Il Ragazzo Selvaggio

Euro 6,00 · Poste italiane SpA. Sped. in a.p. 70% - DCRB-Roma - Anno XXXI - nuova serie - Periodico bimestrale - n. 109

CINEMA, TELEVISIONE E LINGUAGGI MULTIMEDIALI NELLA SCUOLA

109 GENNAIO-FEBBRAIO 2015

Nelle parole di chi guarda Lo Hobbit Mommy Interstellar The Knick Pordenone, Roma, Bellinzona, Milano, Torino…

Jules e Jim La parola ai giurati

SOMMARIO E D ITO R IALE 01

E tu di che lavoro sei?

pagina 8 Mommy

Carlo Tagliabue

AT T U A L I T À

PRIMO PIANO 02

Nelle parole di chi guarda

Elio Girlanda 06

Lo Hobbit

Davide Di Giorgio

pagina 16 The Knick

FILM 08

Mommy

30

Marzia Gandolfi 10

Due giorni, una notte

31

Luisa Ceretto 12

Il mio amico Nanuk

Giancarlo Zappoli

Interstellar

32

Alessandro Leone 14

Torneranno i prati

Maria Grazia Roccato

I pinguini di Madagascar

Carla Delmiglio

Big Hero 6

Davide Di Giorgio

PANORAMA

F E S T I VA L / R A S S E G N E / S E M I N A R I 33 PORDENONE / Ricorrenze, celebrazioni, ricerca

Mariolina Gamba, Flavio Vergerio

37 AMSTERDAM / Laboratori in primo piano

Angela Mastrolonardo

38 ROMA / Dalla parte del pubblico

Elio Girlanda

40 BELLINZONA / Un puzzle di emozioni,

un’occasione per crescere

Mariolina Gamba

42 MILANO / Laboratori, proiezioni, eventi culturali

Anna Fellegara

44 TORINO / Torino 32

D. Di Giorgio, M. Gamba, M. Manca, F. Vergerio

49 FIRENZE / La trasfigurazione della realtà

pagina 10 Due giorni, una notte

Silvio Grasselli

50 ASSISI / Giuseppe Tornatore

The Knick

Mattia Nicoletti

S C H E DAR I O 18

Adieu au langage - Addio al linguaggio

Flavio Vergerio 19

Il sale della terra

Massimo Lechi 20

St. Vincent

Magic in the Moonlight

Francesca Savino 25

RUBRICHE 59

Marzia Gandolfi

62

In copertina:

Gemma Bovery di Anne Fontaine Francia 2014

64

Diplomacy - Una notte per salvare Parigi

Giuseppe Gariazzo 28

Il ragazzo invisibile

FILM SHARING/ The Interview Una storia di Natale LIBRI / La famiglia nei media audiovisivi

Flavio Vergerio

La sapienza

L’immagine mancante

DVD/ Chi conosce Glauber Rocha?

Silvio Grasselli 63

LIBRI / Il cinema di Terrence Malick

Alberto Pesce

Luisa Ceretto 27

EVENTI / François Truffaut, il regista che ci manca da trent’anni

Andrea Bettinelli

Massimo Causo 26

La parola ai giurati

Stefano Sguinzi

L’amore bugiardo - Gone Girl

Andreina Sirena 24

55

Se chiudo gli occhi non sono più qui

Leonardo Gregorio 23

Jules e Jim

Flavio Vergerio

60

Fabio Mantegazza 22

51

Jimmy’s Hall - Una storia d’amore e libertà

Sara Marmifero 21

SCHEDE

PORTFOLIO

PANORAMA

TELEVISIONE 16

Fausto Mencacci

pagina 6 Lo Hobbit

64

LIBRI / Steven Spielberg

Alberto Pesce

Alessandra Montesanto 29

Melbourne

Cecilia M. Voi

pagina 14 Big Hero 6

pagina 12 Interstellar

E D ITO R IALE

I

Il 2015 si è aperto con dei dati quanto meno drammatici per quanto riguarda la disoccupazione giovanile: il 49.9 per cento dei giovani tra i 15 e 24 anni è senza lavoro. Un record funesto, forse mai raggiunto in tutta la storia dell’Italia repubblicana.

Accanto a tale dato, che richiede una soluzione di estrema urgenza, ne è emerso un altro più soft, apparentemente meno grave, i cui risvolti tuttavia potrebbero essere altrettanto inquietanti. Di fatto, da più parti - soprattutto all’estero - si è ipotizzato che tra non moltissimi anni i giovani verranno impiegati per dei lavori lontani dai loro curricula scolastici e, probabilmente, verranno inseriti in occupazioni del tutto nuove e ancora sconosciute. Paolo Mastrolilli, in un interessante articolo su tale argomento, ha ipotizzato addirittura una percentuale che recita: il 65 per cento dei giovani che frequentano oggi la scuola non sa quale lavoro andrà a svolgere una volta terminati gli studi.

E tu di che lavoro sei?

L’intrepido di Gianni Amelio, Italia 2013.

Il 21 ottobre 1984 moriva François Truffaut.

In quei giorni il Centro Studi Cinematografici decideva di dar vita a una rivista sui problemi educativi legati al cinema, alla televisione e ai linguaggi multimediali, che non a caso si decise di chiamare Il Ragazzo Selvaggio.

Tutti avevamo visto, presentato e discusso i film di Truffaut, molti lo avevano incontrato in varie occasioni. Conoscevamo la sua sensibilità e predilezione per la presenza dei bambini e degli adolescenti nel suo cinema, come il suo impegno in ambito critico e formativo.

Dallo scorso ottobre, a Parigi, la Cinémathèque Française, a 30 anni dalla scomparsa del regista, gli dedica una ricchissima mostra di cui rendiamo conto in un articolo di Marzia Gandolfi che ci piace segnalarvi in particolare.

Chiaramente, lo scenario che ci si prospetta richiederebbe una reimpostazione totale dei programmi scolastici, con l’inserimento di una prassi didattica basata su nuove materie di insegnamento; tra queste ultime non è difficile prevedere che la competenza nel saper maneggiare i nuovi media sarà una scelta prioritaria per qualificarsi professionalmente nel mondo del lavoro, il quale viaggia, ormai, con un indice di crescita sempre più celere; indice che ha acquistato sempre di più i caratteri di una sfida. Risulterà vincente chi sarà disposto ad accettare e ad adeguarsi a questa nuova conformazione del mondo del lavoro.

L’inizio di ogni anno, come sempre, si presenta accompagnato dalle previsioni astrologiche per tutti i segni dello zodiaco che ormai costituiscono uno dei caratteri marcanti di ogni persona. Alcune aziende addirittura sono arrivate ad assumere i dipendenti secondo il loro segno zodiacale; molti di noi, quando conoscono una persona, tra i dati che vogliono conoscere, c’è anche quello che risponde alla domanda: “Di che segno sei?”.

Non vorremmo che, come conseguenza del mutamento del panorama del mondo del lavoro giovanile a cui accennavamo, a tale domanda se ne aggiungesse un’altra: “E tu, di che lavoro sei?”. E non vorremmo poi che la figura professionale del giovane impiegato del futuro fosse quella del rimpiazzista, quella disegnata da Antonio Pane/Antonio Albanese nel film, dal vago sapore chapliniano, L’intrepido (2013) di Gianni Amelio: un uomo costretto dalla necessità a coprire i turni di lavoro di chi è momentaneamente assente, calandosi nei panni delle più diverse e disparate figure professionali.

Al di là, comunque, di ogni considerazione, il problema del lavoro giovanile è quanto mai serio. Accanto alla politica, crediamo che ancora una volta sia la scuola - attraverso gli strumenti che le devono essere dati dalla politica stessa - a essere chiamata a svolgere un compito fondamentale, essenziale, non da rimpiazzista.

Carlo Tagliabue

AT T U A L I T À P R I M O P I A N O

Nelle parole di chi guarda di ELIO GIRLANDA

Posso tradurre la descrizione del giardino in un’immagine dipinta, l’immagine in una descrizione.

LUDWIG WITTGENSTEIN, 1931

J

ack Marcus e Dina Delsanto sono professori in un liceo privato americano. Il primo, ex scrittore che insegna Letteratura, crede molto nel valore del linguaggio e nella scrittura di qualità; la seconda, anche pittrice astrattista ma affetta da artrite reumatoide, insegna Arte. I due vivono le proprie materie in modo diverso e opponente: per Dina le parole sono menzogne, per Jack le immagini sono illusioni. È questo il tema della commedia romantica Words and Pictures (Usa 2013) di Fred Schepisi, uscito in Italia recentemente, che mette in scena sub specie amoris una lotta eterna (vedi box).

Parola vs. immagine Milano, novembre 2014. In occasione dell’uscita del film di Schepisi gli allievi della Scuola Holden di Torino, in rappresentanza della parola, e quelli della Scuola di Visual Communication dell’Istituto Europeo di Design di Milano, in rappresentanza dell’immagine, si “scontrano” per stabilire la supremazia (ricorrente) chi della prima, chi della seconda, con l’aiuto di elaborati e creazioni. A presiedere il match è Stefano Zec-

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numero 109 · gennaio-febbraio 2015

Film e libri rimettono in scena la battaglia tra Parola e Immagine in un dibattito che guarda all’ibridazione tra Visuale e Letterario nei new media. chi, docente di estetica, disciplina super partes, che conclude l’evento con una lezione sul significato e la potenza dell’espressione attraverso la parola e l’immagine. La sfida tra parole e immagini non finisce ma prosegue sui social media per tutti, utilizzando gli hashtag #iostoconleparole e #iostoconleimmagini. La stessa sfida attraversa fin dagli inizi tutto il cinema nel rapporto con le arti visive e con la letteratura e la parola (prima recitata live dal bonimenteur, poi didascalia, infine suono con i dialoghi di sceneggiatori/ scrittori), contrappuntata dalle sperimentazioni e dalle provocazioni di avanguardie e nouvelles vagues, fino ai fenomeni recenti dei fumetti e dei graphic novel che ispirano film. Come avviene nelle opere d’autore fino ai più recenti Mike Leigh con Mr. Turner (Gran Bretagna, 2014), Mario Martone con Il giovane favoloso (Italia, 2014), Peter Jackson con Lo Hobbit - La battaglia delle cinque armate (Usa/Nuova Zelanda, 2014) che conclude la saga dei romanzi di Tolkien (vedi pagg. 6-7).

Anche l’ultimo Festival di Venezia ha registrato la tendenza generalizzata, che investe pure il cinema italiano (“La letteratura è un riferimento costante forte nel cinema contemporaneo”, come dichiarato dal direttore Alberto Barbera), dei film tratti o ispirati dai libri. Fino al riemergere, innovativo, di quel fenomeno che già negli Anni 20 vide la letteratura ispirarsi o lasciarsi trasformare dal cinema stesso (Scott Fitzgerald, Dos Passos e altri, fino agli scrittori/registi) e che, per esempio, caratterizza casi celebri come La dolce vita (1960) di Fellini che ebbe un influsso importante sui letterati italiani grazie alla sua struttura innovativa a blocchi.

“Un’immagine vale mille parole”. Quante volte ripetiamo questo detto? È una “teoria” che ha almeno un secolo di vita poiché risale agli anni in cui si comincia a parlare di pubblicità, giornalismo e illustrazione.

“Use a picture. It’s worth a thousand words” (“Usa un’immagine, vale mille parole”) appare per la prima volta nel 1911 su un quotidiano dell’editore Arthur Brisbane. Nel 1921 il manager pubblicitario americano Fred R. Barnard l’attribuisce (falsamente) a un proverbio cinese. Lo fa per promuovere l’uso di immagini pubblicitarie come cartellonistica da tram con la frase: “One Look Is Worth a Thousand Words” (“Uno sguardo vale mille parole”). In realtà, come ci ricordano Clotilde Bertoni, Massimo Fu-

NELLE PAROLE DI CHI GUARDA

sillo e Gianluigi Simonetti, co-autori del libro Nell’occhio di chi guarda. Scrittori e registi di fronte all’immagine (Donzelli, 2014), la battaglia tra parola e immagine si contende da sempre nella storia artistica e culturale, “talvolta creando interessanti sinergie, più spesso per contendersi l’egemonia estetica”. E ancora. “Se il noto motto di Orazio ut pictura poesis suggerisce un’equivalenza fra le due arti che spesso verranno definite sorelle, nel Settecento Lessing stabilirà invece con il Laocoonte una separazione netta: la letteratura è arte del tempo, e si basa sulla successione, mentre la pittura è arte dello spazio, e si basa sulla giustapposizione. Questa dicotomia animerà molte altre posizioni assai diverse ma caratterizzate da un analogo purismo, fino al pieno Novecento e alla teoria dell’astrattismo pittorico, con Verso un nuovo Laocoonte di Clement Greenberg” (p. XI). Il libro, Nell’occhio di chi guarda, infatti, interrogandosi sulla relazione tra visivo e scritto in un mondo classificato canonicamente come ‘civiltà dell’immagine’, presenta le risposte di alcuni scrittori e registi italiani che hanno scelto un’immagine (quadro, foto o film) e hanno costruito un testo letterario intorno alle suggestioni che essa induce.

Parola & immagine Oggi le arti multimediali (installazione, video arte, performance) si aggiungono a pittura, fotografia, cinema e tv, in una sinergia che vede anche la letteratura dopo la fine dei generi (dal graphic novel o romanzo a fumetti, come Dimentica il mio nome di Zerocalcare, fino al “libro totale”) cercare un nuovo dialogo o un vero interscambio come un doppio movimento tra parola scritta e figuratività. Si pensi al cinema d’autore, compreso quel-

lo italiano, che nei confini sempre più labili tra fiction e documentario o tra romanzo e saggio non solo è influenzato direttamente dalla letteratura ma, a sua volta, influenza o ispira gli stessi scrittori, creando la figura dello ‘spettatore-lettore’. È il caso di Gomorra, libro-film-serie tv-giornalismo, come di Romanzo criminale tratto dal romanzo omonimo o de La grande bellezza che ha germinato non solo titoli o slogan ma anche libri di cineturismo, e non solo. Si pensi alla letteratura mista, di ‘frontiera’, che rimescola non solo i generi ma le carte ‘fondamentali’, scritte e visive, oltre quella gerarchia che è ‘basilare’, perché “il mondo occidentale ha infatti privilegiato la parola come sede della cultura e della razionalità, lasciando all’immagine le connotazioni di naturalità e bellezza, le stesse attribuite al femminile, certo rilevanti ma sempre subordinate al potere sublime e dominante dell’eloquenza maschile” (Ibidem). È il caso del cinema di animazione (da Disney in poi) e del compositing digitale, come nelle opere videografiche e ipermediali di Peter Greenaway (Goltzius and the Pelican Company, 2012), come dei film diretti da videoartisti e artisti visivi (Shirin Neshat, Pipilotti Rist, Steve McQueen, Sam Taylor-Wood, Gordon Douglas ecc.) o fumettisti (Marjane Satrapi, Gipi ecc.), o tratti da graphic novel. Come Gemma Bovery di Anne Fontaine (vedi box), che ha inaugurato l’ultima edizione del Festival di Torino (vedi servizio alle pagine 44-48), dove la conturbante Gemma Bovery, nome molto simile all’eroina di Flaubert, incontra il panettiere di un villaggio della Normandia, appassionato di letteratura ottocentesca, che ne rimane affascinato e si reinventa come un clone del romanzo.

Anche perché Gemma è infedele al marito come la sua quasi omonima Emma Bovary.

Il paradigma digitale Ormai le nuove opere intertestuali provengono sia dal cinema di origine letteraria che dalla letteratura ‘ibrida’, e sempre più diventano pratiche culturali, come i festival, e artistiche, come accade con i new media. Questi testi si accompagnano a nuove teorie che provengono dalla ricerca scientifica, almeno da quando la cultura ha vissuto quei cambi di paradigma a cui sono stati dati i nomi di ‘svolta spaziale’ e ‘svolta pittorica’. “Gli studi visuali hanno puntato tutta la loro molteplice attività sulla culturalità dell’immagine, sempre analizzata attraverso l’insieme di sguardi soggettivi, dispositivi mediali, regimi visivi. Per quanto riguarda il rapporto con la parola, la teoria contemporanea sottolinea sempre di più il carattere misto e ibrido di ogni linguaggio artistico: esistono solo mixed media, sostiene uno degli studiosi più autorevoli in questo campo, W. J. T. Mitchell. Siamo dunque agli antipodi della separazione purista e classicista del Laocoonte di Lessing. Già nella memoria di ognuno di noi parola e immagine si intrecciano di continuo, così come si intrecciano narrazione e descrizione in ogni forma di rappresentazione, non solo in letteratura”. Così notano gli autori del libro succitato. La riflessione diventa più cogente se collegata al nostro tempo. ”Non è certo un caso che queste posizioni teoriche siano maturate in un’epoca come la nostra in cui la mistione dei linguaggi caratterizza ogni gesto della vita quotidiaA pagina 2 Words and Pictures di Fred Schepisi, Usa 2013.

Gemma Bovery di Anne Fontaine, Francia 2014.

In questa pagina dall’alto al basso Il giovane favoloso di Mario Martone, Italia 2014.

Mr. Turner di Mike Leigh, Gran Bretagna 2014.

A pagina 4 Goltzius and the Pelican Company di Peter Greenaway, Paesi Bassi/Gran Bretagna/Francia/Croazia 2012.

A pagina 5 La grande bellezza di Paolo Sorrentino, Italia/Francia 2013. numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PRIMO PIANO

na: possiamo allegare foto a ogni e-mail o sms, aggiungere immagini a ogni testo verbale che produciamo; più in generale tutto il web sembra per certi versi, paradossalmente, la realizzazione tecnologica di un’utopia concepita da Wagner e perseguita poi da tante avanguardie del Novecento: l’opera d’arte totale, che fonde in sé tutti i linguaggi espressivi” (op. cit., pp. XII-XIII).

Ecco il ‘libro totale’ di J. J. Abrams, il creatore della serie tv Lost, colui che ha fatto rinascere Star Trek e ora Star Wars. S. La nave di Teseo (Rizzoli, 2014), un libro-oggetto come non se n’erano mai visti, dalla carta finto antica, ricco di note, immagini, segreti. “Al centro dell’intreccio c’è il libro stesso

che nella finzione un uomo e una donna si sono passati a vicenda nella biblioteca in cui l’hanno trovato, lasciando scritti a margine del testo dei messaggi su quasi ogni pagina; e al loro dialogo si aggiungono reperti che il lettore pesca infilati qui e là, una cartolina dal Brasile, una mappa, un foglio dattiloscritto, una lettera. Un gioco? Un rebus?

Un puzzle? Non solo, perché arrivati in fondo la vicenda ha un senso, anzi un doppio o forse triplo senso (in perfetto stile Lost), capace di chiamare in causa l’amore, gli ideali, il significato dell’esistenza” (E. Franceschini, J. J. Abrams: dimenticate Lost. Ho creato il libro a più dimensioni, “La Repubblica”, 19 novembre 2014).

Accanto, c’è l’esempio di Melania Mazzucco con il libro Il museodel mondo(Einaudi, 2014), tratto dalla sua rubrica settimanale su un quotidiano per un anno. Cinquantadue celebri dipinti dall’antichità ai giorni nostri, provenienti dai cinque continenti,

Belle Arti e di Letteratura di alto livello, ma gli studenti sono disinteressati perché sono già stati accettati in un college. Jack fatica a catturare la loro attenzione; s’innesca una battaglia fatta di arguzia e d’intelligenza”, ricorda Di Pego.

Juliette Binoche (autrice dei quadri nel film) dichiara: “Dina non si rende conto che Jack la sta spingendo a dipingere, a essere un’artista, per rivelare se stessa. Non lo vede. La prende sul personale. A volte s’instaura una sorta di gioco tra le persone - un miscuglio di orgoglio, gioia, timidezza e sistemi di difesa - questa è la situazione nel film”. Aggiunge Schepisi, il regista australiano di Sei gradi di separazione e Plenty: “La sfida, quindi, riguarda il fatto che le parole non sono solo parole e la pittura non è solo decorativa e bella - c’è qualcosa di più profondo. Questa è la sfida degli attori, dei pittori e di chiunque altro lavori nell’ambito delle arti visive: come Words and Pictures: esprimere te stesso al di là del mezzo di espressione?”. La Una sfida scolastica scenografa Patrizia von Brandenstein precisa: “Le parole stimolano l’immaginazione in modo stupefacente, e i dipinti La sfida che i professori di Words and Pictures, interpretati da presenti nel film sono colorati e potenti, per cui abbiamo Clive Owen e Juliette Binoche, si lanciano a distanza (in realtà deciso di far risaltare questa dicotomia prediligendo toni un modo intellettuale per flirtare) coinvolge anche gli studenti. neutrali per il resto della scenografia”.

Quando alle loro classi giunge voce che gli altri studenti Il tema pedagogico sta nel fatto che la sfida, galvanizzando criticano quella forma d’insegnamento, Jack trasforma la insegnanti e studenti, ravviva l’ambiente critica in uno sprone per motivare ed scolastico e migliora l’offerta didattica, Regia: Fred Schepisi entusiasmare gli allievi, coinvolgendoli producendo idee inaspettate nei ragazzi. nella lotta tra arte visiva e parola scritta. Soggetto e Sceneggiatura: Gerald Di Pego Ancora Binoche: “Dina afferma che le Scenografia: Patrizia von Brandenstein “C’è una dicotomia tra immagine e parole sono ‘inganni’, ‘bugie’, ma possono Interpreti: C. Owen, J. Binoche, C. parola”, spiega lo sceneggiatore Gerald esserlo solo se lo si crede. Le parole sono Scheider, K.C. Tracy, B. Davison, …

Di Pego, ex insegnante, “noi cerchiamo uno strumento meraviglioso se si dice Origine: Usa 2014 di vedere come Jack sia appassionato qualcosa che si pensa realmente, ma non Distribuzione: Adler Entertainment alla scrittura e quanto Dina ami la sono immortali. Per Dina, la pittura fa Durata: 116’ pittura. Lo scontro è allo stesso tempo accedere a un mondo dove non esistono Dai 14 anni divertente e intenso, ma la vera lotta è ancora le parole. È una dimensione all’interno di questi due personaggi”. estremamente creativa, perché ti Jack escogita una geniale guerra tra parola e immagine, permette di percepire qualcosa che non è ancora stato detto. È fiducioso che la prima possa veicolare un significato più qualcosa che arriva prima della parola. Avviene lo stesso nella profondo rispetto alla seconda. Dina e i suoi studenti d’arte poesia, in cui troviamo un connubio di parole che insieme sono raccolgono la sfida di Jack e dei suoi studenti d’inglese. portatrici di un significato superiore; non si tratta infatti di uno La battaglia avrà così inizio, ambientata nella Croyden stimolo a livello intellettuale, bensì a livello sensoriale, ti fa Preparatory School, nel Maine. “Penso che l’istituto rappresenti sentire cosa vuol dire essere umano e vivere un’esperienza come alla perfezione le scuole private americane. Ci sono corsi di tale. È affascinante”.

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NELLE PAROLE DI CHI GUARDA

Gemma Bovery o del re-imagining Martin (Fabrice Luchini) è un parigino bohémien che si è “autoesiliato” come panettiere in un paesino della Normandia. Delle sue ambizioni giovanili gli resta una fervida immaginazione e una passione per la letteratura, in particolare le opere di Gustave Flaubert. La passione si risveglia quando una coppia di inglesi, dai nomi “familiari”, si trasferisce in un rustico vicino: Gemma (Gemma Arterton) e Charles Bovery. Persino i loro comportamenti sembrano imitare gli eroi di Madame Bovary. Martin fa di tutto perché la coppia non abbia lo stesso destino del libro, ma Gemma non ha letto i classici e intende vivere liberamente. “Io non sono Emma Bovery, io sono io”, dichiara la donna, rivendicando il proprio sé e il principio di realtà. Ma il panettiere si ostina a immaginare per lei vicende lontanissime e a viverle come se fossero vere. vita il romanzo davanti ai suoi occhi e nello stesso tempo lo La novità del film sta nel ribadire la forza dell’immaginazione, ricostruisce a sua misura: diventa lui stesso un personaggio così visionaria quanto ‘reale’. “Almeno letterario. Evapora qualsiasi riferimento Regia: Anne Fontaine per Martin, lettore accanito di romanzi diretto a Flaubert proprio man mano Soggetto: graphic novel di P. Simmonds che ci s’immerge in Flaubert”. e già innamorato dell’amore, che in Sceneggiatura: P. Bonitzer, A. Fontaine fondo non aspetta che un incontro, Tratto dal graphic novel della scrittriceInterpreti: F. Luchini, G. Arterton, J. un’altra, un (s)oggetto che si presti a illustratrice inglese Posy Simmonds, la Flemyng, I. Candelier, N. Schneider, … funzionare come tela sulla quale stessa di Tamara Drewe (2010) di Origine: Francia 2014 proiettare il proprio fantasma letterario.

Stephen Frears, il film è del filone di ‘reDistribuzione: Officine Ubu Gemma Bovery, inglese sul continente, imagining’ (forma di ‘ri-mediazione’) di Durata: 99’ è esattamente l’argilla con la quale personaggi cinematografici con un Dai 16 anni modellare l’eroina immaginata dal “doppio” di letteratura, teatro, fumetto proprio pre-sentimento. Un sentimento o televisione. Come Molière in precostituito nell’immaginario del bicicletta (2013) di Philippe Le Guay, interpretato sempre da protagonista che non può non contribuire a determinare la Luchini, che è l’epigono di una tradizione francese (Rohmer, forma stessa del suo sentire e che non può che renderlo Truffaut, Ozon ecc.). Si pensi, poi, all’antesignano Provaci prossimo alla Emma di Flaubert, più di quanto lo sia la Gemma ancora, Sam (1972) di Herbert Ross con Woody Allen, dove il dell’Arterton” (M. Gandolfi, www.mymovies.it). Aggiunge il gioco del “doppio” con l’eroe eponimo (Bogart) diventa narratore-voyeur Luchini: “È questa l’originalità del film: che motore non solo di continua immaginazione ma anche di vita non illustra Madame Bovary, ma moltiplica gli agganci tra amorosa per il protagonista. O a Ginger e Fred (1985) di Fellini fiction letteraria e fiction della realtà. La regista ha avuto dove la duplicazione del musical americano serve al cineasta l’accortezza di non affrontare Flaubert di petto, ma di farlo per confrontare la propria immaginazione con l’immaginario passare di contrabbando. Il mio personaggio guarda riprender collettivo degradato di marca televisiva.

sono narrativizzati e interpretati in una sorta di sinestesia letteraria che offre al lettore un museo immaginario di incontri, ricordi, folgorazioni o, addirittura, rivelazioni. Ecco riemergere un esercizio retorico antico, alme-

no da Omero (i riquadri di Efesto sullo scudo di Achille trasformati in scene quotidiane), in cui la letteratura incontra l’immagine: l’ekphrasis ovvero la descrizione di un’opera d’arte, che dai Greci arriva fino a noi, passando per la critica d’arte di Diderot e la letteratura fantastica settecentesca (con i quadri che diventano motore di narrazione), fino alla critica cinematografica. “Un esercizio arduo, che sfida i limiti della rappresentazione si presenta fin dalla sua nascita come un prodotto ibrido: oggi si direbbe un caso di ‘ri-mediazione’ (secondo la teoria omonima dei massmediologi americani Bolter e Grusin, ndr), passaggio da un medium all’altro (molto diffuso in epoca digitale), che lascia spazio a differenti dosaggi di racconto verbale e descrizione visuale” (op. cit., p. XIII).

È dunque tempo, nella sala cinematografica come in quella teatrale (dove si proietta l’ultimo Greenaway) e, meglio ancora, nelle biblioteche pubbliche o scolastiche, di far “re-incontrare” l’immaginazione letteraria con quella visiva, i registi con gli scrittori, gli spettatori con i lettori, alla ricerca di quel dialogo che può moltiplicare il significato del testo come il piacere di chi guarda. Così concludono gli autori del libro citato: “La parola dialoga con l’immagine anche attraverso la mediazione di altre parole, e questa mediazione non è mai abbellimento o fioritura gratuita, ma ulteriore complicazione del dialogo: l’arte, qualsiasi forma prenda, non è contrappeso consolatorio del disagio ma modo per esplorarne più in profondità le risonanze”.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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AT T U A L I T À P R I M O P I A N O | F I L M

PETER JACKSON

Lo H ob b it di DAVIDE DI GIORGIO

Un viaggio inaspettato La desolazione di Smaug La battaglia delle Cinque Armate

Il regista neozelandese ritorna nella Terra di Mezzo per un viaggio in tre parti che racconta la corruzione del potere già descritta da Tolkien e ora L’inizio della storia portata a un ambizioso livello successivo dal Dato alle stampe nel 1937, Lo Hobbit o La riconquista del tesoro (in Italia per Adeldesiderio di far prevalere dal 1973) è l’opera fondativa dell’uniun punto di vista personale phi verso fantastico creato dal professor John e autoriale.

Ronald Reuer Tolkien, poi ampliato e svi-

Titoli originali: The Hobbit: An Unexpected Journey/The Desolation of Smaug/The Battle of the Five Armies Regia: Peter Jackson Sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, Guillermo del Toro Fotografia: Andrew Lesnie Montaggio: Jabez Olssen Musica: Howard Shore Interpreti: M. Freeman, I. McKellen, R. Armitage, K. Stott, S. McCoy, E. Lilly, C. Lee, B. Cumberbatch, L. Evans, I. Holm Origine: Usa/Nuova Zelanda 2012/2013/2014 Distribuzione: Warner Bros Durata: 169’/161’/144’ Dai 12 anni

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numero 109 · gennaio-febbraio 2015

luppato nel 1954 attraverso la più nota epopea de Il Signore degli Anelli, fino a Il Silmarillion, opera postuma composta nel 1977 dal figlio Christopher assemblando appunti e materiali vergati dal padre nel corso degli anni, come base poetica per la definizione dell’intero regno di Arda e della Terra di Mezzo.

Come sempre accade con i prototipi, Lo Hobbit ha un tono molto diverso dall’epica filiata dalle grandi tradizioni fantastiche scandinave e anglosassoni tipica delle opere della maturità: il tono è colloquiale, lo scrittore spesso si rivolge al lettore in prima persona e la narrazione procede veloce e stringata. Volendo attuare una schematizzazione che vada al cuore stilistico dell’opera, Lo Hobbit ha più il sapore della fiaba, è orientato al piacere della narrazione generata dalla tradizione orale in quanto racconto di eventi fantastici in grado di creare affabulazione e meraviglia presso un pubblico prettamente infantile.

Al contrario, il respiro che caratterizza Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion, pur mantenendo il piacere per la creazione di regni e creature immaginarie, si fa più vicino alle grandi narrazioni epiche e al racconto storico vero e proprio, dove gli eventi pla-

smati si colorano di una patina di “realismo” in quanto testimonianza di uno spazio immaginato ma verosimile, guidato da tradizioni specifiche e fissato in eventi certi da personaggi leggendari di cui è possibile descrivere intere genealogie.

Quest’ultima direttrice è quella che ha guidato il regista Peter Jackson nella trasposizione cinematografica de Il Signore degli Anelli, prima ad arrivare al cinema fra il 2001 e il 2003, con grande consenso di pubblico. La riduzione de Lo Hobbit arriva invece a posteriori, dopo alcune traversie produttive che hanno visto infine lo stesso Jackson tornare alla guida del progetto e la divisione del racconto in tre parti, in luogo delle due inizialmente preventivate.

Un viaggio inaspettato Come già accaduto ne Il Signore degli Anelli, anche Lo Hobbit è il racconto di un viaggio compiuto da un’eterogenea compagnia, stavolta verso la riconquista del tesoro dei nani scacciati dalla montagna solitaria in seguito alla comparsa del drago Smaug. La caratura morale impressa dalla narrazione fiabesca del libro originale si ritrova nel tema della corruzione del potere prodotta dal tesoro nascosto nel ventre della montagna ai danni del capo dei nani Thorin Scudodiquercia: questi, infatti, nel corso della storia compirà l’intera parabola che lo porterà dal ruolo di eroe a quello di leader egoi-

PETER JACKSON

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LO HOBBIT

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UN VIAGGIO INASPETTATO

sta e sedotto dalle lusinghe della ricchezza. Educato secondo i dettami della religione cattolica, Tolkien è attento ai temi dell’etica e della corruzione in una società che volge al Secondo Conflitto Mondiale e Jackson coglie con saggezza lo spunto metaforico insito nella natura tentatrice e serpentiforme del drago, che rimanda alla primigenia corruzione dell’uomo nel giardino dell’Eden: non a caso, anche qui troviamo un “frutto proibito” (l’Arkengemma) che simboleggia l’intera ricchezza della montagna e il potere del re dei nani, e il drago continua a tormentare Thorin anche dopo la morte in quanto simbolo di una corruttela che si insinua sottopelle, costringendo il protagonista a un pesante travaglio interiore. In questo senso è interessante notare come lo hobbit, pur detenendo sin dal titolo la nomea di autentico protagonista, è nei fatti una figura più defilata: in lui Tolkien e Jackson non vedono la figura destinata all’evoluzione portata dal viaggio e dalle regole del “racconto di formazione”. Bilbo, infatti, resta nel complesso sempre fedele a se stesso, ma è propedeutico a mantenere un punto di vista sempre obiettivo rispetto agli eventi, in quanto rappresentante di quella logica “paterna” dei sani principi, tipica di una specie ben radicata nell’etica della fedeltà alla propria terra e al rapporto sano con la natura.

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LA DESOLAZIONE DI SMAUG

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LA BATTAGLIA DELLE CINQUE ARMATE

IL GIOVANE hobbit Bilbo Baggins SINOSSI viene contattato dallo stregone Gandalf per partecipare alla missione dei nani guidati da Thorin Scudodiquercia: dopo essere stati scacciati dalla loro Montagna Solitaria in seguito all’attacco del drago sputafuoco Smaug, i nani sono infatti decisi a riprendersela, ma per farlo hanno bisogno di uno scassinatore, ruolo in cui lo hobbit può essere utile, data la propensione della sua specie a passare inosservata. Nel corso del viaggio, Bilbo assisterà alla discesa di Thorin nell’ossessione per l’oro custodito nella montagna, e sarà decisivo per la distruzione portata dal risveglio di Smaug e la battaglia scatenata dalle forze oscure alle pendici della montagna.

La battaglia di Peter Jackson Il tentativo di restare fedele alla sostanza del racconto tolkieniano si unisce dunque alle ambizioni jacksoniane di traghettare Lo Hobbit al di là della semplicità del prototipo cartaceo, per renderlo invece omogeneo rispetto all’epica “storica” delle opere create dallo scrittore nella maturità. In tal senso Lo Hobbit non si vuole porre come operazione di riduzione cinematografica di un testo altrimenti considerato “infilmabile” (tale era stata per anni la nomea de Il Signore degli Anelli). Al contra-

rio, Jackson, ormai considerato ambasciatore cinematografico dell’opera scritta grazie al consenso ricevuto dagli estimatori di Tolkien, compie un tentativo di evoluzione del testo originario, attraverso una complessa opera di integrazione, ampliamento e personalizzazione. Integrazione perché la storia viene arricchita da robuste iniezioni di materiale prelevato da altre fonti tolkieniane (il già citato Il Silmarillion e, soprattutto, le appendici de Il Signore degli Anelli). Il senso di una simile scelta è dato dalla volontà di rendere più lineare il collegamento con gli eventi de Il Signore degli Anelli e in quest’ottica va inquadrata la presenza di personaggi assenti nel libro, ma già noti al pubblico grazie alla precedente trilogia cinematografica (gli elfi Legolas e Galadriel, lo stregone Saruman, fino al grande nemico Sauron). L’ampliamento è invece dato

dall’autentico “stiramento” narrativo in tre lungometraggi, che ha portato a una più ampia trattazione di eventi pure presenti nel libro, ma risolti in poche pagine: dal bellissimo confronto con il drago Smaug alla battaglia finale delle Cinque Armate. Il tono generale riflette queste scelte: il primo capitolo, Un viaggio inaspettato, è infatti più vicino alla cifra estatica e meravigliosa de Il Signore degli Anelli, con preziosismi di regia e movimenti della macchina da presa chiaramente diretti a esaltare lo sfondo offerto dalla Nuova Zelanda, prima ancora che il sapore dei singoli personaggi. Con i capitoli successivi, invece, si registra una cesura ritmica che dà luogo a racconti più concitati e vicini all’avventura fantasy che Jackson aveva già esplorato in King Kong.

Corruzione o rinascita L’autore neozelandese cerca quindi un affrancamento dalla fonte che gli permetta di descrivere uno spazio più personale e in tal senso vanno inquadrati anche gli innesti totalmente originali, come l’inserimento dell’elfa Tauriel e la sua storia d’amore con il nano Kili. Jackson cerca perciò la sintesi fra il suo sguardo autoriale e le direttrici narrative dell’opera tolkieniana affinché il suo lavoro sia riconosciuto come affine a quello dello scrittore al di là della posa in opera di forme: il suo intento è quello di essere riconosciuto come un creatore di mondi non soggetto a complessi di inferiorità. Una tale dinamica arricchisce quindi il viaggio di nuove sfumature che, come cerchi concentrici, si allargano alla dimensione autoriale ed esaltano la difficile dinamica della mitopoiesi. Si percepisce spesso un’autentica ansia da prestazione che connota le imprese altrimenti amene dei nani di una caratura più oscura e disperata, dove l’accumulo di creature e situazioni sembra riflettere il senso di impotenza di un autore ormai troppo legato a una realtà che sente propria e che cerca perciò di far valere come originale. L’Andata e ritorno dell’originale titolo del romanzo sintetizza proprio il viaggio di Jackson che, per immergersi totalmente nelle atmosfere della Terra di Mezzo, deve quindi imparare a disfarsene, esattamente come avviene con il suo vero protagonista Thorin, sotto gli occhi dell’innocenza garantiti da Bilbo. In questo senso, l’avventura è davvero simbolo di cambiamenti e maturazione per tutti i personaggi coinvolti.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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AT T U A L I T À F I L M

XAVIER DOLAN

M om m y di MARZIA GANDOLFI

Dal suo debutto a Cannes, dove ha condiviso il Premio della Giuria con Adieu au Vivo per lei (la mamma) Langage di Godard, Mommy non ha mai smesso Cinque film dopo non si esaurisce il didi ricevere consensi dal scorso di Xavier Dolan sulla madre, quella ‘uccisa’ idealmente al suo debutto (J’ai tué pubblico e dalla critica. ma mère) e quella pedinata oggi (Mommy) Immenso colpo al cuore lo dentro la provincia canadese e un tempo distopico. La storia è semplice: la relazione tra hanno definito a ragione, una madre vedova e un adolescente che a perché il quinto film di ragione della sua patologica iperattività nesXavier Dolan si ama senza suna istituzione scolastica vuole. Diane non è in fondo più stabile di Steve, alleato con riserve e con tutti i suoi madre e vicina contro il resto del mondo. Un difetti, proprio come una mondo ostile, incarnato da figure istituzionali, che non ne vuole sapere di loro, tropmamma, quella del titolo, incorniciata in 1:1, formato po sfortunati, villani, eccessivi, eccitabili.

Impetuosi come il loro regista, madre e adatto al ritratto ma figlio sono amati e contenuti da Kyla e da un formato 1:1 che li isola e isola la loro persoinnaturale perché non nale ricerca verso una vita ingrandita, vissuasseconda la visione umana. ta. E in una delle sequenze più belle sulle noEppure Dolan riesce a te di “Wonderwall” degli Oasis, è addirittura Steve a inseguire con lo skate il 16:9 e alincuriosire lo spettatore e largare le braccia e il formato quadrato fino a farne un luogo eccellente a inglobare tutto e tutta la vita possibile. La sua vita che in quel momento riprende a redi composizione. spirare. Ma è solo un attimo, un lirico interEstetica e umana. vallo che si ripeterà ancora una volta quando Diane sognerà per suo figlio un futuro impraticabile (diploma, matrimonio, paternità). Melodramma ‘al quadrato’ viscerale e visuale, Mommy riserva il formato ingrandito alla dimensione chimerica e assegna all’1:1 il deserto del reale e la divorante relazione tra madre e figlio. Per moderare la coppia Dolan introduce Kyla, elemento stabilizzatore che contagia ma finisce contagiata dalla tenerezza e dall’isteria, dal kitsch e dall’autenticità. Se al principio Kyla interviene a fermare i flussi d’amore demenziali di

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madre e figlio, alla fine lei stessa finisce per riscaldarsi e sciogliersi a contatto con questo binomio di fuoco.

