“GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA”
NOTAACONSIGLIO DI STATO - SEZIONE TERZA, SENTENZA23 dicembre 2020, n. 8295
Il modus operandi della Commissione Giudicatrice al vaglio del Consiglio di Stato: importanti chiarimenti da parte della Terza Sezione sull’ordine di esame dei criteri di valutazione delle offerte tecniche e sulle modalità di assegnazione dei punteggi
Di ILARIAMOSCARDI
1. Premessa Sempre più spesso, all’esito dell’espletamento di procedure di gara aggiudicate con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, viene posto in discussione, dinanzi al giudice amministrativo, l’operato della Commissione Giudicatrice.
La decisione in commento ha il pregio di far chiarezza su due aspetti di particolare rilevanza relativi appunto al modus operandi della Commissione Giudicatrice, essendo stata la Terza Sezione del Consiglio di Stato chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza o meno di un rigoroso ordine di esame tra i criteri di valutazione delle offerte tecniche, qualitativi e quantitativi, previsti dalla lex specialis nonché sulla legittimità dell'assegnazione di un punteggio unanime, alle varie voci dell’offerta tecnica, da parte dei commissari, in luogo di giudizi espressi singolarmente.
Come si vedrà, il Supremo Consesso, in parziale riforma della sentenza del giudice amministrativo di primo grado, ha ritenuto legittimo l’operato della Commissione Giudicatrice escludendo la sussistenza di qualsivoglia regola che imponga l’esame dei criteri qualitativi dell’offerta tecnica prima di quelli quantitativi e considerando legittima l’assegnazione di un unico punteggio collegiale, da parte dei Commissari, ai singoli criteri di valutazione discrezionali.
2. In punto di fatto
L’A.S. di P. aveva indetto una gara per l’affidamento quinquennale del servizio di gestione e trattamento dell’acqua calda e fredda sanitaria finalizzata alla prevenzione e controllo del rischio Legionella nelle proprie strutture ospedaliere e residenziali.
Espletata la procedura di gara, con delibera del Direttore Generale, veniva disposta l’aggiudicazione in favore della società B.F. s.r.l. .
Con ricorso proposto innanzi al T.A.R.Abruzzo – Sezione staccata di Pescara, la società O.S. s.r.l. impugnava il suddetto provvedimento unitamente alla successiva comunicazione di avvenuta aggiudicazione e ai verbali di gara contestando, sotto più profili, le modalità con cui la Commissione Giudicatrice aveva proceduto alla valutazione delle offerte tecniche.
Nello specifico, la ricorrente si doleva del fatto che la Commissione avesse anteposto l’esame di alcuni criteri quantitativi o tabellari a quelli qualitativi; inoltre, a detta della ricorrente, era stata violata la lex specialis posto che l’assegnazione dei punteggi ai singoli criteri di valutazione di natura discrezionale erano stati attribuiti dai commissari collegialmente piuttosto che individualmente.
Si costituivano in giudizio la stazione appaltante e la controinteressata aggiudicataria; quest’ultima proponeva a sua volta ricorso incidentale avanzando una pluralità di motivi di contestazione avverso la mancata esclusione della ricorrente, evidenziando in particolare un’omessa indicazione del costo della manodopera, da parte di quest’ultima, nell’ambito della propria offerta economica.
2 SEZIONE
“ALTRI APPROFONDIMENTI”
Con sentenza n. 145 del 5.5.2020, il T.A.R.Abruzzo – Sezione staccata di Pescara ha accolto sia il ricorso principale che quello incidentale, annullando così gli atti di gara impugnati e statuendo l’integrale rinnovazione della procedura competitiva, non potendo disporre lo scorrimento della graduatoria in ragione del fatto che la legittimità della stessa era stata compromessa dai metodi di valutazione delle offerte adottati dai Commissari.
Avverso tale sentenza ha proposto appello l’aggiudicataria B.F. s.r.l. formulando vari motivi di ricorso diretti a denotarne l’erroneità nella parte in cui era stato censurato l’operato della Commissione Giudicatrice.
La sentenza di primo grado è stata impugnata in via incidentale anche dalla seconda classificata, O.S. s.r.l., ricorrente in primo grado, nella parte in cui era stata disposta la sua esclusione dalla procedura di gara.
3. In diritto
Con la sentenza n. 8295 del 23.12.2020, qui in commento, la Terza Sezione del Consiglio di Stato, come accennato, in aperto contrasto con la sentenza impugnata, ha ritenuto legittimo l’operato della Commissione Giudicatrice giungendo così ad accertare la regolarità delle operazioni di gara.
Afronte della proposizione sia di un appello principale che di un appello incidentale, prima della trattazione del merito dei motivi di impugnazione, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto necessario definire l’ordine di esame dei due mezzi di gravame stabilendo, in base al principio della ragione più liquida, di procedere in prima battuta alla trattazione dell’appello principale posto che, in caso di accertamento della legittimità dell’aggiudicazione in favore della società B.F. s.r.l., l’appello incidentale formulato dalla concorrente O.S. s.r.l., diretto a contestare la propria esclusione dalla gara, sarebbe stato da dichiararsi improcedibile per sopravvenuto difetto d’interesse non potendo produrre alcuna utilità in caso di accoglimento.
Chiarito l’ordine di esame dei mezzi di impugnazione proposti, la Terza Sezione si è pronunciata sul motivo di ricorso formulato in primo grado dalla società O.S. s.r.l. diretto a censurare l’operato della Commissione Giudicatrice per aver effettuato la valutazione delle offerte tecniche anteponendo l’esame di buona parte dei criteri di valutazione quantitativi a quelli qualitativo-discrezionali.
Sul punto, il giudice amministrativo di primo grado aveva accolto il motivo di ricorso proposto dalla società O.S. s.r.l. ritenendo illegittimo l’operato della Commissione Giudicatrice la quale, in assenza di disposizione specifiche della lex specialis, aveva appunto alternato la valutazione di criteri vincolati a quelli discrezionali; tale modo di operare, a detta del T.A.R.Abruzzo, aveva comportato una violazione dei principi di precauzione e di trasparenza procedimentale con la conseguente configurabilità della c.d. illegittimità di pericolo nello svolgimento delle gare pubbliche.
In aperto contrasto con quanto statuito nell’impugnata sentenza, la Terza Sezione del Consiglio di Stato - dopo aver ricordato che in realtà non vi era stata una totale posposizione dei criteri valutativi discrezionali rispetto a quello vincolati avendo la Commissione alternato la valutazione degli uni con gli altri - ha osservato che la legge non prescrive alcun ordine rigoroso nell’esame dei criteri vincolati o discrezionali in sede di valutazione delle offerte tecniche, pertanto, l’operato della Commissione doveva considerarsi legittimo.
Nel giungere a tale conclusione, il Supremo Consesso ha ritenuto utile ricordare che nel sindacare la legittimità degli atti di gara, il giudice amministrativo “non è chiamato ad esaminare fattispecie di pericolo né a garantire l’osservanza di un precauzionale diritto del sospetto”; invero, nel diritto dei contratti pubblici non esiste alcuna regola, men che mai di natura precauzionale, che imponga alla Commissione di esaminare le offerte tecniche dando priorità all’assegnazione dei punteggi discrezionali rispetto a quelli vincolati, fermo restando la possibilità di contestare la valutazione tecnica sotto il profilo di eccesso di potere, censurabile come manifestamente illogica o manifestamente discriminatoria, vizi che comunque non erano stati dedotti in giudizio dalla ricorrente principale O.S..
Appurata la legittimità dell’operato della Commissione in relazione all’ordine di esame dei criteri di valutazione delle offerte tecniche, dalla stessa adottato, e quindi l’erroneità sul punto della sentenza impugnata, la Terza Sezione ha
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successivamente esaminato l’altro motivo di ricorso proposto in primo grado dalla società O.S., accolto anch’esso dal T.A.R.Abruzzo, diretto a contestare l’operato della Commissione per aver assegnato un punteggio collegiale alle varie voci dell’offerta tecnica piuttosto che singoli punteggi individuali come previsto dal disciplinare di gara che, sul punto, prevedeva l’attribuzione di un coefficiente, da parte di ciascun Commissario, in un intervallo compreso tra 0 a 1, per poi procedere al calcolo della media tra i vari coefficienti attribuiti.
Anche in relazione a questo motivo di ricorso, i giudici di Palazzo Spada non hanno ritento condivisibile la sentenza impugnata la quale aveva sul punto ravvisato una violazione della lex specialis da parte della Commissione statuendo che - scrive il T.A.R.Abruzzo - "specie nei procedimenti concorsuali le regole di cautela e gli accorgimenti prudenziali sono importanti corollari della trasparenza pubblica; pertanto, quando l’azione amministrativa si discosta in modo percepibile da tali regole comportamentali, si determina "una illegittimità di per sé rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva", poiché in grado di minacciare il bene protetto dalle suddette regole".
Atale riguardo, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha nuovamente ricordato che le norme dell’evidenza pubblica non sono poste a tutela di un pericolo astratto essendo piuttosto dirette a garantire un regolare svolgimento delle operazioni di gara e che quest’ultime possono essere oggetto di contestazione unicamente in caso di violazione di legge o in presenza di una figura sintomatica di eccesso di potere ma, nel caso di specie, hanno osservato i giudici d’appello, la società O.S. s.r.l. non aveva fornito alcun principio di prova dal quale poter desumere la sussistenza di tali vizi.
In linea di continuità con la consolidata giurisprudenza, il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, ha stabilito quindi che l’espressione di un unico punteggio da parte della Commissione Giudicatrice in luogo di singoli punteggi non può essere considerata di per sé indice di illegittimità, denotando piuttosto un confronto dialettico intervenuto in seno alla Commissione Giudicatrice.
Una volta appurata la correttezza dell’operato complessivo della Commissione e, quindi, la regolarità dello svolgimento delle operazioni di gara, il Consiglio di Stato non ha potuto che constatare la legittimità dell’aggiudicazione disposta in favore della società B.F. s.r.l. e, quindi, la fondatezza dell’appello principale con la conseguente declaratoria di improcedibilità dell’appello incidentale per sopravvenuta carenza d’interesse.
Ad abundantiam, i giudici di Palazzo Spada hanno, però, ritenuto utile soffermarsi ad esaminare anche il terzo motivo del ricorso incidentale proposto in primo grado dall’aggiudicataria B.F. s.r.l. diretto a contestare la mancata esclusione dalla gara della ditta O.S. s.r.l. per non aver indicato i costi della manodopera all’interno della propria offerta economica, il tutto in violazione dell’art. 95, co. 10 del d.lgs. n. 50/2016.
Sul punto, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha richiamato e dichiarato di condividere quanto disposto dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza 2 maggio 2019 (C-309/18) secondo la quale la disposizione di cui all’art. 95, co. 10 del d.lgs. n. 50/2016 ha carattere immediatamente escludente; tra l’altro, osservano i giudici di Palazzo Spada, la stessa lex specialis aveva espressamente previsto l’obbligo di indicazione dei costi della manodopera all’interno dell’offerta economica pur senza sanzionarlo espressamente con l’esclusione dalla gara.
Pertanto, evidenzia il Consiglio di Stato, l’appello incidentale di O.S. s.r.l., oltre ad essere improcedibile, era comunque da considerarsi infondato anche nel merito.
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4. Conclusioni
La sentenza in commento ha fornito importanti chiarimenti sulle modalità di valutazione delle offerte tecniche da parte della Commissione Giudicatrice escludendo che una disamina dei criteri valutativi tabellari e quantitativi antecedente a quella dei criteri discrezionali costituisca di per sé indice di parzialità o di favoritismo; del pari, secondo quanto statuito dalla Terza Sezione, neppure l’assegnazione di un punteggio collegiale in luogo di singoli giudizi è sufficiente a compromettere il regolare svolgimento delle operazioni di gara e, quindi, a denotare un’evidente parzialità nei confronti di un’offerta rispetto ad un’altra.
In buona sostanza, secondo i principi di diritto espressi in questa sentenza dal Consiglio di Stato, potrà considerarsi compromessa la regolarità dello svolgimento delle operazioni di gara soltanto laddove l’operato della Commissione Giudicatrice sia censurabile sotto il profilo dell’eccesso di potere riconducibile ad una valutazione tecnica manifestamente illogica o discriminatoria.
NOTAACONSIGLIO DI STATO - TERZASEZIONE, SENTENZA 24 giugno 2020, n. 4028
La disciplina della compensatio lucri cum damno nell’ipotesi di danno da emotrasfusioni con sangue infetto: criterio di quantificazione del danno e criterio ermeneutico nella responsabilità civile.
Di VALERIAFRATICELLI
Sommario: 1. Il caso - 2. La pronuncia del Consiglio di Stato - 3. La responsabilità del Ministero della salute per i danni da emotrasfusioni - 4. La disciplina della compensatio lucri cum damno - 5. Il ruolo della compensatio lucri cum damno nella pronuncia del Consiglio di Stato; criterio di quantificazione del danno e criterio ermeneutico.
1. Il caso.
Il Consiglio di Stato ha affrontato l’esatta delimitazione degli obblighi esecutivi facenti capo all’Amministrazione, discendenti dalle sentenze di primo e secondo grado del giudice ordinario1 che hanno affermato l’obbligo risarcitorio nei confronti della appellante per i danni derivanti dalla infezione da virus HCV da essa contratta in conseguenza della somministrazione di emoderivati infetti.
In particolare, con le sentenze citate, il giudice civile in accoglimento della domanda proposta dal ricorrente ha proceduto alla condanna e al risarcimento dei danni nei confronti del Ministero della salute detraendo da tale somma “quanto corrisposto nel corso del tempo e quanto deve ancora corrispondersi a titolo di rendita riconosciuta ”.2
Il T.A.R. Toscana è stato chiamato dalla parte ricorrente a pronunciarsi per l’ottemperanza da parte del Ministero della Salute del pagamento delle somme oggetto del giudicato civile 3
La questione, appellata ed oggetto di successiva disamina anche di fronte alla Terza Sezione del Consiglio di Stato, ha riguardato la definizione dei limiti del meccanismo compensativo così come sancito dal giudice ordinario.
Sotto un primo profilo, è stato richiesto al T.A.R., in sede esecutiva, di determinare precisamente l’ammontare della decurtazione e della relativa “capitalizzazione”, espletando un’attività di natura squisitamente cognitiva, con la specificazione delle modalità tecniche con cui la “capitalizzazione” sarebbe dovuta avvenire. L’oggetto del giudicato civile, secondo la ricorrente e secondo lo stesso T.A.R., non avrebbe contenuto una specificazione nè aritmeticamente né sulle modalità di computo di questa commisurazione.
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1 Tribunale di Firenze n. 1519 del 2012; Corte diAppello di Firenze n. 485 del 25 marzo 2016.
2 Cfr. Corte diAppello di Firenze n. 485 del 25 marzo 2016.
3 T.A.R. toscana, sentenza n. 884 del 17 giugno 2019.
Sotto un secondo profilo, veniva contestata in opposizione alla diversa ricostruzione offerta in giudizio dall’Amministrazione, la mancata legittimazione ad operare ulteriori decurtazioni dalla rendita per i ratei futuri. Ciò, infatti, avrebbe contrastato con le statuizioni del giudice ordinario che avrebbe disposto un limite temporale coincidente con la data di notifica della citazione ( marzo 2008).
Il T.A.R, nell’esaminare le relative questioni sopraindicate, ha valorizzato come le statuizioni civili non pongano dubbi sulla decurtazione del risarcimento del danno anche per i ratei futuri della rendita. Anche per questi ultimi, infatti, è necessario procedere alla “capitalizzazione”.
Sulla quantificazione aritmetica di questa capitalizzazione, tuttavia, ha riconosciuta la mancanza di una puntuale definizione e determinazione oggetto del giudicato civile. La richiesta di quantificazione da parte el ricorrente in sede di incidente di esecuzione è stata tuttavia respinta in quanto “verrebbe a invadere la giurisdizione del giudice ordinario”4
Le stesse questioni, sono state quindi riproposte dalla parte ricorrente in Appello con opposizione da parte del Ministero appellato.
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a determinare la portata oggettiva del giudicato civile valutando se contenga una specifica statuizione attinente alla compensabilità del risarcimento con i ratei successivamente maturati e maturandi della rendita percepita dal danneggiato ricorrente.
Sul punto, la parte ricorrente, ha sostenuto la mancanza di statuizioni precise della sentenza civile passata in giudicato che consentano di scomputare legittimamente ulteriori decurtazione del suddetto assegno, rispetto a quelle sancite dal giudice ordinario con il limite temporale della data di citazione (marzo 2008).
Il Consiglio di Stato, da un lato, ha valorizzato in senso ampio la formulazione del dispositivo del giudice civile di primo grado5 e la sentenza diAppello6 la quale ha chiarito e confermato in maniera più puntuale ma sempre ricognitiva del pregresso svolgimento processuale, come la compensazioni e il relativo scomputo “da eseguirsi al momento dell’esecuzione” investa anche “ la capitalizzazione dei ratei di rendita maturati successivamente al marzo 2008”7 Dall’altro lato ha rilevato, altresì, come la compensazione sulla capitalizzazione dei ratei futuri “ sia funzionale a garantire la coerente esplicazione del principio della compensatio lucri cum damno, sul quale si incentra, in parte qua, la ratio decidendi della sentenza suindicata”.8
Lo stesso concetto di “capitalizzazione”, come ampiamente valorizzato dalla pronuncia in esame, viene a individuare una prestazione economica di carattere durevole commisurata in generale alla vita dell’avente diritto. Proprio il concetto economico-giuridico di “capitalizzazione” sarebbe incompatibile con qualsiasi delimitazione temporale: “che non sia quella rapportata all’intero arco temporale di (prevedibile) erogazione della prestazione continuativa, ciò tanto più laddove, come nella fattispecie in esame, si tratti di assicurare la piena esplicazione del summenzionato principio della compensatio lucri cum damno, così come recepito in sede giurisprudenziale”.
Il secondo problema, già affrontato in sede di incidente di esecuzione nel giudizio di primo grado e riproposto dalla parte appellante, ha riguardato l’assenza di esplicite indicazioni sul computo e sulla capitalizzazione delle somme risarcitorie in sentenza ed oggetto di ottemperanza.
4 Cfr. T.A.R. Toscana, sentenza n. 884 del 17 giugno 2019.
5 Tribunale di Firenze n. 1519 del 2012
6 Corte diAppello di Firenze n. 485 del 25 marzo 2016.
7 Cfr. Corte diAppello di Firenze n. 485 del 25 marzo 2016.
8 Cfr. Sentenza in esame.
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2. La pronuncia del Consiglio di Stato.
Nonostante la Terza Sezione abbia confermato, in conformità con quanto statuito dal giudice di prime cure, la sussistenza di una clausola in “bianco” nel dispositivo della sentenza del giudice civile, quest’ultima secondo la Corte può essere “riempita”9 in sede esecutiva.
Queste conclusioni, secondo i giudici amministrativi, si pongono in linea con le esigenze di effettività e di concentrazione della tutela, oltre che con la ragionevole durata del processo, le quali: “sarebbero inevitabilmente frustrate qualora la parte appellante, al fine di ottenere finalmente il bene della vita riconosciutole dal G.O., fosse costretta ad adire nuovamente quest’ultimo, conseguenza questa, ineluttabilmente discendente dalla appellata pronuncia di inammissibilità”.
Queste conclusioni oltre a porsi in linea con i principi costituzionali in materia, si pongono anche in linea con il diritto sostanziale. La definizione “aritmetica” del meccanismo della “capitalizzazione” non apparterebbe, secondo le considerazioni del Consiglio di Stato, alla sfera di diritto sostanziale oggetto di accertamento nel giudizio civile di cognizione, ma verrebbe a convergere sugli aspetti tecnico-esecutivi della sentenza oggetto di ottemperanza. Come è stato chiaramente evidenziato dalla pronuncia: “la pretesa risarcitoria azionata dall’odierna appellante si trova già compiutamente conformata, anche nei suoi aspetti quantificatori, in virtù del richiamo alla necessità della “capitalizzazione”, agli effetti compensativi, dell’assegno ex. Art. 1 l. n. 201/1992, mentre la identificazione dei criteri cui questa deve ispirarsi, per la sua connotazione squisitamente tecnica, appartiene al legittimo ambito decisorio del giudizio di ottemperanza”.10
3. La responsabilità del Ministero della salute per i danni da emotrasfusioni.
La responsabilità del Ministero della salute per i danni da emotrasfusioni costituisce una ipotesi peculiare di responsabilità da comportamento materiale.11 In relazione al danno da c.d. emotrasfusioni, ossia al danno derivante dall’aver effettuato trasfusioni con sangue infetto, possono essere individuati più soggetti chiamati, a diverso titolo, a rispondere del risarcimento del danno; la struttura ospedaliera ( ai sensi dell’art. 1218 c.c.), il centro trasfusionale (ai sensi dell’art. 2050 c.c.), e solitamente il medico( ai sensi della regola generale aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.).
La giurisprudenza prevalente12, non ha mai escluso l’ulteriore responsabilità del Ministero della salute, che consegue dall’omessa vigilanza sul corretto svolgimento delle attività in esame.
La fonte di questo dovere, oltre a trovare un fondamento nella specifica norma di settore13, troverebbe una base più ampia nel dovere di buona fede e correttezza, in applicazione al dovere solidaristico espresso in via programmatica all’art. 2 Cost.
In materia di danno da emotrasfusioni con sangue infetto, oltre ai problemi inerenti alla delimitazione temporale della responsabilità del Ministero in caso di assenza di adeguate conoscenze scientifiche sulla precisa patologia al momento della messa in circolazione del sangue per trasfusioni, e alla questione rispetto alla decorrenza del termine di prescrizione nei casi di danni c.d. lungolatenti14, un’ulteriore questione, oggetto della pronuncia in esame, attiene al rapporto tra il risarcimento del danno e l’indennizzo previsto all’art. 1 della legge 25 febbraio 1992, n. 210.15
9 Cfr. Sentenza in esame.
10 Cfr. Sentenza in esame.
11 V. Lopilato, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli Editore - Torino , 2020, pag. 1226.
12 In questo senso; Cass. Civ., Sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26152; Cass. Civ., sez.un., 11 gennaio 2008, n. 581.
13 Art. 10 della l. n. 219 del 2005, legge n. 338 del 1997 per le epatiti post-trasfusionali.
14 Cass. civ., sez.un., 11 gennaio 2008, n. 581.
15 L’art. 1 della legge n. 210 del 1992 prevede che: “ Chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge . 2. L'indennizzo di cui al comma 1 spetta anche ai soggetti che risultino contagiati da
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Il Consiglio di Stato nella sentenza in esame, in linea con la giurisprudenza più recente16, ha applicato la regola della c.d. compensatio lucri cum damno, affermando che l’indennizzo corrisposto al danneggiato da parte del Ministero della salute deve essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento « posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto( il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto ( trasfusioni di sangue infetto)» 17
4. La disciplina della c.d. compensatio lucri cum damno
L’istituto della compensatio lucri cum damno, in assenza di una chiara norma di disciplina, può essere definito come la regola in forza della quale, ai fini del calcolo del danno risarcibile, occorre tener conto degli eventuali vantaggi che trovano origine nello stesso atto o fatto che ha causato il danno.18
In alcuni casi, infatti, l’illecito o l’inadempimento viene a produrre allo stesso tempo un danno e un profitto. Secondo la applicazione della teoria differenziale19, per cui il risarcimento del danno ha come funzione preminente la reintegrazione del patrimonio del danneggiato nello stesso stato in cui si trovava prima del fatto illecito, il giudice è tenuto alla determinazione del danno differenziale che deriva dallo scomputo dei profitti derivanti dallo stesso
La natura e la operatività dell’istituto è stata esaminata nel dettaglio tanto dalle Sezioni Unite della Cassazione che dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.20
L’inquadramento, come osservato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non può essere oggetto di analisi e studio unitario in quanto si correla alla specificità delle singole fattispecie.
In via generale, per ragioni di ordine logico e sistematico, può operarsi una tripartizione.
Da un lato, sono individuabili quelle situazioni caratterizzate dall’unicità dell’autore della condotta responsabile e dell’obbligato a effettuare un’unica prestazione derivante da un unico titolo.
Una seconda categoria investe le fattispecie caratterizzate dalla presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due soggetti obbligati sulla base di titoli differenti.
Un terzo sottogruppo individua, in senso ampio, le fattispecie normativamente previste che prevedono un soggetto tenuto oltre al risarcimento ad una indennità da corrispondere per finalità solidaristiche a favore di determinate vittime. I casi esaminati negli ultimi anni, tanto dalla giurisprudenza civile che amministrativa, hanno investito soprattutto i c.d. “rapporti giuridici trilaterali”, o più specificatamente, i duplici rapporti bilaterali: da un lato, la parte responsabile a titolo di illecito, dall’altra la parte obbligata ad altro titolo diverso.
infezioni da HIV a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, nonché agli operatori sanitari che, in occasione e durante il servizio, abbiano riportato danni permanenti alla integrità psicofisica conseguenti a infezione contratta a seguito di contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV. 3. I benefìci di cui alla presente legge spettano altresì a coloro che presentino danni irreversibili da epatiti posttrasfusionali. 4. I benefìci di cui alla presente legge spettano alle persone non vaccinate che abbiano riportato, a seguito ed in conseguenza di contatto con persona vaccinata, i danni di cui al comma 1; alle persone che, per motivi di lavoro o per incarico del loro ufficio o per potere accedere ad uno Stato estero, si siano sottoposte a vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie; ai soggetti a rischio operanti nelle strutture sanitarie ospedaliere che si siano sottoposti a vaccinazioni anche non obbligatorie.”
16 Cass. civ., sez.un., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. Civ., sez. III, 6 dicembre 2018, n. 31543; si v. anche Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n.1.
17 Cfr. sentenza in esame.
18 V. Lopilato, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli Editore - Torino, 2020, pag. 1226
19 Recentemente richiamata sotto il profilo della responsabilità medica dalla nota sentenza della Cass. Civ., III Sez., 11.11.2019, n. 28986.
20 Cass.civ., sez.un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565,12566,12567. Con. Stato,Adun.Plen., n. 1 del 2018.
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Il presupposto su cui la giurisprudenza in passato, ha basato l’ammissibilità della compensatio lucri cum damno è quello della unicità del processo causale che ha dato vita sia al danno che al profitto. La stessa condotta illecita deve aver provocato direttamente tanto le conseguenze negative quanto quelle positive, attraverso una lettura in senso stretto e
letterale dell’art. 1223 c.c.21
Secondo questo orientamento, maggioritario fino alle note pronunce delle Sezioni Unite del 2018, le fattispecie rientranti in questi duplici rapporti bilaterali non sarebbero riconducibili alla disciplina della compensatio e ammetterebbero, di conseguenza, il cumulo.
La diversità dei titoli delle obbligazioni e la diversità dei rapporti giuridici in queste ipotesi, ha condotto a ritenere in passato che l’indennità corrisposta a diverso titolo troverebbe nell’illecito non tanto la sua fonte legale quanto una mera occasione di fatto.
Il rischio di sovra compensazione economica in violazione dei principi sistematici che permeano la responsabilità civile, ha portato la giurisprudenza, sebbene attraverso un diverso percorso giuridico a rimettere la questione alle Sezioni Unite.22
La giurisprudenza nel rimettere la questione al giudice di legittimità ha rilevato come l’operatività della compensatio non derivi dall’unicità dei titoli ma dall’identità della condotta “causale” sia per quanto riguarda il danno sia per l’attribuzione patrimoniale finalizzata a reintegrare e compensare la parte offesa.
Sotto un secondo profilo, poi, è stato evidenziato come il cumulo determinerebbe un arricchimento ingiustificato della parte lesa non in linea con la funzione compensativa della responsabilità civile.
Le Sezioni unite risolvendo il conflitto giuridico, se da un lato, hanno ritenuto che la compensatio debba essere ricostruita alla luce del criterio della causalità adeguata, dall’altro hanno escluso che il criterio causale unitario possa essere utilizzato per valutare la risarcibilità delle poste dannose. Secondo la Corte di legittimità, dunque, occorre «guardare alla funzione il cui il beneficio collaterale si rileva essere espressione, per accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento». Ciò comporta che «la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito: sicché in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato».23
Ai fini della applicazione della compensatio da parte del giudice, dunque, non viene a rilevare tanto la coincidenza formale dei titoli, quanto il collegamento funzionale tra la causa della attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria.
Questo principio di diritto è stato di recente confermato anche da una nota sentenza dellaAdunanza Plenaria24 la quale ha ritenuto che l’elemento centrale per la applicazione della compensatio sia quello della funzione perseguita dalla obbligazione nascente dal titolo diverso: se la funzione risulta risarcitoria viene ad operare la compensatio sulla base della regola generale della causalità giuridica, se la funzione assume invece un’autonoma e propria causa, allora viene ad operare il cumulo.
Nella casistica amministrativa l’istituto della compensatio lucri cum damno ha solitamente posto il problema della determinazione e della prova dell’aliunde perceptum, ovvero delle somme che la parte ha percepito a diverso titolo in connessione con il fatto illecito. La questione ha soprattutto investito la disciplina degli appalti e dei contratti di lavoro, laddove l’orientamento prevalente e più recente, in linea con la giurisprudenza civile, ritiene che l’onere di eccepirlo e
21 L’art. 1223 c.c. prevede che : “ Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne sia conseguenza immediata e diretta.”
22 Cass. Civ., sez. III, 22 giugno 2017, n. 15534
23 Cass.civ., sez.un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565,12566,12567.
24 Cons. Stato,Ad. plen., n. 1 del 2018.
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provarlo incomba sul danneggiante, ed in mancanza di eccezione o di prova non sia possibile decurtare quanto riconosciuto a titolo di mancato guadagno.25
5. La funzione della compensatio lucri cum damno nella pronuncia del Consiglio di Stato; criterio di quantificazione del danno e criterio ermeneutico.
Nel caso sottoposto alla Terza Sezione del Consiglio di Stato, il giudice amministrativo è venuto a valorizzare la funzione dell’istituto in esame per ricostruire e delimitare l’oggetto del giudicato civile che ha statuito sul risarcimento del ricorrente. La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, hanno ritenuto che l’indennizzo previsto dalla legge 25 febbraio 1992, n.210 debba essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento posto che in caso contrario : “la vittima verrebbe a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”26 .
Il giudice amministrativo, nel confermare come il giudicato civile contenesse anche implicitamente una statuizione sulla decurtazione del risarcimento anche per i ratei maturati e maturandi futuri di una rendita già percepita dal ricorrente, ha valorizzato come questa conclusione si allinei con la funzione espletata nel codice civile dalla compensatio27 la quale: “opera certamente in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni”.28
Nel caso di specie, dunque, ove il Ministero della salute aveva già provveduto all’erogazione della rendita di natura indennitaria ai sensi della L. 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha confermato il percorso seguito dal giudice civile ritenendo che: “ deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”.
Il giudice amministrativo, partendo dal presupposto di fatto che il ricorrente avesse già ottenuto l’erogazione periodica con cadenza bimestrale dell’assegno calcolato sulla base del danno subito, patrimoniale e non patrimoniale29 ha ritenuto che la determinazione del giudice civile sulla “capitalizzazione” e riduzione della rendita anche per i ratei futuri, risultasse consentanea, da un punto di vista ermeneutico, a garantire il principio della compensatio lucri cum damno Il danno differenziale limitato ai soli ratei maturati, infatti, renderebbe la funzione della disciplina della compensatio : “ in buona parte insoddisfatta ove il defalco dall'entità del risarcimento spettante venisse limitato ai ratei già corrisposti al momento della liquidazione del danno, con esclusione di quelli futuri, volta che nella specie deve ritenersi già determinato ovvero determinabile il loro preciso ammontare” .
Da questo punto di vista, la Terza Sezione ha avuto modo di valorizzare l’istituto in esame non solo nel suo profilo strutturale tecnico di quantificazione del danno, ma nella sua preminente funzione sistematica all’interno della disciplina della responsabilità civile, offrendone un prezioso elemento ermeneutico confermativo della perimetrazione dell’oggetto del giudicato civile.
25 Cons. Stato,Ad. Plen. n.1 del 2018; Cons. Stato, sez. VI, 15 settembre 2015, N. 4283; Cass, civ., sez. Lav., 11 giugno 2013, n. 14643.
26 Nello stesso senso; Cass. Civ., sez. un. 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre2014, n. 26152
27 Cassazione civile, Sez. III, n. 31543 del 6 dicembre 2018; Cass. Sez. U 11/01/2008, n. 584; Cass. 14/03/2013, n. 6573.
28 Cfr. sentenza in esame
29 Tabella B allegata alla L. 29 aprile 1976, n. 177, come modificata dalla L. 2 maggio 1984, n. 111, art. 7;L. n. 210 del 1992, art.2
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE TERZA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 10 giugno 2020, n. 3702 Subappalto e avvalimento - Subappalto necessario o qualificante – Frazionabilità del requisito qualificante tra i subappaltatori – Concorrente sprovvisto della qualificazione obbligatoria – Categorie scorporabili Di ANTONELLA LOIACONO
É rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione “se gli artt. 63 e 71 della direttiva 2014/24 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014, unitamente ai principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui agli artt. 49 e 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ostino ad una interpretazione della normativa nazionale italiana in materia di subappalto necessario secondo la quale il concorrente sprovvisto della qualificazione obbligatoria in una o più categorie scorporabili non può integrare il requisito mancante facendo ricorso a più imprese subappaltatrici, ovvero cumulando gli importi per i quali queste ultime risultano qualificate”.
(1 – 5) SUBAPPALTO NECESSARIO E FRAZIONABILITÀ DEL REQUISITO QUALIFICANTE TRA PIÙ
SUBAPPALTATORI
Abstract
La nota affronta la problematica dell’ammissibilità del subappalto c.d. necessario “qualificante”, ricorrente ogniqualvolta il concorrente, che non possiede la qualificazione in ciascuna delle categorie a qualificazione obbligatoria, si impegni a subappaltare le opere scorporabili ad un’impresa che si trovi in possesso della qualificazione di cui necessita.
Viene, inoltre, esaminato l’istituto di più ampio respiro del subappalto, evidenziandone le affinità con l’omologo istituto dell’avvalimento soprattutto in caso di subappalto necessario. Tale confronto, da un lato, offrirà l’occasione per illustrare le ipotesi di obiezione in merito all’estensione anche al subappalto del principio del frazionamento dei requisiti; dall’altro, servirà d’aggancio per affrontare le varie ragioni che nel corso degli anni hanno portato il legislatore italiano ad adottare una politica difensiva sul tema dell’ingresso del subappalto nel sistema degli appalti pubblici.
SOMMARIO: 1. Il Consiglio di Stato rimette alla CGUE la questione sulla frazionabilità del requisito qualificante in caso di subappalto – 2. La normativa italiana e comunitaria in materia di subappalto – 3. Subappalto e avvalimento fra divergenze e similitudini – 4. Requisiti di partecipazione alla gara, categorie scorporabili e subappalto necessario (o qualificante) – 5. Conclusioni
1. La fattispecie su cui si è pronunciato il Consiglio di Stato con l’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia Europea in commento riguarda l’esito di una gara aperta per l’affidamento dei lavori di realizzazione del nuovo ospedale “San Cataldo” di Taranto indetta da Invitalia, quale centrale unica di committenza per la Regione Puglia. La seconda classificata, RTI Research, ricorreva in giudizio impugnando il provvedimento di aggiudicazione dinanzi al TAR Puglia – Lecce, lamentando l’anomalia, sotto diversi profili, dell’offerta da parte dell’aggiudicataria. Dal
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canto suo l’aggiudicataria, Debar Costruzioni s.p.a., proponeva ricorso incidentale lamentando l’illegittimità dell’ammissione alla gara della ricorrente per difetto del requisito di qualificazione SOA30 per la categoria OS 18-B nella classifica V.
Il raggruppamento ricorrente, in realtà, riteneva di soddisfare tale requisito in parte con il possesso della propria classifica, in parte con il subappalto frazionato, ma il TAR respingeva tale tesi affermando che il concorrente (ovvero in sua vece il subappaltatore) debba possedere in proprio e “per intero” la qualificazione richiesta dalla lex specialis31, accogliendo quindi il ricorso incidentale dell’aggiudicataria.
La sentenza di primo grado è stata appellata con tre distinti ricorsi dinanzi al Consiglio di Stato da Invitalia, dal Rti Research e da Debar.
Con pronuncia parziale n. 3573 del 5 giugno 2020 il Consiglio di Stato accoglieva in parte gli appelli proposti da Invitalia e Debar, confermando la necessità di un supplemento di verifica, ad opera della stazione appaltante, circa la sostenibilità dell’offerta temporale formulata dalla prima classificata Debar. Quanto al motivo escludente del ricorso incidentale di primo grado reputò necessario sospendere il giudizio in attesa di una decisione da parte della CGUE sulla questione ad essa sottoposta con l’ordinanza in commento32
Al fine di delineare gli esatti contorni del tema oggetto della questione pregiudiziale, si precisa che il disciplinare di gara richiedeva ai partecipanti, a pena di esclusione, l’attestazione di qualificazione rilasciata da una SOA competente per l’esecuzione delle prestazioni di costruzione nella categoria OS 18-B in classifica V scorporabile e a classificazione obbligatoria. Al fine di soddisfare i requisiti di partecipazione richiesti il raggruppamento Research, in sede di offerta, dichiarava di voler far ricorso al subappalto c.d. necessario e indicava come suoi subappaltatori tre società.
Il Tar in primo grado sosteneva la tesi secondo cui almeno un componente del raggruppamento temporaneo di impresa o, in alternativa, un subappaltatore avrebbe dovuto essere titolare di attestazione SOA idonea a coprire per intero l’importo dei lavori, con totale esclusione della facoltà di frazionamento del requisito tra più imprese. Secondo le parti appellanti, invece, né la clausola del disciplinare né la normativa nazionale pongono alcuna limitazione al subappalto qualificante frazionato, non potendosi intendere in tal senso né l‘art 105 comma 5 d.lgs. 50/2016, né l’art. 61 d.p.r. 2017/2010. Inoltre, l’interpretazione della lex specialis e della normativa nazionale
30 L’Attestazione SOA è la certificazione obbligatoria per la partecipazione a gare d’appalto per l’esecuzione di appalti pubblici di lavori, ovvero un documento necessario e sufficiente a comprovare, in sede di gara, la capacità dell’impresa di eseguire, direttamente o in subappalto, opere pubbliche di lavori con importo a base d’asta superiore a € 150.000,00; essa attesta e garantisce il possesso da parte dell’impresa del settore delle costruzioni di tutti i requisiti previsti dalla attuale normativa in ambito di contratti pubblici di lavori.
L’Attestazione SOA ha validità quinquennale (sempre che ne venga verificata la validità al terzo anno dal primo rilascio) e viene rilasciata a seguito di un’istruttoria di validazione dei documenti prodotti dall’impresa, facenti capo agli ultimi dieci esercizi di attività dell’impresa (dieci anni di lavori ed i migliori cinque esercizi tra gli ultimi dieci) da appositi organismi di attestazione, ovvero società autorizzate ad operare dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP).
31 Par. 15.2, 15.2.1 e 15.2.2 della sentenza n. 1915/2019, TAR Puglia, Lecce.
32 Per il testo completo dell’ordinanza di rimessione: www.giustiziaamministrativa.it/portale/pages/istituzionale/visualizza?nodeRef=&schema=cds&nrg=201910623&nomeFile=2020037 02_18.html&subDir=Provvedimenti.
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adottata dal TAR Puglia risulterebbe disarmonica anche rispetto ai principi di diritto eurounitario in punto di frazionabilità dei requisiti di partecipazione33
Sul punto, la Terza Sezione del Consiglio di Stato, dichiarava di non condividere quanto statuito dal Giudice di prime cure, premettendo che nella normativa nazionale non è rinvenibile alcuna limitazione espressa al subappalto qualificante frazionato, non potendosi in tal senso intendere né l’art. 105 comma 5 del d.lgs. n. 50/2016, né l’art. 61 del d.P.R. n. 207/2010.
In assenza di disposizioni specifiche in merito alla frazionabilità tra subappaltatori del requisito qualificante e dubitando che la normativa nazionale sia interpretabile nel senso indicato dal TAR, i Giudici di Palazzo Spada hanno, dunque, ritenuto opportuno rinviare la questione alla Corte di Lussemburgo al fine di ottenere indicazioni nomofilattiche sulle sovraordinate disposizioni del diritto eurounitario.
2. La disciplina nazionale del subappalto è stata ispirata per lungo tempo ad un netto sfavore da parte del legislatore, storicamente determinato dalla preoccupazione di infiltrazioni criminali nel mondo delle commesse pubbliche. A tale timore si è aggiunta l’ulteriore preoccupazione che, come per le varianti, attraverso il subappalto potessero essere aggirate le regole dell’evidenza pubblica.
Com’è noto, il subappalto è il contratto con il quale l’appaltatore affida a terzi l’esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto principale.
In generale il subappalto viene descritto come una forma di subcontratto, cioè si presenta come un negozio derivato dall’appalto che ha ad oggetto, in tutto o in parte, lo stesso oggetto dell’appalto. È un contratto bilaterale: si stipula tra l’appaltatore (che diviene subcommittente) e il subappaltatore, mentre il committente rimane del tutto estraneo al rapporto.
Il rapporto tra i due contratti di appalto e subappalto è di dipendenza unilaterale: il subappalto è subordinato all’appalto, che ne costituisce presupposto necessario.
La figura del subappalto è disciplinata a livello civilistico dagli artt. 1656 e 1670 del codice civile.
La prima norma dispone che l’appaltatore non può dare in subappalto l’esecuzione dell’opera o del servizio se non è stato autorizzato dal committente. La ratio ispiratrice risiede nella volontà del legislatore di evitare che l’appaltatore si trasformi in un accaparratore di lavori e che la riduzione del margine di guadagno del subappaltatore influisca negativamente sull’esecuzione del contratto34
È sovente, poi, distinguere in materia civilistica il subappalto dalla cessione del contratto ex art. 1406 cod. civ.
Con la cessione del contratto la parte cedente trasferisce al cessionario la medesima posizione contrattuale di cui è titolare; mentre con il subappalto viene attribuito al terzo un diritto nuovo, anche se dipendente dal diritto derivante dal contratto base di appalto.
La stipula di un contratto di subappalto non incide sull’originario rapporto contrattuale, infatti le responsabilità e gli obblighi gravanti sulle parti del contratto di appalto rimangono inalterati.
Nella cessione, invece, il cedente diviene parte estranea rispetto al contratto originario, perdendo diritti e restando esonerato dagli obblighi del contratto ceduto.
In particolare, va evidenziato come il codice dei contratti pubblici vieti la cessione del contratto, mentre consente, in alcuni casi, il subappalto.
33 Si fa riferimento, in particolare, agli artt. 47 e 48 della previgente direttiva 2004/18/CE e non contraddetti dalla successiva direttiva 2014/24/UE (CGUE, 10 ottobre 2013, C 94/12, punti 29 – 35; CGUE, 14 gennaio 2016, C-234/14, punti 23 e 28; CGUE, 14 luglio 2016, C 406/14, punto 33).
34 Si veda FRATINI M. Manuale sistematico di diritto amministrativo p. 1065 - DIKE giuridica editore (2018).
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Nel Codice dei contratti pubblici l’istituto del subappalto è disciplinato dall’art. 105 del d.lgs. 50/2016, il quale ne illustra tutte le caratteristiche fondamentali nonché la disciplina di riferimento. La norma manifesta ancora un certo timore nei confronti dell’istituto, ponendo limiti quantitativi (limite massimo del 30%35) all’utilizzo del subappalto nei contratti di lavori, servizi o forniture. È poi richiesta la previa indicazione nel bando delle prestazioni oggetto di subappalto ed è necessario che i concorrenti in sede di offerta indichino le parti che intendono subappaltare.
È obbligatoria l'indicazione della terna di subappaltatori36 in sede di offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo pari o superiore alle soglie di cui all'articolo 35 d.lgs. 50/2016 o, indipendentemente dall'importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa, come individuate al comma 53 dell'articolo 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Nel caso di appalti aventi ad oggetto più tipologie di prestazioni, la terna di subappaltatori va indicata con riferimento a ciascuna tipologia di prestazione omogenea prevista nel bando di gara.
È necessario, inoltre, depositare il contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni. Al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante, l'affidatario trasmette, altresì, la certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione prescritti dal codice in relazione alla prestazione subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore attestante l'assenza in capo ai subappaltatori dei motivi di esclusione di cui all'articolo 8037 d.lgs. 50/2016.
Vi è, altresì, l’obbligo di segnalare la sussistenza di forme di controllo o di collegamento ex art. 2359 cod. civ. con il titolare del subappalto, il tutto al fine di prevenire condotte opportunistiche contrarie al diritto della concorrenza.
I limiti al subappalto imposti dal nuovo codice dei contratti pubblici non sono solo posti a tutela dell’amministrazione committente, ma sono anche volti ad evitare che, attraverso modifiche sostanziali nella fase esecutiva del contratto, sia vanificato l’interesse pubblico che ha imposto lo svolgimento della procedura di evidenza pubblica.
In via generale il subappalto è facoltativo: è rimesso al libero arbitrio dell’appaltatore. Vi sono però dei casi in cui il ricorso al suddetto istituto si rende obbligatorio: si tratta del caso in cui alcune prestazioni del contratto necessitano di una particolare qualificazione “obbligatoria” di cui l’appaltatore è privo; tali prestazioni non possono essere eseguite direttamente dall’aggiudicatario e pertanto devono essere necessariamente subappaltate ad un soggetto che, invece, sia in possesso delle relative qualificazioni.
35 Se la regola generale del Codice è quella del limite del 30% delle prestazioni subappaltabili, il Decreto Sblocca Cantieri (d.l. 32/2019), come convertito, prevede che fino al 31 dicembre 2020 il limite diventa del 40% del valore complessivo dell’appalto, lasciando scegliere alle stazioni appaltanti la percentuale esatta. È possibile, pertanto, che le stazioni appaltanti prevedano dei limiti inferiori al 40% per le prestazioni subappaltabili.
Si deve ritenere, tuttavia, che l’ulteriore limitazione presuppone che venga dimostrata una natura peculiare delle prestazioni da affidare in appalto. Le prestazioni dovrebbero avere delle caratteristiche in grado di rendere prevalente il principio dell’esecuzione personale da parte dell’affidatario rispetto a quello della massima partecipazione.
36 Il Decreto Sblocca Cantieri elimina, provvisoriamente, l’obbligo di indicare, nel momento di presentazione dell’offerta, la terna dinominatividi subappaltatori che inprecedenza eraprevisto perle garesopra-soglia o perquelleparticolarmente esposte alle infiltrazioni della criminalità organizzata.
37 Con il d.l. 32/2019 viene disposto che non vige più, fino al 31 dicembre 2020, l’obbligo per l’offerente di dimostrare l’assenza, in capo ai subappaltatori, di motivi di esclusione, e non può essere consequenzialmente applicato il motivo di esclusione, all’art. 80, per il caso di mancato possesso dei requisiti da parte del subappaltatore indicato. Rimane, tuttavia, l’obbligo di dimostrare i requisiti di moralità ex art. 80, anche in capo al subappaltatore, nel momento in cui si richiede l’autorizzazione al subappalto.
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Subappaltatore e committente non sono legati da alcun vincolo negoziale e dunque fra di essi non insorgono né diritti e né obblighi reciproci, e non è neppure esperibile l’azione diretta per ottenere l’adempimento della prestazione dell’altro: è il subcommittente/appaltatore che risponde nei confronti dell’amministrazione aggiudicatrice dell’inadempimento del subappaltatore.
Il committente, dunque, ha diritto alla prestazione dall’appaltatore ma non dal subappaltatore; quest’ultimo, a sua volta, è parte del contratto solo con l’appaltatore, dal quale può pretendere l’adempimento della prestazione. Se l’appaltatore è inadempiente nei confronti del subappaltatore e il committente risulta a sua volta inadempiente, il subappaltatore non può agire direttamente nei confronti del committente salvo l’azione surrogatoria ex art. 2900 cod. civ.
Il codice dei contratti pubblici ha, però, introdotto, in conformità alla normativa europea, una deroga precisando che il subappaltatore ha diritto di agire nei confronti dell’amministrazione aggiudicatrice per ottenere il pagamento di quanto dovuto dal subcommittente inadempiente.
Il regime del subappalto come disciplinato nella normativa italiana, pur nel suo mutare nel tempo, continua a prospettare dei profili di incompatibilità con la disciplina eurounitaria.
Nel diritto dell’Unione Europea il subappalto è stato disciplinato prima dalle direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE e successivamente dalla direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici, nonché dalla direttiva 2014/23/UE sulle concessioni e dalla direttiva 2014/25/UE sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti dei servizi postali.
Sia le più risalenti direttive, sia quelle più attuali non prevedono l’imposizione di limitazioni al subappalto e ne sottolineano la sua funzione “positiva” ricollegandolo ai principi di parità di trattamento e non discriminazione nei confronti degli operatori economici che partecipano a procedure di evidenza pubblica e all’obiettivo di favorire la partecipazione di piccole e medie imprese, così come ai principi di libertà di stabilimento, libera circolazione delle merci e dei capitali, concorrenza e proporzionalità.
Pur sempre in questa ottica, la Direttiva 2014/24/UE risulta più specifica indicando in modo più dettagliato, rispetto alla direttiva del 2004, i poteri di verifica e controllo della stazione appaltante sui requisiti dei subappaltatori.
In particolare, la disciplina eurounitaria del subappalto è desumibile dagli artt. 63 e 71 della citata direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 sugli appalti pubblici e sviluppa i principi concorrenziali espressi dagli artt. 49 (libertà di stabilimento) e 56 (libera circolazione di servizi nell’UE) del TFUE. In particolare, il subappalto è contemplato all’art. 71 della direttiva 2014/24/UE, il quale prevede la possibilità, a tutela del subappaltatore, che l’amministrazione aggiudicatrice esegua i pagamenti direttamente nei confronti dello stesso subappaltatore. Si tratta di una chiara presa di posizione nei confronti dell’istituto, sul presupposto che il subappalto possa contribuire ad ampliare la concorrenza, specie a favore di piccole e medie imprese38
L’art. 63 della direttiva, invece, stabilisce che per quanto concerne i criteri relativi alla capacità economica e finanziaria ed i criteri relativi alle capacità tecniche e professionali un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi.
In sostanza, la normativa comunitaria prevede la completa e incondizionata subappaltabilità delle prestazioni dedotte nel contratto di appalto. Inoltre, riconosce pienamente il diritto di un prestatore privo di determinati requisiti di poter impiegare le capacità di terzi per l’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione anche se, nel mentre, ammette la speculare esigenza da parte della stazione appaltante di poter valutare la competenza, l’efficienza e l’affidabilità dei subappaltatori.
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38 Si veda FRATINI M. Manuale sistematico di diritto amministrativo p. 1065 - DIKE giuridica editore (2018).
Diverse pronunce della Corte di Giustizia Europea hanno precisato nel tempo i termini della disciplina europea sul subappalto, soprattutto nei confronti di quelle disposizioni che tendono a imporre limitazioni al suo utilizzo, mostrando una certa distanza dalle previsioni del nostro diritto nazionale che, anche all’esito delle tante modifiche normative, tendono a mantenere vincoli e condizioni riduttive nel ricorrere all’istituto.
Vi è, dunque, una nutrita giurisprudenza della Corte di Lussemburgo la quale non pone limiti di carattere generale al ricorso all’istituto del subappalto, sancendo anzi la possibilità per gli offerenti di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, e ciò, in linea di principio, in modo illimitato39 .
Nella sentenza pronunciata dalla CGUE il 10 ottobre 2013 (causa C-94/12) viene specificato come i raggruppamenti di operatori economici siano autorizzati a partecipare a procedure di aggiudicazione di appalti senza che siano previste limitazioni relative al cumulo di capacità; mentre nella sentenza C-234/14 del 14 gennaio 2016 la Corte precisa, da un lato, che l’offerente rimane libero di scegliere la natura giuridica dei legami che intende allacciare con altri soggetti sulle cui capacità può fare affidamento ai fini dell’esecuzione di un determinato appalto e, dall’altra, le modalità di prova dell’esistenza di tali legami.
La ratio ispiratrice di questo filone giurisprudenziale riguardo l’istituto del subappalto è da individuare nel favor partecipationis, ossia quell’obiettivo (proprio della direttiva 2004/18/CE e rafforzato dalla direttiva 2014/24/UE) di apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, a vantaggio non solo degli operatori economici stabiliti negli Stati membri, che hanno così accesso a mercati che altrimenti gli sarebbero preclusi; ma anche alle amministrazioni aggiudicatrici, che hanno l’interesse ad estendere quanto più possibile il ventaglio delle potenziali offerte ed ottenere così la migliore offerta che il mercato è in grado di esprimere.
Facendo riferimento ad altre più recenti pronunce, si ricorda la decisione della Corte di Giustizia Europea 22 ottobre 2015 (causa C-425/2014) la quale rileva l’illegittimità della clausola del bando che impone ai partecipanti di dichiarare, a pena di esclusione, che non verranno subappaltate lavorazioni di alcun tipo ad altre imprese partecipanti alla gara e prevede che, in caso contrario, tali subappalti non verranno autorizzati. Tale previsione, sottolinea la Corte, sarebbe eccessiva rispetto al fine di prevenire comportamenti collusivi, rivelandosi in contrasto con il principio di proporzionalità.
La pronuncia della Corte di Giustizia 14 luglio 2016, Wroclawl (causa C- 406/14), resa in relazione alla direttiva 2004/18, ha ritenuto che la possibilità per gli offerenti di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto è in linea di principio illimitata, ma ha specificato che, in via di eccezione, “conformemente all’articolo 25, primo comma, della direttiva 2004/18, l’amministrazione aggiudicatrice ha il diritto, per quanto riguarda l’esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di vietare il ricorso a subappaltatori quando non sia stata in grado di verificare le loro capacità in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario”.
La medesima pronuncia ha evidenziato l’incompatibilità con il diritto eurounitario di una clausola che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi.
Infine, la Corte di Giustizia Europea con sentenza del 5 aprile 2017 Borta UAB (causa C-298/15), in relazione a una legge lituana che prevedeva come in caso di ricorso a subappaltatori per l’esecuzione di un appalto di lavori l’aggiudicatario dovesse realizzare esso stesso l’opera principale, ha evidenziato l’interesse dell’Unione Europea alla massima concorrenza nei bandi di gara, indicando ancora una volta come il ricorso al subappalto possa favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuendo al perseguimento dell’obiettivo di ampliamento della concorrenza. Secondo quest’ultima decisione, una disposizione nazionale come quella indicata è
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39 Cfr. CGUE, 14 luglio 2016, C 406/14.
idonea a ostacolare, scoraggiare o rendere meno attraente la partecipazione di operatori economici con sede in altri Stati membri alla procedura di gara o all’esecuzione di un appalto pubblico, impedendo agli operatori economici di subappaltare a terzi tutto o parte delle opere qualificate come “principali” dall’ente aggiudicatore, sia di proporre i loro servizi in quanto subappaltatori per tale parte dei lavori. Una tale disposizione costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.
In sostanza, dalle pronunce della Corte di Giustizia Europea, già al momento dell’entrata in vigore del Codice e a quello del successivo correttivo di cui al d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, era emersa l’impossibilità di imporre divieti generalizzati di ricorso al subappalto, e, al tempo stesso, l’ammissibilità da parte dell’amministrazione, nel caso di esecuzione di parti essenziali dell’appalto, di imporre il divieto di ricorso al subappaltato quando la stazione appaltante non fosse stata in grado di verificare le capacità dei subappaltatori in occasione della valutazione delle offerte e della selezione dell’aggiudicatario. Inoltre, era stato ribadito che ogni eventuale limitazione del ricorso al subappalto legata alla protezione di interessi superiori dovesse rispettare il principio di proporzionalità.
È palese, dunque, come da più parti emerga la non compatibilità tra la normativa eurounitaria in materia di appalti pubblici e la disciplina contenuta nell’art. 105 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50).
Sul punto, a titolo esemplificativo, possiamo richiamare ulteriori sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea che già nel secondo semestre del 2019 avevano sancito la lamentata illegittimità comunitaria della disciplina contenuta nell’art. 105 del d.lgs. n. 50/2016.
Nel dettaglio, con la sentenza del 26 settembre 2019 (causa C-63/18) è stato accertato il contrasto con gli artt. 57 e 71 della Direttiva 2014/24/UE della previsione del limite del 30% alla subappaltabilità contenuta nel comma 2 dell’art. 105 del Codice, mentre con la sentenza del 27 novembre 2019 (causa C-402/18), oltre a ribadirsi l’illegittimità del detto limite, si è ritenuto illegittimo anche il limite del 20% del ribasso da applicare ai prezzi relativi alle prestazioni affidate in subappalto.
Con riguardo alla prima previsione, pur non disconoscendosi le esigenze di tutela della legalità e di prevenzione delle infiltrazioni criminali che il Governo italiano ha addotto a sostegno della scelta normativa di limitare in via generale l’accesso al subappalto, la Corte ha ritenuto tale soluzione sproporzionata per il suo impatto sul superiore principio di libera concorrenza (considerando n. 1 della citata Direttiva), oltre che sul favor del legislatore europeo verso le piccole e medie imprese (considerando n. 78), a fronte della possibilità di previsione di specifici controlli successivi con cui la stazione appaltante abbia modo di verificare l’insussistenza in capo ai subappaltatori di motivi di esclusione.
Con la seconda sentenza, la Corte ha altresì escluso che il limite del 20% sui ribassi relativi alle prestazioni affidate in subappalto potesse giustificarsi in funzione della tutela dei livelli salariali dei lavoratori coinvolti nel subaffidamento, ovvero dell’interesse della stazione appaltante a che sia garantita la redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto, nessuna delle esigenze in questione apparendo idonea, ove bilanciata con i superiori valori eurounitari di cui si è detto, a legittimare la previsione di limiti generali e astratti con conseguente elisione della discrezionalità della stazione appaltante in sede di predisposizione del bando di gara.
Ancor più recentemente, con la sentenza della Sezione II del 30 gennaio 2020 (causa C- 395/18) la Corte UE, sollecitata dal T.A.R. del Lazio40, si è pronunciata anche sull’obbligo di indicazione preventiva della terna dei subappaltatori, statuendo che: “L’articolo 57, paragrafo 4, lettera a) della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione aggiudicatrice abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di
17
40 TAR
II,
29
6010.
Lazio, Sez.
ord.
maggio 2018, n.
aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata. Per contro, tale disposizione, letta in combinato disposto con l’articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione” In conclusione, è possibile affermare, contrariamente a quanto accade nella normativa nazionale, il totale favor della Corte di Giustizia nei confronti dell’istituto del subappalto, fondato in particolare sulla convinzione che lo stesso, favorendo l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce, al pari dell’avvalimento, a realizzare l’obiettivo di ampliare quanto più possibile la concorrenza41
3. Il confronto fra gli istituti del subappalto e dell’avvalimento offre l’occasione, da un lato, per illustrare le varie ragioni che portano ad una certa ostilità in merito all’estensione anche al subappalto del principio del frazionamento dei requisiti; e, dall’altro, accennare alle ragioni che hanno alimentato nel corso degli anni la linea prudenziale adottata dal legislatore italiano nel dare ingresso al subappalto nel sistema degli appalti pubblici.
Sotto questo secondo aspetto rileva, innanzitutto, il fatto che il subappalto si presta ad una possibile sostanziale elusione dei principi di aggiudicazione mediante gara e di incedibilità del contratto e, inoltre, costituisce un mezzo di possibile infiltrazione nei pubblici appalti della criminalità organizzata, la quale può sfruttare a suo vantaggio l’assenza di verifiche preliminari sull’identità dei subappaltatori proposti e sui requisiti di qualificazione generale e speciale di cui agli artt. 80 e 83 del d.lgs. 50 del 2016.
L’istituto conosce una prassi applicativa talora problematica, in quanto la tendenza dell’appaltatore a ricavare il suo maggior lucro sulla parte del contratto affidata al subappaltatore (tendenzialmente estranea ad ingerenze della stazione appaltante) produce riflessi negativi sulla corretta esecuzione dell’appalto, sulla qualità delle prestazioni rese e sul rispetto della normativa imperativa in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, il rischio al quale il subappalto sembra esporre l’integrità dei contratti pubblici e la loro immunità da infiltrazioni criminali è peraltro accresciuto da una reiterata impostazione normativa che, pur onerando il concorrente in gara dell’indicazione generalizzata (sin nell'atto dell'offerta) dei lavori o delle parti di opere che egli intende subappaltare, per il resto circoscrive a più limitate ipotesi l’obbligo di indicazione, già in sede di formulazione dell’offerta, del nominativo delle imprese subappaltatrici42 .
Le summenzionate ragioni di cautela assumono particolare rilevanza nel caso del subappalto “necessario” poiché, mentre nel subappalto “facoltativo” l’appaltatore possiede già in proprio tutti i requisiti necessari per l’esecuzione dell’appalto, viceversa, nel caso del subappalto “necessario” l’appaltatore difetta dei requisiti necessari per realizzare una o più prestazioni dell’appalto, motivo per cui è obbligato a subappaltare ad un’impresa in possesso di quegli stessi requisiti.
In generale, gli istituti dell’avvalimento e del subappalto, pur intervenendo in fasi diverse della gara d’appalto, sono connotati da un denominatore comune, ossia consentono di ampliare la possibilità di partecipazione alle gare anche a soggetti che altrimenti sarebbero sforniti dei requisiti di partecipazione.
Le similitudini con l’avvalimento, come già detto, si riscontrano soprattutto nel subappalto “necessario”, in cui l’appaltatore è carente di un requisito necessario per realizzare una prestazione dell’appalto e, pertanto, è obbligato a subappaltare a un soggetto terzo in possesso dei requisiti richiesti. Infatti, nel caso di subappalto necessario, l’appaltatore è tenuto ad indicare in sede di gara sia le attività per le quali intende ricorrere al subappalto e sia il
18
41 Cfr. CGUE,
e CGUE,
novembre
punto 39. 42 Cfr. art.
6 del
dei contratti.
26 settembre 2019, C-63/18, punto 27
27
2019, C-402/18,
105 comma
Codice
nominativo dei subappaltatori e dei relativi requisiti, dando la possibilità alla stazione appaltante di svolgere le verifiche opportune43
I due istituti si differenziano oltre che per il ruolo nella esecuzione dell’appalto anche in ordine al regime di responsabilità dell’impresa ausiliaria.
Il subappaltatore esegue in proprio le opere affidategli, rispondendone esclusivamente nei confronti dell’impresa subappaltante, unica responsabile nei confronti della stazione appaltante; al contrario, effetto peculiare dell’avvalimento è la responsabilità solidale nei confronti dell’Amministrazione tra impresa ausiliaria e impresa concorrente in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (art. 89, comma 5, d.lgs. 50/2016)44
Il contratto di avvalimento si configura, infatti, come un contratto tra le imprese stipulanti, cioè tra l’impresa concorrente e l’impresa ausiliaria, che secondo la regola generale, non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge45. Tra i casi di legge va per l’appunto ricondotta la previsione di cui all’art. 89 del codice dei contratti. La responsabilità solidale prevista nell'art. 89, comma 5, così come le altre prerogative della stazione appaltante, sia in fase di gara che in fase esecutiva, in tanto sono configurabili nei confronti dell'impresa ausiliaria in quanto sono state espressamente previste dalla legge, dal momento che – in mancanza di apposita previsione normativa – l'impresa ausiliaria, in forza del solo contratto di avvalimento, non instaurerebbe alcun rapporto con la stazione appaltante, tanto è vero che si obbliga verso quest'ultima con la dichiarazione resa ai sensi dell'art. 89, comma 1.
L'assetto dei rapporti delineato dal codice dei contratti tra stazione appaltante, impresa concorrente ed impresa ausiliaria, comporta, per contro, che sulla prima non abbiano alcuna incidenza gli accordi contrattuali tra le due imprese che derogano agli effetti legali dell'avvalimento nei confronti della medesima stazione appaltante, così come quest'ultima resta indifferente agli accordi destinati a regolare esclusivamente il rapporto tra le imprese stipulanti il contratto di avvalimento.
Ne consegue, tra l'altro, che eventuali limitazioni di responsabilità dell'impresa ausiliaria previste nel contratto di avvalimento nei confronti della stazione appaltante non producono effetto verso quest'ultima, valendo comunque la previsione legale dell'art. 89, comma 5; correlativamente, eventuali limitazioni di responsabilità dell'impresa ausiliaria previste nel contratto di avvalimento nei confronti dell'impresa concorrente non hanno effetto verso la stazione appaltante, poiché volte a regolare i rapporti interni tra coobbligati solidali, cui la stazione appaltante resta estranea46
Il subappalto, invece, non comporta un’assunzione diretta di responsabilità del subappaltatore nei confronti della stazione appaltante, a conferma del fatto che esso realizza piuttosto una modalità di organizzazione interna del lavoro. Infatti, il subappaltante rimane responsabile in via esclusiva nei confronti dell'amministrazione aggiudicatrice ai sensi di quanto previsto dall'art. 105, comma 8.
A livello eurounitario l’art. 88 della Direttiva 2014/25/UE prefigura espressamente anche la possibilità, per gli Stati, di estendere al subappaltatore la responsabilità diretta per l’esecuzione dell’appalto. Il legislatore italiano, sino ad ora non ha recepito tale indicazione, forse spinto dalla ragione per cui proprio il fatto di non avere una responsabilità diretta nei confronti della stazione appaltante rende un operatore più disponibile a fungere da subappaltatore. Le divergenze fra i due istituti si attenuano, come si è visto, nel caso del subappalto necessario soggetto all’obbligo della contestuale indicazione in sede di gara sia delle attività per le quali si intende ricorrere al subappalto, sia del
43 Cfr. art. 105, comma 6, d. lgs. n. 50/2016.
44 Cfr. F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, DIKE Editore, 2020, p. 1381.
45 Vedi art. 1372, comma 2, codice civile.
46 Cfr. Cons. Stato, sez. V, 21 novembre 2018 n. 6576.
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nominativo dei subappaltatori e dei relativi requisiti47, tanto da giustificarne la denominazione di “avvalimento sostanziale”48
I Giudici di Palazzo Spada, nell’ordinanza oggetto di commento, hanno evidenziato come la Corte di Giustizia, nel ribadire l’obiettivo di apertura del mercato degli appalti pubblici alla concorrenza, abbia preso in considerazione fattispecie riguardanti sia l’istituto dell’avvalimento che quello del subappalto, con la conseguenza che le pur obiettive differenze strutturali che intercorrono tra i due istituti (l’avvalimento rileva nella fase di implementazione dei requisiti di partecipazione ad una gara; il subappalto, posto “a valle” del contratto di appalto, attiene alla sua esecuzione) non sembrerebbero elidere la loro comune connotazione quali moduli organizzativi alternativamente idonei a garantire l’ampliamento della possibilità di partecipazione alle gare anche a soggetti in apice sforniti dei requisiti di partecipazione49
4. Nel corpo della sentenza del Consiglio di Stato, prima della rimessione della questione alla Corte UE, viene operata un'attenta analisi della normativa concernente i requisiti di partecipazione alle gare di lavori, e la classificazione delle categorie di lavori in prevalenti e scorporabili.
Per quanto concerne i requisiti di partecipazione nel comparto dei lavori si fa riferimento ad un doppio e connesso binario. Un primo, costituito dalla qualificazione rilasciata agli operatori economici, sulla base di un sistema suddiviso in categorie di lavorazioni cd. generali e specialistiche e classi di importo (risultanti dal c.d. attestato SOA), tale per cui la qualificazione in una data categoria abilita gli operatori economici ad eseguire lavori riconducibili alla categoria di specializzazìone per la quale la qualificazione è stata conseguita e per valore corrispondente alla classe di importo acquisita. Un secondo binario, costituito dalla concreta definizione, ad opera della stazione appaltante, dei requisiti richiesti ai fini della partecipazione alla gara, in ragione delle caratteristiche del singolo affidamento e con la necessaria indicazione sia della categoria prevalente, sia, ove presenti, delle categorie scorporabili.
Nello specifico, per categoria di lavori prevalente si intende quella che caratterizza l’intervento da realizzare e che presenta un importo più elevato fra le varie categorie che ad esso concorrono50 .
Si dicono “scorporabili”, invece, quelle categorie di lavori non appartenenti alla prevalente e, comunque, di importo superiore al 10% dell’importo complessivo dell’opera o lavoro, ovvero di importo superiore ad € 150.000,0051 .
Per quanto concerne, invece, la concreta definizione delle modalità di accesso alle gare, questa varia in relazione alla tipologia e all'importo delle singole lavorazioni, incentrandosi su un principio generale e una deroga.
