e il diritto ad essere eletti in ogni organo legislativo. I migranti devono avere il diritto di parlare e condividere la loro lingua madre, per sviluppare e pubblicizzare le loro culture, i loro costumi tradizionali e praticare la propria religione.

I migranti devono avere lo stesso diritto ad esercitare un mestiere in qualsiasi parte del mondo vogliano, per partecipare agli scambi o aprire un’impresa, fare un lavoro manuale o meno, e qualsiasi professione consentita ai gruppi nazionali, in modo da permettere loro di assumersi la loro parte di responsabilità nella produzione di ricchezza necessaria per lo sviluppo e la realizzazione di tutti.

Il terreno deve essere diviso tra coloro che lo lavorano. Restrizioni alla proprietà della terra imposte per motivi etnici e/o nazionali dovrebbero essere abolite favorendo, invece, una nuova visione responsabile del rapporto tra l’uomo e la terra.

I migranti, così come i gruppi nazionali, devono essere uguali davanti alla legge. Nessuno dovrebbe essere imprigionato, deportato o limitato nella sua libertà senza che prima sia stata ascoltata e difesa la sua causa.

Ogni legge che prevede una distinzione basata sull’origine nazionale, stato civile e/o giuridico o le convinzioni personali deve essere abolita.

I diritti umani sono inalienabili e indivisibili e dovrebbero essere gli stessi per tutti. La legge deve garantire a tutti i migranti il diritto alla libertà di espressione, il diritto di organizzazione, il diritto alla libertà di riunione, il diritto di espressione, di culto e di dare ai figli l’educazione che preferiscono.

Il lavoro e la sicurezza devono essere garantiti a tutti i migranti. Tutti i lavoratori hanno diritto ad aderire ed a formare sindacati. I migranti devono ricevere parità di retribuzione per pari lavoro e avere la possibilità di trasferire i frutti del loro lavoro, senza alcuna restrizione, contribuendo al sistema di solidarietà necessario alla società dove risiedono.

L’accesso all’istruzione e alla formazione deve essere garantito per i migranti e per i loro figli. L’istruzione è gratuita, universale e uguale per tutti i bambini. L’istruzione superiore e la formazione tecnica dovrebbero essere accessibili a tutti sulla base di una nuova visione del dialogo tra le culture. Nella vita culturale, sportiva ed educativa dovrebbe essere abolita ogni distinzione che derivi dall’origine nazionale.

I migranti devono avere il diritto alla casa. Tutti dovrebbero avere il diritto ad abitare nel luogo di loro scelta, di vivere in un habitat dignitoso e mantenere la famiglia con comodità e sicurezza, così come i gruppi nazionali. I migranti aspirano alle stesse opportunità e agli stessi doveri dei gruppi nazionali, e insieme questi dovrebbero lottare per le sfide di oggi (alloggio, cibo, salute, servizi e altro).

Lo scopo dei principi enunciati nella Carta Mondiale dei Migranti è quello di contribuire alla scomparsa del regime dell’apartheid e l’avvento di un mondo pluralista, responsabile e premuroso.

Per maggiori informazioni: http://www.cmmigrants.org/goree

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Il viaggio eterno della vita di Erica Nicolardi (*)

Tutti i giorni, quando mi sveglio, la prima cosa che faccio è guardare fuori dalla finestra che si trova sopra il mio letto. La finestra della mia stanza guarda ad est, su una vallata verde sovrastata da un enorme arazzo di cielo su cui, ogni mattina, il sole dell’alba si esibisce con spettacoli multicolori, diversi a seconda delle condizioni metereologiche. Poiché siamo nella stagione delle piogge, il cielo non è mai completamente terso: imponenti banchi di nuvole sorvolano orgogliosi l’altopiano e, all’alba e al tramonto, si lasciano attraversare dai raggi del sole diventando, a seconda del loro umore quieto o temporalesco, di colore giallo, arancione, rosa, rosso, blu o grigio, e suscitando nello spettatore ammirazione e meraviglia.

Piccoli uccelli variopinti cinguettano sugli alberi più bassi, mentre rapaci solitari e cornacchie rumorose si contendono, litigiosi, il dominio della valle.

Persino le piante, gonfie di acqua e di sole, con la loro primavera di fiori e di colori, partecipano all’eterno inno alla vita che è l’incanto di questo luogo.

La giornata inizia. Anche gli uomini si svegliano e prendono ad affaccendarsi per sopravvivere un altro giorno.

Circondate da questo splendore, le mura dell’ospedale nascondono ben altri scenari. Qui dominano i toni opachi della sofferenza fisica e psicologica, della paura, della malattia, a volte, troppo spesso, della morte. Nonostante i muri dell’ospedale non siano massicci e le porte e finestre siano sempre aperte qui, nella maggior parte delle ore della mia giornata, non riesco a sentire il canto perpetuo della vita.