Alla verbosità rapida e instancabile di Steve e Diane risponde poi l’afasia di Kyla, consumata e progressivamente guarita dall’amore, dalla musica a cascata, dai picchi di euforia. La deflagrazione verbale è inversamente proporzionale agli spazi, che a poco a poco si riducono e contraddicono il cinema precedente di Dolan, che ha sempre derivato la sua forza da una dinamica di dispersione. La prima e più evidente riduzione è quella del formato, un formato quadrato saturo del meglio e del peggio, di amore e di distruzione, di solidarietà e di odio, che tronca e sbilancia, che mette lo spettatore vis-à-vis coi protagonisti, con la nobil-

Regia, Soggetto, Sceneggiatura e Montaggio: Xavier Dolan Fotografia: André Turpin Musica: Eduardo Noya Interpreti: Anne Dorval Suzanne Clément, Antoine-Olivier Pilon, Patrick Huard, Michèle Lituac, Alexandre Goyette Origine: Canada 2014 Distribuzione: Good Films Durata: 139’ Dai 16 anni

XAVIER DOLAN

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MOMMY

tà del loro ritratto, col loro essere assoluti e col disagio di un’intimità violata. E quadrato è pure il taglio delle scatole, delle celle, degli spazi dove noi rinchiudiamo. E rinchiusi sono i personaggi di Mommy, separati dalle medesime ragioni che dovrebbero unirli, l’amore, l’amicizia, la partecipazione.

Inchiodati dentro un quadro quadrato, i protagonisti non dialogano più, i loro sono piuttosto monologhi al termine dei quali ci domandiamo se si ascoltano ancora.

Vivo per lei (la musica) Se il taglio dell’immagine incide profondamente sull’espressività e la dinamicità del soggetto, a Dolan riesce l’impossibile dentro un formato innaturale che ‘altera’ la composizione. Ma è proprio la composizione che Dolan mette in discussione, vincendo una scommessa con una proporzione che esaspera i rapporti di forza al centro del film.

Il coraggio formale di Dolan, il suo fregarsene costante delle regole, produce un’emotività dello sguardo senza pari nel cinema contemporaneo: la musica diegetica (quella che sente Steve) che diventa extradiegetica (quella che possiamo sentire solo noi), il quadro che si (e)stende a mostrare una parentesi di abbandono voluttuoso, di stordimento condiviso, il karaoke elettrico che divora nota dopo nota Steve di una gelosia ancestrale, selvaggia, distruttiva. Un (iper)sentimento che tracima gli argini e il quadro, consentendo al protagonista di vedere ai lati i suoi predatori e a noi spettatori di ritirarci o lasciarci sommergere dall’onda, dallo straripamento estetico di un autore libero, fruitore radicale di immagini, cresciuto nel mondo di YouTube.

Da questo momento il film, come i personaggi, dilaga incontenibile, chiedendo allo spettatore qualcosa che va oltre il coinvolgimento. Dolan reclama un’adesione febbrile a quei suoi eroi ammaccati, complessi e qualche volta deprecabili ma di una fragilità irriducibile che non concede distacco e ci impegna senza risparmio. Dolan li affida a noi, completamente, proprio come Steve si affida alla madre e la madre a Kyla, in un tourbillon che turbina battibecchi in levare, risate spanciate, canzoni urlate, silenzi assordanti che ingombrano il quadro, lo sollecitano, lo comprimono e poi lo detonano, avanzando verso il finale. Epilogo in cui Diane è sola nella casa un tempo stipata di emozioni, sola senza Steve, sola senza Kyla. La saturazione isterica e naïve di cui siamo stati spettatori, si rovescia adesso nel suo contrario, una solitudine greve, opprimente, una casa vuota svuotata di suoni e

di una canzone di Céline Dion che canta, una luce neutra che ha perso i colori virati ed elettrici di André Turpin. E in quel preciso momento comprendiamo la domanda di amore di Dolan. Sotto il pop, i popcorn e il juke-box, Mommy rivela un carattere sociale che, nel tempo in cui racconta l’amore struggente di madre e figlio, riflette sull’impatto della crisi economica sulle famiglie monoparentali e a basso reddito.

Dolan individua il disagio sociale, oggi farmacologizzato e domani, in un futuro distopico, magari ospedalizzato.

A questo serve l’amore, per questo amiamo Diane, al cui volto e al cui corpo lo sguardo del regista resta attaccato, riformulando la medesima equazione di J’ai tué ma mère, rimodellando una materia identica, e in parte autobiografica: il conflitto con la madre e l’affinità elettiva con un insegnante. Motivo esplicito o implicito (Les amours imaginaires), la relazione con la madre è uno dei no-

NELLA PERIFERIA di una città del Québec e dentro un futuro prossimo dov’è possibile per i genitori con figli problematici affidarli a ospedali psichiatrici, Diane Deprés prova a sbarcare il lunario e a far fronte all’irrequietezza di Steve, adolescente aggressivo che soffre di deficit di attenzione. Ingestibile e irruente, il ragazzo ama la madre sopra ogni cosa, litiga con lei furiosamente e altrettanto furiosamente fa pace con lei. Nel precario e strambo equilibrio si inserisce Kyla, insegnante in congedo sabbatico e vicina di casa che ha perso la voce e la gioia di vivere per un tragico evento.

GENTILE e composta, Kyla diventa parte della famiglia, ritrovando il sorriso e donandolo a Diane e Steve lanciati verso un epilogo drammatico.

SINOSSI

di drammatici di Laurence Anyways e Tom à la ferme, che Dolan fa esistere intensamente sullo schermo in un’alternanza di accelerazioni e ripiegamenti, di euforia e di cali di vento. La madre è ancora una volta interpretata da Anne Dorval, agitata da un’emotività estrema che le altera l’espressione e l’assimila (nell’angoscia) alla madre generosa di Patricia Arquette (Boyhood), dentro un film radicalmente diverso negli umori e nell’investimento del tempo. Boyhood abbraccia un tempo lunghissimo con pazienza e imperturbabilità, Mommy diversamente è concentrato e tumultuoso eppure procedono entrambi verso l’inesorabile e temuto momento della separazione dal figlio.

A rendere Mommy maggiormente struggente è tuttavia la graduale presa di coscienza dei protagonisti e degli spettatori che la relazione raccontata e le emozioni vissute sono soltanto una tregua fugace. Due ore e un quarto di amnistia da riempire con tutto l’amore possibile, con le immagini, i colori e gli istanti appassionati. L’impazienza dei personaggi è quella di Dolan, che non smette di vivere per lei, per quella mamma da prendere o lasciare, senza mezze misure o criterio, quella madre a cui Steve canta il suo sentimento dentro un karaoke e una serata difficile, in cui il ragazzo deve mandar giù le attenzioni pesanti di un pretendente influente nei confronti del suo genitore.

Vivo per lei, nella versione di Andrea Bocelli, consacrata alla musica, dice pure del grande amore di Dolan per le canzoni, in Mommy più irruenti e decisive che negli altri suoi film. Qui la musica è eredità di un padre morto troppo presto, lasciando a suo figlio una compilation su CD. Tracce di vita e di brani che diventano il motore di un’opera superlativa, che alza e abbassa il volume di uno stereo e di un tappeto musicale sporco e onnipresente, occupando con la voce di Craig Armstrong, Lana Del Rey, Céline Dion, Dido, Counting Crows, Oasis ogni spazio disponibile. Musica che si fa strada fino al finale, fino alla clinica dove Steve è rinchiuso, fino al primo piano che guarda in controcampo un punto di fuga in cui precipitarsi, mettendo in azione il frame stop immortale di François Truffaut (I quattrocento colpi). < numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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AT T U A L I T À F I L M

JEAN-PIERRE E LUC DARDENNE

Due giorni, una notte di LUISA CERETTO

Due giorni, una notte tesse l’elogio di una non performante che ritrova forza e coraggio grazie alla battaglia che decide di condurre con suo marito.

Un nuovo capitolo della filmografia di Jean-Pierre e Luc Dardenne, fautori di un cinema impegnato in campo sociale e civile.

Titolo originale: Deux jours, une nuit Regia: Jean-Pierre e Luc Dardenne Sceneggiatura: Jean-Pierre e Luc Dardenne Fotografia: Alain Marcoen Montaggio: Marie-Hélène Dozo Scenografia: Igor Gabriel Costumi: Maïra Ramedhan-Levi Interpreti: Marion Cotillard (Sandra), Fabrizio Rongione (Manu), Pili Groyne (Estelle), Simon Caudry (Maxime), Catherine Salée (Juliette), Baptiste Sornin (Mr. Dumont),Olivier Gourmet (Jean-Marc) Origine: Belgio/Francia/Italia 2014 Distribuzione: Bim Distribuzione Durata: 95’ Dai 14 anni

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ue giorni, una notte si inserisce nel filone di lungometraggi che ha la sua ragion d’essere in primo luogo nel valore documentale, di testimonianza, e in questo preciso caso, del mondo del lavoro e dei suoi protagonisti. Un universo che ha trovato infatti voce e volti in pellicole che via via ne hanno documentato rivendicazioni, conquiste e disfatte. Da questo punto di vista il cinema costituisce una sorta di storia parallela, uno speciale punto di vista dal quale osservare l’evoluzione dei costumi, una memoria collettiva del novecento e di questo primo decennio del ventunesimo secolo nelle sue evoluzioni o anche involuzioni, come sembra dimostrare il nuovo capitolo dell’opera di Jean-Pierre e Luc Dardenne.

Un cinema caratterizzato dalla forte impronta di impegno sociale e civile, dove i personaggi, costretti dalla concretezza di uno sguardo rivolto necessariamente sul presente, si confrontano e dibattono in una realtà problematica e conflittuale, vivono in uno spazio urbano testimone del graduale disfarsi del tessuto sociale, in cui crisi e disoccupazione costringono una parte sempre più ampia della popolazione all’arte dell’arrangiarsi e della sopravvivenza.

Dopo aver affrontato con Il matrimonio di Lorna il tema dell’immigrazione, i registi belgi tornano sulle problematiche connesse al mondo del lavoro, presenti fin

dal loro esordio, e in particolare, sullo sfruttamento della manodopera clandestina ne La promesse, sul lavoro minorile in Rosetta.

Il titolo, Due giorni, una notte, definisce il tempo che resta alla protagonista per intraprendere una corsa quasi senza speranza, un percorso a ostacoli, in cui non ci sono vincitori né vinti. Il film pone l’accento sulla prestazione del lavoro e l’istigazione alla competizione tra i dipendenti all’interno di un’azienda di dimensioni sufficientemente ridotte da non prevedere una rappresentanza sindacale, dove la scelta di licenziare la protagonista è, per così dire, lasciata ai propri colleghi che possono rinunciare a un premio per impedire che venga messa in atto tale decisione. Una situazione in cui emerge in tutta la sua evidenza che, per dirla con i registi, “l’assenza di una reazione collettiva, di una forma di lotta contro il principio alla base di questa votazione, dipende anche dalla mancanza di solidarietà tipica dei giorni nostri”. In una sorta di concorrenza costan-

JEAN PIERRE E LUC DARDENNE

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DUE GIORNI, UNA NOTTE

te, Sandra si trova costretta a confrontarsi con i suoi simili, a opporre le proprie ragioni a chi ne ha altrettante e del tutto condivisibili, perché dettate dalle ristrettezze economiche da cui è afflitto.

Non vi sono buoni o cattivi, il film rifugge qualsiasi manicheismo o presa di posizione. In tal senso, infatti, Due giorni, una notte va oltre il fine meramente documentale e punta invece sull’esemplarità della situazione, sottraendo i propri personaggi alla contingenza reale, dando loro spessore e inserendoli in una dimensione etica. La pellicola, come avviene in molto cinema dei Dardenne, è una sorta di storia di iniziazione per la sua protagonista che si esplicita in un percorso tanto fisico quanto mentale, che compone una mappa urbana dai confini precisi e delimitati. Una traiettoria che la costringe a far fronte alle proprie paure e insicurezze legate alla recente depressione di cui ha sofferto, che comprende il tragitto da casa verso le abitazioni dei suoi colleghi, quell’andare a bussare di porta in porta, irrompendo negli spazi privati altrui cercando di convincerli

a votare in suo favore o ancora verso il luogo di lavoro illuminato con luce al neon che ne esalta l’incarnato chiaro, la figura minuta, lo sguardo ferito, umiliato.

Un contesto urbano essenziale, ai bordi di un centro vitale, più simile a una città-dormitorio, un reticolo di strade che conducono ad abitazioni piuttosto periferiche e anonime. La cinepresa la segue in quel percorso, dai suoi momenti di caduta, di disperazione, di afflizione per il senso di inutilità che la perdita del lavoro sembra causarle, alla sua risalita, alla capacità di riprendersi e reagire, di ritrovare fiducia in sé e di riuscire perfino a essere di aiuto a una collega, che grazie a lei trova il coraggio di separarsi da un marito autoritario.

Con il rigore e la coerenza che contraddistinguono l’intera opera dei fratelli Dardenne, la scelta dei luoghi non è mai casuale, infatti prima ancora di girare, i due re-

gisti vi si recano per coglierne lo spirito, per “farli abitare”.

Un cinema di verità, risultato di una minuziosa ricerca, dall’attenzione nella scelta delle ambientazioni a quella degli interpreti, che si immedesimano perfettamente nei personaggi. Il lavoro preparatorio con gli attori rappresenta certamente uno degli elementi che caratteriz-

insieme ai fedelissimi Fabrizio Rongione (nei panni del tenace marito, Manu, che sostiene la giovane nella sua lotta infondendole fiducia e coraggio, un elemento di novità rappresentato dalla positività di una famiglia stabile e affidabile rispetto ai tanti genitori anaffettivi, problematici, per lo più assenti nel cinema dei Dardenne) e a Olivier Gourmet (a cui è riservato

SANDRA, giovane madre di due figli, ha appena saputo che l’azienda di pannelli solari presso cui lavora, ritenendola meno produttiva a seguito di una depressione da cui sembra invece essersi ripresa appieno, ha posto i suoi colleghi di fronte a una scelta difficile, ottenere un bonus di mille euro, oppure rinunciarvi, per evitare il licenziamento della stessa donna. La scelta è stata quasi unanime in favore del bonus.

GRAZIE AL sostegno di un’operaia e del marito, Manu, la donna non si lascia scoraggiare e affronta il datore di lavoro, raggiungendolo proprio mentre sta per uscire con l’auto dallo stabilimento, riuscendo così a ottenere la possibilità di votare nuovamente: il voto sarà segreto. È VENERDÌ pomeriggio, Sandra ha quindi il fine settimana a sua disposizione per tentare di convincere uno a uno gli operai a optare per la rinuncia al premio. C’è chi ha bisogno del premio perché la moglie sta per perdere a sua volta il lavoro, chi per i figli non riesce a farne a meno, chi si nega al citofono di casa e chi, invece, è dubbioso, ma poi accetta di aiutare la donna.

COL PASSARE delle ore, Sandra sembra trovare fiducia in sé, ma poi la riperde, fino a compiere un gesto disperato, salvo però riprendersi con l’aiuto del marito che la incoraggia a procedere nella sua battaglia.

IL LUNEDÌ mattina hanno luogo le votazioni, con un risultato di pareggio, otto contro la rinuncia del bonus e otto a favore, a Sandra non resta che raccogliere gli effetti personali dal proprio armadietto. Poco prima che esca dall’azienda, dopo essersi congedata dai suoi ex colleghi e aver ringraziato chi l’ha appoggiata, il datore di lavoro la richiama in ufficio e le propone un accordo che ritiene vantaggioso. Non potrà riassumerla subito, ma di lì a qualche mese, quando alcuni contratti a termine non verranno riconfermati. Comprendendo che il suo rientro significa per qualche altro operaio perdere a sua volta il posto di lavoro, Sandra preferisce rifiutare l’offerta e prendere congedo, con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta.

SINOSSI

zano la ricerca artistica di Jean-Pierre e Luc Dardenne, a partire dalla richiesta, come è avvenuto per Due giorni, una notte, e come del resto per diversi altri titoli, di girare le scene in successione temporale, per dar modo di prendere ancora più coscienza e “sentire” i loro personaggi.

Agli attori infatti, che li seguono nei sopralluoghi, chiedono di provare piccole azioni, piccoli gesti, per cogliere la “giusta nota”. E Marion Cotillard, che interpreta Sandra, l’ha inequivocabilmente trovata,

un cameo: è il caporeparto Jean-Marc), che dalle prime pellicole ne accompagnano il percorso registico.

E il risultato è visibile in ogni nuovo lungometraggio, anche in Due giorni, una notte, per quel magico equilibrio dove il contesto urbano è tutt’uno con i protagonisti della vicenda diventando esso stesso personaggio e dove la protagonista - in quel suo riacquistare forza, coraggio e dignità infonde una sensazione di ritrovata e autentica umanità.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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AT T U A L I T À F I L M

CHRISTOPHER NOLAN

Interstellar di ALESSANDRO LEONE

Con Interstellar Christopher Nolan e il fratello sceneggiatore Jonathan tornano sul tema a loro caro del tempo e dei suoi effetti su corpo e psiche. Il regista confeziona Terra: ultima chiamata un film di genere che non nasconde rimandi All’uscita di Interstellar si è scritto molconcettuali a Kubrick to del film come di un capolavoro mancato, tanto da spostare il focus dell’analisi proe Spielberg.

Regia: Christopher Nolan Sceneggiatura: Christopher Nolan e Jonathan Nolan Fotografia: Hoyte van Hoytema Montaggio: Lee Smith Musica: Hans Zimmer Interpreti: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Michael Caine, Casey Affleck, Jessica Chastain, Matt Damon, Wes Bentley Distribuzione: Warner Bros Origine: Usa/Gran Bretagna 2014 Durata: 168’ Dai 16 anni

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prio sui margini che ne avrebbero definito l’incompiutezza. Detto che il marchio Nolan ormai crea aspettative alte (e legittime) nello spettatore, nuocciono al film degli accostamenti ingiusti con Spielberg e Kubrick ad esempio, ma anche con i grandi narratori della science-fiction (da Welles a Dick), con cui i fratelli Nolan (Jonathan è il fido sceneggiatore di Christopher) condividono la passione per futuri plausibili, mondi extraterrestri probabili, teorie e meccaniche supportate da ipotesi non certo strampalate o frutto della sola fantasia (per Interstellar il riferimento è lo scienziato Kip Thorne).

I nuclei tematici intorno ai quali girano i Nolan continuano però costantemente a essere il tempo, in tutte le diverse accezioni (prioritaria però è la memoria individuale e collettiva), e le relazioni umane che il tempo descrive e trasforma. Mai estraneo l’approccio filosofico, il tema è diversamente trattato sulla base dell’adesione al cinema di genere. Ed è forse proprio la preoccupazione di percorrere alcuni dei topoi del viaggio di esplorazione spaziale a interferire con una scrittura che avrebbe meritato più libertà di sperimentazione narrativa.

Il punto di partenza non è propriamente originale, poiché Interstellar si presenta come un affresco abbozzato di un futuro pros-

simo venturo: una profezia che non sbaglieremo a definire illuminata e che produce un’ipotesi veritiera di Terra, una straziante verità su un pianeta ridotto alla polvere e disperatamente in cerca di domani. Nolan rievoca ancora una volta lo spettro della fine del mondo terrestre, mettendo semplicemente sullo schermo le conseguenza del riscaldamento globale e della mungitura delle risorse terrestri (suolo e sottosuolo). Pare di vedere un day-after o le zone immediatamente limitrofe a una catastrofe. Gli uomini sono impegnati a salvare ciò che rimane di una siccità perenne per tentare di preservare la vita. L’agricoltura è l’unico investimento possibile, il che produce una prima terrificante contraddizione, perché al testardo tentativo di fecondare la terra si oppone (anche visivamente) la consistenza farinosa della superficie “coltivabile”. Nel futuro prossimo dei Nolan il pianeta è una prigione e le giornate un conto alla rovescia verso l’epilogo dell’avventura della razza umana; il presente racconta co-

CHRISTOPHER NOLAN

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INTERSTELLAR

stantemente dei tentativi di elaborare la resa e al tempo stesso di respingere (ma forse di rimuovere) la fine prossima. La vita quindi scorre come se quella dei giovani rappresentati non fosse l’ultima generazione.

Bruciare il tempo Nel contenitore delle cose rimosse c’è lo Spazio e le domande che ha sempre posto agli uomini, i suoi concetti non addomesticabili di infinito ed eterno, i misteri sull’origine della vita. Assodato che nessun astronauta ha mai messo piede sulla Luna, la Nasa esiste come società segreta i cui adepti professano il “culto” per un aldilà dallo spazio esplorato, che dovrebbe, nelle più rosee aspettative, assicurare la sopravvivenza della specie. Il warmhole diventa una soglia iniziatica che frena il flusso del tempo e apre a nuove esperienze sensoriali e visioni di futuri possibili.

Cooper in questo contesto funziona come perfetto eroe dei due mondi; curioso esploratore dell’ignoto, rincorre il proprio sogno di astronauta incompiuto, sacrificando quanto di più caro possiede (due figli) per un bene superiore (trovare un pianeta vivo da colonizzare). Chiamato all’avventura come Luke Skywalker, per Cooper si tratta di lasciare però un mondo originario già ampiamente costruito intorno alla propria paternità (anche se pervaso da un senso di inadeguatezza). Acquisiti l’equipaggiamento e gli strumenti utili al viaggio dal mago professor Brand, definiti i compagni, identificato l’obiettivo, il vero antagonista diventa il tempo stesso, il suo scorrere lentissimo sui e nei corpi dei naviganti, mentre sulla Terra si divora l’infanzia e l’adolescenza di Tom e Murph, a cui Cooper aveva promesso un ritorno sicuro. I messaggi in video che arrivano da casa si trasformano in una commovente cronaca filmata di ciò che è andato per sempre, un racconto fuoricampo di un progressivo invecchiamento che la mente di Cooper, ma anche di Amelia (in lacrime di fronte al padre anziano), non riescono ad armonizzare con lo

IN UN FUTURO molto prossimo i cambiamenti SINOSSI climatici hanno reso completamente arido il pianeta Terra. La sabbia copre gran parte della superficie e gli spazi abitabili si sono ridotti. Vanamente gli uomini sono impegnati in attività agricole e, preoccupati per una possibile fine imminente della vita, hanno cancellato dall’orizzonte ogni propensione alla ricerca scientifica che non sia finalizzata alla sopravvivenza. Tra i finanziamenti tagliati spicca il pensionamento della Nasa. Nelle scuole la storia nega perfino l’allunaggio.

Casualmente però l’ex astronauta Cooper scopre che l’ente spaziale ancora esiste e sta lavorando su un progetto ambizioso: trovare mondi adatti alla vita da colonizzare. Per fare questo la Nasa ha già inviato equipaggi di astronauti che hanno attraversato un warmhole (sorta di buco nero che collega dimensioni spazio-temporali diverse), puntando su pianeti simili al nostro per densità e distanza da altri soli.

COOPER, che sente di essere predestinato all’esplorazione spaziale e che non ha mai viaggiato su un modulo shuttle, accetta la sfida del professor Brand sapendo che dovrà lasciare al suocero i due figli, Tom e Murph. In particolare quest’ultima, indiretta responsabile del contatto tra il padre e Brand, non si dà pace della prossima partenza del genitore verso l’ignoto.

COOPER parte con altri tre astronauti tra cui Amelia, la figlia del professor Brand.

Attraversato il warmhole, scelgono di atterrare in uno dei due pianeti su cui è più probabile trovare condizioni di vita adeguate, seguendo le indicazioni di un equipaggio che li aveva preceduti. Mentre sulla Terra il tempo scorre più velocemente, per cui i figli di Cooper sono ormai adulti, gli astronauti scoprono che il nuovo pianeta non è il mondo ospitale immaginato. Una serie di avversità costeranno la vita a metà equipaggio. Cooper metterà in salvo Amelia e se stesso, solo dopo una serie di passaggi dimensionali, tornando sulla Terra solo per salutare la figlia ormai anziana e morente.

scorrere delle ore nello spazio profondo.

Cooper si ritrova improvvisamente ad avere la stessa età di Murph, certo che la figlia arriverà alla vecchiaia in poco meno di un anno nello spazio.

L’avventurosa ricerca di futuro allora produce una corsa contro il tempo costantemente interrotta dalle variabili dell’ignoto, fino allo svelamento di un primo inganno (l’astronauta in sospensione criogenica aveva inviato indicazioni fasulle sul pianeta ospitante, in realtà ghiacciato) e su un secondo ancora più atroce: l’impossibilità di fare ritorno a casa nel tempo di una vita terrestre, come invece aveva promesso Brand.

Cooper decide di aggredire la fisica dei buchi neri, afferrare la natura dell’universo a costo della vita, ma nella speranza di poter comprendere le relazioni tra tempo e spazio, indipendentemente dalla percezione parziale che ne ha l’uomo. Si materializza così una sorta di labirinto escheriano, in cui passato e futuro combaciano, identifican-

do curvature che disintegrano per sempre la linearità del tempo e, di conseguenza, dello scorrere della vita.

Il ritmo alternato che Nolan impone al film traduce questo spiazzante rapporto tra velocità; le musiche di Zimmer oppongono metafisica alle leggi fisiche; la fotografia di Hoytema materializza su scale differenti luoghi di confinamento microscopici (la casa, l’abitacolo dello Shuttle) e macroscopici (l’universo), tutti soffocanti, tutti mortali. Tanta materia a tratti sembra sfuggire dall’obiettivo della macchina di Nolan (al contrario di ciò che avveniva in Inception). La scatola del tempo tradotta in immagini da Nolan, forse non avrà l’impatto del viaggio lisergico di 2001, ma è quanto di più vicino alla rappresentazione della memoria - come luogo di decostruzione e ricostruzione delle esperienze - e delle catalogazioni operate sui racconti che dalla notte dei tempi si sono accumulati come strati di minerali preziosi. < numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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AT T U A L I T À F I L M

DON HALL, CHRIS WILLIAMS

Big H e r o 6 di DAVIDE DI GIORGIO

Il nuovo classico d’animazione disneyano tenta una sintesi tra formule espressive altrimenti considerate distanti e crea un racconto composito, basato proprio sull’importanza dei legami e sulla connessione fra uomini, superpoteri e macchine.

Regia: Don Hall, Chris Williams Soggetto: ispirato al fumetto Marvel creato da S. T. Seagle e D. Rouleau Sceneggiatura: Jordan Roberts, Daniel Gerson, Robert L. Baird Montaggio: Tim Mertens Musica: Henry Jackman Voci: R. Potter/A. Valli (Hiro Hamada), S. Adsit/F. Insinna (Baymax), D. Henney/ S. Crescentini (T. Hamada), J. Cromwell/ E. Siravo (professor Callaghan) Origine: Usa 2014 Distribuzione: Walt Disney Pictures Durata: 108’ Dagli 8 anni

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A cavallo fra mondi Negli ultimi anni la Walt Disney Pictures sta assumendo un ruolo predominante nell’industria dell’intrattenimento grazie a una serie di ambiziose mosse imprenditoriali che l’hanno portata ad acquisire alcune aziende strategiche del settore: la Pixar, la Marvel e, più di recente, la Lucasfilm. Il risultato di questo agglomerato di intelligenze inizia a riflettersi anche nei nuovi progetti della casa madre, come questo Big Hero 6, perfetto esempio di sintesi fra influenze differenti. La storia è infatti tratta da un poco noto fumetto Marvel (creato nel 1998) e proietta il consueto appuntamento con il classico d’animazione natalizio in uno spazio a metà fra racconto di supereroi ed epopea robotico-fantascientifica. Un po’ epica Marvel, insomma, un po’ anime (i cartoon giapponesi) basato sul genere dei Mecha, ma con un tocco personale che cerchi di innestare i classici valori fondativi della tradizione americana (di cui la Disney si è sempre sentita portabandiera) in contesti nuovi, ma comunque già sedimentati nell’immaginario globale. L’operazione ha dunque una molteplice valenza, da un lato asserisce la flessibilità del metodo Disney, che diventa capace di adattare ai propri bisogni direttrici narrative, ritmiche e visive altrimenti considerate lontane; dall’altro stabilisce la centralità della propria factory in quanto possibile cartina di tornasole per una serie di influenze che spaziano dalla cultura occidentale a quella orientale, e attraverso più linguaggi narrativi, come possono essere il cinema, l’animazione e il fumetto.

Eroi Disney con superproblemi La natura “sincretica” del concept alla base del film è riverberata da una serie di scelte narrative: la storia si svolge infatti in un tempo non meglio precisato (verosimilmente un vicino futuro) in una immaginaria metropoli nippo-americana (San Fransokyo, evidente crasi di San Francisco e Tokyo), le cui origini restano pure misteriose, e il protagonista è un ragazzo giapponese alle prese con un nemico che ha il volto coperto da una maschera Kabuki.

Dagli anime Hiro riprende anche l’inquietudine da preadolescente pieno di vita e refrattario alle regole imposte dalla società, cui risponde con un agire anarchico e orientato al facile guadagno tramite l’impiego delle sue macchine nelle scommesse clandestine. Non siamo però troppo distanti anche dal destino del primo Spider-

Man, che usava i suoi poteri di ragno per raggranellare qualche spicciolo nei combatti-

DON HALL, CHRIS WILLIAMS

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BIG HERO 6

menti di wrestling, salvo poi ritrovarsi con un lutto sulle spalle per non aver fermato il ladro che assassinerà suo zio. Il percorso di formazione di Hiro segue coordinate simili, con la morte del fratello che lo investe del destino di salvatore dell’umanità da chi tenta di far valere la sopraffazione. La filiazione familiare - più vicina alla sensibilità occidentale di quanto non accada con la tradizione orientale incentrata sul racconto degli orfani - è insomma l’elemento cerniera che determina il “superproblema” di Hiro, e la connessione fra dovere e responsabilità che lo porterà a usare il suo genio non per scopi di lucro o di mera autopromozione, ma per fare del bene e rinsaldare in tal modo il legame con il fratello scomparso e che non aveva mai smesso di credere in lui. In trasparenza è dunque visibile la vicinanza fra i codici espressivi disneyani e della Marvel, entrambi basati sul fondamento dell’elemento familiare come punto di partenza per l’avventura fantastica, in quanto entrambi alla base di un sentire che è parte della cultura americana tutta. La connessione empatica diventa così la traccia portante dell’intero progetto, quella che permette l’avvicinamento di elementi altrimenti considerabili eterogenei e che crea una fitta rete di rapporti fra la sfera dell’umano e quella del non-umano. Hiro riesce perciò a compiere un percorso che lo porta a creare forti legami con i compagni di scuola (con cui formerà il gruppo dei Big Hero 6), così come (sebbene in forma oppositiva) con il cattivo Yokai, che pure nasconde nel suo passato traumi legati alla sfera familiare. Allo stesso tempo, però, è forte la connessione fra Hiro e la scienza, grazie al legame psichico con i microbot e, naturalmente, a quello più direttamente empatico con Baymax.

Super robot e superproblemi Anche la figura del robot, così come ci viene presentata dal film, è a cavallo fra influenze differenti: da un lato abbiamo l’aspetto più squisitamente “forzuto” e combattivo, rappresentato dai combattimenti cui partecipa Hiro all’inizio del racconto, e che ricordano il pugilato di Real Steel, diretto da Shawn Levy nel 2011. Dall’altro c’è invece l’indole rassicurante e l’esteriorità morbida di Baymax, che rappresenta una strizzata d’occhio all’estetica kawaii della cultura giapponese - letteralmente “carino”, che rappresenta un tipo di figure basate su design in grado di suscitare un’immediata tenerezza esaltando gli aspetti morbidi e dolci dei personaggi; un simile

personaggio, però, è pure coerente con le direttrici fondanti dell’estetica disneyana, da sempre attenta a sviluppare figure che risultino immediatamente accattivanti: un po’ Paperino, un po’ Totoro di Miyazaki, insomma. Quella fra Disney e la cultura giapponese del fumetto e dell’animazione è in fondo una storia di reciproche influenze che affondano nel passato più lontano, quando il padre del manga Osamu Tezuka dichiarava il suo amore per l’opera del capostipite Walt e per il valore espressivo dei suoi buffi personaggi dagli occhi grandi (in anni più recenti paradossalmente associa-

HIRO HAMADA è un genio della SINOSSI scienza che vive nella città di San Fransokyo, ma spreca il suo talento costruendo robot per combattimenti clandestini.

Spronato dal fratello maggiore Tadashi, decide di iscriversi all’Istitute of Tecnhology e perciò sviluppa dei microbot, azionati con le onde cerebrali. Un brutto incendio, però, uccide Tadashi e il suo mentore, il professor Callaghan, e causa la distruzione di tutti i microbot. A Hiro resta solo Baymax, il robot infermiere costruito dallo stesso Tadashi.

BEN PRESTO, però, Hiro scopre che i suoi microbot sono ancora in funzione e ora servono il malvagio Yokai, in un intreccio di colpi di scena legati anche alla scomparsa di Tadashi.

INSIEME a Baymax, migliorato per l’occasione e trasformato in un robot da battaglia, e ai compagni di scuola, Hiro si improvvisa supereroe per fermare il supercriminale.

ti più all’estetica giapponese). Il risultato di questo continuo rimpallo di esperienze è che molte figure tipiche della cultura giapponese siano ormai inestricabilmente collegate all’immaginario occidentale e sedimentate pure in esso, come accade appunto ai robot, di recente adottati pure dal cinema americano con opere come Transformers, Pacific Rim o il già citato Real Steel. Il punto di fuga da quello che potrebbe dunque essere considerato solo uno sterile gioco di rimandi reciproci è quindi dato proprio dal tema della connessione fra la sfera umana e quella meccanica: un terreno di confronto privilegiato per un’umanità che cerca il proprio scopo nel mondo dopo che i traumi hanno rivelato tutta la loro caducità e fragilità. Di qui il ruolo di “infermiere” di Baymax, che è programmato per salvaguardare la salute del suo padrone e che, proprio in virtù della propria missione salvifica, accetta poi di seguire Hiro nella sua crociata per la giustizia, convinto com’è che portare a termine la missione servirà a rasserenare l’animo del ragazzo.

Empatia e connessione Al di là della sua natura teorica di progetto che si vuole porre come banco di prova per possibili innesti di influenze fra realtà altrimenti considerate distanti, Big Hero 6 è dunque, al fondo, un racconto di formazione che stabilisce l’importanza del creare dei legami. Regola aurea in un mondo che, al contrario, spinge al confronto, alla competizione (si veda anche il test che Hiro deve passare per essere ammesso a scuola) fino alla sopraffazione incarnata da Yokai e dal segreto nascosto nel suo passato, legato a doppio filo alle logiche dell’imprenditoria più spietata che hanno portato alla scomparsa di una persona cara. Una connessione a più livelli, che rappresenta dunque l’elemento unificante fra le sorti dei personaggi e le varie realtà che la complessità dell’intero progetto chiamano in causa.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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P A N O R A M A TELEVISIONE

The K n i c k di MATTIA N ICOLETTI

L

a creatività oggi è contaminazione, è trasformazione, è remixare qualcosa di esistente per ottenere qualcosa di nuovo, di differente da ciò che già esiste. Per questa ragione, nella serialità televisiva, oggi i generi esistenti si sono moltiplicati.

Fino a 15 anni fa crime drama, medical drama, legal drama e sitcom la facevano da padroni sul piccolo schermo, e qualsiasi alternativa veniva spesso scartata dai network, perché considerata poco interessante per il pubblico. Poi sono arrivati i teen drama, gli horror drama, i political

John Thackery

drama, i fantasy drama, i period drama, gli apocaliptic drama e via dicendo.

Da qualche anno siamo giunti a compiere un ulteriore passo, ovvero a mixare i generi fra loro creando qualcosa di totalmente nuovo. Se pensiamo a Dexter, ad esempio, e cerchiamo di definirne il genere, realizziamo che la serie è un insieme di crime drama e horror con tinte grottesche. La stessa Breaking Bad, ritenuta dai più un drama, è di difficile collocazione (e forse è questo uno dei motivi per cui è ritenuta un capolavoro).

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Algermon Edwards In basso Hermann Barrow Con The Knick si alza ancora l’asticella, perché la serie ideata da Jack Amiel, Michael Begler, Steven Katz, prodotta da Steven Soderbergh e interpretata da Clive Owen (che è anche co-producer) è ambientata nel 1900, agli albori delle nuove tecniche di chirurgia, quando gli esperimenti rappresentavano la frontiera della medicina, ma quando ancora il mondo era diviso da lotte sociali, dal troppo recente affrancamento degli afroamericani e dalla povertà che, anche a New York, imperversava.

Il Knickerbocker Hospital (da qui The Knick) in quel periodo si avvaleva di grandi chirurghi alla ricerca spasmodica di nuove tecniche, come il Dott. John Thackery (Clive Owen) che nonostante la dipendenza dalla cocaina, per le sue capacità eccelse riesce a mantenere alto il nome della struttura. Thackery è affascinato dalle grandi menti e, sebbene l’astio razziale nei confronti degli afroamericani sia elevato, prende con sè il britannico Algermon Edwards (Andre Holland) laureato a Harvard. Nonostante il colore della sua pelle, Edwards riesce a guadagnare la fiducia dello staff e a operare in un ospedale di soli bianchi.

“Avevo un problema di salute e stavo cercando delle soluzioni di medicina alternativa senza successo”, ha dichiarato Michael Begler, uno degli autori, in un’intervista, “Fra me e me allora ho pensato quali sarebbero state le mie possibilità 100 anni fa. Ho comprato due libri che trattavano l’argomento e sono rimasto allibito. Sembrava un horror show. C’erano persone che utilizzavano l’acquara-

gia per curare un intestino perforato. A quel punto abbiamo pensato di scrivere una serie che parlasse della medicina in quel periodo”. Jack Amie, co-autore, nella medesima intervista ha poi aggiunto: “Avendo visto molti medical drama abbiamo realizzato come si risolvano patologie complesse nei modi più impensabili. Con questa serie invece noi parliamo dell’appendicite, mortale all’inizio del secolo scorso e oggi un’operazione di routine. I nostri personaggi si trovano a dover individuare una soluzione a qualcosa che oggi è considerata una normalità”.

The Knick non ha mezze misure e sbatte in faccia allo spettatore una situazione di avanguardia all’epoca che oggi appare però incredibile. È un vero parallelo della vita attuale dove la tecnologia velocizza il quotidiano, dove le informazioni invadono le esistenze senza tuttavia essere nell’era di internet. In The Knick non ci si ferma di fronte a una scoperta perché l’entusiasmo porta subito a guardare sempre più avanti. Allo stesso tempo è bandita la nostalgia dei tempi passati perché il 1900 era sì un’epoca di grandi cambiamenti ma era anche ben lontano da essere un periodo in cui si viveva in modo semplice e agiato. “Le persone pensano che con The Knick si ritorni a degli anni in

THE KNICK

cui si viveva in modo più semplice, ma non è così”, ha aggiunto Amiel, “perché, solo per fare un esempio agli inizi del ‘900 il mondo era dominato dall’uomo bianco e le donne avevano zero diritti così come gli afroamericani. Tendiamo a romanzare troppo ciò che è lontano da noi e invece appena si fanno alcune ricerche ci si rende conto di come dobbiamo essere felici di non essere al fianco di Thakery & C. e di avere la penicillina. La vita a quel tempo”.

Come accade spesso nei period drama di ultima generazione, ovvero quelle serie ambientate in epoche diverse da quella attuale, ci sono alcuni personaggi maschili e femminili che rappresentano uno slancio verso la modernità. Se Thackery impersona genio e sregolatezza, tradizione e innovazione (smania per andare oltre i confini della medicina ma si adegua ad alcune convenzioni del tempo), Edwards, di origine britannica, si scontra

Cornelia Robertson In alto Lucy Elkins con la natura razzista degli Stati Uniti, che non considera il valore del talento e dell’uomo ma soltanto il colore della pelle. L’intelligenza di Edwards gli permette di adattarsi alle condizioni limite riservate ai “negri” e di sfruttarle operando come medico, letteralmente nel sottoscala.