Secondo il principio generale, ai fini della partecipazione alla gara e dell'esecuzione dei relativi lavori è sufficiente che il concorrente sia qualificato nella categoria prevalente, in una classifica corrispondente all'importo totale dei lavori. In caso di aggiudicazione, il concorrente potrà eseguire lavorazioni anche relative alle categorie scorporabili, ancorché privo delle relative qualificazioni.
In tale ipotesi, il ricorso al subappalto, ai fini dell'affidamento delle lavorazioni scorporabili come di quelle riconducibili alla categoria prevalente, riveste carattere meramente eventuale e facoltativo, rispondendo a scelte discrezionali, organizzative ed economiche dell’impresa concorrente.
47 Cfr. Art. 105, comma 6, d.lgs. 50/2016.
48 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 maggio 2012, n. 2508; sez. V, 2 luglio 2015 n. 3515.
49 Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, sentenze n. 2675/2014 e n. 1224/2014; CGUE, 5 aprile 2017, C-298/15, punti 47 e ss.; CGUE, 14 gennaio 2016, C-234/14, punto 28; CGUE, 10 ottobre 2013, C 94/12, punto 31.
50 Cfr. art. 3, comma 1, lett. oo-bis), d.lgs. 50/2016.
51 Cfr. art. 3, comma 1, lett. oo-ter), d.lgs. 50/2016.
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La suddetta impostazione conosce una deroga nel caso in cui le categorie indicate come scorporabili rientrino in determinate tipologie di opere “specialistiche”, per le quali la normativa di riferimento richiede la c.d. “qualificazione obbligatoria”. Dette opere, infatti, non possono essere eseguite direttamente dall'aggiudicatario se privo della relativa qualificazione e, quindi, devono essere necessariamente subappaltate ad un soggetto ad esse abilitato, ed è qui che viene in rilievo la figura del subappalto necessario52 .
Tale tipologia di subappalto era prevista nel Codice del 2006 (d.lgs. n. 163/2006) ma non lo è nell’attuale Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016).
In particolare, l’istituto del subappalto necessario o, più propriamente, del subappalto qualificante trae origine dall’articolo 109 del D.P.R. n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione del previgente Codice dei contratti pubblici).
La disciplina ivi contenuta è stata abrogata e sostituita dall’articolo 12 del d.l. 47/2014 (convertito, con modificazioni, con legge n. 80/2014), in particolare dai commi 1 e 2. A mente di tale disposizione, è consentita l’ammissione alla gara anche al concorrente che non possiede la qualificazione in ciascuna delle categorie a qualificazione obbligatoria, purché qualificato, per la categoria prevalente, con una classificazione corrispondente all’importo totale dei lavori e purché si sia impegnato, per l’esecuzione dei lavori, a subappaltare le opere scorporabili ad un’impresa in possesso della relativa qualificazione.
La ratio del subappalto qualificante (o necessario) è quindi quella di soddisfare il possesso dei requisiti facendo ricorso ad un’altra impresa.
A seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. 50/2016 e dei decreti attuativi (in particolare del decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 248/2016) il citato articolo 12 è stato abrogato dall’articolo 217 del Codice. Tale abrogazione ha tuttavia riguardato esclusivamente i commi 3, 5, 8, 9 e 11, così restando immutato il contenuto dei commi 1 e 2 che prevedono il subappalto qualificante (o subappalto necessario).
Il Codice dei Contratti pubblici all’articolo 216, comma 15, prevedeva inoltre che l’articolo 12 del d.l. n. 47/2014 avrebbe continuato ad applicarsi fino all’entrata in vigore del Decreto Ministeriale attuativo dell’articolo 89, comma 11 del Codice e richiamato anche dall’articolo 105, comma 5 (riguardanti, rispettivamente, i limiti all’avvalimento e al subappalto).
Il decreto ministeriale n. 248/2016 attuativo è entrato in vigore a partire dal 19 gennaio 2017: tale decreto ha sostituito parte dell’articolo 12 del d.l. 47/2014, ma non ha influito sul subappalto qualificante (o subappalto necessario).
Il decreto di attuazione ha infatti riguardato solo le categorie superspecialistiche (SIOS – Strutture Impianti Opere Speciali), mentre non ha inciso sulle categorie a qualificazione obbligatoria diverse dalle SIOS, né sulle SIOS inferiori al 10%, né quindi sull’operatività del subappalto qualificante.
Resta dunque tuttora in vigore il subappalto qualificante (o subappalto necessario) in favore di imprese in possesso delle qualificazioni relative alle lavorazioni specializzate.
Ad oggi, dunque, il subappalto necessario, anche non trovando espressa menzione nell’attuale Codice dei contratti pubblici, è ritenuto dalla giurisprudenza un istituto compatibile con l’attuale quadro normativo, stante la confermata vigenza dell’art. 12 del decreto legge n. 47/2014 (convertito, con modificazioni, con legge n. 80/2014), ed in particolare dei primi due commi dell’articolo, riferiti alle categorie riguardanti le opere speciali di subappalto necessario in favore di imprese in possesso delle relative qualificazioni.
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52
Cfr. art. 12, comma 2, lett. b), d.l. 47/2014, convertito con legge n. 80/2014.
Il subappalto qualificante o subappalto necessario, con riferimento agli appalti di lavori, risulta quindi un istituto contemplato da specifiche disposizioni legislative e quindi di sicura applicabilità, anche a prescindere da un espresso richiamo nel bando53
Non sussistono, invece, spunti normativi e interpretativi in tema di subappalto necessario frazionato, ipotizzabile nel caso in cui il requisito di qualificazione obbligatorio venga ad essere “coperto” dall’operatore economico attraverso una sommatoria degli importi per i quali risultano qualificati i diversi operatori indicati nella terna dei subappaltatori. La giurisprudenza nazionale ha chiarito che, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 105, comma 6, del d.lgs. n. 50/2016, in sede di presentazione dell'offerta non è necessaria l'indicazione nominativa dell'impresa subappaltatrice, neppure in caso di subappalto necessario, ovvero allorché il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili.
In particolare, il riferimento è alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2015 il cui tema è, per l’appunto, quello della necessaria, o meno, esplicitazione in sede di gara del nominativo del subappaltatore da parte del concorrente che non abbia la qualificazione richiesta per eseguire parti di lavorazioni scorporabili. Si tratta, dunque, dell’istituto in commento del subappalto necessario.
Per tali ipotesi, non espressamente disciplinata da alcuna fonte di diritto scritto, la giurisprudenza era andata maturando due opposte soluzioni.
Secondo una prima tesi54, infatti, la necessità della dimostrazione della qualificazione per tutte le lavorazioni per le quali la normativa di riferimento la esige implicherebbe la necessità dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase dell’offerta; ciò in modo da permettere alla stazione appaltante il controllo circa il possesso, da parte della concorrente, di tutti i requisiti di capacità richiesti per l’esecuzione dell’appalto.
Una diversa interpretazione55, viceversa, fondata sull'esame delle singole disposizioni relative ai requisiti di qualificazione imporrebbe l'opposta soluzione dell’affermazione del solo obbligo di indicazione delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in subappalto, ma non anche del nome dell’impresa subappaltatrice.
Proprio questa seconda soluzione interpretativa è stata quella adottata dalla Adunanza Plenaria.
Per giungere a tale esito, la pronuncia si sofferma innanzitutto sulla ricostruzione della normativa vigente in tema di qualificazione e subappalto, sottolineando come non vi sia alcuna espressa disposizione normativa che preveda l'obbligo sopra detto.
Infatti, l’art. 92, commi 1 e 3, del d.P.R. 5 ottobre 2010, n.207, che disciplina i requisiti di partecipazione alla gara, stabilisce, innanzitutto, che, ai predetti fini, è sufficiente il possesso della qualificazione nella categoria prevalente per l’importo totale dei lavori, quando il concorrente, singolo o associato, non la possieda anche per le categorie scorporabili.
Il combinato disposto degli artt. 92, comma 7 e 109, comma 2, d.P.R. cit. e 37, comma 11, d.lgs. 12 aprile 2006, n.163 chiarisce, poi, che il concorrente che non possiede la qualificazione per le opere scorporabili indicate all’art. 107, comma 2 (c.d. opere a qualificazione necessaria) non può eseguire direttamente le relative lavorazioni ma le deve subappaltare a un’impresa provvista della relativa, indispensabile qualificazione.
In tema di subappalto è poi rilevante l’art. 118 d.lgs. 163/2006, il quale nel prevedere quali siano i requisiti di validità per la stipula di un valido contratto di subappalto, non fa riferimento alla necessità che l'appaltatore dichiari previamente il nominativo del subappaltatore, anche qualora si tratti di un c.d. subappalto necessario.
53 Si veda sul punto TAR Lazio, Roma, sez. II bis, 6 marzo 2019, n. 3023; TAR Piemonte, Torino, sez. II, 17 gennaio 2018 n. 94; TAR Campania, Napoli, sez. I, 1° marzo 2018, n. 1336.
54 cfr. Cons. Stato, sez. VI, 2 maggio 2012 n. 2508; sez. V 21 luglio 2015 n. 3515. 55 cfr. Cons. Stato, sez. V, 19 giugno 2012, n. 3563; Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2013, n. 3963.
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Da tali elementi l'Adunanza Plenaria ha tratto il convincimento che non sia possibile introdurre per via giurisprudenziale un ulteriore elemento restringente, comportante un onere per il concorrente non previsto da alcuna disposizione di diritto positivo.
Testualmente l’Adunanza Plenaria conclude il proprio ragionamento statuendo che “Là dove, infatti, l’art.118, secondo comma, d.lgs. cit., ha catalogato i requisiti di validità del subappalto, ha evidentemente inteso circoscrivere, in maniera tassativa ed esaustiva, a quei presupposti (e solo a quelli) le condizioni di efficacia del subappalto, sicché ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento (rispetto a quelli ivi classificati) dev’essere rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge una cosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il suddetto canone interpretativo, non voleva dire).”
La decisione della Plenaria si basa sulla impossibilità di rinvenire nella norma di riferimento (all’epoca della decisione l’art. 118 del d.lgs. 163/2006) l’obbligo di indicare il nome del subappaltatore già in sede di gara, in quanto il subappalto di per sé trova la sua naturale sede nell’esecuzione del contratto, sia esso facoltativo o necessario. A tal fine, l’inserzione automatica dell’obbligo di indicare il subappaltatore e quindi la relativa dichiarazione di possesso dei requisiti già in sede di presentazione dell’offerta, si configurerebbe alla stregua di un’eterointegrazione dei bandi priva di fondamento e quindi non consentita, anche alla luce del divieto di gold plating56 .
56 Per divieto di gold plating si intende il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie. In via preliminare, la Corte costituzionale ha precisato che il divieto in oggetto non è un principio di diritto comunitario. Il termine gold plating compare nella comunicazione della Commissioneeuropeadell’8ottobre2010«SmartregulationintheEuropeanUnion»,adottataconloscopodipromuovere una legiferazione “intelligente”, sia a livello europeo che degli Stati membri, in grado di ridurre gli oneri amministrativi a carico di cittadini e imprese. In tale comunicazione si legge, infatti, che «l termine gold plating si riferisce alla prassi delle autorità nazionali di regolamentare oltre i requisiti imposti dalla legislazione UE, in sede di recepimento o di attuazione in uno Stato membro».
Nel nostro ordinamento il riferimento al gold plating è comparso per la prima volta nella Legge di stabilità per il 2012, che all’art. 15, comma 2, lettera b) ha introdotto nell’art. 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246, i commi 24-bis, 24ter e 24-quater. Il comma 24-bis definisce in termini generali il divieto di gold plating per tutti gli atti di recepimento di direttive comunitarie. I successivi commi 24-ter e 24-quater ne precisano ulteriormente l’ambito di applicazione, individuando cosa debba intendersi per «livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie» ed in quali casi sia possibile disattendere il divieto.
La legge delega n. 11 del 2016, all’art. 1, comma 1, lettera a), nel definire il criterio direttivo del divieto di gold plating rinvia ai commi 24-ter e 24-quater della legge 246/2005.
La Corte costituzionale offre un’interpretazione teleologica delle suddette norme, chiarendo come la ratio del divieto sia quella di impedire un aggravamento legislativo degli oneri tecnici e amministrativi previsti dalla disciplina europea in materia di appalti, i quali restringono la concorrenza in danno di imprese e cittadini. Scopo del divieto è dunque quello di tutelare la concorrenza, limitando in tal senso la discrezionalità dello Stato in sede di recepimento. Diversamente, appare chiaro come l’ampliamento degli oneri gravanti sull’amministrazione, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, abbia una funzione pro-concorrenziale in quanto finalizzato a rendere maggiormente onerosa la scelta delle stazioni appaltanti di ricorrere ad affidamenti di servizi pubblici in forme diverse rispetto al ricorso al mercato.
Tale ratio è stata accolta anche dall’Adunanza della commissione speciale del Consiglio di Stato, la quale ha osservato come il divieto di gold plating, assunto a criterio direttivo dalla legge delega n. 11 del 2016, vada interpretato in riferimento ad «oneri non necessari» e non già in riferimento ai livelli di garanzia dei valori costituzionali. Pertanto, dal momento che l’obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del codice dei contratti pubblici, è funzionale alla tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, quali la trasparenza amministrativa e la tutela della concorrenza, non può dirsi in contrasto con l’art. 1, comma 1, lettera a) della legge delega n. 11 del 2016.
Da ultimo, la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea ha sanzionato tale ricostruzione interpretativa, sostenendo la non contrarietà della norma in oggetto con l’art. 12, paragrafo 3, della direttiva 2014/24/UE, sussistendo a livello
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In conclusione, quindi, si può affermare che per la validità del subappalto necessario (o qualificante) occorre che il concorrente già in fase di offerta dichiari di voler subappaltare delle specifiche lavorazioni, non essendo invece necessario che venga preventivamente indicato il nome del subappaltatore57
5. È evidente come dall’analisi fin qui tracciata la normativa comunitaria tenda ad ammettere la tendenziale, completa e incondizionata subappaltabilità delle prestazioni dedotte nel contratto di appalto ed al contempo riconosce il pieno diritto del prestatore privo di determinati requisiti di poter fare ricorso alle capacità di terzi soggetti, ferma restando la speculare esigenza da parte della stazione appaltante di poter valutare la competenza, l’efficienza e l’affidabilità dei subappaltatori.
In generale, il Consiglio di Stato rinviene negli orientamenti del giudice comunitario l’indicazione sintetica secondo la quale istituti espansivi della concorrenza – quali l’avvalimento58 e il subappalto – possono tollerare limitazioni proporzionate e occasionali, non quindi generali e astratte, ma di volta in volta calibrate dall’amministrazione aggiudicatrice sulle peculiarità della singola gara ed in ragione degli eventuali fattori (id est il settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, la natura dei lavori, la tipologie di qualifiche richieste) che in essa concorrono a suggerire l’introduzione di specifiche condizioni restrittive.
In tal senso dovrebbe valere un principio generale di frazionabilità del requisito qualificante, suscettibile di motivata deroga nei casi in cui la stazione appaltante ritenga di individuare casi e limiti ostativi oltre i quali la sicurezza e la qualità dell’opera potrebbero essere messe a rischio dal meccanismo del frazionamento del requisito. In ipotesi siffatte la stessa stazione appaltante potrebbe imporre, nel bando di gara, che il livello minimo della capacità in questione venga raggiunto da un unico operatore economico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici.
È quanto avviene nella parallela materia dell’avvalimento, in presenza di determinati requisiti (cd. “di punta”) che si ritiene debbano essere soddisfatti da una singola impresa ausiliaria, in quanto espressione di qualifiche funzionali non frazionabili59
Come sottolineato nel corso della trattazione, la giurisprudenza ammette senza dubbi l’esistenza di evidenti similitudini tra il subappalto necessario e l’avvalimento.
Il giudice amministrativo coglie, nel contenuto delle direttive europee, come interpretate dalle richiamate pronunce Corte di Giustizia, una latitudine precettiva apparentemente estensibile ad ogni tipologia di rapporto ausiliario che consenta all’operatore in gara di fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, “a prescindere dalla natura dei suoi legami con questi ultimi” ed anche nella forma del frazionamento o del “cumulo di capacità”.
Come affermato dall’ordinanza di rimessione in commento “la Sezione rinviene negli orientamenti del giudice comunitario l’indicazione sintetica secondo la quale istituti espansivi della concorrenza (quali sono intesi
europeo un generale principio di libera autodeterminazione delle autorità pubbliche. Tale principio, rileva il giudice europeo, autorizza le amministrazioni pubbliche a derogare la disciplina ordinaria di affidamento mediante gara pubblica, previa dimostrazione «dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».
57 Cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2019, n. 5745
58 Per avvalimento si intende la facoltà di un’impresa (detta ausiliata) di soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, avvalendosi dei requisiti provenienti da un’altra impresa (detta ausiliaria), la quale, ovviamente, si impegna a metterli a disposizione del richiedente per il tempo necessario. Si può ricorrere all’istituto dell’avvalimento sia in sede di gara, che in occasione dell’Attestazione SOA. L’istituto è disciplinato dall’art. 89 del d.lgs. 50/2016.
59 Cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 678/2018.
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l’avvalimento e il subappalto) possono tollerare limitazioni proporzionate e occasionali, non quindi generali e astratte, ma di volta in volta calibrate dall’amministrazione aggiudicatrice sulle peculiarità della singola gara ed in ragione degli eventuali fattori (il settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, la natura dei lavori, la tipologie di qualifiche richieste) che in essa concorrono a suggerire l’introduzione di specifiche condizioni restrittive. Appare, quindi, plausibile concludere che, in applicazione di queste stesse indicazioni ermeneutiche, anche nel caso sin qui delineato (subappalto necessario, implicante l’obbligo di indicazione delle prestazioni da subappaltare e del nominativo dei subappaltatori) debba valere un principio generale di frazionabilità del requisito qualificante, suscettibile di motivata deroga nei casi in cui la stazione appaltante ritenga di individuare casi e limiti ostativi oltre i quali la sicurezza e la qualità dell’opera potrebbero essere messe a rischio dal meccanismo del frazionamento del requisito. In ipotesi siffatte la stessa stazione appaltante potrebbe dunque imporre, nella legge di gara, che il livello minimo della capacità in questione venga raggiunto da un unico operatore economico o, eventualmente, facendo riferimento ad un numero limitato di operatori economici. È quanto avviene nella parallela materia dell’avvalimento …”.
Il parallelismo tra i due istituti, dunque, è tracciato e i confini diventano evanescenti: in attesa della risposta da parte della Corte eurounitaria, non accenna a placarsi l’oscillazione di norme, prassi ed interpretazioni sui requisiti in tema di avvalimento e di subappalto, che genera senza dubbio forti incertezze tra gli operatori e le stazioni appaltanti, oltre a contenziosi che ritardano l’avvio dei contratti e non danno ancora soluzioni univoche per il mercato. Dunque, considerate le somiglianze dell’istituto del subappalto necessario con l’istituto dell’avvalimento e posto che la normativa italiana espressamente ammette per l’avvalimento la possibilità di frazionare i requisiti tra più imprese ausiliarie (art. 89, comma 6, d.lgs. n. 50/2016), il Consiglio di Stato, ponendo la questione della frazionabilità del subappalto necessario, apre una riflessione quanto mai attuale sulla possibilità di giungere anche in Italia ad una valorizzazione dell’istituto del subappalto, che sia in linea con la connotazione positiva di cui tale istituto gode all’interno dell’ordinamento euronitario. Si tende, dunque a mettere da parte la reputazione negativa di cui gode l’istituto, troppo spesso assimilato ad un mezzo di elusione della normativa inerente la tematica dei contratti pubblici, fermo restando comunque il dovere di vigilanza sui subappaltatori in capo alle stazioni appaltanti.
Infine, il Consiglio di Stato, ponendosi nel solco della giurisprudenza tracciata dalla Corte di Giustizia Europea, ha affermato la possibilità che anche nel caso di subappalto necessario, implicante l’obbligo di indicazione delle prestazioni da subappaltare e del nominativo dei subappaltatori, debba valere un principio generale di frazionabilità del requisito qualificante, suscettibile di motivata deroga nei casi in cui la stazione appaltante ritenga di individuare casi e limiti ostativi oltre i quali la sicurezza e la qualità dell’opera potrebbero essere messe a rischio dal meccanismo del frazionamento del requisito.
Tale interpretazione risulterebbe coerente con le direttive europee in materia di appalti che non prevedono l’imposizione di limitazioni aprioristiche ed astratte al subappalto e ne sottolineano la funzione “positiva”, ricollegandolo ai principi di parità di trattamento e non discriminazione nei confronti degli operatori economici, oltre che ai principi di libertà di stabilimento, libera circolazione delle merci e dei capitali, concorrenza e proporzionalità. *****
NOTA A TAR TOSCANA – FIRENZE, SEZIONE TERZA, SENTENZA 27 luglio 2020, n. 981
La tesi eziologica alla base del danno da perdita di chance
Di CAROLA PARANO
MASSIMA
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La perdita di chance nonché la richiesta di risarcimento per danno emergente e lucro cessante non si configura nel caso in cui l’ente locale decida di conferire un servizio o, nello specifico, una concessione demaniale ad una società in house, evitando così di indire una gara pubblica.
Affinchè ciò avvenga in modo legittimo e privo di comportamenti ai limiti dell’eccesso di potere, è necessario che la concessione venga destinata esclusivamente ad uso generale della collettività.
In senso conforme
Corte di Cass. N. 4400/2004
Consiglio di Stato n.5307/2019
Consiglio di Stato 1296/2018
In senso difforme
Tar Marche n.413/2018
Tar Campania n. 21241/2008
Il caso
Una società presenta ricorso al Comune di residenza, al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni, danno emergente e lucro cessante e per perdita di chance ottenuti con la sentenza del 27 Gennaio 2011 n. 162 che aveva annullato tutti provvedimenti amministrativi alla base della concessione demaniale
affidando in via diretta la gestione alla propria partecipata, applicando il procedimento dell’in house.
Alla base della prima pronuncia, il TAR ha ritenuto che il Comune non ha ben motivato la scelta della gestione tramite società in house, non essendoci stata neanche una procedura di evidenza pubblica.
Pertanto la ricorrente chiedeva di ottenere il risarcimento di tutti i danni, consistenti nel danno emergente, comprendendo tutti i costi sopportati ai fini della partecipazione alla procedura comparativa, anche in via equitativa ed il lucro cessante, calcolato tenendo conto del mancato utile d'impresa.
In via subordinata la ricorrente aggiunge la liquidazione del danno da chance.
Le soluzioni giuridiche
Il ricorso viene dichiarato infondato. Come ricorda la giurisprudenza il danno da perdita di chance si configura quale “danno non meramente ipotetico o eventuale bensì concreto e attuale quale perdita di una consistente possibilità di conseguire un risultato”.
Per far ciò, ricorda il Collegio, è necessario che si può parlare di danno se al momento dell’illecito la chance fosse già presente all’interno della sfera patrimoniale del danneggiato, il quale però ha l’onere di provare la reale “esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l'esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile, così la corte di cassazione n.4052/2009 Pertanto, il diritto al risarcimento del danno è sempre subordinato ad un giudizio prognostico, fondato sull’ipotesi che se il soggetto ne avesse avuto la possibilità avrebbe raggiunto l’obiettivo sperato e se la chance avesse avuto delle probabilità tanto alte di riuscita che la sua perdita non abbia di fatto precluso la possibilità di raggiungere il risultato sperato.
Ricorda il Collegio che va distinta la perdita di chance dal danno emergente e dal lucro cessante ben specificato in realtà dal ricorrente, poiché quasi sempre il danno si riferisce ad un bene che già gode di tutela giuridica, mentre riferendosi alla perdita di chance ci si riferisce ad un danno futuro e incerto.
Nel caso de quo l'operatore del settore, che si è sentito leso di un proprio diritto, potrà richiedere il risarcimento in forma specifica, consistente nella reintegrazione di tale chance per effetto della pronuncia di annullamento degli atti impugnati e nel conseguente effetto conformativo, che impone all'Amministrazione di bandire una procedura aperta per l'affidamento dell'appalto.
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Nel caso in oggetto, l’uso pubblico dei bene demaniali e il mantenimento degli stessi nelle mani della P.A. non richiede particolari motivazioni a differenza di quando il bene demaniale viene dato in concessione al privato.
Tant’è che il Collegio richiama una parte della giurisprudenza chiarendo che la scelta del Comune di riservare a sé
l’uso del bene demaniale in questione, non contrasta con i principi dell’evidenza pubblica e concorrenziale.
E pertanto, conclude la Corte, che il ricorrente non ha ben specificato il proprio diritto al risarcimento per la spettanza del bene della vita, nonché la lesione del principio di affidamento che lega il cittadino alla P.A. e per tali motivi non potrà richiedere la tutela in forma specifica.
Seguendo le posizioni della giurisprudenza, si delineano chiaramente due orientamenti sui quali basarsi nella definizione e nella eventuale diritto a richiedere il risarcimento del danno per perdita di chance:
a) secondo un primo orientamento, nell’ipotesi di illecito affidamento di un appalto senza gara va senz’altro riconosciuto il risarcimento della chance vantata dall’impresa del settore, sul rilievo che l’impossibilità di formulare una prognosi sull’esito di una procedura comparativa mai svolta non può ridondare in danno del soggetto leso dall’altrui illegittimità, sicché la chance va ristorata nella sua obiettiva consistenza a prescindere dalla verifica probabilistica sull’esito della gara.
b) secondo un altro indirizzo, invece, ai fini del risarcimento non è sufficiente la perdita dell'astratta possibilità di conseguire il bene della vita negato dall’amministrazione per effetto di atti illegittimi, ma occorre la prova della sussistenza, nel caso concreto, di un rilevante grado di probabilità di conseguirlo.
Ed ecco, allora, che si delineano le due tesi attraverso le quali valutare il reale danno da perdita di chance: la tesi "teoria ontologica" che è la possibilità di conseguire un risultato utile in e per la quale il bene è già presente all'interno del patrimonio del soggetto danneggiato; la "teoria eziologica" secondo la quale il bene giuridico non è ancora presente nel patrimonio del soggetto, ma è raggiungibile, con una probabilità pari almeno al 50% secondo valutazioni statistiche.
Aggiunge, infine, la giurisprudenza prevalente su citata, in riferimento alle due tesi, che non vi sia solo il problema dell’astratta risarcibilità della chance, ma che vada valutata la qualificazione della natura giuridica della chance, l’accertamento dell’ingiustizia del danno e del nesso di causalità, l’accertamento probatorio ed il grado di certezza con esso richiesto, la determinazione della consistenza della situazione soggettiva vantata nei confronti del debitore e gli eventuali criteri di liquidazione del danno.
Si conclude, dunque, che non si profila alcuna predita di chance nel caso in cui un provvedimento amministrativo abbia determinato una mera ed ipotetica “eventualità” di conseguire il bene della vita.
NOTA A TAR CAMPANIA – NAPOLI, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 9 febbraio 2021, n. 834
La convenzione di Basilea e l’immunità di giurisdizione
Di CAROLA PARANO
Con la sentenza in oggetto, il Tar Campania ha rigettato il ricorso della società di smaltimento rifiuti internazionali per difetto assoluto di giurisdizione e contrasto alle consuetudini ed alle normative internazionali.
I principi di indipendenza e di sovranità di uno Stato rendono immuni dalla giurisdizione del giudice nazionale tutti gli enti di diritto internazionale di fatto stranieri all’ordinamento italiano.
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Una società srl, in adesione alla Convenzione di Basilea e del regolamento CE 1013/2006, ha inoltrato alla Regione
Campania formale istanza per il rilascio di un decreto autorizzativo per notifica transfrontaliera di rifiuti, avendo stipulato un contratto con una ditta di Sousse (Tunisia).
Oggetto del contratto è stata la consegna di 12 mila tonnellate di rifiuti identificati nel CER (Catalogo Europeo Rifiuti) con il codice identificativo 19.12.12 riferendosi ad “Altri rifiuti “, diversi da quelli alla voce 19.12.11 contenenti sostanze pericolose.
La regione Campania con DD n. 76 del 14.04.2020 e 153 dell’8 07.2020 previa richiesta di eventuali motivi ostativi al Ministero dell’Ambiente e previa ulteriore autorizzazione rilasciata dalle competenti Autorità tunisine, ha autorizzato la spedizione transfrontaliera di 12.000 tonnellate di rifiuti identificando nell’ANGED il soggetto competente per l’autorizzazione transnazionale.
Il carico della prima tranche di rifiuti pari a 6000 tonnellate è stato regolarmente sbarcato nel porto di Sousse ed i rifiuti recuperati sono stati lavorati per essere reinseriti nel processo industriale
La Regione Campania con il decreto n. 153 autorizzava la seconda spedizione transfrontaliera, comprendente le restanti 6000 tonnellate di rifiuti, codice CER 19.12.12, come da contratto
Stavolta, pero, le rimanenti unità rimanevano bloccate nel porto di Sousse.
Non è dato sapere se a causa dell’emergenza Covid-19 si sia arrestata l’attività lavorativa. Sia la regione Campania, sia la società avevano tentato attraverso la trasmissione di incartamenti e pec di inviare delegati per capire la reale situazione del carico fermo al porto di Sousse ma senza riscontro. .
Nel frattempo, la Regione Campania sospendeva l’autorizzazione n.153 dell’8 luglio e contemporaneamente la ditta proprietaria dei containers utilizzati per il trasporto, comunicava che gli stessi sarebbero in stato di sequestro.
Di contro, il 3 ed il 15 dicembre, per il tramite del funzionario governativo, le autorità tunisine inviavano tramite e mail l’ordine tassativo del ritiro dei rifiuti in Italia richiamando l’articolo 9 della Convenzione di Basilea, riguardante il divieto di introduzione transfrontaliera di RIFIUTI URBANI Y46.
Di conseguenza la Regione, vista l’impossibilità ad eseguire la notifica, obbligava la ditta a recuperare i rifiuti dapprima entro 90 giorni e poi entro 30 giorni.
A ciò sia aggiungeva il pagamento in quota solidale tra azienda e Regione della sosta dei containers nel porto di Sousse, pari a circa 6 milioni di euro.
In tutto questo, la parte ricorrente continua a sottolineare il mancato riscontro del campionamento più volte richiesto sui rifiuti definiti pericolosi e non conformi all’oggetto del contratto.
DIRITTO
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
A proposito di giurisdizione, si ricorda come con la sentenza a sezioni unite n.500/99 si estese l’ambito di tutela del giudice ordinario anche nei riguardi di un interesse legittimo e poi con la storica pronuncia n. 204/2004 della Corte costituzionale si è giunti ad affermare inequivocabilmente come la giurisdizione amministrativa non riguardi né l’aspetto di diritto soggettivo né l’interesse pubblico, ma solo la affermazione di un potere in capo a chi lo esercita.
E proprio di recente la Suprema Corte con la ordinanza interlocutoria n. 19598 del 18.09.2020 ha affermato che non è sufficiente la mera attinenza della controversia ad una delle materie di cui all’art. 133 c.p.a, ma che occorra, altresì, che la controversia abbia ad oggetto la valutazione della legittimità di un provvedimento amministrativo, quale espressione di poteri pubblici”.
Ciò richiama una precedente pronuncia per cui in materia di giurisdizione “va ricercato il petitum sostanziale, il
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quale deve essere identificato, non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, quanto della causa petendi, ossia dell’intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ( Cass., Sez. Un., 5/7/2013)”.
Nel caso de quo, il Tar correttamente evidenzia la pregiudiziale del difetto assoluto di giurisdizione nei casi rientranti dentro cornici proprie del diritto internazionale e comunitario e nei quali il diritto al giudice naturale piuttosto che l’applicazione dei principi del giusto processo non possono subire alcuna deroga.
Va altresì specificato che non si può parlare solo di supremazia gerarchica del diritto internazionale con i suoi trattati e convenzioni e le sue Corti sul giudice interno semmai di un dovere di reciprocità, di leale cooperazione, di disponibilità al dialogo e di trasparenza comportamentale.
Per cui, se da un lato la Corte di Lussemburgo seleziona se ed a chi rispondere sui quesiti trasmessi con rinvio, dall’altro è pur vero che spesso le Corti omettono di rinviare alla CGE per ottenere una corretta interpretazione violando così i principi fondanti del diritto internazionale.
Ma chi può imporre il superamento del principio di sovranità e indipendenza anche nelle questioni che travalicano la competenza del diritto interno?
Nessuna Corte potrebbe mai evidenziarlo né sanzionare la Corte che ha evitato il rinvio alla Corte di Lussemburgo per competenza.
Si ricorda, invece, che il giudice a quo qualora dovesse attendere la pronuncia sulla pregiudiziale, continuerebbe a mantenere la giurisdizione quale giudice naturale della controversia.
Nello specifico, va richiamata la convenzione di Basilea la quale rappresenta l’accordo più completo riguardante i rifiuti pericolosi e gli altri rifiuti transfontalieri e che prevede come accordo tra le parti che vengano ridotte al minimo le quantità trasportate e che vengano trattati e smaltiti i rifiuti il più vicino possibile al luogo in cui vengono generati
Tra gli obblighi generali, la convenzione prevede di non esportare (o importare) rifiuti pericolosi o altri rifiuti verso (o da) uno stato non firmatario; di non esportare rifiuti a meno che lo stato di importazione non abbia dato per iscritto consenso a tale importazione specifica.
Anche in materia di notifica la convenzione ha introdotto precise procedure sui movimenti internazionali tra le parti; e sui movimenti internazionali da una parte attraverso il territorio di uno stato non firmatario.
1. Nel caso dell’azienda di smaltimento rifiuti verso il territorio Tunisino, considerato il trattato bilaterale sottoscritto tra i due Paesi e a cascata tra le due aziende conferitrice dei rifiuti da un lato e di smaltimento e riutilizzo nel ciclo industriale dall’altro, così some previsto dalla convenzione in caso di contenzioso è pacifico ricorrere all’art .20 quale disciplina per via arbitrale delle controversie. Infatti, nessuna Corte nazionale potrebbe affrontare il giudicato in materia internazionale, limitandosi soltanto a ricordare per esempio che in forza all’art 22 del regolamento CE 1013/2006 e in applicazione al principio chi inquina paga, lo Stato che ha inviato i rifiuti debba riprenderli nella zona di competenza e sul quale esito potrà solo pronunciarsi l’organismo arbitrale che provvederà a ben interpretare ed applicare l’articolato della convenzione.
2. E per voler meglio specificare il concetto di chi inquina paga, anche a seguito della pronuncia della CGE n.15/2020, esso si è concretizzato in termini economici per cui la sanzione e le relative somme non vengono corrisposte a chi ha subito dei danni ambientali, bensì alla Commissione Europea. Quindi la sanzione ambientale svolge la funzione di caricare i costi ambientali sull’imprenditore e di invogliare verso politiche virtuose in campo ambientale al tempo stesso.
Si conclude, altresì, con l’auspicio che gli Stati firmatari di trattati e convenzioni internazionali in materia ambientale e non, diano seguito ai principi di legalità, lealtà, reciprocità, corretto andamento amministrativo che stanno
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alla base del diritto internazionale e che se, applicati correttamente, non necessitano di interventi di Corti o collegi arbitrali.
NOTA A TAR LAZIO – ROMA, SEZIONE TERZA, SENTENZA 12 giugno 2020, n. 6498
L’esclusione dalla gara deve essere una puntuale e rigorosa dimostrazione della sussistenza del grave illecito professionale
Di CAROLA PARANO
MASSIMA
La pregressa risoluzione anticipata di un contratto con relativa condanna al risarcimento del danno non motiva, nelle successive gare con la stessa committente, la scelta della stazione appaltante di esclusione ella stessa anche se via sia stato un grave illecito professionale o se vi siano state gravi carenze nell’esecuzione
Il nuovo art. 80 c.5 lett. c) codice contratti elimina de plano qualunque questione legata alla precedente versione del codice relativa alla risoluzione del contratto così come non fa derivare l’automatica esclusione a causa di una precedente impugnazione presente nell’annotazione del Casellario Anac.
In senso conforme
Tar Brescia sez I n. 122/2019
Tar Lazio n. 2771/2019
Tar Brescia 122/2019
Consiglio di Stato 3755/2019
In senso difforme
Tar Campania - Napoli sez. III n.1168/2017
Il caso
Una società presenta ricorso, integrato da motivi aggiunti, contro Trenitalia SPA, nei confronti di una impresa, per ottenere la censura della delibera e di ogni atto presupposto conseguente e /o connesso con la quale la responsabile della struttura acquisti regionale escludeva la ricorrente dalla gara per la fornitura dei prodotti chimici e affini per la divisione passeggeri regionale di Trenitalia perché priva dei requisiti di affidabilità professionale richiesti.
Il ricorso veniva altresì presentato per l’annullamento del non conosciuto verbale del soggetto unico di gara limitatamente alla parte in cui veniva prevista l’esclusione dalla gara e la delibera di aggiudicazione dell’appalto nonché l’inefficacia del contratto eventualmente stipulato.
La ricorrente, operante da oltre 100 anni nel settore della distribuzione chimica con altissimi standard di sicurezza ha tra i propri clienti diverse pubbliche amministrazioni e dimostra correttezza e affidabilità anche in riferimento a fornitura delicate.
Senonchè, nonostante sia risultata la società con la migliore offerta, veniva esclusa dalla gara in quanto “priva dei requisiti di affidabilità professionale richiesti” a causa della risoluzione contrattuale pregressa e adottata da Trenitalia per una fornitura non conforme alle specifiche tecniche richieste che causava quindi una lesione al rapporto fiduciario tra committente e appaltatore.
All’udienza tenutasi in video - conferenza, la ricorrente motivava il ricorso rubricando la violazione ed erronea applicazione degli arti. 68 e 86 del dlgs 50/2016 nonché per carenza di motivazione essendo risultata come migliore offerente ma venendo esclusa per precedente risoluzione contrattuale.
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La ricorrente lamenta quindi la illogicità, la contraddittorietà e la carenza di istruttoria sottolineando che in caso di elencazione di marchi si ha diritto a presentare prodotti equivalenti come previsto dall’art. 68 su citato mentre Trenitalia si è limitata a rifiutarlo perché non inserito nell’elenco predisposto dalla stessa.
Tra l’altro, sottolinea l’impresa che, durante i primi confronti con Trenitalia, aveva provveduto a rendere tutte le attestazioni e i certificati comprovanti la corrispondenza del prodotto alla scheda prodotti/fornitori del MAN
Va notato che vi era già stata la stipula del contratto alla società ricorrente e che solo in un secondo momento, alla verifica dei prodotti, Trenitalia li dichiarava non conformi e, nonostante i chiarimenti sulla conformità del prodotto, diffidava l’impresa a ritirare il prodotto ed a sostituirlo , pena la risoluzione del contratto che avvenne allo spirare del termine
Le soluzioni giuridiche
Viene dichiarata fondato il ricorso facendo particolare attenzione alla norma di lex specialis sul concetto di “propria motivata valutazione” relativamente alla adeguata affidabilità professionale messa in discussione da Trenitalia a causa di una precedente risoluzione. A parere del collegio, Trenitalia ha erroneamente applicato l’art 80 del codice dei contratti dal momento che la stazione appaltante dovrebbe dimostrare” con mezzi adeguati, che l’operatore si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali tali da rendere dubbia la propria integrità e affidabilità. Come da giurisprudenza conclamata, la pregressa risoluzione contrattuale impugnata non costituisce un illecito talmente grave da rendere inaffidabile un concorrente e che sarebbe bastato che la stazione appaltante avesse ben documentato la risoluzione contrattuale tale che il giudice avesse potuto respingere la richiesta di annullamento procedendo con l’esclusione del concorrente che avesse subito una risoluzione contrattuale anticipata.
Tutto ciò prima della modifica dell’art. 80 nel quale non si contempla più la tipizzazione del grave illecito ma si rimette alle stazioni appaltanti l’analisi di eventuali gravi illeciti professionali tali da rendere inaffidabile un concorrente.
Inevitabilmente, ricorda il collegio, qualunque decisione della stazione appaltante dovrà sempre essere adeguatamente motivata diventando quindi il contrappeso del potere discrezionale da dover proteggere da arbitrii e mancanze di garanzie procedurali.
Richiamando la disciplina generale dell’art. 80, co. 5, del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, si stabilisce che “Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: […] c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”
Pertanto, la stazione appaltante avrà l’onere di ben ponderare nel rispetto della congruità e dell’adeguatezza la propria motivazione sulle eventuali esclusioni.
Consolidata giurisprudenza ricorda che considerata ormai l’assenza di ipotesi positivizzata di grave illecito professionale, l stazione appaltante dovrà “previamente” e con adeguati mezzi motivare la sussistenza di gravi illeciti professionali con particolare rigore probatorio.
L’aumento della discrezionalità amministrativa richiede il contrappeso non solo nella suddetta rigorosità probatoria ma anche nel rispetto di principi come quelli di economicità, efficacia, correttezza, libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza.
Ricorda ancora il collegio che la stazione appaltante avrebbe dovuto escludere dalla gara la ricorrente già nei prodromi della procedura concorsuale ma non nella parte finale dopo avere controllato i documenti , l’offerta tecnica ed economica e soprattutto dopo aver stilato la graduatoria, così come avrebbe dovuto intervenire, come previsto da
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lex specialis, all’atto della partecipazione alla gara, portando a dichiarare assolutamente intempestivo l’intervento della amministrazione.
Pertanto, l’azione risulta intempestiva non intervenendo nella fase della “partecipazione alla procedura” ma oltre , a procedura esaurita e quindi molto dopo la fase di verifica della documentazione cui tra l’altro era stata ammessa con la significativa espressione “Doc OK”
Risulta invece un eccesso di discrezionalità l’aver indicato nella gara di appalto la provenienza o una fabbricazione determinata di prodotti o servizi poiché ciò lesionerebbe il principio di libera concorrenza nonché di trasparenza eliminando di fatto alcune imprese o prodotti.
Tali specificità sono giustificate solo se alla menzione del prodotto si aggiunge il termine “o equivalente” così come previsto all’art. 68 del codice dei contratti.
Il Collegio stabilisce che, “non residuando margini di valutazione discrezionale, l’appalto deve essere affidato all’impresa ricorrente, già individuata come migliore offerente con la cennata proposta di aggiudicazione di cui all’esaminato verbale, ed illegittimamente esclusa dalla gara”. A ciò si aggiunge anche il diritto al risarcimento del danno in forma specifica per l’illegittimità del provvedimento di esclusione e di aggiudicazione configurandosi soltanto una responsabilità oggettiva della P.A. con il solo obiettivo di assicurare l'effettivo rimedio risarcitorio, l’aggiudicazione con effetto ex nunc ed inde la stipula del nuovo contratto
NOTA A CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 14 gennaio 2021, n. 4
Emergenza covid-19: la consulta sospende la legge della Valle D’Aosta: il delicato riparto di competenze statoregioni alla luce del principio di sussidiarieta’ verticale e del principio di leale collaborazione.
Di MARIA ISOTTA FERMANI
La Consulta ha sospeso l’efficacia della legge della Regione Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n. 11 (Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza).
Sommario: 1- La vicenda 2- Questioni giuridiche controverse 3- La soluzione adottata dalla Consulta 4-
Conclusioni riflessive
1 La vicenda
La Regione autonoma Valle d’Aosta con la legge regionale n. 11 del 2020 9 dicembre, ha introdotto misure di contenimento della diffusione del contagio da Covid-19 di minor rigore rispetto a quelle statali.
Alla luce di ciò la Presidenza del Consiglio dei Ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, solleva questione di legittimità costituzionale per violazione degli art. 25 comma secondo Cost, art. 117 comma secondo lettere m), q), h), nonché articoli 118 e 120 cost.
Nelle more della decisione definitiva, fissata per il mese di Febbraio, la Consulta accoglie l’istanza cautelare di tipo sospensivo, chiesta dalla difesa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto la Corte ha ritenuto che l’applicazione della legge fino alla trattazione nel merito della questione potrebbe comportare il rischio di un
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irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico a una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale, ma anche, il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la salute delle persone.
I giudici della Corte Costituzionale hanno quindi dato ragione al Governo, sottolineando, in particolare, sia che “la materia della profilassi internazionale” è di competenza statale, sia richiamando a una gestione unitaria della pandemia.
2. Questioni giuridiche controverse
La pronuncia in esame affronta una moltitudine di aspetti problematici connessi tra loro: in primo luogo il confine, spesso “incerto”, tra le competenze di Stato e Regioni, oggetto di frequente conflitto innanzi alla Corte; in secondo luogo il problema della sussidiarietà verticale ed infine, il principio di leale collaborazione che deve avvincere ex art. 118 cost. lo Stato e gli enti locali.
Partendo dall’esame del primo problema, si nota che la riforma dell’art. 117 cost. ha introdotto una clausola residuale circa la potestà legislativa delle Regioni, elencando viceversa in modo dettagliato le “materie” su cui c’è potestà legislativa esclusiva dello Stato, nonché concorrente.
Tuttavia, come dimostra la vicenda in esame, possono sorgere delle “interferenze statali nelle materie regionali”, poiché tra le competenze esclusive statali ve ne sono alcune il cui ambito non è circoscrivibile, rappresentando piuttosto degli obiettivi o valori di rango costituzionale.
Si fa riferimento alle cd “materie trasversali”: esse perseguono obiettivi che spingono il legislatore statale a dettare norme che ricadono su materie tipicamente regionali e ciò provoca naturalmente una frequente sovrapposizione tra le leggi dello Stato e quelle delle Regioni, un “intreccio di interessi” tra Stato e Regioni, per dirla con le parole esatte della Consulta.
Con riguardo a tali ipotesi la Corte costituzionale ha affermato che lo Stato deve cercare l’intesa con le Regioni e le norme statali vincoleranno le Regioni solo come “principi” senza impedire alla Regione di legiferare a sua volta nel rispetto di questi. Tuttavia, è facile intuire che questa situazione rende incerto il confine tra le competenze dei due enti territoriali e il frequente conflitto.
Tale problematica si intreccia a sua volta con il principio di sussidiarietà verticale: tale principio affonda le proprie radici nel diritto europeo e presuppone l’esistenza di una competenza attribuita in modo espresso come si evince dall’art. 5, par. 3, TUE secondo cui “in virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri”.
In sintonia con il diritto europeo, nel diritto nazionale il principio di sussidiarietà verticale funziona come un “ascensore” metaforico: infatti, esso implica il trasferimento di alcune materie agli enti locali più vicini ai cittadini, salvo che per la specificità della materia, essa trovi un’attuazione più efficace e adeguata a livello statale.
Pertanto, a seconda delle caratteristiche della materia presa in considerazione e all’evolversi dei problemi insorti, la sussidiarietà verticale può condurre a spostare verso l’alto l’esercizio di poteri e competenze che sarebbero regionali. La sussidiarietà quindi non tipizza un riparto di competenze assoluto e cristallizzato, ma può conoscere deroghe nei casi in cui le funzioni amministrative vengono attratte verso l’alto perché non possono essere convenientemente esercitate in basso o perché richiedono un coordinamento centrale e in tale caso è ammesso che lo Stato avochi a sé una funzione amministrativa.
Proprio in virtù del principio di sussidiarietà si assiste spesso ad uno “sconfinamento” dello Stato dalle sue materie seppure temperato dal principio di leale collaborazione che impone allo Sato di coinvolgere le Regioni nelle decisioni.
Nella pronuncia oggetto dell’esame vengono in luce tutti i menzionati principi.
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L’avvocatura generale dello Stato sostiene la tesi per cui la legge della Regione Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n. 11 (Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza) appare violativa degli artt. 25, secondo comma, 117, secondo comma, lettere: q), in quanto la materia da essa trattata sarebbe da ricondurre alla competenza esclusiva statale in tema di profilassi internazionale; art 117 lett m) in quanto attinente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, oltre che a principi fondamentali della materia tutela della salute, tali da imporsi anche all’autonomia speciale.
Di converso sul punto la difesa della Regione Valle d’Aosta ha eccepito che la competenza in tema di profilassi internazionale non sarebbe pertinente, perché le norme impugnate non costituiscono attuazione «di misure di profilassi dettate a livello internazionale»; lo stesso dovrebbe affermarsi quanto alla competenza in tema di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, posto che la normativa statale non avrebbe approntato alcuna misura recante prestazioni a favore delle persone.
Inoltre, la Regione sul presupposto che la natura giuridica di tali d.p.c.m. sia “normativa”, reputa che il rinvio all’art 118 cost. sia erroneo in quanto non sarebbero state avocate funzioni amministrative ma normative ultra vires.
In altri termini, la Regione Valle d’Aosta sostiene che tali d.p.c.m. emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri in costanza di emergenza sanitaria, da provvedimenti aventi natura meramente amministrativo-regolamentare, sarebbero stati elevati, di fatto, al rango di atti legislativi con forza di legge, pur trattandosi, appunto, di semplici atti normativi secondari, come tali sottratti al vaglio successivo del Parlamento e del Presidente della Repubblica, per di più insindacabili ex post, in quanto sfuggono anche all’eventuale controllo successivo della Corte costituzionale.
Viceversa l’Avvocatura generale dello Stato conferma la tesi per cui i d.p.c.m. sarebbero “atti necesssitati” aventi natura giuridica amministrativa con relativa fonte, nel caso in esame, nei decreti legge nn. 6 e 19/2020, entrambi convertiti in legge dai rami del Parlamento nel termine perentorio di 60 giorni ex art. 77 Cost, adottati nel rispetto del principio di leale collaborazione in quanto adottati, sentito il Presidente della Regione interessata o il presidente della conferenza delle Regioni.
3. La soluzione adottata dalla Consulta
Alla luce di ciò la Corte costituzionale dichiara sospesi gli effetti della legge della regione Valle d’Aosta n. 11 del 9 dicembre 2020, che consente misure di contenimento della diffusione del contagio da COVID 19 di minor rigore rispetto a quelle statali.
Viene accolta pertanto l’istanza proposta, in via cautelare, dal Presidente del Consiglio dei ministri nell’ambito del ricorso contro la legge regionale.
La Corte ha ritenuto che sussista il fumus boni iuris, considerato che gli interventi consentiti dal legislatore regionale riguardano la materia della profilassi internazionale, riservata alla competenza esclusiva dello Stato (articolo 117, secondo comma, della Costituzione), cionondimeno la Corte ha reputato che l’applicazione della legge fino alla trattazione nel merito della questione - fissata per il 23 febbraio 2021 – potrebbe comportare “il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico” a una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale nonché “il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la salute delle persone”.
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Conclusioni riflessive
Sullo sfondo della vicenda trattata, si staglia prepotentemente il macro-tema rappresentato dalle fonti del diritto nell’emergenza covid-19 che ha suscitato in capo agli interpreti una serie di dubbi interpretativi.
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Infatti, a differenza di altri Stati europei, la Costituzione italiana non prevede esplicitamente uno stato di emergenza che comporti l’attribuzione al Governo di poteri necessari per fronteggiare la situazione eccezionale: si limita a prevedere la dichiarazione di stato di guerra e il decreto-legge.
Tuttavia, vi è una parte di dottrina secondo cui i provvedimenti di emergenza troverebbero una legittimazione costituzionale innata ed immanente nel tradizionale princìpio della “salus reipubblicae”, ovviamente con la necessaria intermediazione di una fonte primaria.
Il massiccio impiego dei d.p.c.m in fase emergenziale ha dato luogo a molte critiche quanto al rispetto del controllo parlamentare, del principio di legalità e riserva di legge.
Ma a tal riguardo giova ribadire che è il proprium dell’emergenza che non siano preventivamente definibili i contenuti essenziali della risposta regolativa.
In chiusura va dato atto che tale problema ha riacutizzato il delicato tema dei limiti delle autonomie regionali in rapporto con le fonti statali.
NOTA A CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 18 marzo 2021, n. 5
Imposta la sostituzione di cui all’art. 89, comma 3, D. Lgs. n. 50/2016 della consorziata non esecutrice del contratto di appalto di lavori, aggiudicato al consorzio stabile, la quale ha perso l’attestazione di qualificazione SOA.
Di DANIELA D'AMICO
SOMMARIO: 1. Iter processuale della vicenda in primo e secondo grado; 2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria, 3. Conclusioni e prospettive de iure condendo.
1. Iter processuale della vicenda in primo e secondo grado.
La vicenda processuale, approdata sino all’Adunanza Plenaria in commento, prende le mosse dall’aggiudicazione a un consorzio stabile di un contratto di appalto di lavori per la realizzazione di un collettamento del sistema fognario delle acque nere al servizio di alcune zone del Comune di Mazara Del Vallo (TP), poi annullata in autotutela dall’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa - Invitalia s.p.a. (quale centrale di committenza per il commissario straordinario unico acque reflue), in quanto dagli accertamenti finalizzati alla verifica dei requisiti è risultato che v’è stata una parentesi temporale in cui il consorzio ha perso l’attestazione di qualificazione SOA richiesta dalla specifica gara d’appalto.
È opportuno ripercorrere brevemente l’iter processuale della detta vicenda al fine di meglio comprendere il principio di diritto enunciato dal Supremo Consesso adito.
Ebbene, il TAR Sicilia con sentenza n. 640/2020 ha affermato di condividere l’orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla disciplina in materia di avvalimento, secondo il quale la sostituzione dell’impresa ausiliaria durante la gara, ora consentita o, meglio, imposta dall’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016, è istituto derogatorio rispetto al principio generale dell’immodificabilità soggettiva del concorrente nel corso della procedura e risponde all’esigenza di evitare l’esclusione dell’operatore per ragioni a lui non direttamente riconducibili e così, seppur di riflesso, di stimolare il ricorso all’avvalimento; il concorrente, infatti, può contare sul fatto che, nel caso in cui l’ausiliaria non
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presenti i requisiti richiesti, potrà procedere alla sua sostituzione e non sarà, per ciò solo, escluso (Cons. St., V, 21 febbraio 2018, n. 1101 e giurisprudenza ivi richiamata).
Il giudice di prime cure ha ritenuto, dunque, che il detto strumento della sostituzione trovi il suo fondamento logico e la sua spiegazione nell’esigenza di non far gravare sul soggetto incolpevole la responsabilità di condotte addebitabili a terzi.
Totalmente diversa sarebbe la situazione nel caso dei consorzi stabili, che non hanno alla loro base un’intesa temporanea finalizzata all’aggiudicazione della singola commessa (come si verifica nel caso dell’avvalimento), ma un’aggregazione stabile tra più soggetti che danno vita a un’impresa autonoma, a un soggetto giuridico autonomo.
In tali fattispecie, il TAR adito ha sostenuto che l’impresa consorziata non può essere considerata terza rispetto al consorzio stabile, il quale, pertanto, risponde della sua condotta, senza che possa porsi un problema di affidamento incolpevole.
Il medesimo consorzio stabile non può, quindi, a seguito della perdita della qualificazione SOA, per fatto della consorziata, invocare l’applicazione del principio della sostituibilità dell’ausiliaria, operante nel differente caso dell’avvalimento.
Il ricorrente consorzio stabile, risultato soccombente in primo grado, propone appello dinanzi al CGARS, sostenendo da un lato il superamento nell’attuale contesto normativo del principio di continuità del possesso dei requisiti e dall’altro che il rapporto consorzio-consorziata non esecutrice dei lavori sia analogo all’avvalimento.
In particolare, l’appellante rileva che la consorziata non designata per l’esecuzione del contratto aggiudicato è da considerare terza ed estranea rispetto al consorzio stabile, al pari dell’impresa ausiliaria nei confronti dell’impresa ausiliata in caso di avvalimento; pertanto, ritiene che la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare l’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016, il quale stabilisce che “La stazione appaltante verifica, conformemente agli articoli 85, 86 e 88, se i soggetti della cui capacità l’operatore economico intende avvalersi, soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ai sensi dell’articolo 80. Essa impone all’operatore economico di sostituire i soggetti che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione. Nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l’operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici”. Ovvero, sempre secondo la tesi dell’appellante, dovrebbe trovare applicazione diretta l’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, rubricato “affidamento sulle capacità di altri soggetti”, il quale prevede da un lato che “un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi” e dall’altro impone che “l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
Il concetto di estraneità sul quale fa leva l’appellante condurrebbe ad affermare che il modulo consortile comporta una qualificabilità intesa come risultante delle qualificazioni conseguite da ciascuna delle imprese consorziate, delle quali, quelle non designate per l’esecuzione dei lavori andrebbero considerate ausiliarie: da qui l’applicabilità dell’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016 o comunque della direttiva, che in maniera abbastanza generica si riferisce a soggetti terzi quale che sia la natura giuridica del rapporto che li lega al concorrente.
Dal suo canto, il CGARS, giudice dell’appello, affermava che, al riguardo, dovrebbe ritenersi che la consorziata non designata per l’esecuzione dei lavori vada considerata soggetto terzo rispetto al consorzio.
Tuttavia, anche a ritenere diversamente, tale andrebbe considerata la società ausiliaria della società consorziata, la quale è certamente terza rispetto al consorzio stabile, e, poiché la perdita del requisito è avvenuta perché un soggetto terzo (impresa ausiliaria della consorziata) ha volutamente operato il recesso dal rapporto di avvalimento intercorrente tra le due, si ricadrebbe nell’ambito di applicazione della citata direttiva UE, la quale, si ribadisce all’art
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63, dopo aver stabilito (relativamente ai criteri relativi alla capacità economica e finanziaria ed ai criteri relativi alle capacità tecniche e professionali) che “un operatore economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi”, precisa che “l’amministrazione aggiudicatrice verifica, …….., se i soggetti sulla cui capacità l’operatore economico intende fare affidamento soddisfano i pertinenti criteri di selezione o se sussistono motivi di esclusione ………. L’amministrazione aggiudicatrice impone che l’operatore economico sostituisca un soggetto che non soddisfa un pertinente criterio di selezione o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione. L’amministrazione aggiudicatrice può imporre o essere obbligata dallo Stato membro a imporre che l’operatore economico sostituisca un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione”.
Pertanto, il CGARS riteneva che dovrebbe tenersi conto della peculiarità della fattispecie, nella quale, non solo si discute di una delle consorziate non esecutrici, per la quale può già argomentarsi di terzietà rispetto al consorzio, ma anche a ritenere diversamente, comunque andrebbe valorizzata la circostanza che la consorziata ha perduto il requisito di qualificazione SOA (facendolo perdere al consorzio) per fatto/colpa di un’impresa terza dalla quale la consorziata attingeva il requisito di qualificazione in virtù del contratto atipico di avvalimento, sicché non potrebbe dubitarsi dell’estraneità (rispetto alla consorziata e a maggior ragione al consorzio) del soggetto che, per propria scelta, ha causato la perdita del requisito.
Il giudice dell’appello aggiungeva, altresì, che nell’ipotesi in cui si ritenga fondata in parte qua la critica dell’appellante alla sentenza di primo grado impugnata, ne discenderebbe la necessità di rivedere il noto orientamento circa l’obbligo del possesso continuativo dei requisiti, la cui applicazione potrebbe condurre - in un caso quale quello in esame, in cui il consorzio stabile ha perduto la qualificazione posseduta tramite una propria consorziata (non designata per l’esecuzione dei lavori), la quale, a sua volta, la derivava da un rapporto di avvalimento, venuto meno per fatto dell’impresa avvalsa - alla violazione dei principi posti dal citato art. 63 direttiva 2014/24/UE, il quale, come visto, impone la sostituzione del soggetto sulle cui capacità ha fatto affidamento l’operatore economico partecipante alla gara.
In definitiva, il Collegio con l’ordinanza n. 1211 del 29.12.2020 sottoponeva all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni:
“1. se, nell’ipotesi di partecipazione ad una gara d’appalto di un consorzio stabile, che ripeta la propria qualificazione, necessaria ai sensi del bando, da una consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, quest’ultima vada considerata come soggetto terzo rispetto al consorzio, equiparabile all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito durante la gara imponga alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione, in applicazione dell’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016 e/o dell’art. 63 direttiva 2014/24/UE, derogandosi, pertanto, al principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti nel corso della gara e fino all’affidamento dei lavori;
2. in caso di risposta negativa al quesito sub “1”, se comunque, qualora la consorziata - non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori - derivi la qualificazione da un rapporto di avvalimento con altra impresa, trovino applicazione le disposizioni normative sopra citate e la conseguente deroga al richiamato principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti”.
Il giudice rimettente chiedeva, dunque, di accertare se, nel caso di consorzio stabile, la consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, da cui il consorzio ritrae la propria qualificazione in applicazione del meccanismo del
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2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
“cumulo alla rinfusa”, ex art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 (ratione temporis vigente), debba essere considerata soggetto terzo rispetto all’organismo consortile.
Se così fosse, infatti, data l’equiparazione che verrebbe a determinarsi con l’impresa ausiliaria nell’avvalimento, ne deriverebbe che anche al caso in cui la consorziata perda il requisito di qualificazione in corso di gara, potrebbe e dovrebbe applicarsi l’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016, con conseguente possibilità per il consorzio stabile di procedere alla sostituzione della stessa, in deroga al principio dell’obbligo del possesso continuativo dei requisiti nel corso della gara e fino all’affidamento dei lavori.
L’Adunanza Plenaria in commento afferma in via immediata che al quesito posto dall’ordinanza di rimessione debba darsi risposta affermativa, in forza di una interpretazione dell’art. 89, comma 3, del codice dei contratti pubblici, orientata alla corretta applicazione dell’art. 63 della citata direttiva 2014/24/UE.
In via preliminare, il Supremo Consesso ritiene che occorre partire dalla peculiare configurazione del consorzio stabile, prevista dall’ art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, rispetto al consorzio ordinario di cui agli artt. 45, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 e 2602 e ss. del codice civile.
L’art. 2602, comma 1, c.c. prevede che “con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un’organizzazione comune per la disciplina o lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese” e, pertanto, pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l’assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un’impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, ma si limita a disciplinare e coordinare, attraverso un’organizzazione comune, le azioni degli imprenditori riuniti (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2020, n. 6569; Cass. civ., sez. I, 27 gennaio 2014, n. 1636).
Ne discende che, ai fini della disciplina in materia di contratti pubblici, il consorzio ordinario è considerato un soggetto con identità plurisoggettiva, che opera in qualità di mandatario delle imprese della compagine: esso prende necessariamente parte alla gara per tutte le consorziate e si qualifica attraverso di esse, in quanto le stesse, nell’ipotesi di aggiudicazione, eseguiranno il servizio, rimanendo esclusa la possibilità di partecipare solo per conto di alcune associate (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 6 ottobre 2015, n. 4652, il quale ha statuito l’illegittimità della partecipazione di un consorzio ordinario che, pur riunendo due società, aveva dichiarato di gareggiare per conto di una sola di esse).
Discorso diverso è a farsi per i consorzi stabili: questi, ai sensi dell’art. 45, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016, sono costituiti “anche in forma di società consortili ai sensi dell’art. 2615-ter c.c., tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro I consorzi stabili sono formati da non meno di tre consorziati che, con decisione assunta dai rispettivi organi deliberativi, abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”.
La pronuncia in commento pone particolare attenzione sul riferimento aggiuntivo e qualificante della “comune struttura di impresa”, che induce l’Adunanza ad approdare verso lidi ermeneutici differenti ed opposti rispetto a quanto sostenuto per i consorzi ordinari.
Nel dettaglio, i partecipanti del consorzio stabile costituiscono una struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, è distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto (da ultimo, in tal senso Cons. St., sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 6165).
Proprio sulla base di questa impostazione, la Corte di Giustizia UE (C-376/08, 23 dicembre 2009) è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove
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quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia, pertanto, concordato la presentazione dell’offerta (ex multis, Cons. St., sez. III, 4 febbraio 2019, n. 865).
Tanto chiarito sul versante della natura giuridica del consorzio stabile, l’Adunanza Plenaria in esame procede ad effettuare un ulteriore cenno esplicativo al cd. meccanismo di qualificazione alla “rinfusa” che ha segnatamente caratterizzato la vicenda di cui in oggetto.
Il cd. cumulo alla rinfusa è previsto dall’art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, così come modificato dall’art. 31, comma 1, d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, vigente all’epoca dei fatti di causa e, dunque, ratione temporis applicabile al caso concreto di cui trattasi, il quale stabilisce che “I consorzi di cui agli articoli 45, comma 2, lettera c) e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l’esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l’esecuzione del contratto. Con le linee guida dell’ANAC di cui all’articolo 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l’imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni”. La disposizione ha avuto vigore sino al 2019: infatti, l’art. 1, comma 20, lett. l), n. 1), del d.l. 18 aprile 2019, n. 32 (decreto cd. sblocca cantieri) convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, ha eliminato tale regola, ripristinando l’originaria e limitata perimetrazione del cd. cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi alla “disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d’opera, nonché all’organico medio annuo”, i quali sono “computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”, di cui al comma 1 del richiamato art. 47 codice dei contratti pubblici.
La pronuncia in commento chiarisce che siffatto peculiare meccanismo (esteso all’epoca dei fatti di causa anche ai requisiti di qualificazione, ma oggi limitato ad attrezzature, mezzi d’opera e organico medio annuo) ha radici nella natura del consorzio stabile e si giustifica in ragione: a) del patto consortile, comunque caratterizzato dalla causa mutualistica; b) del rapporto duraturo ed improntato a stretta collaborazione tra le consorziate avente come fine “una comune struttura di impresa”
Il citato comma 2 dell’art. 47 d.lgs. n. 50/2026, così come sostituito dal menzionato d.l. 32/2019 e oggi vigente, effettua un distinguo tra le consorziate esecutrici e non esecutrici del contratto, in relazione alla responsabilità delle stesse nei confronti della stazione appaltante. In particolare, solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante, mentre per le consorziate non esecutrici del contratto il consorzio si limita a mutuare, ex lege, i requisiti oggettivi, senza che da ciò discenda alcun vincolo di responsabilità solidale per l’eventuale mancata o erronea esecuzione dell’appalto.
L’Adunanza Plenaria giunge, dunque, ad affermare che, in quest’ultimo caso, si è dinanzi ad un rapporto molto simile a quello dell’avvalimento (non a caso espressamente richiamato dalla vecchia versione dell’art. 47, comma
2, d.lgs. n. 50/2016 in riferimento alle consorziate non esecutrici del contratto, ratione temporis applicabile ai fatti di causa), anche se, per certi versi, meno intenso: da una parte, infatti, la consorziata non esecutrice del contratto aggiudicato al consorzio stabile presta i requisiti senza partecipare all’offerta, similmente all’impresa avvalsa e senza bisogno di dichiarazioni, soccorrendo la “comune struttura di impresa” e il disposto di legge; dall’altra, pur prestando i propri requisiti, la consorziata non esecutrice rimane esente da responsabilità (diversamente dall’impresa avvalsa).
Pertanto, l’Adunanza Plenaria in esame qualifica tale peculiare ipotesi come una forma di avvalimento attenuata proprio per l’assenza di responsabilità nei confronti della stazione appaltante dell’impresa consorziata non esecutrice, la quale si limita, quindi, a prestare solo i suoi requisiti al consorzio stabile aggiudicatario.
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Questa constatazione, se intermediata attraverso l’elaborazione logica, è di per sé sufficiente a giustificare l’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 89, comma 3, del codice dei contratti pubblici.
Secondo la disposizione citata, infatti, la stazione appaltante (in luogo di disporre l’esclusione in cui inesorabilmente incorrerebbe un concorrente nell’ambito di un raggruppamento o di un consorzio ordinario o stabile) impone all’operatore economico di “sostituire” i soggetti di cui si avvale “che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”.
Ergo, se è possibile, in via eccezionale, sostituire il soggetto legato da un rapporto di avvalimento, a fortiori dev’essere possibile sostituire il consorziato nei confronti del quale sussiste un vincolo che rispetto all’avvalimento è meno intenso.
D’altronde, che questa sia la soluzione per colmare la lacuna normativa esistente, ed evidenziata dall’ordinanza di rimessione, per il caso del consorziato non designato per l’esecuzione, trova piena conferma nell’ampia formulazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, il quale, nel disciplinare l’avvalimento, vi ricomprende tutti i casi in cui un operatore economico, per un determinato appalto, fa “affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi”, senza dare rilevanza qualificante alla responsabilità solidale dei soggetti avvalsi. Circostanza, quest’ultima, rimessa piuttosto dalla direttiva all’eventuale decisione discrezionale dell’amministrazione aggiudicatrice (l’amministrazione aggiudicatrice “può esigere” che l’operatore economico e i soggetti di cui sopra siano solidalmente responsabili dell’esecuzione del contratto, recita l’art. 63 cit.), anche se poi tradottasi in un precetto di legge in sede di recepimento nell’ordinamento italiano della medesima direttiva attraverso l’art. 89, comma 5, d.lgs. n. 50/2016.
La pronuncia in esame sostiene, dunque, che non v’è ragione per riservare al consorzio, che si avvale dei requisiti di un consorziato non designato per l’esecuzione del contratto, un trattamento diverso da quello riservato ad un qualunque partecipante, singolo o associato, che ricorre all’avvalimento.