Penso che la caratteristica più saliente di questo posto sia la coesistenza armoniosa tra estrema bellezza, quella che richiama da lontano visitatori affascinati, ed estre-

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mo squallore, quello che nel nostro mondo a volte si proclama e a volte si preferisce tacere, a seconda di come conviene.

Mentre preparavo questo periodo di lavoro in Kenya, mi sono chiesta più volte perché ho deciso di partire ancora.

La prima volta che arrivi in Africa non hai aspettative, cerchi perlopiù di guardarti intorno per capire quali siano i problemi, quali criticità si possano superare.

Ti sembra che molte cose potrebbero migliorare con poco e quasi ti stupisci che nessuno l’abbia fatto prima.

Così, quando torni la seconda volta, metti in valigia i tuoi progetti e le tue speranze, fiducioso che, adesso che conosci la situazione, la tua presenza possa realmente cambiare qualcosa, seppur piccola.

Poi puntualmente, sbatti la testa contro un muro invisibile; in realtà era sempre stato lì, ma i tuoi occhi non erano stati abbastanza acuti da individuarlo.

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Il muro che ci separa dall’Africa è fatto da una storia millenaria di differenze ambientali, sociali e culturali e da una storia relativamente recente di colonialismo e sfruttamento.

Si dice che la vita umana abbia avuto origine nel continente africano, e che da qui gruppi di migranti abbiano viaggiato, per terra e per mare, per andare ad abitare terre lontane dove, sottoposti a pressioni ambientali diverse, sarebbero evoluti in razze diverse.

Quando poi l’uomo bianco e l’uomo nero si sono incontrati di nuovo, non ricordavano più né sospettavano di essere lontani parenti. L’uno ha pensato bene di sottomettere l’altro, privandolo dei propri affetti, dei propri beni e della propria dignità, tingendo così la propria pelle chiara in maniera indelebile di lacrime e sangue neri.

E’ forse per questo che, quando cammino per la loro strada, tutti si girano a guardarmi? Forse sulla mia pelle vedono l’alone delle lacrime dei loro nonni, l’ombra del colonialista, del predatore, dell’occupante?

Alcuni mi scrutano da lontano con sospetto, altri ridono, altri mi vengono incontro per salutarmi e stringermi la mano come

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si fa con i personaggi potenti, nella speranza che dalle mie tasche possa cadere qualcosa per loro. In casi come questi, a volte ho immaginato di tingermi la pelle di marrone per liberarmi della maschera che mi è stata da loro imposta e provare a guardarli negli occhi da donna a donna, da donna a uomo che vivono sotto lo stesso cielo, respirano la stessa aria, nascono e muoiono allo stesso modo.

Allora è questa la ragione per la quale partire per la terza volta per l’Africa: non riuscirò a cambiare le cose, né perderò la mia identità, ma permetterò che coloro che incrociano la mia strada lascino la loro orma dentro di me. Prenderò un po’ della loro allegria e della loro incoscienza nella vita quotidiana, della loro serenità nella povertà e nel dolore; rifletterò sui loro modi e sulle loro tradizioni; condividerò parte dei loro problemi. E, se vorranno, ascolteranno ciò che di diverso e di nuovo posso dire loro, prenderanno qualcosa dalla mia professione che, senza impegno, metto al loro servizio. Usciremo comunque reciprocamente arricchiti dall’incontro e, nonostante le difficoltà, troverò anche rapporti autentici di fiducia e di stima.

Sin dall’alba del mondo, gli uomini camminano per strade infinite per trovare del

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cibo, un lavoro, una casa, la famiglia, un amico, se stessi. Il viaggio è così lungo e così antico che non ci è dato distinguere il punto di partenza e la meta di arrivo, né la ragione ultima del nostro percorso.

Credo che l’importante sia non viaggiare mai a testa bassa e ricordarsi di rallentare e guardarsi intorno, condividere le proprie esperienze con gli altri viaggiatori, essere sempre pronti a considerare percorsi nuovi, compresi quelli che possono sembrare difficili e pericolosi.

Essere qui mi fa sentire più pienamente parte del viaggio della vita. (*) Medico volontario presso il Tabaka Mission Hospital, Kisii, Kenya.

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Progetto Etiopia TUTELA E PROMOZIONE SOCIALE DI DONNE E MINORI IN CONDIZIONI DI POVERTA’ ECONOMICA E VULNERABILITA’ SOCIALE AD ADDIS ABEBA E DURAME

Progetto mirante a promuovere interventi di sviluppo sociale integrato, orientati a valorizzare capacità e competenze tecniche locali, nonché a promuovere il riscatto sociale ed economico di soggetti appartenenti a categorie sociali vulnerabili sul territorio di Addis Abeba e Durame, investendo su ragazze-madri/mamme e giovani donne/uomini che registrano spiccata voglia di riscatto sociale, personale e familiare. Il progetto si basa su un programma di sviluppo economico locale nei settori di: a) sartoria e produzione/confezionamento di manufatti di lana/cotone; b) maglieria; c) falegnameria e lavorazione del bambù; d) ceramica e artigianato ad Addis Abeba e di: e) orticultura e avicultura a Durame.