Tra i protagonisti maschili Herman Barrow (Jeremy Bobb), manager del Knickerbocker, è un leader pieno di debolezze, vittima del sistema e incapace di gestire le esigenze di Thackery e dell’ospedale. Sono però le donne di The Knick a sorprendere. Cornelia Robertson (Juliet Rylance), responsabile del social welfare del Knickerbocker, amica di infanzia di Edwards, non si lascia mai travolgere dalle convenzioni e anzi, è capace di sconvolgere ogni tipo di certezza. Varca le barriere di classe, sostiene le innovazioni an-

che sapendo di incontrare molti pareri avversi e si muove in una società dominata da

uomini con grande abilità, comprendendo tuttavia quali sono i suoi limiti. Per parlare di working class, l’infermiera Lucy Elkins (Eve Hewson), in apparenza conforme ai principi sociali, è capace di prendere in mano situazioni più grandi di lei e di risolverle. La sua bicicletta, poi, con la quale si reca al lavoro, è un simbolo di indipendenza e autonomia The Knick, sotto il profilo visivo, non media assolutamente e rappresenta la crudezza del tempo (ancor più quando affronta le sequenze di chirurgia) per estremizzare la caducità della vita e quel senso di sopravvivenza che ai primi del 900 affliggeva la popolazione più povera

e anche le classi più agiate. Un parto poteva rappresentare più che una probabilità di morte e un’epidemia di tifo una minaccia di decimazione. In questa situazione le tecniche innovative di Thackery stridono con le misure igieniche al limite che non possono non generare incredulità nello spettatore. Operazioni in sale non sterili, assenza di guanti e di mascherine, suture approssimative sono solo alcuni degli elementi di una chirurgia dalle tonalità horror.

Nella serie un ruolo importante è svolto dalle “dipendenze” dell’epoca, dalla droga ai bordelli, una via di fuga dalla complessità del quotidiano, una sorta di isola di “piacere” in cui gli uomini si astraggono dal mondo (perché le donne non avevano ancora peso sociale). Thackery in primis non può fare a meno della cocaina e della prostituzione, contraltare della sua incredibile genialità medica. Come per tutte le “ad-

Il team chirurgico del Knickerbocker Hospital In basso Lucy Elkins diction” gli effetti negativi non si fanno attendere, soprattutto quando il mondo è quello della chirurgia. Ma è la stessa chirurgia ad alto tasso di mortalità che impone attimi di “assenza” ai medici per non essere sopraffatti dallo sconforto e dalla depressione.

The Knick non innova solo il medical drama, perché la presenza di Steven Soderbergh, come executive producer e regista di tutti i 10 gli episodi della prima stagione, conferisce alla serie un valore registico che di frequente gli show tv, da sempre dominati dagli sceneggiatori, non hanno.

Con la colonna sonora composta da Cliff Martinez, rigorosamente elettronica, The Knick è a tutti gli effetti un prodotto multi-genere che, raccontando il passato, guarda verso il futuro.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Jean-Luc Godard Soggetto e Sceneggiatura: Jean-Luc Godard Fotografia: Fabrice Aragno Montaggio: Jean-Luc Godard Musica: Beethoven, Ciaikowskij, Schönberg, Sibelius e altri Interpreti: Héloïse Godet (Josette), Zoé Bruneau (Ivitch), Kamel Abdeli (Gedéon), Richard Chevallier (Marcus), Jessica Erickson (Mary Shelley), Christian Gregori (Davidson) Origine: Francia/Svizzera 2014 Distribuzione: BIM, MyMovies on demand Durata: 70’ Dai 16 anni

Adieu au langage Addio al linguaggio Adieu au langage “Una donna sposata e un uomo libero si incontrano. Si amano, litigano; piovono i colpi. Un cane vaga tra città e campagna.

Le stagioni passano. L’uomo e la donna si ritrovano. Il cane si ritrova tra loro. L’altro è nell’uno. L’uno è nell’altro. E sono tre persone. L’ex marito fa esplodere tutto. Un secondo film comincia. Uguale al primo.

Eppure diverso. Dalla specie umana si passa alla metafora. Finirà con l’abbaiare di un cane. E con le urla di un neonato” (dal press-book). Lo stesso Godard propone un’ipotesi di “trama” problematica e sfuggente. Il film infatti non racconta una storia, è una riflessione sulla morte di un linguaggio che pretende di raccontare e dar senso alla natura rappresentata. L’incipit dichiara le sue intenzioni.

Un “maestro” consiglia a due ragazze, forse sue allieve, la lettura di brani di libri che riflettono sulla condizione umana, posti su un banchetto di fronte a una fabbrica, forse occupata. Arriva una macchina, ne scende un uomo vestito da manager, che strattona la protagonista e spara (fuori campo), allontanandosi sgommando. Dal fondo si avvicina un arabo che soccorre la donna. Il luogo e la situazione si ripropongono più volte in una sorta di struttura circolare.

Il manager-marito tradito nella seconda parte del film tornerà sulla scena del delitto per sparare all’arabo. Idee contro azione, libertà contro strutture sociali. La faccenda sembra semplice, ma tutto è il frutto di continui interrogativi, spaesamenti, cambi di percorso.

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S

in dall’inizio della sua carriera Godard ha riproposto più volte il suo teorema secondo il quale la somma di due immagini dà luogo a una terza, di natura completamente diversa dalle prime due. Tutto il suo cinema si fonda sull’interpellazione e sulla dialettica di due parti, capaci di produrre nuovi sensi e nuove idee. Si veda l’uso che egli fa del 3D, sinora impiegato nelle megaproduzioni per introdurre un tasso di maggior “realismo” nella visione, ma in effetti per manipolare l’emotività dello spettatore.

Godard usa il 3D, rivelandone la meccanica illusionistica. In alcuni casi la profondità di campo viene da lui usata per sovrapporre in primo piano alcune scritte (ad esempio l’ironica vivisezione etimologica del titolo Adieu au langage in Ah, Dieux! Oh, langage…), in altri, invece di corpi o oggetti che “bucano” lo schermo per “colpire” lo spettatore: viene evidenziato il battere della pioggia o della neve sul parabrezza di un’auto o il muso curioso del cane Roxy. In altri ancora le due immagini che, sovrapposte, dovrebbero dare origine all’immagine in rilievo del 3D sono alternativamente sfuocate e si può leggere l’immagine solo chiudendo uno dei due occhi.

Godard in ultima analisi dice addio a un linguaggio che pretende di ridurre a metafora la complessità misteriosa della natura. I due personaggi centrali dialogano a lungo di fronte a un megascherno televisivo che riproduce le immagini di Il dottor Jekyll e Mr Hyde di Rouben Mamoulian, Metropolis di Fritz Lang, Il vecchio e il mare di John Sturges, Le nevi del Chilimangiaro di Henry King. Infine sullo schermo le immagini si interrompono e rimane solo il pulviscolo elettronico. Il cinema è morto?

Il linguaggio non deve normalizzare e ordinare l’universo, ma penetrarlo, abbandonarsi a esso, coglierne l’ineffabilità. Solo il cane, nudo e innocente di fronte alla nudità dell’universo può entrare in sintonia con esso.

Secondo Buffon l’uomo è “accecato dalla coscienza”, incapace di guardare il mondo. I due amanti tentano con la loro nudità di recuperare la propria innocenza, ma diventano ridicoli e osceni quando si rivestono. Con vorticosa serie di citazioni (da Conrad a Freud, Valéry, Derrida, Blanchot, Artaud, Proust, Beckett, Sartre e molti altri), Godard cerca di dimostrare che “chi manca d’immaginazione si rifugia nella realtà” e con Platone afferma che “la bellezza è lo splendore della verità”.

Fra tutte le suggestioni mi sembra fondamentale la citazione da Claude Monet secondo la quale bisogna “dipingere il non vedere, ciò che non si vede”. Ovvero bisogna rappresentare le idee, non ciò che si vede, una realtà illusoria e fallace.

Alcuni recensori presenti a Cannes si sono irritati per l’affermazione provocatoria di Godard secondo la quale l’eguaglianza si manifesta solo nel momento in cui defechiamo, con la testa appoggiata a un braccio a ridicola imitazione del “Pensatore” di Rodin.

Dolorosamente pessimista, il postmarxista Godard apre e chiude il film con una canzone sessantottina di Pino Masi (“Oggi ho visto nel corteo / tante facce sorridenti/ le compagne quindicenni / gli operai con gli studenti”). Ma forse non si tratta di un inno alla speranza, quanto piuttosto della dichiarazione di fallimento di un’utopia e della ricerca di nuove prospettive esistenziali.

Flavio Vergerio

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Juliano Ribeiro Salgado, Wim Wenders Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, David Rosier, Camille Delafon Fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Meyers Colonna sonora: Laurent Petitgand Interpreti: Sebastião Salgado, Wim Wenders, Juliano Riberio Salgado, Hugo Barbier, Jacques Barthélémy, Lélia Wanick Salgado Origine: Brasile/Italia/Francia 2014 Distribuzione: Officine UBU Durata: 110’ Dai 14 anni

Il sale della terra The Salt of the Earth Sebastião Salgado è uno dei massimi fotografi contemporanei, un artista che si è speso con passione, attraverso il suo lavoro, per catturare il mistero dell’uomo e della natura.

Cresciuto in una famiglia di possidenti terrieri brasiliani, si laurea in economia. Ad animarlo, sin dai tempi degli studi, è l’interesse per le strutture sociali, per il rapporto tra individuo e ambiente naturale, e per quel fragile equilibrio su cui si reggono le esistenze di milioni di individui.

Nei primi anni Settanta entra in contatto con le dure realtà dei paesi sottosviluppati e scopre la sua vera vocazione: la fotografia. Insieme alla moglie Lelia decide così di intraprendere una nuova carriera.

Salgado salta nel vuoto e si apre al mondo, alla scoperta, al viaggio. Inizia una lunga serie di reportage dai vari angoli della Terra. Armato di una Leica, si avventura nel Sahel, in Portogallo durante la rivoluzione, in Angola e Mozambico, nella Serra Pelada, nell’Iraq della guerra del Golfo, nella Bosnia insanguinata. Senza tralasciare mai l’attivismo umanitario e ambientalista, culminato con la meraviglia utopistica dell’Istituto Terra.

Questo straordinario percorso umano è documentato dal figlio Juliano e da Wim Wenders, impegnati in una doppia ricerca: quella di una figura paterna in parte inafferrabile, quella di un fotografo e della sua arte.

C

hi conosce Wim Wenders ritroverà, nel suo ultimo magistrale documentario su Sebastião Salgado, decenni di lavoro coerente e appassionato. Il sale della terra, realizzato insieme a Juliano Ribeiro Salgado, può valere infatti come sintesi di un intero cinema. Un cinema di viaggio e scoperta esistenziale, popolato da uomini solitari lanciati verso l’orizzonte, da spiriti irrequieti in perenne ricerca di un obiettivo nascosto, beffardamente sfuggente. Sin dagli esordi, infatti, pressoché ogni suo film si è concentrato sulle peregrinazioni conoscitive di personaggi in cerca di sé, seguiti dalla macchina da presa in mondi, luoghi e paesaggi da scoprire e riscoprire, da vivere e rivivere, da penetrare, indagare e riplasmare al contempo con la fantasia dell’artista, la cura dell’artigiano e la curiosità pericolosa del detective.

La celebre Trilogia della Strada, composta da Alice nella città (1973), Falso movimento (1975) e Nel corso del tempo (1976), stravolse tempi e atmosfere del cinema tedesco negli anni Settanta: tre lenti e rarefatti road-movie, in cui il Wilhelm Meister goethiano si fondeva con l’immaginario letterario post-Kerouac e con la ricerca cinematografica sullo spazio di Antonioni. Anni dopo, in Paris, Texas (1984) si ridisegnava il deserto americano sulle note di Ry Cooder, in Lisbon Story (1995) si inseguivano invece i fantasmi della città di Pessoa, mentre nel futuristico Fino alla fine del mondo (1991) l’intero pianeta veniva ridotto a mappa, a superficie sulla quale i personaggi scivolavano come biglie di un flipper, in cerca di suggestioni e immagini impossibili. E proprio il catturare attraverso l’immagine l’essenza dell’uomo e di ciò che lo circonda è sempre stato lo scopo di Salgado, mago della fotogra-

fia ossessionato dalla verità, dal mistero della vita. Come i personaggi wendersiani, anch’egli ha scelto di catapultarsi nel mondo per osservarne la bellezza e l’orrore e trovare così se stesso, il proprio posto nella società degli uomini e nel creato.

Wenders lo racconta con la medesima partecipazione e la stessa vitalità mostrate nei precedenti documentari, quella strepitosa serie di viaggi “nelle arti e negli artisti” che va da Tokyo-Ga (1985) fino al recente Pina (2011). Ma, contrariamente a Ozu e alla Bausch, Salgado è vivo e in piena attività, e può dunque affiancare il regista volgendo, con la sua sola presenza, l’omaggio in testimonianza, come gli anziani musicisti di Buena Vista Social Club (1999). La sua voce e il suo volto accompagnano le fotografie, ne svelano la genesi e i significati profondi. I filmati casalinghi e le riprese dai luoghi dei reportage curate dal figlio Juliano arricchiscono poi il ritratto d’artista del padre Sebastião, aprendo ulteriori prospettive, offrendo nuovi colori: l’uomo al lavoro, il suo approccio “fisico” al mezzo fotografico, la ricerca dello scatto perfetto, vissuta come vera e propria missione, e infine il rapporto con il passato familiare, rappresentato dalle interviste registrate al defunto nonno Salgado.

A emergere è l’umanesimo del maestro brasiliano, la sua costante tensione verso i deboli e gli oppressi, nonché verso la tragedia di una natura distrutta dalla mano dell’uomo. Una natura che, come dimostra il grande progetto dell’Istituto Terra su cui si chiude il film, può essere salvata solo dalla forza illuminante e dall’incoscienza di un sogno apparentemente irrealizzabile.

Massimo Lechi numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Ken Loach Soggetto: dall’opera teatrale di D. O’Kelly Sceneggiatura: Paul Laverty Fotografia: Robbie Ryan Montaggio: Jonathan Morris Scenografia: Fergus Clegg Costumi: Elmer Ni Mhaoldomhnaigh Musica: George Fenton Interpreti: B. Ward (J. Gralton), S. Kirby (Oonagh), J. Norton (Padre Sheridan), A. Scott (Padre Seamus), F. Magee (Mossie), M. Murfi (Tommy), S. Fox (Molly), M. Lucey (Dezzie), S. O’Brien (Finn), ...

Origine: Gran Bretagna/Francia 2014 Distribuzione: Bim Durata: 109’ Dai 14 anni

Jimmy’s Hall

Una storia d’amore e libertà Jimmy’s Hall Dopo un esilio negli Stati Uniti, Jimmy Gralton, ex operaio e attivista, fa ritorno nella natia contea irlandese di Leitrin per prendersi cura dell’anziana madre e mandare avanti la fattoria di famiglia. Più di un decennio è trascorso dallo scoppio della guerra d’indipendenza che, nel giro di qualche anno, aveva condotto alla nascita dello Stato libero d’Irlanda nel 1922 e sancito di fatto l’autonomia dalla corona inglese, seppure l’isola avrebbe orbitato ancora a lungo all’interno del Commowealth britannico. Jimmy, che ai tempi dell’insurrezione era stato perseguitato e cacciato per aver aperto la Pearse-Connolly Hall, una sala da ballo a scopo ricreativo, spera oggi di vivere lontano dai tumulti politici.

Non ha però fatto i conti con le richieste dei giovani del paese, che sognano di evadere dal clima di oscurantismo imposto dalle autorità civili e religiose e lo spingono a riallestire il capannone dove un tempo si dispensavano corsi di pittura, canto, lettura e serate danzanti. L’iniziativa viene sempre più osteggiata tanto da padre Sheridan, convinto che il binomio musica-lettura possa traviare la moralità della sua parrocchia, quanto dai latifondisti che vedono nel circolo l’attizzarsi di un pericoloso focolaio comunista pronto a divampare nelle campagne. Un accordo segreto tra questi ultimi e la chiesa porterà alla distruzione della sala, nonché alla definitiva espulsione di Jimmy.

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Q

uesto Jimmy’s Hall potrebbe essere l’ultima opera di narrazione di Ken Loach, che durante la presentazione del film a Cannes lo scorso maggio ha annunciato di volersi dedicare in futuro alla realizzazione di soli documentari. Nulla di davvero nuovo per un regista che, davanti e dietro la cinepresa, non si è mai sottratto all’impegno sociale e politico, incastonando le vite più o meno romanzate di uomini e donne all’interno di cornici storiche drammaticamente reali, mescolando vicende pubbliche e private con sapienza e maestria. Così era stato con l’acclamato Il vento che accarezza l’erba, ambientato in Irlanda durante i tragici giorni delle rivolte contro la dominazione inglese. Così avviene con questo film, cui ancora una volta le verdi brughiere irlandesi fanno da sfondo.

In quanto anello di congiunzione tra il Ken Loach narrativo e quello documentarista, la pellicola risponde a un formalismo asciutto e accademico ancor più accentuato rispetto ai pur rigorosi lungometraggi precedenti. Se la forma resta per certi versi imprigionata in un freddo didascalismo, dalla trama e dai personaggi emerge invece un calore umano che rende Jimmy’s Hall, fortunatamente per lo spettatore, un film che sa emozionare oltre che far riflettere.

Jimmy Gralton, attivista realmente esistito, è qui personaggio carismatico ma privo di retorica, eroe romantico ma non stucchevole, il cui spessore morale si erge sotto il segno di una sobria ricostruzione caratteriale. Della sua vita dopo l’esilio non viene fatta menzione, se non in una breve didascalia finale, che ci informa della sua morte avvenuta negli Stati Uniti nel 1945, a soli quattro anni

dalla trasformazione dell’Irlanda in Repubblica.

Accanto al pericolo di un’acritica esaltazione del protagonista, l’opera presentava un altro insidioso rischio: quello di scivolare sul terreno dell’ideologia. Rischio nuovamente sventato. Senza nascondere le idee marxiste di Gralton, infatti, Loach si concentra piuttosto sull’organizzazione della Pearse-Connolly Hall.

Lungi dall’essere una semplice balera, la sala appare come una sorta di circolo culturale e sociale autogestito, nel quale danza, letteratura e discussione diventano strumenti diversi ed ugualmente efficaci per esercitare il pensiero. Si direbbe anzi che lo sviluppo di uno spirito critico e indipendente vada in direzione opposta alla mortificazione del corpo cui preti e padri sottopongono i giovani figli del paese, che scalpitano per gettarsi sulla pista da ballo. Le scene corali, nelle quali il ritmo forsennato del jazz si unisce alle trascinanti melodie della tradizionale musica irlandese, sono all’insegna di una fisicità gioiosa e liberatoria. Un’esplosione che urta contro il perbenismo delle frange più reazionarie della società. D’altra parte, l’autorità e i suoi simboli di repressione sono da sempre bersaglio degli strali di Loach, cantore degli oppressi pronti ad alzare la testa senza macchia né paura.

Il messaggio lanciato dal film è, quindi, “politico” nel senso più nobile del termine. La politica è qui sinonimo di scambio, dialogo e libera espressione. La molla che fa scattare la rivincita sociale non arriva dall’indottrinamento ideologico, bensì dall’educazione - civile, morale e artistica prima ancora che politica - che apre le menti e avvicina le persone.

Sara Marmifero

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Vittorio Moroni Soggetto: Vittorio Moroni Sceneggiatura: V. Moroni, M. Piccarreda Fotografia: M. Schiavon, A. Caccia Montaggio: Marco Piccarreda Musica: Mario Mariani Interpreti: G. Colangeli (Ettore), B. Fiorello (Ennio), M. Manaloto (Kiko), H. Morillo (Marilou), A. Kravos (Prof.ssa Giuliani), E. Arvigo (Prof.ssa Granatelli), I. Franek (Feliks), S. Scherini (Prof. Macri), I. Oliva (Jacopo), V. Doda (Spiro), I. Sancin (Vesko) Origine: Italia 2013 Distribuzione: Maremosso in collaborazione con Lo Scrittoio Durata: 100’ Dai 12 anni

Se chiudo gli occhi non sono più qui Kiko ha sedici anni, una madre filippina e un padre italiano che gli ha trasmesso la passione per l’astrologia, ma è morto da due anni in un incidente stradale. Vive in un paese del Friuli con la madre Marilou, e il suo compagno, Ennio, un caporale che gestisce cantieri edili in cui sfrutta un gruppo di immigrati clandestini: abitano tutti insieme in un bar-stazione di benzina, anonimo e freddo, periferia della periferia.

Kiko divide le sue giornate tra il liceo, dove si è iscritto sulla spinta del padre, ma dove rischia di essere bocciato nonostante la sua intelligenza e la benevolenza degli insegnanti, e il cantiere in cui Ennio lo costringe a lavorare come manovale, pensando di fare di lui un uomo attraverso il duro lavoro e la complicità sui più scontati stereotipi della cultura maschilista. C’è solo un posto in cui Kiko si sente a suo agio: un autobus abbandonato in mezzo ai campi dietro al bar: questo è il suo mondo, il suo rifugio, il luogo in cui può sognare una vita diversa.

Un giorno, casualmente, incontra Ettore, un insegnante in pensione che si presenta a lui come un vecchio amico di suo padre e gli propone di assisterlo nello studio.

Inizialmente diffidente, il ragazzo a poco a poco acquista fiducia in quest’uomo, vagamente misterioso, ma ricco di suggerimenti e proposte, e accetta il suo aiuto: il rapporto con Ettore gli modificherà lentamente ma radicalmente la vita.

Anche l’anziano insegnante nasconde però un segreto, che sarà rivelato solo al termine del film.

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on è facile affrontare l’adolescenza, di per sé ricca di insidie, senza un padre accanto. Specialmente se quel padre era un genitore affettuoso e capace di trasmettere passioni (come ad esempio quella di osservare il cielo) ma è poi morto in un incidente stradale. Specialmente se, a distanza di soli due anni, al fianco della madre filippina il posto del padre è stato occupato da un uomo molto diverso, arcigno e scorbutico, sfruttatore di manodopera straniera, imbevuto di cultura machista.

Non possiamo quindi stupirci se per quasi tutta la prima parte del film l’espressione di Kiko oscilla tra il serio, il corrucciato e il triste. Ha poco da sorridere infatti questo ragazzo, per metà italiano, per metà filippino, esempio emblematico dell’ambiguità e dell’ambivalenza che caratterizzano i giovani delle cosiddette “seconde generazioni”: portatori di una doppia nazionalità, una doppia lingua, una doppia cultura.

In realtà tutta l’esistenza di Kiko è all’insegna della duplicità: al posto del padre la sorte gli prospetta due figure che in modo opposto si propongono di sostituirlo: il patrigno e l’anziano professore; le sue energie sono divise a metà tra l’ambizioso impegno scolastico al liceo e il duro e monotono lavoro nel cantiere edile; ha di fatto due case: il bar-stazione di benzina nella periferia urbana, in cui è costretto a condividere uno spazio anonimo e tetro non solo col brutale compagno della madre ma anche col gruppo di manovali clandestini da lui assoldati, e il suo rifugio segreto, che Kiko ha trasformato in una sorta di navicella spaziale, capace di portarlo lontano dalla squallida realtà di tutti i giorni, in un mondo solo suo. È là che “se chiude gli occhi” Kiko non si trova più qui. Qui, in un mondo che gli

sta stretto, mentre nella sua navicella/santuario riesce a dialogare col padre scomparso, a viaggiare tra luci e riflessi di cristalli in un universo popolato, oltre che dalle stelle, dai suoi sogni.

“Il film di Moroni è ricco di temi, l’integrazione, il lavoro, l’immigrazione, ma ha il suo punto di forza nella volontà di costruzione di un mondo interiore che il ragazzino Kiko costruisce mentre soffre la solitudine” scrive Alberto Rollo. Un aiuto importante, potremmo dire decisivo, per la costruzione di tale mondo interiore viene offerto a Kiko dalla compagnia del vecchio professore che, coi suoi saggi consigli, ma anche coi suoi fondamentali riferimenti culturali fornisce al ragazzo la possibilità di un riscatto. È un film che racconta un’adolescenza sofferente questo, perché la condizione di orfano per Kiko - secondo le parole dello stesso regista - è un dato di fatto narrativo ma è anche una metafora della sua generazione; ma per converso - è ancora Moroni ad affermarlo - “è un film pieno di ottimismo, che crede nella trasformabilità della vita a partire dal sapere”.

Mantenendo tempi narrativi distesi che gli consentono fluidità di racconto e capacità di avvincere lo spettatore, il film mette così sul tappeto una molteplicità di temi e contenuti, senza affastellarli, ma proponendoli in modo stimolante alla riflessione dello spettatore: le difficoltà e le ombre dell’adolescenza, il bisogno di avere in tale periodo dei “buoni maestri”, la volontà di riscatto e l’ambizione insita nell’animo umano, fino ad arrivare all’emozione e allo sgomento dell’individuo di fronte alla vastità dell’universo (si veda la citazione leopardiana nelle sequenze finali).

Fabio Mantegazza numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: David Fincher Soggetto: Dal romanzo “Gone Girl” di G. Flynn Sceneggiatura: Gillian Flynn Fotografia: Jeff Cronenweth Montaggio: Kirk Baxter Scenografie: Donald Graham Burt Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross Interpreti: B. Affleck (N. Dunne), R. Pike (A. Dunne), N.P. Harris (Desi), T. Perry (T. Bolt), C. Coon (M. Dunne), K. Dickens (detective R. Boney) P. Fugit (agente J. Gilpin), E. Ratajkowski (Andie), M. Pyle (E. Abbott), C. Wilson (Noelle) Origine: Usa 2014 Distribuzione: 20th Century Fox Italia Durata: 149’ Dai 16 anni

L’amore bugiardo Gone Girl Gone Girl Il loro amore è nato in un istante, un colpo di fulmine durante una festa noiosa a casa di qualcuno. Un incrocio di sguardi, poche parole per studiarsi, per essere già una bellissima coppia.

Nick ed Amy si sposano. Il loro futuro, sentimentale e professionale, sembra preannunciarsi radioso, ma il tempo passa e la loro unione nel frattempo si trasforma in qualcos’altro: si sono trasferiti da New York nel Midwest per stare vicini alla famiglia di lui, in particolare a sua madre gravemente malata, e lì sono rimasti anche dopo la sua morte. Le loro aspirazioni lavorative non si sono concretizzate e la crisi economica non è uno scherzo, così adesso Nick è il proprietario di un bar insieme a sua sorella gemella Margot, mentre Amy resta a casa tutto il giorno.

Arriva la mattina del quinto anniversario del loro matrimonio, Nick è uscito presto di casa, rientra, ma sua moglie è scomparsa.

Tutto lascia intendere che qualcuno l’abbia portata via con la forza, l’uomo non tarda, dunque, ad avvisare la polizia. Tuttavia Nick non sembra tradire fino in fondo la preoccupazione e l’ansia che ci si potrebbero aspettare da un marito in pena.

E ben presto i maggiori sospetti di chi indaga si concentreranno proprio su di lui, mentre i media ne confezioneranno spietatamente la figura di mostro omicida.

Con la ricerca di Amy inizia un viaggio in questa coppia, nella loro storia, un viaggio fatto di un progressivo diramarsi di identità, ambiguità e svelamenti.

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numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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ick ed Amy, dalla pagina allo schermo.

E dunque: Nick, Amy ma, soprattutto, David Fincher. Ben Affleck e Rosamund Pike a incarnarne le figure, in quel dentro vorticoso che è il suo cinema, sguardo condannato all’inabissamento.

Hitchcock e il thriller, qui, sono soltanto indizi probabili o possibili, una posa aggiuntiva, se non un camuffamento, un’altra bugia. L’origine è il bestseller di Gillian Flynn, arrivato anche in Italia pubblicato da Rizzoli (L’amore bugiardo), storia ispirata in parte a un famoso caso di cronaca nera americana (Scott Peterson accusato dell’omicidio di sua moglie Laci Rocha Peterson). Sceneggiatura firmata dalla stessa Flynn, con fotografia di Jeff Cronenweth e musiche di Trent Reznor e Atticus Ross a fare da oggetti contundenti in questo L’amore bugiardo - Gone Girl, superficie di elementi sparsi, di incroci e rispecchiamenti o solo presunti tali mentre in profondità il cinema è al lavoro, mappatura incompleta di affetti tramutati in effetti, film che diventa progressivamente qualcos’altro.

In un’intervista a Lirio Abbate per “L’Espresso” il regista ha dichiarato: “Non sono i fatti che mi interessano, ma il dramma che li circonda, quello che puoi dedurre, quello che ne consegue. Dalla vicenda di Scott Peterson noi abbiamo attinto in termini di immagini, ricostruzioni degli avvenimenti, di come si è mossa l’informazione, di come si sono svolte le conferenze stampa. Su questi elementi abbiamo puntato per realizzare il film facendolo aderire a una storia vera”.

Ed è infatti negli interstizi che Fincher affonda quella lama che è la macchina da presa in L’amore bugiardo - e del resto, anche quando in apparenza diversamente declinata, tutta la sua produzione scorre

proprio lungo questa traccia -, nello spazio fra il reale e le sue riproduzioni, fra privato ed esteriore, fra individuo e social rete. Il mondo - che qui si stringe intorno a un matrimonio con scomparsa improvvisa di consorte, diventa quella storia, le sue direttrici, le sue identità, il vero e il falso – continua a essere una parte che mai potrà dare il tutto, una zona oscura, mai pienamente penetrabile.

Non è facile, oggi, individuare un cinema che sappia leggere il nostro presente. Non è facile trovare chi lo fa come Fincher. E allora L’amore bugiardo, Nick Dunne e Amy, la verità timbrata dai talk show e dai selfie sono un altro tassello, un’altra deviazione, l’ennesima costruzione destinata a crollare. Ancora il regista che nell’intervista aggiunge: “Quello che mi coinvolge non sono gli eventi, ma il resto, le persone (…) Quello che voglio capire è cercare di vedere chi siamo, da dove ci muoviamo, da dove partiamo e cos’è che ci ferisce quando il nostro io viene scoperto da un altro io finto, costruito”. Sono questo i personaggi del suo cinema, le sue storie, i suoi umori. Le geometrie, le traiettorie, i movimenti nelle immagini fincheriane, una tensione che striscia potente fra un dentro e un fuori, in una scissione fragilissima, stratificata, violenta.

Perché c’è il cinema, chi lo fa e chi lo guarda. Chi lo fa non sempre sa davvero di chi lo guarda. Anche per questo Fincher è autore raro, perché sa, e molto, dell’altro.

Forse troppo, in alcuni casi. Come in quello de L’amore bugiardo, dove il “peso”, la vita necessaria del cinema, la sua presenza, la sua struttura - e non la storia raccontata - rischiano questa volta di schiacciare lo spettatore anziché intrappolarlo meravigliosamente.

Leonardo Gregorio

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Ted Melfi Soggetto e Sceneggiatura: Ted Melfi Fotografia: John Lindlev Montaggio: Sarah Flack Scenografia: Inbal Weinberg Costumi: Kasia Walicka-Maimone Musica: Theodore Shapiro Interpreti: B. Murray (Vincent), M. McCarthy (Maggie), N. Watts (Daka), C. O’Down (Padre Geraghty), T. Howard (Zucko), J. Lieberher (Oliver), S. Adsit (David), D. Barosso (Ocinski), N. Corddry (Terry), K. Quinn (Infermiera Ana) Origine: Usa 2014 Distribuzione: Eagle Pictures Durata: 102’ Dai 16 anni

St. Vincent Vincent è un cinico pensionato di pochissime parole, che non ha mai voglia di ascoltare per intero le storie degli altri; veterano della guerra del Vietnam, dedito all’alcool, alle scommesse e amante di Daka, una spogliarellista incinta di origine sovietica. Un giorno una ditta di traslochi che sta lavorando nella casa attigua alla sua, gli provoca un danno rompendo la staccionata del suo giardino: diviene questa l’occasione per conoscere non senza attriti - i suoi nuovi vicini di casa: Maggie e il figlio dodicenne Oliver.

La donna, appena separata e costretta a lavorare fino a tardi per difficoltà economiche, gli chiede di occuparsi del figlio durante il doposcuola. Vincent accetta controvoglia benché retribuito come un babysitter di professione. Il ragazzino, in compagnia dell’uomo che dovrebbe fargli svolgere i compiti, verrà così coinvolto in un’insolita realtà fatta di scommesse all’ippodromo, streap dance, bar e visite regolari presso una clinica privata dove è ricoverata la moglie di Vincent.

Quest’ultimo scopre che Oliver è spesso vittima di episodi di bullismo a scuola e, durante un acceso litigio con i compagni, interviene prontamente mettendo in fuga gli avversari e insegnandogli a resistere alle difficoltà della vita, a difendersi e ad alzare la voce quando è necessario. Poco per volta, stimolato dall’insegnante di religione, sulle orme di un compito che prevede una ricerca su un santo del nostro tempo, Oliver riuscirà a scorgere, dietro la rude apparenza dell’uomo, un animo tenero e altruista.

S

t. Vincent si rivela essere molto più profondo e originale di quanto parrebbe di primo acchito: all’inizio infatti, dal viso imbronciato del protagonista all’espressione angelica di Oliver ci si attenderebbe il solito stereotipo di una consolidata tradizione cinematografica, da Il monello di Charlie Chaplin a Central do Brasil di Walter Salles: l’adulto bisbetico, redento dall’inaspettato incontro con un bambino. Ma qui, il candore disarmante e puro dell’infanzia non scioglie un cuore che si sarebbe detto fatalmente indurito. La metamorfosi del protagonista rivela un controcanto: l’incontro con Oliver infatti non cambia i modi di fare né la sua interiorità, ma fa emergere il senso della sua vita.

La santità cercata nel film non converge col perbenismo, col rispetto esteriore di codici comportamentali, ma si rivela nell’effrazione di quell’immaginario benpensante collettivo che spesso si arroga il diritto di addomesticare la vita spirituale. Il tema che il professore di religione di Oliver - sacerdote cattolico ma aperto al sincretismo religioso - assegna ai suoi studenti, Saints among us accende una ricerca che spazia dai testi sacri all’osservazione dei famigliari. “Che cos’è un santo?” viene chiesto alla classe: è chi offre il suo impegno per la costruzione di un mondo migliore. E, spronato a trovare “un santo dei nostri giorni”, Oliver lo ravvisa in Vincent: uomo che ha sofferto molto, ma che mai ha ceduto alla trappola del patetismo o del vittimismo, né alla depressione dopo aver avuto un ictus o il lutto che ha ridotto alla dimensione di una scatola inerte la memoria della moglie.

E il cinismo che ostenta - così diverso da quello incarnato ancora una volta dal Bill Murray di Ricomincio da capo - altro non è che una consapevolezza sbocciata dal dolore, una sfida agli ostacoli che incom-

bono su di lui e rischiano di travolgerlo.

Sarà questa la grande eredità da consegnare a Oliver: un’arma interiore per fronteggiare la fatica che inevitabilmente incontrerà nel corso della vita.

Anche Daka, la prostituta russa, eufemisticamente chiamata “signora della notte”, è una santa dei nostri giorni che vive in modo autentico, libero e non convenzionale. Attende con gioia e commozione un bambino, con ogni probabilità concepito da un cliente sconosciuto. E anche lei, sul finale del film, parteciperà all’insolita mensa insieme alla madre divorziata, al figlio adottato e al vecchio cinico giocatore d’azzardo, in una sorta di comunità “apostolica”, che ha preferito la bontà del cuore ai comportamenti socialmente approvati, riportandoci alla memoria il monito ai farisei: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio”. Lontano dal surrealismo buñueliano, Theodor Melfi vagamente lo richiama, esaltando personaggi ‘sconsacrati’ dal mondo borghese.

Nel film vi è un costante rimando alla figura dell’albero, da quello che invade il confine perimetrale della casa, alla favola raccontata da Oliver, fino all’ultima scena, in cui Vincent innaffia il deserto che lo attornia nella speranza di una nuova semina, innaffiando addirittura i suoi piedi come fossero radici da cui innalzarsi. E l’amore è quest’acqua vivificante che promette la rinascita. L’incontro con il ragazzo non l’ha reso buono - lo era già - ma ha ridato senso ai suoi giorni; esattamente come cantava la canzone dei Jefferson Airplane all’inizio del film: Don’t you want somebody to love? Don’t you need somebody to love? You better find somebody to love, così Vincent conquista l’aureola con qualcuno da amare.

Andreina Sirena numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia e Sceneggiatura: Woody Allen Fotografia: Darius Khondji Scenografia: Anne Seibel, Jille Azis Costumi: Sonia Grande Montaggio: Alisa Lepselter Interpreti: Colin Firth ed Emma Stone, Eileen Atkins, Marcia Gay Harden, Jacki Weaver, Hamish Linklater Origine: Francia/Usa 2014 Distribuzione: Warner Bros Durata: 98’ Dai 16 anni

Magic in the Moonlight Berlino, 1928. Stanley Crawford, in arte Wei Ling Soo, è un celebre illusionista inglese che riempie i teatri d’Europa con i suoi spettacoli di magia.

In qualità di esperto in materia, Stanley viene chiamato in aiuto dall’amico e collega Howard Burkan per smascherare i trucchi con cui la sedicente medium Sophie Baker sta cercando di circuire la ricca famiglia americana dei Catledge, in vacanza sulla riviera francese. La giovane e bella Sophie sembra in grado, infatti, di mettersi in contatto con l’aldilà, e riesce incredibilmente a conoscere tutti i dettagli delle vite delle persone che incontra.

Ospite dei Catledge in Costa azzurra sotto falsa identità, il cinico e sprezzante Stanley - che crede soltanto in Nietzsche e in tutto ciò che è logico, scientifico e razionale - si fa passare per un uomo d’affari e tenta in ogni modo di svelare la truffa; ma, con grande sorpresa e disagio, Sophie si esibisce in diversi esercizi di lettura della mente che sfuggono a qualunque comprensione razionale e lasciano Stanley sempre più sbigottito e allo stesso tempo affascinato...

E se Sophie non fosse un’imbrogliona e un pizzico di magia esistesse davvero? E se la gioia di vivere, sotto forma soave di un cedimento all’amore, fosse più importante della verità e della ragione?

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numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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iunto al suo quarantaquattresimo film, Woody Allen, dopo la pausa di Blue Jasmine, torna a girare in Europa, in un periodo storico a lui molto caro: Magic in the Moonlight è infatti ambientato nei ruggenti Anni Venti, già sfondo romantico e un po’ malinconico di Midnight in Paris.

Un’epoca che il regista sa rendere alla perfezione, con una fotografia che vibra d’arancio, una colonna sonora raffinata e ricercata, fondata quasi esclusivamente su musica jazz, splendidi costumi - firmati da Sonia Grande - che fanno rievocare Tender is the Night di Francis Scott Fitzgerald, cene romantiche a lume di candela e il luccichio di lustrini e pailettes. E grazie anche a un cast strepitoso (oltre ai protagonisti, non si possono dimenticare Eileen Atkins, Marcia Gay Harden, Jacki Weaver e Hamish Linklater, che definire comprimari sarebbe ingeneroso), guidato da una insolita coppia con ben 29 anni di differenza, ma un’indubbia alchimia nonostante la diversità nei modi e nello stile. Una scelta rischiosa ma vincente, quella di far duettare una stella nascente di Hollywood come Emma Stone, bellissima e in grande sincronia con i tempi comici del regista newyorchese - che l’ha già ingaggiata per il suo prossimo film - e un comprovato talento del panorama britannico quale Colin Firth, che interpreta con malinconica perfezione l’illusionista cinico e disincantato, un’implosione raffinata di cinismo e arroganza.

La magia, grande passione di Allen, ha giocato e continua a giocare un ruolo rilevante nella sua filmografia: sia magia (Stardust Memories, New York Stories, Alice, Ombre e nebbia, La maledizione dello scorpione di giada, Scoop) che divinazione (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni) si

incontrano spesso nelle sue commedie, sublimando la dimensione comica e rivelando uno dei temi principali della poetica alleniana: la scelta. Il cinema di Allen arriva sempre al vicolo cieco dell’alternativa tra “orribile o miserrimo” (Io e Annie) o, come per Magic in the Moonlight, tra la vita vera e la sua illusione.