Nell’uno, come nell’altro caso, in virtù dell’art. 89, comma 3, del codice dei contratti pubblici, ove il requisito prestato venga meno, l’impresa avvalsa potrà, rectius, dovrà essere sostituita.
In risposta alle preoccupazioni manifestate dal Collegio rimettente, e al fine di garantire chiarezza e certezza al quadro esegetico complessivo, l’Adunanza Plenaria aggiunge che la chiave interpretativa delineata non tocca la perdurante validità del principio di necessaria continuità nel possesso dei requisiti, affermato dalla stessa Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8/2015, né il più generale principio di immodificabilità soggettiva del concorrente (salvi i casi previsti della legge, come nell’ipotesi di raggruppamento temporaneo di imprese ex art. 48, commi 17, 18 e 19, d. lgs. n. 50/2016).
Con la richiamata decisione, l’Adunanza del 2015, ribadendo il portato della costante giurisprudenza antecedente, ha affermato il principio generale, secondo cui “il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica”; chiarendo che “per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col pur rilevante principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente (ancor prima che aggiudicatario), dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica, a prescindere dalla indicazione, da parte del Legislatore, di specifiche fasi espressamente dedicate alla verifica stessa, quali quelle di cui all’art. 11, comma 8, ed all’art. 48 del D. Lgs. n. 163/2006”.
La pronuncia in commento chiarisce che trattasi di un principio del quale, a valle dell’Adunanza Plenaria citata, nessuno più dubita, e che merita piena adesione anche nella vicenda de qua
E’ pur vero che, nel caso allora deciso, l’Adunanza si spinse a precisare che sussiste “sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale e tecnico-professionali ed economici, una totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti in via diretta e gli operatori economici in rapporto di avvalimento e dunque, in definitiva, fra i
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primi e l’imprenditore, che preferisca seguire la via del possesso mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una gara”, con ciò lasciando chiaramente intendere che l’affermato principio di continuità dovesse valere anche per l’impresa avvalsa.
Tuttavia, la sentenza in analisi chiarisce che detta ultima affermazione dev’essere letta nel quadro normativo, ratione temporis vigente, anche comunitario, il quale pacificamente escludeva la possibilità di una sostituzione dell’impresa rimasta priva dei requisiti, a prescindere se essa fosse legata da un vincolo di associazione temporanea con l’aggiudicatario o da un più tenue rapporto di avvalimento (art. 44 della Dir. 31/03/2004, n. 2004/18/CE).
L’Adunanza Plenaria in esame rileva, però, che quel quadro normativo è nel tempo mutato, e per il tramite del più volte citato art. 63 della direttiva 2014/24/UE, esso oggi addirittura impone (quindi obbliga e non semplicemente invita) che il soggetto avvalso, il quale nelle more del procedimento di gara o durante l’esecuzione del contratto perda i requisiti, venga sostituito.
Pertanto, non v’è più ragione di discorrere, in relazione a tale peculiare fattispecie, di necessaria continuità nel possesso dei requisiti del concorrente, che si avvale dell’apporto claudicante di terzi, a pena di esclusione.
La sostituzione è, infatti, da considerare come quello strumento nuovo e alternativo che, alla luce del principio di proporzionalità, consente, anzi, costituisce attuazione di quella continuità predicata dall’Adunanza Plenaria n. 8/2015, in tutti i casi in cui il concorrente si avvalga dell’ausilio di operatori terzi.
Trattasi di un “istituto del tutto innovativo”, secondo la definizione datane dal Consiglio Stato (sez. III, n. 5359/2015) e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (C-223/16 del 14 settembre 2017, Casertana costruzioni s.r.l.).
Esso restituisce al soggetto avvalso la sua vera natura di soggetto che presta i requisiti al concorrente, senza partecipare alla compagine e all’offerta da questa formulata e risponde all’esigenza, stimata superiore, di evitare l’esclusione del concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non direttamente riconducibili o imputabili.
Esigenza quest’ultima evidentemente strumentale a stimolare il ricorso all’avvalimento: il concorrente, infatti, come già rilevato dal giudice di primo grado, può contare sul fatto che, nel caso in cui l’ausiliaria non presenti o perda i requisiti prescritti, potrà procedere alla sua sostituzione senza il rischio di essere, solo per questa circostanza, estromesso automaticamente dalla procedura selettiva (Cons. Stato, sez. V, nn. 69/2019; 2527/2018; 1101/2018).
Di tale mutato quadro normativo e giurisprudenziale ha dato di recente atto l’ordinanza 20 marzo 2020, n. 2005, con la quale la terza sezione del Consiglio di Stato ha adito in via pregiudiziale la Corte di Giustizia dell’Unione europea proprio in relazione al meccanismo sostitutivo contemplato dall’art. 89, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016, sostenendone la necessaria estensione a tutte le fattispecie di esclusione, a prescindere dai motivi (attualmente, infatti, la giurisprudenza esclude che la sostituzione possa avvenire nel caso di dichiarazioni mendaci dell’ausiliario). In definitiva, l’Adunanza Plenaria, in risposta al quesito posto dall’ordinanza di rimessione, enuncia il seguente principio di diritto: “La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE e dell’art. 89, comma 3, del d.lgs. n. 50/2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione”.
3. Conclusioni e prospettive de iure condendo.
Dalla motivazione della sentenza del Supremo Consesso adito, si evince come i giudici abbiano considerato l’ipotesi dell’avvalimento e l’ipotesi della consorziata non esecutrice del contratto aggiudicato al consorzio stabile come due ipotesi analoghe, estendendo l’applicazione della sostituzione dell’impresa ausiliaria prevista dal comma 3 dell’art.
89 codice dei contratti pubblici anche alla consorziata non esecutrice del contratto.
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Tale analogia legis è stata basata sia sull’argomento logico-giuridico della differente natura giuridica del consorzio stabile rispetto a quello ordinario, sia sull’argomento letterale della precedente formulazione dell’art. 47, comma 2, d. lgs.n.50/2016, il quale, nel disciplinare il suddetto cumulo alla rinfusa, espressamente richiamava l’avvalimento in riferimento alle consorziate non esecutrici, lasciando dedurre che queste ultime fossero da considerare esterne rispetto alla compagine consortile, richiedendo, perciò, specificamente lo strumento dell’avvalimento per utilizzare i requisiti di qualificazione posseduti dalle singole imprese consorziate non designate per l’esecuzione del contratto. Al contrario, l’utilizzo dei requisiti di qualificazione posseduti dalle imprese consorziate designate per l’esecuzione delle prestazioni non era subordinato al ricorso all’avvalimento.
L’attuale formulazione dell’art. 47, comma 2, d. lgs. n. 50/2016, si ribadisce, prevede la responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante delle sole consorziate esecutrici del contratto.
Pertanto, sia la precedente formulazione dell’art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 che quella attuale (all’indomani delle modifiche apportate dal suddetto decreto sblocca cantieri) riservano un trattamento legislativo differente alle due tipologie di consorziate, dal quale si può evincere che la caratteristica dell’estraneità e terzietà rispetto all’autonomo soggetto giuridico del consorzio stabile sia più intrinseca nelle consorziate non esecutrici del contratto. In particolare, la nuova formulazione del comma secondo dell’art. 47 codice dei contratti pubblici, prevedendo la responsabilità solidale delle consorziate esecutrici nei confronti della stazione appaltante, e non anche la medesima responsabilità solidale delle consorziate non esecutrici, ha corroborato la tesi della estraneità di queste ultime rispetto al consorzio stabile e la loro assimilazione all’impresa avvalsa in forma mitigata, non prevedendo la responsabilità solidale nei confronti della stazione appaltante che, invece, è stabilita per l’impresa ausiliaria in sede di rapporto di avvalimento.
Pertanto, se la legge comunitaria prima e interna poi impongono la sostituzione di un soggetto terzo che mette a disposizione di un operatore economico i propri requisiti tecnico- operativi o finanziari (rispettivamente avvalimento tecnico-operativo e avvalimento di garanzia) e che, per scelta del Legislatore italiano effettuata in tema di avvalimento, il citato soggetto terzo è responsabile solidalmente per l’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto, viene da sé che tale sostituzione debba essere applicata anche alla consorziata non esecutrice delle prestazioni del contratto aggiudicato che non è neppure solidalmente responsabile nei confronti della stazione appaltante.
In altri termini, l’ipotesi della consorziata non esecutrice dei lavori costituisce un minus rispetto all’ipotesi dell’impresa avvalsa nella logica delle norme richiamate e, per tale ragione, la pronuncia in commento non è neanche dovuta ricorrere alla prospettazione effettuata dal CGARS in ordine al caso concreto oggetto di causa (il quale, si ricorda, si riferisce ad un soggetto terzo non appartenente al consorzio stabile aggiudicatario del contratto che, in virtù di un rapporto di avvalimento con la consorziata non esecutrice, ha prestato il requisito di attestazione SOA specificamente richiesto dalla gara e, quindi, comunque da considerare soggetto terzo ai fini dell’operatività della sostituzione di cui all’art. 89, comma 3, d. lgs. n. 50/2016), in quanto è la medesima consorziata non esecutrice ad essere qualificata terza rispetto al consorzio stabile, cosicché la questione è stata risolta in radice dai giudici dell’Adunanza Plenaria.
La rilevata terzietà ed estraneità dell’impresa consorziata non designata per l’esecuzione del contratto non intacca neppure il citato principio di immodificabilità soggettiva dell’operatore economico, e, pertanto, il problema non si pone ab origine
La citata analogia applicata alle ipotesi dell’impresa avvalsa e della consorziata non esecutrice, rende, tuttavia, necessario effettuare un brevissimo richiamo alla ratio legis dell’istituto dell’avvalimento, il quale è un istituto di derivazione comunitaria introdotto al preciso fine di garantire il cd. favor partecipationis: tale principio risponde
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all’esigenza di consentire alle piccole e medie imprese di partecipare alle gare pubbliche e all’esigenza di tutelare la libertà di concorrenza, nonché la trasparenza e buon andamento della pubblica amministrazione.
La logica del favor partecipationis permea anche gli istituti dei raggruppamenti temporanei di imprese (Rti) o dei consorzi sia ordinari che stabili (oggetto della presente pronuncia).
Lo strumento della più volte richiamata sostituzione si inserisce nel quadro di quelle scelte normative europee e interne volte ad assicurare il perseguimento del detto favor partecipationis, tanto più che viene attivato nell’ipotesi in cui la perdita dei requisiti richiesti dalla gara è per fatto non imputabile all’operatore economico concorrente, bensì ad un soggetto terzo allo stesso.
La detta sostituzione, in relazione al menzionato principio di continuità del possesso dei requisiti, non ne costituisce una deroga, ma, a ben vedere, deve essere letta quale mezzo attraverso il quale si realizza una vera e piena attuazione di tale principio.
Il caso deciso dalla Plenaria in commento ha riguardato una consorziata non esecutrice delle prestazioni del contratto, ma a quali conclusioni sarebbe arrivata se si fosse trattato di una consorziata esecutrice delle prestazioni del contratto?
Dal quadro normativo in essere e dalla linea interpretativa seguita dalla sentenza in esame, gli approdi ermeneutici potrebbero essere due: considerarle esterne, valorizzando la natura giuridica del consorzio stabile quale “comune struttura di impresa” ai sensi dell’art. 45, comma 2, lett. c), d. lgs. n. 50/2016 e, dunque, quale soggetto autonomo rispetto alle consorziate, che fa sì che tutte le consorziate risultino essere terze rispetto allo stesso; considerarle interne al consorzio stabile, valorizzando da un lato il dato normativo della precedente formulazione del comma 2 dell’art. 47 codice dei contratti pubblici, che per l’utilizzo dei requisiti di qualificazione non richiedeva lo strumento dell’avvalimento per le consorziate esecutrici, e dall’altro lato la circostanza per la quale le consorziate esecutrici concordano l’offerta da presentare per partecipare alla gara.
Inoltre, l’odierna formulazione del citato art. 47, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 prevede la responsabilità solidale delle sole consorziate esecutrici nei confronti della stazione appaltante.
Tuttavia, in ordine a quest’ultimo argomento, da utilizzare a favore della tesi dell’intraneità della consorziata esecutrice rispetto al consorzio stabile, si potrebbe obiettare che, come visto, un’altra ipotesi di responsabilità solidale è prevista dall’art. 89, comma 5, d. lgs. n. 50/2016 per l’impresa ausiliaria in caso di avvalimento, la quale è pacificamente considerata esterna e terza rispetto all’operatore economico concorrente.
Pertanto, tirando le fila del discorso, a parere di chi scrive anche le consorziate esecutrici delle prestazioni dedotte nel contratto potrebbero essere considerate esterne rispetto a quest’ultimo e dovrebbero essere sostituite ex art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50/2016 sia per la peculiare ricostruita natura giuridica del consorzio stabile, sia per la responsabilità solidale delle medesime consorziate esecutrici al pari dell’impresa avvalsa, sia per la corretta applicazione del più volte richiamato art. 63 direttiva 2014/24/UE, il quale, si ribadisce, utilizza una formulazione ampia in tema di affidamento sulle capacità di altri soggetti da parte dell’operatore economico concorrente, a prescindere dalla natura giuridica dei legami sussistenti tra i soggetti interessati e imponendo la sostituzione dei soggetti che prestano i loro requisiti ai partecipanti alla gara (il verbo imporre lascia poco spazio a dubbi o incertezze sulla soluzione da adottare nell’ipotesi di non soddisfazione di un pertinente criterio di selezione da parte del soggetto sulle cui capacità fa affidamento l’operatore economico o per il quale sussistono motivi obbligatori di esclusione).
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NOTA A CONSIGLIO DI STATO – SEZIONE TERZA, SENTENZA 31 dicembre 2020, n. 8543
Sui limiti al diritto d’acceso documentale, con particolare riferimento alla clausola di riservatezza nell’ambito degli accordi negoziali stipulati tra l’AIFA e Aziende farmaceutiche relativi ai medicinali di importazione parallela con classe di rimborsabilità “A”
Di MASSIMILIANO MAITINO
La questione processuale ha ad oggetto l’impugnazione, da parte di AIFA, della sentenza con la quale il TAR ha accolto in parte il ricorso ex art. 116 c.p.a. proposto da una società farmaceutica per l’accertamento del diritto di accesso agli accordi negoziali ed alla relativa documentazione procedimentale e per la conseguente condanna dell’AIFA all’esibizione degli accordi negoziali perfezionati con altre società concorrenti e relativi ai medicinali di importazione parallela cui è stata attribuita la classe di rimborsabilità “A” a tali farmaci, nonché è stata prevista la corresponsione da parte delle prime di un payback, aggiuntivo rispetto a quelli previsti per legge.
Nello specifico, l’art. 48, comma 33, del d.l. n.269/2003, conv. in legge 326/2003, stabilisce che “i prezzi dei prodotti rimborsati dal SSN sono determinati mediante contrattazione tra Agenzia e Produttori secondo le modalità e i criteri indicati nella Delibera CIPE 1 febbraio 2001, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 73 del 28 marzo 2001”. Tale ultima delibera, a sua volta, detta analitiche disposizioni aventi ad oggetto i medicinali autorizzati all'immissione in commercio secondo le procedure centralizzate e di mutuo riconoscimento, e riguardanti in particolare il procedimento di contrattazione del prezzo di medicinali idonei all'inclusione nella lista dei medicinali rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale. Nell’ambito di tale attività negoziata, ma procedimentalizzata, è previsto che: l’impresa farmaceutica proponga un prezzo sulla base di una circostanziata documentazione alla luce di un criterio costo/efficacia per i pazienti; l’amministrazione compia speculari valutazioni, anche attraverso l’ausilio di organi interni specializzati, al fine di una controproposta; la procedura negoziale si concluda con un accordo tra le parti con la fissazione di un prezzo valutato congruo dalle parti sulla base dei volumi di vendita, della disponibilità del prodotto per il Servizio sanitario, degli sconti per le forniture agli ospedali e alle strutture sanitarie pubbliche, dei volumi e dei prezzi di altri medicinali della stessa impresa. E’ in particolare espressamente previsto che, in sede di definizione contrattuale, possa essere definita una relazione funzionale tra prezzo e intervalli di variazione dei volumi di vendita.
La valutazione di congruità del prezzo, per la parte pubblica non potrà che esser vagliata, in aggiunta ai criteri di complessiva convenienza economica presi in considerazione dalla parte privata quale operatore di mercato, anche alla stregua della finalizzazione all’interesse pubblico per la cura il legislatore ha attribuito il relativo potere esercitato dall’AIFA.
L’accordo è un passaggio obbligatorio ed ineludibile, poiché, in mancanza, il prodotto è classificato nella fascia C di cui al comma 10, dell'art. 8 della legge del 24 dicembre 1993, n. 537.
Il prezzo contrattato rappresenta per gli ospedali e le ASL il prezzo massimo di cessione al Servizio sanitario nazionale. Su tale prezzo essi devono, in applicazione di proprie procedure, contrattare gli sconti commerciali. Relativamente al segmento di mercato che transita attraverso il canale della distribuzione intermedia e finale, al prezzo ex-fabrica contrattato sono aggiunte, per la definizione del prezzo al pubblico, l’IVA e le quote di spettanza per la distribuzione (si vedano in proposito il comma 5 e seguenti dell’art.1 della deliberazione citata).
Ciò sinteticamente posto, non è infrequente che, per una tutela dell’interesse individuale alla concorrenza, le aziende farmaceutiche operanti sul mercato abbiano un interesse strumentale (pretensivo all’ostensione) a conoscere gli accordi negoziali intercorsi tra l’AIFA e altre aziende concorrenti che, invece, vantano un interesse (oppositivo all’ostensione) opposto a tutela della riservatezza commerciale. In tale situazione di contrapposizione di interessi è posta l’AIFA quale amministrazione pubblica onerata di svolgere le valutazioni compositive del predetto conflitto di interessi in sede di
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applicazione della normativa in tema di diritto di accesso laddove alla documentazione negoziale chiesta in ostensione sia stata posta una clausola di riservatezza.
Così, con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ha statuito che “è legittimo negare l'accesso per la conoscenza dell'accordo sulla rimborsabilità e il prezzo relativo ad un farmaco stipulato tra l'industria produttrice e l'AIFA (Agenzia italiana per il farmaco), quando è prevista una clausola di riservatezza (C.d.S., Sez. III, 17 marzo 2017, n. 1213)”. Conseguentemente il Collegio ha ritenuto che “alla luce dei precedenti richiamati, che nel caso in esame, non sussiste l ’interesse concreto e attuale di …omissis a conoscere tanto il contenuto degli accordi negoziali intervenuti con società terze, quanto gli atti prodromici alla loro sottoscrizione”
Dunque la questione giuridica ha ad oggetto i limiti, sia giuspubblicistici che privatistici, opponibili al diritto di accesso ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge 241/1990.
Appare utile fare cenno al tema del “diritto” (termine contenuto nell’art. 22 della legge 241/1990 cui però non può attribuirsi automaticamente effetto qualificante della natura della situazione giuridica soggettiva in termini di diritto soggettivo) di accesso documentale così come disciplinato dagli artt. 22 e ss. della legge 241/1990. La natura giuridica dell’interesse materiale sotteso alla richiesta di accesso documentale di cui alla prefata normativa “speciale” (nel senso di blocco normativo autonomo inserito in una legge generale sul procedimento amministrativo per mera scelta di politica legislativa non sussistendo alcuna ragione, sia di tipo logico sistematico, sia di tipo ontologico dogmatico, che rendesse “obbligato” tale inserimento), non è stata ancora definitivamente risolta, essendo recentemente riaffiorata la tesi dell’interesse legittimo, dopo che le Ad. Pl. 6 e 7 del 2016, a seguito dell’introduzione della giurisdizione esclusiva in materia di accesso, lo avevano definito come una posizione strumentale tesa alla difesa di un interesse e conseguentemente la sua natura giuridica dipende dalla singola posizione alla cui tutela è finalizzato l’accesso. Quindi oggi l’accesso, secondo il cennato orientamento giurisprudenziale, avrebbe una natura ancillare rispetto alla posizione giuridica tutelata. L’accoglimento dell’una o dell’altra tesi non è irrilevante rispetto alle differenti conseguenze che, sia dal punto di vista sostanziale che processuale, si riverberano sul piano della tutela giurisdizionale. Tuttavia, si tralascia la vexata questio sulla natura giuridica dell’interesse all’accesso documentale non assumendo la stessa questione un’immediata e diretta rilevanza rispetto al tema posto dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 8543 del 31 dicembre 2020.
L’art. 22 della legge 241/1990 subordina, innanzitutto, il “diritto” di accesso alla sussistenza di “ un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”. Ciò, anche a prescindere dall’ulteriore ed eventuale condizione della sussistenza di un giudizio, instaurato o instaurando, essendo sufficiente la dimostrazione del grado di protezione che l’ordinamento accorda alla posizione base, ossia al bene della vita dal quale scaturisce l’interesse ostensivo. In altri termini, la legittimazione all'accesso documentale va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti oggetto dell'accesso abbiano spiegato, o siano idonei a spiegare, effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del “diritto” di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto (in tali termini, da ultimo Consiglio di Stato, Sez. IV, 20 ottobre 2016, n. 4372).
Le norme “imperative” (della cui imperatività si dovrà tener adeguato conto nello scrutinio di liceità di eventuali clausole negoziali, ivi compresa quella di riservatezza) in tema di accesso qualificato (ossia sorretto da uno specifico interesse) ai documenti amministrativi sono quindi contenute nel capo V della legge generale sul procedimento. La legge, pur chiarendo in via generale che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza” (art. 22, comma 2) e disponendo conseguentemente che “tutti i documenti
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amministrativi sono accessibili.....”, ha comunque cura di individuare alcune eccezioni in cui il diritto di accesso è escluso o può essere escluso (art. 22, comma 3, e art. 24).
Al riguardo rileva, in particolare, l’art. 24, comma 6 lett. d), sulla base del quale il “diritto” d’accesso può essere escluso
“quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commercialedi cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono”.
L’esigenza di riservatezza delle imprese in ordine all’interesse commerciale è dunque idoneo, in astratto, a giustificare esclusioni o limitazioni della pretesa ostensiva. E’ evidente che deve trattarsi di un’esigenza oggettivamente apprezzabile, lecita e meritevole di tutela in quanto collegata a potenziali pregiudizi derivanti dalla divulgazione, secondo un nesso di proporzionalità.
Un punto di equilibrio tra esigenze di riservatezza “commerciale” e trasparenza nell’ambito delle procedure di evidenza pubblica finalizzata alla stipula di contratti di appalto si rinviene nella disciplina di settore dettata dal D.Lgs 50/2016, la quale fa prevalere le ovvie esigenze di riservatezza degli offerenti durante la competizione, prevedendo un vero e proprio divieto di divulgazione, salvo ripristinare la fisiologica dinamica dell’accesso a procedura conclusa, con espressa eccezione per “le informazioni fornite nell'ambito dell'offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell'offerente, segreti tecnici o commerciali”.
Il contesto in cui si muovono i contendenti nella causa oggetto dell’odierno esame è però radicalmente diverso dal procedimento di evidenza pubblica.
La pubblica amministrazione, nel procedimento di negoziazione per la fissazione del prezzo dei farmaci coperti da brevetto, punta a perseguire contemporaneamente una pluralità di obiettivi, quali, da un lato, la salute della popolazione, il suo accesso effettivo ai farmaci, il contenimento della spesa farmaceutica, dall’altro il supporto alle aziende che investono in farmaci innovativi.
Questi obiettivi possono, e devono, invero, essere raggiunti (per gli acquisti da parte di enti del SSN) attraverso la competizione sui prezzi per il tramite di procedure di evidenza pubblica, qualora il segmento di mercato sia quello comprendente le specialità originali contenenti il principio attivo il cui brevetto è scaduto (i cosiddetti prodotti generici branded) e le specialità vendute con il nome del principio attivo (i cosiddetti generici unbranded).
Le procedure proconcorrenziali per converso non sono applicabili ed utili per il raggiungimento degli obiettivi sopra indicati, quando il segmento di riferimento è quello dei farmaci coperti da brevetto che hanno già ottenuto l’autorizzazione alla immissione in commercio e che richiedono di poter essere prescritti a carico del Servizio Sanitario Nazionale, sulla base di un prezzo di rimborso che tenga anche conto del loro potenziale terapeutico innovativo. In tale segmento non c’è concorrenza fra i produttori perché ci sono situazioni di monopolio, sia pur transitorie, legate alla protezione brevettuale, indi non vi sarebbe il presupposto logico per l’applicazione del principio della gara, e non v’è il presupposto economico per giustificarla, id est la tendenziale uguaglianza tra costo marginale e beneficio marginale per l’acquirente. Infatti, da una lato il monopolista può portare il prezzo al di sopra del livello di equilibrio senza con ciò subire la sanzione da parte del mercato, come avverrebbe in un sistema competitivo, dall’altro il consumatore che ha un problema di salute potenzialmente risolvibile con un farmaco non è interessato a ricercare il punto di ottimo tra benefici e costi, e soprattutto – con specifico riferimento ai farmaci in fascia A rimborsabili – non è indotto a cercare il prodotto che minimizza i costi, poiché l’onere finanziario per l’acquisto è sostenuto dal Sistema sanitario pubblico sulla base di una decisione pubblica di protezione della salute collettiva.
Escluso dunque che, nel caso di specie, si tratti di una procedura di evidenza pubblica, si può sottoporre la fattispecie de qua al vaglio dell’art. 24, comma 6 lett. d), che fornisce tutela alla “riservatezza commerciale”, senza ulteriori specificazioni di cui all’art. 53 del D.Lgs 50/2016. In altri termini non v’è una norma che direttamente o indirettamente
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vieti, chiaramente e nettamente, la stipula di accordi di riservatezza in relazione agli interessi commerciali di un’impresa.
Tuttavia, ancorché astrattamente sussumibile la fattispecie de qua nell’art. 24, comma 6 lett. d), ne va verificata l’applicabilità in concreto alla luce dei principi di proporzionalità e mitigazione dell’accesso documentale, quali criteri di legittimità nell’individuazione del punto di equilibrio tra accesso documentale e riservatezza, ancorché sotto il profilo dell’interesse alla riservatezza commerciale nella fattispecie concreta oggetto di scrutinio.
Ciò impone all’operatore giuridico di effettuare uno scrutinio analitico sul bilanciamento degli opposti interessi in gioco ed approdare, così ex post, ad una conseguente valutazione in punto di ostensibilità o meno, e a quali condizioni eventualmente ammetterla, del documento richiesto senza accogliere aprioristicamente, ossia ex ante, un giudizio negativo sull’inammissibilità dell’ostensione.
Il bilanciamento si sviluppa mediante la verifica dell’assenza dei presupposti di accesso documentale che, se sussistenti, inducono la PA a cancellare i dati ultronei alla cura dell’interesse del richiedente o alle finalità dell’accesso (ai sensi dell’art. 5 del GDPR, principio di minimizzazione dei dati).
Nella fattispecie concreta scrutinata dal Consiglio di Stato, negli accordi negoziali oggetto di richiesta ostensiva risulta apposta una clausola di riservatezza in riferimento alla quale il giudice di seconde cure ha espressamente condiviso l’orientamento della medesima sezione III, espresso nella sentenza 17 marzo 20217, n. 1213, con cui aveva sinteticamente statuito che “Tale clausola deve ritenersi valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali dell'impresa controinteressata, in quanto utile all'ottenimento dei risparmi conseguiti, con la conseguenza della opponibilità ai fini della preclusione all ’ accesso da parte dell ’operatore economico che potrebbe avvalersi a fini concorrenziali della conoscenza delle condizioni economiche praticate. L'apposizione della clausola di riservatezza operante nei rapporti con le imprese, consente al negoziatore pubblico di tenere celati i risultati economici raggiunti nella negoziazione (C.d.S., sez. III, 17.3.2017, n.1213)”.
Punto saliente del percorso logico seguito dal Consiglio di Stato ha ritenuto valida la clausola di riservatezza in quanto “oltre che rispondere ad un interesse commerciale privato, persegua anche un concomitante interesse pubblico” rappresentato dalla strumentalità a “spuntare tutti gli sconti che il produttore sia oggettivamente e soggettivamente in grado di concedere in base ai suoi costi ed alle sue aspettative di profitto”.
Con la clausola di riservatezza le parti si impegnano a non divulgare il contenuto del regolamento contrattuale cui la clausola accede quale elemento accidentale al contratto stipulato. Pertanto, l’oggetto della clausola è rappresentato dall’obbligo reciproco delle parti (o di una sola delle parti se è di tipo unilaterale) a non divulgare il programma contrattuale avente solitamente natura sinallagmatica come nel caso de quo, cui la clausola accede. Le ragioni giustificative della predetta clausola possono consistere in qualsiasi interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2, del codice civile perseguito dalle parti e dalle stesse condiviso e fatto proprio nell’assetto complessivo del programma contrattuale su cui si è raggiunto l’accordo. In tal senso, la PA può valutare utile, sotto il profilo della massimizzazione dell’interesse pubblico sotteso all’esercizio del potere (vincolo teleologico), ancorché in modalità consensuale e non autoritativa, gli eventuali risparmi conseguibili da un concreto assetto d’interessi che tenga altresì conto, in ottica sinallagmatica, dell’interesse di controparte alla non divulgabilità del programma contrattuale. Alla luce di questi differenti interessi individuali, le parti vi potranno dare un assetto compositivo reciprocamente soddisfacente mediante il ricorso ad un elemento accidentale quale la clausola di riservatezza. E così concepita la clausola di riservatezza è da ritenersi ammissibile e, quindi, valida in quanto non violativa di alcuna norma imperativa, dell’ordine pubblico o del buon costume ai sensi dell’art. 1343 cc. Passando, dal piano strutturale a quello degli effetti, va evidenziato che la clausola di riservatezza produce effetti esclusivamente obbligatori ai sensi dell’art. 1173 c.c., nonché effetti limitati alle sole parti del rapporto contrattuale ai sensi dell’art. 1372 c.c. senza possibilità che tale clausola ex sé sia opponibile ai terzi. Quindi per all’inopponibilità a terzi della clausola di riservatezza depongono sia il principio di
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“esclusività” (in senso relativo in quanto, in talune situazione specifiche sulla base di norme derogatorie a tale principio, i terzi possono intaccare la signoria delle parti nel proprio rapporto obbligatorio, come ad esempio l’adempimento del terzo di cui all’art. 1180 cc.) del rapporto obbligatorio ai sensi dell’art. 1173 cc., sia il principio di relatività del rapporto contrattuale di cui all’art. 1372 cc. laddove il contratto costituisca il titolo, ossia la fonte, del rapporto obbligatorio. Dalla natura esclusivamente obbligatoria degli effetti della clausola di riservatezza, va da sé che, una volta accertata la validità della clausola, lo la funzionalità del rapporto contrattuale in parte qua non può che attenere alla fase esecutiva del contratto presidiato, tra l’altro, dall’obbligo legale di buona fede di cui all’art. 1375 cc.
Pertanto, qualsiasi lesione della clausola di riservatezza va qualificata come comportamento inadempitivo dell’obbligo di non divulgare il contenuto del contratto coperto dalla clausola medesima e, per tale ragione, espone l’inadempiente alla responsabilità di cui all’art. 1218 cc. Anche soggetti pubblici, quale l’AIFA, possono ricorrere, nell’esercizio di attività negoziale, alla clausola di riservatezza. Le ragioni sottese al ricorso ad una clausola di riservatezza, nel caso di parte pubblica, restano libere nel caso di attività cd. iure privatorum, mentre, nel caso di attività amministrativa esercitata secondo un modello cd. consensuale (in alternativa a quello cd. autoritativo) ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 241/1990, devono risultare funzionali al perseguimento dell’interesse pubblico che sta alla base dell’attribuzione della potestà pubblica esercitata. L’ambito di applicazione della clausola di riservatezza è limitato ai comportamenti spontanei o liberi delle parti, ma non sicuramente a quelli cui le parti sono tenute in forza di norme imperative, quali quelle sul diritto di accesso documentale ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge 241/1990. In tale senso il diritto di accesso ai documenti amministrativi, avente a oggetto atti negoziali intervenuti tra la PA e i terzi, non può esser limitato tout court dall’esistenza di una clausola di riservatezza pattuita dalla PA e il terzo (rispetto al richiedente l’accesso). Ciò, sia perché tale clausola ha effetti obbligatori limitati alle parti e non opponibili ai terzi (quale sarebbe il richiedente l’ostensione documentale), sia perché il diritto di accesso ai documenti amministrativi non può esser “inattuato” o paralizzato da una clausola contrattuale che, tra l’altro, ove fosse diversamente intesa contrasterebbe con l’art. 22 della legge 241/1990 e quindi andrebbe dichiarata nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c. data la natura imperativa della norma attributiva del diritto di accesso documentale. Sotto altro profilo, l’eventuale pretesa della controparte nei confronti della PA a opporre al terzo la clausola di riservatezza inter alios intervenuta contrasterebbe con l’obbligo legale di buona fede di cui all’art. 1375 cc e pertanto non potrebbe ottenere alcuna tutela dall’ordinamento giuridico.
Ora, benché sia ammissibile, come detto, in astratto il ricorso di una PA alla clausola di riservatezza, va altresì evidenziato che la stessa non è opponibile ai terzi, sia in quanto avente effetti esclusivamente obbligatori, sia per il principio di relatività del titolo contrattuale, ma soprattutto laddove il terzo vanti una posizione giuridica soggettiva attiva nei confronti della PA all’ostensione degli atti negoziali. A fronte di tale posizione giuridica soggettiva di tipo attivo, corrisponde in capo alla PA quella di obbligo di ostensione nei modi e nelle forme previste in tema di bilanciamento in concreto tra interesse all’ostensione ed interesse alla riservatezza.
Quindi l’esistenza di un interesse alla riservatezza commerciale di una controparte contrattuale, ancorché fatto proprio dalla PA (allo scopo di ottenere risparmi di spesa conseguenti a concessioni della controparte che, in assenza di tale clausola, non avrebbe accettato) con l’accettazione di una clausola di riservatezza, non può rappresentare tout court legittimo motivo di diniego dell’istanza di un terzo all’ostensione dell’atto negoziale senza cioè svolgere uno scrutinio in concreto tra gli opposti interesse mediante lo svolgimento di un giudizio di bilanciamento degli stessi ai sensi dell’art 5 del GDPR ferma restando la supremazia dell’interesse all’ostensione.
Ciò, in quanto all’esito del cennato giudizio di bilanciamento, la PA può concedere l’ostensione ai documenti richiesti adottando gli accorgimenti valutati in concreto adeguati a contemperare gli opposti interessi.
Pertanto, non si può condividere, per le ragioni ut supra esplicate, la sentenza de qua nella parte in cui il Consiglio di Stato ha statuito che “Tale clausola deve ritenersi valida e vincolante in relazione agli interessi commerciali
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dell'impresa controinteressata, in quanto utile all'ottenimento dei risparmi conseguiti, con la conseguenza della opponibilità ai fini della preclusione all’accesso da parte dell’operatore economico che potrebbe avvalersi a fini concorrenziali della conoscenza delle condizioni economiche praticate. L'apposizione della clausola di riservatezza operante nei rapporti con le imprese, consente al negoziatore pubblico di tenere celati i risultati economici raggiunti nella negoziazione (C.d.S., sez. III, 17.3.2017, n.1213)”.
L’inammissibilità, in senso assoluto, della clausola di riservatezza quale limite al diritto di accesso risulta ancor più evidente nell’ipotesi – diversa da quella oggetto di thema decidendum della sentenza de qua – di cui all’art. 24, comma 7, alla stregua della quale l’interesse alla riservatezza risulterebbe comunque recessivo rispetto alla finalità dell’interesse all’ostensione teso alla cura e alla difesa di propri interessi giuridici.
In definitiva, nei confronti di una istanza di accesso di atti negoziali della PA, a prescindere dalla sussistenza o meno di una clausola di riservatezza, la PA ha un dovere di valutare in concreto l’ostensibilità o meno dell’atto negoziale, effettuando un bilanciamento degli opposti interessi anche alla luce del principio di minimizzazione dei dati di cui all’art 5 del GDPR, senza poter opporre un diniego in via automatica, ancorché fondato su una clausola di riservatezza che non può che avere effetti obbligatori tra le parti peraltro limitatamente all’ambito dei comportamenti liberi e non di quelli imposti ex lege.
NOTA A TAR LAZIO, ROMA – SEZIONE SECONDA, SENTENZA 15 gennaio 2021, n. 610
Rito appalti: onere dell’interessato di proporre motivi aggiunti, pena l’inammissibilità
Di SARA TURZO
Premessa
La Sezione Seconda del Tar Lazio, con la sentenza n. 610 pubblicata il 15 gennaio 2021, ha dichiarato inammissibile, ai sensi e per gli effetti dell’art. 35, comma 1, lett. b) c.p.a., l’impugnazione, promossa con autonomo e separato ricorso, di “nuovi” atti o provvedimenti di una procedura di gara, già interessata da un contenzioso medio tempore instaurato, poiché l’art. 120, comma 7 c.p.a. configura come doveroso l’utilizzo dello strumento dei motivi aggiunti. Il fatto.
La Società ricorrente, premesso di aver partecipato alla procedura di gara indetta dalla stazione appaltante per l’affidamento dei servizi alla gestione integrata della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro per le pubbliche amministrazioni, impugnava, domandone l’annullamento, previa la concessione di idonee misure cautelari, il provvedimento di aggiudicazione del Lotto n. 4.
Tuttavia – ed è questo il punto cruciale – la società istante con ricorso, ancora pendente, incardinato dinanzi al TAR
Lazio, aveva (già) impugnato sia il provvedimento di esclusione dai lotti nn. 1, 2, 3, 4, 6, 7, 9, che quello di escussione delle relative cauzioni provvisorie.
Le considerazioni del TAR Lazio.
Il Collegio romano, che già in sede di camera di consiglio, ravvisava, ai sensi e per gli effetti dell’art. 73, comma 3, c.p.a., la possibile definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto, alla luce della chiara formulazione della disposizione recata dall’art. 120, comma 7, c.p.a., secondo cui “i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti”.
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Il Tar Lazio, richiamata la regola generale sulla facoltà della proposizione dei motivi aggiunti disciplinata dall’art. 43 c.p.a, ha evidenziato come, di contro, nel rito c.d. appalti, tale possibilità sia stata espressamente esclusa dal legislatore per lasciare posto al dovere, che va inteso quale onere a carico dell’interessato, di proporre motivi aggiunti. Allo stesso modo, per evidenti ragioni di garanzia del contraddittorio, il giudicante ha evidenziato come debba ritenersi preclusa la possibilità per il giudice, qualora “i nuovi atti” fossero stati impugnati con ricorso autonomo e separato, di provvedere alla riunione dei ricorsi ai sensi dell’articolo 70 c.p.a.
Peraltro, ha precisato il Collegio, l’aver individuato quale unico mezzo di tutela idonea per gravare gli atti della procedura di gara adottati nel corso di un giudizio già instaurato costituisce una scelta del legislatore, assunta nell’esercizio dell’ampia discrezionalità di cui gode nel conformare i mezzi di tutela delle posizioni sostanziali della parte (art. 24,103 e 113 Cost.) che appare improntata nel rispetto dei canoni di ragionevolezza ed adeguatezza (Corte Costituzionale 25 giugno 2019, n. 160).
In mancanza di una specifica sanzione regolatrice la violazione dell’art. 120, comma 7 c.p.a., il Tar Lazio è giunto ad affermare l’inammissibilità ai sensi e per gli effetti dell’art. 35, comma 1 lett. b) c.p.a. del ricorso “autonomo e separato” nell’ambito delle controversie sugli “atti delle procedure di affidamento … relativi a pubblici lavori, servizi o forniture”, all’esito di un’attività ermeneutica svolta alla luce degli ordinari criteri di interpretazione letterale, logica e sistematica,
Sotto il profilo letterale, il giudicante ha evidenziato come l’art. 120, comma 7 c.p.a. preveda chiaramente e in forma cogente che tutti i nuovi atti che riguardano la medesima procedura di gara “devono” essere impugnati con “ricorso per motivi aggiunti”.
Sotto il profilo logico, il Collegio ha affermato come la prescrizione normativa mira a concentrare nell’ambito del medesimo processo in cui è all’esame una procedura di gara tutti i gravami impugnatori, comunque e da chiunque proposti, che riguardano la medesima procedura. Il Tar Lazio ha infatti sottolineato come la disposizione sia strumentale al conseguimento del più ampio obiettivo perseguito dal legislatore con la disciplina del rito sugli appalti ossia garantire l’accelerazione della definizione dei giudizi che riguardano il settore delle commesse pubbliche che rappresenta un fondamentale volano per l’intera economia nazionale. inoltre, mira ad assicura la tempestiva ed utile cognizione del Collegio, nell’ambito di un unico giudizio, sull’intera controversia concernente la procedura di gara. Difatti, chiarisce il Tar Lazio, la concentrazione dei mezzi di ricorso in un solo giudizio evita la frammentazione dei gravami che sovente accompagnano l’indizione di gare contraddistinte da un significativo numero di lotti, consentendo così al giudice di adottare tempestivamente ogni decisione utile, anche in sede cautelare, a tutela dell’interesse delle parti e, soprattutto, dell’interesse pubblico generale sotteso alla conclusione della procedura. Sotto il profilo sistematico, il Collegio ha da ultimo rilavato come la regola generale dell’obbligo di proporre motivi aggiunti è in linea con una serie di altre regole processuali che gli artt. 119 e 120 c.p.a. (recentemente modificato dall’art. 4 del D.L. 76/2020) dettano in deroga a quelle generali sul processo e che hanno come destinatari sia gli operatori del diritto che il giudice.
Alla luce di quanto sopra, il Collegio ha configurato l’impiego da parte del ricorrente di un mezzo processuale diverso rispetto a quello stabilito dall’ordinamento come una delle cause di inammissibilità ai sensi dell’art. 35, comma 1 lett. b) c.p.a., secondo cui “il giudice dichiara, anche d'ufficio, il ricorso: […] b) inammissibile quando è carente l'interesse o sussistono altre ragioni ostative ad una pronuncia sul merito”.
Tale previsione, ha chiarito il giudicante, costituisce clausola generale, aperta, di natura processuale, nell’ambito della quale il giudice può individuare in base all’ordinamento ragioni d’inammissibilità (“altre ragioni”) che, benché non codificate dal legislatore, siano accomunate dall’effetto di escludere (“ostative”) comunque la possibilità di pervenire ad una “pronuncia sul merito”.
Brevi riflessioni a margine della pronuncia
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Con la pronuncia in commento, il Tar Lazio, nel ribadire che il legislatore, con l’articolo 120, comma 7 c.p.a., (che riprende quanto in precedenza stabiliva l’art. 245, comma 2 – septies del d.lgs. 163/2006, inserito dall’art. 8 del d.lgs. n. 53 del 2010), ha inteso stabilire in via generale e in forma espressa che tutti i “nuovi” atti o provvedimenti che riguardano la “medesima” procedura di gara, già interessata da un contenzioso medio tempore instaurato, “devono” essere impugnati esclusivamente con “ricorso per motivi aggiunti”, ha colto l’occasione per consacrare il c.d. rito appalti quale rito ordinario nelle procedure di affidamento relative a pubblici lavori, servizi o forniture. Il Collegio romano, infatti, ha espressamente evidenziato come la regola generale dell’obbligo di proporre motivi aggiunti sia in linea con una serie di regole processuali e di natura sostanziale che caratterizzano in modo sistematico e non episodico il c.d. rito appalti.
NOTA A CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE QUINTA, SENTENZA 13 gennaio 2021, n. 425
Rilevanza dei protocolli di legalità nelle procedure di gara ed esclusione del concorrente
Di ANTONELLO FIORI
1. Con la recente sentenza depositata lo scorso 13 gennaio 2021, n. 425, la Quinta sezione del Consiglio di Stato ha chiarito che l’esclusione dalla gara per violazione degli obblighi assunti con la sottoscrizione del patto di legalità o integrità è compatibile con il principio di tassatività delle clausole di esclusione disciplinato dall’art. 83, comma 8, del d.lgs. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici).
2. Com'è noto, con l’espressione protocolli di legalità/patti di integrità si fa riferimento a quegli accordi con cui le Stazioni appaltanti assumono l’obbligo di inserire nei bandi e negli altri atti di indizione di gare, quale condizione per la partecipazione, l’accettazione preventiva, da parte degli operatori economici, di determinate clausole intese alla prevenzione, al controllo e al contrasto delle attività criminali, nonché alla verifica della sicurezza e della regolarità dei luoghi di lavoro60
A loro volta, nei medesimi protocolli è specularmente stabilito l’obbligo, gravante in capo ad ogni impresa partecipante ad una procedura di affidamento di un pubblico contratto, di rendere una dichiarazione, sottoscritta dai legali rappresentanti, recante vari impegni (declinati analiticamente negli stessi protocolli) da assumere nei confronti della Stazione appaltante61
60 Definizione data dall’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici (Determinazione n. 4/2012 par. 3). Come riferisce
SAITTAF., Informative antimafia e protocolli di legalità, tra vecchio e nuovo,in Riv. trim. app.,n.2,2014,425,iprotocolli di legalità traggonooriginedalpatto di integrità sviluppato negli anni ’90 delsecolo scorso da Transparency International Italia per aiutare il Governo italiano nella lotta alla corruzione nel settore degli appalti pubblici. Sono strumenti volti a compensare meccanismi legislativi a volte incompleti e/o funzioni di controllo e repressione spesso lente e inefficaci. 61 Sui protocolli di legalità nelle procedure ad evidenza pubblica si rimanda, tra i tanti contributi in dottrina, a VINTI S., I protocolli di legalità nelle procedure di evidenza pubblica e il giudice amministrativo come nuovo protagonista nelle politiche anticorruzione, in GiustAmm.it, 2016, fasc. 2, 14 ss.; MARTELLINO G., I Patti d’Integrità in materia di contratti pubblici alla luce della recente giurisprudenza comunitaria e dell’evoluzione normativa, in Appaltiecontratti.it, 2016; SPARTÀ S., Protocolli di legalità. Sviluppo dei modelli nel tempo, in L. GALESI (a cura di) Appalti pubblici e sindacato. Buone pratiche contro mafia e illegalità, Roma, 2015.
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3. La finalità di tali pattuizioni è, in sostanza, quella di ampliare e rafforzare l’ambito di operatività delle misure di prevenzione e di contrasto al fenomeno delle infiltrazioni della criminalità organizzata e, più in generale, alle diffuse forme di illegalità nel settore degli appalti pubblici62
Come più volte evidenziato dal costante orientamento giurisprudenziale, mediante la sottoscrizione delle clausole inserite nei protocolli di legalità l’impresa concorrente accetta regole che rafforzano comportamenti già doverosi per coloro che sono ammessi a partecipare alla gara e che prevedono, in caso di violazione di tali doveri, sanzioni di carattere patrimoniale, oltre alla conseguenza, comune a tutte le procedure concorsuali, della estromissione dalla gara63 (tra gli impegni in questione, ricorrono, ad esempio, quello di comunicare i contratti eventualmente stipulati con terzi per l’esecuzione del contratto, quello di segnalare ogni condotta sospetta o richiesta estorsiva, quello di collaborare fattivamente con le Forze di polizia, etc.64).
L’accettazione del protocollo/patto di integrità da parte dei concorrenti comporta, quindi, l’ampliamento dei loro obblighi nei confronti della stazione appaltante da un duplice punto di vista:
- temporale: gli impegni assunti dalle imprese rilevano sin dalla fase precedente alla stipula del contratto di appalto;
- contenutistico: si richiede all’impresa di impegnarsi, non solo alla corretta esecuzione del contratto di appalto, ma ad un comportamento leale, corretto e trasparente, sottraendosi a qualsiasi tentativo di corruzione o condizionamento dell’aggiudicazione del contratto65
4. Con riferimento al carattere cogente delle clausole contenute nei protocolli di legalità (o patti di integrità) nonché agli effetti derivanti dalla mancata accettazione o violazione delle prescrizioni ivi contenute, viene in rilievo la disposizione di cui all’art. 1, comma 17, della legge 6 novembre 2012, n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», a mente della quale «le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara».
In particolare, con la suddetta disposizione sono state recepite a livello normativo le prassi negoziali adottate dalle stazioni appaltanti sull’utilizzo dei protocolli di legalità66 ed è stata, al contempo, generalizzata la possibilità di utilizzare tali strumenti per ogni tipologia di appalto pubblico67 .
62 Sul punto, si rimanda a NITTI G.M., Note sui protocolli di legalità, per la promozione di condotte etiche nei pubblici appalti, in Federalismi - Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, n. 2/2019, 10, ove si precisa che la diffusione dei protocolli di legalità - non solo come accordi tra stazioni appaltanti e privati, ma anche tra pubbliche amministrazioni (che si impegnano a loro volta a farli sottoscrivere dalle imprese partecipanti alle gare d’appalto bandite) - si deve, tra l’altro, all’esigenza di intensificare l’effettività della tutela nell’ambito del contrasto all’illegalità nei settori di pubblico interesse, laddove i tradizionali strumenti previsti dalla legislazione in materia di appalti pubblici e dal Codice Antimafia non sempre sono sufficienti.
63 Cfr. Cons. St., sez. VI, 8 maggio 2012, n. 2657; Cons. St., sez. VI, 9 settembre 2011, n. 5066; Cons. St., sez. V, 6 aprile 2009, n. 2142; Cons. St., sez. V, 24 marzo 2005, n. 1258.
64 Cfr. C.G.A. per la Regione Siciliana, 2 settembre 2014, n. 490.
65 In tal senso, Cons. Stato, sez. V, 26 ottobre 2020, n. 6458; Cons. Stato, sez. V, 5 febbraio 2018, n. 722.
66 In tal senso, FRONTONI M., Contratto e Antimafia, Il percorso dai «Patti di legalità» al rating legalità, G. Giappichelli Editore, 36 Torino, 2016, 10.
67 I protocolli di legalità/patti d’integrità hanno tratto origine dalla prassi amministrativa nel settore delle c.d. “grandi opere”, ove si è ritenuto necessario estendere il campo degli accertamenti antimafia rispetto alle regole generali Art. 9, comma 3, e art. 15, comma 5, del D. Lgs. n. 190/2002, di attuazione della Legge n. 443/2001 (successivamente trasfusi nell’art. 176, comma 3, e nell’art. 180, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 e, attualmente, nell’art. 194, comma 3, e nell’art. 203 del d.lgs. n. 50/2016). Prima dell’introduzione del summenzionato art. 176 del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, interrogatosi sulla portata cogente dei protocolli di legalità - era pervenuta ad una risposta
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A tale previsione - con l’obiettivo di intensificare l’effettività della tutela della legalità nel settore degli appalti pubblici, mettendolo al riparo dal pericolo di penetrazioni mafiose - si è affiancato, di recente, l’art. 83-bis, del d.lgs. n. 159/2011, introdotto dall’articolo 3, comma 7 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120, il quale, al comma 3, stabilisce che «Le stazioni appaltanti prevedono negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisce causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto».
Con tale disposizione è stato pertanto introdotto nel Codice antimafia lo strumento dei protocolli di legalità sottoscritti dal Ministero dell’interno con i soggetti individuati dall’art. 83 dello stesso Codice e con imprese di rilevanza strategica per l’economia nazionale nonché con associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale di categorie produttive, economiche o imprenditoriali, al fine di estendere le misure di prevenzione amministrativa antimafia, previste dalla vigente legislazione, anche a fattispecie eccedenti - sotto il profilo oggettivo e/o soggettivo - quelle prese in considerazione dalla legge68. La recente innovazione legislativa ha inoltre introdotto l’obbligo per le stazioni appaltanti di prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto dei protocolli di legalità costituisca causa di esclusione dalla gara o di risoluzione del contratto69
5. La previsione di cui all’art. 1, comma 17, della cennata legge n. 190/2012, concernente la possibilità per le stazioni appaltanti di inserire nella lex specialis di gara delle clausole di esclusione per il caso di mancato rispetto od accettazione delle regole contenute nei protocolli di legalità o nei patti d’integrità, si è tuttavia posta in contrasto con un altro principio generale in materia di appalti pubblici: il principio di tassatività delle cause di esclusione (attualmente previsto dall’art. 83, comma 8, del Codice dei contratti, in continuità con il previgente art. 46, comma 1bis70, del d.lgs. n. 163/2016 il quale statuisce la nullità delle previsioni della legge di gara recanti cause di esclusione ulteriori e diverse rispetto a quelle normativamente fissate71).
sostanzialmente affermativa (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 2006, n. 1053; Cons. Stato, Sez. V, 8 febbraio 2005, n. 343; Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2004, n. 4789). In ordine all’attività svolta dalle Prefetture-Uffici Territoriali del Governo con riguardo alla promozione e implementazione dei protocolli di legalità, si rimanda a FIORI A., Strumenti di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione: protocolli di legalità e patti di integrità. Profili normativi, prassi e proposte operative, ruolo delle Prefetture, in culturaprofessionale.interno.gov.it, 2017.
68 L’art. 83-bis del d.lgs. n. 159/2011, recependo quanto suggerito dal Consiglio di Stato, sez. III, con la sentenza 20 gennaio 2020, n. 452, ha dato un fondamento normativo ai protocolli che, già da tempo, il Ministero dell’interno stipula con le associazioni di categoria, consentendo così la possibile estensione anche ai rapporti tra privati della disciplina sulla documentazione antimafia. Sulle statuizioni contenute nella suddetta sentenza, v. SCAFURI A., Interdittive antimafia e Protocolli di legalità. La legittimazione alla richiesta di documentazione antimafia deve ritornare al privato, in Il Diritto Amministrativo - Rivista giuridica, n. 1/2020.
69 Le due disposizioni hanno ambiti di applicazione diversi: la prima introduce una previsione facoltativa nell’ambito della normativa volta alla prevenzione e al contrasto dei fenomeni di criminalità organizzata, la seconda si inserisce nell’ambito delle disposizioni volte alla prevenzione e alla repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione, introducendo una previsione obbligatoria (così ANAC - Delibera 22 dicembre 2020, n. 1120, p. 4)
70 Disposizione che, si ricorda, era stata introdotta dall’art. 4 comma 2 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2011 n. 106,
71 In particolare, la suddetta disposizione stabilisce che «i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle». Come ha ricordato anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella decisione n. 9 del 25 febbraio 2014, tale principio è volto a favorire la massima partecipazione alle gare, attraverso il divieto di un aggravio del procedimento, e «mira a correggere quelle soluzioni, diffuse nella prassi (amministrativa e forense), che sfociavano in esclusioni anche per violazioni puramente formali» (in tal senso, Cons. di Stato, sez. V, 11 dicembre 2019, n. 8429; Cons. di Stato, sez. V, 21 giugno 2016, n. 2722; Cons. di Stato, sez. III, 1 luglio 2015, n. 3275).
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Con riferimento al principio de quo, di ispirazione comunitaria, la giurisprudenza ha costantemente sostenuto che lo stesso è espressione del principio del “favor partecipationis” e, poiché incidente sulla libertà di iniziativa economica, tutelata dall’art. 41 della Costituzione, oltre che dai Trattati dell’Unione Europea, le cause di esclusione delle gare sono solo quelle “normative”, in quanto previste dalla specifica disciplina in materia di appalti pubblici, o in altre disposizioni di legge, senza possibilità di estensione analogica72 .
Al riguardo, per quanto qui di interesse, è stato affermato che la previsione della specifica potestà di esclusione di cui all’art. 1, comma 17, legge 190/2012 non contrasta con il principio in esame, dal momento che l’articolo 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006 (oggi ripreso all’articolo 83, comma 8, del d.lgs. 50/2016) considera legittima la generalità delle esclusioni disposte in base alle leggi vigenti, nel cui novero rientra, appunto, anche la legge n. 190/201273
6. Al fine di meglio comprendere il percorso argomentativo seguito dai Giudici amministrativi nella sentenza in commento, è opportuno riportare, seppur brevemente, i fatti oggetto della specifica vicenda processuale.
Una società di costruzioni ha partecipato ad una procedura di gara per l’affidamento dell’appalto dei lavori relativi agli “interventi di manutenzione sul tratto urbano della Via Francigena” (parte del «Piano organico e coordinato degli interventi per il XXXXXXXXXXX»), indetta da Roma Capitale, risultando la prima classificata all’esito della valutazione delle offerte.
Tuttavia, in sede di verifica e controllo dei requisiti soggettivi e di capacità economico- finanziaria, la predetta società veniva esclusa, essendo emersa la sussistenza di ragioni ostative alla stipulazione contrattuale, ai sensi dell’art. 2 del protocollo di intesa tra la Prefettura - U.T.G. di Roma e Roma Capitale74. Contestualmente, il contratto veniva quindi aggiudicato al concorrente secondo classificato.
All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale amministrativo per il Lazio, con sentenza 10 giugno 2019, n. 7544, ha ritenuto infondate le censure mosse dalla predetta società, rilevando l’adeguatezza ed esaustività della motivazione dell’esclusione, alla luce dalla documentazione istruttoria depositata in atti da Roma Capitale.
72 Cfr. Cons. di Stato, sez. V, 11 dicembre 2019, n. 8429; Cons. di Stato, sez. III, 11 febbraio 2013, n. 768; TAR Trieste, 6 giugno 2017, n. 202; T.A.R. Lombardia (Milano), sez. IV, 12 gennaio 2017, n. 208.
73 In tal senso, Cons. di Stato, Sez. V, 31 agosto 2015, n. 4042. In tale occasione, i giudici di Palazzo Spada hanno tuttavia precisato che il richiamo operato dalla legge n. 190/2012 alle esclusioni applicative delle previsioni dei protocolli di legalità o patti di integrità si presenta del tutto indeterminato, con il risultato di far apparire la norma di legge recante tale richiamo come una sorta di precetto in bianco. Da qui la necessità, affinché il rispetto del canone della tassatività delle cause di esclusione non sia solo formale, di sottoporre le regole dei c.d. protocolli di legalità o patti d’integrità a un’interpretazione rigorosa, all’insegna dell’attento rispetto della lettera e, soprattutto, della ratio che le contraddistingue, in coerenza con il principio comunitario di proporzionalità. Sulla questione e, più in generale, sulla compatibilità dell’art.
1, comma 17, della Legge n. 190/2012 al diritto europeo, ha avuto modo di pronunciarsi, in sede di rinvio pregiudiziale, anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la pronuncia del 22 ottobre 2015 (C-425/14). Per un puntuale commento alla pronuncia della C.G.U.E. (C-425/14) si rimanda, tra gli altri a: VINTI S., Protocolli di legalità e diritto europeo, in Gior. dir. Amm., n. 3, 2016, p. 318 ss.; CRAVERO C., Protocolli di legalità o Patti di Integrità: la compatibilità con il diritto UE della sanzione di esclusione automatica dell’operatore economico inadempiente, in Giur.it., n. 6, 2016, p. 1459 ss.
74 In particolare, ai sensi dell’art. 2 del protocollo di legalità, costituiva motivo di esclusione, l’accertamento nei confronti «dell’imprenditore o dei componenti la compagine sociale o dei dirigenti d’impresa con funzioni specifiche relative all’affidamento, alla stipula o all’esecuzione del contratto sia stata disposta misura cautelare o sia intervenuto rinvio a giudizio per taluni dei delitti». Nel dettaglio, all’esito delle suddette verifiche e dall’acquisizione del certificato dei carichi pendenti di uno dei soci della società, erano emersi diversi provvedimenti di rinvio a giudizio e sentenze penali di condanna (anche se non definitive), per fatti di corruzione e turbativa d’asta (delitti ricompresi nell’ambito di quelli puntualmente specificati nell’art. 2 del protocollo di legalità).
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La società esclusa ha proposto quindi appello, chiedendo la riforma della sentenza.
A sostegno del gravame, l’appellante ha censurato, tra l’altro, la legittimità dell’art. 2 del protocollo di legalità per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83 del Codice dei contratti pubblici, nel caso in cui la clausola del protocollo fosse interpretata in modo difforme dal suo tenore letterale e dalla sua ratio75
7. I giudici di Palazzo Spada, nell’esaminare la fondatezza delle censure, si soffermano, dunque, sulla legittimità del provvedimento di esclusione disposto dalla stazione appaltante per la violazione, da parte del concorrente, delle clausole previste nel protocollo di legalità.
Più segnatamente, in linea con gli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, il Consiglio di Stato ha ribadito che le previsioni contenute nei protocolli di legalità o di integrità, stipulati ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 6 novembre 2012 n. 190, recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», laddove configurino specifiche cause di esclusione dalla procedura di gara, sono idonee (data la base giuridica fondata sulla norma di rango legislativo) ad integrare il catalogo tassativo delle cause di esclusione contemplate dal Codice dei contratti pubblici, specie laddove il disciplinare di gara richieda che i concorrenti presentino le dichiarazioni di accettazione di un “protocollo di integrità”, impegnandosi a rispettarne integralmente i contenuti.
Invero, nella procedura di gara in questione, il disciplinare richiedeva che i concorrenti presentassero le dichiarazioni di cui al modulo denominato “Altre dichiarazioni da rendere e documentazioni da allegare richieste dal bando e dal disciplinare di gara”, tra le quali era inserita l’espressa accettazione del protocollo di integrità di Roma Capitale, approvato con deliberazione della Giunta Capitolina n. 40 del 27 febbraio 2015, impegnandosi a rispettarne integralmente i contenuti.
Il Collegio evidenzia, in particolare, che la clausola di cui all’art. 2 del protocollo consentiva, nel caso di specie, l’esclusione dalla procedura di gara, sia - in linea di fatto - con riferimento alla situazione del socio (nei confronti del quale è stata provata l’adozione di provvedimenti di rinvio a giudizio e di condanna, anche se non definitiva, per uno dei delitti di cui all’art. 2 del protocollo); sia - in linea di diritto - sulla scorta della estensione soggettiva degli effetti collegati alla clausola, testualmente riferiti alla intera «compagine sociale».
Alla luce delle cennate argomentazioni, è stato pertanto avvallato l’operato dell’Amministrazione Capitolina, il cui provvedimento di esclusione dalla gara della società ricorrente è stato ritenuto legittimo.
NOTA A CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 aprile 2021, n. 6
In materia di occupazione cd. Acquisitiva, il giudicato civile sull’estinzione per prescrizione del diritto di risarcimento per equivalente preclude la proposizione della domanda di risarcimento in forma specifica in un successivo giudizio amministrativo.
Di DANIELA D'AMICO
75 In particolare, secondo l’appellante, la clausola di cui al cennato art. 2 non poteva essere estesa a comprendere anche gli amministratori cessati ovvero i soci attuali o cessati che non rivestono alcuna funzione specifica in relazione all’affidamento del contratto, così come non poteva essere estesa a considerare condotte penali poste in essere in altre procedure di gara o relative a contratti diversi da quello oggetto della gara per la quale il protocollo è stato predisposto e sottoscritto.
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SOMMARIO: 1. Vicenda processuale e ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato n. 6531/2020; 2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria; 3. Conclusioni.
1. Vicenda processuale e ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato n. 6531/2020.
Il Supremo Consesso adito parte dalla ricostruzione della vicenda processuale, in quanto la ritiene funzionale allo scopo di comprendere meglio gli approdi ermeneutici e i principi di diritto ai quali giunge il medesimo.
Nel dettaglio, con decreto del Presidente della Giunta regionale della Sardegna n. 5/1199/249 del 18 luglio 1977, l’ente ospedaliero Ospedali Riuniti Cagliari veniva autorizzato ad occupare d’urgenza dei terreni di proprietà di soggetti privati per la realizzazione del Nuovo Ospedale Civile.
Al decreto di occupazione d’urgenza, tuttavia, non faceva seguito il provvedimento finale d’esproprio, pur in presenza dell’effettiva utilizzazione e della trasformazione delle aree, attestata dalla conclusione dei lavori avvenuta entro il termine finale di occupazione delle aree del 1° settembre 1983.
In ragione di ciò, l’Azienda U.S.L. n. 21 di Cagliari, succeduta ex lege agli Ospedali Riuniti, approvava, con delibera dell’amministratore straordinario gli schemi di un accordo bonario di cessione volontaria delle aree già occupate per la realizzazione dell’ospedale in questione.
Tuttavia tale deliberazione, a causa delle riscontrate difficoltà di finanziamento, veniva in seguito annullata con provvedimento dello stesso amministratore straordinario.
Con atto di citazione notificato il 24 giugno 1999, gli eredi di una dei proprietari dei terreni occupati convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale ordinario di Cagliari, l’Azienda sanitaria locale chiedendo: in via principale, la condanna al pagamento delle somme indicate nell’atto di transazione per la cessione dei terreni in questione; in via subordinata, nell’ipotesi in cui la transazione non fosse riconosciuta vincolante e opponibile, la condanna dei suddetti enti al pagamento della somma corrispondente al valore di mercato dei terreni illegittimamente occupati oltre al risarcimento del danno patito e patiendo; in via alternativa alle conclusioni subordinate che precedono, al risarcimento del danno patito e patiendo anche secondo equità; in ogni caso, la condanna degli enti alla corresponsione della indennità conseguente alla patita occupazione abusiva.
Con la sentenza n. 2860 del 22 novembre 2006, il Tribunale ordinario di Cagliari respingeva la domanda principale e dichiarava prescritto il diritto al risarcimento del danno.
La sentenza, non impugnata, passava in giudicato.
Gli eredi dell’originaria proprietaria, con ricorso depositato il 3 settembre 2018, adivano il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna e, in ragione della protratta occupazione dei terreni sine titulo, chiedevano: accertarsi l’illegittima occupazione dei terreni di proprietà dei ricorrenti e condannarsi le amministrazioni resistenti, eventualmente anche in solido, al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino, ed alla corresponsione dei danni conseguenti alla illegittima occupazione, con rivalutazione ed interessi legali
Il TAR, con la sentenza n. 408 del 13 maggio 2019, in applicazione del cd. primato della ragione più liquida, accoglieva l’eccezione di giudicato sollevata dalle amministrazioni resistenti in relazione alla citata sentenza n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari.
Avverso tale sentenza gli originari ricorrenti proponevano appello, deducendo un unico complesso motivo, rubricato violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 del Codice Civile. Erroneità nei presupposti di fatto e normativi. Violazione e/o falsa applicazione di legge, T.U. delle Espropriazioni, in particolare assumendo la diversità della
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domanda proposta nel giudizio civile rispetto a quella proposta nel presente giudizio e il conseguente erroneo accoglimento dell’eccezione di giudicato.
Nella sostanza, a dire degli appellanti, mentre essi all’epoca della proposizione della domanda dinanzi al giudice civile – per la prassi nazionale e il diritto vivente costituito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (a partire dalla sentenza Sez. Un. n. 1464/1983) – potevano chiedere non la restituzione del bene, ma unicamente il risarcimento del danno per equivalente, attualmente, per effetto del mutato quadro normativo e giurisprudenziale, potrebbero finalmente proporre la domanda di restituzione del bene, che nulla avrebbe a che vedere – attesa la diversità di petitum e causa petendi – con quella risarcitoria proposta in sede civile, precisando, altresì, che la domanda restitutoria, configurandosi sostanzialmente in una azione di rivendicazione, non è soggetta ad alcun termine di prescrizione
All’esito dell’udienza pubblica del 9 luglio 2020 la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, investita della causa d’appello, ha pronunciato l’ordinanza n. 6531/2020, con la quale, ai sensi dell’art. 99, comma 1, c.p.a., ha rimesso la causa all’Adunanza plenaria sulle seguenti questioni:
a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla occupazione appropriativa o accessione invertita
sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;
b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla occupazione appropriativa ovvero se a tali fini sia sufficiente che
in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;
c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio, per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);
d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente).
La Sezione rimettente rileva che la soluzione della questione presuppone:
- per un verso, la corretta definizione del rapporto tra le due forme di tutela esperite nei due giudizi, tenendo, altresì, conto dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello – la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, nella domanda di applicazione dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo disciplinato da tale disposizione;
- per altro verso, stante un contrasto all’interno della giurisprudenza Consiglio di Stato, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale, per l’effetto della presa di
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posizione della C.EDU, sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulo di immobili da parte della pubblica amministrazione, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia nuova rispetto a quella decisa dal giudice civile;
- per altro verso ancora, il rapporto tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’Adunanza Plenaria adita chiarisce, in via immediata, che la soluzione delle questioni rimesse non può che passare attraverso l’interpretazione della suddetta sentenza civile n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari e l’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato formatosi su tale sentenza, rimasta inoppugnata e quindi divenuta irrevocabile.
Più in generale, si tratta di risolvere la questione se, e in presenza di quali presupposti, il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto (ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione in pristino.