Il progetto intende ripartire dalle donne e dai giovani per costruire un futuro che tenga uniti i nuclei familiari rafforzando in loro fiducia ed autostima. Il progetto, pone la propria centralità d’intervento nel settore del tessile, cogliendo la particolare caratteristica dell’Etiopia quale importante produttore di lana e pellame; nel settore del bambù, in quanto l’Etiopia è tra i principali produttori in Africa (albero dalle plurime applicazioni - artigianali, edili, d’arredo, oggettistica); infine, nella ceramica e nell’artigianato con l’utilizzo di materiale riciclato (carta, vetro e plastica) cercando di avviare un processo di sviluppo di un comparto economicamente nuovo e strategico in termini di educazione ambientale e sostenibile per la comunità locale urbana.

I beneficiari del progetto troveranno un sostegno reale con l’avvio di attività microimprenditoriali generatrici di reddito, per il loro sostentamento e per un’emancipazione sociale tanto desiderata e mai realizzata.

Le attività del progetto si realizzeranno: 1.ad Addis Abeba presso il centro “Nuovo Fiore”, un centro polivalente residenziale che offre servizi di promozione umana e sociale a circa 300 persone in condizioni socio-economiche particolarmente difficili; nel centro sono funzionanti: • Consultorio di Mediazione Familiare e Tutoring Minorile: • Assistenza per tutela e promozione umana e sociale di 20 minori di età 7-20 anni in casa-famiglia: • Ambulatorio pediatrico • Formazione professionale in “Falegnameria e Bambù” per 20 giovani ragazzi • Formazione professionale in “Ceramica & Artigianato” per 20 giovani ragazzi: • Formazione in “Sartoria” per 24 donne/mamme/ragazze-madri: • Formazione in “Maglieria” per 24 donne/mamme/ragazze-madri: 2. a Durame presso il Centro polivalente “Nordera”, un centro di promozione dell’infanzia e dell’adolescenza che accoglie circa 65 minori di età 0-15 anni in condizioni familiari di forte vulnerabilità economica e sociale, offrendo: • servizio di educazione scolastica; • servizio di sostegno psicologico-motivazionale; • servizio di assistenza medico-sanitaria; • iniziative di aggregazione sociale; • formazione professionale in orticoltura e allevamento avicolo a 40 donne organizzatesi in cooperativa agricola

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Scheda progetto

Addis Abeba • 2 case famiglia per 20 ragazzi/e (7-18 anni) (vitto, alloggio, istruzione scolastica, assistenza sanitaria, assistenza sociale): costo totale/anno 40.000 euro (1000 euro/anno/persona) • Sostegno a 140 ragazzi/e (7-18 anni) di famiglie bisognose: costo 350 euro/ anno/persona • Formazione professionale sartoria per 25 donne (20-50 anni): 1250 euro/anno/ persona • Formazione professionale falegnameria con bambù per 20 ragazzi (15-25 anni): 1000 euro/anno/persona Durame • Centro accoglienza per 65 bambini (1-15 anni): 700 euro/anno/bambino • Formazione orticultura e avicultura per 40 donne (20-50 anni): 350 euro/ anno/persona

Per versamenti c/c Banca Etica intestato a AUCI - IBAN: IT63 C050 1803 2000 0000 0126 381 c/c Poste Italiane intestato a AUCI - IBAN: IT21 Y076 0103 2000 0000 9627 068

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Il ruolo dell’università nella cooperazione allo sviluppo di Pasquale De Sole (*)

Nel breve tempo a disposizione cercherò di condividere qualche riflessione che può risultare utile all’approfondimento del rapporto università-cooperazione. Sono riflessioni, queste mie, che scaturiscono, da una parte, da un vissuto di vita universitaria trascorsa in “umile e silenzioso ascolto” della voce che sgorga dal nostro profondo, fin dalla nostra struttura biologica e molecolare, e, dall’altra, da un impegno attivo di servizio nell’AUCI, l’associazione di cooperazione internazionale che ha sede presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica.

Per quanto riguarda il rapporto università-cooperazione, penso che si possa affermare che si tratta di un rapporto costitutivo, essenziale, e non semplicemente temporaneo e accidentale. Che cosa è infatti l’università se non il luogo per eccellenza di apertura alla conoscenza, una conoscenza che sia il più possibile universale, capace di superare i limiti di ogni forma di conoscenza settoriale e particolare? L’istituzione universitaria è nata proprio dal bisogno, di studenti e docenti, di un’ampia apertura verso tutte le forme di conoscenza, in un approfondimento, continuo e senza limiti, della stessa.

Questo anelito verso la conoscenza piena ed universale si realizza però solo se si è capaci di un abbraccio universale dell’oggetto della conoscenza stessa. I due termini, conoscere e abbracciare posti l’uno insieme all’altro, vogliono esprimere la profondità della verità che afferma non esserci vera conoscenza se non c’è amore.