La commedia romantica è pertanto per il regista solo un pretesto per inscenare uno dei suoi dibattiti filosofici prediletti, ossia quello tra supremazia della ragione e dell’intuito, tra scettici e “credenti”, rispettivamente incarnati da un depresso realista di mezza età e da una giovane avventuriera. Come sempre, Allen mette un po’ di sé in ognuno dei suoi personaggi: in Stanley c’è il suo realismo, venato di amarezza e alimentato da un’intelligenza corrosiva. E c’è anche il rammarico di essere costretto, da quella stessa intelligenza, al rifiuto dell’illusione e dei suoi innegabili benefici. In Sophie, l’altro lato del suo cinema, c’è l’immagine vitale della speranza e dell’amore, nonostante e contro ogni evidenza.

Come ogni altro personaggio alleniano, nemmeno Stanley e Sophie troveranno una risposta ai loro dubbi - cosa è vero e cosa è inganno? Di chi possiamo davvero fidarci? - perché per il regista è più importante continuare a porsi nuove domande piuttosto che dare delle risposte; ma l’illusionista disilluso sceglierà di cedere allo slancio vitale, all’impulso irrazionale di lasciarsi ammaliare dallo charme della bella imbrogliona che esercita la suggestione per ingannare ma anche per proteggere, la magia per rendere più piacevole la vita degli altri, il potere mistificatorio per richiamare in vita i morti.

Francesca Savino

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Eugène Green Sceneggiatura: Eugène Green Fotografia: Raphael O’Byrne Montaggio: Valérie Loiseleux Interpreti: Fabrizio Rongione, Christelle Prot Landman, Arianna Nastro, Ludovico Succio Produzione: Martine De Clermont-Tonnerre e Alessandro Borrelli, per Mact Productions e La Sarraz Pictures Origine: Italia/Francia 2014 Distribuzione: La Sarraz Distribuzione Durata: 107’ Dai 16 anni

La sapienza Alexandre è un architetto parigino.

All’apice della sua carriera, si ritrova in crisi sia nel lavoro che nel matrimonio: come architetto sente di aver smarrito lo spirito che ne aveva animato i primi passi, come marito intrattiene con la moglie Alienor una relazione affettiva sincera ma ormai fredda. È per questo che la donna decide di seguire Alexandre nel viaggio di lavoro in Italia, sulle tracce delle opere realizzate dall’architetto italiano Borromini.

A Stresa la coppia incontra per caso Goffredo e Lavinia, una giovane coppia di fratelli: il ragazzo sta per intraprendere gli studi universitari di architettura, mentre la sorella vive all’ombra di una malattia nervosa che la fa precipitare in improvvisi stati di spossatezza.

Seguendo un istinto materno e professionale (la donna è infatti una psicologa), Alienor si appassiona alla vicenda dei due giovani e, comprendendo che il loro destino è in una maniera misteriosa legato a quello del marito e suo, decide di fermarsi a Stresa con Lavinia, costringendo Alexander a portare con sé Goffredo nel suo viaggio verso Torino e Roma.

La separazione cui le due coppie sono costrette si tramuterà in una occasione per comprendere le ragioni profonde del malessere che attanaglia lo spirito di Alexandre e di Lavinia e per offrire a Alienor e Goffredo la possibilità di valutare il peso delle loro scelte..

I

n un cinema come quello di Eugène Green, che è tutto un trovarsi al di là delle separazioni esistenziali imposte dalla vita, tutto un intreccio di trame spirituali tessute sul grande telaio di una profonda tensione umanistica, un film come La sapienza giunge a descrivere quasi un compendio di quel rapporto tra l’idealità dell’esistere e la prosaicità del vivere che, in fin dei conti, ne costituisce il nucleo fondativo. Noto in Italia purtroppo solo nei circuiti festivalieri (cfr. il bel pezzo di Flavio Vergerio dal TFF 2011, sul Ragazzo Selvaggio n. 91), questo regista di ormai lunghissima adozione francese, ma statunitense per ripudiata nascita, è autore di un cinema composto con aulica lievità filosofica su una narrazione che si concentra sempre su personaggi destinati a dover coprire una distanza interiore per raggiungere una consapevolezza che è spirituale prima ancora che esistenziale. La fatica del vivere a contatto con il mondo e le sue compromissioni, propria dei suoi personaggi sempre tesi a una visione idealistica ma non astratta dell’esistere, si traduce in percorsi che seguono traiettorie spirituali, per ritrovare la concretezza di uno spazio interiore ed esistenziale in grado di definire un primo approccio rappacificato alla vita.

La sapienza è un film che nasce nel segno della separazione: c’è la frattura malamente saldata, che unisce indissolubilmente la matura coppia di sposi francesi, e c’è l’imminente forzata dissoluzione dell’unità perfetta in cui si configura il rapporto affettivo che unisce la coppia di fratelli italiani. Tra queste due coppie c’è lo spazio di una distanza da coprire, la dispersione in un duplice viaggio in Italia (il rimando rosselliniano non ci pare affatto scontato) che scambia le pola-

rità delle due coppie per raggiungere una nuova armonia. Di mezzo c’è poi un gioco di riflessi che induce a sovrapporre le biografie e le spiritualità dei vari personaggi, in un intreccio di destini che protende Alienor verso Lavinia, così come rispecchia Alexandre nel suo giovane alter ego Goffredo, nel mentre incarna nel suo personale dissidio interiore l’antagonismo tra Borromini e Bernini. Si tratta di dinamiche complesse, che articolano una visione della vita tutta protesa verso l’altro in una tensione chiaramente simbolica della spiritualità.

Limpido nel suo articolarsi come narrazione filosofica (prima ancora che psicologica), il film parte da una condizione di freddezza assoluta, da una raggelata disarmonia che promana dalla spiritualità introflessa e negata del protagonista, Alexandre, e si diffonde sulla messa in scena stessa, per trovare via via un confronto profondo con la ricerca di una struttura armonica della vita nello spazio reale dell’esistere. In questo senso, ovviamente, il tema dell’architettura diviene lo specchio in cui Eugène Green, con la raffinatezza che gli è propria, riflette in concreto il bisogno di organizzare lo spazio esistenziale secondo geometrie che aspirano alla perfezione: i temi della luce e dello slancio verso l’alto su cui insiste, nell’analisi di Alexandre, l’architettura del Borromini (il titolo fa ovviamente riferimento alla chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma), offrono al film la parabola perfetta di una narrazione che mira a ricomporre l’integrità e l’armonia nelle relazioni tra i personaggi attraverso la collocazione adeguata delle forme e delle figure nello spazio.

Massimo Causo numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Volker Schlöndorff Adattamento e Sceneggiatura: Cyril Gely e Volker Schlöndorff dall’omonimo testo teatrale di Cyril Gely Montaggio: Virginie Bruant Fotografia: Michel Amathieu Costumi: Mirjam Muschel Interpreti: André Dussollier (console Raoul Nordling), Niels Arestrup (generale Dietrich von Choltitz), Burghart Klassner (capitano Ebernach), Robert Stadlober (tenente Bressensdorf), Jean Marc Roulot (Jacques Lanvin), Stefan Wilkening (caporale Mayer) Origine: Francia/Germania 2014 Distribuzione: Academy 2 Durata: 85’ Dai 16 anni

Diplomacy

Una notte per salvare Parigi Diplomacy Nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1944 all’Hotel Meurice, dove ha sede il quartier generale delle forze di occupazione tedesche, le sorti della capitale francese e dei suoi abitanti sono nelle mani del generale Dietrich von Choltitz, governatore di Parigi, il quale ha ricevuto l’ordine di farne saltare in aria il centro storico. Sono già stati minati una trentina di ponti, ad eccezione del Pont Neuf, così come i principali monumenti, il Louvre, NôtreDame, l’Opéra, la Tour Eiffel, un progetto studiato nei minimi dettagli, grazie all’aiuto di un ingegnere collaborazionista.

Mentre Parigi sta per essere liberata dagli Alleati che si stanno avvicinando, Hitler ordina ai suoi militari di mantenerne il controllo a tutti i costi, fino alla sua distruzione. Nominato governatore di Parigi il 7 agosto, il generale Choltitz è considerato tra i fedelissimi del führer, con la fama, guadagnata con le feroci repressioni di Rotterdam e di Sebastopoli, di saper controllare le città occupate.

Nel corso di quella notte, il militare riceverà la visita del console svedese Raoul Nordling il quale, servendosi di tutte le armi della diplomazia in suo potere, riuscirà a fargli cambiare idea. Il generale Choltitz si arrende il 25 agosto 1944 agli Alleati, dopo essersi rifiutato di distruggere la Ville Lumière.

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n articolo sul ritrovamento presso gli archivi militari tedeschi di documenti comprovanti il progetto di distruggere Parigi nell’agosto del 1944 è stato lo spunto per un lavoro di ricerche e interviste a testimoni dell’epoca a opera di Dominique Lapierre e Larry Collins, successivamente confluito nel loro romanzo-cronaca Parigi brucia? Nel 1966 René Clément ne trae una pellicola, dall’evidente intento celebrativo e con un cast internazionale composto, tra gli altri, da Gert Fröbe, Jean-Paul Belmondo, Charles Boyer, Orson Welles, Alain Delon, Yves Montand, Leslie Caron, Kirk Douglas. Una premessa necessaria, per introdurre la nuova opera di Volker Schlöndorff presentata all’ultima edizione della Berlinale, Diplomacy - Una notte per salvare Parigi, che per la scelta tematica rimanda a quel film, salvo prediligere, all’intreccio polifonico dei personaggi che caratterizzava la sua struttura narrativa, un’azione con due soli protagonisti. Diplomacy prende spunto, a sua volta, dall’omonima pièce scritta da Cyril Gely, che insieme al regista ha lavorato all’adattamento cinematografico.

Il film è essenzialmente un huis clos, che si svolge, a eccezione di pochi momenti, all’interno di una suite dell’hotel Meurice dove, nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1944, il generale tedesco Dietrich von Choltitz, pronto ormai a eseguire gli ordini di Hitler di distruggere la capitale francese, incontra il diplomatico svedese Raoul Nordling, il cui compito sarà quello di fargli cambiare idea. Un capitolo di storia relativamente poco conosciuto, che ha una base certificata, i due protagonisti si conoscevano e si sono incontrati più volte accordandosi per una specie di cessate il fuoco, anche se l’incontro alla base di Diplomacy non è avvenuto con le stesse modalità.

Nell’intrecciare Storia e finzione Schlöndorff, figura tra le più brillanti del nuovo cinema tedesco impostosi all’attenzione internazionale con Il tamburo di latta, mostra la sua destrezza nel creare un’opera che poggia sulla contrapposizione dei due protagonisti, il generale Dietrich von Choltitz, dalla fede militare incrollabile, al contempo eroso dal dubbio, e il coraggioso diplomatico Raoul Nordling, animato da una volontà infallibile, disposto a tutto per scongiurare la distruzione di Parigi e dei suoi abitanti, interpretati rispettivamente da Niels Arestrup e André Dussollier, già peraltro interpreti della pièce a teatro, perfetti nei loro ruoli e nelle variazioni di tonalità dal tragico al leggero, che via via il testo richiede.

Una scelta che riflette una precisa idea registica di partenza, di optare per il punto di vista del diplomatico. Sin dalle prime battute, difatti, è evidente che a raccontare la vicenda sia Raoul Nordling, per condurre lo spettatore dalla propria parte, renderlo partecipe di quel lungo dialogo simile a una partita a scacchi - in cui mette in scena tutta la propria abilità nell’anticipare e prevedere le mosse dell’altro - insinuandosi nelle convinzioni del proprio sfidante, mostrando di conoscerne ormai le mosse e minandone le certezze.

Una scrittura sobria e sicura dal ritmo vibrante che non lascia nulla al caso, a partire dalla perizia della scenografia, la suite dell’hotel Meurice (dalle presunte entrate e passaggi segreti, come quello utilizzato da Napoleone III per andare a trovare la propria amante e di cui fa uso lo stesso diplomatico per raggiungere il generale), uno spazio scenico che, insieme a Parigi, è a tutti gli effetti co-protagonista della vicenda.

Luisa Ceretto

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Rithy Panh Sceneggiatura: Rithy Panh, Christophe Bataille Fotografia: Prum Mésa Montaggio: Rithy Panh, Marie-Christine Rougerie Musica: Marc Marder Produzione: Catherine Dussart Productions (CDP), Arte France, Bophana Production Origine: Cambogia/Francia 2013 Durata: 96’ Distribuzione: Movies Inspired Dai 16 anni

L’immagine mancante L’image manquante Il 17 aprile 1975 i Khmer rossi di Pol Pot entravano nella capitale della Cambogia Phnom Penh. Iniziava una crudele dittatura. Milioni di persone vennero deportate nelle campagne per essere rieducate secondo le regole della nuova Kampuchea democratica. Rithy Panh aveva 11 anni e il padre era un funzionario del ministero dell’educazione del vecchio regime. Anche quella famiglia andava dunque perseguitata.

Il regista-narratore ricorda il tempo in cui viveva felice, quando la sua casa era piena di ospiti e Phnom Penh una città vivace. Poi le strade, fino a poco tempo prima piene di persone e mezzi, si fecero deserte e Phnom Penh si trasformò in una città fantasma. Gli uffici generali del regime rimasero gli unici luoghi abitati, mentre un liceo divenne un centro di prigionia, tortura e morte. Nei campi Rithy Panh conobbe gli stenti e le umiliazioni e vide morire, in breve tempo, il padre, la madre e tutti gli altri parenti.

Lavorò in un ospedale trovandosi quotidianamente di fronte alla morte, costretto a seppellire nelle fosse comuni chi moriva abbandonato a se stesso.

Va alla ricerca, il regista-narratore, dell’immagine mancante, che potrebbe documentare un’esecuzione da parte del regime o un istante nella vita dei genitori se fossero sopravvissuti. Portando sullo schermo il suo libro autobiografico L’eliminazione.

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ono anni, e sono film, che il cineasta cambogiano Rithy Panh lavora sulla memoria del suo paese, immergendosi nella sua storia, nella tragedia determinatasi negli anni Settanta con l’ascesa al potere di Pol Pot e dei Khmer rossi, che significò dittatura feroce, deportazioni in massa nelle campagne, sterminio dei dissidenti, umiliazioni fisiche e psicologiche nel nome di un comunismo degenerato che non praticava nessuna forma di uguaglianza e di benessere. Quegli anni, quegli avvenimenti che accaddero fra il 1975 e il 1979, Panh li ha messi al centro della sua opera, evocandoli e affrontandoli ricorrendo in particolare al documentario e, all’interno di esso, di volta in volta scegliendo punti di vista originali nella creazione di film dove è sempre in primo piano la riflessione sull’essere umano.

L’immagine mancante non è che il capitolo più recente di questo percorso, intrapreso dal regista fin dal 1989 quando esordì con Site 2, girato in un campo di rifugiati cambogiani in Thailandia. Regolarmente, Panh è tornato a confrontarsi con il genocidio commesso dai Khmer rossi di cui fu testimone. Una necessità morale che sta alla base di film come La terre des âmes errantes (1999), dove Panh ritrova anziani rifugiati del “Site 2” divenuti contadini; S 21, la macchina di morte dei Khmer rossi (2002), in cui i carnefici, che operarono nel famoso centro di sterminio S 21 situato nel cuore di Phnom Penh, incontrano per la prima volta i sopravvissuti; Dutch, le maître des forges de l’enfer (2011), che ripercorre la storia del primo leader del regime, noto come Dutch, portato nel 2009 davanti a un tribunale internazionale.

Con L’immagine mancante Rithy Panh ha deciso di tornare a parlare di quei quattro anni che sconvolsero la Cambogia in maniera ancora più personale e con uno stile diverso rispetto ai testi precedenti. Il film è narrato in prima persona dal regista (ma la voce, nella versione francese come in quella inglese, non è la sua), la sua testimonianza accompagna le immagini, che sono di duplice provenienza: da un lato, quelle di propaganda del regime; dall’altro, quelle create da Panh, la maggior parte delle quali ospita delle figurine di terracotta (realizzate dallo scultore Sarith Mang) per rappresentare sia luoghi sia persone nella Cambogia prima e durante la guerra.

Ne scaturisce un contrasto che, insieme alle parole del narratore, costituisce l’essenza de L’immagine mancante.

Le piccole sculture rimangono immobili negli spazi in cui sono collocate, non vengono “animate” nel senso tradizionale del termine, invece la macchina da presa scorre su di esse esplorando quelli che si possono considerare dei veri e propri presepi ben più vivi e palpitanti dei rari materiali d’archivio sopravvissuti. Raccontando di sé, bambino di 11 anni recluso nei campi di rieducazione, unico sopravvissuto di tutta la sua famiglia, Rithy Panh traccia un ulteriore sguardo su quel periodo. Talvolta, le figurine, che rappresentano persone anonime oppure lo stesso regista, il padre e altri familiari, sono deposte in mezzo alle immagini del passato creando un teorico e commovente “incontro” fra quei due livelli spazio-temporali. Perché L’immagine mancante è anche una riflessione sul cinema, sulla sua memoria, sull’uso politico e sulla responsabilità del filmare.

Giuseppe Gariazzo numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Gabriele Salvatores Soggetto e Sceneggiatura: Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo Fotografia: Italo Petriccione Montaggio: Massimo Fiocchi Scenografia: Rita Rabassini Costumi: Patrizia Chericoni Musica: Ezio Bosso, Federico de’ Robertis Interpreti: L. Girardello (Michele), V. Golino (Giovanna), F. Bentivoglio (Basili), H. Jivkov (Andreij), N. Zatta (Stella), A. Kandil (Candela), F. Valese (Martino), E. Barozzi (Brando), R. Gasparini (Ivan), V. Dobtcheff (Artiglio) Origine: Italia/Francia 2014 Distribuzione: 01 Distribution Durata: 100’ Dai 12 anni

Il ragazzo invisibile È biondo, ha gli occhi azzurri e un viso delicato. Si chiama Michele e ha quasi 13 anni. Vive a Trieste, non brilla nello studio, i compagni lo prendono in giro, non è nemmeno bravo nello sport.

Insomma: è un comune adolescente, innamorato perdutamente di Stella, una nuova arrivata di straordinaria bellezza.

Ed ecco che proprio lo straordinario irrompe nella vita del protagonista: una mattina, infatti, si sveglia e scopre di essere diventato invisibile. E questa non sarà la sua unica scoperta: Michele, in realtà, è figlio di due “speciali”, ovvero contadini russi che, in patria, hanno subito radiazioni - a causa di esperimenti genetici - e che per questo si sono trasformati in mutanti con superpoteri.

I genitori di Michele, con altre creature come loro, sono stati radunati in un campo di prigionia per essere sottoposti a studi e osservazioni, ma loro decidono di fuggire alle autorità per lasciare libero il figlio di vivere un’esistenza normale; abbandonano il bambino sulla soglia di una donna che si prenderà cura di lui con amore fino al momento in cui diventa invisibile e dovrà cercare le risposte sulle proprie origini.

Il finale svela i misteri del fantasy e restituisce al ragazzo la propria identità.

Una ricerca che passa attraverso dubbi, paure e sorprese. Ma questo appartiene a tutti, non solo a chi proviene da un mondo parallelo.

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ichele: lo stesso nome del protagonista di Io non ho paura. Due ragazzini quasi coetanei e in cerca di se stessi.

E poi ancora: Come Dio comanda ed Educazione siberiana: Gabriele Salvatores torna a occuparsi di adolescenza anche se gioca con i generi cinematografici: drammatico, horror, giallo e ora fantasy con Il ragazzo invisibile.

Se paragoniamo gli effetti speciali a quelli americani, il mainstream italiano (svelato nel backstage dopo i titoli di coda) si nota, ma allora dobbiamo considerare anche la sceneggiatura - di Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo - che si prende cura dei personaggi e dei loro sentimenti proprio come la graphic novel da cui il film è tratto, firmata Marvel e Panini Comics.

Michele, infatti, è il classico “nerd”: compra per una festa in maschera un costume brutto e per pochi soldi, è vessato dai bulli a scuola ed è innamorato di una ragazza irraggiungibile. Quanti ragazzi, nella sua stessa situazione, vorrebbero essere qualcun altro oppure avere l’opportunità di usare superpoteri?

Una volta scoperto di essere invisibile, il protagonista nutre il sentimento di vendetta nei confronti di chi lo ha sempre sottovalutato e cerca, così, di dimostrare la sua forza e la sua superiorità con azioni comiche, goffe, esagerate e, alla fine, inutili. Un buon messaggio, questo, per tutti gli adolescenti che non hanno ancora trovato la propria identità e si affidano a maschere (vestiti, trucchi, pircing) o ad atteggiamenti artefatti per la necessità di essere accettati dal gruppo, per ottenere attenzioni, per conquistare l’affetto dei coetanei o degli adulti.

L’uso dei poteri nel film non aumenta il ritmo della narrazione ma, al contrario, risulta fonte di riflessioni sulle insicurezze dei giovani e, a volte, l’inadeguatezza dei più grandi nel saperli ascoltare, capire e aiutare.

Gli adulti sono presenti nel racconto e nella vita di Michele: sono, a loro modo, amorevoli e attenti ma, come nella realtà, risentono della voglia di apparire quando, invece, sarebbe meglio che per i figli, alunni, nipoti, rimanessero una presenza al loro fianco, quasi appunto “invisibile”, ma certa e confortante.

Ancora un viaggio, per il regista premio Oscar, questa volta verso un “altrove” che esplora le possibilità dell’esistenza, che non necessita di superpoteri per essere affrontata, ma di coraggio, un pizzico di autostima, bontà e di tutte le qualità che una persona ha già dentro di sé e che i più giovani devono imparare a scoprire.

Il ragazzo, infine, capisce - e ricorda anche agli spettatori - che avere superpoteri (magari anche solo tanto denaro o tanta tecnologia a disposizione) comporta anche grandi responsabilità, come diceva Spiderman, uno degli eroi a cui si pensa guardando il film: bisogna sempre stare attenti a come si usano i poteri che si hanno a disposizione, considerando di non fare mai del male a se stessi e, soprattutto, agli altri.

Michele, come i protagonisti dei film di Salvatores citati, affronta un’avventura, supera le proprie paure, si mette in gioco e scopre la propria interiorità: si tratta, quindi, di un viaggio di formazione faticoso, ma allo stesso tempo affascinante e strabiliante, come lo è la vita stessa.

Alessandra Montesanto

PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Nima Javidi Sceneggiatura: Nima Javidi Fotografia: Hooman Behmanesh Musica: Hamed Sabet Montaggio: Sepideh Abdolvahab Scenografia: Keyvan Moghadam Costumi: Keyvan Moghadam Interpreti: Peyman Moadi (Amir), Negar Javaherian (Sara), Mani Haghighi (sig.

Mosayebi), Shirin Yazdanbakhsh (madre di Amir), Elham Korda (baby-sitter).

Origine: Iran 2014 Distribuzione: Microcinema Durata: 91’ Dai 16 anni

Melbourne Melbourne Amir e Sara, sposati da poco, decidono di trasferirsi in Australia con un visto studentesco per iniziare una nuova vita fuori Teheran: Amir viene chiamato con il titolo di ingegnere. Mentre stanno facendo i bagagli e svuotando il loro appartamento dei mobili, Sara telefona al signor Mosayebi, un vicino di casa, pregandolo di rientrare dal lavoro al più presto. Capiamo infatti che, qualche ora prima, la baby-sitter della famiglia accanto alla loro ha lasciato in affidamento ad Amir e Sara la neonata che cura, perché deve sbrigare alcune commissioni e non può portare con sé la piccola.

La bambina ora dorme placidamente sul letto della coppia, ma nessuno si è ancora fatto vivo per recuperarla. Poco dopo Amir va in camera per spostare i comodini e radunarli insieme agli altri arredi; una ventata d’aria fa sbattere la porta della stanza, mandandone in frantumi un riquadro di vetro. Amir, giratosi appena in tempo per evitare di essere ferito dalle schegge, sobbalza nel vedere che la bambina non si è neanche mossa. Impaurito la scuote, chiamando un’ambulanza, ma presto si accorge che è troppo tardi: la piccola è morta.

Per Amir e Sara comincia un vero e proprio tormento interiore: come dare la notizia al padre che sta per sopraggiungere? Perché proprio a loro deve capitare una sciagura come questa a poche ore dal taxi che li accompagnerà in aeroporto?

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egista al primo lungometraggio, Nima Javidi è un ingegnere che ha scelto di dedicarsi al cinema con due cortometraggi e diversi spot pubblicitari. Applaudito a Venezia, Melbourne è un film dal budget contenuto che, per necessità, lavora sul dettaglio. Ambientato in un appartamento, cerca di trattenere gli spettatori portandoli con sé nell’interiorità delle coscienze, nel dubbio morale. Un’impresa non facile che tuttavia al regista è riuscita piuttosto bene. C’è qualche scivolone, purtroppo, nel voler trovare una spiegazione plausibile al tragico incidente che travolge le vite di Amir e Sara. Ma questo non scalfisce la serietà delle intenzioni e soprattutto la crisi personale dei personaggi, il bivio davanti al quale sono continuamente posti e, detto per inciso, i risvolti politici che la sceneggiatura cela.

Amir e Sara sono una coppia moderna, colta, aperta al nuovo. Sara porta il velo, ma non nasconde la passione per la moda e le lingue straniere. Amir è un ingegnere che si sente stretto a Teheran, dove subisce il peso di una famiglia patriarcale che gli rimprovera la decisione di partire, mentre un amico, con una telefonata via Skype, gli prospetta la libertà della vita che lo attende a Melbourne.

All’improvviso, irrompe l’elemento tragico che fa precipitare quel gaio pomeriggio di preparativi in un inferno. Amir, all’inizio, si comporta coerentemente a quanto ci aspetteremmo davanti a un’emergenza: chiama un’ambulanza. Poi c’è come uno scarto, il tempo rallenta. L’ambulanza non arriva, mentre di lì a poco citofonerà il padre della bambina. Chi dovrà dare la notizia?

Amir e Sara, intenzionati a dire la verità, a scusarsi, non riescono a farlo. Montano una serie di scuse e pretesti, mandano via il pronto soccorso medico, impauriti dalle

reazioni davanti a un così atroce destino.

Capiscono che, se vogliono andarsene, devono tener fuori tutti dall’incidente, come dire che devono tenere fuori tutte le pressioni esterne dal loro privato. Ma quelle pressioni vengono a sollecitarli. Il padre della bambina, la baby-sitter, l’amica di Sara che ha procurato i visti per l’espatrio, la madre e la sorella di Amir, tutti passano per chiedere conto della loro responsabilità.

Si incrocia quindi il tema dell’emigrazione, perché, forse, per chi resta chi parte ha sempre il volto di qualcuno che fugge dalle proprie responsabilità. Un elemento che Javidi afferma di aver voluto nascondere, ma che non sfugge a occhi attenti, soprattutto nella scelta della vittima.

Un neonato, un innocente di per sé, con l’aggravante dell’incomunicabilità, perché in tutto il film vediamo solo una bambina che dorme. Non piange, non si muove. Inquietante come certi film di Polanski. Quella bambina, custodita nel cuore di una casa privata, è forse la democrazia che muore a ogni abbandono dell’Iran da parte dei suoi cittadini più promettenti?

Nessuno l’ha uccisa, è la sindrome da morte in culla che colpisce implacabile, senza motivo. Eppure c’è insistenza nel riprendere gli oggetti prima della tragedia e nel finale. Una macchina fotografica, una sigaretta, una bottiglia di latte: strumenti quotidiani diventano ricchi di significato negli ultimi gesti prima di chiudere la casa.

La bimba resterà alla vicina anziana, una signora sola, che ha preparato per Amir e Sara un cibo di addio, come nella tradizione islamica dell’accomiatarsi da chi si assenta per sempre. Forse la democrazia, cullata tra le braccia di quella nonna affettuosa, non è completamente morta.

Cecilia M. Voi numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Ermanno Olmi Soggetto e Sceneggiatura: Ermanno Olmi Fotografia: Fabio Olmi Montaggio: Paolo Cottignola Scenografia: Giuseppe Pirrotta Costumi: Andrea Cavalletto, Maurizio Millenotti (supervisione) Musica: Paolo Fresu Interpreti: C. Santamaria, A. Sperduti, F. Formichetti, A. Di Maria, C. Grassi, N. Senni, D. Benetti, A. Benetti, A. Frigo, F. Stefani, I. Pistollato Origine: Italia 2014 Distribuzione: 01 Distribution Durata: 80’ Dai 14 anni

Torneranno i prati La vicenda si svolge tutta in un’unica notte di plenilunio, dopo gli scontri del 1917, poco prima di Caporetto.

In un avamposto ad alta quota sull’altipiano di Asiago, dove la truppa è decimata da un’influenza proveniente dai Balcani, il Maggiore reca l’ordine di raggiungere un rudere, ignorato dalle carte italiane, ma presente su quelle austriache, da occupare come osservatorio, su cui allestire un’altra linea telefonica, non intercettata dal nemico, com’è invece quella abitualmente usata.

Data l’estrema luminosità della notte, l’ordine si rivela ben presto “criminale” come urla il capitano che dopo un po’, pur di non mandare altri uomini alla carneficina, rinuncia al grado.

In attesa che venga nominato un altro ufficiale, il comando della postazione viene affidato a un giovane tenente, che riceve ben presto l’ordine di ripiegamento immediato. Ciò che prima era un obiettivo irrinunciabile, da realizzare a qualunque prezzo di vite umane, improvvisamente diventa secondario.

Liberamente ispirato al racconto La paura di Federico De Roberto del 1921, ai ricordi del padre del regista, che a distanza di anni piangeva ancora a rievocarli, ai diari, alle lettere (vere) dei soldati, il film racconta la guerra dal punto di vista di chi l’ha combattuta, di chi ha creduto ed è morto.

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n monumento cinematografico al milite ignoto”. Così è stato definito il film richiesto a Ermanno Olmi per commemorare la Grande Guerra. Tutti i personaggi sono militi ignoti, dei quali vengono registrati gesti, presentimenti, riflessioni, emozioni. È la storia vista dal basso: una storia minima, segnalata dal titolo in tutte minuscole, fatta di accadimenti minuti, nel freddo e nel fango della trincea, in attesa di ordini.

Vengono mostrati l’arrivo del rancio, della posta (l’unica volta in cui il nome di alcuni soldati venga pronunciato), vengono impartiti ordini, comunicati con urgenza i contrordini. Gli oggetti di scena sono autentici cimeli storici: armi difensive e offensive, gavette, pentole, mestoli, brocche, portasapone, lanterne che oscillano al vento diaccio delle vette, pagliericci, biancheria stesa sulla corda ad asciugare sulle stufette, coperte per difendersi dal freddo pungente, foto di famigliari.

Il film è fatto di percezioni fisiche. Percezioni visive, esaltate dalla splendida fotografia di Fabio Olmi, figlio del regista: la volpe, la lepre, il larice osservati dalla feritoia compaiono in immagini bianche, grigie, nere. È stato girato a colori, ridotti poi col digitale quasi al bianco e nero, salvo qua e là il rosso del sangue, l’oro del larice e qualche vampata di colore nelle esplosioni. Sono poi presenti percezioni acustiche: il rombo dei cannoni, lo scoppio e lo sfrigolio dei razzi illuminanti, il ronzio del trapano sotterraneo, il tintinnare dei campanacci sul filo spinato scosso dal vento.

La narrazione non si serve di musica, a parte l’armonica all’inizio e Il silenzio, composto e suonato da Paolo Fresu, che chiude il film. La vita aspra di questi combattenti, mostrata nella sua rudezza ed essen-

zialità, si svolge nel più severo silenzio. Infine riscontrabile e quasi percettibile è la sensazione tattile acutissima del freddo di quel terribile inverno a quella quota.

La vita in trincea è monotona e insieme tesa. Il padre del regista ricordava i momenti terribili in cui si attendeva l’ordine dell’assalto. Il tempo si ferma. Nell’attesa attonita e febbrile emerge l’interiorità e i soldati confessano i propri sentimenti. Voci sommesse, lunghi silenzi, frasi dilatate e sospese rivelano emozioni, riflessioni, considerazioni, l’angosciante incombere di un pericolo, la percezione di essere stati intenzionalmente votati al sacrificio della vita, al non ritorno, l’incomprensibilità di ordini e contrordini, il logoramento, lo spaesamento, l’esposizione fatale a una morte imminente e, insieme, il senso e la lunga pratica dell’obbedienza. Tutta l’Italia povera, umile, spaventata, disinformata, per lo più contadina e analfabeta, si rende conto che il proprio sacrificio è stato calcolato e programmato. Perciò i soldati interpellano Dio, anche con bestemmie, sperimentandone il silenzio, e uno si dà questa ragione: “Se non ha ascoltato suo Figlio sulla croce, vuoi che ascolti noi, pori cani?”

Il nemico non compare mai, anche se le sue trincee sono a pochi passi, occupate da soldati al pari dei nostri poveri e strumentalizzati per scopi che non comprendono.

Solo, all’inizio, si ode qualche grido di plauso al canto del soldato napoletano.

Dopo alcune immagini d’archivio il film si chiude sul commento dell’attendente: “Torneranno i prati...” L’ultimo oltraggio: com’è stato osservato, la pace non segnerà il ritorno della vita e della bellezza, ma la cancellazione dell’esperienza e perfino del ricordo dell’immane tragedia.

Maria Grazia Roccato

PA N O R A M A S C H E D A R I O

Il mio amico Nanuk Luke è un ragazzo che la madre, ricercatrice naturalista, deve affidare temporaneamente a una zia. Il ragazzo e sua sorella Abbie sono orfani di padre morto in un tragico incidente. Nel corso della notte un’orsa attacca il garage dell’abitazione e viene portata via dai Ranger. Luke ha però modo di scoprire la motivazione dell’attacco: nel garage era rimasto intrappolato il suo cucciolo che il ragazzo chiamerà Nanuk. Luke decide di prendersene cura e non solo, di aiutarlo a ritrovare la madre. Per fare ciò va a chiedere aiuto a Muktuk, una guida locale che la sua famiglia ritiene responsabile della morte del genitore. Il ragazzo ricorda invece quanto il padre si fidasse di lui. Muktuk è però consapevole dei rischi e cerca di dissuaderlo ma Luke si impadronisce di una motoslitta e parte ugualmente.

Allertato da Abbie, la guida lo segue.

Luke cade nell’acqua per una frattura del ghiaccio e sarà Nanuk a salvarlo e gli Inuit di un vicino accampamento gli daranno ricovero. Qui conoscerà una coetanea che gli regalerà un amuleto portafortuna. Muktuk lo raggiunge e insieme tornano alla base.

Successivamente il ragazzo riparte per riportare Nanuk (“viandante”, così è stato chiamato l’orsetto) alla mamma orsa. Dovrà superare una tempesta ma riuscirà nel suo intento.

Proprio in quel momento arriverà sul posto Muktuk con un elicottero e anche Luke potrà riabbracciare sua madre.

Regia: Roger Spottiswoode, Brando Quilici (sequenze artiche) Soggetto: dal libro omonimo di B. Quilici Sceneggiatura: Hugh Hudson, Bart Gavigan Fotografia: Peter Wunstorf, Doug Allan (riprese naturalistiche) Montaggio: Pia Di Ciaula Scenografia: Eric Fraser Musica: Lawrence Shragge Interpreti: D. Goyo (L. Mercier), G. Visnjic (Muktuk), B. Moynahan (M. Mercier), P. MacNeill (A. Speck), K.L. Timmins (A. Mercier), L. Kash (Zia Rita), M. Thrush (Eta), I. Cardinal (Nuvua), ...

Origine: Canada/Italia 2014 Distribuzione: Medusa Durata: 98’ Dagli 8 anni

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rando Quilici dimostra con questo film, di cui non è solo regista ma anche autore del soggetto, che buon sangue non mente. Suo padre Folco era riuscito con le sue opere (chi, tra gli over 50, non ricorda Ty-Koyo e il suo pescecane o Fratello mare?) a fondere la spettacolarità della narrazione cinematografica con le tematiche legate alla necessità di non contaminare ambiti naturali e culture. Brando, in un’epoca in cui il pubblico sembra essere attratto solo da film ad alto tasso di effetti speciali è riuscito, insieme a Roger Spottiswoode ma assumendosi l’onere di tutte le riprese artiche, a riportare sugli schermi una storia semplice e profonda al tempo stesso. Riesce a sintetizzare questa dimensione lo sceneggiatore Hugh Hudson (successivamente sostituito da Bart Gavigan per problematiche produttive) che afferma: “La cosa che mi ha colpito subito del soggetto è stata la semplicità mitica della storia e la mancanza di sentimentalismo. Mi ha fatto pensare ad alcune delle grandi storie di Jack London, anche grazie alla meravigliosa, per quanto difficile, ambientazione che contribuisce notevolmente alla bellezza della storia. La cosa vale anche per i conflitti interiori e interpersonali che scorrono come fiumi sotterranei all’interno della storia. È apparso chiaro sin dall’inizio che tutti i protagonisti della storia avrebbero affrontato un viaggio, non solo il ragazzo e il cucciolo d’orso. In fondo sappiamo tutti per esperienza vissuta che sono proprio le ferite, gli errori, le paure e le debolezze le cose che aiutano a crescere di più”.

L’esperienza di documentarista di Quilici per National Geographic è stata fondamentale non solo per conservare intatta una passione per l’Artico - che non è sta-

ta infranta neppure quando la troupe è dovuta rimanere rinchiusa nelle tende per dieci giorni a causa di una violenta tempesta che azzerava la visibilità impedendo di raggiungere il villaggio più vicino (che si trovava comunque a 150 chilometri di distanza). Vedendo il film si può pensare a lunghi interventi di addestramento (e quindi in qualche misura di forzatura) sul cucciolo d’orso. Non è stato solo così perché una volta accertati i ritmi dell’animale (al mattino iperattivo e dopo il pasto e un riposo di due ore decisamente più calmo) si sono suddivise le scene in funzione degli stessi. Va poi aggiunto (è Quilici a raccontarlo) che gli orsi bianchi sono golosissimi di cioccolata e che quindi il rapporto tra il giovane attore e il plantigrado è stato ricco di affetto ma anche di … golosità. Queste dinamiche ci mostrano anche come nella realtà (e non solo sullo schermo) sia possibile rispettare i tempi e i modi di manifestazione della Natura. Perché questo, al di là della storia di un’amicizia tra un adolescente e un cucciolo d’orso e di un percorso, come ha sottolineato Hudson, è un film che ha una forte impronta ecologista.

Perché non si tratta solo della sopravvivenza dei circa 25.000 orsi, di cui oltre il 60% vive nell’area artica canadese, ma di quella dell’intero ecosistema. Il mio amico Nanuk ci mostra come il surriscaldamento della Terra stia provocando danni irreversibili al pianeta mostrandocelo senza sermoni ma inserendo occasioni di riflessione nella storia. All’uscita nasce il desiderio di documentarsi e si scopre che nel settembre 1981 l’Artico misurava 8 milioni di metri quadrati. Nello stesso mese del 2012 si erano ridotti a meno di quattro. È arrivato il tempo di invertire la rotta.

Giancarlo Zappoli numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A S C H E D A R I O Regia: Eric Darnell, Simon J. Smith Soggetto: Tom McGrath, Eric Darnell Sceneggiatura: John Aboud, Michael Colton, Brandon Sawyer Musica: Lorne Balfe Produzione: DreamWorks Animation Origine: Usa 2014 Distribuzione: 20th Century Fox Durata: 92’ Dai 6 anni

I pinguini di Madagascar Penguins of Madagascar I quattro pinguini fuggiti dallo zoo nel primo film della serie, Skipper, Rico, Kowalski e Soldato, sono diventati una squadra molto unita, sanno farsi amare, ma anche immergersi in straordinarie avventure.

Per festeggiare il compleanno di Soldato, entrano nella base di Fort Knox solo per rubare le patatine al formaggio dall’ultimo distributore rimasto.

Finiscono così nell’agguato del perfido Dottor Octavius, ossia il polipo Dave, deciso a vendicarsi di tutti i pinguini del mondo che gli hanno rubato la scena, e l’affetto, in tutti gli zoo del pianeta, mutandoli in creature mostruose.