In primo luogo, il Supremo Collegio osserva che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa e civile, l’interpretazione del giudicato formatosi su una sentenza civile pronunciata a definizione di un giudizio ordinario di cognizione, va effettuata alla stregua non soltanto del dispositivo della sentenza, ma anche della sua motivazione: infatti, il contenuto decisorio di una sentenza è rappresentato, ai fini della delimitazione dell’estensione del relativo giudicato, non solo dal dispositivo, ma anche dalle affermazioni e dagli accertamenti contenuti nella motivazione, nei limiti in cui essi costituiscano una parte della decisione e risolvano questioni facenti parte del thema decidendum (v. in tal senso, ex plurimis, Cons Stato, Sez. III, 16 novembre 2018, n. 6471; Cass. civ., Sez. 1, 8 giugno 2007, n. 13513; Cass. civ., Sez. 2, 27 ottobre 1994, n. 8865).
La posizione della giurisprudenza, condivisa dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria in commento per ragioni di economia processuale e di garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici, è attestata su una concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, per cui il giudicato sostanziale ex art. 2909 c.c si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi gli accertamenti in fatto e in diritto, i quali rappresentino le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico della pronuncia finale, spiegando, quindi, la sua autorità non solo sulla situazione giuridica soggettiva fatta valere con la domanda giudiziale (cd. giudicato esplicito), ma estendendosi agli accertamenti che si ricollegano in modo inscindibile con la decisione e ne formano il presupposto, così da coprire tutto quanto rappresenta il fondamento logico-giuridico della statuizione finale (cd. giudicato implicito).
In particolare, il giudicato implicito si estende anche alla questione pregiudiziale di merito rispetto ad altra di carattere dipendente su cui si sia formato il giudicato esplicito, senza che a tal fine sia necessaria la proposizione, in via principale o riconvenzionale, di una domanda di parte volta a trasformare la questione pregiudiziale in causa pregiudiziale ai sensi dell’art. 34 c.p.c., allorché la seconda sia legata alla prima da un nesso di dipendenza così indissolubile da non poter essere decisa senza la preventiva decisione di quella pregiudiziale.
Ciò, a condizione che dalla sentenza emerga che gli aspetti del rapporto su cui verte la questione pregiudiziale abbiano formato oggetto di una valutazione effettiva, il che, ad esempio, è da escludere allorquando la decisione sia stata adottata in applicazione del cd. primato della ragione più liquida e la soluzione della causa sia basata su una o più questioni assorbenti, oppure si sia in presenza di un obiter dictum privo di relazione causale con il decisum (Cass.
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2. Pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
Civ., Sez. 1, Sentenza n. 5264 del 17/03/2015; Cass. civ., Sez. 3, 8 ottobre 1997, n. 9775; Cass. n. 7140/2002; Cass. n. 11672/2007; Cass. civ., Sez. 3, Sentenza 8 novembre 2006, n. 23871).
L’Adunanza Plenaria precisa che l’individuazione, in modo più o meno estensivo, dell’oggetto del processo e del giudicato si riflette, oltre che su una serie di altri istituti processuali (quali la litispendenza, la continenza, la competenza, la connessione, il regime delle impugnazioni, ecc.), anche su quello della modificazione della domanda (nelle forme della mutatio o della emendatio libelli), nel senso che, quanto più si estendono i limiti oggettivi del giudicato, tanto più ampia dovrà essere concepita la facoltà di modifica delle domande in corso di giudizio. In tale prospettiva, la condivisa concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato su un piano generale appare senz’altro coerente con il principio richiamato nell’ordinanza di rimessione, per il quale – nel caso di occupazione illegittima del terreno da parte dell’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità di convertire la domanda nel corso del giudizio e quindi di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, sebbene basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a una posizione di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale) proposte in origine.
Al tal proposito la sentenza in esame chiarisce che l’operatività di tale principio presuppone che la questione sia ancora sub iudice e non si sia formato un giudicato sull’una o l’altra delle domande proposte e sulle eventuali questioni pregiudiziali, per cui lo stesso non ha modo di influire sul giudizio de quo, il quale è connotato dalla già intervenuta formazione del giudicato civile di rigetto della domanda risarcitoria per equivalente del danno da perdita della proprietà.
Procedendo in applicazione delle evidenziate coordinate ermeneutiche alla individuazione dei limiti oggettivi del giudicato formatosi sulla sentenza n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari, il Supremo Consesso osserva che:
- nel percorso motivazionale di detta sentenza, la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà, per intervenuta prescrizione quinquennale, si fonda sulla ricostruzione della fattispecie dedotta in giudizio a sostegno della pretesa risarcitoria in termini di cd. occupazione acquisitiva;
- nel contempo, la sentenza esclude espressamente la configurabilità della cd. occupazione usurpativa, inidonea a modificare il regime proprietario del bene illegittimamente occupato e trasformato dall’amministrazione in assenza di dichiarazione di pubblica utilità valida ed efficace, ed integrante un illecito permanente;
- l’accertamento – effettivo e specifico – del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva costituisce, nell’iter motivazionale della sentenza civile all’esame, un passaggio logico necessario per qualificare l’occupazione illegittima e la trasformazione irreversibile del bene come illecito istantaneo (ad effetti permanenti) ed individuare il dies a quo del termine di prescrizione quinquennale alla data di scadenza del termine dell’occupazione legittima (nella specie, scaduto il 1° settembre 1983), e per affermare la trasformazione del regime proprietario. Il giudicato si è, dunque, formato, oltre che sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione (oggetto immediato della statuizione finale), anche sul perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e sui relativi effetti di estinzione della proprietà sul suolo in capo all’originaria proprietaria e di acquisizione della proprietà sullo stesso bene in capo all’amministrazione costruttrice, in quanto antecedenti logici necessari della statuizione finale (oggetto mediato).
In ordine a tale ultimo punto, come evidenziato ab initio dall’Adunanza Plenaria, risulta irrilevante ai fini della configurabilità del giudicato implicito sul regime proprietario scaturito dalla cd. occupazione acquisitiva la mancata adozione, nella sentenza e nel relativo dispositivo, di una formale ed espressa statuizione sul trasferimento del bene
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in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente la presenza della statuizione nel corpo della motivazione della pronuncia.
Passando all’esame dell’effetto preclusivo scaturente da tale giudicato sulla domanda risarcitoria in forma specifica proposta nel presente giudizio, la sentenza in commento premette, in punto di qualificazione dell’azione restitutoria/riparatoria qui esercitata, che gli odierni appellanti sin dalle conclusioni del ricorso dinanzi al TAR, riproposte in appello, hanno chiesto la condanna delle amministrazioni resistenti al risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino, con ciò in modo chiaro e univoco proponendo azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento dei danni in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c., e non già azione (di natura reale e petitoria) di rivendicazione ex art. 948 c.c., errando le parti ricorrenti e appellanti nell’affermazione della sostanziale assimilazione della prima azione alla seconda.
Trattasi, invero, di azioni diverse per causa petendi e petitum, ancorché dirette al raggiungimento dello stesso risultato pratico di recuperare la disponibilità materiale del bene: con l’azione di rivendicazione, di carattere reale, petitorio e reipersecutorio/ripristinatorio, l’attore agisce contro chi di fatto possegga e detenga la res, sia al fine di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà sia al fine di recuperare l’eadem res, a prescindere dall’accertamento di un illecito; l’azione di reintegrazione in forma specifica è, invece, un rimedio risarcitorio finalizzato alla rimozione delle conseguenze derivanti dall’evento lesivo tramite la produzione di una situazione materiale e giuridica corrispondente a quella che si sarebbe realizzata se non fosse intervenuto il fatto illecito produttivo del danno, il cui accoglimento è subordinato al ricorrere dei presupposti della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., cui si aggiungono i limiti della possibilità e della non eccessiva onerosità per l’autore dell’illecito previsti dall’art. 2058 c.c.
Il TAR, nell’accogliere l’eccezione di giudicato, ha qualificato le pretese fatte valere nel giudizio de quo come sostanzialmente identiche a quelle fatte valere dinanzi al giudice civile ed ivi dichiarate prescritte, e quindi come pretese di natura risarcitoria.
Tale qualificazione della domanda non è stata impugnata con un motivo specifico d’appello. Sulla qualificazione della domanda sub specie di azione (personale e obbligatoria) di risarcimento in forma specifica si è, dunque, formato il giudicato interno.
Più nel dettaglio, in relazione al rapporto tra l’azione di risarcimento in forma specifica (esercitata nel giudizio amministrativo) e l’azione di risarcimento dei danni per equivalente (respinta con il giudicato civile), l’Adunanza Plenaria osserva che si tratta di due rimedi in rapporto di concorso alternativo, diretti all’attuazione dell’unico diritto alla reintegrazione della sfera giuridica lesa che trova la sua fonte nella medesima fattispecie di illecito, con la particolarità che l’effetto programmato dalla norma al verificarsi della fattispecie si determina, nel suo specifico contenuto, con riguardo alla scelta compiuta dal titolare circa l’una o l’altra forma di tutela.
L’alternatività dei due rimedi trova conferma nella consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, formatasi in sede di giurisdizione esclusiva con specifico riferimento a fattispecie di occupazione illegittima del bene da parte della pubblica amministrazione, che consente la scelta in corso di giudizio per una delle due modalità, qualificandola come ammissibile emendatio libelli anziché come vietata mutatio (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, nn. 306/2014 e 3331/2011).
Pertanto, pur completandosi la fattispecie multipla con la proposizione della domanda e con l’opzione esercitata dall’attore a favore dell’una o dell’altra forma di tutela, il diritto rimane unico, come unica rimane la posizione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio, con la conseguenza che il giudicato di rigetto della prima domanda (nella specie, quella di risarcimento per equivalente) preclude una nuova azione sulla seconda (nella specie, quella di risarcimento in forma specifica). L’Adunanza Plenaria statuisce ancora che la domanda di risarcimento in forma specifica è, altresì, preclusa in ragione dell’incompatibilità indiretta con il giudicato formatosi sul regime proprietario
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del bene richiesto in restituzione, in particolare sull’effetto acquisitivo, nella logica dell’istituto dell’occupazione appropriativa, determinatosi in capo all’amministrazione costruttrice dell’opera pubblica, presupponendo invero l’azionabilità del diritto al risarcimento dei danni in forma specifica (tramite domanda di rilascio previa rimessione in pristino) la titolarità della proprietà del bene leso in capo all’attore, incompatibile con il giudicato implicito formatosi sul perfezionamento della fattispecie dell’acquisto della proprietà a titolo originario in capo all’amministrazione. Ulteriore tematica affrontata dal Supremo Collegio, ancorché non rilevante ai fini della decisione, ma pur sempre da esaminare dall’ Adunanza Plenaria nell’esercizio della sua funzione nomofilattica attesa la stretta connessione con l’oggetto delle questioni deferite con l’ordinanza di rimessione, è se il detto giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio di un’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001. Infatti, l’esito di accoglimento dell’eccezione di giudicato non muterebbe neppure, qualora gli appellanti avessero proposto azione reale di rivendicazione ex artt. 948 c.c., in quanto anche l’esercizio dell’azione di rivendica da parte del privato nei confronti dell’amministrazione è precluso in ragione della incompatibilità diretta del diritto di proprietà fatto valere con l’azione di rivendicazione rispetto al diritto di proprietà acquisito dall’amministrazione oggetto dell’accertamento passato in giudicato.
Non diversamente, anche l’eventuale azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio della pubblica amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001 sarebbe impedita dalla trasformazione del regime proprietario (oggetto di giudicato); tale istituto, a norma del comma 8, è sì applicabile ai fatti anteriori, ma trova comunque il suo limite nei rapporti esauriti, quali quelli definiti con autorità di cosa giudicata (Corte Cost. n. 71/1995; Ad. plen., n. 2/2016).
L’ Adunanza Plenaria rileva, altresì, che, nella fattispecie concreta sub iudice, sussisteva la possibilità per la proprietaria (e successivamente per i suoi eredi) di proporre l’azione risarcitoria per equivalente entro il termine di prescrizione quinquennale decorrente dalla scadenza del periodo di occupazione legittima, essendo l’overruling della Corte di cassazione, con la pronuncia della sentenza Sez. Un. n. 1464 del 26 febbraio 1983, intervenuto addirittura prima della data di decorrenza del termine prescrizionale (1° settembre 1983), ed avendo la giurisprudenza anche negli anni immediatamente successivi ripetutamente affermato il principio per cui il dies a quo andava individuato al momento della irreversibile trasformazione del fondo rispettivamente alla scadenza del periodo di occupazione legittima, con la conseguenza che, nella specie, la proprietaria dante causa degli appellanti aveva anche la concreta possibilità di impedire il compimento del termine di prescrizione attraverso eventuali atti interruttivi.
Il Supremo Collegio rimarca, inoltre, che, nelle more del giudizio di primo grado svoltosi dinanzi al Tribunale ordinario di Cagliari (instaurato nel 1999 e concluso nel 2006), sono intervenute le prime sentenze della Corte EDU (v. le sentenze 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera s.r.l. c. Italia; 15 e 29 luglio 2004, Scordino c. Italia; 19 maggio 2005, Acciardi c. Italia; 15 luglio 2005, Carletta c. Italia), oltre alle prime pronunce nazionali (quale, ad es., A.P. n. 2/2005), che hanno affermato il contrasto dell’istituto della cd. occupazione acquisitiva e di ogni forma di cd. espropriazione indiretta con la Convenzione EDU, sicché la parte privata ben avrebbe potuto (e dovuto, secondo criteri di ordinaria diligenza) impugnare la sentenza di primo grado facendo valere il sopravvenuto mutamento del quadro giurisprudenziale.
Quanto alla questione relativa alla forza di resistenza del giudicato nazionale in caso di eventuale contrasto con il diritto dell’Unione Europea, pure accennata dall’ordinanza di rimessione, la sentenza in commento osserva che la questione è irrilevante ai fini della decisione della controversia, in quanto: in primo luogo, la disciplina del regime di proprietà, in cui deve ritenersi compresa la disciplina dell’espropriazione pubblica e della proprietà pubblica, a norma del combinato disposto degli artt. 4, comma 1, e 5, comma 2, TUE e 345 TFUE esula dalle competenze attribuite all’Unione e appartiene dunque alla competenza degli Stati membri, salvi eventuali profili di violazione del principio
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fondamentale di non discriminazione e del diritto di stabilimento; in secondo luogo, ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2, TUE, l’adesione dell’Unione alla Convenzione EDU non modifica o estende le competenze dell’Unione definite nei Trattati.
Ad ogni modo, la Corte di giustizia UE ha ripetutamente sottolineato l’importanza che il principio dell’autorità di cosa giudicata riveste sia nell’ordinamento giuridico comunitario sia negli ordinamenti giuridici nazionali, rilevando che il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione (v. ex plurimis, sentenza 11 settembre 2019, causa C676/17, con ulteriori richiami; Corte giust., 16 marzo 2006, causa C-234/04; 1° giugno 1999, causa C-126/97), salva l’ipotesi, assolutamente eccezionale, di discriminazione tra situazioni di diritto europeo e situazioni di diritto interno, ovvero di pratica impossibilità o eccessiva difficoltà di esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento europeo. Per quanto, invece, attiene alla problematica individuata dall’ordinanza di rimessione del giudicato civile in contrasto con il diritto convenzionale della CEDU, l’Adunanza Plenaria rileva che, con riferimento al caso sub iudice, gli eredi dell’originaria proprietaria, non impugnando la sentenza di primo grado del Tribunale ordinario di Cagliari, non hanno esaurito i rimedi processuali interni, con la conseguente mancata integrazione della condizione imprescindibile per la legittimazione a ricorrere alla Corte EDU, né, tantomeno, hanno adìto la Corte entro il termine di decadenza di sei mesi dalla pronuncia nazionale definitiva di ultima istanza, stabilito dall’art. 35, comma 1, della CEDU. In assenza di una pronuncia della Corte EDU sulla controversia decisa con la sentenza nazionale passata in giudicato, non può, quindi, porsi la questione concreta circa l’obbligo di esecuzione ai sensi dell’art. 46 della Convenzione e di disapplicazione diretta del giudicato civile formatosi inter partes
Il Supremo Collegio osserva, inoltre, che, premesso che, a differenza di quanto accade per il diritto eurounitario, il giudice comune nazionale non può disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la CEDU, dovendo invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la seconda non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 123/2017 e n. 93/2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a.. e 395 e 396 c.p.c. (per il processo amministrativo) e degli artt. 395 e 396 c.p.c. (per il processo civile), censurati per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, comma 1, CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU.
La Corte Costituzionale ha escluso la sussistenza di un obbligo convenzionale generale di riapertura dei processi, diversi da quelli penali, allorquando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza della Corte EDU di accertamento della violazione.
La sentenza in commento afferma, dunque, che deve scartarsi la possibilità di una riapertura generalizzata dei processi
siano essi civili che amministrativi – definiti con sentenza passata in giudicato, nelle quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della cd. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati. Alla luce delle considerazioni tutte sopra svolte, in risposta ai primi due quesiti deferiti all’Adunanza Plenaria devono essere formulati i seguenti principi di diritto:
(i) In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e
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reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001.
(ii) Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto
Restano assorbiti gli ulteriori quesiti, presupponenti la mancata formazione del giudicato sul regime proprietario del bene; presupposto negativo, nella specie da escludere.
3. Conclusioni.
La pronuncia n. 6/2021 dell’Adunanza Plenaria è una pronuncia complessa e ricca di contenuti che affronta, come visto, una serie di questioni soprattutto processuali, ma anche sostanziali alquanto interessanti.
La prima questione è quella relativa ai limiti oggettivi del giudicato, per la quale il Supremo Collegio condivide la tesi estensiva che ricomprende nel giudicato la decisione sia sul petitum immediato che su quello mediato, con la conseguenza che il giudicato copre anche le questioni che siano qualificabili come antecedenti logico-giuridici della questione principale della sentenza, verificandosi tale circostanza anche quando non vi è enunciazione della statuizione sull’oggetto mediato nel dispositivo della sentenza, ma solo nel corpo della motivazione della medesima sentenza.
La seconda questione di cui si occupa la pronuncia esaminata è quella afferente alla mera alternatività dei rimedi risarcitori in forma equivalente e in forma specifica a tutela del medesimo diritto al risarcimento del danno subito per effetto dell’atto illecito altrui, con l’effetto che il giudicato formatosi sull’una preclude la proposizione dell’altra in un successivo e differente giudizio.
La terza questione che chiariscono i giudici di Palazzo Spada, in ossequio alla funzione nomofilattica del Supremo Collegio, attiene alla statuizione per cui le azioni di risarcimento in forma specifica, di rivendicazione e avverso il silenzio per la mancata adozione del provvedimento di cui all’art. 42-bis D.P.R. n. 327/2001 presuppongono tutte la titolarità del diritto di proprietà sul bene e, pertanto, non sono proponibili laddove sia intervenuto un giudicato sulla trasformazione del regime proprietario.
Altra questione oggetto di attenzione di tale pronuncia è quella corrispondente ai rapporti tra diritto interno e diritto eurounitario e convenzionale, chiarendo: da un lato, che il regime della proprietà, in cui rientra anche la materia dell’espropriazione per pubblica utilità, non costituisce appannaggio della competenza legislativa dell’UE e che le norme interne che regolano il giudicato non possono essere disapplicate dal giudice nazionale, tranne le eccezioni che individua la stessa giurisprudenza della CGUE, riportata dall’Adunanza; dall’altro, che non sussiste l’obbligo di una riapertura generalizzata dei processi – siano essi civili che amministrativi – definiti con sentenza passata in giudicato per conformarsi ad una sentenza della C.EDU, nelle quali sia stata fatta applicazione dell’istituto pretorio della cd. occupazione acquisitiva, e di una disapplicazione dei relativi giudicati.
Oltre a tali statuizioni di notevole importanza per il giudizio de quo e per gli interpreti tutti, il Supremo Consesso afferma la sussistenza della concreta possibilità degli attori sia di notificare l’originario atto di citazione entro il termine di prescrizione (ricorrendo anche ad eventuali atti interruttivi per evitare il compimento del termine prescrizionale) sia il potere-dovere di impugnare la sentenza di primo grado del G.O. proprio per rilevare il mutato
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assetto normativo e, soprattutto, giurisprudenziale sulla questione oggetto del giudizio, nel pieno rispetto dell’ordinaria diligenza.
Pertanto, i giudici dell’Adunanza Plenaria tornano, ancora una volta, a riconoscere grande importanza alla diligenza, rientrante nel più generale dovere di correttezza e buona fede, che trova il suo fondamento normativo nel dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.
NOTA A TAR TOSCANA – SEZIONE TERZA, SENTENZA 9 novembre 2020, n. 1377 L’ambiguità organica dell’ordinamento italiano riguardo alle concessioni demaniali marittime
Di GIULIO PROFETA
1. Premesse.
La sentenza del TAR Toscana n. 1377 del 2020, seppur sintetica, non può che suscitare interesse per l’interprete sia da un punto di vista processuale, dato che definisce una controversia nata sulla base di un’azione di accertamento connotata dalle originali finalità, sia da uno sostanziale, offrendo alcuni spunti di discussione in ordine alle concessioni demaniali marittime.
Ai fini, tuttavia, di una sua piena comprensione, è necessario sintetizzare il travagliato sviluppo del relativo contesto normativo, da anni oggetto di intensa attenzione, per ragioni opposte e diverse, dal Legislatore e dai Giudici.
2. Il contesto giuridico proprio delle concessioni demaniali marittime.
La tensione, se non vera e propria contrapposizione, tra potere Legislativo, sia statale che regionale, e quello giudiziario si fonda su di un antagonismo intrinseco tra la tradizione dell’ordinamento italiano, incline a preservare la posizione giuridica del concessionario uscente a scapito degli interessi di altri operatori economici, e l’assetto di quello sovranazionale, seguito dalla giurisprudenza e permeato dall’esigenza di favorire la massima apertura alla concorrenza.
La discrasia citata attiene, quindi, ad una differente concezione su come perseguire l’interesse generale sotteso alla presenza di operatori economici sul demanio marittimo.
Se, infatti, il sistema legale italiano aveva aderito ad un’impostazione in cui la cristallizzazione dei rapporti economici in favore dei privati già operanti sul demanio marittimo era stata considerata la più idonea a garantire la continuità negli investimenti e, in definitiva, il miglioramento costante dell’arenile, basti pensare alla carenza di un vero e proprio obbligo di comparazione ai fini dell’assegnazione della concessione, alle frequenti proroghe nella loro durata ed al cosiddetto diritto di insistenza, scolpito dall’allora articolo 37 del Codice della Navigazione e consistente nella preferenza accordata ai precedenti gestori in caso di concorso di più domande76, quello Europeo, in coerenza
76 Il modello italiano risente notevolmente delle elaborazioni teoriche di Massimo Severo Giannini, il quale per primo teorizzò come la presenza di operatori privati sul demanio marittimo prevenisse l’incuria e contribuisse al perseguimento dell’interesse generale. Si veda M.S GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 58. Sul punto, anche E. BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, in Urbanistica e Appalti, fascicolo 11, anno 2016, p. 1219, secondo cui “Il Codice della Navigazione riserva ampio spazio alla disciplina dell’istituto concessorio, prefigurato quale mezzo per indirizzare i beni alla loro funzione prioritaria perseguibile attraverso la mediazione di soggetti dotati della necessaria capacità tecnicoimprenditoriale e finanziaria” e M. D’ORSOGNA, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, in Urbanistica e Appalti, fascicolo 5 del 2011, pp. 606 e sgg. Sul diritto di insistenza, è bene rammentare come la giurisprudenza amministrativa già lo avesse in larga parte minimizzato, interpretandolo nei termini
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con i suoi Trattati Istitutivi, ha ritenuto che la concorrenza sia lo strumento elettivo con cui si possa sviluppare l’economia e preservare i cittadini da privilegi in capo a poche imprese77
La netta antinomia normativa, prima confinata solo a livello teorico, emerse pienamente in termini pratici a seguito dell’approvazione della cosiddetta direttiva Bolkestein 2006/123/CE, così chiamata dal nome dell’allora Commissario al mercato interno Frederik Bolkestein, tesa a fornire a tutti gli Stati membri un corpo di disposizioni omogenee sulle attività qualificabili come servizi ai sensi del diritto Europeo, al fine di garantire effettività al principio della libertà di stabilimento sancito dall’articolo 43 del Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea.
Questo indirizzo legislativo si è trasposto per i servizi quali quelli esercitati sul demanio marittimo, contraddistinti da una scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche necessarie per il loro espletamento, nella formulazione dell’articolo 12 della direttiva, con cui si è elaborato il principio della selezione competitiva del concessionario, nel rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e pubblicità, dei candidati potenziali78
Proprio per garantire effettività ai principi delineati, il paragrafo successivo dell’articolo 12 ha specificato come l’autorizzazione oggetto della selezione pubblica dovesse sottostare ad una durata limitata ed adeguata, con esplicita esclusione di procedure di rinnovo automatico o di altri vantaggi imputabili al prestatore uscente79; inoltre, per
di un diritto di prelazione e non come un vero e proprio diritto soggettivo posto a tutela del concessionario uscente, si legga la sentenza Consiglio di Stato, VI Sezione, n. 168 del 2005, in cui si afferma che “Reputa in definizione il Collegio che un’interpretazione comunitariamente orientata di detto istituto porti a subordinarne l’esplicazione al rispetto dei presupposti dati:
a) dall’effettiva equipollenza delle condizioni offerte dal concessionario e dagli altri aspiranti sul piano della rispondenza agli interessi pubblici (vedi Cons. Stato, sezione V, decisione 27 settembre 2004, n. 27.9.04. n- 6267 );
b) dalla idonea pubblicizzazione della procedura relativa al rinnovo, in guisa da consentire alle altre imprese interessate la conoscenza del presupposto notiziale necessario al fine di esplicare, in una logica di par condicio effettiva, le chance concorrenziali in contrapposizione al titolare della concessione scaduta o in scadenza; c) dalla necessità di depurare, nei limiti possibili, la procedura dai fattori di vantaggio rivenienti in capo al concessionario dalla titolarità della concessione ovvero dalla titolarità di altro rapporto concessorio funzionalmente collegato al primo”. Sulla posizione della giurisprudenza amministrativa sull’interpretazione del diritto di insistenza, E. BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., p. 1224, G. BALOCCO, La concessione demaniale marittima tra diritto interno e principi comunitari, in Giurisprudenza italiana, Febbraio 2011, pp. 444 e sgg., M D’ORSOGNA, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, cit., p. 607 e C.ANGELONE –GSILINGARDI, Il demanio marittimo, rassegna sistematica di giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1999.
77 L’ordinamento Europeo, a precisa vocazione sostanzialista, è edificato sull’assunto secondo cui le deroghe alla concorrenza dovrebbero essere sempre motivate da un interesse pubblico e giustificate caso per caso, dato che il libero mercato risulta essere il mezzo principe con cui ad un tempo si coltivano gli interessi dei consumatori, ad altro quello dell’economia, mediante un suo progressivo efficientamento. Oltre all’influsso culturale di Giannini, già analizzato, un’altra ipotesi plausibile dietro la differente prospettiva italiana può anche essere stata la carenza di un vero e proprio mercato delle concessioni demaniali marittime contendibile da parte dei privati, dal momento che queste attività sono state per lungo tempo nel nostro Paese esercitate da imprese familiari, come ricorda A.MONICA, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunit., Fascicolo 2, anno 2013, pp. 440. Infine, un altro profilo di divergenza sempre maggiore sta divenendo la stessa visione del demanio marittimo: l’ordinamento Europeo, come segnalato da E.BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., pp. 1221 e sgg., è indirizzato sempre più a valorizzare la gestione integrata delle zone costiere, limitando l’impatto delle attività antropiche; come ricorda A. MONICA, ibidem, questa dinamica, in Italia, si presta ad intense resistenze, basti pensare come la costa italiana sia lunga circa 7.000 Km, rappresentando il 35% del territorio della costiera europea, fornendo occupazione a 100.000 persone.
78 Il 62esimo Considerando della Direttiva enuncia in termini di obiettivi politici lo stesso intento normativo perseguito dalla disposizione.
79 Come sottolineato in dottrina, si veda E. BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., p. 1223, la logica può essere descritta nei termini di una concorrenza per il mercato, dato che l’acquisizione della concessione si risolve, in termini pratici,
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riservare agli Stati membri un margine di discrezionalità nella ricezione della direttiva, l’ultimo paragrafo ha enucleato una serie di variabili suscettibili di essere prese in considerazione nella definizione dei criteri di aggiudicazione delle procedure ad evidenza pubblica80
In più occasioni, il Legislatore italiano è stato obbligato a conformarsi al contenuto della direttiva n. 123 del 2006, sviluppando, tuttavia, un costante atteggiamento ribellista, tradottosi in frequenti interventi tendenzialmente contraddittori e oscillanti.
Il primo elemento ad essere posto in discussione fu, con la procedura di infrazione n. 2008/4908, il diritto di insistenza, incompatibile con la libertà di stabilimento tutelata a monte dall’articolo 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, il precedente articolo 43 TCE, ed a valle dalla direttiva Bolkestein, più esattamente dal principio della parità di trattamento racchiuso all’articolo 12, declinato non solo nel divieto di ogni discriminazione basata sulla cittadinanza, ma anche nella preclusione in ordine all’applicazione di criteri in grado di costituire un beneficio indiretto solo in favore di alcune categorie di operatori economici81
Il Legislatore statale provò, a quel punto, a risolvere il contrasto creatosi sopprimendo, all’articolo 1 comma XVIII del D.L. n. 194 del 2009 “milleproroghe”, il diritto di insistenza, da un lato facendo salva una proroga delle concessioni al 2012, in seguito differita al 2015 e poi al 2020, dall’altro introducendo un meccanismo di rinnovo automatico per il futuro82; peraltro, il corpus normativo derogatorio così modellato per le concessioni demaniali marittime diveniva vero e proprio “paradigma generale”, esteso dal D.L. n. 194 del 2009 alle concessioni lacuali e fluviali con finalità non solo “turistico-ricreative”, ma anche “ad uso pesca, acquacoltura ed attività produttive ad essa connesse, e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto” 83
nell’esercizio di un’attività economica su un’area, quella demaniale, scarsa rispetto alle potenziali domande da parte dei privati. Sulla concorrenza per il mercato, M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2020, p. 371.
80 La tecnica legislativa, d’altronde, appare coerente con la natura dell’atto Europeo, ovvero di una direttiva atta ad armonizzare le discipline nazionali.
81 E. BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., pp. 1224, V. SQUARATTI, L’accesso al mercato delle concessioni delle aree demaniali delle coste marittime e lacustri tra tutela dell’investimento ed interesse transfrontaliero certo, in European Papers, vol. 2, anno 2017, pp. 768 e sgg., e R. RIGHI ED E. NESI, Riflessioni sull’applicazione della Direttiva servizi alle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative, accessibile sul sito http://www.studiolegalepn.it/, p. 7. In particolare, secondo la Commissione Europea, il diritto di insistenza attribuiva un vantaggio indiretto per i concessionari uscenti e, quindi, agli operatori economici italiani. Il tema è stato evidenziato soprattutto da R. TRUDU, La nuova “proroga” delle concessioni demaniali marittime deve essere disapplicata, in Azienditalia, fascicolo 6, anno 2019, pp. 893 e sgg e A. MONICA, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, cit., p. 440. Da altro angolo di visuale, lo strumento della proroga si presta, inoltre, ad essere lesivo anche del principio di pubblicità, risolvendosi sostanzialmente in un procedimento amministrativo interno privo di contraddittorio con altri soggetti diversi dall’istante.
82 Di questo atto, si possono mettere in luce almeno due aspetti prettamente riconducibili alla tecnica di formulazione legislativa: in primo luogo, la concertazione con le Regioni deriva dall’intreccio delle potestà fra Stato centrale, a cui è riconosciuta la tutela della concorrenza, e quelle regionali. Sul tema dell’orientamento della giurisprudenza costituzionale negli intrecci di questa natura, cfr. R. BIN, in La leale cooperazione nella giurisprudenza costituzionale più recente, in “Il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni” Roma, Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, 6 aprile 2017, pp. 1 e sgg. Inoltre, il meccanismo della proroga era assicurato, nei fatti, mediante il rinvio, introdotto in sede di conversione, all’articolo 1, comma II del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494.
83 La considerazione secondo cui la concessione demaniale marittima ad uso turistico-ricreativo è divenuta un paradigma generale a natura derogatoria delle ordinarie concessioni è stata elaborata da E. BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., p. 1225.
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La scelta di politica legislativa non poteva che essere avversata in sede europea, dove fu approvata la lettera di messa in mora complementare n. 2374 del 2010, con cui si intimò all’Italia l’eliminazione di ogni misura, come la proroga automatica, con la quale, direttamente o indirettamente, si violasse la libertà di stabilimento degli operatori economici84
Nuovamente, il Legislatore italiano ritornò sui propri passi e con la legge n. 217 del 2011, ovvero la legge comunitaria per il 2010, fu abrogato all’articolo 11 il meccanismo di rinnovo automatico, determinando la chiusura della procedura di infrazione.
Frattanto, il confronto fra i due ordinamenti si estese anche all’ambito regionale, che aveva assunto la potestà legislativa e le funzioni amministrative in merito alle concessioni demaniali marittime a seguito dell’emissione del D. Lgs. n. 112 del 1998 e della revisione del Titolo V della Costituzione, con cui fu introdotta, contribuendo anche a frammentare la nozione di bene demaniale85, una logica di statualità policentrica in luogo di una accentrata86
Le Regioni, a loro volta, iniziarono a promulgare leggi con cui cercarono, con varie sfumature e condizioni87, di restaurare il rinnovo automatico del rapporto concessorio88, ma la Corte costituzionale, avvalendosi delle medesime argomentazioni sviluppate in sede Europea, censurò tutti questi tentativi, dichiarando incostituzionali le leggi per violazione sia dei vincoli derivanti dall’ordinamento sovranazionale, sia della tutela della concorrenza.
84 Per la Commissione Europea, le proroghe alla durata della concessione determinavano un sostanziale ripristino del diritto di insistenza, dato che finivano col risolversi con una chiusura del mercato ad operatori diversi e distinti da quelli già presenti cittadini italiani.
85 Ciò ha indotto la dottrina a parlare di vera e propria “crisi funzionale” della nozione di demanio marittimo, si veda A. MONICA, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, cit., p. 439; in termini simili, E.BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., p. 1220. Sulla tendenza avvenuta negli anni Novanta e sui riflessi generati dal processo di decentramento amministrativo, S. LICCIARDELLO, Demanio marittimo ed autonomie territoriali, cit., pp. 273 e sgg. Nel caso, specifico, delle concessioni demaniali marittime, la loro disciplina fu attribuita, dall’articolo 105 comma II lettera l) del D. Lgs. n. 112 del 1998 alle Regioni, anche se già con il D. Lgs. n. 96 del 1999, all’articolo 42, fu stabilito che le relative funzioni amministrative, fino all’entrata in vigore di ogni legge regionale, dovessero essere espletate dai Comuni. Ad oggi, l’impianto regolatorio più frequente vede le Regioni titolari della potestà normativa e i Comuni preordinati all’esercizio dell’attività amministrativa di rilascio delle concessioni.
86 Come evidenziato in dottrina, l’originario ruolo Statale dipese dalle finalità militari e di difesa a cui era preordinato il demanio marittimo, anche materialmente posto quale confine dello Stato nazionale; questo determinava una “disciplina giuridica rigida, assolutamente inadeguata per rispondere alle sollecitazioni di una utilizzazione in chiave turistico ricreativa”, tanto da essere messa in discussione già con l’istituzione delle Regioni nel 1970, cfr. G. LAMI, Le attività turistico ricreative sul demanio marittimo: le conseguenze giuridiche e procedimentali per l’utilizzo del bene pubblico in relazione al trasferimento di funzioni ed i suoi riflessi sulle attività imprenditoriali, in Le concessioni demaniali marittime tra passato presente e futuro, (a cura di G. LAMI), Exeo edizioni, Sant’Angelo di Piove di Sacco, Padova, 2010. Nel medesimo senso, E.BOSCOLO, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime [Nota a sentenza: Corte di Giustizia UE, sez.V, 14 luglio 2016, causa C-67/15, cit., pp. 1219 e sgg., che enuclea il concetto di “logica paradominicale” dello Stato nei confronti del demanio marittimo e M. D’ORSOGNA, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, cit., pp. 603 e sgg. Infine, S. LICCIARDELLO, Demanio marittimo ed autonomie territoriali, in A. POLICE (a cura di), I beni pubblici: tutela, valorizzazione e gestione, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 266 e sgg. fa risalire le prime aperture alle competenze dei Comuni già a partire dagli anni Sessanta, dato che la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 1963 attestò come le concessioni demaniali marittime a finalità turistiche esulassero dalle competenze statali, tenute ferme per esigenza di difesa e sicurezza.
87 La formula più ricorrente nella prassi è quella secondo cui la proroga potesse essere estesa in base “all’entità degli investimenti realizzati e dei relativi ammortamenti”.
88 Per una precisa disamina sulle leggi regionali, si veda M D’ORSOGNA, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, cit., pp. 604 e sgg.
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A quel punto, rimasta solo la proroga delle concessioni ex lege stabilita dall’articolo 1 comma XVIII del D.L. n. 194 del 2009, nel 2014 prima il TAR Lombardia-Milano, poi quello della Sardegna con le ordinanze, rispettivamente, n. 2401 del 2014 e n. 224 del 2014 formularono rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia89
La sentenza 14 luglio 2016, aderendo all’impostazione dell’Avvocato generale M. Szpunar, ha statuito come “osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico-ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”.
In altri termini, per la Corte di Giustizia anche la proroga ex lege delle concessioni, sostanzialmente, comportava una violazione della libertà di stabilimento contemplata dai Trattati; peraltro, la particolare tecnica legislativa non poteva trovare riparo neppure, come giustificato dal Governo italiano durante la controversia, alla luce del paragrafo III dell’articolo 12 della direttiva Bolkestein, la quale consentiva deroghe al principio dell’assegnazione temporalmente delimitata, tramite gara pubblica, per motivi imperativi di interesse generale.
Quest’ultimi, infatti, non potevano ricorrere in modo indistinto, sovrapponendosi con una tutela del legittimo affidamento generalizzata e priva di una valutazione caso per caso90
Dopo una pronuncia così chiara, sembrava che la dialettica potesse concludersi nel senso di una piena apertura delle concessioni demaniali marittime alla concorrenza, secondo la logica europea, invece tempo pochi anni ed, ex novo, il Legislatore nazionale ha reinserito nella legge di bilancio 2019, la legge n. 145 del 2018, una estensione automatica delle concessioni demaniali marittime fino al 31 dicembre 2033, individuando lo strumento di un DPCM per le modalità di assegnazione delle future concessioni demaniali91 .
Infine, con il D.L. n. 104 del 2020, convertito nella legge n. 126 del 2020, il Legislatore nazionale ha, addirittura, espanso la disciplina contenuta nella legge n. 145 del 2018 anche alle “concessioni lacuali e fluviali”, seguendo la medesima impostazione assunta dal D.L. n. 194 del 2009, in base al quale il regime derogatorio previsto per le concessioni demaniali marittime può essere preso come modello per altre tipologie di concessioni demaniali92 .
89 M. MAGRI, <<Direttiva Bolkestein>> e legittimo affidamento dell’impresa turistico balneare: verso una importante decisione della Corte di Giustizia U.E. in Rivista Giuridica dell’Edilizia, fascicolo 4, anno 2016, p. 365 qualifica il rinvio pregiudizialecome“inatteso”,datochelalegittimitàdiunperiodotransitorioversolatotaleaperturaalmercato,apresidio del legittimo affidamento dei privati concessionari, del settore era stata valutata, implicitamente, come lecita dalla Commissione Europea con la chiusura della procedura di infrazione del 2010.
90 Per una disamina precisa sulla sentenza, vedesi C. ADDESSO- R. D’ALESSANDRO, Il litorale italiano ed il mercato europeo: la sentenza della Corte di Giustizia, Sezione Quinta, 14 luglio 2016, in cause riunite c-458/14 e c-67/15, su www.ildirittoamministrativo.it
91 Inquesto caso,si rivelaarduogiustificare la scelta legislativaalla lucedellanitidapronuncia Europeadel2016;peraltro, il dossier del servizio studi del Senato, accessibile al sito www.senato.it ed allegato al provvedimento legislativo, ricostruisce sommariamente anche tutto l’excursus delle vicissitudini fra l’ordinamento italiano e quello europeo, manifestando piena consapevolezza per i suoi esiti. Inoltre, la possibile tesi secondo cui la fissazione ex lege di un termine non si inquadri in una vera e propria proroga amministrativa, con conseguente compatibilità con le prescrizioni sovranazionali, appare difficilmente giustificabile, nella misura in cui la Corte di Giustizia aveva deliberato su di un meccanismo equiparabile a quello disposto dalla legge di bilancio per il 2019. Sulla proroga del 2018, R. TRUDU, La nuova “proroga” delle concessioni demaniali marittime deve essere disapplicata, cit., pp. 900 e sgg. e G. DALLA
VALENTINA, La proroga ope legis delle concessioni demaniali marittime dalla sentenza n. 1/2019 della Corte Costituzionale al Decreto Rilancio, in Forum di Quaderni Costituzionali, n. 3 del 2020, pp. 552 e sgg.
92 Il D.L. Rilancio n. 34 del 2020, convertito nella legge n. 77 del 2020, aveva già sospeso i termini per i procedimenti amministrativi inerenti alla nuova assegnazione delle concessioni demaniali marittime, nonché per i provvedimenti di riacquisizione del patrimonio pubblico delle aree demaniali. Sul punto, è anche vero che già il D.L. n. 18 del 2020 “Cura Italia”, convertito nella legge n. 27 del 2020, aveva introdotto all’articolo 103 la sospensione dei termini per tutti i procedimenti amministrativi.
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3. La pronuncia n. 1377 del 2020.
Come accennato, la sentenza n. 1377 del 2020 si presta, pur nella brevità delle sue argomentazioni, ad una duplice lettura, a carattere sia processuale, sia sostanziale.
Prima di addentrarsi nella sua analisi, per completezza si evidenzia come la vicenda sia stata riassunta presso il Giudice Amministrativo a seguito della sentenza n. 1725 del 2018 resa dalla seconda sezione del Tribunale civile di Firenze, che ha dichiarato il difetto della giurisdizione ordinaria sulla controversia.
3.1 Gli aspetti processuali della sentenza.
La domanda di parte ricorrente non è diretta, come si potrebbe pensare, all’impugnazione di un atto concessorio o il suo diniego, quanto e piuttosto all’accertamento della “proprietà superficiaria sui manufatti costruiti insistenti sulla proprietà demaniale, ovvero sull’arenile; il diritto all’indennizzo derivante dalla perdita <<delle utilità economiche tutte correlate alla titolarità della concessione demaniale marittima che saranno ex lege perdute allo spirare del periodo transitorio ex art. 1, comma 18, D.L. n. 194 del 2009 conv. in L. n. 25 del 2010 e succ. mod.. e integrazioni comprensive del valore delle opere immobiliari insistenti sulle relative concessioni demaniali nonché dell'avviamento e della proprietà commerciale delle relative aziende balneari”.
La pretesa, in altri termini, non si fonda sulla messa in discussione sul riconoscimento o meno di un rapporto concessorio, ma sulla sorte dei manufatti costruiti dal gestore uscente a proprie spese durante il naturale decorso di una concessione, non ancora esauritasi peraltro.
Per l’oggetto del ricorso, la giurisdizione sul tema, prima facie, si potrebbe considerare imputabile al Giudice ordinario, presso cui, in effetti, i ricorrenti avevano già promosso le relative azioni, dato che l’articolo 133 del codice del processo amministrativo comma I lettera b) elenca fra le materie oggetto di giurisdizione esclusiva quelle inerenti ai rapporti di concessione di beni pubblici con esclusione “delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche”.
La sentenza n. 1725 resa nel 2018 dal Tribunale di Firenze, Seconda Sezione, ha precisato, tuttavia, come le controversie inerenti a indennità sono attratte presso la giurisdizione del Giudice ordinario solo laddove rivestano “contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della P.A. a tutela di ipotesi generali, mentre restano nella giurisdizione amministrativa quelle che coinvolgano l'esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione del canone, dell'indennità o di altri corrispettivi”93
In casi quali quello di specie, è “coinvolta l'azione autoritativa della P.A. sul rapporto concessorio sottostante e viene esercitato il potere discrezionale valutativo nella determinazione del dovuto in quanto incidente sull'intera economia del rapporto concessorio”.
Acclarata la giurisdizione del giudice amministrativo, è doveroso prendere in esame la tipologia di azione processuale esercitata dai ricorrenti, ossia un’azione di accertamento.
A seguito della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2015, il nostro ordinamento ammette e ha fatto proprio il cosiddetto canone di atipicità delle azioni, per cui è consentita la facoltà di promuovere qualsiasi azione giurisdizionale se ciò risulta strumentale all’effettività della tutela giurisdizionale94
93 L’orientamento è consolidato ed è stato sviluppato da oltre un decennio, tanto che la pronuncia del Tribunale di Firenze n. 1725 richiama le sentenze della Cassazione a Sezioni Unite nn. 20939 e 24902 del 2011.
94 Cfr. Sentenza Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, per cui “A tale risultato non può del resto opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto corollario indefettibile dell'effettività della tutela è proprio il principio della atipicità delle forme di tutela”. Sull’ammissibilità di una generica azione di accertamento nel processo amministrativo, S. C. ZENNA, Il lungo cammino verso l'effettività della tutela: l'ammissibilità dell'azione di accertamento nel processo amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fascicolo 1, anno 2017, pp. 146 e sgg.
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Non è, a questo punto, da escludere come i ricorrenti abbiano deciso di esperire un’azione di accertamento non solo per farsi riconoscere, eventualmente, il diritto all’indennizzo per la costruzione di manufatti e di altre utilità sul demanio pubblico, ma anche per far dichiarare, di riflesso e indirettamente, la legittimità della proroga del rapporto concessorio disposta dalla legge n. 145 del 2018.
Questo avrebbe potuto determinare una sostanziale disapplicazione dei principi sviluppati dalla sentenza del 14 luglio 2016 della Corte di Giustizia in merito alla incompatibilità con il diritto sovranazionale delle proroghe attuate dal Legislatore italiano.
La risposta, tuttavia, dei Giudici amministrativi elude, a sua volta, questo ipotetico intento, rilevando la carenza dell’interesse a ricorrere richiesto, quale condizione generale dell’azione, dall’articolo 100 del codice del processo amministrativo.
Infatti, anche l’azione di accertamento, come tutte le azioni nel processo amministrativo, necessita ai fini dell’instaurazione del giudizio della presenza di un interesse a ricorrere, declinato, in questo caso particolare, nella negazione di una “posizione giuridica soggettiva vantata dall’Amministrato” da parte dell’Amministrazione95 . Inoltre, l’interesse a ricorrere, per giurisprudenza consolidata, deve possedere “i predicati della personalità (il risultato di vantaggio deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente), dell'attualità (l'interesse deve sussistere al momento del ricorso, non essendo sufficiente a sorreggere quest'ultimo l'eventualità o l'ipotesi di una lesione) e della concretezza (l'interesse a ricorrere va valutato con riferimento ad un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del ricorrente)”96
Orbene, a tal riguardo, il Collegio nella pronuncia eccepisce che “la lesione o il pregiudizio dedotto dalle società istanti è futuro ed eventuale, talché il ricorso va dichiarato inammissibile per carenza di quell’interesse certo, concreto e attuale che costituisce il necessario presupposto di ogni impugnativa”.
In altri termini, la negazione già evocata non può assumere nel caso di specie alcuna consistenza, dato che il pregiudizio del diritto di proprietà superficiaria o all’indennizzo oggetto della pretesa “non può verificarsi prima della cessazione delle concessioni demaniali di cui le ricorrenti sono titolari”
Per questa ragione, i Giudici emettono una sentenza di inammissibilità ai sensi dell’articolo 35 del codice del processo amministrativo.
3.2. La disciplina sostanziale ricavabile dalla pronuncia.
La sentenza di inammissibilità preclude ad un accertamento della pretesa sostanziale oggetto dell’azione dei ricorrenti, ovvero il riconoscimento della proprietà superficiaria sui manufatti insistenti sulla proprietà demaniale pubblica, con consequenziale attribuzione di un indennizzo a ristoro della perdita “delle utilità economiche tutte correlate alla titolarità della concessione demaniale marittima”, ma, comunque, fornisce alcuni spunti di discussione interessanti.
In relazione a pretese del genere, dovrebbe essere applicato l’articolo 49 del Codice della Navigazione, il quale afferma che le opere inamovibili edificate sulla zona demaniale, salvo non sia diversamente stabilito nel provvedimento concessorio, sono acquisite al termine della concessione dallo Stato senza compensi o rimborsi, salva la facoltà per l’autorità concedente di ordinarne la demolizione al privato con la restituzione del bene demaniale nello stato precedente, agendo, in tale evenienza, anche d’ufficio.
95 Sull’accezione dell’interesse a ricorrere nell’azione di accertamento, si veda la sentenza Consiglio di Stato, sez. IV, n. 3167 del 2015.
96 Si riscontra, anche in questo caso, una copiosa giurisprudenza. Solo per rimanere fra le ultime pronunce, si veda sentenza del Consiglio di Stato, IV Sezione, n. 1825 del 2020.
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La disposizione delinea, in sostanza, una forma speciale di accessione, con un meccanismo analogo a quello disposto dall’articolo 934 del Codice Civile, per cui la proprietà privata dei manufatti è attratta ed assorbita, fatte salve eccezioni contenute nel provvedimento di concessione, da quella del bene demaniale all’estinzione del rapporto
giuridico97
La richiesta di non applicare l’articolo 49 del Codice della Navigazione o di formulare rinvio pregiudiziale in sede Sovranazionale per valutare una sua compatibilità con l’ordinamento eurounitario è motivata dalla tesi, già argomentata in passato, secondo cui sarebbe possibile scindere in orizzontale l’assetto dominicale del demanio, con la riacquisizione da parte dello Stato da un lato gratuitamente del tratto di sedime demaniale oggetto della concessione, dall’altro in via onerosa dei manufatti costruiti dal gestore uscente. Infatti, la rendita economica delle concessioni demaniali deriverebbe non tanto dal bene pubblico in sé, quanto e piuttosto al complesso dei beni, ossia l’azienda privata, di cui si avvale l’operatore economico per svolgere la sua attività imprenditoriale98 .
Sulla scia di questo ragionamento, il conseguimento da parte dell’autorità pubblica dei manufatti privati, gratuitamente, con successivo avvio di ulteriore procedimento comparativo, volto a individuare un soggetto, potenzialmente diverso da quello uscente, preordinato alla gestione del demanio pubblico, genererebbe una compressione del diritto di proprietà, incompatibile sia con l’articolo 42 della Costituzione, sia con la disciplina sovranazionale contenuta nell’articolo 1 del Primo Protocollo Addizionale della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nell’articolo 17 della Carta di Nizza99. Inoltre, il nuovo concessionario sarebbe nella situazione di beneficiare indebitamente di tutta una serie di utilità non direttamente discendenti dalla concessione demaniale ma, piuttosto, dalla pregressa attività imprenditoriale, come ad esempio l’avviamento100 .
Su questi profili, non vi è stata una vera e propria decisione esplicita assunta dai Giudici Amministrativi, così come è complicato sostenere che, rilevando il difetto di interesse dei ricorrenti in ordine al pregiudizio del loro diritto, il Collegio avrebbe tacitamente avallato la legittimità della proroga delle concessioni disposta dalla legge n. 145 del 2018101 .
A tal ultimo proposito, ostano almeno tre ragioni.
In primo luogo, la pretesa sostanziale dedotta inerisce alla proprietà superficiaria, indennizzabile o meno, e non alla proroga delle concessioni, la quale costituisce un presupposto implicito non oggetto, tuttavia, della domanda in via principale.
Poi, l’accertamento della compatibilità della normativa interna con quella sovranazionale è un’operazione interpretativa a natura di merito, a cui il Collegio non è pervenuto, limitandosi ad accertare la carenza di un interesse attuale, certo e concreto.
97 G. BALOCCO, La concessione demaniale marittima tra diritto interno e principi comunitari, cit., pp. 449 e sgg. e A. MONICA, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, cit., p. 443
98 R. RIGHI ED E. NESI, Riflessioni sull’applicazione della Direttiva servizi alle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative, cit., pp. 4 e sgg.
99 R. RIGHI ED E. NESI, Ibidem.
100 R. RIGHI ED E. NESI, Riflessioni sull’applicazione della Direttiva servizi alle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative, cit., pp. 19, per cui “È vero che il concessionario è l’incumbent, che secondo la Commissione Europea, ostacola le libertà fondamentali dell’Unione; al contempo però al concessionario uscente, che perda quindi la concessione, va riconosciuto il giusto indennizzo, poiché altrimenti il concessionario subentrante trarrebbe uno sperequato beneficio dall’avviamento aziendale del concessionario uscente”.
101 Si fa riferimento ad alcuni comunicati stampa di associazioni di categoria conseguenti all’emissione della pronuncia e, forse, fin troppo ottimistici.
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Oltretutto, proprio perché la pronuncia presenta natura di rito, non può, per definizione, formare giudicato su alcuna questione sostanziale102
Appare verosimile, quindi, affermare come la tematica del ristoro al concessionario uscente della proprietà superficiaria sia ancora impregiudicata dal punto di vista del diritto sostanziale e, su questo, si rivela connotata da un intenso pragmatismo la considerazione pretoria, racchiusa nella pronuncia, secondo cui una risposta potrà essere data solo in virtù del quadro normativo vigente al momento della scadenza delle concessioni demaniali, “che potrebbe essere del tutto diverso dall’attuale”.
4. Conclusioni.
Successivamente alla sentenza n. 1377 del 2020, si sono registrati alcuni sviluppi. Innanzi tutto, a livello istituzionale la Commissione Europea ha trasmesso il 3 dicembre 2020 la lettera di messa in mora n. 4118, censurando come “l'Italia non ha attuato la sentenza della Corte. Inoltre l'Italia da allora ha prorogato ulteriormente le autorizzazioni vigenti fino alla fine del 2033 e ha vietato alle autorità locali di avviare o proseguire procedimenti pubblici di selezione per l'assegnazione di concessioni, che altrimenti sarebbero scadute, violando il diritto dell'Unione. La Commissione ritiene che la normativa italiana, oltre a essere incompatibile con il diritto dell'UE, sia in contrasto con la sostanza della sentenza della CGUE sopra menzionata e crei incertezza giuridica per i servizi turistici balneari, scoraggi gli investimenti in un settore fondamentale per l'economia italiana e già duramente colpito dalla pandemia di coronavirus, causando nel contempo una perdita di reddito potenzialmente significativa per le autorità locali italiane. L'Italia dispone ora di 2 mesi per rispondere alle argomentazioni sollevate dalla Commissione, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato”.
L’avvio del procedimento di infrazione non può, alla luce di tutti i trascorsi esposti in precedenza, sorprendere, nella misura in cui l’ordinamento europeo ritiene inammissibile non tanto lo strumento della proroga, strettamente intesa o mediante fissazione di un termine di scadenza finale ex lege per i rapporti concessori, quanto e piuttosto la generalizzazione di una deroga, così come introdotta dalla l. n. 145 del 2018 e dal D.L. n. 104 del 2020, al rispetto delle norme concorrenziali contenute nei trattati e nella direttiva Bolkestein103
L’Italia ha replicato alla lettera nei termini previsti dall’articolo 258 del TFUE, anche se non è ancora noto il contenuto della risposta.
Contestualmente, si sono susseguite, sul versante giurisdizionale, altre sentenze sul tema.
Le pronunce nn. 1321 e 1322 del 27 novembre 2020 della I Sezione del TAR Lecce, in giudizi avente ad oggetto l’impugnazione di due provvedimenti di autotutela con cui il Comune di Castrignano del Capo ha annullato, in ossequio ai dettami europei, la proroga di due concessioni demaniali marittime, sono state ispirate dalla tesi secondo cui l’obbligo di disapplicazione per contrasto con la normativa dell’Unione non è estensibile anche alla pubblica Amministrazione, ritenendo, perciò, illegittimo il mancato prolungamento del rapporto concessorio in favore dei ricorrenti disposto dalla legge n. 145 del 2018104 .
102 Si formerà solo un giudicato formale senza alcun riflesso in ordine ad altre controversie, a maggior ragione se presentino altro e differente oggetto come la legittimità della proroga della concessione disposta dalla legge n. 145 del 2018.
103 L’esenzione dall’applicazione della disciplina normativa in tema di libero mercato europeo può essere legittima solo laddove sia fondata su un accertamento caso per caso, supportata da elementi giustificativi ricavabili da un’istruttoria compiuta sulla fattispecie concreta.
104 In particolare, si veda il passaggio in cui il Collegio Amministrativo statuisce come “In conclusione rileva il Collegio che risulterebbe del tutto illogico ritenere che il potere di disapplicazione della legge nazionale, attribuito prudentemente al giudice dall’ordinamento interno e dall’ordinamento euro-unionale e supportato all’uopo dalla specifica attribuzione
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Attualmente, in attesa dell’udienza di merito, la V Sezione Consiglio di Stato ha respinto, con le ordinanze nn. 643 e 645 del 2021, la richiesta di sospensiva formulata dall’Amministrazione appellante, non ravvisando “un apprezzabile profilo di periculum in mora, idoneo a giustificare l’invocata tutela cautelare”105
Sempre il TAR Lecce I Sezione, con le sentenze nn. 71, 72, 73, 74 e 75 del 15 gennaio 2021, è giunto ad una conclusione ancora più netta, negando l’attributo dell’auto esecutività della direttiva Bolkestein e ingiungendo al Legislatore di adottare quanto prima una legislazione attuativa della Direttiva n. 123 del 2006 che tenga conto di alcuni elementi tra cui, oltre all’aspetto della previsione di un modello di comparazione pubblica uniforme per le future istanze di rilascio di una concessione demaniale marittima, anche l’indennizzabilità del concessionario uscente106 .
Di tutt’altro avviso, invece, il TAR Abruzzo I Sezione - sezione staccata di Pescara, che con il provvedimento giurisdizionale n. 40 del 3 febbraio 2021 ha statuito, in un giudizio fondato proprio sulla legittimità delle proroghe delle concessioni, che “l'operatività delle proroghe disposte dal legislatore nazionale deve essere disapplicata in ossequio alla pronuncia della Corte di Giustizia del 2016, con conseguente illegittimità degli atti di proroga delle concessioni demaniali in assenza di gara”.
Peraltro, la decisione n. 40 del 2021 del TAR Abruzzo rappresenta un precedente piuttosto sfavorevole e rilevante per la pretesa sostanziale non definita dalla sentenza n. 1377 del 2020 dal TAR Toscana, dato che essa si pronuncia anche in merito alla ipotetica lesione del diritto di proprietà sulle opere realizzate sull’arenile derivante dalla mancata proroga delle concessioni demaniali marittime, affermando che “né appare invocabile una ipotizzata violazione di diritti fondamentali incomprimibili previsti dalla nostra Costituzione (peraltro solo genericamente evocata e fermo restando che in tal caso la cognizione in merito ai cd. contro limiti sarebbe rimessa alla Corte Costituzionale, cfr. sentenza 173 del 1983), e ciò - non solo per i dubbi sulla natura assolutamente incomprimibile del diritto di proprietà il cui statuto è viceversa naturalmente connotato da una funzione sociale tra cui rientra anche il non costituire ostacolo monopolistico alla concorrenza (cfr. articolo 41 e 42 Cost.) - ma soprattutto perché - benché le opere stabili autorizzate sopra le aree demaniali possano essere assimilabili alla proprietà superficiaria (Tar Firenze sentenza 328 del 2015) - tale diritto appare geneticamente e funzionalmente collegato alla durata del titolo e alle sue vicende, non potendo dunque ricevere tutela autonoma e indipendente in grado di incidere sulla durata del rapporto stesso”.
di poteri ad esso funzionali e prodromici, si ritenesse viceversa sic et simpliciter attribuito in via automatica e addirittura vincolata al dirigente comunale, che non dispone (e non a caso) della possibilità di ricorrere all’ausilio di tali facoltà”. Per una disamina critica delle due pronunce, N. MILLEFIORI, Il tar Lecce sulla proroga delle concessioni demaniali marittime, su Pausania, Rivista di Diritto Urbanistico, 28 novembre 2020. Tra l’altro, i provvedimenti giurisdizionali si pongono come estranea al tendenziale indirizzo assunto dai giudici amministrativi, teso a valorizzare il diritto dell’Unione Europea e ad utilizzarlo come leva per mettere in discussione il sistema italiano.
105 Risulta difficile scorgere anticipazioni del giudizio di merito nell’ordinanza cautelare, dato che la relativa motivazione appare decisamente sintetica.
106 Cfr. Sentenza n. 71 del 2021 del TAR Lecce, secondo cui “occorrerebbe la tempestiva approvazione di una normativa che preveda, oltre ad una preliminare proroga tecnica delle concessioni in atto per almeno un triennio, regole uniformi per l’intero territorio nazionale che stabiliscano – per le nuove concessioni da attribuirsi a seguito di gara ad evidenza pubblica: 1) la durata delle stesse (che dovrà essere tale da garantire l’ammortamento degli investimenti effettuati); 2) la composizione delle commissioni di gara; 3) i requisiti soggettivi e oggettivi di partecipazione; 4) le forme di pubblicità (anche a tutela degli interessi transfrontalieri); 5) i criteri di selezione (atteso che la giurisprudenza amministrativa ha già evidenziato l’illegittimità del riferimento normativo al codice degli appalti, dovendosi avere a parametro il Codice della Navigazione); In tal senso la recente sentenza del Consiglio di Stato Sezione V 9.12.2020 N. 7837 6) la modifica delle norme del Codice della Navigazione in tema di indennizzo; 7) la previsione di un procedimento amministrativo che consenta di quantificare, in contraddittorio e secondo regole certe, il relativo importo per ciascuna concessione; 8) la previsione di norme a tutela del legittimo affidamento per rapporti concessori sorti in epoca precedente alla data di adozione della direttiva servizi”.
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La querelle resta, comunque, ancora ben lungi dall’essersi esaurita: questa estrema frammentazione degli arresti giurisprudenziali, unita alla carenza di un quadro normativo chiaro, può indurre a identificare il settore delle concessioni demaniali marittime come contraddistinto da un’ambiguità organica, persistente fino a quando non sarà sciolto il nodo giuridico di fondo, ossia la contrapposizione mai riassorbita tra l’ordinamento italiano e quello europeo.
E il suo naturale epilogo, salvo considerare la disciplina italiana sulle concessioni demaniali marittime come un controlimite, non potrà che essere la ricezione piena dei principi concorrenziali propri del diritto sovranazionale107 .
“GIURISPRUDENZA PENALE”
NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 16 febbraio 2021, n.6087
Il prelievo unico erariale tra natura tributaria e rilevanza penale ai fini della configurazione del peculato. La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite
Di FEDERICA FAVATA
“Se l'omesso versamento del prelievo unico erariale, dovuto sull'importo delle giocate al netto delle rivincite erogate, da parte del gestore degli apparecchi da gioco con vincita in denaro, o del concessionario per l'attivazione e la conduzione operativa della rete per la gestione telematica del gioco lecito, costituisca il delitto di peculato.”
Il fatto
La Corte di Appello di Roma, confermava la condanna del legale rappresentante di una società che gestiva per conto di un’altra società, concessionaria per l'esercizio dei giochi elettronici ex art.110 co.6 T.U.L.P. Questi, si impossessava delle somme relative al prelievo erariale unico di competenza dell'amministrazione autonoma dei monopoli di stato (importo di circa 400.000 euro) unitamente al compenso destinato alla concessionaria.
La condotta di appropriazione del denaro incassato dalla gestione del gioco tramite apparecchi elettronici, è stata sussunta nella fattispecie di peculato ai sensi dell'art. 314 c.p.
Il Tribunale aveva qualificato il legale rappresentante della società gestore ella società concessionaria, come incaricato di pubblico servizio, giacchè tale attività era volta al perseguimento dell'interesse pubblico, espressione dell'esercizio di un'attività amministrativa in senso oggettiva: attività di raccolta degli incassi dei giochi per la parte spettante all'amministrazione, ovvero le quote destinate a PREU nonché al pagamento del canone di concessione. Attività queste da ricondurre nell'alveo di operazioni aventi ad oggetto denaro pubblico.
107 Un aspetto, invece, di contorno ma ben più problematico sarà quello dell’eventuale ristoro delle utilità connesse alla proprietà delle opere edificate sul demanio marittimo. Sulla questione, infatti, paradossalmente proprio il diritto Sovranazionale, meno influenzato dalla funzione sociale della proprietà, potrebbe obbligare a previsioni o forme di indennizzo, allo stato assenti.
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La Corte di Appello invece, utilizza l'argomento secondo il quale esclusivamente la concessionaria è soggetto obbligato al versamento del PREU nei confronti dell'amministrazione, versamento che nel caso di specie, era stato effettuato regolarmente.
Ad avviso del giudice di secondo grado, l'adempimento dell'obbligo nei confronti dell'erario, non poteva rendere irrilevante la condotta di appropriazione commessa dal legale rappresentante, considerato che nel caso di specie, l'appropriazione non riguardava solo la quota degli incassi destinati al PREU, ma si estendeva anche alla parte residua che avrebbero dovuto ripartirsi il concessionario e il gestore. Trattavasi dunque non di denaro privato, bensì di denaro pubblico.
La conseguenza di tale impostazione è che tutte le somme di denaro che entrano in circolo in questo sistema sono di proprietà dello stato, che riconosce un aggio, che concessionari, gestori ed esercenti ripartiscono tra loro sulla base di accordi di diritto privato, ma che non può avere natura pubblicistica.
Le soluzioni dei diversi orientamenti giurisprudenziali nell'ordinanza di rimessione
Il primo degli orientamenti riportati è quello secondo il quale, il gestore della raccolta delle giocate riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio e il denaro privato, con riferimento almeno alla quota costituente il PREU, ha immediata natura pubblica.
Al soggetto gestore, viene riservata la definizione di sub - concessionario: tale qualifica pubblica, deriva dal ruolo di agente contabile rivestito dal concessionario, essendo sin da subito il denaro incassato, di spettanza della P.A, la qualifica sussiste anche a fronte della natura pubblicistica del contratto che intercorre tra le parti.
La condotta del gestore integra pertanto il reato di peculato.
Il secondo orientamento invece, non fa rientrare la condotta di appropriazione del gestore, in quella penalmente rilevante ai sensi del 314 c.p.
L'orientamento richiamato, riconosce al PREU la natura di tributo con la conseguenza che il gestore degli apparecchi da intrattenimento, è tenuto al mero adempimento dell'obbligazione tributaria, restando proprietario delle somme incassate.
Questa impostazione trova conferma nella l.269/2003, che indica il concessionario quale soggetto passivo dell'imposta, prevedendo un'obbligazione solidale a carico del gestore, sulla scorta della natura tributaria e dell'essere il concessionario, soggetto passivo d'imposta, va escluso che gli incassi dei parecchi da gioco siano originariamente di spettanza della p.a.
Il Supremo Consesso risolve la questione, avallando il primo indirizzo interpretativo sopra riportato, orientamento a favore della qualificazione del gestore della raccolta delle giocate come incaricato di pubblico servizio.
Le Sezioni Unite precisano, che è necessario tenere distinto il profilo della proprietà delle somme incassate dagli apparecchi da gioco di cui una gran parte destinata al pagamento del PREU, e quello relativo all'obbligo di versamento del PREU quale tributo.
La soluzione adottata, poggia fondamentalmente sulla appartenenza alla amministrazione, di tutti i proventi del gioco presenti negli apparecchi, al netto del denaro restituito quale rivincita agli scommettitori.
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Le Sezioni Unite Civili sulla natura della proprietà degli incassi
La sentenza in commento, mette in rilievo la centralità della problematica della proprietà degli incassi, questione affrontata dalle Sezioni Unite Civili, che hanno qualificato la società concessionaria, agente della riscossione, tenuta pertanto al versamento di quanto riscosso e dunque al conto giudiziale degli introiti derivanti dalla gestione del gioco lecito.
La Cassazione puntualizza che la natura tributaria dell'imposta e la qualificazione del concessionario come soggetto passivo attengono al rapporto di natura tributaria, non incidono sulla funzione di agente della riscossione di denaro pubblico, derivante dalla configurazione complessiva dell'attività di gioco lecito.
L'attività da gioco lecito, è infatti caratterizzata dalla predeterminazione delle modalità di svolgimento dell'attività e della funzione del concessionario rispetto agli incassi, sotto il profilo de controllo periodico della destinazione delle somme riscosse. Tutti aspetti che fanno propendere per la applicabilità della disciplina di stampo pubblicistico, caratterizzante l'intera attività di gestione degli incassi da gioco tramite apparecchiature elettroniche.
Le conclusioni cui giungono le Sezioni Unite penali.
Alla luce dei percorsi logici e normativi compiuti all'interno della pronuncia, i giudici di legittimità arrivano conclusioni nette, prodromiche del principio di diritto enunciato.