L’università nel suo essere luogo di massima apertura alla conoscenza, di ricerca del nuovo in tutti i campi del sapere umano, se vuole essere pienamente tale non può non essere luogo di amore universale.

La conoscenza non è vera conoscenza se non è coniugata con l’amore. Non si dà conoscenza fredda o neutra, o meglio se è presente con tale modalità si deve affermare che si tratta di una forma riduttiva di conoscenza.

Partendo da questa considerazione siamo necessariamente portati a considerare la necessità di una apertura di altra natura, di una apertura sul piano empatico che ci porta all’incontro personale, alla condivisione dei problemi dell’altro, fino all’amore nel suo grado più elevato.

Nella logica di questa esigenza insita nella natura dell’università, scaturisce necessariamente il “bisogno” di impegnarsi nella promozione dello sviluppo umano venendo incontro, con passione, alle necessità di tanti uomini e donne le cui condizioni di vita non sono ammissibili, per la loro e la nostra dignità.

Si dà quindi un passaggio logico strettissimo tra l’universalità della conoscenza, propria dell’università, e l’universalità dell’incontro con i bisogni reali, l’universalità dell’amore, che conduce fattivamente l’università stessa ad operare sul piano della cooperazione per lo sviluppo. L’uomo, infatti, che è il soggetto e l’oggetto “ultimo” della conoscenza, si presenta, nella concretezza storica, offeso e strumentalizzato con modalità tali che non possono lasciarci indifferenti ma, al contrario, ci spingono a mettere in atto le vaste capacità di analisi e le possibilità operative a nostra disposizione che ci permetterebbero di realizzare, in breve tempo, soluzioni adeguate e concrete. E’ questa simbiosi di conoscenza ed empatia, di mente e cuore, nei riguardi dell’uomo che fa sì che l’università raggiunga veramente la sua pienezza rispondendo così alla sua vocazione profonda.

Questo rapporto di conoscenza-amore, se è vero per l’università in quanto tale, assume una connotazione più impegnativa, da un punto di vista morale, per la nostra Università che prende il suo nome dal Sacro Cuore accentuando così, quasi plasticamente, l’esigenza dell’amore, valida per ogni istituzione universitaria.

Questa esigenza era ben presente nella mente del fondatore dell’Università Cattolica, padre Agostino Gemelli il quale, soprattutto in relazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, pensava ad una Facoltà medica da cui uscissero persone capaci di porsi in profonda empatia con il malato. In un suo scritto del 1958, insieme ad affermazioni oggi sicuramente datate, ribadisce il concetto della Facoltà di Medicina come luogo di cura di ogni sofferenza e palestra di formazione all’abbraccio di ogni malato. Abbraccio che viene evocato con riferimento ad una esperienza personale fatta nel corso del suo servizio militare allorché, giovane medico, si era trovato a curare un soldato di cavalleria devastato dalla tubercolosi; esperienza 16

che ha lasciato il segno nel giovane medico Edoardo Gemelli, il futuro padre Agostino Gemelli, che quarant’anni più tardi così scrive: “Alla visita serale di uno dei giorni seguenti, quel malato, un abruzzese semianalfabeta mi disse: <Senti, volontario (ero, come si soleva fare, allora, volontario d’un anno); io muoio lontano da tutti i miei. Se fosse qui mia mamma mi darebbe un bacio. Me lo vuoi dare tu?>. Confesso che nell’interno dell’anima ho combattuto una battaglia breve ma dura. Il malato era coperto di piaghe; ad ogni istante rovesciava. Io, che ero all’inizio del processo della mia conversione, mi sono detto: <Sei un vile; che cosa farebbe Gesù Cristo che è morto per gli uomini?> E abbracciai e baciai quel morente, sul cui volto apparve un sorriso, come un raggio di sole.” (A. Gemelli, Perché i cattolici italiani aspirano ad avere una Facoltà di Medicina, Vita e pensiero, 1958, XLI, pag.12) A questo proposito desidero riportare anche una testimonianza del giornalista Luca Liguori che nei primi anni ‘50 intervistò Albert Schweitzer a Lambarené; di fronte alla povertà dei mezzi con cui operava, da lui messa in evidenza, Schweitzer affermò categoricamente: “Quello che non posso fare con le mani, lo posso fare con l’amore” Conoscenza e amore, dunque, come due pilastri portanti sui quali si regge la solida costruzione dell’università la quale, senza uno dei due, sarebbe destinata, prima o poi, a collassarsi su se stessa.

Proprio per dare concretezza a questa vocazione all’abbraccio universale, nella seconda metà degli anni ‘70 un gruppo di operatori sanitari di questa Facoltà e Policlinico Universitario hanno deciso di costituire, con il pieno plauso dell’allora rettore il prof. Giuseppe Lazzati e degli Organi direttivi, un’associazione di cooperazione internazionale, l’AUCI, al fine di avere all’interno dell’Università uno strumento con il quale poter operare nel settore della cooperazione. Principale artefice e primo presidente dell’AUCI è stato il dr. Antonio Lucia il quale, proprio con il CUAMM, di cui ricordiamo il cinquantenario, aveva avuto una lunga esperienza in Africa.