Fuggono i nostri eroi da Venezia a Shanghai a New York, dall’Africa al Kentucki. Incrociano l’ipertecnologica squadra Vento del Nord, capitanata da Segreto, un lupo grigio, supportato dall’orso bianco Caporale, dalla foca Miccia, dalla civetta delle nevi Eva, incaricati di difendere gli animali dai soprusi. Quando Soldato verrà rapito da Dave, dovranno collaborare. Ben diversi sono i modi di operare: l’improvvisazione confusa dei pinguini sembra sempre vincente rispetto all’efficiente militarismo degli specialisti.

Ma la situazione precipita e tutti i pinguini catturati, trasformati in esseri orrendi, saranno rifiutati dagli zoo e dalla popolazione che li aspettava con ansia. Si salveranno? Per merito di chi?

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el primo film d’animazione della serie Madagascar, uscito nel 2005, i quattro simpatici pinguini erano la spalla comica, personaggi secondari entrati anche nei palinsesti TV con una serie adeguata, per la breve durata dei singoli episodi, a questa loro caratteristica. Ora, la DreamWorks, alla ricerca di una nuova saga, punta sul già noto e offre la ribalta ai piccoli “carini e coccolosi” che diventano i protagonisti del film.

L’incipit, quasi un frammento a sé, è folgorante e racconta la nascita del gruppo con tanto di rocambolesco salvataggio di un uovo nel bel mezzo dell’Antartide, da cui uscirà il piccolo Soldato. Si è formata la “squadra d’élite”, quasi una famiglia. E si annuncia lo stile comico prevalente con un insieme di gag slapstick come in Ice Age. Dopo questo siparietto il film innesca decisamente la strada dell’action movie dal ritmo velocissimo e stordente, coloratissimo, senza soffocare la comprensione degli eventi, unito alle ambientazioni esotiche dello spy-movie, come ammette Tom McGrath, uno degli autori, che dice di essersi ispirato agli western della sua infanzia con John Wayne e ai vari James Bond.

Motore della trama è l’odio del malvagio polipo Dave, mutato geneticamente nello scienziato dottor Octavius Tentacoli, che, umiliato dall’avvenenza e dalla simpatia dei pinguini, emarginato in tutti gli zoo del pianeta, vuole far vivere ad altri esseri viventi, tutti gli esseri viventi del regno animale, l’esperienza, e la sofferenza, di un aspetto orrendo, progettando vendette violente vagamente simili ai piani di Cattivissimo me contro i Minion. Lo scontro tra le due squadre di salvataggio,

quella tecnologica del Vento del Nord, col suo approccio scientifico, contro l’improvvisazione forsennata, l’azione per il gusto dell’azione, della Squadra d’élite pinguinesca moltiplica gli eventi.

Polo Nord contro Polo Sud: battibecchi, gag, battute non hanno limiti. Non sempre comprensibili dai bimbi (“Dove siamo diretti? In Francia. Oh no, con quel regime fiscale!). Il dialogo, il gusto della battuta (decisi a tutto pur di salvare il mondo, anche a “disdire il corso di teatro già prenotato”) sembra proprio essere il centro del film, cui non mancano del resto altre coloriture comiche: la parodia del cinema d’azione, la presa in giro dei documentaristi decisi a tutto pur di movimentare le loro dirette e l’onnipresente slapstick: una miniera di citazioni. Che vorrebbe forse conquistare un pubblico adulto, prevalentemente cinefilo. Ma il target specifico restano i bambini.

Il film procede senza intoppi. Di fatto, ritmo ipercinetico, ricerca continua della risata finiscono per schiacciare le caratteristiche individuali dei personaggi e la pur semplice (semplicistica?) morale. Coraggio, altruismo, amicizia, valori presenti in ogni action, e accettazione della propria identità, e dei propri difetti, cercando di essere amati per ciò che si è e non per come si appare, diventano elementi secondari. Anche lo strampalato cattivo, più che minaccioso, sembra patetico, non va oltre la macchietta del maniaco.

Animazione pari alle aspettative, effetti speciali in 3D non rilevanti, come commedia funziona, diverte, nonostante la ripetitività delle peripezie, può anche far riflettere, ma non raggiunge il livello del primo Madagascar.

Carla Delmiglio

PA N O R A M A F E S T I VA L PORDENONE | Le Giornate del Cinema Muto 4-11 ottobre 2014

Ricorrenze, celebrazioni, r i c e r c a di MARIOLINA GAMBA, FLAVIO VERGERIO

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rentatreesima edizione delle Giornate del Cinema Muto tra ricorrenze storiche e celebrazioni di personaggi/famiglie. Come sempre un programma ricco di appuntamenti singolari che ha richiamato a Pordenone specialisti e critici da tutto il mondo, studiosi e cinefili di ogni età.

Centenario della Maschera Charlot Charlie Chaplin appariva per la prima volta sugli schermi con bombetta, baffetti e bastone il 7 febbraio 1914 nel cortometraggio Kid Auto Races at Venice. Anche le Giornate hanno festeggiato la ricorrenza del centenario da quel giorno con proposte trasversali, ma soprattutto chiudendo la Manifestazione con la proiezione di City Light/Luci della città (1931), uno degli ultimi film muti della storia del cinema.

Il personaggio Charlot è il risultato di una genialità e di un’intelligenza eccezionali, ma anche di un’infanzia difficile, di un’esperienza lavorativa in teatro molto precoce (Chaplin ha cominciato a recitare a dieci anni), di meticolosità, impegno, concentrazione e precisione.

Tornando alla sua maschera, il favore è stato immediato. A meno di due anni dalla sua entrata nel mondo del cinema Chaplin era già una star. Il segreto del successo su scala mondiale, oltre che all’originalità e alla simpatia, è probabilmente dovuto alla sua grande

City Light di Charlie Chaplin, Inghilterra 1931 (City Lights © Roy Export S.A.S).

A sinistra Golgota Srbije di Stanislav Krakov, Serbia 1930 (Jugoslovenska Kinoteka, Beograd).

A destra Ben-Hur: a Tale of the Christ di Fred Niblo, Usa 1925. umanità, sempre velata da una traccia malinconica.

Quanto a City Light, aggiungiamo solo che è ritenuto uno dei capolavori della storia del cinema e ha registrato da subito il favore del pubblico. Per realizzarlo Chaplin ha lavorato tre anni ripetendo alcune scene fino allo sfinimento. La toccante vicenda del povero vagabondo che compera una rosa da una fioraia cieca (che lo crede milionario) e della fatica che l’uomo fa per procurare alla ragazza i soldi con cui pagare l’operazione che le restituirà la vista - finendo però in prigione - è un intreccio di componenti comiche e tragiche, registro espressivo che del resto caratterizza quasi tutti i film del grande attore/regista.

interessante anche perché nella versione restaurata presenta una serie di scene epurate dalla censura. Ha infatti una storia complessa perché, scomparsa durante l’occupazione nazista, è tornata brevemente alla luce dopo la Seconda Guerra mondiale, riscomparendo subito durante l’epoca di Tito (che aveva combattuto nelle file dell’esercito austro-ungarico contro la Serbia). È stata ritrovata nuovamente dopo il 1980.

Evidente caratteristica del documentario è l’aspetto propagandistico perché rappresenta in modo fedele ed efficace la disfatta della Serbia tra le montagne albanesi, ma anche il suo riscatto sul fronte di Salonicco con la vittoria nel 1918.

Centenario della Grande Guerra

Alba del Technicolor

Da mesi in molti Paesi vengono programmati momenti di ricordo e riflessione sul centenario della Grande Guerra che ha insanguinato per anni il suolo europeo.

Annunciando ampie sezioni sul tema nelle prossime edizioni, l’evento è stato ricordato quest’anno a Pordenone con la proiezione del documentario serbo Golgota Srbije (The Serbian Golgotha - Fire in the Balkans), realizzato nel 1930 dal regista e giornalista Stanislav Krakov e riproposto in una versione sonora nel 1940.

Il film è il risultato di una commistione tra materiale filmico originario e ricostruzioni molto realistiche (per ridar vita a pellicole girate tra il 1914 e il 1918 ma andate distrutte), realizzate con la partecipazione di soldati e ufficiali che avevano preso parte a quelle stesse battaglie. La pellicola è

È recente la notizia che il Festival di Berlino celebrerà nella sua prossima edizione i 100 anni del Technicolor con una selezio-

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PA N O R A M A F E S T I VA L ne di 30 classici (dagli inizi fino al suo declino nel 1953). In anticipo sulla data del centenario le Giornate hanno messo in programma un assaggio di tale ricorrenza con la sezione L’alba del Technicolor in cui sono stati proiettati diversi cortometraggi e Ben-Hur: a Tale of the Christ di Fred Niblo, Usa 1925, grandioso e dispendioso film con alcune scene a colori, girato, oltre che in California e in Nord Africa, anche in Italia.

E, a proposito di colore, i curatori hanno messo in programma anche il più antico lungometraggio a colori sopravvissuto, The Toll of the Sea di Chester M. Franklin, Usa 1922, ispirato a Madame Butterfly, seguito da alcuni straordinari film a colori di Méliès, dipinti a mano fotogramma per fotogramma.

Canone Rivisitato

Una delle sezioni più interessanti e seguite nell’ambito delle Giornate è quella che ripropone capolavori della storia del cinema, rivisitati e presentati nel pieno della loro ricchezza di contenuti, ambientazioni storiche e forme.

Tra i film in programma ricordiamo due pietre miliari: Herr Arnes Pengar (Sir Arne’s Treasure) di Mautitz Stiller, Svezia 1919 e Die Nibelungen. 1.Teil: Siegfried e 2. Teil: Kriemhilds Rache (Kriemhild’s Revenge) di Fritz Lang, Germania 1924.

Herr Arnes Pengar è stato realizzato nella cosiddetta età dell’oro del cinema muto svedese. Tratto da un romanzo breve di Selma Legerlöf pubblicato nel 1903, e basato parzialmente anche sull’adattamento teatrale del testo andato per la prima volta in scena a Berlino nel 1917, è caratterizzato da una recitazione che mette in luce in particolare l’animo tor-

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A colpi di note Sono ormai otto anni che le Giornate dedicano un appuntamento interessante e molto seguito alla scuola, in particolare a un progetto didattico in sintonia con una delle fondamentali caratteristiche del Festival: l’accompagnamento dei film con musica dal vivo.

A sonorizzare The Immigrant di e con Charlie Chaplin (1917) si è cimentata la Scuola Media Centro Storico di Pordenone, ad accompagnare The Boat di e con Buster Keaton (1921, vedi foto) la Scuola Media Leonardo da Vinci di Cordenons. Due opere, quelle scelte, ricche di intensità drammatica e ritmo, che i ragazzi e chi li ha guidati hanno accostato e arricchito con impegno e sensibilità.

Un momento particolare, apprezzato come ogni anno sia dai famigliari e dai compagni dei giovani musicisti, sia da tutti gli ospiti della Manifestazione.

M.G.

mentato dei due personaggi principali (il capo dei mercenari e la fragile figura femminile di Elsalill, combattuta tra amore e sofferenza). Gli esterni della pellicola evocano la partecipazione della Natura ai drammi umani perché il gelo, la neve e il vento sembrano punire la cattiveria umana e placarsi solo quando gli uomini prendono coscienza delle proprie azioni malvagie. Particolarmente curata anche la composizione delle inquadrature che, a detta di esperti, richiama i disegni e le illustrazioni delle prime edizioni del testo letterario, e che, sommata ad altre elaborate scelte espressive, rappresenta con efficacia il rapporto realtà e mondo soprannaturale ricorrente nel pensiero della Legerlöf.

Die Nibelungen: Siegfried e Kriemhilds Rache hanno richiamato in sala un’ampia presenza di pubblico perché le due opere si distinguono su tutte per la durata complessiva (147’ la prima e 128’ la seconda), ma soprattutto per l’impianto scenico, la caratterizzazione dei personaggi, le componenti drammatiche e sceniche, la dimensione simbolica.

Fritz Lang era convinto che il cinema fosse indipendente dalle categorie di tempo e di spazio e, collegandosi a questo, sosteneva che certi temi e certe emozioni, pur mutando nelle forme in cui si manifestano, rimangono costanti nel tempo. Si è impegnato a dar forma al poema epico del XIII secolo adottando quelli che riteneva elementi drammaturgici eternamente validi, convinto di riuscire in questo modo a raggiungere e a coinvolgere con la sua opera il pubblico dei con-

temporanei. Essendo il poema un punto centrale nella costruzione di un’identità nazionale tedesca fin dall’inizio del XIX secolo, l’opera si innesta in quella tradizione. Anche per tale motivo ha attirato l’attenzione della politica nazionale fin dalla prima proiezione.

Girato negli studi Ufa di Neu-Babelsberg, il film attraversa quattro mondi: quello naturale da cui parte il giovane Siegfried, la corte dei Burgundi a Worms, l’Islanda di Brunihild e l’impero di Etzel nelle steppe dell’Asia. I personaggi del dramma epico si muovono entrando e uscendo da questi quattro mondi con una messinscena fortemente strutturata e controllata che però, nelle scenografie, dà spazio a una vasta gamma di fonti visive che hanno i punti di riferimento in epoche e arti difformi. Non mancano però rielaborazioni di astrazione ed espressionismo.

Mariolina Gamba A sinistra Herr Arnes Pengar di Mautitz Stiller, Svezia 1919 (Swedish Film Institute).

Die Nibelungen di Fritz Lang, Germania 1924 (Murnau-Stiftung, Wiesbaden, Germany).

PA N O R A M A F E S T I VA L

I Barrymore, famiglia reale d’attori Oltre che al piacere della riscoperta di grandi successi degli anni 20, la corposa retrospettiva dedicata al proverbiale terzetto dei fratelli Barrymore ci ha permesso di verificare l’evoluzione artistica di attori, noti ai frequentatori del cinema americano degli anni 40 e 50, quando erano ormai anziani. John (1882-1942), Lionel (1878-1954) ed Ethel (1879-1959) erano figli d’arte di origine irlandese. Il membro più noto della famiglia d’origine era lo zio Sidney Drew, morto nel 19, interprete ironico di commedie leggere.

Con un lungo apprendistato i tre fratelli si imposero sulla scena teatrale nuovayorchese, tanto da essere definiti “La famiglia reale di Broadway”, alternando l’attività teatrale con quella cinematografica

The Eternal City di George Fitzmaurice, Usa 1923 (Courtesy of the films stills collection at The Museum of Modern Art, NY).

Sotto The Copperhead di Charles Maigne, Usa 1920 (George Eastman House, Rochester, NY). nella nascente Hollywood. Il curatore della rassegna, Philip C. Carli, attribuisce sinteticamente a John le caratteristiche di “romanticismo intellettuale”, a Lionel “la ferrea professionalità e la cura dei dettagli”, a Ethel “la bruciante e altera intensità”.

In effetti la personalità attoriale dei tre era diversificata e complessa, dialetticamente divisa fra consapevolezza e manifestazione dei propri mezzi espressivi e approfondimento dei caratteri psicologici dei personaggi che mettevano in scena, fra manierismo e verità. Probabilmente John era il più consapevole delle proprie qualità, che esibiva in modo brillante, spesso al limite del gigionismo. Dotato di un fisico atletico (fu definito in ragione di ciò “The Profile”), dal-

When a Man Loves di Alan Crosland, Usa 1927 (George Eastman House, Rochester, NY).

A destra The White Raven di George D. Baker, Usa 1917 (George Eastman House, Rochester, NY). le linee del viso ben scolpito, quasi grifagno, esprimeva il suo gioco d’interprete con una godibile tensione nervosa, sostenuta forse dalla sua nota propensione all’alcool, che doveva anticiparne la fine. Elegante, raffinato, ironico, impertinente, eccentrico, se noi lo ricordiamo nel vertiginoso duetto con Carole Lombard di Ventesimo secolo (1934) di Howard Hawks, nei film degli anni 10 e 20 presentati a Pordenone ne abbiamo scoperto la vena comica, quale appare in The Incorrigible Dukane (1915) di James Durkin (storiella di un rampollo scapestrato inviato dal padre a rifarsi le ossa nella miniera di famiglia, travestito da vagabondo), ma soprattutto quella romantica e melodrammatica. È il caso di un classico Dr. Jekyll and Mr. Hide di John S. Robertson (1920) archetipo dei successivi rifacimenti di Rouben Mamoulian (1931), con Fredrich March e di Victor Fleming (1941), con Spencer Tracy.

La sua fama di grande amatore si afferma con When a Man Loves (1927) di Alan Crosland (quello de Il cantante di jazz dello stesso anno), tratto dal romanzo protoromantico Manon Lescaut (1731) dell’abate Prévost e rivisitato con un happy-end che vede i due infelici amanti sfuggire ai bagni penali per veleggiare verso la libertà e le coste americane. Degna di urlo la scena in cui Manon sottrae all’elevazione spirituale di San Sulpicio il povero cavaliere De Grieux, che si strappa la veste monacale per correre ancora una volta dietro il sogno di un amore funesto. Curiosa poi la stilizzazione di un Lord Brummel di Harry Beaumont (1924) in cui la proverbiale eleganza del dandy inglese si contrappone, con un risibile significato politico, all’arrogante volgarità del suo antico protettore, il Principe Reggente e futuro re Giorgio IV. Lionel, più controllato e misurato nella recitazione, era dedito ai toni sentimentali e patetici, ma al tempo stesso dotato di capacità riflessive e ironiche. Queste sue ca-

ratteristiche si manifestarono nelle sottili figure del nonno in carrozzella ne L’eterna illusione (1938) e ne La vita è meravigliosa (1946) di Frank Capra. La sua capacità di mettere in scena la sofferenza psicologica

e morale di un animo diviso si esprime nella figura del poliziotto “buono” che tenta inutilmente di salvare dal delitto un fratello ubriacone (in The Strong Man’s Burden di Anthony O’Sullivan, 1913), in quella di un uomo del Sud segretamente simpatizzante per la causa dei Confederati e a lungo considerato un traditore (in The Copperhead di Charles Maigne, 1920), e nel tormentato personaggio del falsificatore di firme, al soldo di un finanziere criminale (in Jim the Penman di Kenneth Webb, 1921). Interessante anche la partecipazione di Lionel (nella parte di un “cattivo” comunista) a un improvvido omaggio al nascente regime

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PA N O R A M A F E S T I VA L fascista nella mega-produzione The Eternal City di George Fitzmaurice (1923), in cui appare lo stesso Mussolini nelle vesti di grande conciliatore di disordini sociali.

Ethel fu soprattutto grande attrice di teatro classico, dotata di severa e aristocratica imponenza nella recitazione. Si impose come grande caratterista nel dopoguerra (Il caso Paradine di A.Hitchcock e La scala a chiocciola di Robert Siodmak). I due suoi film muti presentati a Pordenone, in particolare The White Raven di George Baker (1917), storia melodrammatica di una vendetta attuata da una cantante d’opera nei confronti del socio infedele del padre, ne hanno evidenziato la recitazione rigida e statuaria, non aiutata da una particolare avvenenza.

Yakov Protazanov: ridere al tempo della Rivoluzione Il cinema russo e poi sovietico a cavallo della rivoluzione comunista è comunemente considerato un periodo di grandi innovazioni linguistiche, legato alle avanguardie e all’imporsi di grandi personalità quali Ejzenstejn, Vertov e Pudovkin. Il rinnovamento linguistico tendeva a smontare le convenzioni della rappresentazione naturalistica (di derivazione teatrale) e la continuità del racconto distrutte dal montaggio rapido, dalle inquadrature eccentriche e dalla ricerca di significati che andassero oltre un piatto realismo, nella direzione delle metonimie, delle metafore e delle sineddochi.

Ma il rinnovamento sociale e ideologico legato al nuovo clima politico passava anche attraverso il permanere della commedia, solo apparentemente più accomodante e conformista. Accanto al massimo rappresentante di questo genere, Boris Barnet, più volte rivisitato a Pordenone, le Giornate ci hanno permesso di “scoprire” un altro campione della commedia, di grande successo popolare e di enorme prolificità. Yakov Protazanov (1881-1945) gira infatti ben 80 film

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Chiny I Liudi di Yakov Protazanov, Urss 1929 (Gosfilmofond of Russia).

In basso Zakroishchik iz Torzhka di Yakov Protazanov, Urss 1925 (Gosfilmofond of Russia). durante la fase finale dello zarismo, nei generi più disparati, dalle farse alle tragedie, adattando per lo schermo i grandi della letteratura quali Tolstoj e Puskin, affermandosi come solido professionista. Allo scoppio della Rivoluzione si rifugia con la sua troupe prima nella più sicura Crimea, poi in Francia e Germania, continuando a girare in virtù della stima conquistata. Quando nel 1923 Protazonov torna in patria, il nuovo regime lo impiega come “artista di lusso”, capace di insegnare l’artigianato del cinema ai nuovi cineasti. La sua produzione è eterogenea (uno dei suoi film più noti è Aelita, storia d’amore di ambientazione fantascientifica, con una scenografia costruttivista). Fustigatore della falsa morale borghese, il regista non era certo un rivoluzionario leninista, anche se nutriva una certa simpatia per le idee comuniste. La commedia in Protazanov, condita di senso dell’assurdo e del surreale, studia le contraddizioni della condizione esistenziale umana, prigioniera delle strutture sociali e delle sue ipocrisie e convenzioni. Senza cedere alle imposizioni dell’ideologia, Protazanov fa scaturire il riso dalla descrizione puntuale di questa condizione.

Il capovolgimento dei ruoli sociali è spesso il meccanismo su cui si fondano le sue commedie. Si veda ad esempio Gornichnava Dhzenni (Chambermaid Jenny 1918) ove la protagonista, giovane contessa decaduta per la bancarotta del padre, è costretta a impiegarsi come domestica in una famiglia aristocratica. Qui si innamora del giovane rampollo che la impalmerà solo dopo che saranno chiarite le sue origini nobili, salvando così le regole di separazione imposte dalle differenze di classe, in un happy-end a doppio fondo. Il racconto è punteggiato da situazioni ironiche, ad esempio con la protagonista che si fa insegnare le buone maniere dal maggiordomo con cui brinda alla fine a champagne.

Zakroishchik iz Torzhka (The Tailor from Torzhok, 1925), sotto le apparenze della far-

sa, mette in scena l’eterna lotta per il dominio fra i sessi. L’uomo è qui un piccolo sarto di paese, concupito da una matura e ricca matrona, cui l’ometto preferisce una giovane carina, ma squattrinata come lui.

Arricchito da molte gag (l’attore protagonista, Igor Illinsky, imitava Chaplin) e trovate narrative, il film si conclude con un lieto fine fondato sulla fortunosa vincita alla lotteria da parte dei due giovani.

Protsess o Trekh Millionakh (The Trial Concerning Three Millions, 1926), tratto da un romanzo futurista dell’italiano Umberto Notari, rifatto nel 54 da Lionello De Felice con Totò e Gino Bramieri, mette in scena un apologo morale in cui si confrontano un ladruncolo di polli, un ladro in guanti gialli e un lestofante alto-borghese che ricatta l’amante per il possesso delle loro lettere d’amore. Paradossale e ironica la morale pronunciata alla fine dal ladruncolo ormai arricchitosi con soldi altrui, secondo la quale va difeso “il sacro principio della proprietà privata”.

La visione pessimista dei rapporti umani in Protazanov è significativamente rappresentata da Chiny i Liudi (Ranks and People, 1929) tratto da tre famosi racconti di Čechov (Anna al collo, La morte di un funzionario, Il camaleonte). Nel primo la diciottenne protagonista acconsente a un matrimonio d’interesse con un maturo funzionario, abbandonando al proprio destino il padre, anziano professore vedovo e ridotto alla fame, con due altri figli a carico. Il film si apre con una sequenza vertiginosa che mette in rapporto spaziale implacabile il treno con gli sposi che si allontana e il padre implorante sulla banchina con i due fratelli.

Un’analisi linguistica a parte richiederebbe il grottesco pamphlet anticlericale, animato da un montaggio indiavolato, Prazdnik Sviatogo Yorgena (The Fest of Saint Yorgen, 1930) in cui un ladro di elemosine per una serie di equivoci esilaranti viene messo agli altari come santo risorto. < Flavio Vergerio

PA N O R A M A F E S T I VA L AMSTERDAM | Cinekid Festival, Family and Kids 11-28 ottobre 2014

Laboratori in p r i m o p i a n o di ANGELA MASTROLONARDOAMBA

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nche quest’anno Cinekid è stato ospitato negli spazi dell’ex Westergasfabriek, inserita nel meraviglioso Westwrpark di Amsterdam. Le organizzatrici, capitanate dalla direttrice Sannette Naeyé, hanno messo a frutto i finanziamenti europei del programma Europa Creativa, dell’amministrazione comunale di Amsterdam, di alcune Fondazioni private nazionali e degli sponsor commerciali componendo un programma vario e articolato. Ancora una volta la Manifestazione ha soddisfatto le curiosità e le aspettative di un pubblico dai 4 ai 14 anni, ma non ha tralasciato l’obiettivo di “formare” i professionisti olandesi e stranieri, accorsi per aggiornarsi sulle nuove tendenze nel campo delle immagini in movimento. Infatti Cinekid non è solo un festival di cinema per bambini e adolescenti, è una fucina di nuovi talenti dei new media e delle produzioni televisive.

Le organizzatrici della Manifestazione sono consapevoli della naturalezza con cui i nativi digitali si orientano tra le nuove tecnologie, le piattaforme web, il cinema online. Per questo, grazie anche alle possibilità offerte dall’accattivante location, offrono molti piccoli set allestiti nel capannone denominato Cinekid Medialab (di cui è responsabile, con un’equipe motivata, Paulien Dresscher): gli artistiscienziati-informatici allestiscono i vari spazi. Tra le altre quest’anno ci ha colpito l’installazione Birdly, di Max Rheiner (Svizzera 2014), che è riuscita a dare a chi l’ha sperimentata l’illusione e l’emozione esaltante del volo. I giovani e meno giovani,

The Boy with the Golden Pants di Ella Lemhagen, Svezia 2014.

In basso Land of Good Kids di Olga Kaptur, Russia 2013.

A destra Felix di Roberta Durrant, Sud Africa 2013. adagiati su un lettino semovente (dopo aver indossato una maschera), accarezzati dall’aria spinta da un ventilatore, hanno vissuto l’esperienza del volo in alta quota in compagnia degli uccelli migratori, guardando il mondo dalla loro prospettiva.

Un’altra installazione, Murmur, prodotta da Chevalvert (Francia 2013), grazie al passaggio delle informazioni da un sistema a un altro, ha reso visibili le onde sonore, con l’esplosione, su una parete, di segni grafici simili a magnifici fuochi d’artificio a seconda dell’intensità dell’emissione vocale del soggetto in gioco. In un altro spazio un “magico” tessuto, creato dagli artisti Anna Dumitriu e Alex May (Gran Bretagna 2014), grazie alla collaborazione tra biotecnologie e pratiche artistiche, nel progetto Super Organism rendeva visibile la bellezza dell’infinitamente piccolo, i batteri che ciascuno di noi inconsapevolmente trasporta sugli abiti…

Anche nella sezione Cinekid for Professional, curata da Fleur Winters per addetti ai lavori - che intende dare occasioni di cooperazione internazionale per la produzione e distribuzione cinematografica -, è apparsa evidente la consapevolezza che non si può più parlare solo di cinema, ma si deve prestare attenzione alle nuove tecnologie e ai loro linguaggi: il cinema per ragazzi non è che un media tra altri. Nella conferenza Finding a New Audience i relatori hanno dimostrato le potenzialità interattive delle piattaforme web, sia per lo sviluppo delle trame delle serie nate e diffuse sul web, che per le potenzialità commerciali, tenendo conto del fatto che sin dall’età prescolare i bambini hanno la possibilità di giocare con i tablet e le tastiere dei computer. Nel campo della produzione cinematografica si è inteso indagare i gusti dei ragazzi, sottoponendo un gruppo di dieci adolescenti volontari alla visione del girato di al-

cune storie, analizzandone le reazioni e decidendo gli ulteriori sviluppi delle trame proprio basandosi sui loro orientamenti.

Nella sezione, Best Children’s Film, abbiamo visto 15 pellicole, che hanno concorso per vincere Il Leoncino, mentre le sottosezioni Best Dutch Family Film, Panorama e Svedish Focus hanno allargato l’orizzonte su un’offerta di qualità per un pubblico di bambini.

Alcuni dei film in concorso erano in prima visione, altri erano già stati presentati a Cannes o a Berlino. A colpirci positivamente alcuni titoli, frutto della sensibilità di tre registe: The Boy with the Golden Pants di Ella Lemhagen (Svezia), una fiaba moderna che aiuta a riflettere sull’idolatria attuale del “dio” denaro; Felix di Roberta Durrant (Sud Africa), che invita a valorizzare le proprie inclinazioni e i talenti naturali e Land of Good Kids di Olga Kaptur (Russia 2013), visivamente molto curato, che mette in guardia dai pericoli dell’omologazione. Discutibile ci è apparsa invece la scelta del film tedesco Fiddlestickhs che, pur tenendo conto delle sincere intenzioni del regista Veit Helmer, attribuisce ai giovani protagonisti intenzioni e punti di vista tipici degli adulti.

Ricca di proposte per tutte le età la sezione dei cortometraggi: di animazione, di fiction e documentari, per soddisfare i diversi gusti del pubblico.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A F E S T I VA L ROMA | Festival Internazionale del Film di Roma 16-25 ottobre 2014

Dalla parte del pubblico di ELIO GIRLANDA

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a nona edizione della kermesse, l’ultima del direttore Marco Müller a cui si deve il neologismo Festaval, ha anticipato le decisioni del ministro Franceschini, eliminando la giuria e, complici i tagli, selezionando solo anteprime, omaggi, restauri e incontri, ma con 113 film da 23 Paesi, eventi speciali, mostre e mercato. Infatti nel 2015 la manifestazione si chiamerà Festa, con data fissa, senza concorso, ma mercato potenziato e probabile accorpa-

mento con il Fiction Fest della tv. Già quest’anno a indicare i vincitori di tutto il programma della Selezione ufficiale è stato il pubblico (oltre 80 mila ingressi).

Sguardo da spettatore Così, il Premio BNL (sezione Gala) ha sottolineato il valore spettacolare e tematico dello sguardo eurocentrico di Stephen Daldry (vedi Il Ragazzo Selvaggio n.

107/108) in Trash, presente in collaborazione con Alice nella città, ottima sezione autonoma e parallela, che gli ha assegnato il Premio speciale della Giuria. Similmente, per Cinema d’Oggi con Shier gongmin/12 Citizens di Xu Ang, remake de La parola ai giurati (vedi scheda a p. 55 - 58) con uno spaccato variegato della società cinese, si è forse premiato lo stile filo-occidentale. Per Mondo Genere il premio a Haider di Vishal Bhardwaj, è andato a un corposo (159’) adattamento di Amleto, dopo Macbeth e Otello dello stesso regista di Bollywood, trasposto in tragedia familiare nel Kashmir degli Anni 90, fra torture e omicidi politici, durante il conflitto India-Pakistan.

Per Cinema Italia, ben rappresentata con Prospettive Italia, sono stati premiati Fino a qui tutto bene di Roan Johnson e

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Fino a qui tutto bene di Roan Johnson, Italia 2014.

A sinistra La foresta di ghiaccio di Claudio Noce, Italia 2014.

In basso La spia di Anton Corbijn, Germania/Gran Bretagna/Usa 2014.

Looking for Kadija di Francesco G. Raganato per il documentario. Johnson imbastisce una commedia dolceamara con cinque giovani pisani alla fine della convivenza da precari. Realizzato in compartecipazione finanziaria con coloro che hanno lavorato al progetto, mostrando le scelte che ognuno fa responsabilmente prima o poi, lasciando le protezioni, il film diverte per freschezza ma non è mai ritratto generazionale, forse impossibile in tempo di crisi. Nel documentario una troupe italiana in Eritrea prepara il film sull’amore tra l’ufficiale di cavalleria Amedeo Guillet e la figlia di un capotribù, Kadija, ai tempi della sconfitta in Nord Africa del nostro esercito. Il casting è l’occasione metafilmica per indagare sulla condizione femminile in un Paese segnato da vent’anni di dittatura militare.

Le uniche giurie presenti e trasversali, presiedute dal regista Jonathan Nossiter e dal produttore Federico Schiavi, hanno premiato l’opera prima di Andrea Di Stefano, Escobar: Paradise Lost, storia d’amore tra Nick e Maria, nipote del famoso narcotrafficante Pablo Escobar (Benicio del Toro), di cui si mostrano frammenti di crudeltà e vita familiare, e il produttore Laura Hastings dell’inglese X+Y di Morgan Matthews (Alice nella città), delicato incontro tra un ragazzo prodigio della matematica, dai difficili rapporti in famiglia, e la rivale di Taiwan alle Olimpiadi della matematica.

Menzione speciale per il Kammerspiel in barca a vela Last Summer di Lorenzo Guerra Seràgnoli, che ha la scrittrice Banana Yoshimoto co-sceneggiatrice, che racconta di una giapponese con quattro giorni per dire addio al figlioletto, di cui ha perso la custodia. Il premio DOC/IT per il do-

cumentario a Largo Baracche di Gaetano Di Vaio (Prospettive Italia), con menzione speciale a Roma Termini di Bartolomeo Pampaloni, segnala il coraggio delle nostre docufiction, pur con qualche segno d’immaturità linguistica: la prima, nell’’inferno’ dei Quartieri Spagnoli a Napoli, e la seconda, tra gli emarginati della stazione romana, si muovono alla ricerca drammaturgica di un riscatto degli abitanti ‘invisibili’, con sguardo in soggettiva, soprattutto in Roma Termini, che mira al cuore.

Tra cronaca e attualità In Cinema d’oggi ha colpito Biagio di Pasquale Scimeca, il cui intento è chiedersi “per chi” e “perché” si fa un film. Quindi si racconta la vita vera di Fratel Biagio che da benestante abbandona famiglia e agi, dapprima per isolarsi nella natura selvaggia delle Madonie e poi, colpito dal viaggio ad Assisi, per dedicarsi all’assistenza di barboni ed emarginati, occupando una struttura abbandonata a Palermo e fondando la Missione di speranza e carità.

“Fatto anche per capire meglio la crisi in cui vi-

PA N O R A M A F E S T I VA L viamo, che è economica ma soprattutto ideale e culturale”, dichiara l’autore. Interpretato da Marcello Mazzarella, fedele a Scimeca ma un povero accolto a suo tempo egli stesso da Biagio, il film ha vinto il Green Movie Award, il Premio di critica sociale “Sorriso diverso” e la menzione speciale del Signis Award-Ente dello Spettacolo, ed è distribuito nelle sale della Comunità a cura dell’ACEC. Molte le anteprime, soprattutto di indipendenti americani, a segnare l’autorialità dell’attore-divo. Per non citare i nostri come La foresta di ghiaccio, noir alpino di Claudio Noce, o la metacommedia tra mélo e noir sul “carattere degli italiani” in uno stravagante condominio prima di Capodanno, Soap opera di Alessandro Genovesi. O il blockbuster Andiamo a quel paese del duo Ficarra e Picone che hanno chiuso allegramente il Festival. Invece Still Ali-

Shier gongmin (La parola ai giurati) di Xu Ang, Cina 2014.

In alto Last Summer di Lorenzo Guerra Seràgnoli, Italia 2014. ce di Richard Glatzer ha in Julianne Moore il punto di attrazione e, insieme, di forza drammaturgica. Tratto da un romanzo, il film scandaglia l’impatto che la scoperta dell’Alzheimer precoce provoca in una famiglia. L’accettazione della malattia si sviluppa grazie alla Moore, coinvolta da una storia simile nel privato.

Anche Richard Gere s’impegna (anche produttore) nel dramma di un uomo agiato che, per crisi e rapporti familiari rovinosi, diventa un senzatetto a Manhattan. Eppure, nonostante gli sforzi di sceneggiatura, trucco e regia (con inquadrature ‘rubate’ per strada), Time Out of Mind di Oren Moverman, esordiente con Oltre le regole - The Messenger (2009), non sa farci dimenticare la maschera divistica.

Lo stesso vale per Kevin Costner. Con Mike Binder di Black and White, presente ancora con Alice nella città, l’attore esplora le differenze razziali, tanto di attualità negli USA, da un punto di vista originale.

Un avvocato, dopo la morte della figlia, educa la nipotina nata da una relazione interrazziale, confrontandosi dolorosamente con le tensioni provocate dalla famiglia afroamericana della nonna. La spia di Anton Corbijn, poi, ultimo film di Philip Seymour Hoffman, attualizza la ‘diversità’ fisica e morale del personaggio di Le Carré con una sorta di testamento dell’attore.

Nuove proposte Il Festival ha riservato anche novità e sorprese sperimentali, sempre guardando all’oggi. Come la serie tv di Steven Soderbergh, The Knick (vedi p. 16), 10 episodi in un ospedale della New York d’inizio 900 con occhio contemporaneo (un dottore, interpretato da Clive Owen, a corto di antibiotici, sperimenta nuovi metodi contro l’incremento della mortalità ma è dipendente dalla cocaina). O il Kamisama no iutoori (As the Gods Will), di Takashi Miike, ironico mix di videogame, cartoon e horror, tratto da un manga, con liceali annoiati nel Giappone attuale in lotta simbolicamente con i giochi o prove mortali di una gigantesca bambola Daruma (figurine votive tradizionali che rappresentano il primo patriarca dello zen). O Wir sind jung.

Wir sind stark (We are Young. We Are Strong) dell’afgano-tedesco Burhan Qurbani, che in b/n ricostruisce le violenze sugli immigrati a Rostock, nell’ex-Germania dell’Est, quando 3.000 neonazisti incendiarono un centro di accoglienza con 150 rifugiati vietnamiti, per poi attualizzare l’inte-

grazione di un’immigrata e la riconciliazione tra un padre, politico carrierista, e il figlio neonazista nel finale a colori.

Anche Wired Next Cinema al MAXXI ha rivelato formati contemporanei. Dal found footage del brasiliano Marcelo Masagão (Ato, atalho e vento) che con brani da più di 150 film si chiede dove sia il tempo-passato, presente e futuro, e riscrive il cinema come seduzione perenne dello spettatore, fino al maestro-scrittore Franco Lorenzoni (Elementare, ancora per la sezione autonoma ma di punta, Alice nel-

Escobar: Paradise Lost, di Andrea Di Stefano, Francia/Spagna/Belgio/Panama 2014.

In basso Black and White di Mike Binder, Usa 2014. la città) che ha registrato cinque anni nella sua scuola elementare a Giove in Umbria, mostrando metodo pedagogico e, insieme, progressi dei bambini. E poi Mario Sesti e Mario Chiarini, con un viaggio singolare tra i disegni di Scola, Bellocchio e Virzì come materiale preparatorio (Prima del film), ed Elisabetta Sgarbi, con Due volte Delta, emozionanti racconti di vita di pescatori lungo il Po. E altri ancora. Come nel ricco programma di Alice nella città dove il premio del Miglior film per Young/Adult è andato a The Road Within, della regista-scrittrice americana Gren Wells, divertente e divertito road movie antistituzionale con tre ragazzi: uno affetto da sindrome di Tourette, uno da disordine ossessivo compulsivo e un’anoressica. Un festival, insomma, attraente per tutti i tipi di pubblico. < numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A F E S T I VA L BELLINZONA | Castellinaria Festival internazionale del cinema giovane 15-22 novembre 2014

Un puzzle di e m o z i o n i , un’occasione p e r c r e s c e r e di MARIOLINA GAMBA

U

n appuntamento per assistere a film che emozionano, coinvolgono, a volte fanno sognare. Ma pure un’occasione per riflettere su temi delicati e attuali: in altre parole per crescere.

Anche in questa 27° edizione Castellinaria non ha deluso i suoi fans e gli insegnanti che hanno accompagnato le classi a vedere i film in programma per poi discuterli a scuola consultando i materiali critici che la direzione artistica mette a disposizione in Rete. Un programma di rilievo in tutti i suoi tasselli, dal primo week end ai concorsi, dai film della Piccola Rassegna che quest’anno ha scelto di festeggiare il centenario della nascita del personaggio Charlot - alle fasce orarie del tardo pomeriggio e delle serate, infine per la nona edizione di Castellincorto, sezione dedicata ai cortometraggi provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo.