In primo luogo, chiariscono che non si è messa in discussione la natura fiscale del PREU che rileva come imposta: ciò, si desume pacificamente dalla normativa vigente, richiamata infatti nella sentenza.
Il dato rilevante, per integrare la fattispecie tipica di reato ex art.314 c.p., è l'indebita appropriazione dell'intero incasso prelevato dagli apparecchi di cui una gran parte è destinata al pagamento del PREU.
In secondo luogo, affermano che il gestore non possiede mai autonomamente il denaro: il rapporto di detenzione è configurabile nomine alieno, integrando la condizione di altruità della cosa richiesta dall'art.314 c.p.
La Cassazione delinea in modo specifico le figura del concessionario. Riprendendo le argomentazioni addotte dalla ordinanza di rimessione n.14697 del 2019 delle Sezioni Unite Civili, che dopo avere escluso la natura pubblicistica del settore del gioco d'azzardo, attribuisce al concessionario la qualità di incaricato di pubblico servizio, facendo leva in primis sul profilo funzionale della attività effettivamente svolta e sul diretto e continuativo controllo cui è sottoposta l'attività di gestione delle apparecchiature da gioco, da parte della Amministrazione dei Monopoli.
NOTA A CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 17 marzo 2021, n.10381
Nuovi ragionamenti, vecchie conferme: la causa di non punibilità ex art 384 co.1 c.p. applicabile al convivente more uxorio.
Di FEDERICA FAVATA
Il fatto
Una donna veniva condannata alla pena di mesi sei di reclusione, per il reato di favoreggiamento personale, giacché dichiarava di trovarsi alla guida dell’auto, invece del compagno, colpevole di avere provocato un incidente stradale, in cui erano state coinvolte altre due autovetture. La falsa dichiarazione della donna era finalizzata a favorire la
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posizione del compagno che oltre ad essere privo della patente di guida, si era allontanato dopo l’incidente omettendo di prestare soccorso alle persone coinvolte nel sinistro.
In primo grado è stata riconosciuta la sussistenza del reato di favoreggiamento, confermato in Corte d’Appello e individuava come reato presupposto del favoreggiamento, il delitto previsto del co.6 dell’art.89 del d.lgs 285 del 1992, che sanziona l’inottemperanza all’obbligo di fermarsi in presenza di un incidente con danni alle persone.
Il percorso seguito dalle Sezioni Unite tra mutamenti normativi e orientamenti giurisprudenziali
Con la legge c.d Cirinnà, il legislatore ha inteso tutelare situazioni affettive mai regolate prima, offrendo una disciplina analoga a quella prevista per le famiglie legittime, prevedendo anche le necessarie ricadute penalistiche con il successivo d.lgs n.6 del 2017, che sancisce la stabilità del rapporto, con riguardo alle unioni civili, sul modello della famiglia legittima.
La circostanza che la legge del 2016 non abbia previsto l’estensione della causa di non punibilità in questione alle convivenze, non significa una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze more uxorio.
L’assenza di una legge che disciplini organicamente il fenomeno della convivenza more uxorio, non comporta che tale modello di relazione e i suoi effetti giuridici siano sprovvisti di tutela nel diritto positivo.
La giurisprudenza civile si è mostrata sempre più orientata a equiparare le posizioni soggettive dei componenti la famiglia di fatto a quelli della famiglia legittima fondata sul matrimonio. Si può fare subito riferimento al riconoscimento del convivente separato dell’assegnazione della casa familiare, analogamente a quanto si prevede per il coniuge separato o divorziato in presenza di prole.
La giurisprudenza penale si è mossa in senso ancora più netto, affermando esplicitamente la equiparazione tra convivenza coniugale e convivenza more uxorio per la valutazione della sussistenza dei requisiti per l’ammissione a gratuito patrocinio.
Anche in tema di costituzione di parte civile, la lesione di qualsiasi forma di convivenza rappresenta legittima causa petendi di un’azione risarcitoria proposta dinnanzi al giudice penale competente per l’illecito che ha causato detta lesione.
In ambito penalistico, l’equiparazione tra le due tipologie di formazioni familiari, si è ancora di più consolidata se si osserva l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in merito ai presupposti del 572 c.p. che punisce la condotta di chi maltratta una persona della famiglia, considerando la stessa non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto stabile fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.
A tal proposito, la giurisprudenza degli anni 70’, già aveva operato al riguardo un’estensione in malam partem seppur finalizzata alla tutela della vittima del reato, fino alla novella del 2012 che ha cambiato la rubrica dell’articolo sopra richiamato, da “maltrattamenti in famiglia” a “maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il legislatore del 2016 è poi intervenuto in un quadro complessivo generale, nel quale già risultava evidente l’interesse di salvaguardare la famiglia, nella sua accezione più lata possibile.
La problematica della natura dell’art.384 c.p co.1, è da affrontare attraverso una lettura costituzionalmente orientata, che valorizzi l’elemento della colpevolezza e che tale lettura è inserita nell’ambito di disposizione penali che regolano istituti analoghi.
Vengono superati i due orientamenti: il primo secondo cui il 384 co.1 c.p., contiene una causa di non punibilità in senso stretto (la rinuncia alla pena obbedisce a ragioni di opportunità politica), il secondo che qualifica la
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disposizione come una causa di giustificazione in cui vengono bilanciati contrapposti interessi, in forza dello stato di necessità.
Deve dunque considerarsi, quell’orientamento dottrinale che considera il 384 co.1 c.p., causa di esclusione della colpevolezza, da ricondurre all’ipotesi in cui l’agente pone in essere un fatto antigiuridico agendo anche con dolo, nella consapevolezza di violare la legge. La giurisprudenza più recente si pone esattamente nel solco di tale impostazione dottrinale, dato che esclude si la colpevolezza ma non l’antigiuridicità della condotta, giacché si tratta di un’esimente connessa ad una peculiare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente.
Le Sezioni Unite affermano dunque, che il 384 co.1 c.p trova la sua giustificazione nell’istinto dell’agente volto a tutelare da una parte, la propria libertà e il proprio onore e dall’altre nel fronteggiare l’esigenza di tenere conto dei vincoli di solidarietà familiare in senso lato, si deve tenere conto dello stato emotivo del soggetto, che rende inesigibile il comando penale
Il riconoscimento della natura di scusante a struttura soggettiva, ha delle conseguenze sul piano interpretativo riguardo l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.
Si scardina il carattere assoluto del divieto di analogia, che assume valenza relativa.
Il divieto di analogia in materia penale, è rivolto alle norme di favore ed è indirizzato ad assicurare la certezza del comando penale. La dimensione garantista del divieto in questione, si riferisce alle norme e disposizioni punitive e opera soltanto in malam, nel caso che qui interessa invece, vi è un’applicazione estensiva della causa di non punibilità in bonam.
Si è infine esclusa la natura eccezionale della norma contenente la scusante soggettiva esaminata, poiché in tal modo, l’art.14 delle preleggi, ne vieterebbe l’applicazione analogica.
L’eccezionalità non è pertanto attributo del 384 co.1 c.p . che investe la colpevolezza ed impedisce la punizione in presenza di una condotta inesigibile da parte dell’agente. La stessa norma, può quindi essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica, racchiudendo in sé principi generali quali: nemo tenetur se detergere e ad impossibilia nemo tenetur.
NOTAACORTE DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 28 gennaio 2021, n. 2061
Le Sezioni Unite risolvono la questione sull’applicazione retroattiva della nuova disciplina sul contratto di leasing traslativo: i confini tra piano legislativo e piano ermeneutico.
Di VALERIAFRATICELLI
Sommario: 1. Introduzione - 1.1. Il caso - 2. L’ordinanza interlocutoria delle Terza Sezione - 3. La pronuncia delle Sezioni Unite. - 4. Il doppio volto, normativo e casistico, del contratto di leasing - 5. Il ruolo sinergico tra attività legislativa e attività giurisprudenziale: i principi sistematici delimitativi dei reciproci confini applicativi.
1. Introduzione.
Apartire da una storica sentenza della Corte di Cassazione risalente al 1989, la giurisprudenza civile ha affrontato e consolidato la distinzione tra il contratto di leasing c.d. di godimento ed il contratto di leasing c.d. traslativo.
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“GIURISPRUDENZA CIVILE”
Aprescindere dal tratto comune costituito dalla causa di finanziamento, le due fattispecie si differenzierebbero sul piano della funzione socio economica in quanto solo nel leasing di godimento questa causa permarrebbe, mentre in quello traslativo verrebbe neutralizzata dalla successiva causa di scambio.
Le Sezioni Unite nel delimitare il campo applicativo inter - temporale della Legge annuale sul mercato e la concorrenza in materia di leasing ( artt.136-140 della legge n. 124 del 2017), sono nuovamente intervenute sul campo applicativo delle disposizioni in materia di scioglimento del contratto di leasing nell’ambito del fallimento dell’utilizzatore di cui all’art. 72-quater l.Fall., rimarcando per il passato la differenza ontologica tra le due tipologie contrattuali ed escludendo in generale un’interpretazione evolutiva analogica sulla base della novella del 2017.
1.1. Il caso.
La questione rimessa alle Sezioni Unite della Cassazione ha riguardato una società di leasing (Dobank S.p.A. mandataria della Unicredit leasing S.p.A) la quale aveva esercitato il proprio diritto di ricevere le rate scadute alla scadenza del contratto da parte dell’utilizzatore (Casoni costruzioni s.r.l.).
La società utilizzatrice oltre ad essersi resa inadempiente contrattualmente era stata successivamente dichiarata fallita. La società di leasing aveva, dunque, provveduto alla richiesta di insinuazione nel passivo la quale, tuttavia, era stata rigettata dal giudice delegato. Quest’ultimo in motivazione del decreto di rigetto108 aveva evidenziato come il rapporto si fosse risolto prima della dichiarazione di fallimento ( due anni prima). La norma civilistica a tutela della pretesa creditoria, sarebbe stata, quindi, da rinvenire nell’art. 1526 c.c., in virtù della quale al concedente è dovuto un “equo compenso” per l’uso della cosa.
Secondo il giudice delegato, proprio l’avvenuta risoluzione prima della dichiarazione fallimentare e l’avvenuto pagamento da parte dell’utilizzatore di tutti i canoni nel corso del rapporto aveva comportato che la somma complessivamente versata dalla società fallita fosse ben superiore a quello da corrispondere sulla base dell’equo compenso previsto dalla norma. Ciò aveva condotto il giudice in decreto a ordinare al concedente la restituzione alla curatela fallimentare della relativa eccedenza.
La società di leasing, aveva provveduto ad impugnare lo stato passivo reso esecutivo ai sensi dell’articolo 98 della Legge Fallimentare, e aveva chiesto nuovamente l’ammissione del proprio credito. Il Tribunale di Macerata, in senso conforme alla decisione del primo giudice adito, aveva proceduto al rigetto della relativa opposizione.109 La società concedente, dunque, aveva proposto ricorso per Cassazione.
della Terza Sezione.
Con ricorso presso la Terza Sezione della Corte di Cassazione, la società ricorrente aveva sostenuto come a seguito della tipizzazione del contratto di leasing (con la legge n. 124 del 2017 art. 1, commi 136 - 140) sarebbe stata superata la distinzione tra leasing traslativo e di godimento.
La normativa avrebbe, infatti, conferito al contratto in esame una disciplina unitaria, permettendo al concedente di pretendere dall’utilizzatore non un equo compenso, ai sensi della previgente disciplina di riferimento di cui all’art. 1526 c.c., ma di trattenere i canoni pagati, richiedendo il pagamento di quelli scaduti e in scadenza, ed in ogni caso la possibilità di esercitare il diritto di opzione.
Il superamento della precedente distinzione casistica tra le due forme di contratto unificate nella normativa vigente avrebbe comportato, secondo la ricostruzione della ricorrente, come conseguenza logico - giuridica che gli effetti della
108 Ai sensi dell’art. 98 della legge fallimentare. 109 Decreto del Tribunale di Macerata del 20 dicembre 2017.
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2. L’ordinanza interlocutoria
risoluzione, non sottoposta al livello temporale alla legge del 2017, trovassero il proprio riferimento normativo nell’art. 72-quater della legge Fallimentare. Quest’ultima norma, secondo tale ricostruzione, andrebbe applicata analogicamente sostituendosi alla pregressa base normativa.110
La Terza Sezione Civile della Cassazione111, nel rimettere la questione alle Sezioni Unite, ha offerto una ricostruzione storica della casistica giurisprudenziale formatasi in materia, richiamando la distinzione dogmatica tra il contratto di leasing di godimento, con preminente causa di finanziamento a scopo di godimento, e leasing traslativo in cui la causa in concreto del rapporto ha la preminente funzione di trasferire il bene.
Proprio la diversa funzione del bene, oggetto del contratto, avrebbe giustificato storicamente quella ricostruzione giurisprudenziale che ha disposto la diversità delle regole giuridiche applicabili e la estensione analogica della risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1526 c.c. al solo contratto di leasing traslativo.
Secondo la Corte di Cassazione rimettente questa ricostruzione non sarebbe mutata anche successivamente all’introduzione dell’art 72-quater della legge Fallimentare. Quest’ultima disposizione non disciplinerebbe, infatti, la risoluzione del contratto di leasing, ma riguarderebbe gli effetti dello scioglimento negoziale derivante da fallimento dell’utilizzatore. Questa scelta legislativa, consolidata sul pregresso percorso ermeneutico, sarebbe stata confermata, secondo la Terza Sezione, anche con l’entrata in vigore della Legge annuale per il mercato e la Concorrenza.112
Nonostante questo filone giurisprudenziale sia rimasto sempre prevalente, la Terza Sezione sulla base anche del ricorso proposto dalla società concedente, ha rilevato la presenza di alcune pronunce della Corte di Cassazione che di recente, a seguito della novella del 2017, hanno proposto un implicito superamento in materia di risoluzione per inadempimento dell’antica distinzione tra le due forme di leasing 113
L’applicazione analogica dell’art. 72 quater l.Fall. rispetto all’art. 1526 c.c. sarebbe, secondo questa più recente ricostruzione, non effetto diretto dell’estensione retroattiva della novella del 2017 ma effetto indiretto dell’ interpretazione sistematica alla luce dell’ordinamento vigente.
Sulla base di questo nuovo orientamento emergente, il Collegio si è interrogato sulla natura di fonte para - normativa dell’orientamento maggioritario che, al contrario, viene ad applicare analogicamente l’art. 1526 c.c. in quanto : “A meno di non volere negare che la giurisprudenza sia uno dei formanti dell’esperienza giuridica, dovrà di conseguenza ammettersi che essa concorre alla formazione della norma da applicare, e massimamente ciò dovrà dirsi per la giurisprudenza di legittimità”.114
La Terza Sezione, nel rilevare questa funzione preminente del giudice, ha valorizzato in questa sede come la certezza del diritto sia un principio immanente nel nostro ordinamento non solo sulla base delle norme nazionali ma anche di quelle sovranazionali115 e rilevando come la: “ l’affidabilità, prevedibilità e uniformità dell’interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di giustizia del processo”.116
Proprio sulla base di queste premesse, il Collegio ha ritenuto necessario sottoporre due questioni alle Sezioni Unite.
Il primo quesito: “se l’interpretazione dell’art. 1, commi 136-140, della legge 4.8.2017 n. 124, secondo cui tale norma imporrebbe di abbandonare (anche per i fatti avvenuti prima della sua entrata in vigore) il tradizionale orientamento
110 Art. 1526 c.c.
111 Ordinanza interlocutoria n. 5022 del 25 febbraio 2020
112 Legge n. 124 del 2017.
113 Di recente, Cass. Civ., 29 marzo 2019, n. 8980; Cass., 20 agosto 2019, n. 18545; Cass., 30 settembre 2019, n.24438.
114 Cfr. Ordinanza interlocutoria, Corte di Cassazione, III sez., n. 5022 del 25 febbraio 2020
115 Tale principio infatti, troverebbe un fondamento comunitario ai sensi dell’art. 6 CEDU, recepito dall’ordinamento comunitario ai sensi dell’art. 6 TUE , da cui sarebbero ricavabili tre corollari; il principio di irretroattività delle norme, il principio di tutela del legittimo affidamento ed il principio di salvaguardia dei diritti quesiti.
116 Sezioni Unite, Ordinanza n. 23675 del 06 novembre 2014
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che applica alla risoluzione del contratto di leasing traslativo l’art. 1526 c.c., sia coerente coi principi comunitari di certezza del diritto e tutela dell’affidamento”.
Dall’altro, poi, la Corte, ha disposto la rimessione di una seconda questione inerente alla domanda di parte circa la possibilità di applicare analogicamente lo strumento risolutivo previsto all’art. 72- quater della l. Fall.
La Corte rimettente ha ritenuto dubbia la possibilità di riconoscere l’applicazione di una analogia iuris diacronica ove: “per effetto della quale la norma da applicare analogicamente al caso concreto potrebbe non esistere al momento di realizzazione della fattispecie, purché esista al momento succedaneo della decisione” in quanto risulterebbe poco compatibile con i principi di certezza del diritto e di affidamento sopra enunciati.
Elementi di diritto ostativi a questa ricostruzione deriverebbero, secondo la Corte, dalla stessa natura speciale dell’art. 72-quater l.Fall.
La specialità della norma in materia fallimentare (introdotta nel 2006) rispetto alla regola generale di cui all’art. 1526 c.c., renderebbe preclusivo, già sulla base dei principi generali che governano l’istituto dell’analogia, questo passaggio giuridico.
La norma, infatti, disciplinerebbe la sola ipotesi particolare di scioglimento del vincolo negoziale derivante dalla dichiarazione di fallimento. La portata applicativa, dunque, sarebbe ben più ristretta rispetto alla disciplina generale prevista in materia di risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c. in quanto: “ sarebbe destinata a disciplinare una fattispecie concreta diversa da quella disciplinata dalla norma generale, cioè la risoluzione per inadempimento di cui all’art. 1453 c.c. Mancando la eadem ratio, non sembra consentito all’interprete il ricorso all’interpretazione analogica”.117
La Terza Sezione ha, dunque, posto anche questo secondo quesito: “Se possa applicarsi in via analogica, anche solo per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista dall’ordinamento ed in caso affermativo se, con riferimento al caso di specie, tale norma da applicarsi in via analogica , possa ravvisarsi nell’art, 72 quater l. Fall.”.
3. La pronuncia delle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, con un’argomentata disamina delle questioni sottoposte dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione civile, hanno cercato di offrire chiarezza e “certezza” di diritto come auspicato dalla Sezione rimettente.
In via preliminare, la Corte di legittimità ha dichiarato infondata la ricostruzione operata dalla parte ricorrente per cui il contratto non sarebbe risolvibile per inadempimento nel caso di esistenza di una clausola risolutiva espressa del contratto di leasing in quanto quest’ultimo, avendo natura di contratto di durata, disporrebbe ontologicamente di una sua naturale scadenza.
La Corte, sul punto, ha richiamato quella giurisprudenza formatasi su fattispecie negoziali diverse( contratto di mandato, di locazione e di appalto), dalle quali sarebbe estraibile un principio “comune denominatore”: la cessazione di efficacia di un contratto a seguito dello spirare del termine di durata, non precluderebbe la possibilità di azionare i rimedi risolutori per i casi in cui l’inadempimento si sia realizzato anteriormente alla scadenza “naturale” del contratto.118
Il principio verrebbe a giustificarsi, secondo la Corte, non solo perché vi sarebbe un’autonomia e alterità di rimedi tra risoluzione e le altre cause di scioglimento del vincolo contrattuale ed una priorità della risoluzione rispetto alle altre cause di cessazione del contratto di efficacia del contratto ma, altresì, perché l’autonomia negoziale del creditore trova : “ rispondenza anche nella consentita alternativa dei rimedi e nella prevalenza di quello risolutorio alla stregua
117 Cfr, Ordinanza interlocutoria, Corte di Cass., Sez. III, n. 5022 del 2020
118 In questo senso: Cass., 6 giugno 2018, n. 14623; Cass., 6 aprile 2011, n. 7878; Cass., 17 luglio 2008, n. 19695.
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di quanto disposto all’art. 1453 c.c., il quale, in ragione della cessazione fisiologica del termine di durata del contratto, sarebbe privato della possibilità di far valere l’inadempimento altrui” 119
Le Sezioni Unite nel “perimetrare” la relativa impugnazione portata alla loro attenzione hanno rilevato l’assenza di una domanda di parte relativa all’azione di adempimento e risarcimento in quanto il ricorrente avrebbe esibito una diversa alternativa : “ scolpita, da un lato, dall’applicazione già effettuata dal giudice di merito, dell’art. 1526 c.c. al contratto inter partes e, dall’altro, dell’operatività, invocata dalla società concedente, ricorrente per cassazione, dell’art. 72 quater l.f. ” con la conseguenza che in esame sono posti in rilievo due ulteriori rimedi ( rispetto all’adempimento e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.) direttamente correlati alla disposizione normativa di cui all’art. 1458
c.c.
Le Sezioni Unite, chiarita la portata e il perimetro dell’oggetto dell’impugnazione, hanno affrontato i due quesiti proposti dalla Terza Sezione.
La Corte è partita dall’esaminare quel recente orientamento richiamato sia dalla parte ricorrente che dalla stessa Terza Sezione nella ricostruzione della disciplina del contratto di leasing il quale ha proposto un superamento storicoevolutivo dell’orientamento trentennale formatosi in materia.120
Le Sezioni Unite hanno negato la validità di questo più recente percorso giuridico e confermato la validità e la continuità del diritto vivente di più risalente formazione.
La giurisprudenza di legittimità, è partita dalla premessa che la questione centrale della decisione è “permeata” su questioni preliminari di “sistema” e in particolare, da un lato, sulla possibilità di operare un’integrazione analogica dei rimedi : “con una norma sopravvenuta rispetto alla fattispecie concreta che dovrebbe disciplinare” e dall’altro, sul ruolo del “precedente” nell’interpretazione storico - evolutiva di una norma. Nell’esaminare la funzione dell’interpretazione giudiziale e del precedente nella sistematica del diritto, le Sezioni Unite hanno sottolineato come non sia mai stato messo in discussione dalla giurisprudenza la funzione propulsiva dell’attività interpretativa rimessa al giudice, anche in quella che è la sua declinazione c.d. storico-evolutiva in quanto: “ risponda in ogni momento delle esigenze cangianti della realtà socio economica di riferimento”.121
In questo lavoro di interpretazione giuridica “filtrante” la lettura della norma, al precedente, come ben delineato dalla giurisprudenza di legittimità: “viene affidato quel grado di stabilità che il dinamismo propulsivo dell’ ordinamento giuridico, alimentato dal mutamento dei fattori ambientali, rende solo tendenziale e che l’evoluzione giurisprudenziale sa, per l’appunto, cogliere in un incessante riequilibrio delle condizioni atte a garantire la tutela di beni-interessi”.122
Aqueste prime osservazioni di carattere generale, tuttavia, la Corte in relazione alla questione specifica sottopostale dall’ordinanza interlocutoria, viene a precisare come l’attività di interpretazione delle norme non possa travalicare quei limiti che permeano la distinzione tra il piano legislativo e il piano giurisdizionale. Nel caso di introduzione da parte del legislatore nell’ordinamento di un quid novi, la Corte ha ribadito, in conformità con il pregresso orientamento, che il giudice è tenuto ad : “applicare al caso concreto la regola intesa secondo le regole comuni dell’ermeneutica”123 disvelandone il significato e assumendo una funzione di natura dichiarativa, riferita ad una norma preesistente e con : “ esclusione di una formale efficacia direttamente creativa”.124
È proprio su questa ultima osservazione, secondo la Corte, che sarebbe risolvibile il secondo problema di sistema inerente alla c.d. integrazione analogica con una norma sopravvenuta.
119 Cfr. sentenza in commento.
120 Cass. Civ., 29 marzo 2019, n. 8980; Cass., 20 agosto 2019, n. 18545; Cass., 30 settembre 2019, n.24438.
121 Cfr. sentenza in commento.
122 Cfr. sentenza in commento.
123 Cfr. Corte Costituzionale, n. 230 del 2012.
124 Cass., S.U., 24 aprile 2004, n. 21095.
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Sotto questo profilo, la pronuncia si è concentrata su un’adeguata ricostruzione della disciplina dell’analogia.
L’ art. 12, secondo comma delle preleggi, permetterebbe l’estensione della disposizione normativa, c.d. analogia legis, o dello stesso principio generale dell’ordinamento, c.d. analogia iuris, quando sia ravvisabile dall’interprete la medesima ragione giustificativa ( c.d. eadem ratio), accertando la: “ somiglianza strutturale e funzionale tra le due norme”.
La norma sopra richiamata, secondo la Corte, necessiterebbe di una lettura sistematica con l’art. 11 delle preleggi. Quest’ultima, infatti, prevedendo che “la legge non dispone che per l’avvenire”, pone, una preclusione ai poteri del giudice esercitabili anche con lo strumento dell’ analogia. In questo senso la possibilità di disporre in via retroattiva costituisce funzione esclusiva del legislatore quale “valore di civiltà giuridica” da bilanciare sapientemente con il principio di ragionevolezza e di affidamento.125
Nel caso di avvento di una nuova legge come nel caso in esame, dunque, l’assenza di una precisa previsione normativa sugli effetti inter – temporali può risolversi, secondo la Corte, esclusivamente sulla base della teoria del c.d. “fatto compiuto” che le Sezioni Unite riconoscono come principio di diritto costante nella giurisprudenza.126
L’articolo 1, commi 136-140, della legge 124 del 2017, secondo le osservazioni della Corte, sarebbe venuto a superare la logica specifica e settoriale delle previgenti norme127, disponendo una tipizzazione legale del contratto di leasing finanziario quale fattispecie generale ed unitaria, nella sua preminente funzione economico-sociale.
Nessuna di queste disposizioni, tuttavia, prevede l’efficacia retroattiva della nuova disciplina.
Se da un lato, il carattere novativo della disciplina, secondo la pronuncia, non osterebbe ad una sua applicazione nei casi in cui il contratto sia stato concluso prima della sua entrata in vigore ma non si siano verificati ancora i presupposti giudiziali o stragiudiziali della risoluzione per inadempimento, dall’altro lo stesso percorso giuridico non potrebbe essere accolto nei casi di già avvenuto inadempimento.
La responsabilità dell’utilizzatore per l’inadempimento ed il conseguente effetto risolutorio, come è stato precisato dalla Corte, è stato tipizzato dalla legge del 2017 ponendo un margine temporale tra gli effetti sorti prima o dopo la novella. In questo senso nel caso esaminato dalla Corte di legittimità: “il fatto compiuto è nella specie quello che genera la responsabilità del debitore (utilizzatore) per l’inadempimento che la legge n. 124 del 2017 tipizza”.
La Legge sulla concorrenza e sul mercato, quindi, osserva conclusivamente la giurisprudenza di legittimità, non sarebbe estendibile e applicabile per il passato laddove gli effetti del contratto di leasing si siano verificati prima della sua entrata in vigore escludendo, dunque, gli effetti risolutori disciplinati dal comma 138.
Aquesta prima precisazione, poi, le Sezioni Unite escludono anche una possibile applicazione analogica della disciplina prevista dall’articolo 72-quater l.fall.
Quest’ultima norma prevede che il concedente, a seguito dello scioglimento del contratto di leasing nell’ambito della procedura fallimentare, ha diritto alla restituzione del bene concesso in godimento e l’utilizzatore o la curatela al ricavato della vendita, salva la detrazione dell’ammontare del credito residuo.
Le Sezioni Unite similmente a quanto rilevato dalla Sezione rimettente, hanno avuto modo di confermare la natura di norma speciale dell’art. 72-quater l fall., avvalorando la distinzione ontologica esistente tra risoluzione contrattuale e scioglimento del contratto, quale facoltà riconosciuta nel caso di più contratti pendenti tra un soggetto contraente ed il fallito.
125 Cass. S.U., n. 8631 del 2020. In materia di legittimo affidamento e retroattività della norma civile; sentenza 26 maggio 2016, in C – 260/14 e C-261/14)
126 In questo senso Cass. S.U., 12 dicembre 1967, n. 2926; Cass., 20 marzo 1969, n. 858.
127 In questo senso, Art. 169-bis, quinto comma, l.fall.; Art. 72-quater L.Fall.; art. 1, commi 78
80, della legge n. 208 del 2015
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Mentre nello scioglimento contrattuale è preminente la tutela restitutoria ma non quella risarcitoria, nella disciplina generale di risoluzione per inadempimento, il contraente, anche in sede fallimentare, può far valere le pretese restitutorie e di risarcimento del danno ai sensi degli articoli 92 e s.s. l.Fall.( come previsto all’art. 72, comma 5).
Tale disciplina, di natura eccezionale, secondo la pronuncia in esame, non avrebbe subito modifiche con la introduzione della legge del 2017.128
Secondo questa ricostruzione ermeneutica, dunque, per i contratti di leasing traslativo, precedenti alla regolamentazione della legge sopravvenuta, continuerebbe ad applicarsi analogicamente, secondo l’orientamento seguito fino ad ora, l’art. 1526 c.c. e non l’art. 72- quater l.fall.
L’art. 1526 c.c. con il richiamo all’“equo compenso”, secondo la pronuncia, verrebbe a comprendere la remunerazione del godimento del bene, il deprezzamento dovuto all’incommerciabilità ed il logoramento da usura. Non ricomprenderebbe, invece, il profilo risarcitorio che, pertanto, potrebbe trovare applicazione solo sulla base delle regole generali del danno emergente e del lucro cessante in applicazione del principio differenziale129
Sulla base di queste importantissimi osservazioni elaborate dalle Sezioni Unite in materia, sono stati, dunque, elaborati questi principi di diritto:
“La legge 124/2017 (articolo 1, commi 136-140) non ha effetti retroattivi e trova, quindi, applicazione per i contratti di leasing finanziario in cui i presupposti della risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore (previsti dal comma 137) non si siano ancora verificati al momento della sua entrata in vigore; sicché, per i contratti risolti in precedenza e rispetto ai quali sia intervenuto il fallimento dell’utilizzatore soltanto successivamente alla risoluzione contrattuale, rimane valida la distinzione tra leasing di godimento e leasing traslativo, dovendo per quest’ultimo social-tipo negoziale applicarsi, in via analogica, la disciplina di cui all’art. 1526 c.c. e non quella dettata dall’art. 72-quater l.f., rispetto alla quale non possono ravvisarsi, nella specie, le condizioni per il ricorso all’analogia legis, né essendo altrimenti consentito giungere in via interpretativa ad un’applicazione retroattiva della legge 124/2017. In base alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c., in caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente che aspiri a diventare creditore concorrente ha l’onere di formulare una completa domanda di insinuazione al passivo, ex art. 93 l.f., in seno alla quale, invocando ai fini del risarcimento del danno l’applicazione dell’eventuale clausola penale stipulata in suo favore, dovrà offrire al giudice delegato la possibilità di apprezzare se detta penale sia equa ovvero manifestamente eccessiva, a tale riguardo avendo l’onere di indicare la somma esattamente ricavata dalla diversa allocazione del bene oggetto di leasing, ovvero, in mancanza, di allegare alla sua domanda una stima attendibile del valore di mercato del bene medesimo al momento del deposito della stessa”.130
4. Il doppio volto, normativo e casistico, del contratto di leasing.
La pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha valorizzato come la distinzione e definizione strutturale tra contratto di leasing traslativo e contratto di leasing di godimento sia stata introdotta a partire da alcune note pronunce del 1989131, con l’avvallo successivo delle Sezioni Unite132 e sia rimasta immutata per oltre un trentennio.
In passato la natura giuridica del contratto di locazione finanziaria aveva diviso la dottrina: da un lato, infatti, si era sostenuto che il contratto in esame fosse riconducibile nell’area dei contratti atipici; dall’altro lato, si era sostenuta la
128Il comma140, comeben evidenziato dalleSezioni Unite,vienearibadirelaspecialitàdellenormefallimentarielaloro circoscritta operatività.
129 Art. 1223 c.c.
130 Sentenza in commento.
131 Decisioni del 13 dicembre 1989, n. 5569, 5571, n. 5573, n.5574.
132 Sentenza a S.U. del 7 gennaio 1993, n. 65
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possibilità di assimilarlo ad un contratto nominato, secondo la disciplina della locazione, della vendita con riserva di proprietà, o nel mutuo, sempre con la centrale rilevanza della causa di finanziamento.133
Sia la dottrina che la giurisprudenza prevalente hanno sempre ritenuto che il contratto di leasing fosse “un contratto avente natura complessa, che, sebbene riunisca in sé elementi di diversi contratti tipici già noti al nostro ordinamento, non può essere inquadrato in nessuno di tali contratti. Trattasi, pertanto, di un contratto atipico, la cui regolamentazione è rimessa alla contrattazione delle parti nonché alle norme generali in materia di contratti”134 Nel corso degli anni, il contratto di leasing è rimasto “sostanzialmente” un contratto socialmente tipico, previsto anche nelle legislazioni internazionali135 e utilizzato nel nostro sistema per attuare diverse operazioni economiche.
La natura atipica del contratto in esame è stata superata dalla recente approvazione della Legge annuale per il mercato e la concorrenza, entrata in vigore il 29 agosto 2017 con la legge del 4 agosto 2017, n. 124, con il quale il legislatore tipizzando il contratto ha introdotto una disciplina propria dell’operazione offrendone una definizione e delineandone gli elementi strutturali e funzionali predominanti.
La sentenza del 1898 con lo storico «sestetto binario», ha ricostruito per la prima volta la distinzione ontologica tra leasing di godimento e leasing traslativo. In queste storiche pronunce sono state poste debite considerazioni, sia sulla natura del bene oggetto del contratto, sia sulla funzione che i canoni corrisposti dall’utilizzatore assumono all’interno della causa in concreto del contratto. La distinzione, infatti, ha da sempre assunto primaria importanza per le diverse conseguenze che ne possono derivare in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore.
Nel leasing di godimento i canoni configurano esclusivamente il corrispettivo del godimento dei beni stessi, e non vengono a incorporare ratei di prezzo, in quanto il conseguente effetto traslativo trova la esclusiva fonte di remunerazione nel prezzo di opzione. La funzione di scambio, dunque, in questa prima forma negoziale è solo marginale e residua.
Il leasing traslativo, al contrario, ha ad oggetto beni che vengono a mantenere alla conclusione del contratto un valore di mercato apprezzabile e superiore al prezzo pattuito per la opzione. La funzione traslativa, in questa seconda fattispecie, si pone come elemento causale primario assieme alla causa di finanziamento.
L’utilizzatore, alla scadenza del contratto, ha la possibilità di acquistare il bene ad un prezzo di opzione inferiore rispetto al valore residuo, rendendo dunque quest’eventualità più che probabile, diversamente dal contratto di leasing di godimento.
Sulla base di questa distinzione rimasta consolidata nel corso degli anni, la giurisprudenza ha ritenuto che nelle ipotesi di inadempimento il concedente; nel caso di leasing di godimento, quale contratto di natura continuata, possa ai sensi dell’art. 1458 c.c. trattenere i canoni già riscossi, richiedere i canoni rimanenti e il prezzo di opzione come pattuito nel contratto a titolo di risarcimento del danno, nel caso di leasing traslativo, al contrario, possa trovare applicazione in via analogica l’art. 1526 c.c. (vendita con riserva di proprietà). In questa seconda ipotesi, il concedente è tenuto a restituire i canoni percepiti, al netto di un “equo compenso” per l’utilizzo del bene e l’eventuale risarcimento del danno. La ratio di questa diversificazione di rimedi, come ben delineato dalla stessa pronuncia di legittimità, deriverebbe dalla necessità di porre un freno all’autonomia privata, soprattutto dove questa venga in via indiretta a generare arricchimenti ingiustificati del concedente.136 Come osservato anche dalle Sezioni unite, da un punto di vista anche storico, l’intento
133 Sul problema e sulla critica del rapporto tra contratto atipico e necessaria riconduzione al contratto nominati; Sacco, Il contratto, Utet, Torino, 2020.
134 Cfr; A. Amati, Il leasing immobiliare, IPSOA, Milano, 2012, cit. p. 27. Una conferma recente giurisprudenziale in questo senso; Cass. S.U. , 5 OTTOBRE 2015, N. 19785
135 La Convenzione Unidroit sul leasing finanziario internazionale, stipulata ad Ottawa il 28 maggio 1988 come ratificata in Italia ratificata con la legge n. 259 del 1993.
136 Tra le numerose sentenze; Cass., 4 luglio 1997, n. 6034.
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di evitare arricchimenti ingiustificati ed abusi della prassi commerciale nei confronti del compratore è presente anche nella disciplina dell’art. 1526 c.c.137
La legge n. 124 del 2017 pare aver superato questa storica distinzione con l’introduzione dell’art. 1, commi 136 - 140.
Come attentamente rilevato dalla dottrina, dunque, la novella ha segnato “il definitivo tramonto” della tradizionale bipartizione tra leasing traslativo e di godimento e di conseguenza la fine della diversa disciplina applicabile alla risoluzione per inadempimento ricollegata in passato agli artt. 1458 e 1526 c.c. 138
Il legislatore con la novella del 2017 da un lato, ha previsto la risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore solo nel caso di inadempimento grave (almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi) e dall’altro, una volta risolto il contratto, l’utilizzatore è tenuto alla restituzione del bene al concedente, il quale potrà comunque trattenere quanto ricavato dalla vendita del bene per i canoni non pagati fino al momento della risoluzione, per le spese sostenuto per il recupero, riversando il residuo all’utilizzatore.139
La norma non pare richiamare le conseguenze sui canoni già riscossi. Secondo la ricostruzione preferibile, dovrebbe per questi ultimi operare un principio di irretroattività in linea con gli effetti della risoluzione previsti nei contratti di durata ai sensi dell’art. 1458 c.c. ed in linea con quanto disposto in sede fallimentare all’art. 72 quater, l. fallimentare.140
Il contratto di leasing, sulla base di queste premesse, dunque, appare presentare due volti; uno storico delineato sulla casistica giurisprudenziale, ed uno nuovo sulla base della scelta legislativa del 2017, solo in parte ancorato alla precedente giurisprudenza.
La scelta legislativa ha determinato, così, un taglio con il passato e come evidenziato in precedenza, ha costituito “il tramonto” della vecchia distinzione tra le due forme contrattuali. Questo superamento, tuttavia, non ha risolto quelle ombre formatesi ai confini temporali tra i due percorsi.
La questione sottoposta alle Sezioni Unite dall’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione ha investito proprio questo profilo di confine: il rapporto tra gli effetti inter – temporali della norma ed il ruolo dell’interpretazione analogica. La Corte di legittimità, nel risolvere la questione di diritto, ha ritenuto opportuno richiamare quei principi di civiltà giuridica su cui l’intera attività legislativa e giurisprudenziale viene a permearsi, svolgendo altresì, una preminente indagine sulla funzione socio - economica svolta da queste forme contrattuali prima e dopo l’entrata in vigore della legge vigente.
5. Il ruolo sinergico tra attività legislativa e attività giurisprudenziale: i principi sistematici delimitativi dei reciproci confini applicativi.
L’ordinanza interlocutoria alle Sezioni Unite ha posto il problema di capire se: “possa applicarsi in via analogica, anche per analogia iuris, una norma inesistente al momento in cui venne ad esistenza la fattispecie concreta non prevista dall’ordinamento”.141
La questione, come in precedenza evidenziato, si è posta sulla base di un orientamento giurisprudenziale di recente emersione ( a partire dalla pronuncia della Corte di Cassazione del 20 agosto del 2019, n. 8980) che ha proposto di valorizzare, in via interpretativa, il nuovo dato normativo della legge n. 124 del 2017, per ritenere che l’art. 1526 c.c. non possa più trovare applicazione nel caso di risoluzione per inadempimento dei contratti di leasing traslativo, essendo la tradizionale distinzione pretoria (leasing di godimento- leasing traslativo) superata dalla regolamentazione unitaria
137 Le Sezioni Unite operano una lettura sistematica anche come dedotto dalla relazione del Ministro Guardasigilli del codice del 1942
138 R.Giovagnoli, Manuale di diritto civile, ITAedizioni, Torino, 2019, pag. 1216.
139 Così, art. 1, comma 138 della legge del 2017
140 R.Giovagnoli, Manuale di diritto civile, ITAedizioni, Torino, 2019, pag. 1217.
141 Ordinanza interlocutoria n. 5022 del 25 febbraio 2020
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vigente. La novità normativa, secondo questo percorso giurisprudenziale, verrebbe a riflettersi sui contratti a cui la stessa non sarebbe applicabile ratione temporis, non per effetto di un’estensione retroattiva della nuova disciplina ma per l’interpretazione storico - evolutiva del giudice.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto opportuno sconfessare questa ricostruzione partendo dai principi di sistema insiti nell’ordinamento.
Nel nostro ordinamento giuridico la funzione nomofilattica della giurisprudenza concorre alla formazione della norma da applicare, “vestendola” del contesto sociale e ordinamentale in cui questa viene a inserirsi.
L’interprete, al fine di integrare un diritto lacunoso ha a disposizione, secondo i i criteri teorici possibili, due strumenti.
Da un lato la regola mancante può essere desunta tramite il ricorso ad ordinamenti diversi o a fonti diverse dalla legge (c.d. eterointegrazione).
Dall’altro, è possibile supplire alla lacuna attraverso l’ordinamento stesso, nell’ambito della stessa fonte dominante (la legge) e senza far ricorso ad altri ordinamenti, e col minimo ricorso a fonti diverse (c.d. autointegrazione).142
L’autointegrazione può avvenire attraverso due procedimenti; la analogia e il ricorso ai principi generali del diritto.
L’ordinamento prevede questi meccanismi espressamente all’art. 12, co. 2, delle preleggi il quale prevede: “ se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”.
Il legislatore, dunque, pare richiedere che nel caso di lacuna il giudice debba rintracciare la regola applicabile al caso concreto nel contesto delle leggi vigenti.
Proprio la “vigenza” della legge avrebbe spinto questa giurisprudenza innovativa a richiedere un superamento del vecchio approccio ermeneutico e ad individuare nel caso di specie la norma estendibile ai casi di risoluzione del leasing traslativo non più nell’art. 1526 c.c. ma nell’art. 72- quater l.fall, sulla base della esistenza della legge attuale del 2017.
Le Sezioni Unite, nel caso in esame, hanno evidenziato come l’interprete al fine di poter colmare una eventuale lacuna rispetto al caso concreto attraverso la analogia sia legis che iuris debba accertare la medesima ragione giustificativa che legittima il procedimento. La c.d. eadem ratio trova il suo riconoscimento nella coincidenza o comunanza degli elementi strutturali o funzionali presenti nell’ordinamento e che il giudice ha l’obbligo di rinvenire.
Questo lavoro ermeneutico, come valorizzato da un’altra recente Sezioni Unite in materia, non può tuttavia venire ad interferire: “ sul terreno della vigenza della legge che è connessa alla sua entrata in vigore come dalla stessa predeterminata con regole generali tra cui gli artt. 10, 11, 14 e 15 disp. sulla legge in generale”.143
Le Sezioni Unite, fin qui esaminate, hanno negato la ricostruzione operata dalla parte ricorrente e dalla giurisprudenza minoritaria più recente sugli effetti inter - temporali proprio sulla base di queste regole generali.
Da un lato, il giudice di legittimità ha escluso che la novella n. 124 del 2017 abbia disciplinato anche implicitamente l’effetto retroattivo della disciplina.
L’art. 11 delle preleggi, nella sua formulazione, preclude al giudice, con un’attività analogica-integrativa di disporre dell’efficacia inter - temporale di una nuova norma.
La possibilità di disporre l’efficacia retroattiva di una nuova norma, infatti, oltre ad essere uno strumento attribuito esclusivamente al legislatore costituisce allo stesso tempo un limite e un vincolo della sua stessa attività.144
La retroattività della norma costituisce una regola eccezionale, la quale, come ampiamente messo in luce dalla pronuncia, sebbene non sia assistita da una garanzia costituzionale diversamente da altri settori dell’ordinamento145 ,
142 N.Bobbio, Il positivismo giuridico, G. Giappichelli Editore, 1996.
143 Cfr. Cass. S.U., n. 4135 del 2019.
144 In questo senso; Cass. S.U., n. 8631 del 2020.
145 Così ad esempio l’art. 25 Cost. in materia penale.
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resta un vincolo per il legislatore secondo: “ i valori di civiltà giuridica ed il rispetto della ragionevolezza e della tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto”.146
Appare chiaro, quindi, come ben espresso dalla pronuncia in commento, come l’attività sinergica tra legislatore ed interprete trovi un limite invalicabile nel rispetto dei diversi piani di competenza.
D’altronde, anche di recente la giurisprudenza nazionale si è confrontata più volte con i principi di ragionevolezza e proporzionalità della norma retroattiva quali limiti cogenti anche nel diritto sovranazionale e in quello convenzionale.147
La previsione retroattiva di una norma, infatti, non solo rischia di ledere ed alterare il principio della “parità delle armi”148, ma rischia di minare ancora prima quella sicurezza giuridica e quella certezza del diritto che costituisce l’obiettivo primario di ogni Stato di Diritto.
In questo scenario, lo svolgimento dell’interpretazione giuridica nelle sue diverse sfaccettature (storico- evolutiva, letterale, teleologica, sistematica), risulta sinergico nel cogliere le “esigenze cangianti della realtà”, ma, come sopra evidenziato, non può superare quei limiti imposti dal diverso piano in cui vengono a collocarsi legislatore e giudice, escludendo che quest’ultimo attraverso l’analogia pervada una funzione squisitamente innovativa dell’ordinamento. In questo contesto, l’ulteriore limite disposto sempre dai principi generali all’interprete che voglia auto - integrare una lacuna è la natura eccezionale della norma che si vuole applicare analogicamente. Nel caso sottoposto alle Sezioni Unite, infatti, era stata opinata da una giurisprudenza di recente emersione, l’applicazione analogica della disciplina prevista all’art. 72 quater l.Fall.
In questa circostanza, anche, per consolidata giurisprudenza passata, è sempre stato ritenuto che tale norma, introdotta con il d.lgs. n. 5 del 2006, costituisca norma di natura eccezionale in quanto sebbene unifichi le due forme contrattuali di leasing, disciplina l’ipotesi peculiare e settoriale dello scioglimento per volontà del curatore in conseguenza della dichiarazione di fallimento.
Anche in questo caso, dunque, ostativo a tale ricostruzione sarebbe un principio sistematico generale del nostro ordinamento.
Il divieto di applicazione analogica alle regole eccezionali (art. 14 elle preleggi) trova il suo fondamento nell’esigenza di non allargare le deroghe alla disciplina generale. La sussistenza di una regola generale espressa, tuttavia, escluderebbe già a priori la possibilità della esistenza di una lacuna da colmarsi secondo la regola eccezionale rendendo, per una parte della dottrina, questa disposizione ricognitiva di un principio immanente.149
Come già attentamente osservato dall’ordinanza interlocutoria, quindi, la regola generale da applicare analogicamente sarebbe l’art. 1526 c.c. e non l’art. 72 quater l.fall, per tutti quei contratti in cui l’inadempimento(“fatto compiuto”) sia intervenuto prima della novella del 2017.
C’è da chiedersi, dunque, se a seguito di tale ultima pronuncia sia definitivamente “tramontato” il dibattito in materia di leasing traslativo e di leasing di godimento.
SEZIONE TEMI E DIBATTITI
146 Cfr. sentenza in commento.
147 Il principio di proporzionalità viene applicato dalla Corte Edu sullabase dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla Cedu anche nella scelta legislativa di applicare retroattivamente la nuova norma. Questa scelta è destinata ad essere sottoposta al test di proporzionalità in senso stretto: A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Cedam, Padova, 1998. ; A. Albanese, Il ruolo del principio di proporzionalità nel rapporto fra amministrazione e amministrati, in Istituzione del federalismo, 2016.
148 Art. 6 CEDU;Art. 1 del Protocollo addizionale CEDU. In giurisprudenza; Corte EDU, sentenza del 7 giugno 2012, centro Europa s..r.l. c. Italia.
149 F. Caringella,L.Buffoni, Manuale di diritto civile, Dike giuridica editrice, Roma, 2013, pag. 16.
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La disciplina giuridica dei poteri speciali dello Stato sugli assetti societari e i trasferimenti tecnologici nei settori strategici alla luce del decreto-legge n. 23/2020 (c.d. “Decreto liquidità”) e dei dd.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179 e n. 180.
Di Luca Vincenzo Maria SALAMONE (PhD) e Giada PACIFICO (*)
Sommario: 1. Premessa. 2. Il quadro normativo di riferimento in tema di esercizio dei poteri speciali dello Stato nei settori strategici. 3. L’evoluzione normativa dalla “Golden Share” al “Golden Power” e i successivi interventi normativi. 4. Il “Golden Power” prima del decreto-legge n. 23/2020 (c.d. “Decreto liquidità”): i settori di applicazione della normativa. 4.1 I poteri speciali del Governo nei settori strategici. 4.1.1 (Segue): in particolare le specifiche condizioni relative ai trasferimenti tecnologici. 4.1.2 (Segue): la «diffusione esclusiva» quale strumento per disegnare un perimetro a difesa degli interessi strategici nazionali nella ricerca tecnologica militare. 5 La nuova disciplina del “Golden Power” alla luce del c.d. “Decreto liquidità”. 5.1 (Segue): l’art. 15 del decreto-legge n. 23/2020 e l’estensione degli atti soggetti a notifica. 5.2 (Segue): l’art. 16 del decreto-legge n. 23/2020 e l’avviamento d’ufficio della procedura di controllo. 5.3 (Segue): l’art. 17 del decreto-legge n. 23/2020 e l’ampliamento dei poteri della Consob. 5.4 (Segue): i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 179 e 180. 6. Considerazioni finali.
1. Premessa
Il nostro ordinamento si è dotato del meccanismo del c.d. “Golden Power” (sorto sulle ceneri del precedente sistema della c.d. “Golden Share”) (150) nell’ormai lontano 2012 quando, con l’emanazione del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito con modificazioni dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, furono attribuiti allo Stato poteri speciali di intervento col fine di salvaguardare dalle scalate ostili (151) le società operanti in determinati settori strategici di interesse nazionale.
Nello specifico si tratta di un articolato sistema di controlli statuali – rientrante pertanto nel genus delle funzioni di controllo tipiche dell’ordinamento amministrativo nazionale (152) – che consente al Governo di intervenire in caso di
(*) Nell’esercizio della libertà di espressione e di pensiero e nel rispetto dei relativi limiti, il contenuto della presente pubblicazione riflette esclusivamente il pensiero degli autori e non, necessariamente, quello dell’Istituzione per la quale gli stessi prestano servizio ovvero appartengono.
(150) A ben vedere, infatti, il punto di partenza della disciplina relativa alla tutela degli assetti strategici dello Stato è da individuarsi nell’introduzione nel nostro ordinamento, ad opera del decreto-legge n. 332/1994, convertito con la legge 30 luglio 1994, n. 47, della c.d. “Golden Share”, strumento tipico della tradizione britannica (ovvero dell’“Action spécfique” dell’ordinamento francese) che fa riferimento alla conservazione da parte dello Stato, nell’ambito di procedure di privatizzazione di imprese in origine pubbliche, di una partecipazione azionaria con poteri esorbitanti rispetto a quelli spettanti a un normale azionista.
(151) Al riguardo, la dottrina ha rilevato (v. C. SAN MAURO, La disciplina della nuova golden share, in Federalismi.it, n. 21/2012) come la tutela degli assets strategici trovi spazio con particolare riferimento all’ambito delle privatizzazioni sulle quali la dottrina si è ampiamente soffermata; sul tema si rinvia a M. CLARICH, Privatizzazioni e trasformazioni in atto nell’amministrazione italiana, in Dir. amm., 1995, pp. 519 ss.; M. SANINO, Le privatizzazioni, Roma, 1997; R. GAROFOLI, Le privatizzazioni degli enti dell’economia, Milano, 1998; LIBONATI, La faticosa accelerazione delle privatizzazioni, in Giur. comm., 1995, I, pp. 20 ss.
(152) Come noto le funzioni di controllo costituiscono una delle tre fondamentali estrinsecazioni dell’azione amministrativa, insieme a quelle attive e consultive.
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potenziale «minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale» (153), nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, secondo tre modalità diverse: opponendosi all’acquisto da parte di soggetti esteri di partecipazioni ad imprese che svolgono attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori delle telecomunicazioni elettroniche, dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni; ponendo il veto all’adozione da parte delle stesse compagini aziendali di determinate delibere assembleari; e infine imponendo alla medesima categoria di imprese specifiche condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici e al controllo delle esportazioni (154). La normativa del “Golden Power” – che è bene ricordare deve anche garantire il rispetto dei principi di matrice europea (155), con particolare riferimento alla libera circolazione dei beni e servizi (156) – ha il difficile compito di conciliare due interessi tra loro opposti: da un lato il rispetto del libero mercato (157), nonché dell’interesse degli Stati membri a promuovere investimenti esteri (158), e dall’altro la necessità che tali investimenti siano coerenti ovvero compatibili con taluni rilevanti interessi strategici nazionali. La difficoltà di conciliare contemporaneamente detto duplice obiettivo è comprovata dai numerosi cambi di impostazione che hanno caratterizzato l’evolversi della disciplina italiana in tale, delicata, materia nel corso degli anni.
Sul piano pratico, giova rilevare come, da ultimo, le misure introdotte dalla normativa sul “Golden Power” si siano rivelate particolarmente utili anche a seguito della recente emergenza sanitaria da COVID-19, che ha determinato rilevanti perdite di valore di molte società italiane ormai divenute, a causa dei loro prezzi “stracciati”, facile bersaglio
(153) Si tenga presente che, antecedentemente alla conversione intervenuta con la l. 56/2012, la «minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale», tale da legittimare l’esercizio dei poteri speciali, doveva essere «effettiva». Il fatto che, in sede di conversione, sia stato soppresso tale termine, a parere di chi scrive sembrerebbe legittimare il Governo a esercitare i poteri speciali anche nel caso di una minaccia meramente “potenziale”.
(154) Cfr. art. 1, d.l. n. 21 del 15 marzo 2012.
(155) Vds. di recente il Regolamento UE n. 452/2019 del 19 marzo 2019 che «Istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione europea» (v. infra).
(156) Cfr. Comunicazione della commissione relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari, in Gazzetta ufficiale n. C 220 del 19/07/1997, pag. 0015 – 0018.
(
157) Per la giurisprudenza europea sul tema, cfr. diverse sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (ad esempio, sentenza del 15 marzo 1988, Frontistiria, causa 147/86, Racc. 1988, pag. 1637, punti 5 e successivi; sentenza del 12 aprile 1994, Halliburton, causa 1/93, Racc. 1994, pag. I-1137, punto 15 e sentenza del 13 luglio 1993, Commerzbank, causa 330/91, Racc. 1993, pag. I-4017, punto 14; sentenza del 14 maggio 1993, Federación de distribuidores cinematográficos, causa 17/92, Racc. 1993, pag. I-2239, punto 16; sentenza del 14 dicembre 1995, Sanz de Lera, causa riunite C-163/94, C-165/94 e C-250/94, Racc. 1995, pag. I-4821, punto 23; sentenza del 3 febbraio 1993, Veronica, causa C-1481/91, Racc. 1993, pag. I-487, punto 9; sentenza del 31. 3. 1993, Kraus, causa 19/92, racc. 1993, pag. I-1663, punto 32; sentenza del 30. 11. 1995, Gebhard, causa 55/94, Racc. 1995, pag. I-4165, punto 37; sentenza del 15. 12. 1995, Bosman, causa 415/93, Racc. 1995, pag. I-4921, punto 104).
(158) Come noto, gli investimenti esteri diretti contribuiscono alla crescita dell’Unione europea rafforzandone la competitività, creando posti di lavoro ed economie di scala, apportando capitali, tecnologie, innovazione e competenze e aprendo nuovi mercati per le esportazioni dell’Unione. Essi sostengono gli obiettivi del piano di investimenti per l’Europa e contribuiscono ad altri progetti e programmi dell’UE.
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di speculatori internazionali (159). Ed invero, in un periodo di vulnerabilità finanziaria come quello attuale (160), il decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. “Decreto liquidità”), convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40, e i recenti decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 179 e n. 180, entrati in vigore il 14 gennaio 2021 (161), hanno provveduto a rafforzare i poteri speciali del Governo nei settori strategici, ampliando e, in alcuni casi rivedendo, gli ambiti e i soggetti sottoposti a controllo, i poteri ispettivi e le sanzioni previgenti nel nostro ordinamento giuridico (162).
Giova evidenziare che le disposizioni recentemente introdotte dalle citate norme in tema di poteri speciali nei settori di rilevanza strategica sono ricche di riferimenti agli antecedenti normativi che ne rendono complessa e non di rado incerta l’interpretazione. Pertanto, prima di esaminare i nuovi interventi legislativi, è opportuno procedere alla disamina e ricostruzione del quadro giuridico pregresso e della sua evoluzione normativa (v. infra).
2. Il quadro normativo di riferimento in tema di esercizio dei poteri speciali dello Stato nei settori strategici Come anticipato, nella materia oggetto della presente ricerca vige un coacervo di disposizioni normative e regolamentari susseguitesi nel tempo che si ritiene opportuno richiamare al fine di procedere nel prosieguo della presente trattazione ad un esame sistematico delle stesse. Nello specifico, e in stretto ordine cronologico, possono menzionarsi i seguenti atti a carattere legislativo, regolamentare (163) e amministrativo che assumono particolare rilievo nella materia de qua sia in ambito nazionale sia in quello sovranazionale:
(159) A tal proposito, occorre menzionare la Comunicazione agli Stati Membri con cui la Commissione Europea ha richiamato l’attenzione sulla necessità che l’apertura agli investimenti esteri – comunque essenziali per la crescita economica
venga «bilanciata da adeguati strumenti di controllo nel contesto dell’emergenza da COVID-19, potrebbe aggravarsi il rischio che si verifichino tentativi di acquisizione, tramite investimenti diretti esteri, di aziende della filiera dell’assistenza sanitaria […] o di settori correlati», in tal senso v. Comunicazione 26 marzo 2020 sugli «Orientamenti agli Stati membri per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti e la libera circolazione dei capitali provenienti da paesi terzi, nonché la protezione delle attività strategiche europee, in vista dell’applicazione del regolamento (UE) 2019/452 (regolamento sul controllo degli investimenti esteri diretti)».
(160) Si veda Consob (2020), La crisi da COVID-19 – L’impatto sui mercati finanziari, testo disponibile al sito: http://www.consob.it/web/investor-education/crisi-mercati-finanziari
(161) Cfr. i dd.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179, recante il «Regolamento per l’individuazione dei beni e dei rapporti di interesse nazionale nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, a norma dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56», e n. 180, recante il «Regolamento per l’individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56», entrambi in GU Serie Generale n. 322 del 30 dicembre 2020, entrati in vigore il 14 gennaio 2021.
(162) Il contesto nazionale e sovranazionale in cui si inseriscono le novità introdotte appare mutevole per effetto del progressivo adeguamento di molti Stati membri al quadro comune di controllo sugli investimenti esteri diretti istituito con il Regolamento UE n. 452/2019. Un processo di adeguamento, lo si ricorda, a cui l’Italia ha già parzialmente ottemperato con l’adozione, nel settembre 2019, del d.l. n. 105/2019, sul tema v. CHIOMENTI (2020), Il rafforzamento del Golden Power nell’emergenza sanitaria ed economica: guida alle modifiche normative, testo disponibile al sito: https://www.chiomenti.net/public/files/3246/Newsalert-Il-rafforzamento-della-normativa-Golden-Power_1.pdf.
(163) L’ampio ricorso al potere regolamentare nella materia in esame è espressamente previsto dall’art. 2, comma 1-ter del d.l.15marzo 2012, n. 21, che così recita:«Conunoopiùdecreti del PresidentedelConsiglio deiministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’interno, con il Ministro della difesa, con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e con i Ministri competenti per settore, adottati anche in deroga all’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, che è reso entro trenta giorni, decorsi i quali i decreti possono comunque essere adottati, sono individuati,ai finidella verifica in ordinealla sussistenza di un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, compreso il possibile pregiudizio alla sicurezza e al funzionamento
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- art. 2 del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, e successive modificazioni, successivamente abrogato dal comma 2 dell’art. 3, d.l. 15 marzo 2012, n. 63, che tuttavia vale la pena citare per essere stata la prima disposizione ad introdurre nell’ordinamento giuridico italiano la disciplina dei “poteri speciali” mediante la c.d. “Golden Share”, dalle cui ceneri, in seguito e su impulso del diritto europeo (v. infra), è sorta la vigente normativa del “Golden Power”; - comunicazione della Commissione europea approvata nel 1997 (164), relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari, che mira a definire i criteri di compatibilità comunitaria (recitus: europea) della disciplina dei poteri speciali e nella quale è affermato che l’esercizio di tali poteri speciali deve comunque essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso esclusivamente se fondato su «criteri obiettivi, stabili e resi pubblici» oltre a dover essere giustificato da «motivi imperiosi di interesse generale». In detto provvedimento, con precipuo riguardo agli specifici settori di intervento, la Commissione ha ammesso un regime particolare per gli investitori di un altro Stato membro qualora esso sia giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica purché, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, sia esclusa qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico;
- paragrafo 1 dell’art. 346 (ex articolo 296 del TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), firmato dai paesi dell’UE il 13 dicembre 2007, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che consente agli Stati membri di adottare le misure ritenute necessarie per tutelare gli interessi essenziali della propria sicurezza, riferite, fra l’altro, alla produzione e al commercio di armi, munizioni o materiale bellico, destinati a fini specificamente militari;
- procedura d’infrazione n. 2009/2255 avviata dalla Commissione europea contro l’Italia relativamente ad alcune disposizioni della normativa italiana, già oggetto di precedenti modifiche, che conferiscono poteri speciali allo Stato nelle società privatizzate operanti in settori strategici come le telecomunicazioni e l’energia, i quali, a giudizio della Commissione stessa, sarebbero incompatibili con gli articoli 49 e 63 del TFUE in quanto lesive della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali garantite dal medesimo Trattato;
- decisione del 24 novembre 2011 con la quale la Commissione europea ha deliberato di presentare, nell’ambito della citata procedura di infrazione n. 2009/2255 contro l’Italia, un nuovo ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ritenendo che alcune disposizioni della normativa italiana che conferisce poteri speciali allo Stato nelle società privatizzate operanti in settori strategici, come le telecomunicazioni e l’energia, continuino ad essere incompatibili con gli artt. 49 e 63 del TFUE riguardanti rispettivamente la libera circolazione dei capitali e il diritto di stabilimento;
- decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, recante le «Norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni», convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56 che ha formalmente sancito l’ingresso nel nostro ordinamento giuridico del nuovo istituto del c.d. “Golden Power”;
- decreto del Presidente della Repubblica 19 febbraio 2014, n. 35, recante il «Regolamento per l’individuazione delle procedure per l’attivazione dei poteri speciali nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, a norma dell’articolo 1, comma 8, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21»;
delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, ulteriori rispetto a quelli individuati nei decreti di cui all’articolo 1, comma 1, e al comma 1 del presente articolo, nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, nonché la tipologia di atti od operazioni all’interno di un medesimo gruppo ai quali non si applica la disciplina di cui al presente articolo. I decreti di cui al primo periodo sono adottati entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione e sono aggiornati almeno ogni tre anni.
(164) Rinvenibile in GU C 220 del 19/07/1997, pagg. 0015 – 0018.
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- decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 86, recante il «Regolamento per l’individuazione delle procedure per l’attivazione dei poteri speciali nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell’articolo 2, comma 9, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21;
- decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 giugno 2014, n. 108, recante il «Regolamento per l’individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, a norma dell’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56»;
- decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 agosto 2014, recante la «Disciplina delle attività di coordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri propedeutiche all’esercizio dei poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, e sulle attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni» (165);
- decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 novembre 2015, n. 5, recante le «Disposizioni per la tutela amministrativa del Segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva»;
- decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148, convertito con modificazioni dalla l. 4 dicembre 2017, n. 172, recante le «Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie» che all’art. 14 reca una disposizione di modifica del citato decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21 aggiungendo all’art. 2 di tale decreto il comma 1-ter (166);
- regolamento UE 2019/452 del 19 marzo 2019 del Parlamento europeo e del Consiglio che «Istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione europea»;
- decreto-legge 25 marzo 2019, n. 22, convertito con modificazioni dalla legge 20 maggio 2019, n. 41, recante le «Misure urgenti per assicurare sicurezza, stabilità finanziaria e integrità dei mercati, nonché tutela della salute e della libertà di soggiorno dei cittadini italiani e di quelli del Regno Unito, in caso di recesso di quest’ultimo dall’Unione europea», che introduce nel decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21 l’art. 1-bis, il quale prevede che per la disciplina dell’esercizio di poteri speciali costituiscono attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G;
(165) Il provvedimento individua, in attuazione dell’articolo 2, comma 2, lettera b), del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 35 del 2014 e dell’articolo 2, comma 2, lettera b), del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 86 del 2014, gli Uffici responsabili delle attività di competenza dei Ministeri degli affari esteri, della difesa, dell’economia e delle finanze, delle infrastrutture e dei trasporti, dell’interno e della sviluppo economico, come segue:
b) Ministero dell’interno: Dipartimentodella Pubblica Sicurezza -Direzione centrale della polizia criminale;
a) Ministero degli affari esteri: Direzione Generale per la promozione del sistema Paese;
c)Ministerodella difesa: Segretariato Generale della Difesa - Direzione Nazionale degli Armamenti;
d) Ministero dell’economia e delle finanze: Dipartimento del tesoro - Direzione VIÎ - finanza e privatizzazioni; e) Ministero della sviluppo economico: Direzione generale per la sicurezza dell’approvvigionamento e per le infrastrutture energetiche (per il settore energia), Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica, di radiodiffusione e postali (per il settore comunicazioni), Direzione generale per la politica industriale, la competitività e le piccole e medie imprese (per il settore difesa e sicurezza nazionale); f) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: Direzione Generale per il trasporto e le infrastrutture ferroviarie.
(166) La disposizione interviene sul tema del c.d. “Golden Power” allo scopo di colmare alcune lacune normative e di rafforzare gli strumenti di garanzia a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico (v. infra), prevedendo, a tal fine, che con appositi regolamenti dovranno essere individuati i settori ad alta intensità tecnologica oggetto della nuova disciplina (ad es., le infrastrutture critiche o sensibili, tra cui immagazzinamento e gestione dati; le tecnologie critiche, compresa l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, le tecnologie con potenziali applicazioni a doppio uso, la sicurezza in rete, la tecnologia spaziale o nucleare, ecc.). E’ inoltre prevista una specifica disciplina sanzionatoria in caso di omessa notifica obbligatoria.
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- decreto-legge 21 settembre 2019, n. 105, convertito con modificazioni dalla legge 18 novembre 2019, n. 133, recante le «Disposizioni urgenti in materia di perimetro di sicurezza nazionale cibernetica e di disciplina dei poteri speciali nei settori di rilevanza strategica»;
- artt. 15 e 16 del decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla legge 5 giugno 2020, n. 40, recante le «Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali»;
- decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 179, recante il «Regolamento per l’individuazione dei beni e dei rapporti di interesse nazionale nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, a norma dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56»;
- decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 180, recante il «Regolamento per l’individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56».
Come può facilmente evincersi dal cospicuo numero di atti normativi e regolamentari vigenti in materia, il quadro normativo si presenta variegato e di difficile ricostruzione sistematica, per detta ragione si è ritenuto utile e opportuno allegare al termine del presente lavoro uno schema riepilogativo aggiornato dei regolamenti e delle corrispondenti attività strategiche, implementate dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in materia di poteri speciali, che in attuazione del comma 1-ter dell’art. 2, d.l. 15 marzo 2012, n. 21, individua, anche ai sensi dell’art. 15, d.l. 8 aprile 2020, n. 23, beni e rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, ulteriori rispetto a quelli (già) individuati.
3. L’evoluzione normativa dalla “Golden Share” al “Golden Power” e i
successivi interventi normativi
Come appena illustrato, la materia in esame è stata oggetto di innumerevoli interventi legislativi e regolamentari adottati negli ultimi anni al fine di rafforzare lo “scudo” dei poteri speciali del Governo e quindi di salvaguardare gli assetti proprietari delle società operanti in settori strategici d’interesse nazionale.