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UBUNTU Nell’ottica della simbiosi di mente e cuore che deve caratterizzare il rapporto tra università e cooperazione, da una parte risalta il ruolo di guida svolto dall’università grazie proprio al suo insostituibile apporto di conoscenza e alla sua capacità di indirizzo e controllo; dall’altra, il mondo della cooperazione contribuisce a determinare all’interno della comunità universitaria un’apertura alla mondialità, dando spazio alle ricche potenzialità giovanili e contribuendo in maniera significativa al processo educativo della stessa università.

Nel mondo della cooperazione oramai non si può più procedere “a ruota libera” come era possibile alcuni decenni or sono: la cooperazione allo sviluppo presenta degli aspetti tecnici particolari e necessita pertanto di competenze specifiche; si deve essere capaci di seguire le regole dettate dai donatori (UE, Network di fondazioni europee, Fondazioni, Enti locali,...) i quali pongono gli obbiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare, obbiettivi che per lo più non rientrano, in quanto tali, tra gli scopi delle università le quali pertanto possono partecipare alla loro realizzazione attraverso la partecipazione di strutture a questo deputate (le Ong): è solo da questo scambio e fusione di competenze che si possono raggiungere le mete prefissate, i famosi Millennium Development Goals che, purtroppo, sembrano spostarsi

sempre più in là sulla linea dell’orizzonte.

Fortunatamente la necessità di unire “mente e cuore” nell’impegno per un approccio integrato alla soluzione dei gravi problemi che affliggono tanti paesi, si sta diffondendo; significativo a questo proposito è l’impegno di Bill Gates, fondatore della Microsoft, che ha devoluto la quasi totalità dei suoi proventi (circa il 95%) in una fondazione, la Bill&Melinda Foundation, impegnata per vincere lo scandalo della fame che ancora, come un flagello di altri tempi, affligge tanti esseri umani.

L’aspetto più interessante in questa decisione di alto valore filantropico è l’unione di una elevata capacità imprenditoriale (la “mente”) con un forte impegno umanitario (il “cuore”).

Termino ora con una piccola testimonianza e un augurio. La testimonianza riguarda il contributo dato dall’Auci, circa quindici anni fa, affinché nella nuova versione dello statuto dell’Università Cattolica, approvato nel 1996, venisse recepita l’istanza della cooperazione allo sviluppo, istanza espressa all’articolo 7 dello statuto che così recita: ART. 7 RAPPORTI DI COOPERAZIONE 1. …. L’Università Cattolica dedica particolare attenzione ai programmi di colla-

...che ognuno di noi sia capace di porsi come umile piolo in questa “scala di speranza” e di costituire l’anello mancante che troppo spesso interrompe la meravigliosa catena di amore che gli uomini sono chiamati a formare!

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borazione con i Paesi in via di sviluppo.

2. L’Università Cattolica può contribuire al sostegno di enti e associazioni, i cui fini istituzionali siano in armonia con i propri e instaurare con questi rapporti di collaborazione.

Naturalmente non basta avere una norma scritta nello statuto di una qualsiasi organizzazione affinché quanto sotteso nella norma venga realizzato, ma è indubbio che la presenza della norma diventa un binario che traccia il cammino che sicuramente prima o poi verrà percorso.

L’augurio lo riprendo utilizzando una immagine che vede l’Auci, con il volto di una sua volontaria, porsi come “umile piolo” in una “scala di speranza”, costituendo così l’anello mancante che troppo spesso interrompe la meravigliosa catena di amore che gli uomini sono chiamati a formare.

(*) Intervento svolto in occasione del COOPERATION DAY - Cooperazione sanitaria internazionale e aiuti umanitari Roma, 7 marzo 2012 Centro Congressi Europa, Sala Italia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma Largo Francesco Vito, 1 - Roma

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Pensare sognando Prospettive di Emanuele Bucci Continua a fissarmi. Cosa vuole da me? Se ne sta seduto lì, su quel tavolino di legno scuro in fondo alla locanda, e mi guarda.

Che cos’ha da guardare? Ogni volta che mi giro verso di lui, finge che sia una coincidenza, e sposta gli occhi da un’altra parte. Sfoglia le pagine del suo quadernino nero e si appunta qualcosa. Posata la penna, rilegge tutto dall’inizio mentre si arriccia i lunghi capelli scuri. Il volto asciugato dal tempo si perde in quelle piccole pagine come fossero la porta per entrare in un’altra locanda, molto più grande di questa. L’ho fatto di nuovo. Ho lavorato d’immaginazione. Devo smetterla!