Considerata l’importanza del personaggio, parliamo subito della Piccola Rassegna, riservata agli alunni del primo ciclo della scuola elementare. Per loro sono stati presentati tre film di Chaplin famosissimi: Giorno di Paga (1922),Vita da cani (1918) e Il monello (1921). Le tre interpretazioni di Charlot sono memorabili, le vicende oscillano tra il drammatico e l’ironico. Su tutte emerge quella de Il monello in cui un vagabondo si trova a far da padre a un bambino abbandonato dalla mamma perché non crede di potergli assicurare un futuro sereno. Divenuta cantante, la donna cerca il figlio e ha la fortuna di ritrovarlo: il bambino viene così sottratto all’uomo che ne soffre moltis-

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Vita da cani di Charlie Chaplin, Usa 1918.

In basso Oorlogsgeheimen di Dennis Bots, Olanda 2014. simo. Ma le inquadrature finali lo vedranno ricongiungersi al piccolo. Una vicenda coinvolgente, ricca di momenti divertenti, ma soprattutto drammatica e malinconica, come spesso sono i film di Chaplin.

Passando ai premi assegnati dalle giurie dei ragazzi, diciamo subito che la pellicola maggiormente apprezzata dai giurati di 6-15 anni - Premio Castello d’Oro - è stata Oorlogsgeheimen (Segreti di guerra) di Dennis Bots (Olanda), seguita al secondo posto - Castello d’Argento - da Vielen Dank Für Nichts (Molte grazie per niente) di Stefan Hillebrand, Oliver Paulus (Svizzera/ Germania) e al terzo - Castello di Bronzo- da O menino e o mundo di Alê Abreu (Brasile); il premio Tre Castelli (giurati di 16-20 anni) è stato assegnato a Whiplash di Damien Chazelle (Usa). Vielen Dank Für Nichts ha ricevuto anche il premio della giuria Castellinaria “Fuori le Mura” (formata da alunni di Porrentruy, Colombier e Milano).

Oorlogsgeheimen è ambientato nell’estate del 1943. Tuur e Lambert sono amici da sempre e si incontrano ogni giorno per giocare ed esplorare il territorio che circonda il villaggio. I genitori di Tuur sono legati alla Resistenza, mentre quelli di Lambert (il padre è sindaco del paese) fanno parte del Partito Nazionalsocialista. L’arrivo di Maartje attrae i due amici, ma poi li divide perché la ragazza, che in un primo tempo simpatizza per Lambert, si affeziona poi a Tuur al quale svela di essere ebrea. Mentre il sindaco vorrebbe che il figlio entrasse nella Gioventù Hitleriana, questi, sconvolto dalla gelosia e dal sentirsi tradito da Tuur, spia l’incontro tra i due ex amici e denuncia la famiglia che ospita la ragazza. Questa viene arrestata e Martje deportata. Viene alla luce anche la posizione della famiglia di Tuur che deve fuggire. A questo punto sarà Lambert che, resosi conto delle tragiche conse-

guenze delle proprie azioni, aiuterà Tuur e i suoi a mettersi in salvo in Belgio. Il film è tratto da un testo letterario. Grazie all’efficace interpretazione di tutti i personaggi, ma in particolare dei tre preadolescenti, tratteggia con realismo l’atmosfera del paese in cui si svolge l’azione. Gli eventi quotidiani e le relazioni sembrano snodarsi senza tensione, ma giorno dopo giorno prendono forma disagi e sospetti sempre più manifesti. I tre ragazzi vivono il tragico presente con una consapevolezza che all’inizio del film è parziale. Matura in loro grazie ad alcune esperienze che vivono insieme o individualmente: la scoperta di alcuni fumetti nelle grotte - segno di una presen-

O menino e o mundo di Alê Abreu, Brasile 2013. za nascosta -, l’orsacchiotto mutilato buttato dal treno dalla mano di un bambino, le confidenze di Maartje a Tuur poco prima dell’arresto, la corsa affannata del ragazzo per vedere l’amica l’ultima volta e consegnarle la medaglia che le aveva promesso, il tentativo di Lambert di placare le reazioni del padre alla sua impulsiva “bravata”…

Vielen Dank Für Nichts, è una co-produzione tra Svizzera e Germania che affronta uno dei temi più difficili e toccanti della convivenza civile: quello dei disabili. Sullo schermo un gruppo di giovani colpiti da

PA N O R A M A F E S T I VA L handicap, ospiti di un centro atesino. Guidati da Valentin, rimasto paralizzato da poco in seguito a un incidente di snowboard - il quale non accetta la propria condizione e all’inizio è molto infastidito dai compagni che hanno problemi simili ai suoi - tre di loro progettano una rapina ai danni di un centro commerciale attiguo a una stazione di benzina. Saranno felici quando, processati, verranno riconosciuti colpevoli. Dal canto suo Valentin riuscirà ad acquisire serenità e disponibilità relazionale grazie alla partecipazione a un laboratorio teatrale e all’incontro con l’assistente Mira della quale si innamora. La ragazza diverrà l’elemento catalizzatore della riconciliazione del giovane con se stesso e con il mondo. Un film ben strutturato e recitato che, nonostante la delicatezza del tema affrontato, riesce a suscitare l’interesse e il favore del pubblico.

O menino e o mundo è un’originale e pirotecnica animazione muta che racconta il disagio e la sofferenza di un bambino, costretto a separarsi dal padre partito per cercare lavoro. Il piccolo si mette sulle tracce del genitore e, accanto alla bellezza e ad altre qualità positive dell’esistenza, incontra solitudine, ingiustizie, dolore, sfruttamento degli uomini e dell’ambiente… Ciò che rende il film singolarmente interessante e sorprendente è la sua confezione formale perché fonde diverse tecniche in un raffinato flusso visivo che percorre l’intera umanità e sfocia in un orizzonte esistenziale caratterizzato da serenità e poesia.

Coinvolgente (e per certi versi scioccante) anche il film americanoWhiplash di Damien Chazelle, cui è stato assegnato il primo premio del concorso 16-20, il Premio Tre Castelli. Racconta la vicenda di un giovane batterista che, per riuscire a dimostrare la propria bravura accontentando il proprio maestro, deve studiare e allenarsi fino allo sfinimento. La storia è ambientata a New York in un conservatorio che dovrebbe preparare i giovani talenti a carriere di altissimo livello: all’ambizione personale di chi frequenta si collegano spesso

Marina di Stjin Coninx, Belgio/Italia 2013.

In basso Bande de filles di Céline Sciamma, Francia 2014.

A destra Whiplash di Damien Chazelle, Usa 2013. richieste e imposizioni di maestri che raggiungono la crudeltà. È quello che accade al nostro protagonista che entra in una spirale di autodistruzione. Premiato al Sundance 2014 con il gran premio della giuria e il premio del pubblico, Whiplash è il risultato di strutture narrativa, espressiva e drammatica efficaci, emotivamente seducenti, alle quali dà notevole contributo la colonna sonora di musica jazz. Il limite del film è forse quello di non aver allargato il tema a denunciare la logica di induzione a dare il massimo e a mettersi in competizione oggi sempre più diffusa in ogni campo. Le reazioni positive del pubblico sono comunque assicurate.

Altri premi assegnati dalla Giuria 16-20 anni, in una rosa di proposte ricche di temi interessanti e attuali, sono stati: il premio Ambiente e Salute: Qualità di vita a Ni ije Dete (Figlio di nessuno) di Vuk Ršumovi (Serbia/Croazia) e il premio Utopia a Bande de filles di Céline Sciamma (Francia).

Ni ije Dete/No One’s Child, premiato alla Mostra di Venezia dal pubblico della Settimana della Critica e con il Premio FIPRESCI, si basa su una storia vera accaduta nella primavera del 1988 in Bosnia, alla vigilia degli avvenimenti storici che hanno condotto alla guerra del 1992. Porta alla ribalta la vicenda di un ragazzino trovato tra le montagne, presumibilmente allevato dai lupi, a cui viene dato il nome di Haris, ospitato in un orfanotrofio di Belgrado e rispedito in Bosnia nel pieno della guerra, dove si pensa sia morto: una sorta di “ragazzo selvaggio” che richiama quello di Truffaut, anche se i due film sono molto diversi. Ni ije Dete racconta la storia di Haris - con una struttura circolare, con inquadrature essenziali in cui le luci rincorrono le ombre e regna spesso il silenzio - evidenziando l’assurdità del suo percorso verso un parzialissimo recupero, e creando per certi versi un parallelismo con l’assurdità del conflitto scoppiato nella ex Jugoslavia durante il quale il bam-

bino scompare. (In proposito vedi anche nel n. 107/108 p.47).

Bande de filles è il ritratto di un’adolescente e del gruppo delle compagne con cui si lega per sfuggire a una situazione familiare difficile e trovare la propria identità.

Dopo il successo ottenuto con Tomboy, la regista torna a occuparsi del mondo dei ragazzi e degli adolescenti con sensibilità e competenza, adottando un codice espressivo essenziale, ma curato ed efficace.

Chiudiamo con un accenno al film che ha vinto il Premio del Pubblico serale: Marina di Stjin Coninx (Belgio/Italia 2013) che, raccontando il mondo in cui è nata la famosa canzone, universalizza la storia coraggiosa degli emigranti italiani che negli anni 50 hanno cercato fortuna in Belgio lavorando nelle miniere. Porta però in primo piano anche

la forza d’animo di Rocco Granata (autore della canzone) che, nonostante l’opposizione del padre Salvatore e le difficoltà di integrazione in un ambiente “ostile”, riesce a farsi apprezzare e a raggiungere il successo.

A proposito di serate, aggiungiamo che un evento singolare ha ospitato il 19 novembre un breve concerto del soprano Ludmilla Bauerfeldt, accompagnato dalla proiezione del film Fuoriscena di Massimo Donati e Alessandro Leone (Italia) che racconta un anno dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano. Ha concluso la serata un incontro con i due autori.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A F E S T I VA L MILANO | Piccolo Grande Cinema 3-30 novembre 2014

Laboratori, proiezioni, eventi c ulturali di ANNA FELLEGARA

S

ettimo appuntamento autunnale per Piccolo Grande Cinema il Festival delle nuove generazioni, organizzato dalla Fondazione Cineteca Italiana, dal MIC (Museo Interattivo del Cinema), la Regione Lombardia, numerosi altri sostenitori e partner. L’intento di educare il pubblico giovane alla conoscenza del linguaggio cinematografico, di diffondere l’interesse per la visione di opere, di far nascere il desiderio di cimentarsi a crearne fa parte di un progetto che occupa tutto l’anno la Cineteca e il MIC e che trova nel Festival la sua massima espressione. Il programma è denso di proposte, attività, laboratori, proiezioni di film in anteprima, incontri con registi, eventi culturali, mostre, film appartenenti alla storia del cinema restaurati dalla Cineteca. Sempre valido il duplice palinsesto: Programma scuola (3-21 novembre) e Programma Family (21-30 novembre), svolti quest’anno, con maggiore respiro, in uno spazio temporale più dilatato.

Molto ricco il Programma per le scuole. Piccolo Grande Cinema ha aderito, visto il successo dello scorso anno, a Bookcity-Milano realizzando il Laboratorio Booktrailer - Incontri molto ravvicinati tra libri e cinema. Il libro, scelto dalla classe e letto in maggio, sotto la guida di esperti filmmaker si è trasformato in trailer attraverso tutte le fasi di sceneggiatura, regia, recitazione, ripresa. Un mezzo didatticamente molto utile per far cogliere come lo stesso concetto possa essere espresso con linguaggi diversi.

Divertente come un gioco la visita alla Mostra interattiva Cor-

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Vicky il vichingo di Michael Herbig, Germania 2009.

In basso Il mio amico Nanuk di Roger Spottiswoode, Brando Quilici, Canada/Italia 2014.

A destra Lola on the Pea di Thomas Heinemann, Germania 2014. tology, organizzata dallo Studio Milanese H57 di Matteo Civaschi e Gianmarco Milesi, in cui sagome nere grafiche stilizzate evocano numerosissimi film famosi. Si può tentare di scoprire il titolo dei film mettendo in luce la propria conoscenza cinematografica oppure inventare altre storie usando le stesse sagome anche con l’aiuto di un tabellone magnetico sul quale agire direttamente.

Grande attesa per l’evento Una notte al MIC. Dopo l’anteprima del film Vicky il vichingo, vincitore del concorso, e una cena vichinga, quindici bambini hanno avuto la possibilità di trascorrere la notte al museo scoprendolo attraverso un’emozionante caccia al tesoro.

Vicky ci porta al centro del villaggio vichingo sottolineando una serie di personaggi caratteristici e la loro mentalità: usare la forza per avere la meglio nello scontro con i pirati avversari. Così ragiona Alvar, il padre di Vicky che lo vorrebbe come lui, forte, coraggioso, pronto a combattere. Ma il

CineCineMondo L’edizione 2014 per la prima volta ha affiancato alla Giuria Popolare, costituita da tutti i giovani spettatori, una Giuria Specializzata, formata da 13 ragazzi delle ultime tre classi delle scuole secondarie superiori, che hanno frequentato, nei giorni precedenti il Concorso, un Seminario di orientamento professionale nel mondo del cinema. Le due Giurie hanno votato separatamente i film in programma con un risultato diverso. Vincitore per la Giuria Popolare Vicky il vichingo di Michael Herbig (Germania 2009), ispirato ai racconti dello scrittore svedese Runer Jonsson che avevano dato origine a una fortunata serie televisiva di cartoni animati negli anni 70, trasmessa in parte anche in Italia e ripresa con alcuni episodi nel 2009. Il film è piuttosto fedele al cartone animato. La vis comica si dipana tra avventure, trovate e soluzioni di Vicky, il ragazzo dai capelli rossi, degne di un giovane Leonardo da Vinci.

ragazzo è molto diverso: preferisce usare l’ingegno al posto dei muscoli, convinto che l’intelligenza possa raggiungere risultati positivi e che si possa vivere in pace con i propri avversari usando una superiorità razionale e intellettiva. Il film, più della serie televisiva, ha un carattere introspettivo e sottolinea il tema del contrasto generazionale, la necessità del padre di accettare le opinioni del figlio, di scoprire come si formi un vero uomo (forza di muscoli o di intelletto?). Interessante la fotografia e l’ottima interpretazione del giovane Jonas Hammerle, un convincente Vicky.

Secondo classificato il film di Brando Quilici (presente in sala) e Roger Spottiswoode Il mio amico Nanuk (Italia, Canada). È la storia di Luke, un ragazzo che vuole riunire un orsetto rimasto solo alla madre e affronta i mille pericoli del gelo artico. Viaggio che vede nascere una grande amicizia,

PA N O R A M A F E S T I VA L ma che è anche un percorso di formazione, di crescita, di raggiunta capacità decisionale (vedi Schedario a p. 31).

Poetico e toccante Shana del regista svizzero di origine italiana Nino Jacusso. Il film è ambientato in Canada presso l’indigeno Popolo dei Torrenti con un cast di non professionisti per calarsi meglio nelle tradizioni e nella cultura del luogo. Shana è una ragazzina ricca di talento, ma dopo la morte della madre, rifiuta di andare a scuola e di suonare il violino. Non si rassegna alla sua perdita e vuole mantenere un contatto fisico con lei. Ogni giorno scrive una letterina che appende ai rami dell’albero degli avi con qualche capello che ha conservato. Una lupa bianca la osserva. La nuova insegnante di musica la sente suonare e vorrebbe iscriverla alla Scuola di musica di Vancouver. Per recuperare il violino della madre la ragazzina dovrà passare una notte nella foresta, dove farà misteriosi incontri: gli avi, la lupa, la madre...un mondo che può comunicare con quello dei viventi solo attraverso lo spirito. La musica è un ottimo mezzo di contatto. Shana può finalmente “la-

sciare andare la mamma” perché sa che ogni volta che suonerà l’avrà accanto.

Ancora musica, ma questa volta rock, nella commedia belga Baby Balloon di Stefan Liberski, interpretata dalla cantante e compositrice diciottenne Ambre Tracy Grouwels, alla sua prima esperienza come attrice. Bici, la protagonista, fa parte di una band e nasconde le sue pene famigliari (mancanza del padre, assenza della madre per impegni di lavoro, assistenza a una nonna inferma che non le parla) sotto le maschere e i costumi che indossa per cantare.

Tutto cambia quando Anita entra nella band pretendendo di prendersi la scena e Vince, il ragazzo di cui Bici è segretamente innamorata. Bici rompe ogni rapporto con il gruppo, ma questo segnerà la sua rinascita. Finalmente conscia del suo valore, diventerà solista, avrà un successo da non condividere con altri, potrà mostrare al pubbli-

The Nightingale di Philippe Muyl, Francia 2013.

A sinistra Baby Balloon di Stefan Liberski, Belgio 2013.

In basso Italo di Alessia Scarso, Italia 2014. co se stessa senza bisogno di maschere.

Una storia semplice, narrata dal regista in modo accattivante e sorretta dalla lodevole interpretazione della giovane cantante.

Gli altri due film in Concorso Lola on the Pea e The Nightingale erano stati presentati al Festival di Giffoni Valle Piana. Il primo di Thomas Heinemann vede la ragazzina Lola vivere con la mamma in una casa galleggiante, cosa che desta critiche da parte degli abitanti del piccolo villaggio. A scuola, dopo l’allontanamento del padre, finisce per emarginarsi e diventare vittima di bullismo. Deve sopportare la presenza di un altro uomo vicino alla madre e conoscere cosa significhi emarginazione quando fa amicizia con un nuovo compagno, Rebin, figlio di clandestini curdi. Film che sfiora molti temi: l’evoluzione psicologica della ragazzina, la maldicenza, il rifiuto dell’altro.

Molto interessante The Nightingale del regista francese Philippe Muyl, che mostra un quadro della società cinese attuale in cui colpisce il forte contrasto tra l’esibizione di ricchezza da parte di alcune persone e le privazioni di chi non ha nulla.

Due mondi: uno cittadino di sfrenata tecnologia, con case lussuose, l’altro campagnolo con povere case. Due modi di vivere: nel primo gli uomini si sfiorano senza vedersi, troppo impegnati in affari importanti, nel secondo gli uomini vivono insieme, pronti ad aiutarsi e festeggiare un nuovo venuto. Nel film i due mondi si uniscono nel personaggio della bambina Renxin che intraprende con il nonno il lungo viaggio che dalla città li porterà al villaggio natale del nonno. Si tratta di un viaggio iniziatico, come lo definisce il regista: il nonno riscopre il suo passato e la bambina scopre la sua identità più profonda.(Vedi anche nel n. 106/107, pp. 38 e 39).

Programma Family Ricco di eventi e proiezioni anche il programma dedicato alle famiglie. Tra le tante proposte ricordiamo l’anteprima del film Italo della regista Alessia Scarso (presente in sala) al suo primo lungometraggio. Ispirato a un fatto vero accaduto a Scicli in Sicilia. Il film vede protagonista un cane, un meticcio color miele che un giorno capita in paese e a poco a poco conquista la simpatia degli abitanti dimostrandosi utile per la sua grande umanità. Italo è presente in ogni circostanza: partecipa alla messa, accompagna i turisti a visitare i luoghi artistici, aspetta la tabaccaia perché non rincasi da sola, partecipa a ogni cerimonia. Muore nel 2011, pianto da tutti.

Tra gli eventi ricordiamo l’incontro con Folco Quilici, scrittore, regista di film e documentari, giornalista che ha presentato Ty-Koyo e il suo pescecane da lui realizzato nel 1962, un classico per l’infanzia recentemente restaurato. <

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PA N O R A M A F E S T I VA L TORINO | Torino Film Festival 21-29 novembre 2014

Torino 32

di D. DI GIORGIO, M. GAMBA, M. MANCA, F. VERGERIO

N

onostante i tagli al budget lo abbiano costretto a rinunciare a un paio di sale di proiezione, il Torino Film Festival ha registrato anche quest’anno un notevole successo di stampa e di pubblico. Gli spettatori sono stati complessivamente circa 90.000. La direzione della ex vice Emanuela Martini non ha fatto rimpiangere la presenza dei registi VIP. I quasi 200 film in programma sembra abbiano accontentato le esigenze e i gusti dei più.

Caleidoscopio di generi e temi Tra i film del Concorso Lungometraggi ha ottenuto il massimo favore della Giuria il francese Mange tes morts di Jean-Charles Hue (già in concorso a Cannes per la Quinzaine des Realisateurs, premiato con il Prix Jean Vigo). Sullo sfondo di un complesso spaccato sociale e famigliare, il film è in gran parte un road movie drammatico e concitato che segue le gesta di quattro giovani nomadi jenisch.

Frédéric Dorkel, primo di tre fratelli, torna dal carcere dopo 15 anni, accolto dalla famiglia con affetto ed entusiamo.

Durante la sua assenza, dopo la morte del padre, lo stile di vita del gruppo è cambiato: non si vive più di furti e rapine, hanno cominciato ad affermarsi valori come il rispetto reciproco, la gratitudine, la solidarietà e le aspirazioni religiose. Ma Fred non

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Mange tes morts di Jean-Charles Hue, Francia 2014.

In basso What We Do in the Shadows di Jemaine Clement, Taika Waititi, Nuova Zelanda 2014.

A destra For Some Inexplicable Reason di Gábor Reisz, Ungheria 2014. riesce a cancellare in sè la rabbia e l’istinto criminale: pertanto coinvolge i fratelli e un cugino nel furto di un carico di rame.

L’interesse della pellicola sta soprattutto nella qualità della sceneggiatura che riesce a intrecciare e a calibrare dinamiche psicologiche, relazioni e dialoghi. Ad arricchire l’efficacia della vicenda e del registro espressivo contribuiscono la buona recitazione dei quattro nomadi (interpretati da non professionisti), la fotografia “graffiante” e un montaggio che, soprattutto nella parte finale, crea un ritmo incalzante. La conclusione vede la comunità spezzata in due: Frédéric viene ringoiato dalla sconfitta, il fratello minore e una parte del gruppo si muovono verso la redenzione.

Il premio per la migliore sceneggiatura è stato opportunamente assegnato al neozelandese What We Do in the Shadows di Jemaine Clement e Taika Waititi (Nuova Zelanda), divertente mockumentary horror con curiose interviste a vampiri.

Viago, Deacon e Vladislav vivono in un appartamento della periferia di Wellington in sostanziale armonia, anche se tra loro nascono a volte discussioni per come suddividersi i lavori domestici. In cantina dorme il vecchio Petyr, protetto e rispettato.

Una sera la schiava umana di Deacon porta ai quattro vampiri per cena Nick, universitario ritenuto sacrificabile, ma Petyr per errore lo trasforma. Con la vampirizzazione di Nick iniziano i guai, ma Viago, Deacon e Vladislav entrano anche nel mondo delle tecnologie odierne. Ogni personaggio ha una personalità definita. Viago è un dandy del 18° secolo, Vladislav il depravato del gruppo, Deacon il ribelle, pronto sempre a far festa, Nick la testa calda.

Vincitore della sezione Madness del Festival di Toronto, What We Do in the Shadows è una commedia riuscita, che sorprende soprattutto per la capacità di immaginare e di descrivere la vita e le difficoltà dei vampiri di oggi, costretti a fare i conti con i problemi relazionali (ed esistenziali in genere), legati anche alle possibilità e al-

le trappole della Rete. La pellicola è ricca di citazioni e di humor. Scherza con il mockumentary prendendosi gioco dei meccanismi di certi programmi in stile docu-reality.

Altro film premiato sia dalla Giuria (Premio speciale) che dal pubblico è For Some Inexplicable Reason di Gábor Reisz (Ungheria). Ne è protagonista Áron, che sta per compiere 29 anni ed è stato appena scaricato dalla fidanzata. La vita gli sembra senza senso. Non ha un lavoro fisso, è ancora dipendente dalla famiglia di origine …

Dopo una serata in cui beve troppo, si rende conto di aver acquistato un costoso biglietto per Lisbona usando la carta di credito dei genitori. Decide di partire, ma qualche giorno prima della data del viaggio incontra su un autobus una ragazza che gli fa perdere la testa. La cerca percorrendo tutta Budapest. Ogni tanto prefigura a se stesso per gioco la propria morte in diverse situazioni. Se morisse davvero, pensa che nessuno ci farebbe caso.

Il regista, al suo primo lugometraggio, è riuscito a realizzare un’opera scorrevole e accattivante. Dal punto di vista espressivo il film è originale ed efficace. Propone alcune scene surreali, inquadrature e angolazioni ricercate, rallenti e momenti in cui il montaggio rende il ritmo molto veloce.

Concludiamo citando ancora due film che hanno susitato interesse e attenzione: Felix & Meira di Maxime Giroux (Canada) e The Babadook di Jennifer Kent (Australia).

PA N O R A M A F E S T I VA L Felix & Meira porta alla ribalta la delicata storia d’amore tra una donna vittima delle regole ossessive che caratterizzano la comunità chassidica di Montrial (sposata e madre di una bambina piccola) e un uomo che, avendo appena perso il padre, si pone domande sull’esistenza, riflette sulle proprie scelte e relazioni, si apre alla possibilità di un cambiamento. I due si incontrano, lasciano progressivamente cadere le reciproche difese e arrivano a decidere di fuggire a Venezia spinti dal bisogno di vivere e di amare. Del film, che ha indubbi momenti riusciti ma anche alcuni limiti sul piano drammatico ed espressivo, ha colpito in particolare la performance attoriale dei due protagonisti - Luzer Twersky

Felix & Meira di Maxime Giroux, Canada 2014.

Sotto The Babadook di Jennifer Kent, Australia 2014. e Hadas Yaron -, ai quali la Giuria ha assegnato il premio come migliore attore e migliore attrice, quest’ultima premiata ex aequo con Sidse Babett Knudsen (nel ruolo di Cynthia in The Duke of Burgundy di Peter Strickland, Gran Bretagna).

Opera prima dell’australiana Jennifer Kent, The Babadook racconta la storia di Amelia, una mamma single che, dopo la morte del marito avvenuta sei anni prima in occasione della corsa in clinica per la nascita del figlio Samuel, non è ancora riuscita a elaborare completamente il lutto. Del resto anche il bambino sembra in preda a

disagio psicologico: è irrequieto e tormentato da incubi notturni. Tutto precipita quando la madre legge a Samuel un vecchio libro intitolato “The Babadook” il cui protagonista è un uomo nero che comincia a tormentare i sogni e le giornate sia del bambino che di Amelia. I due dovranno combattere con forza per liberarsi del mostro.

Scelte espressive ricercate e una scenografia semplice ma che incute smarrimento riflettono l’ansia e la paura dei due protagonisti. Trasformano il dramma famigliare in un horror singolare, nel quale comunque il bene vince sul male e ciò che prende il sopravvento su tutto è il forte legame tra la mamma e il figlio.

Mariolina Gamba

la giovane americana Josephine Decker, indagatrice di personaggi femminili divisi fra desiderio erotico e culture, più che storie e singoli personaggi rimangono nella nostra memoria visiva immagini e intuizioni destinate a modificare la percezione del mondo.

La condizione esistenziale di un uomo allo sbando viene rappresentata per astrazione simbolica in una nebbia che sembra avvolgerlo per costituirsi come suo ultimo rifugio ne La huella en la niebla (The Trace in the Fog) dell’argentino Emiliano Grieco. L’anonimo personaggio, accusato di omici-

Onde, ricerca di forme All’interno della vasta offerta del palinsesto del TFF, da alcuni anni prediligo frequentare il territorio di Onde, programmaticamente dedicato alla scoperta di nuove forme linguistiche e narrative, sempre in bilico fra la sperimentazione pura, l’indagine di spazi segreti del racconto, l’approccio innovativo a un’umanità di cui gli schemi sociologici non riescono a penetrare il segreto. I film scelti dai curatori Massimo Causo e Roberto Manassero, opere compatte e riuscite o meno che fossero, anche quest’anno hanno risposto a un’intima esigenza morale ed estetica, a una visione forte e originale del mondo, capace di dar conto delle ragioni intime dell’esistenza dei personaggi e dei paesaggi messi in scena. In questo senso il film-manifesto di questa edizione può essere considerato La sapienza di Eugène Green (cui dedichiamo uno Schedario a parte, a pagina 25), che assume la forma stilistica della circonferenza borrominiana, atta a trasferire il suo movimento di ascesi al racconto di una scoperta di sé, in una messa in scena antinaturalistica e astratta desunta dal teatro barocco. Dei venti film presentati, oltre alla breve retrospettiva dedicata al-

Sans titre di Clément Cogitore, Francia 1983.

In alto La sapienza di Eugène Green, Italia/Francia 2014. dio, torna sulla sua isola sul delta dell’immenso Paranà, ma intorno a lui c’è il vuoto e il rifiuto della famiglia e degli amici.

Trova lavoro come pescatore e vaga a lungo sul fiume da solo sulla sua barca, incerto fra le due sponde. La “traccia” del titolo, ovvero la vita dell’uomo, è destinata a venir cancellata dalla nebbia.

Altro bel risultato estetico è costituito da Sans titre (Untitled) del francese Clément Cogitore, misteriosa ricerca archeologica di un gruppo di scienziati dotati di strumenti tecnologici sofisticati nei sotterranei di una chiesa barocca abbandonata fra i boschi dell’alto Lazio e di vicine catacombe affrescate. In una grotta trovano delle capre che studiano e poi portano via. Ma una di esse rimane segretamente legata al suo habitat. Forse apologo sull’impossibilità di penetrare l’arcaico e il sacro, il film comunica una profonda numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A F E S T I VA L sures delle franco-americane Jacqueline Goss e Jenny Perlin, che ripercorre la misurazione dello spazio fra il Mediterraneo e la Manica compiuta da Méchain e Delambre, inventori del sistema metrico decimale, sistema voluto dalla Convenzione per evitare le manipolazioni dei diversi metodi di calcolo e misura.

Flavio Vergerio

Luoghi e persone

Priklyuchenie di Nariman Turebayev, Kazakistan 2014.

In basso Okean di Tamara Drakulic, Serbia 2014.

A destra Togliatti(grad) di Federico Schiavi, Gian Paolo Palombini, Italia 2014. sensazione di mistero, alla sorprendente scoperta di una religiosità occultata eppur presente in tempi e spazi apparentemente inaccessibili.

Anche Tôi quên rôi! (I Forgot!) dell’argentino Eduardo Williams si impone per la persistenza inquietante di una sola immagine e di azioni ripetitive e solo apparentemente senza senso. Bande anonime di ragazzini vietnamiti si divertono a saltare da un palazzo vuoto all’altro in un quartiere della deserta periferia di Seul, ancora in costruzione e già abbandonato. I ragazzi sfidano il pericolo e la morte certa che sarebbe provocata dalla caduta nel vuoto, ma sopra di loro c’è il cielo, che viene misurato nella sua dimensione di infinito dalla sequenza finale costruita in verticale su un panorama sempre più vasto e incerto.

Dai paesaggi naturali si passa al “paesaggio” umano di un volto che suggerisce inquietudine e solitudine attraverso l’anonimato e l’inespressività ne Priklyuchenie (Adventure) del kazako Nariman Turebayev, rilettura pessimista e materialista de Le notti bianche di Dostoievskij, che era già stato occasione di una rivisitazione in chiave esistenzialista da parte di Visconti, di una meditazione religiosa sulla fedeltà e l’amore da parte di Bresson, recentemente, di una messinscena essenziale (in digitale e quasi esclusivamente realizzata con l’iPhone) a opera di Paul Vecchiali. Qui il protagonista è un solitario e

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afasico poliziotto, guardia giurata notturna, che trascorre nella noia e nell’inanità le lunghe notti di sorveglianza nella sua stazione di polizia. La donna in attesa di un uomo misterioso di fronte alla sua guardiola gli fa sperare un impossibile amore. Ma il sogno d’amore è destinato a infrangersi per la sua pochezza e la volubilità della donna. Tempi lunghi, immagini fisse, dialoghi che rivelano la miseria umana dei due, ironia, ineluttabilità del tempo che passa, queste le componenti espressive di un’opera compatta.

Il tema della mappa e del viaggio attraverso territori più immaginati che reali viene affrontato con esiti sorprendenti in Okean della serba Tamara Drakulic che filma un pensoso diario di bordo su un cargo che attraversa l’Oceano verso le Hawaii per disperdervi le ceneri di un amico. Viaggio della memoria alla ricerca del significato ultimo della morte, la regista filma in modo poetico l’immensità del mare nel flusso sempre eguale e sempre diverso delle onde, a partire dallo spazio coatto della nave. Interessante anche la riflessione dei rapporti fra politica, evoluzione della scienza e conoscenza del territorio di The Mea-

Nella regione di Kuibyshev, vicino alle rive del Volga e ai monti Zigulì, nel cuore della gelida e lunare steppa russa, sorse tra il 1966 e il 1970 la città di Togliattigrad, intitolata al leader del Partito Comunista Italiano morto in Crimea nel 1964.

Il documentario di Federico Schiavi e Gian Paolo Palombini Togliatti(grad) descrive la città-fabbrica Togliatti (nome sancito da un referendum in seguito al crollo dell’Urss, da cui le parentesi nel titolo). Il film si apre con un estratto del programma tv ‘Rassegna Sindacale’ in cui l’Avvocato Agnelli risponde alle accuse di un accordo segreto tra la Fiat e il Pci,

che avrebbe ricevuto dei fondi per la fondazione della Autovaz. Tutta la vicenda è percorsa da un senso palpabile di nostalgia, sulle note di Vincenzina e La fabbrica di Jannacci, per la fine di due visioni del mondo distanti ma per molti aspetti simili. Straordinari materiali di repertorio, alcuni inediti, custoditi nelle teche Rai, nell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa d’Ivrea oltre che in Russia e numerose interviste a testimoni dell’epoca documentano la costruzione nell’allora Unione Sovietica della più grande fabbrica automobilistica d’Europa targata Autovaz. Una pagina importante della

PA N O R A M A F E S T I VA L storia industriale italiana e sovietica del secolo scorso.

Così raccontano la Storia dell’Armenia le testimonianze degli esuli nel “diario personale” Endless Escape, Eternal Return del regista Harutyun Khachatryan. Vite in fuga dai regimi e dalle guerre, uomini e donne partiti dal loro paese, dopo il devastante terremoto dell’88, la guerra tra Armenia e Azebarjan (88-94) e la fine dell’ Unione Sovietica. Nell’incipit in una chiesa ortodossa si celebra un rito religioso con una nenia che accompagnerà Endless Escape, Eternal Return di Harutyun Khachatryan, Armenia/Paesi Bassi/ Svizzera 2014.

In basso Storm Children, Book di Lav Diaz, Filippine 2014. alcuni lunghi inserti sulla vita del registanarratore lungo un arco di oltre vent’anni. Il filo conduttore è la lontananza dalla patria, raccontata dal punto di vista di esponenti del mondo artistico, una meditazione sul senso del ritorno, in un riuscito intreccio tra documentario e ricostruzione autobiografica intrisa di letteratura, arte e profonda religiosità.

Asciuttezza, essenzialità, minimalismo nel particolarissimo bianco e nero Storm Children, Book dove il filippino Lav Diaz rivela tutta la sua autorialità.

Quasi un anno fa si abbatteva sulle Filippine il devastante tifone Haiyan: zone sconvolte, strade che diventano fiumi, abitazioni divelte. Quindi i bambini. I veri protagonisti di questo documentario, come suggerisce il titolo stesso, le cui reazioni tradiscono la portata della catastrofe. Inquadrature fisse per la maggior parte e lunghi pianisequenza rendono paradossalmente la violenza irrefrenabile della natura (all’inizio del film il regista resta per una buona mezz’ora, alternando tre inquadrature, sull’acqua che scorre). Diaz dilatando i tempi e l’azione in modo esasperato, ci costringe a cogliere ciò che non sfugge al suo sguardo. Due ragazzini scavano tra i resti di una battigia con a fianco una nave per metà posata sulla terraferma. In cit-

L’infanzia di Lincoln La famiglia Lincoln (soprav)vive in una capanna in mezzo ai boschi. Il padre Tom coltiva la terra, taglia la legna, mentre la madre Nancy si occupa della casa e dei due figli. Il piccolo Abe aiuta i genitori lavorando nei campi a piedi nudi, lontano da qualsiasi centro abitato e qualsiasi forma di istruzione formale.

Il regista e sceneggiatore A.J.Edwards, discepolo di Terrence Malick, sceglie di narrare l’infanzia di Abramo Lincoln come l’avventura di ogni bambino nato nell’Indiana rurale del primo Ottocento da genitori poveri ma onesti. Così si forma il ragazzo, in questo ambiente duro e difficile, tra la tragedia per la morte prematura della mamma, sostituita da un’amorevole matrigna che lo segue come un figlio, dall’insegnante, dal padre, rigoroso battista, dalle letture della Bibbia e di Robinson Crusoe.

Il materiale documentale sulla vita di Lincoln è scarso ma importante e l’autore l’ha utilizzato nel commento della voce fuori campo la cui fonte è una serie di interviste a un cugino, amico d’infanzia di Abe. L’unica scena inventata è l’incontro tra il ragazzino e un gruppo di schiavi in catene, quasi una premonizione del futuro presidente antischiavista.

The Better Angels, una specie di documentario costruito per quadri e impressioni, risente dell’influenza estetica malickiana: la mdp in movimento continuo avvolge i personaggi con inquadrature dal basso, la natura onnipresente e meravigliosa, sinfonie musicali imponenti di inni religiosi del ventesimo secolo, bambini che giocano, donne portatrici di dolcezza e uomini duri, padri inflessibili. Ma non è un’imitazione tout court, in quanto l’autore attraverso sfolgoranti immagini in bianco e nero cerca le radici della Storia e dei suoi canoni etici ripercorrendo il linguaggio di Malick in una veste personale dove il racconto è lineare e ammantato di dolcezza.

M. M.

tà due bambini in silenzio raccolgono spazzatura, studiando ciò che la corrente restituisce. Il teatro di devastazione generale diventa per loro un parco giochi a cielo aperto.

Con un sonoro ritmato e fragoroso che commenta l’immagine, il regista statunitense del

Michigan J. P. Sniadecki apre il suo The Iron Ministry con i rumori del ‘mostro d’acciaio’ su sfondo nero. Salgono su vagoni - rigurgitanti di persone animali e cose - uomini, donne, bambini di differenti classi sociali: studenti, operai, contadini con pezzi di carne macellata da

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PA N O R A M A F E S T I VA L vendere sul treno si sistemano negli scompartimenti ‘proletari’. Altri che si raccontano e parlano di fede musulmana, di Obama, di ecologia prendono posto nelle carrozze destinate ai ‘nuovi ricchi’. La mdp si sofferma sulle facce, sulle gambe dei viaggiatori in sorprendenti pianisequenza: un racconto per immagini sottolineate dai rumori delle rotaie e dal vociare continuo e indistinto dei passeggeri. Dietro i finestrini scorre il paesaggio dell’entroterra cinese: cumuli di immondizia che vengono caricati sul treno, file di palazzoni anonimi, la verde natura circostante. Nel tema del viaggio l’evoluzione della Cina di oggi con i suoi sogni, aspettative, delusioni, contraddizioni.

Eau argentée. Syrie autoportrait è un’opera-collage sulla guerra civile in

Eau argentée, Syrie auto-portrait di Ossama Mohammed, Siria/Francia 2014.

Siria, un lavoro nato dal dialogo a distanza tra Ossama Mohammed, cineasta siriano esule a Parigi, e una giovane attivista curda, Wiam Simav Bedirxan, residente ad Aleppo. Il film parte da un video di un ragazzo arrestato e torturato dalle forze di sicurezza di Bashar al-Assad, poi postato dagli aguzzini su youtube cui ne seguono altri di “mille e uno” siriani: una prospettiva inedita dell’immagine in movimento in tempo di guerra. Prima ancora di porsi come un drammatico documento sulla tragica condizione di una nazione violata, il film risulta un’analisi sull’audiovisivo e il suo linguaggio, sulla necessità di una riscoperta dei modi di fare cinema.

Film epistolare, Eau argentée non lascia scampo, non tanto per la morte onnipresente, quanto per lo sguardo che si trova nel luogo, nella situazione della morte, in una potente testimonianza collettiva che diventa memoria. (In proposito vedi anche nel n. 106, p. 18). <

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Retrospettiva New Hollywood La seconda parte dell’omaggio torinese alla generazione che ha rinnovato il cinema americano integra e completa il percorso intrapreso nell’edizione 2013: da un lato si è potuto assistere al recupero di alcuni titoli fondamentali - Il laureato (vedi foto sopra) di Mike Nichols su tutti, che peraltro ha tristemente coinciso con la scomparsa del regista -; d’altro canto, la ricerca è apparsa più orientata a scovare titoli meno allineati a quella che tradizionalmente consideriamo la corrente principale del filone oggi etichettato come New Hollywood, come a voler dimostrare che il rinnovamento ha pervaso i gangli dell’industria sin nel profondo.