Come già anticipato, la disciplina della “Golden Share” (167), introdotta in diversi ordinamenti europei, fin da subito ha presentato profili di incompatibilità con i principi dell’ordinamento comunitario, proprio a causa del deferimento al Governo nazionale di un potere discrezionale limitativo dei principi della concorrenza e della contendibilità delle imprese (168). Inoltre, l’eccessiva indeterminatezza dei presupposti e dei criteri previsti dalla disciplina della “Golden
(167) Con tale espressione s’intende riferirsi a «qualsiasi struttura giuridica applicabile alle singole imprese, che conserva o contribuisce a mantenere l’influenza dell’autorità pubblica su tali società» (cfr. conclusioni dell’Avvocato Generale Dàmaso Ruiz - Jarabo Colomer presentate il 6 novembre 2008 nella Causa C-326/07). La disciplina in materia di “Golden Share” (e oggi in materia di “Golden Power”) costituisce uno dei modi mediante i quali il potere pubblico può intervenire direttamente nel mercato. Per quanto concerne l’ambito nazionale lo strumento della “Golden Share” è stato introdottoper la prima volta inItalia con l’art. 2 del d.l. n. 332/1994, convertito in l. 474/1994, successivamente abrogato dal comma 2 dell’art. 3, d.l. 15 marzo 2012, n. 63, attraverso di esso lo Stato nel corso, o a seguito, di un procedimento di privatizzazione di un’azienda pubblica, si riservava poteri speciali che potevano essere esercitati dal Governo durante tale procedimento al fine di tutelare gli interessi pubblici in settori ritenuti strategici.
(168) In merito, cfr. L. MARINI, Golden share e diritto comunitario nelle recenti sentenze della Corte di Giustizia, in Dir.
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Share” per l’esercizio dei poteri speciali è risultata incompatibile con i principi di libertà di stabilimento delle imprese e libera circolazione dei capitali garantiti, rispettivamente, dagli artt. 49 e 63 del TFUE (già articoli 43 e 56 del TCE) (169) Incompatibilità che neppure la revisione operata con l’articolo 4, comma 227, della legge finanziaria per il 2004 (legge n. 350/2003), che modificava il comma 1 dell’articolo 2 del decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332, recante le «Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni», convertito con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, è stata in grado di sanare (170), sebbene abbia sancito che i poteri in questione dovessero essere «esercitati esclusivamente ove ricorrano rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi, anche mediante l’eventuale previsione di opportuni limiti temporali, fermo restando il rispetto dei princìpi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione». In detto delicato assetto normativo all’epoca vigente, la necessità e l’urgenza di intervenire sono sorte in seguito alla decisione di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione europea con l’apertura, nel novembre 2009, da parte della Commissione europea, della citata procedura d’infrazione n. 2009/2255 in ordine alla (presunta) illegittimità della disciplina generale italiana dei poteri speciali attribuiti allo Stato nell’ambito delle società privatizzate (171), contenuta nel decreto-legge del 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, come integrato dalla legge 24 dicembre 2003, n. 350, ritenuta lesiva della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali garantite dal TFUE.
In tale contesto si è reso necessario un ulteriore intervento normativo che ha introdotto il diverso, e per molti aspetti nuovo, regime del “Golden Power”, con il dichiarato intento di razionalizzare e delimitare la sfera ed i criteri per l’esercizio dei poteri statali sulle acquisizioni straniere nonché di risolvere il contenzioso comunitario derivato dal precedente sistema della “Golden Share” (172) In particolare, il decreto-legge del 15 marzo 2012, n. 21 è intervenuto sulla previgente disciplina della “Golden Share”, riformulando profondamente sia la ratio di detto istituto, sia le condizioni e l’ambito di esercizio dei poteri speciali dello Stato estendendo l’applicazione della normativa in esame
comm. internaz., 2002, pp. 489 ss.
(169) V. infra la decisione adottata dalla Commissione europea il 24 novembre 2011 di deferire l’Italia alla Corte di Giustizia dell’Unione europea a conclusione della procedura d’infrazione n. 2009/2255
(170) Infatti, nonostante i correttivi introdotti dalla legge finanziaria per il 2004, la Commissione europea ha ritenuto tali sforzi non sufficienti. A seguito delle censure mosse dalla Commissione, nel 2009 la Corte di Giustizia ha giudicato l’Italia responsabile peraverviolato la normativa comunitariain materia di libera circolazione dei capitali (art.63 TFUE, già art. 56 TCE) e quella sul diritto di stabilimento (art. 49 TFUE, già art. 43 TCE).
(171) Nella fattispecie, all’epoca dei fatti si trattava di Eni, Enel, Finmeccanica e Telecom Italia.
(172) Giova evidenziare che la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo era già stata oggetto di censure sollevate dalla Commissione europea e di una pronuncia di condanna da parte della Corte di Giustizia UE con sentenza del 26 marzo 2009 (causa C-326/07). Con tale sentenza, l’Italia era stata condannata per le disposizioni dell’art. 1, comma 2, d.p.c.m. 10 giugno 2004, di attuazione della normativa generale e recante la definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali. Su tale sentenza v. G. URBANO, Le regole comunitarie sulle società pubbliche: tutela della concorrenza, golden share e aiuti di Stato, in www.giustamm.it (Rivista telematica di diritto pubblico), 2012, pp. 23 ss.; G.C. SPATTINI, “Vere” e “false” “golden shares” nella giurisprudenza comunitaria. La deriva sostanzialista della Corte di Giustizia, ovvero il “formalismo” del principio della “natura della cosa”: Il caso Volkswagen e altro…, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., fasc. 1, 2008, il quale evidenziava «Il problema non è più quello costituito dalla presenza di azioni d’oro o poteri speciali conferiti statutariamente o legislativamente ai poteri pubblici, bensì, ben più radicalmente, la questione della possibilità che il diritto societario dei singoli Paesi aderenti alla Comunità possa contenere delle normative che in qualche modo rendano differenziabile l’azionista pubblico da quello privato, o addirittura gli azionisti tra loro senza distinzioni di titolo proprietario, in ossequio al principio, non esistente nei Trattati, “one share, one vote”: ovvero la brutale messa in discussione della legittimità comunitaria del pluralismo dei modelli giuridici del capitalismo europeo destinato a cadere, sembra, sotto i “colpi di maglio” delle decisioni della corte».
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con il passaggio da un approccio “soggettivo” riferito allo specifico ambito delle società privatizzate ovvero sottoposte a controllo pubblico ad uno “oggettivo” e quindi non limitato alla possibilità di esercitare detti poteri solo nei confronti delle «società» (cfr. art. 1 d.l. n. 332/1994) controllate direttamente o indirettamente dallo Stato ovvero da enti pubblici, o comunque in mano pubblica, operanti nel settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi, bensì esteso anche alle «attività» (cfr. art. 1 d.l. n. 21/2012) relative ai settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché in taluni ambiti di attività definiti di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a prescindere se le stesse siano svolte da società in controllo (diretto o indiretto) pubblico. In questo modo si è abbandonato il principio della “partecipazione privilegiata” statale nelle compagini societarie, basato sulle cc.dd. “azioni d’oro” munite di prerogative speciali, per passare ad una normativa di carattere generale – come quella del “Golden Power” – con la quale, in definitiva, si usciva dall’ambito privatistico per entrare pienamente in quello pubblicistico (173).
A differenza del precedente, l’istituto di nuovo conio si fonda su una diversa logica, alla cui base si pongono poteri pubblici in primis di controllo e a seguire di tipo oppositivo e prescrittivo nonché, sebbene solo in ultima istanza, interdittivo e sanzionatorio; inoltre, come già evidenziato, esso presenta un ambito di applicazione di tipo oggettivo, basato sulle attività afferenti ai settori strategici della difesa e della sicurezza nazionale ovvero dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia e di altri pubblici servizi, piuttosto che sulla forma della compagine societaria che, pertanto, diviene, ai fini dell’esercizio degli stessi poteri, del tutto indifferente (rectius: neutrale). Difatti, la principale differenza con la normativa precedente si rinviene nell’ambito operativo della nuova disciplina (in tal senso cfr. anche l’art. 1 del d.p.c.m. 6 giugno 2014, n. 108, recante «Individuazione delle attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave nei settori della difesa e della sicurezza nazionale di competenza del Ministero della difesa», nonché l’art. 1 del d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180, recante il «Regolamento per l’individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni»), che consente l’esercizio dei poteri speciali rispetto a tutte le società, pubbliche o private, che svolgono attività considerate di rilevanza strategica, e non più soltanto rispetto alle compagini societarie privatizzate ovvero in mano pubblica. In pratica, una visione d’insieme di questo provvedimento consente di coglierne l’evoluzione – relativa all’esercizio dei poteri speciali sulle imprese nazionali operanti nei settori dei servizi pubblici, tra i quali il settore della difesa e della sicurezza nazionale – in quanto gli attuali poteri non risultano più correlati in maniera esclusiva alla partecipazione pubblica nell’azionariato, ma sono riferiti alle società operanti in «settori strategici» e non genericamente nei «settori dei servizi pubblici» (174). Non indifferenti, invece, sono le ragioni di esercizio dei poteri speciali che devono essere
(173) Per approfondimenti si rinvia a R. GAROFOLI, Golden power e controllo degli investimenti esteri: natura dei poteri e adeguatezza delle strutture amministrative, in Federalismi.it, n. 9/2019.
(174) Vds. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 giugno 2014, n. 108, recante il «Regolamento per l’individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, a norma dell’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56». Per il vero, le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale erano state individuate, in un primo momento, con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 novembre 2012, n. 253, successivamente integrato e modificato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 2 ottobre 2013, n. 129 e infine abrogato dall’art. 5, comma 1, d.p.c.m. 6 giugno 2014, n. 108. L’adozione del prefato d.p.c.m. n. 108/2014 (che ha abrogato i due precedenti) si è resa necessaria, in primo luogo, per individuare anche le attività di rilevanza strategica per la difesa e sicurezza nazionale di competenza del Ministro dell’interno (atteso che i primi due decreti si limitavano a elencare le attività strategicamente rilevanti di competenza del Ministro della difesa, in maniera, peraltro, assai poco sistematica) e, in secondo luogo, al fine di riunire, per esigenze di semplificazione, in un unico regolamento tutte le norme che individuassero (e attualmente individuano) le attività di rilevanza strategica per i settori della difesa e della sicurezza nazionale.
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ben motivate, anche ai fini di un eventuale vaglio giurisdizionale (175) nel caso di (illegittimo) esercizio dei poteri speciali da parte dello Stato, e limitate ai settori dove esistono interessi strategici di rilevanza nazionale. In seguito, con il decreto-legge del 16 ottobre 2017, n. 148, recante «Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili», coordinato con la legge di conversione 4 dicembre 2017, n. 172, all’art. 14 il legislatore ha introdotto ulteriori modifiche alla disciplina previgente allo scopo di colmare alcune lacune normative e di rafforzare ulteriormente gli strumenti di garanzia a tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, prevedendo a tal fine:
- una sanzione amministrativa pecuniaria ove siano violati gli obblighi di notifica;
- l’individuazione, con appositi regolamenti, di settori ad «alta intensità tecnologica» oggetto della nuova disciplina (176);
- l’individuazione di uno specifico criterio al quale il Governo deve attenersi con riferimento a quelle operazioni di acquisto, da parte di soggetti extra UE, di società che detengono attivi strategici nel settore energetico, dei trasporti e delle comunicazioni, ove l’acquisto di partecipazioni determini l’insediamento stabile dell’acquirente;
- l’individuazione del pericolo per la sicurezza o per l’ordine pubblico come ulteriore presupposto per l’esercizio dei poteri de quibus
Ulteriori modifiche al d.l. n. 21/2012 sono state in seguito apportate con il decreto-legge 25 marzo 2019, n. 22, che ha introdotto l’articolo 1-bis, relativo all’esercizio dei poteri speciali inerenti alle reti di telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G (v. infra) (177). All’uopo la disposizione in esame prevede che l’impresa che stipula, a qualsiasi titolo, contratti o accordi aventi ad oggetto l’acquisizione di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti relative ai servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G, ovvero acquisisca, a qualsiasi titolo, componenti ad «alta intensità tecnologica» funzionali alla predetta realizzazione o gestione, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea, deve presentare una notifica ai sensi della normativa sul “Golden Power”.
Successivamente nello specifico settore in esame è intervenuto anche il decreto-legge 21 settembre 2019, n. 105, il quale – sebbene sia principalmente riferito all’istituzione del c.d. “perimetro di sicurezza nazionale cibernetica” (178)
(175) Sul piano giurisdizionale giova rilevare che gli atti mediante i quali vengono esercitati i poteri speciali sono assoggettati al sindacato del giudice amministrativo (art. 133 co. 1, lett. z-quinquies, Codice del processo amministrativo). La sindacabilità dei suddetti atti era già prevista dal previgente regime normativo. In particolare, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 4, comma 227, della l. n. 350/2003, il d.l. n. 332/1994 prevedeva che gli atti di opposizione e di veto fossero impugnabili entro 60 giorni davanti al T.A.R. del Lazio. La principale novità introdotta dal d.l. n. 21/2012 consiste nell’aver ricondotto tale ipotesi di giurisdizione nell’ambito della giurisdizione esclusiva.
(176) Si tratta di un settore che comprende: a) le infrastrutture critiche o sensibili, tra cui immagazzinamento e gestione dati, infrastrutture finanziarie; b) tecnologie critiche, compresa l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, le tecnologie con potenziali applicazioni a doppio uso, la sicurezza in rete, la tecnologia spaziale o nucleare; c) sicurezza dell’approvvigionamento di input critici; d) accesso a informazioni sensibili o capacità di controllare le informazioni sensibili.
(177) La tecnologia 5G si pone come obiettivo ottenere una maggiore efficienza e versatilità nel supporto delle applicazioni di rete tramite: l’ottimizzazione dell’uso delle risorse di rete mediante la definizione di sottoreti virtuali indipendenti per ogni tipologia del servizio (slicing); la virtualizzazione di gran parte dei dispositivi di rete e una gestione dinamica della banda disponibile tramite sistemi automatizzati di tipo SDN; la capacità di gestire una maggiore quantità di dispositivi per unità di superficie (circa 1.000.000 di dispositivi per km² contro i 1.000-100.000 per km² della 4G); il supporto di caratteristiche più spinte in termini di latenza per garantire tempi di risposta in “tempo reale”, necessari per applicazioni critiche; una maggiore velocità di trasmissione dei dati, teoricamente fino a 10 gigabit al secondo (Gbit/s); una significativa riduzione del consumo energetico (90% in meno rispetto alla 4G per ogni bit trasmesso).
(178) Sul tema degli assetti normativi nazionali inmateria di cyberspace, si rinvia, funditus, a L.SALAMONE, La disciplina del cyberspace alla luce della direttiva europea sulla sicurezza delle reti e dell’informazione: contesto normativo
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prevede che l’esercizio dei poteri speciali in relazione alle reti, ai sistemi informativi e ai servizi strategici di comunicazione a banda larga basati sulla tecnologia 5G sia effettuato previa valutazione degli elementi indicanti la presenza di fattori di vulnerabilità da parte dei centri di valutazione individuati dalla nuova normativa e, con riferimento alle autorizzazioni già rilasciate ai sensi del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, sia prevista la possibilità di integrare o modificare le misure prescrittive già previste alla luce dei nuovi standard. Infine, giova evidenziare come per taluni aspetti che lambiscono la materia de qua più recentemente sia altresì intervenuto il legislatore europeo con il Regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio datato 19 marzo 2019 che ha istituito un quadro per il controllo degli investimenti diretti esteri all’interno dell’Unione, creando un sistema comune di monitoraggio a tutela delle attività strategiche e delle operazioni con potenziale impatto sulla sicurezza e l’ordine pubblico in Europa. In particolare, il Regolamento de quo istituisce un meccanismo di cooperazione grazie al quale gli Stati Membri (d’ora in poi SM) e la Commissione potranno scambiarsi informazioni ed esprimere eventuali perplessità relative ad investimenti specifici. Secondo quanto previsto dalla normativa europea gli SM devono notificare alla Commissione e agli altri SM tutti gli investimenti esteri diretti nel loro territorio che sono oggetto di un controllo in corso fornendo una serie di informazioni indicate all’art. 9; è altresì previsto che uno SM può formulare osservazioni allo SM che effettua il controllo se ritiene che l’investimento diretto estero possa incidere sulla propria sicurezza o sul proprio ordine pubblico. Al riguardo, la Commissione europea può emettere un parere destinato allo SM che effettua il controllo se ritiene che un investimento diretto estero possa incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico di più di uno SM o su richiesta di uno SM; nello specifico la Commissione emette un parere, ove giustificato, se almeno un terzo degli SM ritenga che un investimento diretto estero possa incidere sulla propria sicurezza o ordine pubblico. La Commissione può infine emettere un parere se ritiene che un investimento diretto estero possa incidere su progetti o programmi di interesse per l’Unione per motivi di sicurezza o ordine pubblico. Analoghi strumenti sono altresì previsti per il caso di investimenti diretti esteri in programma o già realizzati in un altro SM e che non siano oggetto di un controllo in corso.
4. Il “Golden Power” prima del decreto-legge n. 23/2020 (c.d. “Decreto liquidità”): i settori di applicazione della normativa
Prima di esaminare le principali novità introdotte dal decreto-legge n. 23/2020 (c.d. “Decreto liquidità”), è opportuno richiamare i punti fondamentali della disciplina previgente, con specifico riferimento ai settori di applicazione, ai poteri dell’esecutivo e agli obblighi di notifica nei settori strategici.
Come evidenziato, mediante il d.l. n. 21/2012 si realizza il passaggio da un regime di “Golden Share” ad un sistema ribattezzato “Golden Power” non più limitato a società privatizzate sotto “influenza pubblica”, ma esteso a tutte le società che svolgono attività di rilievo strategico e sganciato dalla titolarità da parte dello Stato di partecipazioni nelle imprese strategiche in questione e specificamente giustificato, sul piano finalistico, dalla tutela contro minacce di grave pregiudizio agli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1), delle comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G (art. 1-bis), nonché alla tutela degli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti (art. 2). Al tale ultimo riguardo, giova rilevare che gli originari – gli stessi, infatti, come evidenziato sono stai in seguito ampliati – ambiti di applicazione del “Golden Power” introdotti con il d.l. n. 21/2012 erano: difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti, comunicazione. nazionale di riferimento, ruolo dell’intelligence e prospettive de iure condendo, in Federalismi n. 23/2017.
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Nello specifico, per quanto riguarda il settore difesa e sicurezza nazionale, l’art. 1, comma 4, d.l. n. 21/2012, prevede che le imprese che svolgono attività di rilevanza strategica nei sopraccitati settori sono tenute a notificare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un’informativa completa su determinate delibere o atti societari, al fine di consentire il tempestivo esercizio dei poteri speciali da parte del Governo. Il comma 5 del medesimo art. 1 prevede che chiunque acquisisca una partecipazione in imprese che svolgono attività di rilevanza strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale è tenuto a notificarlo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri (179). Se l’acquisizione ha ad oggetto azioni di una società ammessa alla negoziazione nei mercati regolamentati, la notifica deve essere effettuata qualora l’acquirente venga a detenere, a seguito dell’acquisizione, partecipazioni superiori a determinate soglie fissate dalla legge. Giova comunque rilevare che la possibilità di esercizio dei poteri pubblici di controllo e interdizione statuale presenta una doppia garanzia, infatti da un lato consente allo Stato l’esercizio di determinati poteri di controllo e interdizione a tutela dei propri interessi strategici nazionali, dall’altro, al contempo, si pone a salvaguardia dell’esercizio arbitrario degli stessi poteri nei confronti dei soggetti passivi dell’attività di controllo prevedendo, al citato art. 1, comma 1, che presupposto per l’esercizio dei poteri speciali in tale ambito è la sussistenza di una minaccia di «grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale». Per dovere di completezza giova rilevare che le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale sono state appositamente individuate con il d.p.c.m. 6 giugno 2014, n. 108.
Quanto invece al settore relativo a energia, trasporti, comunicazioni e settori rilevanti ai sensi dell’art. 4, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2019/452 (180), l’esercizio dei poteri speciali si basa sulla sussistenza di una «minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti» (cfr. art. 2, comma 3, d.l. n. 21/2012). Al tale specifico riguardo, l’art. 2, comma 2, del d.l. n. 21/2012 prevede che debbano essere notificati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri le delibere, gli atti e le operazioni poste in essere da società che detengono attivi strategici nei settori sopraindicati
(179) Nello specifico, l’art. 1, comma 5, prevede che ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri di cui al comma 1, lettere a) e c), chiunque acquisisce una partecipazione in imprese che svolgono attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale notifica l’acquisizione entro dieci giorni alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, trasmettendo nel contempo le informazioni necessarie, comprensive di descrizione generale del progetto di acquisizione, dell’acquirente e del suo ambito di operatività, per le valutazioni di cui al comma 3. Il medesimo comma 5 disciplina inoltre i casi in cui deve essere effettuata la notifica con riguardo all’ipotesi in cui l’acquisizione abbia ad oggetto azioni di una società ammessa alla negoziazione nei mercati regolamentati. Il potere di imporre specifiche condizioni di cui al comma 1, lettera a), o di opporsi all’acquisto ai sensi del comma 1, lettera c), è esercitato – in base al disposto di cui al comma 5 in esame – entro quindici giorni dalla data della notifica. Qualora si renda necessario richiedere informazioni all’acquirente, tale termine è sospeso, per una sola volta, fino al ricevimento delle informazioni richieste, che sono rese entro il termine di dieci giorni. Da questa ristrettezza temporale entro cui l’Amministrazione deve esercitare i poteri speciali in questione (imposizione di specifiche condizioni e opposizione) nasce l’esigenza di avere già un paradigma prescrittivo con l’inserimento nell’organizzazione aziendale di una figura soggettiva fiduciaria.
(180) Art. 4, par. 1, Regolamento (UE) 2019/452: «Nel determinare se un investimento estero diretto possa incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, gli Stati membri e la Commissione possono prendere in considerazione i suoi effetti potenziali, tra l’altro, a livello di:
a) infrastrutture critiche, siano esse fisiche o virtuali, tra cui l’energia, i trasporti, l’acqua, la salute, le comunicazioni, i media, il trattamentoo l’archiviazione didati, le infrastruttureaerospaziali, didifesa, elettorali o finanziarie, e lestrutture sensibili, nonché gli investimenti in terreni e immobili fondamentali per l’utilizzo di tali infrastrutture;
b) tecnologie critiche e prodotti a duplice uso quali definiti nell’articolo 2, punto 1, del regolamento (CE) n. 428/2009 del Consiglio, tra cui l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, la cibersicurezza, le tecnologie aerospaziali, di difesa, di stoccaggio dell’energia, quantistica e nucleare, nonché le nanotecnologie e le biotecnologie;
c) sicurezza dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, tra cui l’energia e le materie prime, nonché la sicurezza alimentare;
d) accesso a informazioni sensibili, compresi i dati personali, o la capacità di controllare tali informazioni;
e) libertà e pluralismo dei media».
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(settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni). Mentre l’art. 2, comma 5, d.l. n. 21/2012, prevede che venga notificato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri anche l’acquisto da parte di un soggetto esterno all’Unione europea di partecipazioni in società che detengono attivi strategici in detti settori, di rilevanza tale da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente nella società. Pertanto, al fine di rendere la norma concretamente operante, dapprima con il d.p.r. 25 marzo 2014, n. 85 – che ha cessato di avere efficacia il 14 gennaio 2021 – e in seguito con il d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180 sono stati individuati gli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, a norma dell’art. 2, comma 1, d.l. n. 21/2012.
Come già accennato (v. supra), il d.l. n. 105/2019 ha poi ulteriormente ampliato il perimetro delineato dall’art. 2, inserendo al comma 1-ter il possibile pregiudizio alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti anche ai beni ed ai rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale nei settori individuati dall’articolo 4, paragrafo 1, del Regolamento (UE) n. 2019/452.
Da ultimo, come già evidenziato, i suddetti originari ambiti di applicazione sono stati progressivamente ampliati con successivi provvedimenti, fino a ricomprendere, all’art. 1-bis, d.l. n. 21/2012, i settori ad alta intensità tecnologica e le reti di telecomunicazione a banda larga basati su tecnologia 5G (181).
4.1 I poteri speciali del Governo nei settori strategici
Passando adesso in rassegna i poteri speciali del Governo nei settori strategici nazionali, giova evidenziare che con la normativa sul “Golden Power” di cui al d.l. n. 21/2012 il legislatore ha di fatto introdotto uno “scudo normativo” grazie al quale l’esecutivo ha la facoltà di:
a) dettare specifiche condizioni e/o prescrizioni rispetto al compimento di atti, contratti, altri accordi, deliberazioni, acquisto di partecipazioni o di beni strategici, anche mediante imposizione all’acquirente di impegni diretti a garantire la tutela degli interessi nazionali;
b) apporre veti all’adozione di determinate delibere societarie, principalmente quelle aventi ad oggetto: la modifica di clausole statutarie inerenti al trasferimento all’estero della sede o l’oggetto sociale; fusioni; scissioni; scioglimento della società; cessioni di azienda, di ramo di azienda, di società controllate, di diritti reali o di utilizzo di beni materiali o immateriali nonché l’assunzione di vincoli che ne condizionino l’impiego;
c) opporsi all’acquisto di partecipazioni da parte di un soggetto diverso dallo Stato italiano ovvero da enti pubblici italiani o soggetti da questi controllati, che portino l’acquirente ad esercitare, direttamente o indirettamente, anche attraverso acquisizioni successive, per interposta persona o tramite soggetti altrimenti collegati, diritti di voto in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Nello specifico, con particolare riferimento al settore della difesa e della sicurezza nazionale, si prevede che «in caso di minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale» (182):
- si potranno imporre specifiche condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici, al controllo delle esportazioni nel caso di acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in società strategiche (articolo 1, comma 1, lettera a, d.l. n. 21/2012);
(181) A tal proposito v. infra schema riassuntivo dei regolamenti e delle corrispondenti attività strategiche.
(182) La nuova normativa subordina l’esercizio dei poteri speciali nei comparti della sicurezza e della difesa alla sussistenza di una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale. In merito, v. G. URBANO, Le regole comunitarie, cit., p. 26
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- si potrà opporre il veto in caso di delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione di società strategiche aventi ad oggetto materie straordinarie (art. 1, comma 4, d.l. n. 21/2012 e art. 4, comma 1, d.p.r. n. 35/2014) (183);
si potrà esercitare il diritto di opposizione all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in imprese strategiche da parte di un soggetto diverso dallo Stato italiano, enti pubblici italiani o soggetti da questi controllati, qualora l’acquirente venga a detenere, direttamente o indirettamente, un livello della partecipazione al capitale con diritto di voto in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale (art. 1, comma 1, lettera c, d.l. n. 21/2012).
La legge individua poi nello specifico i criteri per la valutazione della situazione di minaccia di pregiudizio agli interessi essenziali predetti e, a tal fine, si dovrà notificare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un’informativa completa sull’operazione, secondo una procedura differenziata a seconda che si tratti di operazioni che determinino l’esercitabilità dei suddetti poteri (184).
D’altro canto, per quanto concerne i poteri speciali affidati all’esecutivo nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, essi non si discostano molto da quanto previsto nei settori della difesa e della sicurezza nazionale e consistono nel potere di veto nei confronti di determinate delibere (assembleari o dell’organo amministrativo), atti e/od operazioni (art. 2, comma 3, d.l. n. 21/2012) e nel potere di imporre condizioni e impegni, o in casi eccezionali, di opporsi all’acquisto, da parte di soggetti esterni all’Unione europea, di partecipazioni nel capitale di società che detengono attivi strategici (art. 2, comma 6, d.l. n. 21/2012).
(183) Le attività straordinarie di rilevanza strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale sono: la fusione o la scissione della società; il trasferimento dell’azienda o di rami di essa o di società controllate; il trasferimento all’estero della sede sociale; il mutamento dell’oggetto sociale; lo scioglimento della società; la modifica di clausole statutarie che prevedono limiti al diritto di voto (ai sensi dell’articolo 2351, comma 3, del codice civile) o limiti al possesso azionario (a norma dell’articolo 3 del d.l. 332/1994); le cessioni di diritti reali o di utilizzo relative a beni materiali o immateriali o l’assunzione di vincoli che ne condizionino l’impiego (art. 1, comma 1, lettera b, d.l. n. 21/2012).
(184) Nei settori di difesa e sicurezza nazionale l’obbligo di notifica alla Presidenza del Consiglio dei Ministri a carico di chiunque acquisisca una partecipazione nel capitale di imprese che svolgono attività di rilevanza strategica nei suddetti settori, va assolto entro dieci giorni dall’acquisto e indipendentemente dall’entità della partecipazione acquisita (v. art. 1, comma 5, d.l. 21/2012 e articolo 4, comma 2, d.p.r. n. 35/2014). Ove l’acquisizione abbia ad oggetto azioni di una società quotata, la notifica dovrà essere effettuata qualora l’acquirente venga a detenere, a seguito dell’acquisizione, una partecipazione superiore alla soglia prevista dall’articolo 120, comma 2, del testo unico della finanza (che, con il decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 25, attuativo della direttiva 2013/50/UE – c.d. Transparency II, è stata elevata dal 2% al 3%); successivamente, inoltre, dovranno essere notificate le acquisizioni che determinino il superamento delle soglie del 5%, 10%, 15%, 20% e 25%.
Ai fini dell’esercizio del potere di veto, l’impresa notifica alla Presidenza del Consiglio dei Ministri un’informativa completa sulla delibera o sull’atto da adottare, in maniera tale da consentire – se del caso – il tempestivo esercizio del potere di veto (art. 1, comma 4, d.l. n. 21/2012 e articolo 4, comma 1, d.p.r. n. 35/2014); entro quindici giorni dalla notifica, il Presidente del Consiglio dei Ministri comunica l’eventuale veto; qualora si renda necessario richiedere informazioni all’impresa, tale termine è sospeso, per una sola volta, sino al ricevimento delle informazioni richieste, che sono rese entro il termine di dieci giorni. Le richieste di informazioni successive alla prima non sospendono i termini, decorsi i quali l’operazione può essere effettuata. Quanto alle modalità di notifica, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dell’acquisizione della partecipazione, la procedura in nulla differisce da quanto sopra visto con riguardo al potere di imposizione di condizioni all’acquisto di partecipazioni; stessa cosa dicasi per il termine a disposizione dell’esecutivo per l’esercizio del potere di opposizione e per quanto riguarda la procedura e i termini per chiedere all’acquirente ulteriori informazioni.
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Nei suddetti settori, il secondo comma dell’art. 2, d.l. n. 21/2012 dispone che qualsiasi delibera, atto e/o operazione da parte di un’impresa che detiene reti e impianti, beni e rapporti di rilevanza strategica sia preventivamente notificata al Governo, entro dieci giorni e comunque prima che vi sia data attuazione, ove tale attività abbia per effetto modifiche della titolarità, del controllo o della disponibilità degli attivi medesimi o il cambiamento della loro destinazione.
Tutti i poteri pubblici descritti in precedenza potranno essere esercitati sulla base di criteri oggettivi e non discriminatori (art. 2, comma 7, d.l. n. 21/2012) che vengono illustrati dalla legge (ad es. la sussistenza di legami fra l’acquirente e Paesi terzi che non riconoscono i principi di democrazia o dello Stato di diritto, che non rispettano le norme del diritto internazionale o che hanno assunto comportamenti a rischio nei confronti della comunità internazionale desunti dalla natura delle loro alleanze ovvero hanno rapporti con organizzazioni criminali o terroristiche o con soggetti ad essi comunque collegati). Inoltre, all’ambito di applicazione della disciplina dei poteri speciali nei suddetti settori, l’art. 4, comma 1, d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180 prevede che, fermo restando l’obbligo di notifica, i poteri speciali di cui all’art. 2, d.l. n. 21/2012, debbano applicarsi nella misura in cui «la tutela degli interessi essenziali dello Stato previsti dal medesimo articolo 2, ivi inclusi quelli connessi ad un adeguato sviluppo infrastrutturale, non sia adeguatamente garantita dalla sussistenza di una specifica regolamentazione di settore, anche di natura convenzionale e connessa a uno specifico rapporto concessorio»
Come anticipato, la disciplina appena descritta è stata oggetto di ulteriori modifiche, in particolare all’art. 2, d.l. n. 21/2012, è stato aggiunto il comma 1-ter ad opera dell’art. 14, d.l. n. 148/2017, in forza del quale le aree destinate a formare oggetto dei decreti regolamentari di attuazione e specificazione di cui sopra, ai fini della verifica in ordine alla sussistenza di un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, vengono estese ai «settori ad alta densità tecnologica». Quanto al sistema sanzionatorio, invece, l’art. 14, comma 1, lettera a), d.l. n. 148/2017 prescrive che all’art. 1, d.l. n. 21/2012 (relativo ai settori della difesa e della sicurezza nazionale) sia aggiunto, dopo il comma 8, il comma 8-bis, ai sensi del quale «salvo che il fatto costituisca reato e ferme le invalidità previste dalla legge, chiunque non osservi gli obblighi di notifica di cui al presente articolo è soggetto a una sanzione amministrativa pecuniaria fino al doppio del valore dell’operazione e comunque non inferiore all’uno per cento del fatturato cumulato realizzato dalle imprese coinvolte nell’ultimo esercizio per il quale sia stato approvato il bilancio».
Infine, più di recente, il decreto-legge 25 marzo 2019, n. 22, conv. in legge 20 maggio 2019, n. 41, ha introdotto nel d.l. n. 21/2012 l’art. 1-bis, che disciplina l’esercizio di poteri speciali – nel senso del potere di veto o dell’imposizione di specifiche prescrizioni e condizioni – inerenti le reti di telecomunicazione elettronica a banda larga con tecnologia 5G, con riferimento in particolare a contratti o accordi, stipulati a qualsiasi titolo, con soggetti esterni all’Unione europea, aventi ad oggetto l’acquisizione di beni o servizi relativi alla progettazione, alla realizzazione, alla manutenzione e alla gestione delle reti relative ai servizi di comunicazione elettronica basati sulla tecnologia 5G; o all’acquisizione, mediante operazioni a qualsiasi titolo, di componenti ad alta intensità tecnologica funzionali alla predetta realizzazione o gestione, quando posti in essere con soggetti esterni all’Unione europea. In seguito, il decreto-legge 21 settembre 2019, n. 105, conv. in legge 18 novembre 2019, n. 133, ha esteso ancor più l’ambito operativo delle norme in tema di poteri speciali esercitabili dal Governo nei settori strategici, avendo precipuo riguardo alla comunicazione elettronica e alla sicurezza nazionale cibernetica, coordinandolo, al contempo, con l’attuazione del citato Regolamento 19 marzo 2019, n. 2019/452/UE, in materia di controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione europea applicabile dall’11 ottobre 2020 (cfr. art. 17 Reg.).
4.1.1 (Segue): in particolare le specifiche condizioni relative ai trasferimenti tecnologici
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Nel contesto della materia in esame uno specifico cenno merita la possibilità di fare altresì ricorso all’istituto delle specifiche condizioni relative ai trasferimenti tecnologici. Ed invero, per ciò che attiene alle modalità attuative della protezione degli interessi strategici nazionali, il d.p.c.m. 6 novembre 2015, n. 5 (185), prevede, all’art. 1, lettera v), il vincolo di «diffusione esclusiva», da apporre su informazioni o documenti – ovvero su categorie di informazioni o documenti – per limitarne la conoscibilità a persone in possesso della sola cittadinanza italiana, unitamente o meno a persone che posseggono la sola cittadinanza di uno o più Paesi stranieri, mediante l’indicazione “ESCLUSIVO ITALIA” ovvero “ESCLUSIVO ITALIA e (denominazione del o dei Paesi stranieri)”.
Il successivo art. 40, dello stesso d.p.c.m. n. 5/2015 definisce lo strumento giuridico che abilita gli operatori economici alla trattazione, tra l’altro, delle informazioni a «diffusione esclusiva», ovvero il «Nulla Osta di Sicurezza Industriale Strategico» (NOSIS), rilasciato a quei soggetti la cui attività, per oggetto, tipologia o caratteristiche, assume rilevanza strategica per la protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali nazionali. Coerentemente con il quadro normativo descritto nei paragrafi precedenti, il citato art. 40 specifica inoltre che rientrano nell’ambito delle attività di rilevanza strategica le seguenti:
a) le attività volte ad assicurare la difesa e la sicurezza dello Stato;
b) le attività volte alla produzione o allo sviluppo di tecnologie suscettibili di impiego civile/militare;
c) le attività connesse alla gestione delle infrastrutture critiche anche informatiche e di interesse europeo;
d) la gestione di reti, di infrastrutture e di sistemi di ricetrasmissione ed elaborazione di segnali e/o comunicazioni;
e) la gestione di reti e infrastrutture stradali, ferroviarie, marittime ed aeree;
f) la gestione di reti e sistemi di produzione, distribuzione e stoccaggio di energia ed altre infrastrutture critiche;
g) la gestione di attività finanziarie, creditizie ed assicurative di rilevanza nazionale.
Relativamente ai suddetti settori, l’autorità competente in materia di “Golden Power” – individuata ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 19 febbraio 2014, n. 35 per la difesa e sicurezza nazionale (186) e dell’art.
3 del decreto del Presidente della Repubblica 25 marzo 2014, n. 86 per energia, trasporti e comunicazioni (187) – può definire le informazioni e i documenti (ovvero le categorie di informazioni e documenti) su cui apporre il vincolo di «diffusione esclusiva», anche per il tramite di apposita delega conferita all’operatore economico.
Giova evidenziare che l’esercizio di tale prerogativa fornisce allo Stato un ulteriore strumento per intervenire più o meno direttamente, tra l’altro, sui “trasferimenti tecnologici” da operatori economici nazionali verso aziende straniere, in caso in cui ciò prefiguri una «minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale», ex art. 1, d.l. n. 21/2012, concretando di fatto la previsione dell’«imposizione di
(185) Cfr. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 novembre 2015, n. 5, recante «Disposizioni per la tutela amministrativa del segreto di Stato e delle informazioni classificate e a diffusione esclusiva».
(186) A norma del quale «1. Le attività inerenti all’istruttoria e alla proposta per l’esercizio dei poteri speciali, di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto-legge, e le attività conseguenti, di cui ai successivi commi 4 e 5 del citato articolo 1, sono affidate dall’ufficio della Presidenza del Consiglio di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a), al Ministero dell’economiaedellefinanze,perlesocietàdirettamenteoindirettamentedaessopartecipate,ovvero,perlealtresocietà, al Ministero della difesa o alMinistero dell’interno, secondo irispettivi ambiti di competenza, oveoccorra tenendo conto della competenza prevalente. L’ufficio della Presidenza del Consiglio ne dà immediata comunicazione all’impresa interessata».
(187) A norma del quale «1. Le attività inerenti all’istruttoria e alla proposta per l’esercizio dei poteri speciali nonché le attività conseguenti, di cui all’articolo 2 del decreto-legge, sono affidate dall’ufficio della Presidenza del Consiglio di cui all’articolo 2, comma 2, lettera a), al Ministero dell’economia e delle finanze per le società direttamente o indirettamente da esso partecipate, ovvero, per le altre società, al Ministero dello sviluppo economico o al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, secondo i rispettivi ambitidi competenza,oveoccorra tenendo conto della competenza prevalente. L’ufficio della Presidenza del Consiglio ne dà immediata comunicazione all’impresa interessata».
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specifiche condizioni», contenuta nel medesimo articolo, e rendendo inaccessibili le informazioni sulla tecnologia sensibile a tali aziende estere, anche quando queste fossero entrate legittimamente nella proprietà degli operatori nazionali.
4.1.2 (Segue): la «diffusione esclusiva» quale strumento per disegnare un perimetro a difesa degli interessi strategici nazionali nella ricerca tecnologica militare
Fatta salva la possibilità di utilizzare il citato istituto della classifica per tutelare gli «interessi nazionali di natura politica, economica, finanziaria, industriale, scientifica, tecnologica, sanitaria e di tutela ambientale» (188), il vincolo della «diffusione esclusiva» si presenta altresì quale strumento utile per circoscrivere quelle conoscenze scientifiche e tecnologiche che possono rappresentare un vantaggio competitivo per il “Sistema Paese”, in particolare per quei programmi finanziati o co-finanziati dal Ministero della difesa (189). Infatti, nell’ambito di settori scientifici determinati, la capacità e l’abilità di dominare specifiche tecnologie d’avanguardia, di sfruttarne il potenziale per le esigenze nazionali e, al contempo, di aggiornarle e utilizzarle come punto di partenza per ulteriori e continui progressi tecnici e industriali, costituisce un’essenziale base su cui fondare e impostare l’intera strategia di sviluppo, presente e futuro, non solo delle Forze Armate ma dell’intero Paese, in termini d’ampliamento del patrimonio di conoscenze tecnologiche e know-how, di produzione, di prospettive occupazionali nonché, più in generale, di qualità della vita.
Il mantenimento di una solida e aggiornata base tecnologica e industriale è quindi elemento chiave per la tutela degli interessi dell’Italia, oltre a rappresentare un fattore di consolidamento del posizionamento internazionale del nostro Paese nell’ambito di quelli a maggiore livello di sviluppo tecnologico, in grado di permettere alla Nazione di imporsi, o quantomeno proporsi, sui mercati internazionali con prodotti e servizi competitivi, nonché di acquisire vantaggi di natura politica, economica e militare. Ed invero, non può sottacersi come le attività strategiche sono considerate un elemento sempre più importante nella riflessione sul mantenimento di quelle capacità industriali e tecnologiche giudicate essenziali per la sovranità operativa delle Forze Armate di un paese avanzato. In tal senso «La ricerca militare mira all’acquisizione di conoscenze in settori tecnologici strategici ed innovativi di interesse per la Difesa (anche in relazione alle Key Strategic Activities – KSA approvate dal CSMD)» (190). Nello specifico, il possedere un adeguato grado di sovranità tecnologica e conoscenza nel settore della difesa, e nei connessi ambiti tecnici e dell’alta tecnologia, è presupposto indispensabile per garantire alla difesa un grado d’autonomia e di indipendenza tale da rispondere opportunamente ai livelli d’ambizione nazionale. Le attività
(188) Cfr. Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 12 giugno 2009, n. 7, Allegati A, B, C.
(189) Per quanto concerne le fonti giuridiche dalle quali scaturisce la definizione della competenza in materia di ricerca tecnologica militare, giova ricordare che, ai sensi dell’art. 43 del Codice dell’Ordinamento Militare (COM), «sono unificate presso il Segretariato generale della difesa le attribuzioni e le attività concernenti la politica industriale e tecnologica, la ricerca e lo sviluppo, […]» e in particolare, secondo il disposto di cui all’art. 103, comma 1, lett. p), del Testo Unico sull’Ordinamento Militare (TUOM), il Segretario generale della difesa/Direttore nazionale degli armamenti (SG/DNA) «individua e promuove in campo nazionale e internazionale, sulla base dei criteri stabiliti dal Capo di stato maggiore della difesa, i programmi di ricerca tecnologica per lo sviluppo dei programmi di armamento». Inoltre, giova citare l’art. 105 del citato TUOM, che attribuisce al SG/DNA – in campo tecnico-scientifico – la direzione, l’indirizzo ed il controllo delle attività di ricerca e sviluppo, di ricerca scientifica e tecnologica, di produzione e di approvvigionamento volte alla realizzazione dei programmi approvati. In detta cornice generale, la ricerca militare in campo nazionale si realizza per mezzo del Piano Nazionale della Ricerca Militare (PNRM), gestito dal V Reparto del SGD/DNA.
(190) Cfr. Ministero della difesa – SGD/DNA, Regolamento interno per la “Ricerca militare in campo nazionale” (SGDG-024), revisione 2015, pag. 5.
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strategiche chiave sono, quindi, considerate un elemento necessario per garantire la sovranità di un Paese e per rafforzarne la capacità di operare, in modo indipendente, contro rischi e minacce che potrebbero metterne a repentaglio la sicurezza e l’integrità. In tale quadro, il citato strumento normativo della «diffusione esclusiva» consente di disegnare preventivamente, in fase di pianificazione della ricerca, un reticolo di risultati strategici da riservare alla conoscenza nazionale, raggiungendo l’obiettivo della tutela delle tecnologiche di rilievo strategico. Detto strumento presenta caratteristiche di flessibilità che ne consentono un’applicazione attagliata al contesto e alle specifiche esigenze degli operatori economici interessati. Infatti, l’art. 41 del d.p.c.m. 6 novembre 2015, n. 5, stabilisce che «Le disposizioni per la gestione e la definizione delle misure di salvaguardia e di tutela delle informazioni coperte esclusivamente dal vincolo di cui al comma 1 [informazioni a diffusione esclusiva] sono fissate con direttive applicative emanate dall’Organo nazionale di sicurezza, secondo criteri che tengano conto delle esigenze di sicurezza, anche in ragione degli ambiti territoriali e degli assetti proprietari nei quali l’operatore economico si trova ad agire».
Alla luce di quanto sopra evidenziato, a parere di chi scrive non si può che auspicare che il vincolo della «diffusione esclusiva» sia inserito quale strumento ordinario nel processo di pianificazione della ricerca militare, dall’individuazione delle “Key Strategic Activities”, all’esame di sicurezza di ogni singola ricerca e di ogni singolo deliverable atteso.
5. La nuova disciplina del “Golden Power” alla luce del c.d. “Decreto liquidità”
Tra le recenti misure adottate dal Governo per contrastare gli effetti negativi provocati dall’emergenza epidemiologica da COVID-19 anche nei settori industriali strategici è da annoverarsi il rafforzamento dello scudo del “Golden Power”, realizzato con l’introduzione di talune disposizioni urgenti ad opera del Capo III del decreto-legge
8 aprile 2020, n. 23, recante «Misure urgenti in materia di accesso al credito e di adempimenti fiscali per le imprese, di poteri speciali nei settori strategici, nonché interventi in materia di salute e lavoro, di proroga di termini amministrativi e processuali» (cfr. artt. 15, 16 e 17).
Attraverso dette previsioni normative sono stati ridefiniti l’ambito oggettivo e quello soggettivo, la tipologia, le condizioni e le procedure per l’esercizio da parte del Governo di poteri volti alla salvaguardia degli assets proprietari delle società che operano in settori reputati strategici ovvero di interesse nazionale.
Nello specifico, il rafforzamento dei poteri speciali del Governo in materia di aziende strategiche è stato realizzato con le disposizioni introdotte dal d.l. n. 23/2020 agli articoli 15, 16 e, indirettamente, nell’articolo 17. Si tratta di disposizioni normative che hanno condotto a diversi risultati tra cui l’ampliamento dei settori di intervento; la dilatazione degli obblighi di notifica; l’incremento dei soggetti tenuti alla notifica; l’avviamento della procedura d’ufficio; l’estensione dei poteri della Consob che, con provvedimento motivato da esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, può prevedere, per un limitato periodo di tempo, casi di obbligo di comunicazione da parte dei soggetti che partecipano in un emittente di azioni quotate avente l’Italia come Stato membro d’origine, stabilendo all’uopo soglie ulteriori (in aggiunta alle soglie indicate nel primo periodo del comma 4-bis dell’art. 120, d.lgs. n. 58/1998), nella fattispecie del 5 per cento, per società ad azionariato particolarmente diffuso. Tali novità saranno esaminate in modo specifico nei paragrafi che seguono.
Occorre inoltre specificare che il Governo, in attuazione del c.d. “Decreto liquidità”, ha adottato l’apposito d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179, entrato in vigore il 14 gennaio 2021, attuativo della nuova disciplina del “Golden Power”, attraverso il quale ha individuato le infrastrutture, le tecnologie e le attività economiche esercitate dalle grandi imprese che devono essere protette contro eventuali tentativi di acquisizioni estere, favorite dalla nuova crisi
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economica determinata dalla pandemia da Covid-19. In particolare, tra i settori meritevoli di specifica tutela dal citato decreto sono stati ulteriormente individuati quelli relativi a: energia, acqua, salute, mercato finanziario, creditizio e assicurativo, intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori, cibersicurezza, nanotecnologie, biotecnologie e dell’approvvigionamento di fattori produttivi (per approfondimenti v. infra).
5.1 (Segue): l’art. 15 del decreto-legge n. 23/2020 e l’estensione degli atti soggetti a notifica
Con l’entrata in vigore dell’art. 15, d.l. n. 23/2020, sono stati anzitutto ampliati gli obblighi di notifica alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, già previsti dal d.l. n. 21/2012 e dai correlati regolamenti attuativi al fine dell’eventuale esercizio da parte del Governo dei poteri speciali, prevedendo un’anticipazione a garanzia dell’immediatezza d’intervento, e l’integrazione della disciplina transitoria che lo stesso d.l. n. 105/2019 aveva già introdotto, nell’attesa del completamento degli eventuali ulteriori appositi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri attuativi della nuova disciplina (191).
Inoltre, la novella in argomento ha disposto l’ampliamento degli obblighi di notifica al Governo in relazione ai beni e ai rapporti di rilevanza strategica protetti (i cc.dd. “attivi strategici”), a tutti i settori contemplati dall’art. 4, comma 1, lettere da a) ad e), del Reg. UE n. 452/2019, e cioè non solo ai settori di cui alle lettere a) e b), fin qui rilevanti per il d.l. n. 21/2012 (192), ma anche quelli relativi alla sicurezza dell’approvvigionamento di fattori produttivi critici, tra cui l’energia e le materie prime, nonché alla sicurezza alimentare (lett. c); all’accesso a informazioni sensibili, compresi i dati personali, o la capacità di controllare tali informazioni (lett. d); alla libertà e pluralismo dei media, con l’espressa aggiunta del settore creditizio e assicurativo, complessivamente e genericamente inteso (lett. e).
Nella disposizione di cui all’art. 15, comma 1, d.l. n. 23/2020 si precisava ancora, al fine di chiarire eventuali dubbi ermeneutici, che tra i settori oggetto di intervento, è incluso quello finanziario, compreso il settore creditizio e assicurativo, detta disposizione è divenuta inefficace con l’entrata in vigore del d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179, recante il «Regolamento per l’individuazione dei beni e dei rapporti di interesse nazionale nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, a norma dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56».
(191) Le novità introdotte dalle norme in esame hanno accordato al Governo la possibilità di espletare, anche d’ufficio, e su operazioni non notificate, l’esercizio dei poteri speciali previsti dalla normativa “Golden Power”. Ciò permette di tutelare la sicurezza delle filiere produttive che rappresentano gli interessi strategici dello Stato e di difenderne il controllo societario.
Fermo restando l’obbligo di notifica, i poteri speciali di cui all’art. 2 del d.l. n. 21/2012 relativi a società che detengono beni e rapporti nei settori di cui all’art. 4, comma 1, lett. a), b), c), d) ed e) del Regolamento (UE) 2019/452, ivi inclusi, nel settore finanziario, quello creditizio ed assicurativo, si applicano nella misura in cui la tutela degli interessi essenziali dello Stato, ovvero la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico, previsti dal medesimo art. 2 non sia adeguatamente garantitadallasussistenzadiunaspecificaregolamentazionedisettore.Inoltre,siprevedeche, incasodiviolazione degli obblighidi notifica,la Presidenza del Consiglio deiministri possa avviare il procedimentoai fini dell’eventuale esercizio dei poteri speciali.
(192) V art. 4, comma 1, lett a, Reg. UE n. 452/2019 che individua i seguenti settori: a) infrastrutture critiche, siano esse fisicheovirtuali,tracuil’energia,itrasporti,l’acqua,lasalute,lecomunicazioni,imedia,iltrattamentool’archiviazione di dati, le infrastrutture aerospaziali, di difesa, elettorali o finanziarie, e le strutture sensibili, nonché gli investimenti in terreni e immobili fondamentali per l’utilizzo di tali infrastrutture; b) tecnologie critiche e prodotti a duplice uso quali definiti nell’articolo 2, punto 1, Reg. CE n. 428/2009 del Consiglio, tra cui l’intelligenza artificiale, la robotica, i semiconduttori, la cibersicurezza, le tecnologie aerospaziali, di difesa, di stoccaggio dell’energia, quantistica e nucleare, nonché le nanotecnologie e le biotecnologie.
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Il d.l. n. 23/2020 aveva inoltre previsto, con disposizione efficace fino al 31 dicembre scorso (193), che la stessa valutazione di rischio ex art. 2, comma 6, lett. a) d.l. n. 21/2012, «si applica anche quando il controllo ivi previsto sia esercitato da un’amministrazione pubblica di uno Stato membro dell’Unione europea», e non più solo quando l’acquirente sia direttamente o indirettamente controllato dall’amministrazione pubblica, compresi organismi statali o forze armate, di un Paese non appartenente all’Unione europea, anche attraverso l’assetto proprietario o finanziamenti consistenti. Detta disposizione ha tuttavia perso efficacia a partire dal 1° gennaio 2021.
5.2 (Segue): l’art. 16 del decreto-legge n. 23/2020 e l’avviamento d’ufficio della procedura di controllo
Fermo restando il regime sanzionatorio (194) previsto dallo stesso d.l. n. 21/2012 per i casi di inosservanza degli stessi obblighi di notifica, l’art. 16 modifica gli artt. da 1 a 2-bis, d.l. n. 21/2012, nel senso anzitutto di abilitare il Governo ad attivarsi per l’eventuale esercizio dei poteri speciali anche nel caso di violazione degli obblighi di preventiva notifica degli atti e operazioni che vi sono soggetti, con correlativo slittamento dei termini procedimentali per l’esercizio degli stessi poteri, a decorrere dall’accertamento dell’inottemperanza agli obblighi di notifica. Inoltre, al fine di ampliare l’area informativa per l’eventuale ricorso ad «una tutela rafforzata rispetto ad una tecnologia potenzialmente fondamentale in situazioni critiche e costituente una risorsa vitale per gli interessi pubblici in caso di emergenze nazionali, ivi incluse quelle sanitarie» (così la relazione illustrativa al d.l. n. 23/2020, p. 16), la valutazione demandata al Governo di rilevanza delle acquisizioni di specifici attivi strategici, costituiti dalle reti di telecomunicazione elettronica con tecnologia 5G, di cui all’art. 1-bis, d.l. n. 21/2012, dal punto di vista della tutela del sistema di difesa e sicurezza nazionale, prenderà in considerazione fra gli elementi indicanti la presenza di fattori di vulnerabilità che potrebbero compromettere l’integrità e la sicurezza delle reti e dei dati che vi transitano, anche «quelli individuati sulla base dei principi e delle linee guida elaborate a livello internazionale e dall’Unione europea» (parole aggiunte all’art. 1-bis, comma 2, ultimo periodo, d.l. n. 21/2012).
Al fine di assicurare il consapevole esercizio dei poteri speciali nell’ottica di arricchimento del patrimonio informativo e valutativo, viene inoltre integrato l’art. 2-bis, d.l. n. 21/2012, già rubricato «Collaborazione con autorità amministrative di settore», prevedendo che il Gruppo di coordinamento interministeriale istituito ex d.p.c.m. 6 agosto 2014 presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, al fine di raccogliere elementi utili all’applicazione della disciplina del “Golden Power”, possa anche «richiedere a pubbliche amministrazioni, enti pubblici o privati, imprese o altri soggetti terzi che ne siano in possesso, di fornire informazioni e di esibire documenti» e che, agli stessi fini, «la Presidenza del Consiglio può stipulare convenzioni o protocolli di intesa con istituti o enti di ricerca». In definitiva, con dette ultime modifiche normative introdotte in occasione della recente pandemia da COVD-19, e ad ulteriore tutela degli assetti strategici nazionali, il “Golden Power” si arricchisce di aggiuntivi elementi istruttori e poteri di indagine a beneficio di ampiezza e tempestività di azione, prevedendo anche ulteriori ipotesi normative che giustifichino e motivino le decisioni di intervento pubblico a tutela dei predetti assetti.
5.3 (Segue): l’art. 17 del decreto-legge n. 23/2020 e l’ampliamento dei poteri della Consob
(193) Nello specifico, l’art. 15 decreto-legge n. 23/2020 ha aggiunto una lett. c) al nuovo art. 4-bis, comma 3-bis, d.l. n. 109/2015.
(194) Che annoverano tra di esse dalle sanzioni amministrative pecuniarie fino alla nullità di atti, delibere ed operazioni eventualmente poste in essere.
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L’art. 17 si distingue dagli altri appena esaminati per il fatto di non avere direttamente ad oggetto i poteri speciali del Governo nei settori strategici, bensì per attribuire poteri aggiuntivi alla Consob in materia di trasparenza e obblighi di comunicazione delle partecipazioni rilevanti, previsti dall’art. 120, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF).
A ben vedere, già ai tempi della crisi finanziaria del 2007-2009, venne attribuito alla Consob il potere di abbassare temporaneamente le soglie di comunicazione di partecipazioni rilevanti in società emittenti azioni quotate, al fine di prevenire il rischio di scalate ostili, realizzate profittando di corsi azionari particolarmente depressi, proprio in ragione della profonda crisi di quegli anni (195).
Adesso, in un momento in cui il mercato del controllo societario risulta caratterizzato da un’elevata volatilità a causa dell’emergenza sanitaria, è parso opportuno espungere dal testo dell’art. 120 comma 2-bis, TUF, il riferimento a società ad elevato valore corrente di mercato (considerata la difficoltà a stabilire quando un valore corrente possa definirsi “elevato”), lasciando così alla Consob il potere di abbassare le soglie di rilevanza per l’obbligatoria comunicazione delle partecipazioni rispetto a tutte le società «ad azionariato particolarmente diffuso», così tendenzialmente allargando l’area di trasparenza alle società PMI.
La seconda importante modifica concerne il comma 4-bis dello stesso art. 120 TUF, originariamente introdotto dall’art. 13, comma 1, lett. a), n. 1), d.l. 16 ottobre 2017, n. 148, conv. in l. 4 dicembre 2017, n. 172, che con la c.d. “disciplina anti-scorrerie”, impone al soggetto che acquisti «una partecipazione in emittenti quotati pari o superiore alle soglie del 10 per cento, 20 per cento e 25 per cento del relativo capitale», una “dichiarazione di intenzione” in occasione delle succitate comunicazioni ex art. 120, commi 2 e (ora) 2-bis TUF. La dichiarazione in questione dovrà indicare gli obiettivi che il soggetto ha intenzione di perseguire nel corso dei sei mesi successivi, e nello specifico: i modi di finanziamento dell’operazione; se agisce solo o in concerto; le sue intenzioni circa la stabilità e l’evoluzione del suo possesso azionario e l’eventuale volontà di ingerenza nella governance della partecipata. Inoltre, a seguito delle recenti modifiche all’art. 120, comma 4-bis, TUF, è stato conferito alla Consob il potere di ridurre dal 10 al 5 per cento – mediante un provvedimento motivato da specifiche esigenze di tutela del mercato, nel solo caso di società ad azionariato particolarmente diffuso e per un periodo di tempo limitato – la soglia minima relativa all’acquisto di partecipazioni rilevanti nel capitale sociale di emittenti quotati, al raggiungimento della quale risulta necessario presentare la c.d. “Dichiarazione anti-scorrerie”. Per quanto riguarda le modifiche introdotte dall’art. 17 al TUF, il c.d. “Decreto liquidità” non fissa una durata temporale delle stesse, con la conseguenza che l’eliminazione della locuzione «ad elevato valore corrente di mercato» presente al comma 2-bis e la possibilità per la Consob di prevedere l’abbassamento della soglia al 5 per cento non sembrano avere carattere temporaneo.
Sebbene l’art. 17 non incida direttamente sull’ambito di d’azione complessivo della disciplina del “Golden Power”, esso contribuisce ugualmente, sebben indirettamente, a rafforzare lo scudo normativo messo in campo a protezione del patrimonio economico-strategico nazionale.
Per completezza di trattazione dell’argomento occorre altresì menzionare le novità introdotte dal d.l. 14 agosto 2020, n. 104 (c.d. “Decreto agosto”) che obbliga i soggetti intenzionati ad acquisire o cedere quote del 10, 20, 30, 40 o 50 per cento o anche il controllo del gestore del mercato o della società che lo controlla, ad effettuare una
(195) In ragione di ciò, una prima modifica fu apportata al comma 2-bis dell’art. 120, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, a suo tempo inserito dall’art. 7, comma 3-quinquies, lett. a), d.l. 10 febbraio 2009, n. 5, conv. in l. 9 aprile 2009, n. 33, con l’originario testo per cui «La CONSOB può, con provvedimento motivato da esigenze di tutela degli investitori nonché di efficienza e trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali, prevedere, per un limitato periodo di tempo, soglie inferiori a quella indicata nel comma 2 per società ad elevato valore corrente di mercato e ad azionariato particolarmente diffuso».
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comunicazione preventiva alla Consob. La Commissione poi valuterà sia la solidità dell’acquirente potenziale che quella del progetto completo (196).
5.4 (Segue): i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 179 e n. 180 Come già anticipato (v. supra), ai sensi dell’art. 2, comma 1-ter del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56, è stato di recente adottato un nuovo ed ulteriore d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179, recante il «Regolamento per l’individuazione dei beni e dei rapporti di interesse nazionale nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, a norma dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56».
Dopo svariati interventi normativi realizzati nel corso del 2020 volti a rafforzare i poteri dello Stato di interporsi a tentativi di acquisizioni di aziende italiane strategiche e dando attuazione a quanto previsto all’art. 2, comma 1-ter, d.l. n. 21/2012, con il nuovo d.p.c.m. in argomento la disciplina del “Golden Power” viene pertanto estesa anche al settore alimentare, finanziario, assicurativo e sanitario, rafforzando la protezione statale anche nel contesto internazionale. Il decreto in parola individuai beni e rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale «ulteriori» rispetto a quelli già individuati con gli altri decreti adottati in base all’articolo l, comma l, e all’art. 2, comma l, del suddetto d.l. n. 21/2012 (197). Il riferimento al carattere «ulteriore» a parere di chi scrive sembra tra l’altro implicare che, nel caso in cui un bene o un rapporto rientri nell’ambito applicativo di due regolamenti, quello adottato ai sensi del citato comma 1-ter sarà cedevole, con la conseguente applicabilità della procedura e dei presupposti di cui, alternativamente, all’art. l, comma l, e all’art. 2, comma l, del medesimo decreto-legge. Il decreto in rassegna indica agli artt. da 3 a 12 i “nuovi” settori di beni e rapporti ai quali si applica la disciplina, mentre gli atti e le operazioni oggetto di notifica che interessano i beni e i rapporti in questione, in seguito all’adozione dei decreti, tra cui quello in esame, sono descritte ai commi 2-bis e 5 del citato art. 2. In particolare, il comma 2-bis prevede che deve essere notificata: qualsiasi delibera, atto od operazione adottato da un’impresa che detiene uno o più degli attivi individuati ai sensi del comma 1-ter, o che abbia per effetto modifiche della titolarità, del controllo o della disponibilità degli attivi medesimi a favore di un soggetto esterno all’Unione europea, comprese le delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione aventi ad oggetto la fusione o la scissione della società, il trasferimento dell’azienda o di rami di essa in cui siano compresi detti attivi o l’assegnazione degli stessi a titolo di garanzia, il trasferimento di società controllate che detengono i predetti attivi ovvero che abbia per effetto il trasferimento della sede sociale in un Paese non appartenente all’UE; qualsiasi delibera, atto od operazione adottato da un’impresa che detiene uno o più degli attivi individuati ai sensi del comma 1-ter, o che abbia per effetto il cambiamento della loro destinazione, nonché qualsiasi delibera che abbia ad oggetto la modifica dell’oggetto sociale, lo scioglimento della società o la modifica delle clausole statutarie eventualmente adottate ex art. 2351, comma 3, del codice civile, o introdotte dalla legge 30 luglio 1994, n. 474. In base al comma 5 del medesimo articolo deve inoltre essere notificato l’acquisto a qualsiasi titolo da parte di un soggetto esterno all’Unione europea di partecipazioni in società che detengono gli attivi individuati come strategici ai sensi del comma l nonché di quelli di cui al comma 1ter, di rilevanza tale da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente in ragione dell’assunzione del controllo della società la cui partecipazione è oggetto dell’acquisto, ai sensi dell’art. 2359 del codice civile e del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF).
(196) Cfr. decreto legge 14 agosto 2020, n. 104, art 75, recante «Operazioni di concentrazione a salvaguardia della continuità d’impresa e modifiche all’articolo 64-bis del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58».
(197) A tal proposito v. infra schema riassuntivo dei regolamenti e delle corrispondenti attività strategiche.
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Di particolare rilievo nel decreto in questione è infine l’art. 9, il quale coglie appropriatamente la rilevanza strategica delle aree/filoni R&T di primaria importanza, specie quelli relativamente nuovi e/o d’impatto potenzialmente “disruptive”, tra i quali vale la pena richiamare la manifattura additiva, l’intelligenza artificiale, la robotica, la realtà virtuale e aumentata (da intendersi anche come integrazione uomo-macchina ai fini del soldier empowerment/enhancement of human capabilities), la micro/nano-elettronica, la nano-tech, quantum, etc.. Per dovere di completezza giova infine evidenziare che congiuntamente al d.p.c.m. n. 179/2020 è stato altresì adottato anche il d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180, con il quale, sempre a norma dell’art. 2, comma 1, d.l. n. 21/2012, sono stati ridefiniti gli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, in sostituzione di quelli precedentemente individuati dal d.p.r. 25 marzo 2014, n. 85 che ha pertanto cessato di avere efficacia il 14 gennaio 2021 (198).
6. Considerazioni finali
Nel suo primo periodo di attuazione, la nuova normativa sul “Golden Power” ha presto trovato applicazione in tema di esercizio dei poteri speciali nei confronti delle aziende nazionali a valenza strategica. A titolo meramente esemplificativo, in data 7 luglio 2020 si segnala a tal proposito uno dei primi comunicati, con il quale il Consiglio dei Ministri ha annunciato l’esercizio dei “nuovi” poteri speciali in relazione alle seguenti attività: l’Opa lanciata dalla giapponese AGC sulla Biotech quotata a Piazza Affari MolMed; l’acquisizione di DEPO bank, la banca depositaria controllata da Advent International, Bain Capital e Clessidra sgr, da parte della quotata BFF Banking Group, partecipata da Centerbridge, e la sua successiva fusione; l’acquisizione del controllo di Engineering Ingegneria Informatica da parte di Centurion Holdco SARL (199), società veicolo che fa capo a Bain Capital e NB Renaissance; il riassetto azionario di Aero Sekur Airborne Limited, controllante di Aero Sekur spa, specializzata in prodotti destinati all’industria elicotteristica; il riassetto azionario di Arescosmo Limited, controllante di Arescosmo spa, specializzata in prodotti e servizi finalizzati a sostenere la vita e la sopravvivenza delle Forze di difesa e di sicurezza, nonché a supportare le operazioni di veicoli aerei e da battaglia, basati sulle migliori tecnologie meccaniche, software, tessili e materiali.
Tralasciando gli ulteriori recenti casi relativi all’esercizio dei poteri speciali, non c’è dubbio che l’intento di salvaguardare i settori e i beni strategici nazionali in un periodo di estrema difficoltà socio-economica come quello attuale, merita senz’altro di essere condiviso. Del resto, anche altri Paesi europei (ma guardando oltreoceano si pensi anche ad Australia e Stati Uniti) si sono mossi già da tempo nella stessa direzione contribuendo a dissipare facili preoccupazioni sulla possibile violazione di principi giuridici sovranazionali, primo fra tutti la libera di circolazione dei capitali. D’altro canto, non si può trascurare la faccia opposta della medaglia, rappresentata dal rischio di estendere
(198) Sul piano delle fonti normative giova rilevare che la cessazione di efficacia di tale fonte regolamentare è stata prevista solo nel preambolo del d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180, non potendo quest’ultimo decretarne direttamente l’abrogazione per il rispetto del principio di gerarchia delle fonti, pertanto sul piano strettamente tecnico il d.p.r. 25 marzo 2014, n. 85 non può dirsi abrogato ma solo privo di effetti. Ciò in quanto i decreti del Presidente del consiglio (dd.p.c.m.), al pari dei Decreti ministeriali (d.m.) hanno natura amministrativa, pertanto in quanto atti amministrativi in senso stretto, non hanno forza di legge e hanno carattere di fonte normativa secondaria ma di rango subordinato rispetto ai decreti del Presidente della Repubblica (d.p.r.) di cui all’art. 17 della legge n. 400/1988 e, come tali, possono derivare da norme di legge o regolamentari, ma non possono autonomamente promuoverle ovvero abrogarle.
(199) Il 19 febbraio 2020 la società Centurion Holdco SARL ha effettuato la notifica ai sensi e per gli effetti degli artt. 1 e 2, d.l. 15 marzo 2012, n. 21, convertito in legge 11 maggio 2012, n. 56 e ss.mm.ii. per l’acquisto dell’intero capitale sociale di Engineering ingegneria informatica S.p.a
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eccessivamente il novero delle operazioni soggette a controllo pubblico, con inevitabili conseguenze in termini di dilatazione dei tempi e dei costi delle operazioni stesse.