Ho sempre avuto il vizio di sopravvalutare la realtà, di farle indossare gli abiti cuciti dalla mia fantasia. Ma per quanto mi sforzi, quegli abiti sono sempre troppo stretti o troppo larghi. E ogni volta la realtà delude le mie aspettative. Ora basta, voglio guardare le cose per quello che sono, senza costruirci niente attorno. Quel quadernino nero non è la porta verso un altro mondo, è il taccuino di un uomo dallo sguardo indiscreto, un uomo che non ha niente e nessuno da aspettare. A differenza di me. Io ho aspettato per anni, ed ho aspettato solo questo giorno. Lei mi ha dato appuntamento per oggi, proprio qui. In questa locanda, il luogo dove ci eravamo incontrati la prima volta. La vecchia locanda che sorge al centro della città dove siamo nati tutti e due. E’ come un grande albero secolare, questa locanda. Ha resistito agli anni, alle guerre. Ai cambiamenti vani e al sangue sparso in lotte fratricide, fra una regione e l’altra, fra una fazione l’altra di questo Paese. Un confine non ufficiale, scavato con le armi e riempito con le lacrime, un confine che ha spezzato in due questa città per troppo tempo. La locanda è rimasta qui, piantata con irriverenza proprio sulla linea di questo confine maledetto. E nonostante ciò, mai uno sparo, mai un’offesa hanno violato questo posto. Anche nei periodi in cui l’odio entrava dentro gli individui mischiato con l’aria che respiravano, questo posto restava un’oasi di quiete irreale, dove entrambe le etnie, quella dominante e impaurita come quella sottomessa e arrabbiata, si dimenticavano di ciò che li divideva, della guerra civile che infuriava oltre quelle pareti. La locanda è più antica della guerra, e alla guerra è sopravvissuta, intatta. Queste cose io non le ho viste con i miei occhi, me le ha raccontate lei nelle sue lettere. Ci eravamo conosciuti qui, pochi giorni prima che scoppiasse la guerra.

Qui, nell’unico posto dove due persone come noi, separate dalle barriere dei rancori e dei pregiudizi, dalle due diverse etnie di appartenenza, si sarebbero mai potute conoscere. Quando iniziò la guerra e io fuggii assieme alla mia famiglia, pensavo che non avrei più saputo nulla di lei. E invece, da allora, era venuta qui ogni volta che poteva, e da qui trovava il modo di farmi arrivare i suoi messaggi. E io trovavo il modo di risponderle.

Fino ad oggi. Oggi ci saremmo dovuti rivedere, finalmente.

Mi aveva dato appuntamento all’entrata della locanda, della nostra locanda. Ma lei non c’era. Ho aspettato, aspettato a lungo, e non c’era. Sono entrato dentro, mi sono seduto qui e ho continuato a tenere lo sguardo acceso come un faro verso la finestra aperta. Posso vedere chiunque si avvicini alla porta.

Ma non ho ancora visto lei. Ora il mio sguardo è calato verso il cerchio umido e incostante del bicchiere quasi completamente vuoto. Guardo l’immagine riflessa del mio volto, e non mi

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riconosco. Sembra che ogni passo fatto per venire qui abbia lasciato inciso su di me un segno in più, una macchia di stanchezza che si sarebbe cancellata solo quando l’avessi rivista.

Ma forse, dopo tutto questo tempo, non sono più in grado di riconoscere neanche lei.

“Signore, mi scusi…”, la voce che si solleva morbida di fronte a me è quella della proprietaria, una graziosa donna dal corpo minuto e dallo sguardo vivo e intelligente. “… Non vorrei disturbarla, ma è da parecchio che sta seduto qui. Davvero non vuole che le tenga libera una stanza?”

“No. Mi scusi, è… è che a volte mi aspetto troppo dalla realtà.

Cose troppo belle perché possano accadere davvero.”

“Perché dice questo?”, la donna si sporge verso di me e mi accarezza affettuosa la mano. “E’ strano che lei pensi questo proprio adesso. Consideri la guerra, per esempio. Nessuno credeva che sarebbe mai potuta finire, e invece eccoci qui!”

Sospiro a lungo, senza guardarla negli occhi. “Ma vede…

Proprio la persona che mi aveva dato speranza, mentre ero lontano da qui, ora non c’è. Credevo che l’avrei trovata ad aspettarmi, e invece… non è venuta.”

“Mi… mi dispiace. Ma vede, in queste cose è sempre una questione, come dire… di prospettive.”

“Prospettive?”

“Sì, insomma, dipende dal punto di vista. Non è questione di aspettarsi troppo dalla realtà. E’ che a volte siamo troppo fissati sul nostro punto di vista, e non vediamo quello degli altri.

Per esempio, non so… Lei esattamente dove aveva appuntamento con questa persona?”

“Ma qui, all’entrata della locanda!”. Mentre indico la porta alla mia sinistra, la donna assume un’espressione perplessa.

“Scusi un attimo” mi dice, “Ma non lo sa che questa locanda ha due entrate?” D’un tratto sento una voragine aprirsi nel mio petto. Spalanco gli occhi e mi guardo intorno confuso.