Ecco dunque titoli come Rolling Thunder di John Flynn, su un reduce dal Vietnam che cerca di vendicare la morte dei suoi cari, trucidati da una banda di malviventi. Oppure il dittico spielberghiano rappresentato da Duel (vedi foto sotto) e Lo squalo, che mostra l’inserimento dei nuovi registi nei “piani alti” della macchina cinema, per riplasmare con i nuovi linguaggi il rinascente filone spettacolare. L’impressione suscitata dai titoli proposti in questa seconda parte è che la New Hollywood sia stata una rivoluzione forte ma gentile, in grado di armonizzare i suoi fermenti all’interno di una tradizione capace comunque di assorbire virtuosamente gli stimoli. La presenza di Spielberg, non a caso, si offre proprio come cartina di tornasole di un rapporto con il “cinema dei padri” che è reinvenzione e proseguimento, più che autentica rottura. In questo senso si possono considerare anche le incursioni degli outsider esteri, dal Milos Forman del bellissimo Taking Off - non a caso racconto di uno scontro generazionale che però è anche parallelismo fra due mondi ugualmente inquieti; oppure ancora Panico a Needle Park, di Jerry Schatzberg, cui è pure demandata la scelta della foto per il manifesto del festival.

Tutto è un continuo star dentro e fuori lo schema rappresentato da una tradizione con cui si dialoga e che si rivisita con una più viva immersione negli spazi reali dell’America profonda, ma che si riconosce anche come patrimonio comune. A questo si aggiunge una consapevolezza nuova sull’uso dei codici espressivi che abbraccia tanto le forme più estreme del cinema sperimentale, quanto la realtà della televisione.

Da un lato si pone dunque l’esperimento totalmente e straordinariamente estemporaneo del Fase IV di Saul Baas, magnifico e visionario viaggio in un mondo assediato da formiche assassine, stilizzato in un insieme di forme e colori in grado di restituire un perenne senso del perdersi: è forse una delle operazioni più estreme del filone, autentico gioiello perduto e qui ricondotto nei fermenti tipici dell’epoca. Dall’altro lato c’è lo Spielberg del già citato Duel, nato proprio come prodotto televisivo e poi transitato naturalmente al cinema.

Alto e basso si mescolano e rivelano i loro più intriganti punti di contatto: Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma si apre non a caso con la voce narrante di quel Rod Serling, grandissimo autore televisivo che aveva già contribuito a rivoluzionare il sistema dei codici narrativi dal piccolo schermo. Segno di una stagione fertilissima che però non è nata dal nulla, ma ha avuto da subito le spalle robuste di un mondo che le ha permesso di risaltare appieno nella sua grandezza.

Davide Di Giorgio

PA N O R A M A F E S T I VA L FIRENZE | 55a Edizione Festival dei Popoli 28 novembre - 5 dicembre 2014

L a t r a s fi g u r a z i o n e della realtà di SILVIO GRASSELLIAMBA

B

reve premessa che è anche un’autodenuncia: chi scrive è parte del comitato direttivo del Festival dei Popoli da tre anni.

Però, a onor del vero e per dirla tutta, se mi sento di scrivere un breve reportage dal festival di Firenze è perché ho iniziato prima a esserne spettatore assiduo e vorace, appassionato e ossessivo, per anni. Il racconto, allora, della cinquantacinquesima

edizione del più grande e più vecchio festival di cinema documentario d’Italia.

Il palinsesto a un primo sguardo: oltre al Concorso Internazionale corti medi e lunghi, al concorso italiano Panorama, la consueta Retrospettiva quest’anno è stata dedicata all’ancor giovane olandese Jos De Putter (Terneuzen, 1959), la collaborazione con l’Istituto Francese ha prodotto un omaggio monografico a Vincente Dieutre, e a completare il programma una serie di Eventi Speciali (tra i quali almeno da citare l’omaggio a Dominque Auvray e la sezione programmatica Reality is more) più la sezione sperimentale Sui Generi(s), laboratorio espositivo sul documentario contemporaneo che attraversa e riscrive i generi del cinema classico.

Per il secondo anno poi le mattine del festival son state dedicate agli incontri con gli autori di How I Did It, uno spazio aperto ma spe-

cificamente dedicato all’approfondimento su tecniche e pratiche impiegate dai registi per la produzione dei film in programma al Festival.

Secondo anno anche per lo spazio industry del Festival dei popoli - Doc at Work che è tornato a radunare a Firenze una nutrita rappresentanza di produttori e distributori da tutto il mondo coinvolti in una serie d’incontri con autori e filmmaker giunti a Firenze con i loro progetti in fase di preparazione.

Il premio per il Miglior Lungometraggio l’ha vinto Maidan dell’ucraino Sergei Loznitsa. Già passato a Firenze con molti dei suoi precedenti documentari, e dopo il felice approdo al film a soggetto (My Joy e In the Fog), Loznitsa racconta la rivolta di piazza, divenuta poi rivoluzione permanente di un popolo intero - l’Ucraina - in un intenso diario che assume le forme dell’epica. Il punto di vista - sempre distante dall’azione e sempre prospetticamente bilanciato - e i tempi lunghi delle singole inquadrature costruiscono silenziosamente e in modo del tutto implicito la trasfigurazione di un evento che presto sarà già Storia tenendo insieme forza del documento e accuratezza di una visione che scrive la realtà mentre la registra.

Il Miglior Mediometraggio è stato invece il messicano Memoria oculta, visionaria ricostruzione autobiografica della giovane Eva Villaseñor sulle tracce del proprio passato dimenticato. Il Miglior Cortometraggio è il film di diploma del giovane olandese Guido Hendrikx che in Escort riesce a registrare le procedure di rimpatrio dei migranti extracomunitari: Hendrikx prima mette lo sguardo su uno dei grandi tabù nel racconto visivo del nostro tempo e poi - con la lucidità del cineasta esperto - costruisce nei pochi minuti del film un discorso sul dato di fatto, una denuncia del paradosso incandescente della brutale formalità, della gentilezza inumana, dell’attenzione e dell’accuratezza ossessive che guidano i gesti di chi con il proprio corpo e i propri gesti diventa l’ultima e più effi-

ciente incarnazione di un sistema violento e spietato.

Il Festival ha poi offerto con Like every Grain of Sand la preziosa occasione di scoprire uno degli autori di cinema documentario più prolifici e al contempo meno (ri)conosciuti d’Europa. Jos De Putter ha alle spalle una lunga carriera da produttore e regista per il cinema e per la televisione, tanto che la sua filmografia completa conta migliaia di titoli. Forse per questo, insieme all’età non avanzata, De Putter, pur accreditato presso i professionisti di mezzo mondo, manca ancora della canonizzazione che lo riconosca autore di rango.

La Retrospettiva ha scelto una quindicina di film che coprono la produzione

See no Evil di Jos De Putter, Olanda 2014.

In alto Maudan di S. Loznitsa, Ucraina 2014.

A sinistra in alto Memoria oculta di Eva Villaseñor, Messico 2014.

A sinistra in basso Smokings di Michele Fornasero, Italia 2014. degli ultimi vent’anni, dall’autobiografico It’s Been a Lovely Day (1993), racconto esemplare sulla fine del mondo rurale, a See No Evil (2014), ultimo e spiazzante film saggio sui confini tra essere umano e regno animale.

Tra gli italiani ci limitiamo a segnalare il vincitore della sezione Panorama con il Premio Cinemitaliano - CG Homevideo, Smokings di Michele Fornasero, sapido ritratto di una coppia di fratelli produttori di sigarette e della loro battaglia contro le multinazionali del tabacco.< numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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PA N O R A M A R A S S E G N A / CONVEGNO ASSISI | 33a Edizione Primo Piano sull’Autore 1-6 dicembre 2014

Giuseppe To r n a t o r e di FAUSTO MENCACCI

L

a Rassegna di quest’anno ha preso in esame Giuseppe Tornatore, regista interessante e originale non tanto perché vincitore di un Oscar con Nuovo Cinema Paradiso, ma per quella caratteristica peculiare che potremmo definire coerente discontinuità nella quale sono collocati tutti i suoi film. Se è possibile riscontrare una certa sicilianità in alcune sue opere, risulta difficile individuare una linea Tornatore, un ripetersi di temi, di ricorrenze narrative più o meno evidenti. Tuttavia tale discontinuità ha una sua coerenza che poggia le basi in una solida costruzione, quasi geometrica, del racconto. Basterebbe analizzare la struttura e la costruzione cinematografica di ogni suo film per individuare una diversità costante dei soggetti rappresentati, tutti uniti, però, da un collante che potremmo definire il piacere di raccontare storie, nel tentativo di una ricerca per raggiungere quel cinema puro, segno marcante di ogni Autore.

Nell’intervista, rilasciata dal regista a Laura Delli Colli che introduce alla lettura del libro-catalogo della Rassegna Tornatore ha dichiarato: “La regola è pensare storie. Pensarle sempre o cercarle nella cronaca, nella letteratura, nell’esperienza degli altri, covarle ed elaborarle… E sapere che, qualche volta, succedono strani incidenti che ti permettono di far diventare quel-

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La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, Italia 2013.

Sotto La leggenda del pianista sull’oceano di Giuseppe Tornatore, Italia 1998. l’idea un film. Per ogni film che fai, sette o otto restano nel cassetto. Quanto al rapporto con i produttori, oggi quando proponi una storia spesso nessuno ti dice no in modo netto…Lo devi capire tu che quel film non si farà, ma intanto c’è chi ti fa perdere tre o quattro anni, perché quel no non hanno, alla fine, coraggio di dirtelo. Sei più solo, non c’è dubbio e questa solitudine pesa molto sui giovani. Una volta, Ettore Scola mi ha detto: - No, i giovani non li invidio proprio. Devono essere così soli…”.

Esiste una frase che, forse, potrebbe riassumere tutto il cinema di questo autore e che coglie l’essenza stessa di quella coerente discontinuità a cui accennavamo. È quella che costituisce l’incipit di La leggenda del pianista sull’oceano, pronunciata, guardando in macchina - quindi, lo spettatore direttamente negli occhi - da Max Tooney, il trombettista/narratore del film: “Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”.

Tornatore di buone storie ce ne ha raccontate tante: i suoi dieci lungometraggi, da Il camorrista (1986) a La migliore offerta (2013), sono testimoni di una tensione narrativa, mossa in prima istanza da una passione e da una ricerca inverate in una prassi cinematografica a tutto campo e tesa all’individuazione del piacere del racconto allo stato puro; un piacere che spinge a costruire delle vicende attraverso un lavoro meticoloso per il raggiungimento di un risultato finale dove il rigore tende a rasentare, spesso riuscendoci, la perfezione; in ogni caso a conseguire il massimo del risultato sperato come frutto di una puntigliosa preparazione. Non a caso Tornatore stesso ha dichiarato, sempre nella citata intervista a Laura Delli Colli: “Di tutti i miei film ricordo esattamente ogni inquadratura, so perché ho pensato così quella scena, perché l’ho girata così…Se dovessi

rifarli oggi, probabilmente, li girerei esattamente allo stesso modo”.

Ad Assisi sono stati proiettati tutti i film del regista; il 4 dicembre si è svolto presso l’Università per Stranieri di Perugia un affollato incontro con gli studenti che ha testimoniato la popolarità che il nostro regista gode anche al di fuori dei confini nazionali. Infine, sabato 6 ha avuto luogo il consueto Convegno di studio, un momento di riflessione e di approfondimento attorno alla figura e all’opera del regista. Le relazioni di base sono state svolte da Gian Piero Brunetta, Orio Caldiron, Valerio Caprara, Claudio Carabba, Laura Delli Colli, Jean Gili, Ernesto G. Laura.

A completamento della Rassegna si è svolta la XXIII edizione del Premio Domenico Meccoli-ScriverediCinema, organizzato anche dal Centro studi Cinematografici. Quest’anno il premio ha avuto un suo evento speciale in occasione della ricorrenza del centenario della nascita del critico assisiate Domenico Meccoli, che ha visto premiati Vito Attolini, Lorenzo Codelli, Jean Gili, Massimo Giraldi, Simone Fittuccia, Enrico Lancia, Fabio Melelli, Domenico Monetti, Luca Pallanch, oltre a un riconoscimento speciale consegnato personalmente da Giuseppe Tornatore al noto professionista della post produzione cinematografica Pasquale Cuzzupoli.

I riconoscimenti ufficiali del premio Meccoli, invece, sono stati attribuiti a Gian Piero Brunetta per la carriera, a Tommaso Ricci per il giornalismo televisivo, a Pierpaolo La Rosa e Rocco Giurato per il giornalismo radiofonico. A Oscar Cosulich per il giornalismo cinematografico, a Best Movie come rivista specializzata, a Cinema Magazine come rivista on line, al libro Il cinema di Claudio Gora (a cura di Emiliano Morreale), a Antonio Ferraro per l’e-book sul cinema.<

P O R T F O L I O SCHEDE

FRANÇOIS TRUFFAUT

Jules e Jim di FLAVIO VERGERIO

Un triangolo amoroso descritto sul crinale sottile fra commedia e tragedia.

Il tentativo utopico di rifondare il rapporto di coppia nella libertà sociale e sessuale, destinato al fallimento e al suicidio.

Un rondò doloroso verso la morte Il racconto orchestrato da Truffaut in collaborazione con Jean Gruault (che doveva collaborare con lui anche per Il ragazzo selvaggio), in quasi totale rispetto della scansione narrativa dell’omonimo romanzo di Roché, si sviluppa nella forma di brevi sequenze ariose e brillanti, che nascondono, dietro la loro apparenza di leggerezza, la ripetitività circolare e ossessiva di una situazione esistenziale destinata allo scacco e al fallimento.

Il film si apre al nero sulla voce fuori campo di Catherine, che sintetizza programmaticamente una vicenda di amori fuggitivi, sognati e falliti al loro nascere: “M’hai detto: ti amo / Ti dissi: aspetta/ Stavo per dirti: eccomi/ M’hai detto: vattene”.

Il montaggio delle brevi scene iniziali è particolarmente vivace e sintetizza

la vita bohémienne dei due protagonisti maschili nella Parigi degli anni 10.

Jules e Jim sono due letterati dandy, poeti e traduttori (si scambiano i rispettivi testi). Jules è tedesco, conosce poco gli ambienti letterari parigini e chiede a Jim di introdurlo a un ballo mascherato. Nasce così una fraterna amicizia che li accomuna in una serie di avventure amorose, condivise talvolta con le stesse donne (l’emancipata Thérèse e Gilberte).

Fanno un viaggio in un’isola greca ove scoprono la scultura cicladica di un volto misterioso di donna (di sapore africa-

Titolo originale: Jules et Jim Regia: François Truffaut Sceneggiatura e dialoghi: François Truffaut e Jean Gruault, dal romanzo omonimo di Henri-Pierre Roché (1953) Fotografia: Raoul Coutard Scenografia e costumi: Fred Capel Montaggio: Claudine Bouché Musica: G. Delerue; canzone “Le tourbillon” di Bassiak interpretata da J. Moreau Interpreti: Jeanne Moreau (Catherine), Oskar Werner (Jules), Henri Serre (Jim), Marie Dubois (Thérèse), Boris Bassiak (Albert), Danielle Bassiak (la compagna di Albert), Sabine Haudepin (Sabine), Vanna Urbino (Gilberte) Produzione: Les Films du Carrosse, Sedif Distribuzione dvd: Bim Origine: Francia 1962 Durata: 110’ Dai 16 anni

no, alla “Modì”), di cui si innamorano in absentia. L’arte, sembra dire Truffaut, prefigura la vita. I due amici fanno del pugilato e si legano con un’amicizia sempre più intima. Jim legge a Jules un abbozzo di romanzo autobiografico che descrive il loro rapporto. Così vita e letteratura si scambiano le parti…

Un cugino di Jules, di Monaco, fa loro conoscere tre ragazze straniere fra cui la tedesca Catherine, che richiama loro i lineamenti enigmatici della statua greca. Fra i tre si instaura subito un rapporto di cameratismo e di complice intimità. Catherine ha un padre nobile inglese e una madre tedesca di ceto popolare, insegna inglese (Shakespeare…) e manifesta un carattere indipendente, volto alla provocazione, alla burla e all’eccesso. Per sottolineare la propria supposta ambivalenza sessuale e irridere agli stereotipi culturali dell’epoca si traveste da apache con basco calato sulla fronte, baffetti e sigaro, sfidando i due amici in una corsa, in cui prevale col trucco di una partenza anticipata.

Jules va a trovarla nel suo appartamento e lei, prima di seguirlo, per bruciare le sue vecchie lettere d’amore dà fuoco pericolosamente alla propria veste. Fra le cose che si porta dietro c’è una boccetta di vetriolo, segnale di misteriosa e ambigua prefigurazione del dramma che seguirà.

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Jules e Catherine vivono insieme per un mese, ma poi, un giorno, Jim va a trovarli e i tre vanno a trascorrere una vacanza in una grande villa bianca, in riva al mare, ove

convivono in un’atmosfera di attesa e di sospensione. Jules chiede a Catherine di sposarlo, ma lei si riserva di rispondere. Jules chiede all’amico se fa bene, ma Jim gli preconizza che non sarà mai felice con lei, perche “non è una donna reale”.

L’ambigua gioiosità del ménage a tre è resa plasticamente da un lungo movimento della mdp a seguire una lunga passeggiata in bici in mezzo alla campagna boscosa, vicino al mare. Catherine evoca l’idea di un mondo in cui gli uomini camminino a testa in giù, attratti dalla calotta terrestre.

Ma l’estate finisce e, alla prima pioggia, i tre tornano a Parigi rituffandosi nella vita culturale. Di quando in quando i dialoghi manifestano il conflitto di genere sotteso alla vita di coppia. Jules afferma, ad esempio, che la fedeltà è importante solo per le donne e cita Baudelaire, secondo il quale, la donna è un mostro. Catherine, per protesta, si getta in acqua vestita. In seguito dà appuntamento a Jim in un caffè, per dargli la risposta alla proposta di matrimonio.

Arriva all’appuntamento con un’ora di ritardo, ma Jim, stanco di aspettare, se n’è andato. Per ritorsione, Catherine va subito a letto con Jules e annuncia a Jim che sposerà questi. Si giustifica per il ritardo, dicendo che “era dal parrucchiere”, ma forse si è fatta aspettare per metterlo alla prova.

1914, scoppia la Guerra, i due amici sono su fronti opposti. Mentre Catherine aspetta Jules, Jim riceve pacchi di provviste da Gilberte, con cui ha riallacciato i rapporti. Finita la guerra, la coppia va ad abitare in un bel chalet sul Reno con la lo-

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ro bimba, Sabine. Jim è incerto se sposare Gilberte e chiede consiglio all’amico, che lo invita a casa sua, in Germania. La mdp riprende dall’alto, incombente, l’arrivo del treno nella piccola stazione (il movimento in avanti verrà ripetuto all’indietro in una sequenza successiva, quasi a segnalare un cambio di direzione di tempo e di senso).

Il nuovo incontro fra i tre è fatto di silenzi e di imbarazzo reciproco. Le scelte espressive sottolineano questo disagio con un’alternanza di lenti movimenti della mdp e di improvvisi, brevi piani fissi, volti a sottolineare un’espressione del volto. Apparentemente la coppia è felice, ma Jules confessa all’amico che, dietro l’armonia di facciata, Catherine è scontenta: è già andata via di casa per sei mesi, ha avuto tre amanti e ora si è legata al vecchio amico Albert, che è tornato ferito dal fronte e che abita in un villaggio vicino. Sembra che voglia far “pagare” a Jules qualcosa di cui lui non si rende conto. Spiega che “vita” in tedesco è misteriosamente neutro, mentre altre parole sono diverse e divise fra maschile e femminile.

Durante una passeggiata nella foresta Catherine confessa a Jim la “debolezza” di Jules, la sua inquietudine esistenziale e si rammarica di non essere riuscita a guarirlo. Ora lo tradisce e non gli si concede più.

Canta poi una canzone (Le tourbillon) che narra di abbandoni e ritrovamenti amorosi. Jim, sulla scorta de Le affinità elettive di Goethe, le suggerisce che ogni “inclinazione” crea dolore. Catherine, durante la notte, gli chiede in prestito il libro e ciò offre l’occasione ai due per un’appassionata notte d’amore.

Jules accetta in silenzio la nuova situazione. La voce fuori campo commenta: “La felicità si racconta male. Si vive, senza accorgersene”. La convivenza a tre si rivela triste. Jim vorrebbe regolarizzare il rapporto con Catherine e avere da lei dei figli. Un giorno i tre fanno una passeggiata lungo il fiume lanciando sassi sul pelo dell’acqua, e la voce narrante commenta:“Il cielo era così basso che li toccava….”.

Jim torna a Parigi per lavoro e progetta di ottenere il divorzio e di sposare la donna, ma nel frattempo rincontra Thérèse e va a letto con la vecchia amante Gilberte.

Poi, dopo un lungo periodo di incertezza, ritorna da Catherine, ma questa, stanca di aspettare, non si fa trovare.

Jules rimprovera Jim di non aver accettato sino in fondo l’assoluto, la sua innocenza, il suo darsi sino in fondo alle singole esperienze. Poi la donna riappare e tenta di avere un figlio da Jim. Ma, come recita una scritta in sovrimpressione “La terra promessa sparisce di colpo”. I due non riescono ad avere il figlio sperato, Catherine è gelosa di Gilberte, Jim decide di tornare nuovamente a Parigi, ma per la mancata partenza del treno passa con la donna un’ultima notte d’amore, per tornare ancora una volta da Gilberte. Una lettera di Catherine gli comunica di essere rimasta incinta, ma Jim sospetta che il concepito sia figlio di un altro e temporeggia, restando a Parigi. Quando infine si decide a raggiungerla, Jules gli comunica che il bimbo è morto al terzo mese. In un amaro colloquio con l’amico Jules afferma che è “bello” opporsi alle leggi umane e tentare altre stra-

FRANÇOIS TRUFFAUT· JULES E JIM

Solo Jules assiste alla cerimonia, allontanandosi poi lungo un vialetto del Père Lachaîse.

Ho voluto riassumere in modo più dettagliato del consueto la “trama” (intesa come intreccio inestricabile) perché, nel succedersi degli avvenimenti rappresentati, essa dà conto del vano e ripetitivo agitarsi dei personaggi, sintomo di un loro profondo disagio esistenziale. de, ma è meglio adattarsi a ciò che già esiste. “Abbiamo giocato con la sostanza della vita e abbiamo perso”.

Tempo dopo i due si rincontrano a Parigi dove Jules e Catherine hanno comprato una casa-mulino, sulle rive della Senna.

Jules confida all’amico l’intenzione di Catherine di suicidarsi. Una sera i tre vanno al ristorante dove abita Albert. Alla fine della cena, la donna abbandona i due amici e si ferma provocatoriamente a trascorrere la notte con l’amante.

Jim torna ancora una volta da Gilberte, per sposarla. Ma Catherine lo convoca per un ultimo colloquio, in cui gli confessa di essere attratta dallo sconosciuto. Secondo lei, la coppia monogama non è l’ideale e bisogna reinventare l’amore. Minaccia poi di ucciderlo, ma Jim riesce a strapparle la pistola.

Qualche mese dopo i tre vanno insieme al cinema (al celebre Studio des Ursulines del Quartiere Latino) dove vedono un cinegiornale sui roghi nazisti di libri in Germania. Dopo un pasto in trattoria, Catherine fa salire in macchina Jim e lo trascina nel suicidio, facendo cadere la vettura da un ponte nel fiume. I due corpi vengono cremati e conservati in due urne poste vicine.

Letteratura, cinema, autobiografia Molti film di Truffaut sono tratti e adattati da opere letterarie: David Goodis (Tirate sul pianista), Henri-Pierre Roché (Jules e Jim e Le due inglesi e il continente), Ray Bradbury (Fahreneit 451), William Irish (La sposa in nero e La mia droga si chiama Julie), Jean Itard (Il ragazzo selvaggio), Henry Farrell (Mica scema la ragazza!), Vernon Guille (Adele H.), Henry James (La camera verde), Charles Williams (Finalmente domenica!). Non si tratta di autori “classici”, salvo James, a conferma dell’atteggiamento culturale anti-accademico dei critici, divenuti poi registi, della Novelle Vague, volto a valorizzare cinema e letteratura di supposta serie B, appartenenti a generi considerati a torto minori, quali il poliziesco e la fantascienza, ma capaci di sorprese e di sguardi inediti e significativi, sulla realtà.

L’autobiografismo è l’elemento fondativo di ispirazione di Truffaut, che trova nella letteratura una conferma e un rispecchiamento di sé. È sin troppo noto che l’adolescenza di Truffaut fu segnata dall’angosciosa ricerca del padre naturale e dal

difficile rapporto con la madre, che l’aveva concepito fuori dal matrimonio. Segnato dalla solitudine e dalla depressione, il ragazzo cercava rifugio nell’accanita frequentazione di libri e di film. La letteratura (e poi il cinema) diventa un modo per sostituire, reinventare, ricreare, fantasmatizzandola, la vita. La molla dell’esistenza è per Truffaut il bisogno d’amore che non ha trovato soddisfacimento nella vita reale. Questo bisogno, che si manifesta come ricerca di un rapporto sincero e armonioso con l’altro, che sia l’amante oppure anche solo l’amico (fra Jules e Jim si può adombrare una latente omosessualità), è il tema dominante di tutta la filmografia di Truffaut.

Il cinema (e prima ancora la sua attività di critico e di polemista) appare per lui una sorta di risarcimento di una vita mal vissuta e della mancanza d’amore subita da bambino. Nella scrittura, letteraria o filmica che sia, “c’è l’avvertimento dell’inevitabilità della frattura, della scomposizione, la rivelazione del bisogno di piacere e di essere ben accolti e, nello stesso tempo, c’é il senso del ritmo, la ricomposizione - si direbbe musicale - operata dal racconto, dalla scrittura” (Ezio Alberione).

Truffaut al momento della realizzazione del film non si rendeva ben conto del rapporto intimo che la vicenda aveva con la propria storia personale. Solo 16 anni dopo, nel 78, confessò in un’intervista che il film aveva radici nascoste nella mia infanzia: “Avevo un rapporto molto difficile con la mia famiglia, in particolare con mia madre, e solo qualche anno dopo ho capito di aver fatto Jules e Jim per farle piacere e ave-

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teatralizzazione ha scelto un’alternanza di scene dialogate con parti narrative cui ha sovrapposto una voce fuori campo di commento, che crea una certa distanza dal rac-

re la sua approvazione. L’amore giocava un ruolo molto importante nella vita di mia madre e, poiché I quattrocento colpi per lei era stato come una coltellata alla schiena, ho fatto Jules e Jim, nella speranza di dimostrarle che la capivo”.

Truffaut scopre per caso a metà degli anni 50 il libro di Roché, primo libro di un uomo di 74 anni, che non aveva avuto successo di pubblico e che scrive su Arts di una “morale, estetica e nuova, incessantemente riconsiderata”. In un’intervista confessa: “Adoro le storie vissute, le memorie, i ricordi, le persone che raccontano la loro vita”.

In effetti, in un gioco vertiginoso di specchi, il romanzo è a sua volta segnato da un dichiarato autobiografismo. Roché fu un intellettuale dandy, di poco più giovane della figura analoga di Marcel Proust, dai molteplici interessi, diplomatico, traduttore, collezionista d’arte, apparentemente bon viveur, in effetti acuto osservatore degli uomini che lo circondavano.

Jules e Jim racconta il triangolo amoroso vissuto da Roché con l’amico tedesco Franz Hessel, a sua volta scrittore e traduttore, e con la moglie di questi Helen Grund.

Il film illustra rispettosamente il romanzo, salvo sfoltire alcuni episodi (specie le molte avventure amorose della prima parte, ridotta alle figure di Gilberte e di Thérèse) e adattare i dialoghi. Vengono anche ridotti alcuni passaggi psicologici, esplicitamente didascalici, lasciando parlare i fatti.

Il suicidio finale, descritto nel romanzo in modo fantastico, quasi fosse un sogno, viene rappresentato nel film in modo esplicito e realistico. Viene evidenziato il fallimento, l’impossibilità dell’armonia nel rapporto amoroso e la sospensione di giudizi morali (il film evita la divisione consolatoria fra “buoni” e “cattivi”).

In un’altra intervista (che appare negli straordinari extra del dvd distribuito dalla Bim) Truffaut critica gli adattamenti cinematografici da opere letterarie, che li trasformano in opere teatrali, riducendoli a una sequenza di scene. Per evitare questa

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conto, evitandone il puro coinvolgimento emotivo e i cliché della messinscena puramente analogici della rappresentazione.

In questa direzione dialettica operano anche gli inserti documentaristici sulla Parigi degli anni Dieci, immagini tremolanti di traffico attorno ai monumenti della città (la Tour Eiffel dell’incipit de I quattrocento colpi) e di stazioni di Métro. Tutto si gioca nell’alternanza fra documento e finzione, adesione emotiva al dramma dei personaggi e sguardo freddo e impassibile su di essi.

Truffaut ricerca immediatezza e “vibrazione”: il ritmo si fonda sull’alternanza di momenti di stasi e di movimento. Ripetuta la dichiarazione di marche filmiche (i mascherini, la chiusura a iride, le sovrimpressioni di scritte, i fermi-immagine, lo scorrimento della sequenza del treno all’indietro), che al tempo stesso “rompono” l’illusione diegetica, segnalando la falsificazione del linguaggio filmico e problematizzando in senso dinamico la comunicazione.

Jules e Jim è un film sull’amore “con l’idea che, non essendo la coppia un’istituzione sempre ben riuscita, sembra legittimo cercare una strada diversa, altri modi di vivere, sebbene siano tutti tentativi destinati a fallire”. Il regista si pone il problema di come fare accettare la morale sovversiva del film, senza sconvolgere le attese del

pubblico. La risposta sta nelle scelte narrative e stilistiche del film, che è sempre tenero nei confronti dei suoi personaggi, rinunciando ad esempio a fare di Catherine una femminista moderna, in effetti nel film donna “più ammirata che amata”, mossa unicamente dal suo istintivo bisogno di sincerità e d’amore. L’opera è “morale” perché i suoi personaggi sono agiti da un’esigenza intima di verità.

Ma il film è anche la storia di un’amicizia, o meglio dell’impossibilità di accordare amore e amicizia. Nel libro di Roché, Jules, durante il funerale che mette fine alla vicenda, riflette così sul suo rapporto con Jim e Catherine: “Catherine e Jim avevano spinto all’estremo il loro culto reciproco, che si era logorato diventando quotidiano. Avevano amato la lotta per la lotta? No. Ma ne avevano stordito Jules sino alla nausea. Lo invadeva un senso di sollievo”. Nel film Truffaut e Gruault sviluppano il commento della voce-off in modo più esplicito: “Jules non avrebbe più avuto quella paura che aveva dal giorno in cui conobbe Catherine prima che lo tradisse e poi che morisse (…). A Catherine piaceva la lotta per la lotta? Forse no. Ma tutto era stato per Jules un’emozione troppo forte. Ora si sentiva più leggero. L’amicizia di Jules e Jim non aveva trovato l’equivalente in amore”.

In effetti, la libertà sessuale e sociale cui tendono i tre personaggi è l’espressione di una trasgressione in ordine a una legge, che rappresenta uno spazio simbolico in cui essi, comunque, si muovono e che non riescono a negare a se stessi. Ciò che essi riescono a realizzare si manifesta solo nel vano carosello erotico-sentimentale e nel labile gioco del travestimento (Catherine si veste da uomo) che fa apparire nell’immaginario dei personaggi maschili il mito dell’androgino “che incarna la fusione mitica dei sessi di cui conserviamo la nostalgia, che noi continuiamo, divisi, a cercare vanamente, in una ricerca della comunicazione sociale e sessuale condannata per definizione allo scacco” (Michel Delahaye).<

P O R T F O L I O SCHEDE

SIDNEY LUMET

La parola ai g i u r a t i di STEFANO SGU I NZI

Un’idea per tanti linguaggi L’idea originale del film La parola ai giurati nasce da una serie di sceneggiati televisivi. Diventata film, in breve tempo, è stata trasformata in spettacolo teatrale di successo.

Ad accompagnarla in questa trasmigrazione da un linguaggio all’altro è stato Reginald Rose, autore del testo originario, che ha continuato a lavorare sul soggetto e la sceneggiatura originale adattandoli alle esigenze espressive dei diversi linguaggi.

Nel caso del film è stato aiutato dall’esordiente regista cinematografico Sidney Lumet, proveniente dal mondo della fotografia. Insieme sono arrivati a farne un’opera cinematografica originale, dotata di un linguaggio autonomo rispetto a quello delle sue origini.

Il passaggio da una forma di linguaggio all’altra, in questo caso, è stato facilitato dal fatto che l’azione drammaturgica è costruita nell’assoluto rispetto delle unità di luogo e tempo.

Il luogo è costituito da un’aula di un tribunale in cui dodici giurati vengono chiamati a valutare le prove a carico di un imputato accusato di parricidio. Il tempo è quello necessario per trovare l’accordo indispensabile per formulare il verdetto e,

approssimativamente, corrisponde a quello cinematografico.

Passando da un linguaggio all’altro i condizionamenti tecnici hanno prodotto risultati espressivi diversi.

In campo televisivo l’esigenza di dare continuità all’azione visiva ha finito per valorizzare la forma verbale del dramma a scapito di quella visiva e ha enfatizzato la progressiva scoperta delle prove che mettono in crisi l’impianto accusatorio del processo.

In questo caso il ruolo dei personaggi ha un peso rilevante ma non è mai centrale al-

Titolo originale: 12 Angry Men Regia: Sidney Lumet Soggetto e Sceneggiatura: Reginald Rose Fotografia: Boris Kaufman Montaggio: Carl Lerner Scenografia: Robert Markel Musica: Kenyon Hopkins Interpreti: M. Balsam (Giurato n. 1), J. Fiedler (Giurato n. 2), L.J. Cobb (Giurato n. 3), E.G. Marshall (Giurato n.

4), J. Klugman (Giurato n. 5), E. Binns (Giurato n. 6), J. Warden (Giurato n. 7), H. Fonda (Giurato n. 8), J. Sweeney (Giurato n. 9), Ed Begley (Giurato n. 10), G. Voskovec (Giurato n. 11), R. Webber (Giurato n. 12) Distribuzione: Dvd Mgm Home Entertainment Durata: 95’ Origine: Usa 1957 Dai 14 anni

l’impianto drammatico. Tutto viene finalizzato a dimostrare la tesi che, malgrado l’inadeguata qualità degli uomini, esiste una giustizia giusta.

A teatro il ruolo dei vari protagonisti diventa rilevante.

Pur potendo disporre di uno spazio visivo equivalente a quello del campo medio cinematografico, lo spettacolo teatrale si avvale di tempi variati e di sospensioni.

Attraverso la recitazione degli attori costruisce spettacolari scene a effetto che, nel caso di questo testo, sono numerose e ben distribuite nel racconto. La regia può calibrare il grado di partecipazione dei vari personaggi allo sviluppo del dramma e conferire all’ambiente una particolare atmosfera di soffocamento e di tensione.

Rispetto ai risultati consentiti dai due linguaggi precedenti quelli prodotti dal modo di fare cinema di Sidney Lumet risultano imprevedibili e totalmente diversi.

Un campione non rappresentativo della vita Reginald Rose, dal momento che firma sia il soggetto che la sceneggiatura, è pur sempre l’autore dell’opera. L’interpretazione e la regia di Sidney Lumet, tuttavia, vanno ben oltre l’idea originaria. La sua interpretazione non si limita a dar forma a una finzione

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della realtà ma costruisce una realtà che sembra prescindere dall’immaginazione.

I personaggi de La parola ai giurati sono dodici e non sono stati scelti in modo casuale come vorrebbe la legge. All’inizio del racconto a ciascuno di loro viene assegnato un numero corrispondente alla posizione che occupa intorno alla tavola perché il voto di ciascuno di loro deve essere equivalente a quello espresso dall’altro.

Lumet, invece, li sceglie uno per uno.

Per lui non sono numeri ma persone. Assegna a ciascuno di loro un volto, un carattere, una professione, una storia che trova la sua fondamentale espressione nei caratteri degli attori che sono chiamati a interpretarli. L’accuratezza di questa scelta porta a identificare l’attore con il suo personaggio.

Nel loro insieme i giurati sono stati chiamati per comporre un campione rappresentativo della sensibilità, della cultura, dei valori delle diverse classi sociali e politiche della società americana.

Il risultato raggiunto in termini di credibilità fisica e morale di ciascuno di loro è frutto della straordinaria sensibilità artistica e dell’intuizione psicologica di Lumet.

Giurato n. 1 - Martin Balsam. Allenatore in seconda di una squadra liceale di football americano. Presidente del gruppo di giurati. È un uomo maturo ed equilibrato. Disciplina il dibattito fra i giurati e ha la forza di farsi rispettare quando diventa necessario farlo.

Giurato n. 2 - John Fiedler. Impiegato di banca. Uomo mite e senza pretese. È impegnato a esprimere un voto “secondo coscienza”. Diventa “innocentista” solo di fronte all’evidenza dei fatti.

Giurato n. 3 - Lee J. Coob. Uomo d’affari. È violento e nutre nei confronti dell’imputato un sentimento di odio. La sua determinazione nel volerlo condannare sembra irremovibile. Crolla solo quando si rende conto che con la condanna a morte dell’imputato sta vendicandosi del figlio che si è ribellato a lui.

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Giurato n.4 - E. G. Marshall. Agente di borsa. È un uomo freddo e razionale. Tiene testa a tutti gli argomenti degli innocentisti. Si arrende solo quando si trova di fronte a una prova che giudica inconfutabile.

Giurato n. 5 - Jack Klugman. Proviene dai bassifondi di New York. Cerca di nascondere agli altri le proprie origini. La sua natura di uomo che aborre la violenza è determinante nell’indurlo a capire prima di giudicare. Viene sospettato di essere stato il primo a diventare innocentista. Rivela le sue origini solo nel momento in cui diventa necessario farlo.

Giurato n. 6 - Edward Binns. Un imbianchino dai saldi principi morali. Interviene nella discussione solo per difendere i più deboli. Quando la discussione degenera, per rimettere ordine fa ricorso anche a minacce fisiche.

Giurato n. 7 - Jack Warden. Venditore di marmellate. Tifoso di baseball. Superficiale. Non prova alcun senso di responsabilità di fronte al giudizio che è chiamato a esprimere. Diventa innocentista per ragioni che non capisce neppure lui.

Giurato n. 8 - Henry Fonda. Architetto.

Figura aristocratica. Da intellettuale. È l’unico dei dodici giurati a pretendere di discutere prima di condannare a morte l’imputato. Il suo bisogno di valutare le prove a carico e di capire come si sono svolti realmente i fatti, un poco alla volta, contamina anche gli altri. La sua ricerca, rigorosa e disinteressata, lo espone alla minaccia e, persino, al rischio di essere ucciso. In entrambe i casi non accenna alla minima reazione di difesa.

Giurato n. 9 - Joseph Sweeney. È il più anziano del gruppo ma anche il più determinato a compiere sino in fondo il suo dovere. Aiuta il giurato n. 8 a sostenere le sue opinioni votando Innocente in apertura di discussione. Scopre l’indizio capace di convincere il più determinato “colpevolista” a cambiare giudizio.

Giurato n. 10 - Ed Begley. Proprietario di garage. Anziano. Violento. Intollerante.

Pieno di pregiudizi in base ai quali pretende di giudicare la vita degli altri. Quando i motivi della sua condanna diventano palesi, viene isolato dal silenzio degli altri e crolla.

Giurato n. 11 - George Woskovec. Orologiaio ceco. Di mezza età. Orgoglioso di essere cittadino americano naturalizzato. Diventa non colpevole solo dopo attenta riflessione.

Giurato n. 12 - Robert Webber. Direttore di Agenzia di pubblicità. Giovane superficiale, di successo. Vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà della vita. È l’unico a cambiare due volte la propria decisione di voto.