Infine, sul piano della prassi operativa non può sottacersi come la mole delle notifiche scaturenti dall’ampliamento dei settori strategici cui adesso risulta applicabile la disciplina del “Golden power” rischia seriamente di oberare di lavoro gli uffici deputati ad espletare le verifiche, con inevitabili freni all’attività amministrativa che potrebbe disincentivare gli investimenti stranieri. Ne consegue che il recente allargamento della disciplina dell’esercizio dei poteri speciali a cura dello Stato debba auspicabilmente comportare, d’altro canto, un uso ragionevole ed equilibrato di detto delicato strumento di controllo, affinché possano essere contestualmente garantititi sia la sicurezza degli assetti strategici sia l’economia nazionale e sovranzionale.
TABELLA RIASSUNTIVA DEI REGOLAMENTI PER L’INDIVIDUAZIONE DELLE ATTIVITÀ E DEGLI ATTIVI DI RILEVANZA STRATEGICA
Riferimenti normativi Stralcio attività/attivi di rilevanza strategica d.p.c.m. 6 giugno 2014, n. 108
(Regolamento per l'individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale)
Individuazione delle attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave nei settori della difesa e della sicurezza nazionale di competenza del Ministero della difesa.
Sistemi di Comando, Controllo, Computer e Informazioni (C4I), con le relative misure per garantire la sicurezza delle informazioni; Sensori avanzati integrati nelle reti C4I; Sistemi con e senza equipaggio idonei a contrastare le molteplici forme di ordigni esplosivi improvvisati;
Sistemi d'arma avanzati, integratinelleretiC4I, indispensabili per garantire un margine di vantaggio sui possibili avversari e quindi finalizzati alla sicurezza ed efficacia in operazioni;
Sistemi aeronautici avanzati, dotati di sensori avanzati integrati nelle reti C4I;
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Sistemi di propulsione aerospaziali e navali militari ad elevate prestazioni e affidabilità; Tecnologie di riduzione della segnatura radar (stealthness); nanotecnologie; tecnologie dei materiali compositi ad alto grado termico; tecnologie per la progettazione e fabbricazione di meta materiali; tecnologie per la progettazione e fabbricazione di Superfici a Selezione di Frequenza (FSS); Materiali Radar Assorbenti (RAM); materiali per radome FSS (aeronautici, navali, terrestri); materiali ad alto grado termico per motori spaziali, aeronautici, nucleari; materiali per fabbricazione di satelliti, scudi spaziali e parti di armamenti (affusti, lanciatori e canne); materiali per l'abbattimento della traccia infrarosso e della traccia acustica.
Individuazione delle attività di rilevanza strategica ed attività strategiche chiave nei settori della sicurezza nazionale di competenza del Ministero dell'interno.
Sistemi e sensori destinati all'impiego in servizi di osservazione (ottica e radar), sorveglianza e controllo del territorio, nell'ambito dei compiti di tutela dell'ordine pubblico, della sicurezza, del soccorso pubblico e della difesa civile; sistemi di osservazione (ottica e radar), sorveglianza e controllo del territorio installati su aeromobili ad ala fissa o rotante, unità navali, veicoli anfibi e terrestri che operano nell'ambito dei compiti di tutela dell'ordine pubblico, della pubblica sicurezza, del soccorso pubblico e della difesa civile; sistemi propulsivi, trasmissioni di potenza e trasmissioni comando accessori dei motori aeronautici e navali ad elevate prestazioni e affidabilità relativi ai velivoli e alle unità navali destinati all'impiego in servizi di osservazione (ottica e radar), sorveglianza e controllo del territorio, nell'ambito dei compiti di tutela dell'ordine pubblico, della pubblica sicurezza, del soccorso pubblico e della difesa civile; sistemi di protezione balistica impiegati nell'ambito dei compiti di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, del soccorso pubblico e della difesa civile; sistemi informativi e di comunicazione, anche satellitari, di raccolta, classificazione e di gestione di informazioni e di dati sviluppati e utilizzati per le attività di difesa civile.
Reti private virtuali, a parte i sistemi di cui al comma 1, in uso alle Amministrazioni dello Stato competenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, sicurezza nazionale, soccorso pubblico e difesa civile, giustizia e relazioni internazionali; reti di telecomunicazioni di proprietà del Ministero dell'interno, destinate ad essere impiegate nelle attività di tutela dell'ordine e sicurezza pubblica, nonché di difesa civile;
collegamenti dedicati esclusivamente alla realizzazione e al funzionamento della rete Interpolizia in uso alle Forze di polizia di cui all'articolo 16 della legge 1° aprile 1981, n. 121 e al Ministero della difesa; sistemi, anche di carattere crypto, e i relativi algoritmi, per l'elaborazione, la protezione e la trasmissione sicura di informazioni classificate, salvo quanto previsto dall'articolo 1, comma 1, lettera a), numero 4); sistemi di monitoraggio in tempo reale della radioattività del Ministero dell'interno; sistemi informativi di raccolta e classificazione e gestione di informazioni e di dati, anche fornite dalle Forze di polizia, per l'attuazione delle direttive impartite dal Ministro dell'interno nell'esercizio delle attribuzioni di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, ovvero sviluppati e in uso ai fini di prevenzione e repressione dei reati di tutela dell'ordine e sicurezza
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d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 179 (Regolamento per l’individuazione dei beni e dei rapporti di interesse nazionale nei settori di cui all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, a norma dell’articolo 2, comma 1-ter, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56.)
d.p.c.m. 18 dicembre 2020, n. 180 (Regolamento per l'individuazione degli attivi di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni)
pubblica, di controllo delle frontiere e di contrasto dell'immigrazione clandestina.
Beni e rapporti nel settore dell'energia;
Beni e rapporti nel settore dell’acqua;
Beni e rapporti nel settore della salute;
Beni e rapporti nel trattamento, nell'archiviazione e in materia di accesso e controllo di dati e di informazioni sensibili;
Beni e rapporti nel settore delle infrastrutture elettorali;
Beni e rapporti nel settore finanziario, ivi compreso quello creditizio e assicurativo, e delle infrastrutture dei mercati finanziari;
Beni e rapporti nei settori dell'intelligenza artificiale, della robotica, dei semiconduttori, della cibersicurezza, delle nanotecnologie e delle biotecnologie;
Beni e rapporti nei settori delle infrastrutture e delle tecnologie aerospaziali non militari;
Beni e rapporti in tema di approvvigionamento di fattori produttivi e nel settore agroalimentare.
Prodotti a duplice uso;
Beni e rapporti nel settore della libertà e del pluralismo dei media.
Individuazione degli attivi di rilevanza strategica nel settore energetico:
a) rete nazionale di trasporto del gas naturale e relative stazioni di compressione e centri di dispacciamento, come individuata ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, nonché gli impianti di stoccaggio del gas;
b) infrastrutture di approvvigionamento di energia elettrica e gas da altri Stati, compresi gli impianti di rigassificazione di GNL onshore e offshore;
c) rete nazionale di trasmissione dell'energia elettrica e relativi impianti di controllo e dispacciamento;
d) attività di gestione e immobili fondamentali connessi all'utilizzo delle reti e infrastrutture di cui alle precedenti lettere a), b) e c).
Individuazione degli attivi di rilevanza strategica nel settore trasporti:
a) porti di interesse nazionale;
b) aeroporti di interesse nazionale;
c) spazioporti nazionali;
d) rete ferroviaria nazionale di rilevanza per le reti trans-europee;
e) gli interporti di rilievo nazionale;
f) reti stradali e autostradali di interesse nazionale.
Individuazione degli attivi di rilevanza strategica nel settore comunicazioni:
attivi di rilevanza strategica nel settore delle comunicazioni sono individuati nelle reti dedicate e nella rete di accesso pubblica agli utenti finali in connessione con le reti metropolitane, i router di servizio e le reti a lunga distanza, nonché negli impianti utilizzati per la fornitura dell'accesso agli utenti finali dei servizi rientranti negli obblighi del servizio universale e dei servizi a banda larga e ultralarga, e nei relativi rapporti convenzionali, fatte salve le disposizioni della direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, e del regolamento (UE) n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016
Sintesi [IT]: Il tema del c.d. “Golden Power”, ossia di quel complesso di disposizioni in materia di poteri speciali sugli assetti societari esercitabili dal Governo in alcuni ambiti di rilevanza strategica – da anni al centro del dibattito presso le istituzioni nazionali ed europee – ha assunto di recente nuova e specifica rilevanza anche nel contesto
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dell’emergenza epidemiologica da COVID-19. Partendo da tale ultimo assunto, il presente lavoro si propone di effettuare una disamina complessiva della disciplina relativa al “Golden Power”, con particolare riferimento alle recenti novità introdotte dal decreto-legge 8 aprile 2020, n. 23 (c.d. “Decreto liquidità”) e dai successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri 18 dicembre 2020, n. 179, che individua ulteriori beni e rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale, e n. 180 che ridefinisce gli attivi di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni.
La ratio alla base di un simile intervento riformatore è rinvenibile anche nell’esigenza di contrastare l’emergenza pandemica in atto e contenerne gli effetti negativi che, in misura differente a seconda delle aree geografiche e dei settori coinvolti, hanno colpito i mercati finanziari e le aziende strategiche, incidendo sulle prospettive economiche globali.
Abstract [En]: The theme of the so-called “Golden Power”, that is to say, that set of provisions regarding special powers on corporate structures that can be exercised by the Government in some areas of strategic importance, which for years has been at the centre of the debate at national and European Union institutions, has recently taken on new and specific relevance also in the context of the health emergency linked to the Covid-19 emergency. Starting from this last assumption, this paper proposes to carry out an overall examination of the discipline relating to “Golden Power”, with particular reference to the recent innovations introduced by the decree-law of 8 April 2020, n. 23 (so-called “Liquidity Decree”) and by the subsequent dd.p.c.m. 18 December 2020, n. 179, which identifies additional assets and relationships of strategic importance for the national interest, and n. 180 which identifies assets of strategic importance in the energy, transport and communications sector. The rationale behind such a reform intervention can also be found in the need to counter the epidemiological emergency from COVID-19 and contain its negative effects, which, to different degrees depending on the geographic areas and sectors involved, have hit the financial markets and strategic companies, affecting the global economic outlook.
L’accesso documentale difensivo negli ultimi approdi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Di ANNA LAURA RUM
Abstract: Il presente contributo si propone di svolgere un’analisi dell’istituto dell’accesso documentale difensivo, delineandone i tratti principali, che lo differenziano dall’accesso documentale c.d. partecipativo, per poi affrontare due questioni che su di esso si sono poste recentemente, risolte da due importanti pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la n. 19/2020 e la n. 4/2021.
Sommario: 1. L’accesso documentale difensivo. 2. Accesso difensivo e poteri istruttori del giudice civile (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 19/2020). 3. La valutazione sul collegamento esistente fra esigenze difensive e documenti dei quali è chiesta l’ostensione (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 4/2021).
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1. L’accesso documentale difensivo.
L’accesso documentale difensivo è stato inquadrato dal Consiglio di Stato200 quale una delle due declinazioni dell’accesso documentale, di cui agli artt. 22 ss. L. 241/90. Esso, infatti, sarebbe un istituto a doppia anima, che risponde a due logiche: partecipativa e difensiva.
Come è noto, il diritto di accesso si contrappone al diritto alla riservatezza, al quale il legislatore della L. 241, specie alla disposizione di cui all’art. 24, fa particolare attenzione. Ed infatti, il diritto dell’interessato a conoscere gli atti del procedimento che lo riguardano, inscritto in una logica di trasparenza e partecipazione all’attività amministrativa, incontra stringenti limiti, quando in grado di incidere su interessi che il legislatore ritiene prevalenti.
Invero, la valutazione sugli interessi prevalenti, quando viene presentata un’istanza di accesso documentale, è condotta dalla p.a., ma la sua è una valutazione dal carattere vincolato, posto che la L. 241 ha già predeterminato quando prevale il diritto di accesso, o altro interesse antagonista.
Ora, se questo può dirsi valido per l’accesso documentale di carattere partecipativo, l’art. 24 c.7 L.241 reca una norma di eccezione, che, con riferimento all’accesso difensivo, dispone che i limiti operanti per il primo vengono meno.
Allora, dalla lettura dell’art. 24 L.241, può desumenrsi che, di regola, il diritto alla riservatezza prevale sul diritto di accesso, ma nell’ipotesi di accesso difensivo, la regola s’inverte.
Delineati i tratti essenziali dell’accesso difensivo, possono ora esaminarsi due questioni che lo hanno riguardato, di recente sottoposte all’attenzione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e risolte con le pronunce nn. 19/2020 e 4/2021.
2. Accesso difensivo e poteri istruttori del giudice civile (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 19/2020201).
La questione risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la pronuncia n. 19/2020, concerneva il rapporto fra l’accesso difensivo e gli strumenti di acquisizione probatoria di cui dispone il giudice civile.
In particolare, ci si chiedeva se l’accesso documentale difensivo operasse anche nei casi in cui un documento poteva acquisirsi al processo civile, tramite i poteri di acquisizione documentale che il codice di procedura civile riserva al giudice. Fra essi, ad esempio, il potere di cui all’art. 210 c.p.c., sull’ordine di esibizione alla parte o al terzo, oppure il potere di cui all’art, 213 c.p.c., di chiedere alla p.a. l’esibizione di atti e documenti, che siano necessari secondo la valutazione del giudice, o, ancora, i poteri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia.
Le tesi che si fronteggiavano erano due.
Per taluno, il rapporto fra accesso difensivo e strumenti probatori del giudice civile doveva qualificarsi in termini di alternatività: in particolare, per evitare che la disciplina dell’accesso documentale eludesse la disciplina processualcivilistica, si riteneva che la prima fosse attivabile soltanto laddove il documento non poteva essere acquisito dal giudice con gli strumenti processuali riservatigli dal codice di rito.
Altri, invece, ritenevano che il rapporto fra accesso documentale e poteri istruttori del giudice civile fosse da qualificarsi in termini di complementarietà, di convivenza. In particolare, questa tesi riteneva che le due discipline operassero in due dfferenti ambiti, non potendosi pertanto riscontrare alcun potenziale pregiudizio di elusione l’una dell’altra.
200 Cons. Stato, Ad. Plen. sent. 19/2020, in www.giustizia-amministrativa.it
201 In www.giustizia-amministrativa.it
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Del resto, l’accesso documentale difensivo ben avrebbe potuto essere esercitato anche prima e a prescindere dall’istaurazione di un processo civile. Donde, anche il carattere dell’indipendenza dei due istituti.
Ed è questa seconda tesi che è stata accolta dall’Adunanza Plenaria, con sentenza n. 19/2020.
Infatti, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato che l’acquisizione documentale nel processo civile può avvenire in due modi: con la produzione di parte, in forma di prova precostituita, quando se ne abbia già la disponibilità, oppure, se la parte non ne ha la disponibilità, può chiederne l’acquisizione d’ufficio nel processo.
Tuttavia, rileva l’Adunanza Plenaria, questa seconda via è molto più dispendiosa in termini di economia processuale, poiché acquisire d’ufficio implica allungamento dei tempi e rischio di opposizioni, come quelle disciplinate all’art.
211 c.p.c., nel caso di ordine di esibizione al terzo.
Per tali ragioni, l’Alto Consesso ha affermato che, stante la complementarietà dei due rimedi, tuttavia, l’attivazione degli srumenti di acquisizione istruttoria deve ritenersi secondaria, e ammessa soltanto laddove la parte dimostri di non aver potuto procurarsi i documenti da esibire diversamente.
In sostanza, il messaggio della Plenaria è chiaro; i poteri istruttori attivabili d’ufficio dal giudice civile non possono intendersi quale strumento rimediale alla negligenza di parte, rispetto all’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. Pertanto, a dire dell’Adunanza Plenaria, la principale e primaria strada di acquisizione documentale resta l’accesso difensivo, di cui all’art. 24 u.c. L. 241.
Più nel dettaglio, la prununcia in esame afferma che possono essere oggetto di accesso difensivo i documenti reddituali dei coniugi, quindi le dichiarazioni, le comunicazioni e gli atti presentati o acquisiti dagli uffici dell’amministrazione finanziaria, contenenti i dati reddituali, patrimoniali e finanziari ed inseriti nelle banche dati dell’anagrafe tributaria, ivi compreso l’archivio dei rapporti finanziari, che costituiscono documenti amministrativi, ai fini dell’accesso documentale difensivo, ai sensi degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990.
Il Collegio, ancora, specifica che “l’accesso documentale difensivo può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri processuali di esibizione istruttoria di documenti amministrativi e di richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione nel processo civile ai sensi degli artt. 210, 211 e 213 c.p.c. e, inoltre, può essere esercitato indipendentemente dalla previsione e dall’esercizio dei poteri istruttori di cui agli artt. 155sexies disp. att. c.p.c. e 492-bis c.p.c., nonché, più in generale, dalla previsione e dall’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio del giudice civile nei procedimenti in materia di famiglia.”.
3. La valutazione sul collegamento esistente fra esigenze difensive e documenti dei quali è chiesta l’ostensione (Cons. Stato, Ad. Plen., sent. n. 4/2021202).
Ancora pronunciandosi in materia di accesso difensivo, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la recente pronuncia n. 4/2021, affronta la questione sottesa al tipo di valutazione che deve investire il collegamento fra esigenza di ottenere l’ostensione del documento ed esigenza difensiva dell’istante.
Più nel dettaglio, l’ordinanza di rimessione della Sezione IV del Consiglio di Stato, n. 7514/2020203 poneva la questione in questi termini: se fosse sufficiente indicare il collegamento in modo generico, o, seppure, l’istante dovesse allegare in modo puntuale, i motivi a fondamento della necessarietà o indispensabilità della richiesta.
L’Adunanza Plenaria n. 19/2020, sopra esaminata, aveva già toccato il tema, sia pure collateralmente, in obiter, affermando che l’accesso documentale difensivo supera i limiti che la legge prevede per il partecipativo, ma che questa attitudine espansiva debba controbilanciarsi con un più gravoso onere per la parte che intenda ricorrervi, e,
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202 In www.giustizia-amministrativa.it 203 In www.giustizia-amministrativa.it
cioè, l’indicazione in maniera puntuale del collegamento fra il documento del quale chiede l’ostensione e le proprie esigenze difensive.
L’Alto Consesso, dunque, pur non risolvendo la questione, e pertanto non pronunciandolo quale principio di diritto, comunque affermò il proprio orientamento sul punto.
A questo orientamento, si contrapponeva quello che individuava in capo alla p.a. un potere valutativo solo generico sul collegamento addotto nell’istanza di ostensione. Infatti, per i sostenitori di questa tesi meno restrittiva, l’amministrazione non potrebbe condizionare la strategia difensiva della parte istante, statuendo che cosa sia o non sia necessario per difendere i propri interessi giuridici; insomma, chiedere di specificare in modo puntuale i motivi dell’istanza di accesso difensivo, varrebbe a menomare il diritto di difesa dell’istante.
Il contrasto interpretativo è stato risolto dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2021, che aderisce al primo degli orientamenti, come accolto già dalla Plenaria n. 19/2020.
Ed, infatti, viene affermato il seguente principio di diritto: “ In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990”.
L’Adunanza Plenaria rileva come la volontà del legislatore, in materia di esercizio del diritto di accesso, di cui all’art.
25 L. 241, sia nel senso di esigere che le finalità dell’accesso siano dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione, e suffragate con idonea documentazione, così da permettere all’amministrazione detentrice del documento una valutazione sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione “finale” controversa.
Quindi, si esclude che possa ritenersi sufficiente un generico riferimento ad esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite ad un processo già pendente, oppure ancora instaurando.
L’ostensione del documento deve subordinarsi ad un rigoroso vaglio, da parte dell’amministrazione, sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa.
Inoltre, l’Adunanza Plenaria specifica che la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere alcuna ultronea valutazione sulla influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione.
Diversamente, infatti, si reintrodurrebbero nella disciplina dell’accesso difensivo e, soprattutto, nella sua pratica applicazione, limiti e preclusioni che, invece, non sono contemplati dalla legge, che ha già previsto criteri per valutare la situazione legittimante all’accesso difensivo e per effettuare il bilanciamento tra gli interessi contrapposti all’ostensione del documento o alla riservatezza.
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L’Adunanza Plenaria ha ritenuto, inoltre, che, adombrata dall’ordinanza di rimessione, vi fosse, poi, la questione afferente alla ricostruzione della disciplina del bilanciamento tra interesse all’accesso difensivo dell’istante e la tutela della riservatezza del controinteressato.
Ebbene, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza, secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, per l’Adunanza Plenaria, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali dell’accesso documentale di tipo difensivo.
E, allora, afferma la Plenaria, il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta, impone un’attenta analisi della motivazione che la pubblica amministrazione ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso.
Ed infatti, soltanto attraverso l’esame di questa motivazione è possibile comprendere se questo collegamento, nel senso sopra precisato, esista effettivamente e se l’esigenza di difesa rappresentata dall’istante prevalga o meno sul contrario interesse alla riservatezza nel delicato bilanciamento tra i valori in gioco.
Modifica della normativa nazionale in materia di contratti pubblici con legge regionale: la Corte Costituzionale torna a ribadirne l’impossibilità e boccia i tentativi delle Regioni Toscana e Sicilia (Corte Cost. 98/2020 e 16/2021).
Di ANNA LAURA RUM
Abstract: Il presente contributo si sofferma sul tema dell’ammissibilità di modifiche alla normativa nazionale in materia di contratti pubblici ad opera di leggi regionali, e dell’operatività del limite di cui all’art. 117 c. 2 lett. e) Cost., nel panorama del riparto di competenza legislativa Stato-Regioni.
Verrà dato conto di due recenti pronunce della Corte Costituzionale in materia, la n. 98/2020 e la n. 16/2021, che consolidano l’ormai granitico orientamento, tutt’altro che possibilista, sul punto.
Sommario: 1. Introduzione. 2. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge della Regione Toscana 16 aprile 2019, n. 18 (Corte Cost. sent. 98/2020). 3. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, e dell’art. 13 della legge della Regione Siciliana 19 luglio 2019, n. 13 (Corte Cost. sent. 16/2021).
1. Introduzione.
La materia degli appalti, più volte oggetto di tentativi da parte delle Regioni di legiferarvi con legge regionale, come precisato dalla Consulta, è strettamente riservata alla competenza legislativa statale.
La Corte Costituzionale, in più occasioni e da ultimo con due recenti pronunce di incostituzionalità avverso, rispettivamente, una legge regionale della Regione Toscana (Corte Cost. sent. 98/2020) e una legge regionale della Regione Sicilia (Corte Cost. sent. 16/2021), ha ribadito il criterio di riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni, in materia di contratti pubblici.
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Secondo il costante orientamento del Giudice delle Leggi, come scandito e confermato recentemente, le disposizioni del codice dei contratti pubblici regolanti le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza e le Regioni, anche ad autonomia speciale, non possono dettare una disciplina da esse difforme; ciò anche per le disposizioni relative ai contratti sotto soglia, senza che rilevi che la procedura sia aperta o negoziata. Diversamente, la Regione incorrerebbe nella violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Ciò premesso, può procedersi ad un’analisi delle due ultime pronunce, sul punto, della Corte Costituzionale, ancora espressive di questo granitico orientamento, la n. 98/2020 e la n. 16/2021.
2. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge della Regione Toscana 16 aprile 2019, n. 18 (Corte Cost. sent. 98/2020204).
La pronuncia della Corte Costituzionale n. 98/2020 ha toccato la materia degli appalti pubblici, come interessata da talune norme della Regione Toscana. In particolare, il riferimento è all’affidamento di lavori per contratti di valore inferiore alla soglia comunitaria e alla possibile riserva di partecipazione alle gare, per una quota non superiore al 50%, a favore delle micro, piccole e medie imprese con sede legale e operativa nel territorio regionale.
In sostanza, viene in rilievo una potenziale violazione della competenza esclusiva statale nella materia della tutela della concorrenza.
La vicenda oggetto di sindacato di legittimità costituzionale ha visto il Presidente del Consiglio dei ministri impugnare l’art. 10, comma 4, della legge della Regione Toscana 16 aprile 2019, n. 18, ovvero una norma inserita nel capo II della legge regionale, che disciplina (come risulta dal suo art. 8) le «procedure negoziate per l’affidamento di lavori di cui all’articolo 36 del d.lgs. 50/2016» (cioè, dei contratti di valore inferiore alla soglia comunitaria), e stabilisce che, «[i]n considerazione dell’interesse meramente locale degli interventi, le stazioni appaltanti possono prevedere di riservare la partecipazione alle micro, piccole e medie imprese con sede legale e operativa nel territorio regionale per una quota non superiore al 50 per cento e in tal caso la procedura informatizzata assicura la presenza delle suddette imprese fra gli operatori economici da consultare».
Secondo il ricorrente, la possibilità di riservare la partecipazione, per una quota non superiore al 50 per cento, «alle micro, piccole e medie imprese con sede legale e operativa nel territorio regionale» sarebbe illegittima per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.
Essa, infatti, si porrebbe in contrasto con l’art. 30, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), «che impone il rispetto dei principi di libera concorrenza e non discriminazione».
La previsione della «riserva regionale» comporterebbe «una indebita restrizione del mercato escludendo gli operatori economici non toscani dalla possibilità di essere affidatari di pubbliche commesse».
Si afferma che la norma impugnata comporterebbe una «limitazione della concorrenza che non è giustificata da alcuna ragione se non quella – vietata – di attribuire una posizione di privilegio alle imprese del territorio per favorire l’economia regionale».
Si lamenta, in sintesi, che la norma regionale impugnata risulterebbe dunque invasiva della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza e sarebbe indebitamente difforme dalla disciplina dettata dallo Stato.
La Regione Toscana resistente, invece, sosteneva che la norma impugnata fosse rispettosa delle disposizioni del codice dei contratti pubblici, in particolare l’art. 30, «coniugando, al contempo, il principio di libera concorrenza e non discriminazione ed il favor partecipationis per le microimprese, le piccole e le medie imprese».
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La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso, affermando che la norma impugnata è inserita in un capo che «disciplina le modalità di svolgimento delle indagini di mercato e di costituzione e gestione degli elenchi degli operatori economici da consultare nell’ambito delle procedure negoziate per l’affidamento di lavori di cui all’articolo
36 del d.lgs. 50/2016, in applicazione delle linee guida approvate dall’Autorità nazionale anticorruzione» (art. 8 della legge reg. Toscana n. 18 del 2019).
La Corte specifica che l’art. 36 regola, fra l’altro, l’affidamento dei lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria, che è fissata – per gli appalti pubblici di lavori e per le concessioni – in euro 5.350.000 (art. 35, commi 1, lettera a, e 3 del d.lgs. n. 50 del 2016). A seguito della modifica introdotta dal decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, nella legge 14 giugno 2019, n. 55, lo stesso art. 36 prevede che, «salva la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie», le stazioni appaltanti procedono all’affidamento di lavori «mediante la procedura negoziata di cui all’articolo 63» in due ipotesi: quello dei lavori di importo compreso fra 150.000 euro e 350.000 euro e quello dei lavori di importo compreso fra 350.000 euro e 1.000.000 di euro.
In entrambi i casi è richiesta la previa consultazione di almeno dieci o, rispettivamente, quindici operatori economici, ove esistenti, «nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti, individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici». L’avviso «sui risultati della procedura di affidamento contiene l’indicazione anche dei soggetti invitati».
L’art. 63, poi, disciplina la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara. La Consulta specifica, inoltre, che le procedure di affidamento dei contratti sotto soglia sono poi regolate dalle Linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), adottate con delibera 26 ottobre 2016, n. 1097, in attuazione del previgente art. 36, comma 7, cod. contratti pubblici. In base alle Linee guida, la procedura «prende avvio con la determina a contrarre ovvero con atto a essa equivalente secondo l’ordinamento della singola stazione appaltante».
Successivamente la procedura «si articola in tre fasi: a) svolgimento di indagini di mercato o consultazione di elenchi per la selezione di operatori economici da invitare al confronto competitivo; b) confronto competitivo tra gli operatori economici selezionati e invitati e scelta dell’affidatario; c) stipulazione del contratto» (punti 4.2 e 4.3).
Nell’avviso di indagine di mercato la stazione appaltante si può riservare la facoltà di selezionare i soggetti da invitare mediante sorteggio (punti 4.1.5 e 4.2.3).
Ancora, la Corte rammenta che il vigente art. 216, comma 27-octies, cod. contratti pubblici prevede l’adozione di un regolamento governativo ma stabilisce che «le linee guida e i decreti adottati in attuazione delle previgenti disposizioni di cui agli articoli […] 36, comma 7, […] rimangono in vigore o restano efficaci fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al presente comma».
Dunque, tratteggiato il contesto normativo in cui si inserisce la norma impugnata, la Corte Costituzionale ha ritenuto opportuno precisare la sua esatta portata, anche alla luce di alcune affermazioni del ricorrente.
Per un verso infatti la disposizione non fissa un requisito di accesso alle procedure negoziate, sicché non si può dire che essa escluda a priori le imprese non toscane dalla partecipazione agli appalti in questione, essendo la riserva di partecipazione (che le stazioni appaltanti possono prevedere) limitata al massimo al 50 per cento delle imprese invitate al confronto competitivo.
Per altro verso non è nemmeno esatto dire che essa richiede in via alternativa la sede legale o la sede operativa nel territorio regionale: la disposizione utilizza la congiunzione «e», né ci sono ragioni logiche che portino a superarne la lettera. Dalla possibile riserva di partecipazione sono dunque escluse le micro, piccole e medie imprese che hanno solo una delle due sedi nel territorio regionale.
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Inoltre, poiché la norma impugnata precisa che si tratta di una possibile riserva della «partecipazione», si deve ritenere che il suo oggetto si collochi nel secondo passaggio della procedura sopra ricordata, cioè nella fase dell’invito a presentare un’offerta, dopo lo svolgimento della consultazione degli operatori economici. In virtù della disposizione censurata, la stazione appaltante può prevedere che un certo numero di offerte (non più del 50 per cento) debba provenire da micro, piccole e medie imprese toscane, e può così svincolarsi dal rispetto dei criteri generali previsti per la selezione delle imprese da invitare. In altri termini, la norma impugnata può giustificare l’invito di imprese toscane che dovrebbero essere escluse a favore di imprese non toscane, in quanto – in ipotesi –maggiormente qualificate sulla base dei criteri stessi.
Quindi, così precisata la portata della disposizione impugnata, la Corte Costituzionale afferma che essa risulta costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ricordando che, in base alla giurisprudenza della stessa Corte, «le disposizioni del codice dei contratti pubblici […] regolanti le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza, e […] le Regioni, anche ad autonomia speciale, non possono dettare una disciplina da esse difforme (tra le tante, sentenze n. 263 del 2016, n. 36 del 2013, n. 328 del 2011, n. 411 e n. 322 del 2008)» (sentenza n. 39 del 2020). Ciò vale «anche per le disposizioni relative ai contratti sotto soglia (sentenze n. 263 del 2016, n. 184 del 2011, n. 283 e n. 160 del 2009, n. 401 del 2007), […] senza che rilevi che la procedura sia aperta o negoziata (sentenza n. 322 del 2008)» (sentenza n. 39 del 2020).
Ancora, la Corte ricorda che, in tale contesto, la stessa ha più volte dichiarato costituzionalmente illegittime norme regionali di protezione delle imprese locali, sia nel settore degli appalti pubblici (sentenze n. 28 del 2013 e n. 440 del 2006) sia in altri ambiti (ad esempio, sentenze n. 221 e n. 83 del 2018 e n. 190 del 2014).
Ed infatti, la norma impugnata disciplina in generale una fase della procedura negoziata di affidamento dei lavori pubblici sotto soglia ed è dunque riconducibile all’ambito materiale delle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, che, in quanto attinenti alla «tutela della concorrenza», sono riservate alla competenza esclusiva del legislatore statale (sentenza n. 28 del 2013).
Allora, la Corte prosegue affermando che, considerata nel suo contenuto, la norma censurata prevede la possibilità di riservare un trattamento di favore per le micro, piccole e medie imprese radicate nel territorio toscano e, dunque, anche sotto questo profilo è di ostacolo alla concorrenza, in quanto, consentendo una riserva di partecipazione, altera la par condicio fra gli operatori economici interessati all’appalto.
Ed infatti, la Corte Costituzionale, concludendo l’iter argomentativo, rileva che la norma impugnata, in effetti, contrasta con entrambi i parametri interposti invocati dal ricorrente: con l’art. 30, comma 1, cod. contratti pubblici perché viola i principi di libera concorrenza e non discriminazione in esso sanciti, e con l’art. 36, comma 2, dello stesso codice perché introduce una possibile riserva di partecipazione (a favore delle micro, piccole e medie imprese locali) non consentita dalla legge statale.
Per tali ragioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4, della legge della Regione Toscana 16 aprile 2019, n. 18.
3. La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, e dell’art. 13 della legge della Regione Siciliana 19 luglio 2019, n. 13 (Corte Cost. sent. 16/2021205).
La vicenda oggetto del sinsacato di legittimità costituzionale ha visto il Presidente del Consiglio dei ministri impugnare gli artt. 4, commi 1 e 2, e 13 della legge della Regione Siciliana 19 luglio 2019, n. 13 (Collegato al DDL n. 476 ‘Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2019. Legge di stabilità regionale’).
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Secondo il ricorrente, l’art. 4, comma 1, primo periodo, della citata legge regionale avrebbe violato l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché, stabilendo l’obbligo per le stazioni appaltanti di utilizzare il criterio del minor prezzo per gli appalti di lavoro d’importo pari o inferiore alla soglia comunitaria, quando l’affidamento degli stessi avviene con procedure ordinarie sulla base del progetto esecutivo, si porrebbe in contrasto con gli artt. 36 e 95 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), che demanderebbero invece alle singole stazioni appaltanti l’individuazione del criterio da utilizzare. Inoltre, lamenta il ricorrente che il medesimo parametro costituzionale sarebbe violato anche dall’art. 4, «ai commi 1, dal secondo periodo in poi, e comma 2», incidendo su un ambito di competenza esclusiva dello Stato. La disciplina regionale individuerebbe infatti, in presenza del criterio di aggiudicazione del minor prezzo, un metodo di calcolo della soglia di anomalia delle offerte diverso da quello dettato dall’art. 97, commi 2, 2-bis e 2-ter del d. lgs. n. 50 del 2016.
Il comma da ultimo citato, in particolare, attribuisce al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti la facoltà di procedere con decreto alla rideterminazione dei criteri per l’individuazione delle soglie di anomalia, allo scopo di «non rendere nel tempo predeterminabili dagli offerenti i parametri di riferimento per il calcolo» delle soglie stesse. Poiché la normativa statale relativa alle procedure di selezione e aggiudicazione delle gare sarebbe strumentale a garantire la tutela della concorrenza (sono citate le sentenze di questa Corte n. 221, n. 186 e n. 45 del 2010, n. 320 del 2008 e n. 401 del 2007), e poiché si sarebbe in presenza di una materia di competenza esclusiva statale, anche alle autonomie speciali titolari di competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici sarebbe preclusa la possibilità di dettare discipline suscettibili di alterare le regole di funzionamento del mercato. In particolare, la potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana in materia di «lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale» affermata dall’art. 14, primo comma, lettera g), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, dovrebbe comunque esercitarsi «nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato»
Ciò, secondo il ricorrente, varrebbe anche con riferimento alle modalità di valutazione delle offerte anomale relative agli appalti sotto la soglia di rilevanza comunitaria, per i quali ugualmente rileverebbe la finalità di tutela della concorrenza.
Il ricorrente impugna anche l’art. 13 della legge reg. Siciliana n. 13 del 2019, ritenendo che tale previsione violi l’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), Cost., e l’art. 17, lettera a), dello statuto reg. Siciliana: la disposizione censurata, differendo di un triennio la durata delle concessioni dei servizi di trasporto pubblico locale in essere al momento dell’entrata in vigore della stessa legge regionale, si porrebbe in contrasto con quanto statuito dall’art. 8, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 1370/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2007, relativo ai servizi pubblici di trasporto di passeggeri su strada e per ferrovia e che abroga i regolamenti del Consiglio (CEE) n. 1191/69 e (CEE) n. 1107/70.
A dire del ricorrente, tale previsione avrebbe infatti individuato nella data del 3 dicembre 2019 il termine ultimo accordato agli Stati membri per conformarsi alle disposizioni dettate dall’art. 5, paragrafo 3, dello stesso regolamento, secondo cui l’aggiudicazione dei contratti di trasporto locale avviene con una procedura di gara equa, aperta a tutti gli operatori e nel rispetto dei principi di trasparenza e di non discriminazione: la proroga disposta dal legislatore regionale violerebbe pertanto gli obblighi affermati dalla disciplina europea.
L’evidenziata difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa europea integrerebbe così la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Inoltre, secondo il ricorrente, la mancata indizione di regolari gare d’appalto violerebbe anche l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
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La convenuta Regione Siciliana si è limitata a eccepire l’inammissibilità del ricorso per un vizio relativo alla notifica dello stesso, effettuata esclusivamente a mezzo PEC.
Secondo la resistente, «in ragione della sua inapplicabilità nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale, la notifica telematica effettuata al Presidente della Regione risulta tamquam non esset e, quindi, essendosi consumato il termine perentorio di legge, la Presidenza del Consiglio dei Ministri è irrimediabilmente decaduta dal potere di impugnativa delle norme regionali».
A sostegno di tale eccezione, la Regione Siciliana richiama la sentenza n. 200 del 2019, nella quale la Corte costituzionale ha affermato che, «[a]ttesa la specialità dei giudizi innanzi a questa Corte, la modalità della notifica mediante PEC non può, allo stato, ritenersi compatibile – né è stata sin qui mai utilizzata – per la notifica dei ricorsi in via principale o per conflitto di attribuzione».
Nello stesso giudizio è intervenuta l’associazione ANCE Sicilia – Collegio regionale dei Costruttori Edili Siciliani (di seguito: ANCE Sicilia), con atto di intervento ad opponendum, con riferimento alle censure mosse nei confronti dell’art. 4 della legge reg. Siciliana impugnata.
La Corte Costituzionale ha dichiarato fondata, in primo luogo, la questione relativa all’art. 4, comma 1, primo periodo, della legge della Regione Siciliana n. 13 del 2019, a tenore del quale, nel territorio regionale «le stazioni appaltanti sono tenute ad utilizzare il criterio del minor prezzo, per gli appalti di lavori d’importo pari o inferiore alla soglia comunitaria, quando l’affidamento degli stessi avviene con procedure ordinarie sulla base del progetto esecutivo».
Si evidenzia che per l’aggiudicazione degli appalti di lavori, la disposizione regionale introduce, in capo alle stazioni appaltanti, un vero e proprio vincolo all’utilizzo del criterio del minor prezzo.
E, per la Corte, tale previsione statuisce in difformità da quanto prevede il codice dei contratti pubblici, che demanda alle singole stazioni appaltanti l’individuazione del criterio da utilizzare. Nel disciplinare l’aggiudicazione dei contratti sotto soglia, il suddetto codice, a seguito delle modifiche apportate dal decreto-legge cosiddetto “sblocca cantieri”– decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32 (Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici), convertito, con modificazioni, in legge 14 giugno 2019, n. 55 – prevede attualmente, all’art. 36, comma 9bis, che, «[f]atto salvo quanto previsto all’articolo 95, comma 3, le stazioni appaltanti procedono all’aggiudicazione dei contratti di cui al presente articolo sulla base del criterio del minor prezzo ovvero sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa».
Anche l’art. 95, comma 2, del medesimo codice prevede che «le stazioni appaltanti […] procedono all’aggiudicazione degli appalti […] sulla base del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell’elemento prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita, conformemente all’articolo 96».
Pertanto, secondo la Corte, ne risulta che, per gli appalti di lavori, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 32 del 2019, i due criteri (quello dell’offerta più vantaggiosa e quello del minor prezzo) sono alternativi senza vincoli, e la scelta è appunto rimessa alla stazione appaltante, fatti salvi casi specifici in cui è mantenuto il primato del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
La Corte Costituzionale rileva come non colga nel segno l’argomento della Regione Siciliana, secondo cui il comma 1 dell’art. 4 impugnato riprodurrebbe il contenuto dell’art. 95, comma 4, lettera a), del codice dei contratti pubblici, nella formulazione antecedente alla riforma operata dal d.l. n. 32 del 2019.
La Consulta ravvisa un contrasto con la disciplina statale, poiché in tema di aggiudicazione di lavori pubblici, il legislatore regionale ha introdotto una normativa che invade la sfera di competenza esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza», adottando previsioni in contrasto con quelle del codice dei contratti pubblici.
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La Corte Costituzionale afferma, in definitiva, che è palese la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Il Giudice delle Leggi prosegue, poi, affermando che secondo il costante orientamento della stessa Corte, «le disposizioni del codice dei contratti pubblici [...] regolanti le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza, e [...] le Regioni, anche ad autonomia speciale, non possono dettare una disciplina da esse difforme (tra le tante, sentenze n. 263 del 2016, n. 36 del 2013, n. 328 del 2011, n. 411 e n. 322 del 2008)» (di recente, sentenze n. 98 e n. 39 del 2020).
E questo orientamento, per la Corte, vale «anche per le disposizioni relative ai contratti sotto soglia (sentenze n. 263 del 2016, n. 184 del 2011, n. 283 e n. 160 del 2009, n. 401 del 2007)» (così, ancora, sentenze n. 98 e n. 39 del 2020). Per le stesse ragioni, la Corte ritiene fondate anche le censure mosse agli artt. 4, comma 1 (dal secondo periodo in poi), e comma 2, e 13 della legge reg. Siciliana n. 13 del 2019.
La Corte ribadisce che anche per le concessioni relative alla gestione dei servizi pubblici locali vale, quanto la stessa ha più volte stabilito in tema di concessioni di beni demaniali, da ultimo con la sentenza n. 10 del 2021, e cioè che «discipline regionali che preved[ono] meccanismi di proroga o rinnovo automatico delle concessioni» sono da ritenersi invasive della competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che «rappresenta sotto questo profilo un limite insuperabile alle pur concorrenti competenze regionali».
Solo il legislatore statale, afferma il giudice delle Leggi, ha – in conformità all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. – la competenza ad adottare misure di proroga delle concessioni dei servizi di trasporto pubblico.
Per tali ragioni, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 2, e dell’art. 13 della legge della Regione Siciliana 19 luglio 2019, n. 13.
SEZIONE “STUDI”
Diritti edificatori, perequazione e compensazioni urbanistiche. L’imponibilità a fini ICI.
Di ANNA LAURA RUM
Abstract: Il presente contributo si propone di ripercorrere le varie tappe del contrasto interpretativo dottrinalgiurisprudenziale in materia di natura giuridica dei diritti edificatori e di ricostruire il dibattito sviluppatosi attorno alla qualificazione amministrativa delle perequazioni e compensazioni urbanistiche, per l’imponibilità a fini ICI, di recente composti, seppure in parte, dall’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 23902/2020.
In particolare, verrà dato conto delle diverse tesi affermate sulle questioni, per poi procedere ad un’accurata analisi dei contenuti dell’ordinanza interlocutoria della Cassazione n. 26016/2019 e dei contenuti e principi di diritto affermati, con riferimento ad essa, dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 23902/2020.
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Sommario: 1. Introduzione 2. I diritti edificatori: loro genesi e contenuto. I tentativi di ascriverli a categorie giuridiche conosciute. 3. La perequazione e la compensazione urbanistiche. 4. L’imponibilità a fini ICI. 5. L’ordinanza di rimessione della Sezione V della Cassazione (Cass. Sez. V, n. 26016/2019). 6. L’intervento delle Sezioni Unite (Cass. S.U. sent. n. 23902/2020). 7. Considerazioni finali sulla natura giuridica dei diritti edificatori. 8. Bibliografia.
1. Introduzione
Il fenomeno attuale e sempre più frequente della circolazione dei diritti edificatori ha imposto di fronteggiare e risolvere una volta per tutte la vexata quaestio della loro natura giuridica e la questione della rilevanza tributaria, a fini ICI, di aree inserite in programmi amministrativi territoriali attributivi di diritti edificatori.
La materia urbanistica, oggi, non appare più rientrare nelle strette maglie dei modelli di disciplina delineati dalla Legge urbanistica fondamentale del 1942, ma, anzi, sta evolvendosi, ispirandosi, sempre più, a modelli dinamici e nuovi, al passo con le esigenze attuali dell’Amministrazione.
La normativa di riferimento è ormai divenuta quella offerta da leggi regionali e si nota che lo Stato ha fatto un passo indietro, sì da favorire una più rapida procedura legislativa per l’elaborazione di leggi, che siano più confacenti e “cucite su misura” rispetto ai bisogni delle Amministrazioni locali, in ossequio al principio di sussidiarietà.
Oggi, infatti, i modelli più utilizzati dalle Amministrazioni territoriali sono i c.d. piani territoriali, strumenti flessibili e dinamici, quali lo strumentale e l’attuativo.
Siamo, dunque, di fronte ad una “nuova stagione” del diritto urbanistico.
2. I diritti edificatori: loro genesi e contenuto. I tentativi di ascriverli a categorie giuridiche conosciute.
La categoria giuridica dei diritti edificatori ha iniziato a delinearsi nei primi anni Novanta dello scorso secolo: il contesto di questa prima fase di formazione era quello della prassi di alcuni Comuni, che si avvalevano della scarsa e frammentata risorsa legislativa, data da alcune leggi sparse, quali la Legge urbanistica fondamentale del 1942, la legge n. 47/1985 ed altre poche leggi regionali presenti all’epoca.
Si parlò per la prima volta di diritti edificatori con riferimento ai tre fenomeni perequativi: con essi, infatti, si verifica una sorta di scissione fra la titolarità del fondo e i diritti edificatori sul fondo stesso, ovvero la sua capacità edificatoria.
Si riteneva che i diritti edificatori su di un fondo fossero privi del carattere dell’inerenza allo stesso. Lo studio dei diritti edificatori è stato iniziato e sempre più approfondito per effetto dell’introduzione degli standard urbanistici ed in particolare con la figura negoziale della cd. cessione di cubatura.
La prassi notarile facilitava questi scambi negoziali e riconduceva lo schema nelle categorie della servitù o di altro diritto reale tipico. Si escludeva la necessità dell’intervento del soggetto pubblico, e si affermava la liceità dell’interesse giuridicamente protetto del privato al minor consumo di suolo.
Si è sottolineato, invero, che alla unitarietà del sintagma “diritti edificatori” non corrisponda una categoria unitaria: vi è una pluralità di interessi protetti e un’eterogeneità delle tecniche del diritto urbanistico.
In particolare, in tema di cessione di cubatura, l’esistenza di plurime fonti regionali fa sì che esistano almeno tre modelli contrattuali di cessione, che possono avere diverse parti, diverso oggetto e diversa causa.
In primo luogo, il contratto di cessione di cubatura tra privati, ed in particolare la cessione del diritto edificatorio dietro dazione di denaro, la cui causa è lo scambio della volumetria. I privati nella contrattazione devono rispettare, tuttavia, i limiti derivanti dal diritto pubblico.
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In secondo luogo, il contratto di cessione di cubatura nell’ambito degli strumenti di compensazione urbanistica, concluso fra Amministrazione e privato, in forza del quale si ha cessione del diritto edificatorio in luogo della perdita del diritto di proprietà. Qua, la causa del contratto è conformata dalle ragioni di interesse pubblico che l’Amministrazione persegue mediante lo strumento di compensazione.
Infine, il contratto di cessione di cubatura nell’ambito della perequazione urbanistica, concluso fra due privati, in forza del quale si realizza la cessione del diritto edificatorio dietro dazione di denaro. La causa di questo contratto è conformata dalle norme imperative di diritto pubblico.
Oggi l’unica norma che menziona i diritti edificatori è l’art. 2643, n. 2-bis, c.c. introdotta nel 2011, che, però, non aiuta ad operare una riconduzione dell’istituto ad una categoria dogmatica: la trascrivibilità dei diritti edificatori non equivale a sancirne la natura reale, né altra.
La genesi della novella dell’art. 2643, n. 2-bis, c.c. si deve al recepimento di esperienze straniere, come quelle francese e statunitense, ovvero realtà in cui molte opere pubbliche di notevole importanza sono state realizzate proprio attraverso la circolazione di diritti edificatori «comunque denominati».
L’esigenza di fondo recepita dal legislatore del 2011 era di semplificare la circolazione dei diritti edificatori, mentre, invece, nell’attuale assetto normativo-applicativo si sono create, all’opposto, notevoli incertezze applicative.
Più nel dettaglio, la reale intenzione del legislatore della novella del 2011 era di tipizzare lo schema contrattuale diffuso nella prassi della c.d. cessione di cubatura, sì da raggiungere unitarietà di disciplina.
Sui diritti edificatori gli studiosi della materia hanno operato diversi tentativi di ricostruzione e riconduzione a categorie giuridiche già conosciute.
Fra queste, quelle dei diritti reali (tipici o atipici), dei diritti obbligatori, di bene autonomo e di interesse legittimo pretensivo.
I diritti edificatori, emersi quali categoria giuridica unitaria e generica dalla prassi amministrativa, privi di base normativa, furono inizialmente assimilati alla categoria delle servitù prediali. L’interpretazione prevalente in dottrina e giurisprudenza riteneva infatti che tale istituto ne fosse il più vicino, per caratteri e contenuto. Comunque, dare certezza alla materia era un’esigenza fortemente avvertita: per l’operatore del diritto è fondamentale sapere se il contratto ha ad oggetto una chance, un interesse legittimo, un diritto obbligatorio, un diritto reale o un bene autonomo.
La tesi del bene autonomo, in particolare, valorizzava il dato testuale della legge, che vi attribuirebbe questa natura giuridica.
Inoltre, l’inquadramento come bene autonomo consentirebbe alla fattispecie di atteggiarsi come diritto soggettivo tra i privati, oggetto di contrattazione negoziale, e come interesse legittimo nei confronti della P.A.
La tesi della natura obbligatoria, invece, aveva il limite della prescrittibilità, mentre queste situazioni sono imprescrittibili. Inoltre, la difficoltà principale della ricostruzione del diritto obbligatorio come un credito, sta nella difficoltà di individuare l’oggetto della prestazione, ai sensi dell’art. 1174 c.c. Ed un contratto deve avere l’oggetto determinato o determinabile ai sensi dell’art. 1346 c.c., pena la sua nullità.
Si anticipa che le Sezioni Unite del 2020 diranno che i diritti edificatori non hanno natura di diritti reali, né di obbligazioni propter rem
3. La perequazione e la compensazione urbanistiche.
Gli istituti della perequazione e compensazione urbanistiche sono regolati da leggi statali, regionali e, maggiormente, da atti amministrativi di pianificazione.
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Si assiste, invero, ad una crisi del principio di legalità, posto che molti di questi istituti sono disciplinati soltanto da atti amministrativi, in mancanza di una base legislativa nazionale unitaria e dunque di regole legali sicure, prevedibili ed accessibili.
La legge regionale, pure, non è completa.
Il difetto di una compiuta disciplina di riferimento pone criticità.
Nell’amministrazione c.d. per accordi, l’interesse pubblico non è definito rigidamente da una legge o un provvedimento amministrativo, ma è il frutto di un accordo sostitutivo di quest’ultimo, che l’Amministrazione conclude coi privati interessati ai sensi dell’art. 11 l. 241/1990.
Si è parlato di passaggio da un’urbanistica tradizionale (diritti ed obblighi secondo un modello classico di materialità del bene) ad un’urbanistica di tipo negoziale o “virtuale” (che prospetta situazioni giuridiche attive e passive in relazione alla negoziazione con la P.A.).
Con il modello perequativo, si assiste allo scorporo del diritto edificatorio dal terreno “di decollo” che l’ha generato, con suo successivo “atterraggio” sul fondo accipiente.
In sostanza, per dare attuazione ai programmi di pianificazione territoriale adottati dall’Amministrazione attraverso la perequazione urbanistica, si permette il trasferimento di una porzione di cubatura, sottraendola dal terreno di riferimento, per allocarla in un altro.
Si possono distinguere tre strumenti perequativi, a seconda delle diverse finalità perseguite. Fra esse, la perequazione urbanistica, la compensazione urbanistica, l’incentivazione.
La perequazione urbanistica ha finalità equitativo-redistributivi: essa ripartisce la capacità volumetrica su vari terreni, con possibilità di suo “atterraggio” su altro terreno, diverso da quello di “decollo”, così superando il vecchio sistema della “zonizzazione”.
La compensazione urbanistica ha finalità compensativo-indennitaria e trae origine dalla perdita di edificabilità dell’area di decollo, su cui viene apposto dall’Amministrazione un vincolo di inedificabilità o di esproprio. Viene aperto un procedimento amministrativo, che individua l’area di “atterraggio”, ove esercitare la capacità edificatoria da parte del titolare del fondo di decollo. La fase intermedia, cd. del “volo”, vede il diritto edificatorio circolare separatamente dal fondo che l’ha originato.
L’incentivazione, infine, ha finalità premiale rispetto al privato che realizza interventi di interesse per la collettività, il quale riceverà, poi, in cambio, diritti edificatori.
I modelli di compensazione urbanistica, a loro volta, sono plurimi. Fra essi, la compensazione espropriativa, la compensazione urbanistica in senso stretto e la compensazione di carattere ambientale-paesaggistico.
Si ha compensazione espropriativa quando la P.A. attribuisce al privato diritti edificatori in luogo dell’indennizzo espropriativo: in questo caso, il terreno passa coattivamente alla P.A.
Oppure, la compensazione espropriativa può venire in rilievo a fronte dell’imposizione di un vincolo preordinato all’esproprio: per il periodo di durata del vincolo, in vista dell’espropriazione, quando si supera un periodo di franchigia, la P.A., in luogo dell’indennità, ancora una volta può corrispondere diritti edificatori: in questa ipotesi, il terreno mantiene la propria capacità edificatoria e anche il proprio valore venale.
Si ha compensazione urbanistica in senso stretto, quando la P.A., in base a leggi regionali, impone dei vincoli al privato, veri e propri obblighi di fare, per assicurare interventi di riqualificazione urbana che vengono poi compensati con i diritti edificatori: in questo caso, il terreno mantiene la propria capacità edificatoria e aumenta il proprio valore venale, essendo migliorato in virtù di questa riqualificazione.
La compensazione può avere carattere ambientale-paesaggistico, ove l’Amministrazione apponga vincoli conformativi od espropriativi sul terreno, in compensazione dei quali attribuisce al privato proprietario diritti edificatori.
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4. L’imponibilità a fini ICI.
L’ICI, imposta comunale sugli immobili, è stata istituita con legge 504/1992 e grava sui proprietari degli immobili situati nel territorio dello Stato, sui titolari di diritti reali di godimento, sui locatari in caso di leasing e sui concessionari di aree demaniali.
La base imponibile è data dal valore dell’immobile.
Dal 2008, l’ICI è stata esclusa per i proprietari di immobili adibiti ad abitazione principale, per poi essere reintrodotta, nel 2012, quale IMU (Imposta Municipale).
Come è stato osservato dagli studiosi della materia, gli unici precedenti di legittimità favorevoli all’imponibilità a fini ICI riguardano il precipuo strumento della perequazione urbanistica (diverso, dunque, ancorché con tratti similari, dalla compensazione urbanistica, oggetto del caso trattato dalla ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass, V Sez. ord. rim. 26016/ 2019206) e della successiva pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass. S.U. sent. 23902/2020207).
La Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 25506/2006208, ha affermato la rilevanza tributaria della mera potenzialità edificatoria di un’area, desumibile dalla qualificazione ad essa attribuita nel P.R.G. anche semplicemente adottato dal Comune, sebbene non ancora approvato dalla Regione.
Si è ritenuto, poi, che l’imposizione tributaria debba applicarsi all’esito di un’accurata disamina in materia di circolazione dei diritti edificatori.
Infatti, un vincolo di inedificabilità assoluta su un fondo precluderebbe, a dire di taluno, ricadute impositive. La cessione dei diritti edificatori darebbe luogo ad una chance, intesa come seria possibilità di trasformare l’assetto territoriale in termini volumetrici: un interesse legittimo pretensivo vantato dal titolare del bene sottoposto a vincolo di inedificabilità (o espropriato) su un altro terreno (“di atterraggio”).
Per altri, invece, anche in presenza di un vincolo di inedificabilità vi sarebbero margini di ricadute impositive e le ragioni che giustificherebbero la tassabilità dell’area di decollo risiederebbero, anzitutto, nel concetto di edificabilità dell’area e poi nell’incremento di valore che l’area riceverebbe per effetto del meccanismo di compensazione urbanistica.
Seppure, infatti, il privato avesse subito il vincolo di inedificabilità assoluta, egli acquisirebbe, in cambio, un diritto edificatorio da realizzare aliunde
Secondo le Sezioni Unite del 2006, l’edificabilità deve intendersi diversamente, a seconda della prospettiva urbanistica o economica dalla quale si osserva il fenomeno: in senso urbanistico, l’area è edificabile solo dopo che lo strumento urbanistico è divenuto efficace e, se necessario, solo dopo che lo strumento urbanistico attuativo sia divenuto efficace (perché solo da quel momento potrà essere rilasciato il permesso di costruire). Invece, in senso economico, la mera adozione di uno strumento urbanistico crea già aspettative sull’edificabilità del suolo che ne fanno accrescere il valore.
Dunque, secondo questo approdo, non interesserebbe ai fini fiscali che il suolo sia immediatamente ed incondizionatamente edificabile, ma occorre tenere conto delle mere aspettative di edificabilità del suolo che non comportano ai fini della valutazione fiscale l’equiparazione sic et simpliciter alla edificabilità.
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A fini impositivi, sarebbe sufficiente l’inserimento del terreno nello strumento urbanistico, benché non operativo, perché già da quel momento la generalità dei consociati ritiene il terreno edificabile, secondo le leggi di mercato, a prescindere dal mancato perfezionamento dell’iter di formazione.
Per la giurisprudenza di legittimità, inoltre, sono tassabili anche le aree sottoposte ad espropriazione prima del decreto di esproprio.
Dunque, il legislatore fiscale intenderebbe adeguare il prelievo impositivo alle variazioni dei valori economici dei suoli che si registrano e progrediscono, in parallelo al sorgere della mera aspettativa dello ius aedifacandi fino al perfezionamento dello stesso.
Si ritiene che quando l’area di atterraggio è determinata ed assegnata, il giudice tributario è in grado di rilevarne il carattere di unitarietà previsto dall’art. 1 del d.lgs n. 504 del 1992, rilevante a fini ICI. Se, invece, l’area di atterraggio non è individuata, può essere sottoposta a tassazione quella di decollo, sulla base del concetto di “edificabilità estesa”, introdotto dalla S.C. anche sulla base del valore del terreno modificato.
Quanto, infine, al problema del quantum, la base imponibile da assumere per tassare l’area di decollo deve fare riferimento al comparto (purché sia stato genericamente individuato, senza individuazione delle specifiche aree di atterraggio) ove si realizzeranno i diritti edificatori.
Le Sezioni Unite del 2020, si anticipa, affermeranno che deve escludersi la imponibilità ICI, come area edificabile, del terreno dal quale origina il diritto edificatorio compensativo.
5. L’ordinanza di rimessione della Sezione V della Cassazione (Cass. Sez. V, n. 26016/2019209).
Il caso giudiziario trattato nell’ordinanza interlocutoria attiene all’imposizione di un vincolo di inedificabilità assoluta su un terreno ricadente nella zona dell’Appia Antica, rientrante in un programma di compensazione urbanistica ma fatto oggetto di richiesta impositiva a titolo di ICI da parte del Comune di Roma e contestata dal contribuente (vittorioso in primo grado e soccombente in grado di appello).
Con ordinanza interlocutoria n. 26016/19, la Sezione V della Corte di Cassazione, osserva che la Commissione Tributaria Regionale ha affermato l'imponibilità ICI dell'area in questione ancorché quest'ultima fosse stata privata della propria originaria edificabilità e nonostante che il programma di compensazione urbanistica adottato dal Comune non si fosse ancora completato mediante l'esatta individuazione dell'area di fruizione compensativa della volumetria; si verte, in sostanza, di imposizione ICI nel periodo (c.d. di 'volo'), successivo all'imposizione del vincolo assoluto (parco pubblico) sull'area originaria, ma antecedente alla certa individuazione ed assegnazione dell'area di sfruttamento compensativo.
Prosegue la Sezione rimettente che ancorché in assenza di precedenti specifici di legittimità sull'imposizione Ici in caso di compensazione urbanistica sussistono taluni precedenti, che hanno concluso per l'effettivo assoggettamento ad ICI dell'area di partenza, in applicazione del principio per cui il presupposto oggettivo di questo tributo può essere individuato anche soltanto nella "mera potenzialità edificatoria" dell'area, secondo quanto già stabilito dalle Sezioni Unite n.25506/06 ed altre conformi.
La Sezione Tributaria, fino al 2015, ha affermato che l'apposizione sull'area di un vincolo di destinazione a servizio pubblico o di interesse pubblico, ovvero a verde pubblico attrezzato, esclude la fabbricabilità ai fini dell'articolo 1, c.2, d.lgs.504/92.
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Poi, a partire dal 2015, si è consolidato l'opposto orientamento, in base al quale l'apposizione di vincoli di destinazione, ancorché indubbiamente incidente sul valore venale dell'immobile, non è tuttavia tale da farne venir meno l'originaria natura edificabile.
Prosegue la Sezione rimettente che la soluzione della imponibilità ICI in ragione della mera potenzialità edificatoria susciterebbe purtuttavia qualche perplessità, specie a fronte dei nuovi strumenti, variamente previsti dalle normative regionali, della perequazione, della compensazione e dell'incentivazione urbanistica, destinati a sostituire lo schema classico della c.d. 'zonizzazione' ovviando alle discriminazioni tra proprietari di aree omologhe da quest'ultima spesso indotte, e ad ingenerare, in capo ai proprietari, dei 'diritti edificatori' non disciplinati espressamente dalla legge statale (se non nei ristretti limiti della trascrivibilità di cui all'art.2643 n. 2 bis cod.civ., come introdotto dal d.l. 70/11 conv.in 1.106/11), e di qualificazione giuridica ancora incerta: se diritti reali di godimento, tipici o atipici; se diritti obbligatori riconducibili ad un rapporto di credito tra il privato e l'amministrazione comunale; se meri 'frutti' del bene.
Tuona la Sezione rimettente che qualora si attribuisse ai diritti edificatori in questione natura obbligatoria, ben difficilmente se ne potrebbe ammettere l'imponibilità ICI, essendo quest'ultimo un tipico tributo di natura reale che presuppone l'edificabilità in quanto qualità intrinseca del terreno.
Le aree di compensazione non sembrano poter essere assimilate a quelle fabbricabili indicate dalla normativa ICI, neppure sotto il profilo di una loro potenzialità.
Si sottolinea che un indirizzo interpretativo chiarificatore si imporrebbe anche in ragione delle diversità esistenti tra gli interventi di tipo 'perequativo' e quelli di tipo 'compensativo', posto che nel primo caso viene pur sempre riconosciuta al fondo, quale strumento alternativo all'imposizione di un vincolo, una determinata frazione della cubatura complessiva fruibile su altre aree (contigue oppure no), mentre nel secondo caso si verifica l'attribuzione di un credito compensativo di natura indennitaria suscettibile di essere fruito su un'altra area (c.d. di atterraggio) la cui identificazione può tuttavia avvenire anche molto tempo dopo l'imposizione del vincolo sull'area di origine, con le conseguenti problematiche circa la configurabilità non soltanto del presupposto oggettivo dell'Ici, ma anche di quello soggettivo (artt.1 e 3 d.lgs.504/92).
In definitiva, la Sezione tributaria rimettente sottopone all’attenzione dell’Adunanza Plenaria la questione "se un'area, prima edificabile e poi assoggettata con legge regionale ad un vincolo di inedificabilità assoluta, sia da considerare edificabile ai fini Ici ove inserita in un programma di cd. compensazione urbanistica adottato dal Comune, ancorché il procedimento compensatorio non si sia ancora concluso, non essendo stata specificamente individuata ed assegnata al proprietario la cd. area 'di atterraggio', ossia l'area sulla quale deve essere trasferita l'edificabilità già cessata sull'area cd. di decollo”.
Secondo i commentatori dell’ordinanza di rimessione, sono stati molti gli interrogativi aperti sottesi ad essa.
Fra questi, ad esempio, quale forma giuridica dare al diritto edificatorio del privato, in caso di compensazione urbanistica, e se ancora valgono le tradizionali categorie del diritto reale o del diritto di credito. Se, ancora, l’eventuale obbligo impositivo dovrà riguardare solo l’ICI o dovrà estendersi.
Infine si sono registrate forti preoccupazioni intorno ai criteri di prevedibilità, a fronte di una così ampia perequazione urbanistica, scongiurando soluzioni prive di base legale, ma affidate solo alla giurisprudenza.
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6. L’intervento delle Sezioni Unite (Cass. S.U. sent. n. 23902/2020210).
La questione oggetto dell’ordinanza di rimessione consentirebbe di distinguere, a seconda delle fonti di disciplina, tre macrofasi: una retta dal diritto pubblico urbanistico-amministrativo, una dal diritto privato in materia di circolazione dei diritti edificatori ed infine una retta da norme di diritto pubblico dell’edilizia regolanti il rilascio del permesso di costruire entro cui si viene a collocare il diritto pubblico tributario.
Le Sezioni Unite, infatti, prendono le mosse dalla considerazione che la questione di fondo si pone in un punto di sovrapposizione fra tre distinti ambiti giuridici.
L'individuazione dei presupposti impositivi ICI, tanto soggettivo (proprietario o titolare di diritto reale su area fabbricabile) quanto oggettivo (possesso di area fabbricabile) deriva dalla interpretazione delle norme tributarie di riferimento e delle relative definizioni legali (artt.1-3 d.lgs.504/92).
La nozione di fabbricabilità o edificabilità di un'area, seppure applicata ad esclusivi fini tributari, pone invece un problema di raffronto e raccordo sistematico con i principi propri della disciplina amministrativa ed urbanistica che regolano la sorte dei suoli.
La capacità contributiva sulla quale la patrimonialità dell'imposizione si regge deve, poi, soppesarsi, ex art.53 Cost., anche nella considerazione della natura giuridica di diritto privato delle posizioni soggettive coinvolte nella edificabilità o non-edificabilità dell'area, specialmente se si tratti - come nel caso degli interventi edilizi di natura compensativa di una soppressa edificabilità originaria - di posizioni, che, pur costituendo, tutte, forme di manifestazione e sfruttamento economico dello jus aedificandi, sono tuttavia suscettibili di separata cessione negoziale tra privati, e di più o meno libera circolazione sul mercato mobiliare dei c.d. diritti edificatori.
Ancora, un altro motivo di interferenza individuato dalla Corte riguarda, poi, specificamente questi ultimi e la fonte normativa della loro disciplina.
Si tratta infatti di istituti che trovano una regolamentazione estremamente variegata, sul piano strettamente urbanistico, nella legislazione regionale (a solo titolo di esempio: art.11 LR Lombardia n.12/2005 sulla compensazione, perequazione ed incentivazione urbanistica quali strumenti di governo del territorio; artt.35-37 LR
Veneto n.11/2004 sulla perequazione e compensazione urbanistica nonché sull'attribuzione di credito edilizio in ipotesi di riqualificazione ambientale; artt.100 e 101 LR Toscana n. 65/2014 sulla perequazione urbanistica).
Talvolta essi sono previsti dagli strumenti regolatori generali, così come accade nella fattispecie oggetto dell’ordinanza di rimessione e posta all’attenzione delle Sezioni Unite, caratterizzata da una compensazione urbanistica introdotta nel Piano Regolatore Generale del Comune di Roma, a sua volta inscrivibile tra i procedimenti di perequazione urbanistica di natura consensuale e concordata.
E tuttavia, la disciplina di fonte regionale, limitata al governo del territorio ed alle relative prescrizioni conformative, non potrebbe in alcun modo spingersi a riempire di contenuto civilistico o dominicale gli istituti in questione, così da sovrapporsi alla potestà legislativa esclusiva ed unitaria dello Stato in materia di ordinamento civile e di diritto di proprietà, secondo quanto dettato dall'art.117 Cost.
La Corte Costituzionale (ex multis, C.Cost. sent. n. 391/89211) ha chiaramente affermato che la limitazione conformativa del diritto di proprietà volta ad assicurarne la funzione sociale ben può essere esercitata, nelle materie di competenza, dalla legge regionale, ferma però restando la preclusione per il legislatore regionale di interferire sulla disciplina dei diritti soggettivi per quanto riguarda "i profili civilistici dei rapporti da cui derivano, cioè i modi di acquisto e di estinzione, i modi di accertamento, le regole sull'adempimento delle obbligazioni e sulla responsabilità
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per inadempimento, la disciplina della responsabilità extracontrattuale, i limiti dei diritti di proprietà connessi ai rapporti di vicinato”.
Tuttavia, la disciplina statuale in materia, su tali contenuti, è del tutto carente e di mero richiamo.