“Un’altra… entrata? Non avevo idea, ma… ma dov’è?”.

La donna solleva l’indice verso il fondo della locanda. “Vede quell’uomo laggiù, seduto con un quadernino nero? Accanto al suo tavolo c’è quello stretto corridoio. In fondo c’è l’altra entrata. Capisce cosa le stavo dicendo? Lei ha guardato tutto dal suo punto di vista. Questa locanda si trova fra due zone della città che per un sacco di tempo si sono fatte la guerra tra loro. Pensava davvero che tutti passassero dalla sua stessa entrata?”

La donna non ha ancora finito di parlare, che io sto già correndo verso il corridoio che conduce all’altra porta. Come ho potuto essere così cieco? Ho creduto che fosse mancata all’appuntamento, e invece lei, dall’altra parte, avrà pensato la stessa cosa. Probabilmente se ne sarà già andata, a quest’ora.

Ma forse, forse… c’è una speranza che sia ancora là fuori ad aspettarmi, c’è una… Un istante, fatale e affilato come un pugnale. Mentre svolto frenetico verso il corridoio, il mio piede inciampa su una gamba del tavolo occupato dall’uomo col quadernino nero. Rimango stordito per alcuni secondi, disteso a terra con le mani che toccano il pavimento freddo. No, non devo perdere tempo! Mi rialzo, attraverso il corridoio, apro la porta e… Eccola. Riesco appena a scorgerla, ma è lei. La vedo attraverso il vetro delle porte di un autobus su cui deve essere

Associazione Universitaria per la Cooperazione Internazionale

UBUNTU appena salita. E’ a una manciata di passi da me, ma l’autobus sta partendo. La chiamo, non mi sente, il rumore del motore copre la mia voce. Lei non guarda verso la locanda. C’è delusione, forse anche una punta di preoccupazione nei suoi occhi.

Siamo così vicini, e neanche lo sa. Devo raggiungerla. Ma l’autobus è già distante, il suo profilo già scomparso. Cado a terra in ginocchio, sconfortato. Il primo, beffardo pensiero che mi si presenta in testa è che avrei fatto in tempo, era questione di pochi secondi, se solo non avessi inciampato nel tavolino di quell’uomo che mi fissava. Quell’uomo… quell’uomo che neanche si rende conto di cosa è successo…

Posò la penna e tornò a osservare l’uomo seduto al bancone, davanti a lui. Aveva scelto un ottimo tavolo. Da quell’angolazione, poteva vedere sia la parte del pub che dava sulla porta principale, sia lo stretto corridoio alla sua sinistra che terminava sull’ingresso secondario. Seduta accanto a lui, Maria cominciò a rileggere le pagine del suo quadernino nero.

Dopo qualche minuto, ridacchiò compiaciuta. “Mmmh, graziosa donna dal corpo minuto e dagli occhi vivi e intelligenti…

Dunque io sarei la tua locandiera?” Lui la guardò con un sorriso e annuì.

“Ma secondo te quel tipo al bancone si rende conto che hai scritto un racconto su di lui?”

“Ma non l’ho scritto su di lui. Ho solo visto le cose dalla sua prospettiva, ricordi?” L’uomo al bancone si voltò di nuovo verso il loro tavolo, con lo stesso atteggiamento sospettoso e un po’ seccato del personaggio descritto nel quaderno. Maria continuò a leggere fino all’ultima pagina. “E finisce così?”, mormorò lei con una punta di delusione. L’altro la guardò perplesso.

“Perché? Non ti convince?”

“Sei stato un po’ cattivo, con il tuo protagonista. Perché non hai lasciato che si incontrassero?”

“Non mi piacciono questi lieti fini.”

“Ma non è un lieto fine, se ci pensi. Non sappiamo come sarà la vita di quei due dopo essersi rivisti, se riusciranno a vivere felici nel loro Paese, se continuerà ad esserci la pace. Ma alme-

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no… gli avresti lasciato una speranza in più.”

L’altro sospirò malinconicamente, proprio come il suo personaggio aveva sospirato di fronte alle parole della locandiera.

“La realtà non dà tutta questa speranza. E un buon racconto deve sempre trarre spunto dalla realtà.”

“Beh… Forse se ogni tanto la realtà traesse spunto dai nostri sogni, anziché i nostri sogni dalla realtà, il nostro mondo sarebbe un pochino migliore.” Dopo aver detto questo, Maria restituì all’altro il proprio quaderno. L’uomo di fronte a loro continuava a dialogare con il barista, lo scrittore e la sua amica potevano solo immaginare cosa si stessero dicendo.

D’un tratto, l’uomo al bancone si voltò stupefatto. Sgranò gli occhi in direzione del corridoio accanto al tavolo degli altri due. Questi si guardarono a vicenda meravigliati.