SIDNEY LUMET

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LA PAROLA AI GIURATI

La giustizia ingiusta Le colonne imponenti di un Palazzo che sembra sfidare il tempo, un’aula del Tribunale in cui un Giudice può decidere della vita o della morte di un imputato, e un gruppo di dodici giurati che devono deci-

scienza il loro giudizio. Ma chi sono i giurati? In che misura sono attendibili quando esprimono le loro valutazioni?

Quando ha deciso di affrontare la regia di questo lavoro Sidney Lumet si è posto questi quesiti. A lui, infatti, non interessa rendere spettacolare la dinamica del voto e, meno ancora, fare la casistica di quando i vari giurati decidono di cambiare opinione. A lui, come a noi, interessa capire perché lo fanno.

Quei dodici giurati sono tutti noi. Esprimono il nostro modo di essere, di vivere. I nostri limiti culturali e i vincoli morali a cui siamo soggetti. L’indifferenza nei confronti degli altri e la nostra intolleranza.

Ciascuno di noi vive in un proprio mondo. È soddisfatto e si giustifica per tutto quello che fa. Valuta quanto lo circonda in base alla propria ottica personale e non accetta che qualcosa o qualcuno possa turbare il suo modo di vivere.

Il dovere e la coscienza

dere della sua colpevolezza: questa, nei suoi termini essenziali, è la giustizia.

Essere giudicati colpevoli o non colpevoli da uomini che hanno i tuoi stessi limiti, ed essere condannati a vivere o a morire da sentenze che non esprimono il giudizio di uomini che non provano alcun bisogno di verità e giustizia, è una condanna peggiore di qualsiasi colpa.

Perché una giustizia possa essere giusta i giurati devono esprimere in piena co-

“È tutto chiaro! Decidiamo della sua colpevolezza e andiamocene.”

“Dal momento che siamo tutti d’accordo - sembrano dire i dodici giurati - liberiamoci da questa incombenza e andiamo a fare i fatti nostri.”

Invece no. I giurati non sono tutti d’accordo. Non si è mai tutti d’accordo. C’è qualcuno, uno solo, che non lo è e presto, anche solo per principio, ce ne sarà un altro e un altro ancora.

La democrazia della maggioranza può trasformarsi in dittatura e condannare a morte chi è diverso, chi è solo vissuto come diverso o chi viene trasformato nella vittima sacrificale del proprio egoismo.

La presa di coscienza dei vari personaggi di Sidney Lumet trasforma la loro storia nel dramma di dodici giurati chiamati a esprimere una condanna di vita o di morte su un uomo come loro.

Il film è ben lungi dall’essere un processo celebrato a carico dei giudicanti ma è l’analisi del percorso che ciascuno di loro è chiamato a compiere. Non riguarda un fatto tecnico ma morale.

Ciascuno dei dodici giurati si assoggetta con riluttanza alla necessità di giudicare un proprio simile e, quando arriva a farlo, scopre che sta solo condannando o assolvendo se stesso.

Dodici giudizi per una condanna Sidney Lumet è straordinario nel descrivere lo sviluppo di questo processo interiore. Trascura totalmente il personaggio dell’imputato per occuparsi dei dodici giurati. Dalle loro dodici vite.

Le esamina una a una e se un personaggio tiene un cappello in testa in quella stanza non è perché di mestiere fa il venditore di marmellata ma perché non ha niente in testa al di fuori di quello. La sua coscienza è ottusa come il modo di votare ma, come tutti gli altri, ha diritto di farlo.

La legge conferisce a un imprenditore di successo (uno straordinario Lee J. Cobb) il diritto di condannare a morte un cittadino anche se lo fa per vendicarsi del tradimento di un figlio che non potrà mai uccidere dentro di sé.

Anche il giurato n. 10 potrà esprimere con un voto di vita o morte la sua intolleranza nei confronti di chi non appartiene alla sua razza e persino alla sua classe sociale. Lo farà sino al momento in cui arriverà a scoprire di essere stato isolato dagli altri e di essere lui il “diverso”.

La democrazia, quella che riconosce alla volontà della maggioranza di decide-

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re anche per la minoranza, ha bisogno di normalità. Di cittadini rispettosi delle leggi, capaci di realizzare il Bene Comune e di avere pietà nei confronti dei vinti. Le persone che alterano le leggi e le strumentalizzano per tornaconto o esigenze personali, corrompono la vita. Uccidono la giustizia.

Gli Angry Men del titolo originale dimostrano che esiste nella natura umana una coscienza capace di distinguere tra bene e male. Tra lecito e illecito. Tra giusto e ingiusto. L’imputato n. 8 - Henry Fonda - ne è talmente convinto da mettersi da solo contro tutti e da non indietreggiare di fronte alla minaccia del giurato n. 3 che prima gli grida “Ti ammazzo! Ti ammazzo!” e poi punta contro di lui, in modo minaccioso, la punta di un pugnale.

Il volto, l’uomo e la coscienza La dinamica visiva del racconto è basata su un significativo uso di primi piani.

Non si tratta di inquadrature che si possono realizzare e considerare valide al primo tentativo. Esse devono essere studiate una per una e avere lo spazio e il tempo necessari per consentire all’attore di imprimere alla sua recitazione la necessaria incisività. Devono correlarsi alla dinamica delle battute, che vengono recitate anche fuori campo, e far corrispondere il gioco delle espressioni e gli sguardi dei perso-

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naggi che, normalmente, rimangono seduti intorno al tavolo.

Come in una composizione musicale devono fare da contrappunto l’una all’altra e creare rallentamenti o progressioni all’intensità dei conflitti che si succedono nel racconto.

Raramente i giurati abbandonano il tavolo del loro confronto. Quando lo fanno è solo per concedersi un po’ di relax o per definire il vertice drammatico di situazioni significative. Balzano in piedi quando Lee J. Coob, esasperato e in preda a una crisi di nervi, sembra intenzionato a pugnalare il giurato Henry Fonda. Abbandonano la tavola, esprimendo il tal modo il loro dissenso, quando Ed Begley, giurato n. 10, esprime la sua intolleranza nei confronti di chi non è come lui. Lasciano solo, seduto alla tavola, Lee J. Coob, giurato n. 3, che ha scoperto dentro di sé le ragioni della sua volontà di uccidere. Sarà il suo grande avversario ad avere pietà di lui e ad accompagnarlo alla porta.

Il caldo opprimente e il fresco rasserenante Il gioco delle inquadrature, oltre a imprimere una straordinaria incisività visiva allo sviluppo del racconto, assolve in modo impeccabile alla funzione di esprimere il senso di claustrofobia che opprime i giurati e la loro crescente insofferenza al caldo.

A esprimere il primo non è tanto il disagio fisico del personaggio più anziano, quanto la progressiva riduzione della profondità di campo delle inquadrature. Nel corso delle riprese Lumet mantiene invariata la luminosità dell’immagine mentre cambia le focali degli obiettivi per appiattirla. L’effetto è talmente percepibile da produrre insofferenza persino nel pubblico, Per creare il secondo insiste sul caldo opprimente, sul senso di soffocamento derivante dal ventilatore che non funziona.

Poi si annuncia il temporale. La luce si accende, il ventilatore comincia a funziona-

re. La pioggia scrosciante batte sui vetri.

Rinfresca l’aria. Anche la tensione presente in quella stanza comincia a sciogliersi.

Lumet crea una relazione significativa fra questi diversi elementi fisico/naturali. È come se il temporale avesse l’effetto di distendere la tensione degli animi. Quella pioggia è provvidenziale. Determina le condizioni di spirito perché si arrivi a fare una giustizia giusta.

L’uomo. Un numero o un nome?

All’uscita del palazzo del Tribunale il giurato n. 8 e quello n. 9 si salutano presentandosi con il proprio nome. È il nome che individua una persona, la sua umanità, il suo diritto di vivere in una società civile. Adesso, che l’aria è rinfrescata, è più piacevole tornare a vivere ed avere fiducia negli uomini che, a volte, sembrano tanto balordi.

Il film di Sidney Lumet è uno straordinario esempio di come si possa utilizzare la capacità espressiva del cinema per rappresentare il dramma delle coscienze individuali ed esprimere un atto di fede nei valori fondanti la nostra democrazia.<

Nota I testi di romanzi, racconti, liriche e lavori teatrali scritti da Sguinzi Stefano sono scaricabili da www.neteditor.it.

RUBRICHE EVENTI

François Truffaut, il regista che ci manca da trent’anni

T

utto è cominciato alla fine degli anni Cinquanta con una dichiarazione di guerra, Quattrocento colpi sparati a salve che avrebbero cambiato per sempre la storia del cinema. Per François Truffaut, giovane critico e ‘giustiziere’ francese che si era fatto conoscere già nel 1954 con l’articolo “Une certaine tendance du cinéma français”, era tempo di passare dall’altra parte della barricata e lasciar entrare l’aria fresca della modernità, introducendo nuove forme di ripresa e di messa in forma cinematografica. Creatore de La Nouvelle Vague con Godard, Chabrol, Malle, Resnais, François Truffaut ha filmato come nessuno l’infanzia e la passione amorosa grazie al suo cuore, al suo doppio, Jean-Pierre Léaud, e alle sue attrici feticcio, Françoise Dorléac, Catherine Deneuve e Jeanne Moreau.

A trent’anni dalla sua morte, era il 21 ottobre del 1984, la Cinémathèque Française ha allestito una mostra che invita i visitatori a entrare nel mondo intimo e singolare del celebre autore, attraverso la ricostruzione della redazione dei “Cahiers du Cinéma” e dell’ufficio del Film du Carosse, tramite materiali d’archivio, note, quaderni, sceneggiature, corrispondenze. Patrimonio di carta che dialoga con i documenti audiovisivi, estratti di film, foto, locandine, registrazioni e oggetti che illustrano l’universo romanzesco di François Truffaut. Sotto la supervisione di Serge Toubiana, critico cinematografico francese, co-autore di una monumentale biografia di Truffaut ed ‘esegeta’ instancabile delle sue opere, l’exposition della Cinéma-

In basso a sinistra I quattrocento colpi di François Truffaut, Francia 1959. thèque Française evoca il ricordo del cineasta e la sua memoria ma allo stesso tempo rammenta ai visitatori che la Cinémathèque è stata per Truffaut un luogo praticato per tutta la sua giovinezza ed essenziale per la sua formazione. Per lui come per Godard, Cha brol, Rohmer, Rivette, la Cinémathèque di Henri Langlois fu un passaggio obbligato.

Sostenuta dalla fiducia della famiglia Truffaut, la Cinémathèque ha aperto al pubblico l’archivio del cineasta, conservato per più di quindici anni tra le sue mura. Un materiale importante e coerente che può essere consultato da studenti, ricercatori, professionisti del cinema, cinefili e da chiunque voglia e sia disposto ad arrivare fino a Parigi. Come sia possibile raccontare François Truffaut e sotto quale forma presentarlo ai visitatori curiosi come ai cinefili più incalliti è risposta che troverete alla fine di un percorso che ha il suo punto di origine negli scritti dell’autore e dentro le lettere e i libri che i suoi personaggi leggono, scrivono, regalano, spediscono nei suoi film. Perché in quelle pagine che lui conservava si nasconde e rivela la sua ossessione di fissare, di stabilire, di mettere un punto o di fare il punto, di spiegare, di stabilire le linee puntuali e personali del suo percorso. Le bozze delle critiche, le note ai margini di un’intervista o di una sceneggiatura, le correzioni, le liste di titoli illustrano letteralmente un pensiero rapido e intuitivo che aveva bisogno per

essere di venire ‘stilato’. A questa ossessione corrisponde inevitabilmente “le goût de l’archive”, confluito negli anni nel fonds Truffaut, 345 scatole di materiale cartaceo, una biblioteca di opere di cinema, di vecchie riviste, di film, di fotografie, di locandine, di accessori, di premi, di oggetti che hanno arredato il suo ufficio e ancora di quaderni di scuola, di programmi di ciné-club che dimostrano, prima della notorietà, la sua “fisima” e la sua applicazione.

Trent’anni fa nasceva anche la nostra rivista, che porta il nome del suo celebre film (Il ragazzo selvaggio) e che testimonia a suo modo l’eredità artistica che (ci) ha lasciato Truffaut, punto di riferimento insostituibile ed esperienza significativa del Novecento nella ricerca di forme drammaturgiche, di soluzioni narrative, di analisi delle psicologie e delle relazioni umane in grado di rappresentare la complessità dell’uomo contemporaneo. Nello spirito che muove e guida il nostro periodico si aggiunga che la Mostra propone un progetto pedagogico, À chacun son Truffaut, per accompagnare i ragazzi alla scoperta dell’opera di Truffaut.

Gli studenti partecipanti riceveranno la visita in classe di un ‘testimone’, collaboratore di Truffaut, cineasta o critico, con cui condividere una giornata speciale consacrata al regista. Un dossier pedagogico inoltre è a disposizione di tutti gli insegnati per proporre agli allievi un percorso ‘a misura’ e accordato al discorso sull’infanzia e l’adolescenza caro all’autore. Un autore metalinguistico lanciato a trecentosessanta gradi su tutte le forme di rappresentazioni e di scrittura. Le scritture della vita.

Marzia Gandolfi numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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RU BRICH E DVD

Chi conosce Glauber Rocha?

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ono circa dieci anni che mi occupo a livello professionale di home video, sia come curatore della rubrica su questa rivista, sia come fondatore dell’esperienza della Libreria del cinema di Como (che ha chiuso i battenti nel marzo 2014), e da questo punto di osservazione privilegiato ho avuto la possibilità di studiare da vicino, nel contatto quasi quotidiano con cinefili e semplici spettatori, le strane leggi che sembrano governare gli alti e i bassi della fortuna dei registi presso le generazioni avvenire.

Mouchette di Robert Bresson, Francia 1967.

Ci sono registi che, anche a molti anni di distanza dalla morte, paiono continuare a vivere nella memoria degli spettatori come se fossero ancora presenti, e i loro film continuano a essere visti, acquistati, scambiati, a lasciare insomma una traccia viva all’interno della cultura e dell’immaginazione. È il caso - per fare solo alcuni nomi - di Hitchcock, Welles, Kubrick, Truffaut, Pasolini, Bergman, autori che conoscono una fortuna che sembra addirittura rafforzarsi con il passare del tempo.

Ci sono poi altri registi che, al di là di una “fortuna” ufficiale decretata dal mondo accademico e della ricerca, sembrano risentire più di altri della polvere del tempo: i loro nomi sono iscritti sì nel pantheon della storiografia ufficiale, ma faticano a rinnovare la fiamma dell’interesse e dell’amore per i loro film nelle nuove generazioni. Non è facile oggi trovare un ragazzo che abbia una passione per Rossellini, o per Bresson: faccio questi nomi non a caso, perché si tratta di due casi esemplari in cui appare

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numero 109 · gennaio-febbraio 2015

Via col vento di Victor Fleming, George Cukor, Sam Wood, Usa 1939.

In basso Antonio das Mortes di Glauber Rocha, Brasile 1969. evidente lo squilibrio tra fortuna critica e fortuna di pubblico. Chi annovera, al giorno d’oggi, Viaggio in Italia o Mouchette tra i propri film preferiti? E sto citando, non a caso, titoli che hanno fatto - come si usa dire - la storia del cinema.

C’è poi un terzo gruppo che è quello dei “dimenticati”, registi che hanno svolto un ruolo anche importante negli anni in cui hanno operato, ma di cui oggi si è persa quasi del tutto la memoria. Quanti, tra i più giovani - se si esclude il pubblico dei frequentatori dei festival e dei fan di Fuori Orario - ha mai visto un film di Lindsay Anderson (tra i massimi esponenti del free cinema britannico, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 1969 con If…), di Maurice Pialat (altra Palma d’Oro, per il film Sotto il sole di Satana, 1987), di Alexander Kluge (tra i fondatori del manifesto di Oberhausen che diede vita al nuovo cinema tedesco, Leone d’oro a Venezia nel 1968 con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi)…

Metto volutamente i puntini di sospensione a un elenco che vuole essere aperto, e che ciascuno potrà continuare con altri nomi tratti dalla propria memoria personale.

Sono i misteriosi oblii della storia, e vengono in mente inevitabilmente i versi di Dante: “Credette Cimabue ne la pittura / tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura” (Purgatorio, XI 94-96).

Ho fatto queste riflessioni quando ho ricevuto il comunicato di Raro Video sull’imminente pubblicazione (prevista per dicembre 2014) di un preziosissimo cofanetto dedicato a uno dei più emblematici di questi “registi fantasmi”, vale a dire Glauber Rocha, l’esponente di punta del Cinéma Nōvo, la nouvelle vague diffusasi in Brasile a partire dalla prima metà degli an-

ni Sessanta, una stagione di grande fermento e rinnovamento culturale nel paese (si pensi, in campo musicale, al cosiddetto “tropicalismo” di Caetano Veloso e Gilberto Gil), che fa da anticamera alla svolta autoritaria della dittatura dei militari che provocò l’esodo di tanti artisti brasiliani, da Veloso a Rocha stesso.

Il piano editoriale di Raro Video prevede la pubblicazione di ben nove film di Rocha; il primo box, quello previsto appunto per dicembre, comprende le opere principali girate negli anni Sessanta, quelle che precedono il periodo dell’esilio. Barravento (1961) è il film d’esordio del regista, ambientato in una comunità di pescatori dello stato di Bahia. Nel Dio nero e il diavolo biondo (1965) si racconta la rivolta e la fuga di un povero “vaquero” nel nord-est del paese; è il film che fece conoscere al mondo il Cinéma N ō vo e in cui si ritrovano

riassunti i caratteri stilistici più tipici di questo movimento. Terra in trance (1964) è uno dei film di Rocha più esplicitamente politici, incentrato sulla figura di un intellettuale e sul suo rapporto con il potere. Infine il celebre Antonio das Mortes racconta l’epopea di una ribellione di contadini allo sfruttamento padronale; premiato a Cannes con la Palma d’oro nel 1969 rappresenta l’apice del successo critico del Cinéma Nōvo.

Per illustrare lo stile di Rocha prendo a prestito la prosa ispirata di Morando Morandini che, nel suo Dizionario, a proposito del Dio nero e il diavolo biondo, parla di “estetica della fame e del sottosviluppo”, “esaltazione della violenza”, “frenesia della narrazione”, “grandi passioni e forze primordiali”; definisce Terra in trance un “film barocco, caotico, aggressivo e reticente, sostenuto dal ritmo martellante del montag-

Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, Italia 1953.

Sotto La tela del ragno di Vincente Minnelli, Usa 1955. gio e da un accavallarsi di ricordi, sensazioni, immagini spezzate con potenti pagine di concitato lirismo”; mentre a proposito di Antonio das Mortes scrive: “Toni violenti e ritmi deliranti si inseriscono fascinosamente all’interno di questa pellicola saldamente radicata nelle drammatiche convulsioni di un’umanità, latino-americana, in cui fame, massacri e secolari ingiustizie, alimentano un’epica speranza di redenzione. E con l’estro di un cantastorie il regista firma una rappresentazione densa di suggestioni, tematiche, allegorie: certamente cinema politico e sociale, ma anche cinema capace di riassumere in sé un’infinità di componenti spettacolari. Il folclore, la musica, i colori, la tradizione del western e quella del teatro si mescolano alla religione e alla mitologia. E all’anima di un paese”.

Si tratta insomma di un’iniziativa di ampio respiro che ci riporta, pure in que-

st’epoca di disintermediazione e di diffusa ubriacatura digitale, alla necessità di un’editoria solida, capace di autorevolezza nel selezionare e riproporre all’attenzione dello spettatore di oggi quei registi “fantasmi” di cui si è detto poc’anzi.

Altre uscite Mustang Entertainment stampa finalmente in DVD un classico fondamentale del cinema di denuncia italiano, vale a dire Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, film-inchiesta sulla corruzione e sulla speculazione edilizia nella Napoli degli anni Sessanta, che vede nel cast Salvo Randone e Rod Steiger. Il DVD prevede negli extra interviste a Roberto Saviano (autore di Gomorra) e Raffaele Cantone (Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione), nonché un interessante commento audio al film del regista stesso.

Golem Video rende omaggio invece a Vincente Minnelli pubblicando in DVD diversi titoli del regista americano: oltre alle classiche commedie che hanno reso celebre il tocco leggero di Minnelli (Come sposare una figlia, 1958; Tè e simpatia, 1956; Brigadoon, 1954; Una fidanzata per papà, 1963), segnaliamo l’elegante adattamento di Madame Bovary (1949, con Jennifer Jones e James Mason) e il più raro La tela del ragno (1955), ambientato in una clinica per malattie mentali, con Charles Boyer, Lauren Bacall, Richard Widmark.

Segnalo poi una sequenza molto interessante di uscite che riguardano opere minori di autori importanti. Verso la vita (1936) è, tra i film di Jean Renoir, uno dei meno conosciuti. È tratto da un dramma

teatrale di Gor’kij (I bassifondi, da cui ricavò un lungometraggio anche Kurosawa) ed è interpretato da attori del calibro di Jean Gabin e Louis Jouvet. Vi si narra l’amicizia di un barone in rovina con un ladro che lo conduce nel mondo dei diseredati. Esce in DVD per Golem Video. Sempre da Golem Video esce un titolo poco conosciuto di uno dei padri del cinema francese: I parenti terribili (1948) di Jean Cocteau, tratto dall’omonima pièce teatrale dello stesso Cocteau. Mentre Sinister Film pubblica Le scandale - Delitti e champagne (1969), uno dei primi gialli realizzati da Chabrol sulla scia di Hitchcock, con un cast di alto livello che comprende Maurice Ronet (l’indimenticabile Alain di Fuoco Fatuo) e Anthony Perkins.

Non torno a casa stasera (1969) è una delle prime opere del giovane Francis Ford

Non torno a casa stasera di Francis Ford Coppola, Usa 1969.

Coppola, un road movie incentrato sulla fuga da casa di una donna (interpretata da Shirley Knight) che, dopo aver scoperto di essere incinta, una mattina di pioggia decide di lasciare il marito e di mettersi in viaggio da New York verso la California. Fondamentali gli incontri che la donna fa nel suo percorso, in particolare quelli con un autostoppista soprannominato “Killer” (James Caan) e con un poliziotto (Robert Duvall).

Appartiene al novero delle “opere minori” di Coppola, realizzate con un budget più limitato e tuttavia più libere e personali dal punto di vista stilistico. Esce in DVD per Sinister.

Per concludere, sul fronte dell’alta definizione Warner Home Video distribuisce, in occasione del 75° anniversario del film, un’edizione speciale di Via col vento, un cofanetto di 3 blu-ray ricchissimo di contenuti speciali (per un totale di oltre otto ore), con allegato un piccolo booklet fotografico in inglese.

Andrea Bettinelli numero 109 · gennaio-febbraio 2015

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RUBRICHE FILM SHARING

The Interview Una storia di Natale

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nche noi abbiamo una storia di Natale da raccontare. La storia di un film e di come il suo strano destino possa esser considerato uno dei tanti piccoli slittamenti che stanno facendo cambiare la rotta del cinema verso orizzonti prossimi sempre più digitali. È già dicembre quando sui giornali di tutto il mondo iniziano a rincorrersi voci piuttosto bizzarre: la Sony Pictures subisce l’attacco di un gruppo di hacker che minaccia ritorsioni violente se uno dei film in listino per la stagione delle feste verrà distribuito come previsto. Il film in questione è The Interview, commedia demenzial satirica firmata dal collaudato sceneggiatore e producer Evan Goldberg e interpretata dai due giovani scapigliati James Franco e Seth Rogen, che prende di petto la Corea del Nord e il suo dittatore, mettendoli brutalmente in burletta; gli hacker - che si firmano “Guardiani della pace” - sembra che lavorino proprio al soldo dei nordcoreani e che abbiano reso credibili le minacce di violenze dopo esser riusciti a pubblicare contatti privati e dettagli contrattuali di molti degli alti dirigenti e dei quadri della società di produzione cinematografica nonché a dimostrare il controllo di altrettanti dati confidenziali sottratti dal sistema informatico della Sony.

La società accusa il colpo e, prendendo molto sul serio l’aggressione informatica, annuncia il ritiro del film. La stampa grida alla censura coatta, ma è addirittura il presidente Obama in persona a lanciare strali contro l’atto intimidatorio e anche contro la scelta di farsi da esso addomesticare.

Ed ecco che Sony decide di distribuire comunque il film, ma secondo una modalità pressoché

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inedita: mentre The Interview esce in poche centinaia di sale mal distribuite sul suolo statunitense (numeri da pellicola indipendente, mentre qui si tratta di una delle società di punta della produzione mondiale), alcuni portali (pochi e generici anche se di grande stazza) permettono la visione on line o lo scarico del file. Subito dopo, come al solito, arrivano anche link per la visione e lo scarico gratuiti e fuori legge.

Vediamo alcuni tra i primi esiti della vicenda. Alla fine delle Feste il film ha incassato - mettendo insieme sala e digitale legale - quasi quanto previsto dai pronostici precedenti l’attacco degli hacker. Il pareggio rispetto al budget di produzione non è ancora raggiunto, ma nel frattempo alcuni tra i canali distributivi più appetibili - all’inizio incerti e dubbiosi sul farsi carico di un titolo tanto anomalo e potenzialmente rischioso - sono tornati accessibili, in molti casi - primo tra tutti quello del potente portale Netflix, distributore in rete ma anche noleggiatore di dvd, in procinto di entrare anche nel mercato italiano con una netta e rapida inversione di rotta.

Le peripezie del tutto inusuali che hanno riguardato il film con ogni probabilità decideranno, nei prossimi mesi, anche una ap-

petibilità del titolo a più ampio raggio visto che The Interview è indiscutibilmente già un “caso” e in quanto tale rischia di diventare un film da vedere anche a prescindere dai suoi meriti specifici - che detto per inciso sembra, almeno a giudicare dalla prima ondata critica anglofona, non siano proprio rilevanti. Per quel che ci interessa, oltre le valutazioni puramente matematiche ed economicistiche, il caso The Interview contribuisce a spostare ancora un po’ più in là il confine del possibile: la sala e la rete possono convivere, sembra, in un quadro dell’approdo agli spettatori sempre più aperto e flessibile nel quale cambiando l’ordine dei fattori il risultato - il successo economico del film - non cambia, e anzi addirittura forse migliora.

Per quel che ci interessa qui si tratta di sottolineare almeno due diverse fasi di un processo che coinvolge in pieno un uso consapevole - anche se non necessariamente avanzato - della rete. La prima è la fase dell’attacco informatico: vista l’anomalia del fatto in sé e l’apparente inconsistenza delle minacce a valle della distribuzione del film, viene facile pensare che dietro gli hacker - solo ipoteticamente apparentabili al governo della Corea del Nord - ci possa essere in realtà niente altro che una scaltra cinica mossa per sperimentare sul campo una spregiudicata via alla promozione cinematografica nell’era della rete e dei social network.

La seconda riguarda invece la costruzione di una sorta di volano comunicativo che della rete ha fatto cassa di risonanza e sistema di comunicazione e veicolazione in modo che di un film forse pure mal riuscito si potesse fare un caso e che di questo caso ci fosse un crescente desiderio direttamente gestito a distanza modulando - come in realtà si è sempre fatto da che mercato è mercato - la disponibilità dell’oggetto del desiderio.

Silvio Grasselli

RUBRICHE LIBRI

La famiglia nei media audiovisivi

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a oltre 30 anni la Mediateca di Bergamo, fondata da un gruppo di animatori culturali del Centro Studi Cinematografici all’interno delle strutture del Servizio Assistenza Sale, svolge un’attività diversificata di formazione del pubblico, e più specificamente di docenti e studenti, al consumo consapevole (se non critico) della comunicazione audiovisuale, dal tradizionale cineforum, agli interventi educativi nelle classi, ai corsi dedicati a temi specifici. L’agile libro che segnaliamo raccoglie le cinque relazioni del corso svolto lo scorso anno a Bergamo, dedicato all’analisi dell’immagine della famiglia proposta dalla televisione, dal cinema e dal web. L’obiettivo del corso era di incrociare il racconto che della famiglia fanno cinema e TV con alcune esperienze di formazione culturale e psicologica della famiglia stessa da parte di enti operanti sul territorio.

La psicoanalista Elena Galeotto problematizza l’immagine della famiglia offerta dalle fiction italiane e americane superandone il semplice ruolo istituzionale. Afferma infatti che anche in una prospettiva famigliare il rapporto uomo-donna va fondato sull’idea di “uno scambio reciproco di arricchimento attraverso l’altro. La tentazione di fare tutto da soli relega il posto dell’altro a mero specchio della propria riuscita o insuccesso”. Nell’affrontare poi la rappresentazione della famiglia nei serial televisivi l’autrice individua e definisce i meccanismi di fidelizzazione del pubblico fondati sui processi di proiezione e identificazione. Le relazioni famigliari e umane descritte da soap quali Un medico in famiglia o I Cesaroni sono generate da un’istintività che solletica il piacere del pubblico e che mette in campo la spontaneità e la novità (significativa la girandola delle avventure sentimentali) in sostituzione di valori umani strutturati. Quanto ai prodotti made in Usa, esemplificativo può essere il caso di Desperate Housewives, ambientato fra le classi sociali abbienti, che presenta una serie di ritratti di donne insoddisfatte, vittime delle loro ambizioni e del-

le loro scelte sbagliate, ma in realtà vittime del proprio infantilismo e dei figli (visti solo come inciampo alla libertà e come problema), annoiate e ossessionate dal sesso. Nelle serie televisive la famiglia non viene più considerata come un valore ideale, ma come un rifugio senza futuro. La centralità della famiglia nel racconto finzionale è sintomatica solo del suo valore sociale.

Il critico cinematografico Giancarlo Zappoli analizza l’immagine della famiglia a partire dalla definizione di Zygmunt Bauman della nostra società “liquida, dominata cioè dall’incertezza, posseduta dal fatto che i soggetti che la costituiscono sono passati dal ruolo di produttori a quello di consumatori, in cui l’insicurezza sociale si risolve in una vita liquida, priva cioè di solidi punti di riferimento”. In ragione di questa prospettiva molti dei film proposti da Zappoli mostrano il disimpegno dei contraenti la coppia-famiglia, adusi a entrare e uscire da una rete che li lascia liberi di fare nuove esperienze. La maggioranza delle commedie del recente cinema italiano mettono in scena questo stereotipo in una dimensione spesso colpevolmente farsesca e assolutoria. Tuttavia Zappoli propone di converso un numero cospicuo e insospettabile di film (firmati da autori quali Bellocchio, Amelio, Crialese, Moretti, Giordana, Lucchetti, Garrone e molti altri) di meditata analisi e di denuncia etico-sociale.

Flavio Vergerio illustra a sua volta l’evoluzione del cinema americano che, dopo aver testimoniato l’evaporazione della figura del padre durante la stagione del ribellismo giovanile, oggi sembra riflettere un profondo bisogno di ricostituzione di quella stessa, non più e non solo portatrice di un’eredità naturale, ma come figura altra, diversa dal padre genetico, capace di trasmettere rinnovati ideali etici e nuove solidarietà. Sintomatici al riguardo due film di Clint Eastwood, Million Dollar Baby e Gran Torino.

Barbara Ravasi, psicologa del Consultorio Diocesano di Bergamo, corregge nella sua relazione la tendenza diffusa a

Family Life

La famiglia si racconta

A cura di Daniela Previtali Edizioni Centro Studi Cinematografici, Servizio Assistenza Sale di Bergamo, Mediateca Provinciale di Bergamo 2014 E-book acquistabile online sul sito www.goware-apps.com., euro 4.99

demonizzare i social network, spesso accusati di essere fuorvianti e irreali, ma invita piuttosto gli educatori ad attrezzarsi per interpretare e sfruttare al meglio le nuove possibilità comunicative che i new media offrono.

Infine Marta Locatelli, counsellor famigliare, illustra la funzione dell’oratorio come “risorsa per le famiglie della comunità”. Fondamentale in questa prospettiva l’indicazione di “una proposta educativa che abbia come obiettivo lo sviluppo della persona nella sua totalità, in quanto soggetto in relazione”.

Flavio Vergerio

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RUBRICHE LIBRI

Il cinema di Terrence Malick

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on importa che Terrence Malick, texano, in più di quarant’anni abbia diretto solo sei lungometraggi, con vent’anni di silenzio tra I giorni del cielo (1978) e La sottile linea rossa (1998), e otto d’ideazione e gestazione per The New Work. Anche se forse è un autore di culto più in Europa che negli Usa. Gli si ammira quella personale marcatura del suo cinema, nel linguaggio di un respiro più musical-lirico che narrativo, e nei temi dalle complesse prospettive nutrite di ideologici sottofondi di pensiero e irriducibili a una esaustiva visione del mondo.

Vi applica la propria ferratissima acribia critica anche la giovane studiosa romana Arianna Pagliara, dopo che in premessa, a gradienti su un malickiano “universo sospeso e rarefatto”, ne ha colto ideomitiche suggestioni di un pensiero filosofico che scende da Heidegger e Wittgenstein, soprattutto da Emerson. È sempre una filosofica visione che - specie con

voci fuori campo - sta “nel generare domande più che nell’offrire risposte”, con una moralità di sguardo anche nell’epica della violenza e della morte, lungo una via via cangiante dimensione spazio-temporale, magari dapprima “geometrizzabile” con Badlands e I giorni del cielo, più in là con The Tree of Life trasfigurata “in un magma fluido e pulsante”, in ogni caso con un immaginario che agisce “sul piano percettivo prima che su quello intellettuale” dello spettatore.

Di riflesso, poi, la Pagliara, con minuziosa analisi attenta a contenuti, forme, ascendenze, connessioni, confronti, zooma sui singoli lungometraggi. Sono B adlands (1973) road-movie e paesaggio,“già toccato dal vento fresco della Nouvelle Vague”; I giorni del cielo con referenze iconografiche alla Hopper e alla Wyeth; La sottile linea rossa “sineddoche della guerra tout court e metafora del male in senso lato”, The New World (2005) ambientato nel 600,

Arianna Pagliara Il sogno del Minotauro

Il cinema di Terrence Malick

Historica, Cesena (FC) 2014 pp. 204, euro 16.00 idillio d’amore tra la pellerossa Pocahontas e l’inglese John Smith, The Tree of Life (2011) dentro una visione spiritualterrestre che dilata il quotidiano tra lontane memorie d’angoscia e futuribile da giudizio universale, e To the Wonder (2012), nei suoi limiti e squilibri, per Malick, scotto pagato dalla “radicalità della sua poetica”.

Alberto Pesce

Steven Spielberg

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agli esordi di Duel (1972), Sugarland Express (1974) e Lo squalo (1975) all’E.T. (1982) in un futuro senza data ammodernata storia del Pinocchio collodiano, dai tre capitoli del leggendario Indiana Jones alle prese con I predatori dell’arca perduta (1981) o nel Tempio maledetto (1984) o All’ultima crociata (1989) o nel Regno del teschio di cristallo (2008), con Harrison Ford eroe tutto azione e psicologia elementari e dai dinosauri d’orrore arcano di Jurassic Park (1993) alle riletture della Grande Storia dopo le esperienze dei neri di Il colore viola (1986), gli ebrei di Schindler’s List (1993) fatti sopravvivere dai lager nazisti, lo schiavismo di Amistad (1998), l’immaginario bellico duro e crudele di Salvate il soldato Ryan (1998), i terroristici risvolti di Munich (2002), l’America di The Terminal (2004) dopo l’11 settembre delle Torri Gemelle e il ritratto privato-pubblico di Lincoln (2012) che ha del mitico nell’aspirazione a cambiare il mondo, quelli di Steven Spielberg sono film affabulati con millimetrico incastro di fiabesco e tecnologico, do-

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ve l’avventura e il meraviglioso come la dialettica storico-politica diventano dispositivi pedagogici, non importa se talora con una immaginifica sbrigliatezza un po’ sagraiola, con “ amore di pancia, non di testa”.

Proprio muovendo sul binario di questa sua definizione, Mauro Resmini fissa i cardini della poetica spielberghiana. È un criterio che da una parte si traduce in una voglia viscerale di “annullare la distanza” tra schermo e spettatore, mediando racconto con un “linguaggio condiviso, esperanto di immagini che parli (e che sia vendibile) a tutti”, e dall’altra ama filtrare il reale con un immaginario a incandescente virtuosismo visivo che è “fantasia di un revival dell’età aura del cinema classico”.

Su questa duplice falsariga, da Duel dove “ogni movimento è mappato, ogni azione comporta una reazione uguale e contraria” sino a Lincoln “somma di Schindler’s List e Amistad, ma filtrati attraverso il pessimismo di Prova a prendermi e Munich, Resmini distende approfondite analisi dei 28 lungometraggi di Spielberg, facendone

Mauro Resmini Steven Spielberg Il Castoro, Milano 2014 pp. 184, euro 14.90 emergere ossessive dinamiche e stereotipie di un processo creativo che sa adattare il talento all’argomento, intrecciando e mischiando plurime modalità, dentro “una magia ipnotica e primordiale del cinema” che coinvolge e incanta.

Alberto Pesce

ANNUARIO dei film per la scuola

Al numero 107/108 è legato l’Annuario dei Film per la Scuola 2014 selezionati dalla Redazione tra quelli usciti in sala nella Stagione 2013/2014.

Come negli anni scorsi è disponibile solo in versione digitale (PDF), scaricabile gratuitamente dal Sito del Centro Studi Cinematografici www.cscinema.org

Bimestrale di cinema, televisione e linguaggi multimediali nella scuola Anno XXXI, nuova serie, n. 109 gennaio-febbraio 2015

Direttore responsabile Carlo Tagliabue Direttore Mariolina Gamba Rivista del Centro Studi Cinematografici Redazione 00165 Roma, Via Gregorio VII, 6 Massimo Causo, Luisa Ceretto, Tel. e fax: 06 6382605 Davide Di Giorgio, Anna Fellegara, www.cscinema.org · info@cscinema.org Elio Girlanda, Flavio Vergerio, Giancarlo Zappoli Centro Studi Cinematografici © Collaborazione alle ricerche iconografiche In collaborazione con Centro Studi per Giuseppe Foroni l’Educazione all’Immagine di Milano Segreteria di redazione ISSN 1126-067X Cesare Frioni Un numero euro 6,00 Progetto grafico e impaginazione Aut. Trib. di Bergamo n. 13 del 30 aprile 1999 jessica benucci · www.gramma.it Alla rivista si collabora solo su invito della Stampa e confezione redazione Tipostampa per conto di Joelle srl Città di Castello (PG) Testi e immagini vanno inviati a: ragazzoselvaggio@gramma.it Finito di stampare: gennaio 2015

Rivista riconosciuta con il criterio di scientificità dall'ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione Universitaria e della Ricerca) per quanto riguarda la classe 11 (Scienze Storiche, Filosofiche, Pedagogiche e Psicologiche).

Abbonamento annuale intestato al Centro Studi Cinematografici euro 35,00 conto corrente postale numero 26862003 Ricordiamo che, grazie alla Direttiva Ministeriale n. 70 del 17 giugno 2002, è operativa l’azione di rimborso per le spese di autoaggiornamento degli insegnanti.

Tra le spese rimborsabili sono previste anche quelle relative ad abbonamenti a riviste specializzate.

FILM

Tutti i film della stagione

La rivista – bimestrale – recensisce

dal 1984 tutti i film che escono in Italia nel corso dell’anno sia nel circuito commerciale che in quello off.

Per ogni film riporta Cast e Credit completi. È uno strumento indispensabile per chi vuole avere un panorama della produzione cinematografica nazionale e internazionale, una rivista di lavoro per cinefili e studiosi di cinema, un archivio storico unico nel suo genere, utile per gli insegnanti e le biblioteche.

Il costo dell’abbonamento annuo è di euro 26,00 Per abbonamenti: Centro Studi Cinematografici Via Gregorio VII, 6 - 00165 Roma Tel. e Fax: 06.6382605 - email: info@cscinema.org

Speciale 100 Questo Speciale “festeggia”

il numero 100 della Rivista nella sua Nuova Serie (dal 1985 al 1995 Il Ragazzo Selvaggio era un trimestrale).

Per l’occasione abbiamo pensato di riflettere sul tema Ragazzi Selvaggi Il cinema e l'immagine nell’epoca dei nativi digitali con alcuni saggi che lo attualizzano, una diecina di schede (ripubblicate) che tratteggiano situazioni emblematiche di ragazzi in particolari difficoltà e una breve raccolta di proposte per eventuali rassegne tematiche.