“Ma…”, balbettò Maria, “… non sta facendo come…”. Non ebbe neanche il tempo di finire la frase, che l’uomo di fronte a loro cominciò a correre, con lo sguardo rivolto verso l’imboccatura del corridoio. Lo scrittore ebbe una frazione di secondo per rendersi conto di quello sguardo. Ma ciò che vi scorse dentro, gli fece balenare un’inaspettata scintilla nella mente. Mentre il quaderno nero gli scivolava dalle mani, si rivolse di scatto a Maria. “Presto! Il tavolo!” Lei comprese al volo, ed entrambi spostarono il tavolo verso destra, il cuore che batteva veloce come i passi di quell’uomo. Fecero appena in tempo. Se avessero tardato di un solo istante, quell’uomo sarebbe senz’altro inciampato nella gamba del tavolino. Maria e lo scrittore rimasero immobili, con lo sguardo incollato verso l’altro uomo, che senza perdere tempo aveva attraversato il corridoio ed era uscito dal locale. Una folata di vento fece richiudere la porta un attimo dopo.

“Ma… ma… che abbiamo fatto?”, domandò Maria incredula, “E’… è stato un attimo… Santo cielo, non ci credo, quel tipo ha fatto proprio come il personaggio del tuo racconto… Ma, voglio dire, non potrà essere stato come… proprio come…”

L’altro continuò ad osservare la porta chiusa in fondo al corridoio, e sorrise. “Non lo so. Però…”, raccolse il quaderno e lo riappoggiò sul tavolo “… Però spero di sì.”

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Tam Tam Auci Ultimissime notizie

Una lettera dal Sud Kivu

Dal buio della notte congolese un messaggio di speranza nella certezza dell’auror di Teresina Caffi (*)

Da qualche giorno sono a Mulongwe, il popoloso quartiere di Uvira.

Cerco di capire lo stato d’animo della popolazione, mi dicono che è scoraggiata e delusa. “Forse il punto positivo delle elezioni – mi ha detto un uomo – è il fatto che la corruzione che regna da noi ora è sotto gli occhi della Comunità Internazionale”. Quest’ultima è quasi vista come un santo protettore, qualcuno nel cui ricorso sperare.

Intanto ci sono le sfide quotidiane. Un funzionario mi dice che non sono pagati da due mesi, ma chi ha a che fare con le tasse e con la gente si rifà. Per le scuole, si paga ancora regolarmente un contributo, il cui prezzo più basso è di tre dollari per le elementari e sei dollari per le superiori.

La gente – tolti i benestanti, alcuni dei quali non cessano di costruire a più piani – mangia una volta al giorno e male, la sera o anche la notte, perché anche qui a Uvira è ormai in uso il mercato della tarda sera, per quelli che fino ad allora non sono riusciti a mettere insieme un guadagno sufficiente.

Ieri sono uscita e sulla strada portavano al cimitero uno studente morto improvvisamente a scuola e stamattina ho incontrato il corteo che accompagnava una piccola bara avvolta da un drappo viola.

La gente sorride ancora, anche se ha davanti a sé un avvenire molto incerto. Una speranza viene da Kiliba, dove l’antico zuccherificio è ora gestito da Tanzaniani per il 51% e da Congolesi per il 49%. Tanti sperano di trovarvi un lavoro.

Per ora, stanno moltiplicando le piante di canna da zucchero.

Ciò che sembra una prigione che racchiude tutti è l’arrangiarsi a catena. Si tratta di un “sistema”, diceva l’altro giorno un professore di Mulongwe. I maestri e i professori esigono un contributo per integrare un salario di 50.000 FC per i maestri e respingono chi non paga. All’ospedale, se vuoi essere curato, devi pagare. Ora ai commercianti è stata imposta la “tassa sul valore aggiunto”, che si ripercuote sui prezzi. I funzionari dello Stato passano per le case esigendo, senza ricevuta, una tassa sulla casa. E se uno vuole sopravvivere, deve entrare nel “sistema”, anche lui deve esigere dove può esercitare un po’ di potere.

Eppure i miracoli ci sono. John da anni assiste i prigionieri della prigione centrale e sta lottando perché davvero arrivi loro il cibo che finalmente lo Stato ha loro destinato. Mama Salome, dopo la morte di una figlia handicappata, ha preso in casa un ragazzo anche lui con handicap. E tanti si donano gratuitamente nella pastorale o si espongono per la giustizia.

C’è un po’ più di sicurezza sia nei quartieri (la gente sta fuori fino a tardi, magari per raggrupparsi attorno a un televisore per guardare un film o seguire il campionato della coppa d’Africa) che sui sentieri dei campi.

Così è la vita congolese: con le sue preoccupazioni e le sue gioie, i suoi scoraggiamenti e le sue speranze, ma con la certezza che la notte sempre cederà il passo all’aurora del giorno seguente.

Mulongwe – Uvira (Sud Kivu), 25 gennaio 2012 (*) Missionaria Saveriana Riprodotto dal Notiziario “Congo Attualità N. 142” del 20 Marzo 2012 della Rete Pace per il Congo (http://paceperilcongo.it)

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