Talune disposizioni di settore prevedono la possibilità di attribuzione di diritti edificatori in funzione premiale ed incentivante di interventi edilizi di rilevanza sociale e di riqualificazione, ma la norma di più generale portata è costituita dall'art. 2643 n. 2bis c.c. (introdotto dal d.l. 70/11 conv. I. 106/11, c.d. decreto sviluppo), secondo cui si devono rendere pubblici col mezzo della trascrizione anche "i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale".
La Corte osserva che questa disposizione riconosce meritevolezza e diritto di cittadinanza ai diritti edificatori, senza però definirli né tipizzarli.
Sul piano linguistico, prosegue la Corte, dottrina, giurisprudenza e la stessa normativa utilizzano terminologie diverse (da qui l'avvertita esigenza del "comunque denominati" di cui all'articolo 2643 cit.), discutendosi ora di diritti edificatori, ora di crediti edilizi, o di crediti compensativi, titoli volumetrici o altre simili locuzioni, a seconda della sostanza giuridica che in tali istituti si voglia vedere: se diritto soggettivo o interesse legittimo, se natura reale, di godimento ovvero obbligatoria, se cosa oggetto di diritti ovvero utilità o chance ingenerante un'aspettativa giuridicamente tutelata.
Il tutto, sempre con riguardo al bene della vita costituito dalla pratica possibilità, riconosciuta dalla PA, di sfruttare altrove una determinata volumetria (o cubatura che dir si voglia) a vario titolo riconducibile ad un suolo-sorgente.
Secondo le Sezioni Unite 2020, i diritti edificatori, di progressiva diffusione nelle procedure e nelle prassi di pianificazione urbanistica a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, si pongono quale strumento di evoluzione e superamento della metodica della c.d. zonizzazione.
La zonizzazione permetteva la suddivisione del territorio comunale in varie zone di qualificazione, intervento e destinazione d'uso, rispondendo ad una esigenza di un governo del territorio il più possibile ordinato, oggettivo e satisfattivo di tutte le complesse esigenze facenti capo alle comunità locali.
Essa, tuttavia, come ricordano le Sezioni Unite, presentava forti limitazioni: la disparità di trattamento riservata ai proprietari di fondi del tutto omogenei a seconda della casualità della loro ubicazione e costi e tempi gravanti sugli enti pubblici attuatori, per l'acquisizione espropriativa di determinate aree e loro trasformazione a destinazione pubblica.
Si tratta di controindicazioni che la c.d. urbanistica consensuale, l'amministrazione “per accordi” intende evitare o attenuare proprio attraverso il riconoscimento ai proprietari chiamati a concorrere alla pianificazione generale di una posizione giuridica qualificata, a fronte della cessione pattizia dei suoli, ovvero della imposizione su di essi di restrizioni o anche di vincoli assoluti di inedificabilità.
Dunque, chiarisce la Corte, con il sintagma “diritti edificatori” si intende un insieme indistinto di queste posizioni giuridiche qualificate e, ancora, che i diritti edificatori non negano, ma anzi presuppongono - consentendone variamente l'esercizio delocalizzato - che lo jus aedificandi costituisca una naturale estrinsecazione del diritto di proprietà del suolo, sebbene sottoposto alle condizioni conformative e di utilità sociale previste dalla legge e dagli strumenti urbanistici.
Le Sezioni Unite in commento, in particolare, individuano il comune denominatore dei diritti edificatori nella loro riconosciuta scorporabilità dal terreno che li ha originati, e dalla conseguente loro autonoma cedibilità negoziale Questa possibilità è oggi sancita dall'articolo 2643 n.2 bis c.c., che consente il loro trasferimento oneroso tra privati, indipendentemente dal trasferimento del terreno. E questa autonomia, in assenza di previsioni normative ostative, viene talora concepita ed attuata in termini estremamente ampi, perché estesi fino alla possibilità di cartolarizzazione
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del diritto edificatorio (con circolazione assimilabile a quella dei titoli di credito), ovvero anche di sua dematerializzazione (con circolazione attestata dalle annotazioni sui c.d. registri dei diritti edificatori tenuti dai Comuni, come previsto da talune leggi regionali).
La Corte prosegue sostenendo che nel caso dell'urbanistica perequativa, si ha distribuzione paritetica e proporzionale - tra tutti i proprietari di un determinato ambito territoriale o lotto - tanto del vantaggio costituito dalla edificabilità, quanto dell'onere di contribuzione ai costi di riqualificazione, urbanizzazione e realizzazione di aree a servizi di pubblica utilità o verde.
In questo modo, a tutti i suoli dell'ambito territoriale di intervento viene riconosciuto un valore edificatorio costante, indipendentemente dalla effettiva e specifica collocazione, all'interno di esso, dei fabbricati assentiti. Questa collocazione, stante l'effetto distributivo-perequativo, risulta in definitiva indifferente per i singoli proprietari, i cui terreni saranno comunque destinatari di una quota uguale di edificabilità.
Le Sezioni Unite richiamano un precedente della stessa Corte di Cassazione (Cass.n. 27575/18212), che si è pronunciata proprio sulla tassabilità ICI dei diritti edificatori rinvenienti dalla perequazione, affermando che "il meccanismo consiste nell'assegnazione all'insieme delle aree, pur con diverse destinazioni, pubbliche e private costituenti un comparto, di un indice perequativo, inferiore all'indice fondiario attribuito alle aree destinate all'edificazione. Nella sostanza il privato non subisce un vincolo e non è gravato dall'obbligo di soggiacere all'esproprio, ma sarà titolare dell'onere previsto dal piano perequativo il cui assolvimento gli permetterà di partecipare ai vantaggi del piano stesso".
La perequazione limitata ad un ambito territoriale omogeneo e composto da terreni contigui trova radice in un istituto - quello del comparto edilizio - non nuovo, perché già previsto nell'articolo 870 del codice civile e nell'articolo 23 della I. urbanistica del 1942. Accanto a questa modalità di perequazione, c.d. ristretta, le legislazioni regionali conoscono tuttavia anche una tecnica di perequazione c.d. estesa, in forza della quale l'effetto distributivo, sia della edificabilità sia degli oneri di trasformazione, può coinvolgere anche ambiti territoriali non contigui (dunque non di comparto in senso stretto), eventualmente riferiti all'intero territorio comunale (o anche, come pure talvolta previsto, intercomunale) interessato dalla trasformazione stessa. I diritti edificatori provenienti da interventi perequativi sono assegnati direttamente dal piano urbanistico e sono negoziabili a seguito dell'approvazione di quest'ultimo, ferma restando la possibilità della PA di procedere ad una successiva revisione del potere di pianificazione.
Le Sezioni Unite 2020 ritengono che nel caso della compensazione urbanistica (ovvero, come talvolta anche si legge, della perequazione compensativa) la PA attribuisce al proprietario un indice di capacità edificatoria (credito edilizio o volumetrico) fruibile su altra area di proprietà pubblica o privata, non necessariamente contigua e di anche successiva individuazione; ciò a fronte della cessione gratuita dell'area oggetto di trasformazione pubblica, ovvero di imposizione su di essa di un vincolo assoluto di inedificabilità o preordinato all'esproprio.
Ne discende che la compensazione urbanistica - che può prevedere anche diverse forme attuative, ad esempio di permuta tra aree, ovvero di mantenimento in capo al privato della proprietà dell'area destinata alla realizzazione di servizi pubblici, dati al medesimo in gestione convenzionata - può fungere da strumento della pianificazione generale tradizionale (compensazione infrastrutturale), ovvero dipendere dall'esigenza di tenere indenne un proprietario al quale venga imposto un vincolo di facere o non facere per ragioni ambientali-paesaggistiche (compensazione ambientale), come nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, segnato da imposizione di vincolo assoluto di inedificabilità ai sensi della LR Lazio 14/2002, concernente l'ampliamento della perimetrazione del parco regionale dell'Appia Antica.
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Specificano le Sezioni Unite che il diritto edificatorio proveniente da interventi compensativi può trovare fondamento, in ordine alla sua quantificazione, nel piano regolatore generale, ma viene assegnato (ed è dunque trasferibile tra privati) solo all'esito della cessione dell'area o dell'imposizione del vincolo; trattandosi di un istituto con funzione corrispettiva o indennitaria di un'edificabilità soppressa, esso risulta indifferente alle successive variazioni di piano. Inoltre, mentre il diritto edificatorio di origine perequativa viene riconosciuto al proprietario del fondo come una qualità intrinseca del suolo (che partecipa fin dall'inizio di un indice di edificabilità suo proprio, così come prestabilito e spalmato all'interno di un determinato ambito territoriale di trasformazione), il diritto edificatorio di origine compensativa deriva dall'adempimento di un rapporto sinallagmatico in senso lato, avente ad oggetto un terreno urbanisticamente non edificabile, ristorato con l'assegnazione al proprietario di un quid volumetrico da spendere su altra area.
Le Sezioni Unite ricordano che nel caso del diritto edificatorio di origine compensativa, è particolarmente evidente la progressività dell'iter perfezionativo della fattispecie, dal momento che quest'ultima si articola - seguendo la metafora aviatoria utilizzata in materia dagli urbanisti - in una fase (o area) di decollo, costituita dall'assegnazione del titolo volumetrico indennitario al proprietario che ha subito il vincolo; di una fase (o area) di atterraggio, data dalla individuazione ed assegnazione del terreno sul quale il diritto edificatorio può essere concretamente esercitato; di una fase di volo rappresentata dall'arco temporale intermedio durante il quale l'area di atterraggio ancora non è stata individuata, e pur tuttavia il diritto edificatorio è suscettibile di circolare da sè.
Le Sezioni Unite in commento definiscono il contorno in cui operano i diritti edificatori come “frastagliatissimo”, e all’interno di esso rientra anche la fattispecie (del resto, l'unica ad essere specificamente prevista da legge dello Stato all’art.1 co.259 1.244/07 che espressamente parla di "aumento di volumetria premiale" da parte dei Comuni) nella quale al privato viene dalla PA attribuito - a titolo straordinario ed aggiuntivo rispetto a quanto già previsto dagli strumenti di pianificazione - un indice edificatorio con scopo di premio, ovvero di incentivo, a fronte dell'esecuzione di interventi di riqualificazione ambientale, architettonica, urbanistica o residenziale reputati virtuosi, perché eccedenti gli standard minimi e di interesse generale. Nel qual caso si evidenzia la creazione di nuova volumetria, cioè di una volumetria ulteriore e del tutto slegata da quella previgente, invece essenziale alla vicenda compensativa.
Proseguono le Sezioni Unite sostenendo che esterna al perimetro dei diritti edificatori, propriamente detti, deve invece ritenersi la fattispecie, di più risalente vaglio dottrinale e giurisprudenziale, della cessione di cubatura. In tal caso, il trasferimento (totale o parziale) della capacità edificatoria del fondo avviene - tra privati - a favore di un'area fin dall'inizio ben determinata, se non necessariamente contigua, quantomeno prossima e di destinazione urbanistica omogenea.
Non vi è incidenza sulla pianificazione generale, attesa l'invarianza della cubatura complessiva, l'omogeneità delle aree coinvolte e l'estraneità alla cessione in sé della PA (per questo la si ritrova talvolta definita come intervento di micropianificazione urbanistica ad iniziativa privata), alla quale sarà tuttavia demandato di assentire il rilascio, a favore del cessionario, del permesso di costruire maggiorato della quota di cubatura trasferita.
Le Sezioni Unite arrivano, poi, a trattare il dibattuto tema della natura giuridica dell'istituto - rilevante per varie imposte, dirette ed indirette - tra realità ed obbligatorietà.
Tuttavia, il Supremo Collegio dichiara che tale questione le Sezioni Unite dovranno prossimamente tornare ex professo, a seguito dell'ordinanza di rimessione recentemente emessa dalla Sezione Tributaria (n.19152 del 15 settembre 2020), alla cui ampia ricostruzione interamente rinviano.
Le Sezioni Unite, venendo allo specifico quesito posto dall'ordinanza di rimessione, affermano che deve escludersi la imponibilità ICI, come area edificabile, del terreno dal quale origina il diritto edificatorio compensativo.
Infatti, premesso che la disciplina ICI funge, nell'ambito della fiscalità locale, da matrice di riferimento anche per i tributi che si sono ad essa succeduti (d.lgs.23/2011, Innu; I. 147/2013, Iuc-Tasi; 1.160/2019, nuova IMU) e che
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hanno accolto la medesima nozione di area fabbricabile, la fattispecie impositiva è incentrata, da un lato, sulla tassativa ed esaustiva elencazione dei beni immobili colpiti (fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli) e, dall'altro, su una relazione di realità con tali immobili.
La disciplina dell'ICI, si dice, conosce anche sconfinamenti tanto in senso personalistico (come nel regime delle esenzioni di cui all'articolo 7 d.lgs.504/92, talvolta facente richiamo non alle caratteristiche oggettive del bene immobile ma alla qualità soggettiva del suo possessore), quanto in senso obbligatorio (come nell'imposizione a carico dell'utilizzatore in leasing, ex articolo 3, co.2^ I.cit.), e tuttavia si tratta di previsioni di natura eccezionale e derogatoria ris etto agli elementi costitutivi generali del tributo che, dal punto di vista tanto della legittimazione soggettiva passiva (proprietario o titolare di diritto reale su l'immobile), quanto del presupposto obiettivo (possesso di fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli) fanno inequivoco riferimento al sostrato reale dell'imposta (artt.1, 2, 3 d.lgs.504/92).
E questo sostrato reale, proseguono le Sezioni Unite, fa certamente difetto nel caso del diritto edificatorio compensativo.
La Corte, torna, poi, sugli ostacoli di decentramento normativo alla individuazione di un diritto assoluto di natura reale, ribadendo che gli elementi identificativi andrebbero poi riferiti ad uno dei diritti reali già disciplinati dal codice civile, salvo che ci si voglia avventurare, ma senza alcuna sicura guida legislativa, nel definirne uno nuovo, in deroga al numero chiuso che impronta la materia, sulla base di una normazione di fonte non statuale che sfugge a qualsiasi pratica possibilità di riconduzione ad unitaria definizione e compattezza caratteristica.
E ciò, va notato, con riguardo non solo alla legge di circolazione dei diritti in esame, rispetto alla quale l'eterogeneità di discipline è spinta al massimo grado, ma anche al loro nucleo contenutistico. Del resto, evidente è la distanza dei diritti in esame dai diritti reali tipici che più potrebbero ad essi teoricamente avvicinarsi, quali la servitù o la superficie.
Quanto alla prima, le Sezioni Unite affermano che non si riscontra nella fattispecie in esame alcun rapporto di dominanza-asservimento, quanto di scambiabilità, tra i fondi correlati; né le nozioni qualificanti di utilità e vicinitas (sebbene valutate nella massima ampiezza di accezione, funzionale e non topografica, tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza) potrebbero riferirsi ad un'area, quella di arrivo, ancora da individuarsi.
Quanto alla seconda, invece, si sostiene che difetta l'elemento essenziale dell'esercizio del diritto reale su cosa altrui mediante superamento del vincolo dell'accessione, venendo qui in discussione l'alterità oggettiva dei luoghi di produzione e di esercizio dello jus aedificandi in capo ad un medesimo titolare, e non l'alterità soggettiva tra proprietario del fondo e proprietario dell'edificio che ad esso acceda.
A dire del Supremo Consesso, il totale distaccamento dal fondo di origine e la sua conseguente perfetta ed autonoma ambulatorietà rappresenterebbero un ostacolo davvero invalicabile nell'affermare la natura reale del diritto edificatorio in questione.
Quindi, concludono i giudici nomofilattici, il diritto edificatorio compensativo non costituisce nulla di diverso da una indennità ripristinatoria - in moneta urbanistica - di un patrimonio inciso, che il proprietario può valorizzare sul mercato indipendentemente dal suolo generatore; il quale, del resto, potrebbe risultare ormai privo di qualsivoglia appetibilità commerciale e, anzi, nemmeno più appartenergli, come nel caso in cui il diritto gli fosse attribuito a fronte della cessione spontanea dell'area.
Non può negarsi che la fattispecie presenti una necessaria duplice connessione fondiaria nel richiedere che il diritto edificatorio scaturisca da un terreno (di decollo) per poi essere esercitato su un altro terreno (di atterraggio); ma si tratta di una connessione funzionale estrinseca e non ricostruibile in termini di realità, dal momento che il diritto, o credito, edificatorio che dir si voglia - proprio per lo scopo compensativo e l'autonomia che gli sono coessenziali -
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non è inerente né immediatamente pertinente al fondo di partenza, di cui neppure costituisce una qualità intrinseca atta ad essere economicamente valorizzata solo nel trasferimento congiunto con esso.
Il difetto di inerenza in senso giuridico (tanto civilistico quanto tributario) si evidenzia in maniera addirittura
eclatante in quello che è il segmento più critico, e rivelatore, della fattispecie, appunto quello del 'volo'; allorquando il diritto di costruire non può più essere esercitato sul fondo di origine, e non può ancora essere esercitato sul fondo di destinazione perché non ancora assegnato né, forse, individuato.
Evidenziano, ancora, le Sezioni Unite, che un sostrato di natura reale non può essere recuperato nemmeno facendo ricorso alla figura della obbligazione propter rem
A tacere delle incertezze dogmatiche che ancora gravano sull'istituto, basterà osservare come faccia anche in tal caso difetto una adeguata ed univoca descrizione normativa, sul presupposto che la Corte di Cassazione ha molte volte enunciato (ex multis, Cass.n. 25673/18213), secondo cui "le obbligazioni propter rem, al pari dei diritti reali, dei quali sono estrinsecazione, non sono una categoria di rapporti innominati, ma sono caratterizzate dal requisito della tipicità, con la conseguenza che possono sorgere per contratto solo nei casi e col contenuto espressamente previsti dalla legge".
Il Collegio specifica che nel caso del diritto edificatorio sia escluso il diritto di seguito con il terreno, a sua volta basato su una nozione di inerenza obbligatoria con esso qui non concepibile; inoltre, l'obbligazione propter rem costituisce pur sempre un vincolo debitorio per il proprietario il quale nel caso del diritto edificatorio è, all'esatto contrario, non debitore ma creditore verso l'amministrazione comunale che gli ha promesso l'edificazione compensativa da un'altra parte.
Resta da valutare l'incidenza dell'inserimento dei contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori nel regime generale di trascrivibilità degli atti relativi ai beni immobili, ex art.2643 cit..
Ora, secondo le Sezioni Unite, il dato normativo in esame, pur ideologicamente assai significativo per le già evidenziate ragioni di recepimento e valutazione di meritevolezza da parte dell'ordinamento statuale, non è tuttavia dirimente nel senso della realità dell'istituto, ove si consideri che da esso, eccezion fatta per l'ampia dizione di “diritti suscettibili di divenire oggetto di contratti”, non si trae alcun utile elemento definitorio di contenuto ed effetti in tal senso (in quanto la norma si limita semplicemente a rinviare a quanto previsto dalle corrispondenti discipline statali o regionali, ovvero dagli strumenti di pianificazione territoriale), e che, per altro verso, lo stesso regime in questione ben conosce la trascrivibilità anche di atti ad effetto meramente obbligatorio, quali la locazione ultranovennale o il contratto preliminare (art.2645 bis c.c.).
Le Sezioni Unite concludono che la disposizione in questione, in definitiva, i diritti edificatori vengono sì enunciati quali istituti dell'ordinamento giuridico, ma non riempiti di sostanza reale.
Sul piano tributario, le Sezioni Unite in commento ricordano che già in passato, il Supremo Collegio (Cass. S.U. n. 25506/06214) affermò nitidamente l'autonomia della nozione di edificabilità in senso tributario da quella in senso urbanistico: "diverse, infatti, sono le finalità della legislazione urbanistica rispetto a quelle della legislazione fiscale. La prima tende a garantire il corretto uso del territorio urbano, e, quindi, lo jus aedificandi non può essere esercitato se non quando gli strumenti urbanistici siano perfezionati (garantendo la compatibilità degli interessi individuali con quelli collettivi); la seconda, invece, mira ad adeguare il prelievo fiscale alle variazioni dei valori economici dei suoli, che si registrano e progrediscono, in parallelo, dal sorgere della mera aspettativa dello jus aedificandi, fino al perfezionamento dello stesso. Ne consegue, che le chiavi di lettura dei due comparti normativi possono essere legittimamente differenti".
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In secondo luogo, essa svolge, proprio in nome di quell'autonomia e della referenzialità economica sempre sottesa al diritto tributario ex art.53 Cost., un'analisi appunto economica del diritto di edificare, attribuendo rilevanza impositiva anche al solo avvio della procedura amministrativa finalizzata alla edificabilità, posto che questo solo avvio costituisce, da un lato, motivo di interesse ed apprezzamento da parte del mercato (dunque fattore di incremento patrimoniale) e, dall'altro, manifestazione di ricchezza e capacità contributiva: "non bisogna confondere lo jus aedificandi con lo jus valutandi, che poggiano su differenti presupposti. Il primo sul perfezionamento delle relative procedure, il secondo sull'avvio di tali procedure. Non si può costruire se prima non sono definite tutte le norme di riferimento. Invece, si può valutare un suolo considerato a vocazione edificatoria, anche prima del completamento delle relative procedure.
Infatti, i tempi ancora necessari per il perfezionamento delle procedure, con tutte le incertezze riferite anche a quelli che potranno essere i futuri contenuti prescrittivi, entrano in gioco come elementi di valutazione al ribasso.
In definitiva, conclude la Corte, la equiparazione legislativa di tutte le aree che non possono considerarsi "non inedificabili", non significa che queste abbiano tutte lo stesso valore. Con la perdita della inedificabilità di un suolo (cui normalmente, ma non necessariamente, si accompagna un incremento di valore) si apre soltanto la porta alla valutabilità in concreto dello stesso".
Le Sezioni Unite evidenziano che occorre, poi, misurare l'incremento patrimoniale così determinato dall' avvio della procedura amministrativa di edificazione, ma questo non è un problema giuridico, bensì economico di mera determinazione della base imponibile secondo il valore venale; esso va risolto con una formula (ripresa anche da C.Cost.ord. 41/2008215) che è solo in apparenza un ossimoro, là dove implica che si prenda in considerazione, in una con l'incidenza degli oneri di urbanizzazione, la "minore o maggiore attualità" della "potenzialità edificatoria" espressa dal terreno.
La sola attribuzione di un diritto edificatorio compensativo incrementa (alla stessa maniera del solo avvio della procedura amministrativa di edificabilità) il patrimonio del proprietario del suolo con l'obiettivo di reintegrarlo in tutto o in parte al livello antecedente alla inedificabilità e può risultare essa stessa dotata di minore o maggiore appetibilità di mercato.
E allora, concludono le Sezioni Unite, in ottica di imposizione, anche in tal caso il problema dovrebbe risolversi con la misurazione di questo incremento patrimoniale. Si tratta di un profilo messo in evidenza anche dall'ordinanza di rimessione la quale osserva che, specialmente nella fase del volo, questa misurazione può però risultare addirittura impossibile, essendo il più delle volte ignota l'area di destinazione ed imprevedibili i tempi (spesso notoriamente assai lunghi) della sua effettiva assegnazione da parte della PA.
Tuttavia, si evidenzia che ciò che osta alla tassazione ICI non è la difficoltà di stima - e neppure la non irragionevole eventualità che, in considerazione dell'alto grado di indeterminatezza della fattispecie di assegnazione sostitutiva dell' edificabilità, il valore economico del diritto edificatorio possa risultare per molte annualità di fatto pari o prossimo allo zero - quanto, ed a differenza del tema già affrontato dalle Sezioni Unite, proprio l'ontologica autonomia giuridica ed economica del diritto edificatorio rispetto al suolo dal quale emana.
In altre parole, concludono le Sezioni Unite, mentre là il problema era di base imponibile, qui è di presupposto dell'imposizione. Tanto che nella fattispecie oggi in esame non si giungerebbe ad una soluzione diversa dalla non tassabilità neppure in quei casi nei quali (come pure è ipotizzabile) il controvalore economico del diritto edificatorio risultasse invece di fatto facilmente accertabile ed anche di significativa consistenza perché, al contrario, intercettato in una annualità di avvenuta o imminente individuazione di tutti gli elementi satisfattivi della compensazione edificatoria (area di atterraggio; volumetria edificabile; tempi di edificazione, oneri di urbanizzazione).
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In definitiva, le Sezioni Unite, con sentenza n. 23902/2020 affermano il seguente principio di diritto: "un'area, prima edificabile e poi assoggettata ad un vincolo di inedificabilità assoluta, non è da considerare edificabile ai fini ICI ove inserita in un programma attributivo di un diritto edificatorio compensativo, dal momento che quest'ultimo non ha natura reale, non inerisce al terreno, non costituisce una sua qualità intrinseca ed è trasferibile separatamente da esso".
7. Considerazioni finali sulla natura giuridica dei diritti edificatori.
L’intervento delle Sezioni Unite è stato determinante, anche considerando che, nell’ottica sovranazionale, la giurisprudenza nomofilattica assume un ruolo fondamentale, contribuendo e rendendo prevedibile ed accessibile una base giuridica che, almeno fino alla pronuncia in esame, mancava.
La pronuncia non appare, tuttavia, esaustiva, o meglio, interamente risolutoria del problema relativo alla natura giuridica dei diritti edificatori.
In primo luogo, essa ha ad oggetto i soli diritti edificatori compensativi: resta, pertanto, il dubbio se le conclusioni della Suprema Corte possano valere, in generale, per tutti i diritti edificatori.
In caso negativo, resta aperto il problema di come qualificare gli altri diritti edificatori, diversi dai compensativi, sui quali rimarrebbe aperto il dibattito sulla natura giuridica.
Ancora, le Sezioni Unite escludono per i diritti edificatori compensativi la natura di diritti reali e di obbligazioni propter rem, per difetto dell’elemento di inerenza in senso giuridico (tanto civilistico quanto tributario): esso è stato ritenuto impossibile da rinvenire, specialmente nella fase c.d. del “volo”, quando, cioè, il diritto edificatorio non può più essere esercitato sul fondo di origine, e non può ancora essere esercitato sul fondo di destinazione perché non ancora assegnato e/o individuato.
Così argomentando, allora, le Sezioni Unite sembrano riconoscere ai diritti in esame natura di diritti di credito, pur senza affermarlo expressis verbis: sul punto, si sono manifestate alcune perplessità fra i primi commentatori. Ed infatti, se anche volessimo riconoscere natura di diritto di credito ai diritti edificatori, resterebbe il problema legato alla circostanza che essi presuppongono che l’Amministrazione eserciti il potere perché siano soddisfatti. Proprio per questo vi è chi ne sostiene la natura di interessi legittimi.
Resta, poi, aperto il problema della prescrittibilità dei diritti edificatori, che, se ritenuti imprescrittibili, allora non possono essere soggetti al termine di prescrizione caratterizzante i diritti di credito.
In conclusione, il dibattito, anche in materia di diritti edificatori compensativi, sui quali la Cassazione a Sezioni Unite si è pronunciata nel 2020, sembra, ad oggi, tutt’altro che sopito.
Natura giuridica e regime impositivo dei diritti edificatori in tema di “compensazione urbanistica”: profili di diritto civile, amministrativo e tributario (a margine di Cass., ord. 15 ottobre 2019, n. 26016) - Report a cura di Aldo Natalini, in www.cortedicassazione.it
G. TRAPANI, I diritti edificatori, Milanofiori Assago (Mi), 2014
G. TRAPANI, Normative speciali e circolazione dei diritti edificatori, in Notariato, 2012, n. 4, pp. 411-440
S. SERRA, Diritti edificatori e consumo di suolo. Governare il territorio in trasformazione, Franco Angeli Editore, 2018
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8. Bibliografia.
Profili giuridici e conseguenze economiche dell’attuale crisi sanitaria: strumenti, opportunita’ e prospettive.
Di JACOPO GAGLIARDI
Paragrafo 1. UNO SGUARDO OLTRE IL CORONAVIRUS: QUALI PROSPETTIVE PER USCIRE
DALLA CRISI. UN’ANALISI SOCIO ECONOMICA.
L’emergenza pandemica in atto rischia seriamente di sconvolgere i già precari equilibri economico-giuridici su cui i sistemi economici, nazionali ed internazionali, si stavano, con fatica, reggendo. Per questo, oggi più che mai, occorrono risposte rapide, incisive e consapevoli nel tentativo di scongiurare “una tragedia umana potenzialmente di dimensioni bibliche”216. Partendo da alcune considerazioni sull’attuale situazione socio-economica, l’obiettivo è quello di individuare quelle sfide in grado di rilanciare il Paese e garantire un ciclo politico, economico e istituzionale virtuoso che lo rendano competitivo a livello internazionale. “La parola crisi, scritta in cinese, è composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo e l’altro l’opportunità217”.
Il problema allocativo delle (poche) risorse a disposizione, in questo passaggio, assume un valore ancor più importante: data la loro scarsità, infatti, occorre individuare con precisione chirurgica, nel breve periodo, quali siano le misure necessarie a garantire un indispensabile salvagente, quantomeno per salvaguardare i livelli occupazioni, e nel lungo periodo, quali siano, invece, le leve capaci di creare nuova ricchezza.
Paragrafo 1.1. LA RICOSTRUZIONE DEGLI INTERVENTI UE E LA RISPOSTA NAZIONALE.
In termini prettamente economici, la crisi sta portando con sé un doppio shock, sia sul lato dell’offerta (dovuto alla chiusura delle attività produttive), sia sul lato della domanda218. Con lo sguardo rivolto verso le prospettive, l’analisi, dunque, non può che muovere dalla ricostruzione dei i principali interventi che l’Unione Europea, prima, ed il governo nazionale, dopo, stanno cercando di porre in essere per far fronte a un evento emergenziale di portata inaudita.
Le risposte europee si sono messe principalmente in due direzioni. Dal punto di vista delle politiche di bilancio, si è scelto di attivare la general escape clause che comporta la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita. Il Patto, infatti, consente, nei casi di grave recessione economica della zona euro o dell’intera Unione, di adeguare le velocità del risanamento di bilancio per tutti gli Stati membri, purché non sia compromessa la sostenibilità di bilancio a medio termine219: Spetta poi, ovviamente, ai governi nazionali far buon uso della flessibilità e delle risorse aggiuntive220, come
216 M. Draghi, We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly, in Financial Times, 25/03/2020.
217 Affermazione spesso utilizzata nei discorsi del Presidente J.F. Kennedy.
218 L. Bartolucci, Le prime risposte economico-finanziarie (di Italia e Unione europea) all’emergenza Covid-19, in Federalismi.it, 8Aprile 2020, p.3.
219 L. Bartolucci, OP.CIT., p. 20, ricorda come l’attivazione della disposizione non implichi la sospensione del risanamento di bilancio, quanto piuttosto la ridefinizione del percorso di aggiustamento tenendo conto delle condizioni specifiche di ogni paese, in termini sia di sforzo di aggiustamento che di calendario per raggiungere gli obiettivi, al fine di tener conto delle circostanze eccezionali della grave recessione economica della zona euro o dell’intera Unione: esattamente come si prevede anche nella Relazione presentata dal Governo alle Camere e approvata da queste ultime con le risoluzioni dell’11 marzo 2020.
220 Ancora così sul punto L. Bartolucci, OP.CIT., p. 20, che sottolinea come in questo quadro, la richiesta dell’Italia di effettuare spesa ulteriore per l’emergenza Coronavirus “non viene considerata in alcun modo un abbandono delle regole per cause di forza maggiore, ma al contrario valutata come manifestazione concreta di ipotesi previste da quelle norme, e dunque da ammettere: interpretando così l’autorizzazione come una decisione compatibile col quadro giuridico
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abbiamo precedentemente ricordato. Non bisogna dimenticare, infatti, che il maggiore disavanzo che viene permesso, pur non essendo computato nel deficit, va a finire nel conto del debito pubblico, che di conseguenza aumenterà considerevolmente. Per tale ragione, è opportuno ribadire, che le risorse liberate dalla sospensione del Patto di Stabilità siano utilizzate dagli Stati in modo intelligente, destinandole a quegli “strumenti necessari a fronteggiare l’emergenza sanitaria, rafforzare il capitale umano e finanziare investimenti nelle infrastrutture materiali”221. Inoltre, tale deficit deve comunque essere acquistato dai mercati finanziari. Il punto cruciale, pertanto, è come continuare a finanziarsi ad un costo ragionevole, nonostante il rapporto debito/PIL sarà molto più alto rispetto all’attuale. Verosimilmente, infatti, ai mercati finanziari poco importerà che l’Unione europea non abbia ‘contabilizzato’le spese per l’emergenza Coronavirus nel calcolo del deficit ai fini del Patto di Stabilità222 . Dal punto di vista monetario, invece, al di là delle polemiche politiche di stretta attualità circa l’opportunità di ricorrere alle erogazioni di aiuti a bassa condizionalità a singoli paesi, come la linea precauzionale di credito del MES, e fatte salve anche le perplessità di alcuni degli stati membri circa le possibilità di moral hazard insite ad alcune forme di assistenza condizionata a singoli paesi, come le OMT (Outright Monetary Transactions), ed il conseguente rischio ‘stigma’per il paese che ne fa uso, forse la vera opportunità potrebbe esser quella di “lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia”223 .
Dal canto suo, il Governo ha trasmesso una lettera, il 5 marzo 2020, alla Commissione UE, riferendo sull’evoluzione dell’emergenza sanitaria, sulle misure già assunte e facendo presente di aver deciso di adottare una serie di misure di sostegno per l’economia e per stanziamenti per il servizio sanitario nazionale, la protezione civile e le forze di sicurezza, del valore iniziale di circa 6,3 miliardi di euro. Il Governo ha chiesto inoltre di considerare il pacchetto di emergenza come una spesa una tantum, come tale da non computare ai fini del saldo strutturale. Complessivamente, sentita la Commissione europea, la richiesta di autorizzazione all’ulteriore ricorso all’indebitamento, aggiuntiva rispetto a quanto indicato nella Relazione al Parlamento del 5 marzo, è incrementata di 13,75 miliardi di euro da utilizzare nel corso del 2020 in relazione all’ulteriore diffondersi dell’epidemia da Covid-19. Considerata anche la precedente richiesta di autorizzazione, l’obiettivo programmatico di indebitamento netto potrà pertanto aumentare fino a 20 miliardi di euro, corrispondenti a circa 1,1 punti percentuali di PIL224
esistente” secondo quanto giàsostenuto da C. Buzzacchi, Scostamento di bilancio da coronavirus, in LaCostituzione.info, 13/03/2020.
221 L.Bartolucci, OP.CIT. p.24,chefariferimentoalleriflessionidiG.DellaCananea, Cosa deve fare l’Italia per sfruttare la rivoluzione del Patto di Stabilità, in Il Foglio, 25/03/2020,
222 Ancora così sul punto L. Bartolucci, OP.CIT., p. 24.
223 L. Bartolucci, OP.CIT., cit., pp. 30,31, che sul punto fa riferimento al fronte comune di nove Stati che è stato formalizzato attraverso l’invio di una lettera al Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in vista del Consiglio europeo del 26 marzo 2020, a firma del Presidente del Consiglio italiano e dai capi degli esecutivi di altri otto Stati (Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Spagna).
224 Così sul punto L. Bartolucci, OP.CIT,. pp. 7-9, che ricorda come, ad ulteriore riprova che si tratti di una spesa una tantum: da un lato con la lettera di risposta trasmessa il 6 marzo, il Vice Presidente della Commissione europea Dombrovskis e il Commissario per l’Economia Gentiloni hanno fattopresente chele spese “one-off”, effettuate in risposta al manifestarsi del contagio, sono escluse per definizione dal computo del saldo strutturale e non prese quindi in considerazione per verificare il rispetto dello sforzo di bilancio richiesto. Dall’altro, rispetto alle richieste di maggiore indebitamento passate, tuttavia, una prima novità risiede nel fatto che stavolta l’autorizzazione allo scostamento di bilancio non è stata abbinata né al DEF né alla NADEF, ma si tratta di un aggiornamento della richiesta già autorizzata dal Parlamento in occasione della NADEF 2019: questo dà la misura di quanto siano eccezionali le circostanze attuali (e di quanto, forse, non lo fossero quelle precedenti). Infatti, l’autore ricorda ancora, che solo in un’altra occasione il
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Si tratta di risorse quanto mai necessarie per un Paese, come l’Italia, che sconta un tessuto imprenditoriale costituito perlopiù da PMI che, cronicamente, si trovano, e si sono trovate, a combattere con quotidiani problemi di liquidità. Le difficoltà all’accesso al credito, abbinata ad una situazione di diffusa sottocapitalizzazione, le rende particolarmente fragili, soprattutto di fronte a shock di tale portata225
Il decisore pubblico è chiamato ad un difficile contemperamento di interessi: la crisi sanitaria, infatti, non può far sì che ci si dimentichi della salute dell’economia, prerequisito fondamentale di sopravvivenza di sistemi democratici sempre più in affanno. Per questo motivo è importante individuare, sin da subito, le leve giuste per ripartire evitando che si disperdano quelle sinergie istituzionali che, per forza di cose, sono emerse in questo periodo di grave crisi sanitaria ed economica. Sinergia significa collaborazione, significa dar vita a quei confronti virtuosi che permettano ad un interesse pubblico, sempre più minacciato da pratiche non sempre così limpide e trasparenti, di rilanciarsi.
Paragrafo 1.2. LE SFIDE: INFRASTRUTTURE DIGITALI, SMART WORKING E TEAM MULTIDISCIPLINARI.
Il ripensamento del nostro sistema infrastrutturale, in questa fase, diventa così un crocevia fondamentale per assicurarsi
Governo aveva richiesto tale autorizzazione non in abbinamento al DEF o alla NADEF: ci si riferisce, in particolare, al caso del dicembre del 2016, in occasione della crisi del Monte dei Paschi di Siena e della necessità di mettere in sicurezza il sistema bancario attraverso il varo del c.d. decreto “salva-risparmio”. Si tratta, nella fattispecie, del Governo Gentiloni, che, richiese l’autorizzazione ex art. 81, c. secondo comma Cost per reperire 20 miliardi di Euro attraverso operazioni di emissione di titoli del debito pubblico. Sono state così individuate le risorse per la copertura finanziaria degli interventi previsti dal decreto-legge n. 237 del 2016 (poi convertito, con modificazioni, dalla legge n. 15 del 2017), recante disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio.
225 “Le inchieste mostrano che ci sono ancora zone di caccia per loro (corrotti e corruttori): le emergenze. Lì non si può risparmiare, non c’è spending review che tenga: quando si verifica un problema grande, bisogna trovare subito una soluzione ad ogni costo. Dagli sbarchi degli immigrati ai terremoti, dalle frane allo smaltimento dei rifiuti: ogni calamità è il pretesto per intrecciare affari. Fino alla gestione emergenziale di grandi eventi come il G8 della Maddalena. È una parola magica: l’emergenza fa sparire i controlli e la deroga diventa regola, tanto da parlare di vera e propria cultura dell’emergenza”. R. Cantone, G. Di Feo, Il male italiano, liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese, Rizzoli, 2015, p. 127 in cui si afferma che: “Secondo le indagini, per entrare nel piatto ricco delle emergenze, i gruppi affaristi si sono inseriti anche nel terzo settore, quello delle aziende no-profit, che fino ad ora era apparso immacolato [...]”. Così sul punto J. Gagliardi, La Tela: Esperienze di corruzione e anticorruzione, Pisa, pp.148,149.
Vale la pena sottolineare che, nella fattispecie, le diffusione situazioni di vulnerabilità finanziaria, portate dalla crisi di liquidità, espongono gli operatori economici alla necessità di finanziamenti rapidi e deformalizzati che rischiano di essere soddisfatti proprio dalla criminalità organizzata: l’unica ad avere a disposizione capitali ingenti da reinvestire all’interno dell’economia legale. Da non dimenticare che non solo le imprese in difficoltà finanziaria possono risvegliare gli appetiti della criminalità organizzata, ma la situazione è particolarmente attrattiva anche per assicurarsi ingenti profitti sfruttando le occasioni che la crisi impone (vedi ad esempio la sanificazione) che già si sommano ai tipici benefici dei contratti di global service capaci da un lato di far ottenere indebiti risparmi, diminuendo gli standard qualitativi dei servizi offerti, che posso essere utilmente reinvestiti in tangenti; dall’altro rappresentano un valido strumento di controllo del territorio in quanto si traducono in opportunità occupazionale per una vasta platea di manodopera a basso costo per cui non è richiesta particolare qualifica.
Infine, dato che è necessario preservare le poche risorse a disposizione, sarà necessario tenere gli occhi sempre ben aperti anche sulle c.d. opportunità di frodi sintetiche capaci di distrarre risorse alterando surrettiziamente gli standard necessari per ottenere i finanziamenti a garanzia pubblica. Tutto ciò si rende necessario per evitare che il c.d. welfare mafioso prenda così il sopravvento rendendo così il sistema produttivo ostaggio delle sue logiche e permettendo, come ricordato poc’anzi, a quell’esercito mafioso di infoltirsi, nella consapevolezza che tali organizzazioni prosperano laddove vi sia un’esigenza di tutela dei precari diritti sulle risorse in gioco.
Sul punto si veda Autori vari, L’impatto del COVID-19 sull’economia, 10 proposte per la ripartenza : un’analisi fondata sullo studio della provincia di Pisa, Pisa, University press, 2020, pp. 187-189, e J. Gagliardi, La Tela: Esperienze di corruzione e anticorruzione, cit., pp. 115-117 e 396.
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una exit strategy di successo. E’da questa sfida che ci giochiamo gran parte del nostro futuro appeal. Questo ci porta a riflettere su almeno due questioni: la prima riguarda il sistema di procurement pubblico (vedi par. 2), l’altro riguarda la centralità della sfida digitale. L’ammodernamento del patrimonio delle infrastrutture informatiche e digitali del nostro Paese, diventa, alla luce dell’attuale crisi, un perno fondamentale per rilanciarne la competitività a livello globale e consentire ai servizi pubblici di fare quel salto di qualità che, ormai, si attende da troppo tempo. Per questo occorre orientarsi verso una vera e propria ingegnerizzazione informatica dei processi, in modo da garantire maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse, tracciabilità dei flussi finanziari e delle responsabilità ed il monitoraggio del rispetto dei canoni di buon andamento nei vari procedimenti. Prendiamo, ad esempio, il ciclo di fatturazione passivo: solo le realtà pubbliche più strutturate potranno oggi contare su strumenti di gestione digitali capaci di assicurare tempi certi, snellimento dei passaggi intermedi ed inutili duplicazioni. Una spinta anche nelle realtà di medio piccole dimensioni come, ad esempio, gli uffici tecnici dei piccoli comuni che hanno a che fare quotidianamente con una miriade di piccole imprese indispensabili per assicurare un governo del territorio sempre più complicato, sarebbe in questo senso decisiva. Talvolta, non basta fissare tempi certi e sanzioni per il mancato rispetto se a monte non si dotano gli operatori di tutte quelle soluzioni organizzative che permettono loro di operare con tempestività.Acquisita ormai la fatturazione elettronica come un passaggio imprescindibile, l’ingegnerizzazione del relativo ciclo passivo dovrebbe esserne la logica conseguenza. Tutto questo permetterebbe di monitorare in modo assai più puntuale il rispetto dei tempi di pagamento scandendo l’iter in tutte le sue fasi: dalla ricezione dalla fattura fino al mandato passando per l’iscrizione in contabilità e alla relativa liquidazione. Dal punto di vista dell’organizzazione interna questo comporterebbe un’enorme facilitazione nei rapporti tra i vari uffici coinvolti costretti, talvolta, a muoversi ancora nei meandri di una copiosa corrispondenza cartacea ed a rincorrersi per reperire falle, faldoni e dati mancanti. Dal punto di vista del privato, invece, garantirebbe una sorte di tracking nella gestione del proprio credito che, seppur non risolva del tutto i problemi di liquidità, gli permetta, in qualsiasi momento, di conoscerne lo stato dell’arte (ed eventualmente di instaurare un’interlocutoria, tutta digitale, per eventuali evenienze che possono sorgere da ambo le parti)226 .
Altra opportunità, che questi ultimi mesi di pandemia ci hanno presentato, è senza dubbio quella dello smart working. Il privato, spesso dotato di infrastrutture tecnologiche aziendali all’avanguardia, ha saputo subito coglierne l’opportunità (talvolta approfittandosene a scapito dei lavoratori, che nella casistica più frequente non si vedono riconosciuti gli straordinari a fronte di uno smart working che assomiglia sempre più a un telelavoro da svolgere in orario d’ufficio e spesso ben oltre), mentre i dipendenti pubblici sono stati chiamati ad adeguarsi senza, però, il necessario supporto informatico a monte. L’arte dell’arrangiarsi, quindi, ha giocato il ruolo di protagonista in questo passaggio e si è tradotta soltanto in difficoltà operative ed ulteriori ritardi che si vanno ad aggiungere ai tempi, tradizionalmente già lunghi, della burocrazia. Lo strumento, soprattutto se utilizzato in alternanza col lavoro in presenza, sarebbe di per sé molto interessante e permetterebbe di raggiungere obiettivi non certo di poco conto. Smart working significa, infatti, ripensare alla mobilità urbana, alla strutturazione urbanistica delle città, troppo spesso congestionate da un traffico fuori controllo,
226 Questo potrebbe rivelarsi molto utile anche per scongiurare i tipici schemi criminali legati al factoring. In sintesi, si tende ad alternare tre schemi criminali. Nello schema base, i tempi di pagamento vengono, più o meno volontariamente, dilazionati costringendo così i fornitori a far ricorso a società di factoring per smobilizzare i propri crediti, i cui proventi vengano poi rigenerati, in parte, proprio sotto forma di tangenti. Un’interessante evoluzione del predetto schema prevede un differimento dei tempi di pagamento iniziali, quindi il ricorso dei privati a tali società per l’esigenza di monetizzare il credito, anche se a fronte di ingenti sconti dovuti al fatto che anch’esse riscuoteranno in un periodo di tempo piuttosto lungo, salvo poi accelerare le pratiche non appena il credito è stato ceduto e lo sconto già dedotto. Talvolta, infine, il ricorso alla società di factoring è necessario per poter intraprendere il rapporto con la stessa amministrazione, ed aggiudicarsi quindi la gara, in altre parole si tratta di uno schema corruttivo trilaterale preconfezionato in cui le parti sono già consapevoli dei vari passaggi propedeutici alla riscossione del credito stesso ed in cui ognuna di esse ottiene i propri guadagni. Sul punto J. Gagliardi, La Tela: Esperienze di corruzione e anticorruzione, cit., pp. 396,397.
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e permetterebbe, ai decisori pubblici, di dirottare le risorse verso altri obiettivi finora troppo spesso trascurati. Significherebbe ripensare agli spazi dell’edilizia privata, magari scegliendo nuove conformazioni delle abitazioni per poter lavorare in tranquillità e concentrazione227, per non parlare dei benefici in termine di welfare familiare: se la vedessimo come soluzione (a costo zero) per la gestione diurna della prole, idea da non sottovalutare in un paese in forte crisi demografica dove diventare genitore significa affrontare una corsa ostacoli che scoraggia in partenza le giovani coppie.
Ma il presupposto perché tutto ciò possa funzionare sta, da un lato, nel buon funzionamento della dotazione strutturale informatica (e nelle speranze risposte nel 5G), nella capacità, cioè, di connettersi senza imbattersi continuamente in lentezze e black out di connessione, e dall’altro nella creazione di una vera e propria cultura digitale che, pertanto, non può prescindere da adeguate iniziative formative e da uno sblocco del turn over che a dire il vero, seppur timidamente, stava avvenendo prima dello scoppio della pandemia. In altre parole, il successo di questa soluzione, passa per tre fattori chiave: investimenti infrastrutturali, skills digitali e la disponibilità di piattaforme operative a portata di click che non complichino la vita di operatori già indaffarati a sopravvivere tra mille adempimenti.
Dal punto di vista operativo, per garantire un razionale impiego delle (scarse, ricordiamolo sempre) risorse a disposizione è interessante anche l’idea, avanzata dal gruppo di lavoro interdisciplinare pisano, di mappatura delle filiere produttive. L’idea sta proprio nell’individuare quelle filiere di reti capaci di generare strutturalmente valore nel medio-lungo periodo per sostenerle adeguatamente228. La mappatura è essenziale per individuare gli anelli deboli nella filiera che rischiano di vedersi scaricare a dosso il peso della crisi da parte dell’aziende, appartenenti alla stessa filiera, con maggior forza contrattuale. Evitare la rottura dell’anello debole è strategicamente essenziale in quanto andrebbe a compromettere la capacità di creare valore dell’intera filiera, con tutti i risvolti negativi del caso. Infatti si tratta perlopiù di aziende piccolissime, spesso artigiani, in grado di fornire però al prodotto finale quel valore aggiunto, in termini di differenziazione, che lo rende particolarmente competitivo sul mercato. Infine, lo stesso team, suggerisce di sostenere anche opportune iniziative di sensibilizzazione della c.d. regia di filiera attraverso progetti specifici, preferibilmente in collaborazione con il sistema bancario e associativo, soprattutto laddove queste ultime si impegnino a mantenere un’elevata presenza nazionale o locale, standard occupazionali inalterati, e magari decidano di investire nell’ammodernamento tecnologico o informatico. Per questo motivo diventa particolarmente importante coinvolgerle nei tessuti relazionali della dirigenza locale in modo da far emergere quei c.d. campioni nascosti che alimentano l’economia del territorio permettendo loro di partecipare al dibattito.
In questa prospettiva appare importante la scelta di rendere strutturali tali team di lavoro interdisciplinari che, chiaramente, vedono nelle Università il loro habitat naturale. Oggi più che mai occorrono manager pubblici che racchiudano in sé una doppia anima: quella manageriale, a cui (almeno dichiaratamente) la PAtende ad ispirarsi e quella giuridica. La capacità di saper affrontare le dinamiche pubbliche con gli strumenti tipici dell’approccio manageriale, abbinato ad una solida base di conoscenza del diritto amministrativo rappresenta il un passo fondamentale verso la creazione di una nuova classe dirigente pubblica in grado di guidare il Paese verso quei canoni già ricordati nell’art. 97 Cost., che nel corso degli anni, hanno assunto una crescente levatura proprio per l’essere riusciti a portar con sé principi e tecniche proprie di altre scienze, prime tra tutte quelle economiche. Il filone del New Public Management
227 Pensate che persino gli alberghi si stanno reinventando fornendo servizi di affitto di stanze dotate di connessioni ultraveloci e spazi adeguati da convertire in postazioni da smart working in cui lavorare in tutta tranquillità.
228 Ricalcando un po’ la stessa logica delle analisi delle ASA proposta dalla BCG. In estrema sintesi l’analisi delle ASA permette, attraverso lo studio di due parametri ovvero la quota di mercato posseduta e la capacità di crescita del mercato stesso, a seconda che siano basse o alte, di individuare 4 posizionamenti strategici. Anche in questo caso è un problema allocativo delle risorse aziendali che dovranno essere dirottate per rimanere competitivi nelle ASA STAR (entrambe le variabili alte) che hanno bisogno degli investimenti più onerosi e per potenziare le QUESTION MARK, scegliendo di abbandonare le DOGS e sfruttando al massimo tutta la liquidità proveniente dalle CASH COW.
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troverebbe così il proprio naturale completamento dando vita a figure dotate di spiccate capacità gestionali, organizzative e relazionali, ma con competenze tecniche adeguate per districarsi in un mondo assai complicato fatto di una legislazione che spesso si affastella, che si rincorre senza mai trovarsi. In questo senso la creazione di veri e propri curricula di studio ad hoc permetterebbe di dar vita a nuove figure capaci di andare oltre la miope applicazione di circolari e regolamenti, in grado, invece, di interpretare le complesse evoluzioni del mercato e della società e di indirizzare la struttura di appartenenza verso traguardi sempre più ambiziosi e soddisfacenti. Rendere strutturali questi gruppi di lavoro, tra economisti, aziendalisti e giuristi, allargandoli a statistici, informatici, scienziati politici, sociologi rappresenterebbe senz’altro un’occasione di crescita e riflessione importante per analizzare le dinamiche territoriali e nazionali, per interpretare tempestivamente le dinamiche di cambiamento in atto, ma soprattutto per fornire risposte adeguate e consapevoli e rendere più competitivo l’intero Sistema Paese.
Un Sistema che, dunque, deve liberarsi del peso di strutture obsolete e procedure interminabili che scoraggiano in partenza coloro che vorrebbero investire e che impediscono il buon esito dei processi decisionali. E’ vero semplificare è complicato229, ma è uno sforzo che non può più esser rimandato, nella consapevolezza che la qualità dell’azione amministrativa passa dalla qualità dei processi amministrativi. Se alla giungla normativa, se ad una legislazione alluvionale e confusa, qual è quella italiana, aggiungiamo una mole importante di atti emergenziali straordinari, come sta accadendo per la gestione dell’attuale pandemia, anch’essi da collocare all’interno di un già complesso sistema delle fonti, assieme ad una serie di interventi volti ad integrare, correggere, finanziare, derogare, ripianare, sanare il rischio è quello di entrare in un vortice da cui è difficile venirne fuori. Le soluzioni individuate dal predetto gruppo interdisciplinare dello Sportello unico, come interfaccia privilegiata per le PMI, e la creazione di un Tavolo Unico permanente per l’emergenza Coronavirus che assicuri una cabina di regia unica, sono senz’altro due iniziative da salutare con favore e capaci, da un lato, di fornire risposte rapide e uniformi agli operatori privati, e dall’altro, in grado di tranquillizzare questi ultimi in ordine alla legittimità delle proprie scelte senza rischiare di ritrovarsi all’interno di un complicato a ostacoli.
Una volta terminata l’emergenza tutto ciò può essere reso strutturale in modo da farlo diventare un buon acceleratore degli investimenti privati che hanno bisogno di tempi certi e procedimenti snelli. Interessante anche la soluzione proposta del baratto amministrativo purché gli sia costruita attorno una cornice di incentivi coerenti230, non solo finanziari ma anche giuridici, che lo rendano appetibile agli occhi degli operatori economici, pronti ad individuare, nella collaborazione con la PA, un’interessante opportunità di crescita e di sviluppo del proprio business
Paragrafo 1.3. ULTERIORI COMPLICAZIONI: I MECCANISMI DI FINANZIAMENTO E LE DIFFICOLTA’ DI ATTUAZIONE DEL TITOLO V COST.
Prima di concludere questa prima parte vale la pena soffermarsi su ulteriori due aspetti che riguardano i meccanismi di finanziamento e il complicato sistema di ripartizione delle competenze, legislative e amministrative, delineato dal Titolo V post riforma 2001. Riguardo al primo punto vale la pena sottolineare come in una situazione del tutto eccezionale, come quella attuale, i tipici meccanismi di finanziamento Ministero-Regioni/Enti locali rischiano di aggravare ulteriormente quella situazione di illiquidità a cui facevamo riferimento in apertura. Infatti, oltre ai problemi operativi legati perlopiù ai software utilizzati per le rendicontazioni, sempre più farraginosi e complessi, i
229 Nell’arte, come nel diritto, vale la regola spesso ricordata da Bruno Munari “Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare”.
230 Si fa riferimento a quel sistema di incentivi tipico dell’approccio microeconomico, utilizzato nell’analisi economica del diritto, e in grado, attraverso i crismi della teoria della scelta razionale, di orientare le scelte degli individui.
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finanziamenti si basano sugli stati di avanzamento dei lavori. Ciò sta a significare che le spese vengono anticipate dalla PA alle imprese, rendicontate (con non poche difficoltà operative), al Ministero o alla Regione per stati di avanzamento e poi rimborsate (quando l’Ente ha già sostenuto e liquidato la spesa)231
Infine, è opportuno riflettere anche sul modello di ripartizione delle competenze, legislative e amministrative, emerso dalla riforma del 2001. Tralasciando le varie questioni in sospeso e commenti sulla conflittualità che tale sistema ha generato, su cui è già disponibile autorevole dottrina, mi sento di ricordare come, in Sanità, l’attuale crisi epidemiologica, abbia mostrato tutti i propri limiti232. Infatti, nonostante il sistema sanitario sia dotato di una buona capacità di risposta, la riforma del Titolo V, ispirata ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza con l’intento nobile di avvicinare la Sanità ai pazienti, ha generato, in realtà, 21 Sistemi Sanitari diversi con flussi di mobilità sempre più forti e con Regioni sempre più ricche ed altre inesorabilmente più povere. Un sistema ricco di eccellenze così preziose, qual è quello sanitario italiano, non può più tollerare differenze così marcate. Per questo, anche le Regioni sono chiamate a fornire un contributo importante, nel nome di un nuovo disegno che dia vita a un sistema più omogeneo, coerente, più attento ai bisogni dei cittadini nei territori di riferimento233 e capace di offrire prestazioni di qualità con standard uniformi sull’intero territorio nazionale. Occorre realmente creare un sistema in grado di rispondere in modo efficace e tempestivo ai bisogni sanitari espressi dal territorio di riferimento. Occorre oggi più che mai, unire il pilastro dell’assistenza sociale con quello dell’assistenza sanitaria accompagnando tutti noi, a convivere con le fragilità a contatto con le reti sociali, affettive, e non isolati nel costoso imbuto dell’istituzionalizzazione e della ospedalizzazione per acuti234
Paragrafo 2. IL PROCUREMENT PUBBLICO: UNA LEVA STRATEGICA PER FAR RIPARTIRE IL PAESE. INTERVENTI E PROSPETTIVE.
Il dilagare dell’emergenza Coronavirus ha portato il legislatore a ripensare al sistema del procurement pubblico. Seppur quest’ultimo sia stato recentemente regolato, il dibattito in materia è rimasto costantemente all’ordine del giorno. Le questioni in ballo non sono certo di poco conto: basti pensare che, da un lato, oggi le amministrazioni si trovano ad avere a che fare con OO.PP. progettate ed approvate in periodi in cui le scelte non erano influenzate dalla situazione epidemiologica, dall’altro le imprese hanno formulato le offerte secondo criteri oggi non più attendibili. Le strategie vanno dunque ridisegnate e le modalità lavorative nei cantieri riorganizzate con inevitabili ripercussioni sia sui costi (in particolar modo quelli riferiti alla sicurezza) che sui tempi235. La programmazione della spesa,
231 V. Caravaggi Vivian, Emergenza Covid-19 e Pubblica Amministrazione: rivedere le priorità per uscire dalle macerie, in Lavoripubblici.it, 21 Aprile 2020.
232 Purtroppo la crisi sanitaria in atto ha fatto emergere tutti i limiti di questo sistema, un sistema in cui “si è aperta la strada alle troppe voci di protagonisti alla ricerca di popolarità” che “hanno cominciato a battibeccare configgendo invece che cooperando con un tira e molla che ha prodotto soltanto incertezza “ in S. Cassese, La nostra anarchia di Stato, in Il Corriere della Sera, 01 Dicembre 2020 che, sottolinea anche come il Parlamento, che dovrebbe essere il luogo di dialogo-conflitto tra governo e opposizioni, in una situazione come l’attuale, in cui le regioni per tre quarti sono nella mani dell’opposizione, il governo preferisce dialogare e configgere direttamente con loro. sia perché sono a loro volta diverse, sia permettere un binario morto il leader dell’opposizione svuotando così il Parlamento e mescolando la dialettica istituzionale Stato-Regioni con quella politica maggioranza-opposizione.
233 L’esperienza di questi anni, purtroppo, ha invece svelato un risultato diametralmente opposto con pazienti costretti a sottoporsi alle cure spesso a chilometri di distanza dai propri affetti e dalle proprie abitazioni.
234 A.Saitta, Misure anticorruzione, il ruolo delle Regione e della PA. in Monitor 41 Anno XVI numero 41 – 2017.
235 V. Caravaggi Vivian, Emergenza Covid-19 e Pubblica Amministrazione: rivedere le priorità per uscire dalle macerie, cit..
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dunque, deve essere rivista con non poche difficoltà sia per le S.A. sia per gli operatori, entrambi chiamati a misurarsi con nuove casistiche senza precedenti236
Per questo il legislatore europeo prima, e quello nazionale dopo, hanno individuato proprio nel settore dei contratti pubblici, una delle leve strategiche per ripartire. La stessa ANAC è intervenuta più volte all’interno del dibattito per offrire spunti di riflessione, per segnalare interventi o vuoti normativi da colmare, ma soprattutto con un’utilissima ricognizione delle misure adottate per affrontare la crisi sanitaria con l’intento di agevolare il più possibile lo svolgimento delle procedure di affidamento.
È stata, per prima, la Commissione Europea, con la comunicazione 2020/C 108 I/01, recante “Orientamenti della Commissione europea sull’utilizzo del quadro in materia di appalti pubblici nella situazione di emergenza connessa alla crisi della Covid-19”, a fornire le opzioni e i margini di manovra possibili a norma del quadro dell’UE in materia di appalti pubblici per l’acquisto di forniture, servizi e lavori necessari per affrontare la crisi. Al fine di garantire comportamenti omogenei ed uniformi, da parte delle S.A., ANAC, con Del. 312 del 09 Aprile 2020 ha fornito alcune importanti indicazioni. Innanzitutto si tratta di effettuare un primo screening in merito alle procedure pendenti. Per le procedure per cui non è ancora stato pubblicato il bando si consiglia, infatti, di procedere soltanto con quelle urgenti ed indifferibili cercando di favorire la massima partecipazione e la par condicio tra i concorrenti. Per quelle in corso di svolgimento, invece, la questione è piuttosto delicata. Innanzitutto, si tratta di capire, la portata dell’art. 103 del D. L. n. 18 del 17/03/2020 che va ad incidere su tutti i termini procedimentali, a partire dalla presentazione delle offerte fino ai termini per l’effettuazione dei sopralluoghi, passando per quelli endoprocedimentali, e concedendo ulteriori deroghe o differimenti qualora a richiederlo siano gli operatori economici laddove l’impossibilità di rispettare tali termini sia dovuta all’emergenza sanitaria. Una disposizione di tale portata rischia di paralizzare un sistema, come quello del procurement pubblico, di per sé già molto articolato e scandito da tempistiche ben precise, per questo ANAC, con l’atto di segnalazione n. 4 del 9 Aprile 2020, sottolinea, a tal proposito, al fine di scongiurare una sospensione generalizzata sulle procedure di gara, che le S.A. adottino ogni misura organizzativa necessaria ad assicurare la celere a ragionevole durata del procedimento, nei limiti in cui questo sia compatibile con le misure di contenimento della diffusione del COVID-19.
Come abbiamo già ricordato nel paragrafo precedente, l’attuale crisi sanitaria impone un netto salto di qualità in termini di semplificazione, ma soprattutto di digitalizzazione, delle procedure. Una visione d lungo periodo non può prescindere, infatti, da un netto cambio di passo proprio in termini di digitalizzazione ed informatizzazione delle procedure che sia accompagnata, però, da una necessaria professionalizzazione delle strutture appaltanti in grado di destreggiarsi tra i nuovi strumenti. Digitalizzazione è sinonimo di semplificazione, standardizzazione e trasparenza e rappresenterebbe, oggi, la giusta occasione per riflettere su quell’ingegnerizzazione dei processi che abbiamo ricordato in apertura. Pensiamo alle realtà di medio-piccole dimensioni spesso carenti, se non sprovviste, di infrastrutture informatiche di supporto, con il personale ridotto all’osso, l’età media elevata e competenze specifiche informatiche piuttosto risicate. Se a tutto ciò aggiungiamo anche la necessità di confrontarsi con una molteplicità di piattaforme diverse, non certo intuitive nell’inserimento delle informazioni richieste, il tutto abbinato a continui problemi di connessione, macchinari obsoleti, centri CED non sempre in grado di fornire un adeguato supporto alle esigenze dei singoli uffici, è facile intuire perché la digitalizzazione rischia di essere mal vissuta dagli operatori che ogni giorno si imbattono in mille difficoltà operative. Per questo motivo la professionalizzazione dei buyer pubblici diventa un obiettivo che non può più esser rimandato: un passaggio necessario per garantire operatori con un knowhow adeguato che siano dotati di apparecchiature e connessioni all’altezza della sfida digitale. Questo permetterebbe al legislatore di formulare, anche, una vera e propria politica di procurement pubblico, finora del tutto assente,
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236 V. Caravaggi Vivian, OP. CIT.
possibile soltanto restringendo il numero degli operatori che oggi parcellizzano la domanda pubblica. Si tratterebbe di un processo di crescita graduale al fine di individuare quelle soluzioni operative in grado di garantire standard qualitativi adeguati. In questo senso, anche la condivisione di piattaforme open-source, al netto di eventuali problemi legati alle licenze di ri-uso237, rappresenterebbe senza dubbio una buona base di partenza. Un sistema tutto da costruire, insomma, ricordandosi che, a partire dal 2023, per tutti gli affidamenti sopra-soglia non vi sarà più alcuna alternativa alla digitalizzazione. Una strada, perciò, da imboccare senza più indugiare, per farsi trovare pronti ad un’esigenza di cambiamento di cui la stessa Commissione Europea si fa promotrice e di cui il Paese ha un immenso bisogno per rimanere competitivo. In altre parole, come ricorda, il Documento ANAC del 27 Maggio 2020 “Strategie e azioni per l’effettiva semplificazione e trasparenza nei contratti pubblici attraverso la completa digitalizzazione: le proposte dell’Autorità”: “La semplificazione e l’efficienza nella gestione dei contratti pubblici passa in gran parte dalla digitalizzazione di tutti gli affidamenti, ivi inclusi quelli in house, nell’intero ciclo di vita, a partire dalla programmazione e progettazione, passando per la fase di selezione delle offerte, per continuare con l’esecuzione e la sua verifica e concludersi con il collaudo finale e il pagamento dei corrispettivi previsti dal contratto. Ciò consentirebbe una gestione unitaria dell’intervento e un maggior controllo, monitoraggio e coordinamento delle varie fasi, evitando tempi morti tra le stesse e attribuendo correttamente le relative responsabilità”. Prendiamo ad esempio la scelta del contraente, in questa fase le piattaforme digitali permetterebbero un presidio costante che garantisca “la par condicio, l’effettiva concorrenza, l’inviolabilità e segretezza delle offerte, la trasparenza e tracciabilità delle operazioni di gara, l’imputabilità delle dichiarazioni ai concorrenti. Inoltre, consente il controllo diffuso sull’operato dei soggetti pubblici, grazie alla disponibilità immediata dei dati e alla conoscibilità delle informazioni riguardanti stazioni appaltanti e operatori economici. La ricezione telematica delle domande di partecipazione, l’adeguata conservazione dei documenti, il rispetto di un procedimento con una cronologia prestabilita nelle sue fasi ed azioni permette, altresì, di ridurre al minimo gli errori operativi. Come beneficio diretto dell’utilizzo di strumenti telematici di negoziaziazione si individua quindi una netta riduzione del contenzioso per criticità di natura operativa nell’ambito del procedimento amministrativo (apertura delle buste, soccorso istruttorio, ecc.). Tale scelta consente anche il lavoro a distanza delle commissioni di gara, con l’eliminazione della necessità (o la riduzione) delle sedute pubbliche, considerato che tutte le operazioni di gara sono tracciate, sia nella fase di esame della documentazione amministrativa che nella fase di valutazione delle offerte”. Anche nella fase esecutiva, la digitalizzazione comporterebbe indubbi vantaggi “innanzitutto in termini di riduzione degli oneri a carico del direttore dei lavori, di verifica degli adempimenti, di riduzione del contenzioso e delle riserve, nonché in fase di collaudo, permettendo il monitoraggio continuo dello stato di avanzamento dell’esecuzione”. Intanto, nell’ immediato, il legislatore ha deciso di incidere sulla tempistica del processo di approvvigionamento: i termini per la presentazione delle domande sono stati sensibilmente ridotti. Per le procedure aperte sotto-soglia, ad esempio, per ragioni di urgenza debitamente motivate, il termine ordinario di 30 giorni è stato più che dimezzato, addirittura portandolo a 10 giorni in caso di procedura ristretta. Anche per il meccanismo di stand-still sono state previste una serie di ipotesi in cui non trovi applicazione, ovvero nei casi in cui non sia stata presentata alcuna offerta, o se l’appalto è basato su un A.Q., in caso di ricorso a mercato elettronico o a sistemi dinamici di acquisizione, o ancora in casi di affidamenti diretti di importo inferiore a 40.000 euro, o negli altri casi di affidamento compresi tra 40.000 e 150.000,00 per i lavori (o alle soglie previste dall’art. 35 per i servizi).
Da salutare con favore anche l’innalzamento della soglia prevista per la richiesta di anticipazione contrattuale prevista dal c.d. Decreto Rilancio, utile per garantire quella liquidità necessaria a reperire i fattori produttivi
237 Vedi ad esempio vicende ANAC in merito alla possibilità di riutilizzo della piattaforma ideata per la gestione delle procedure di whistleblowing
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indispensabili per dare avvio all’intervento. Anche la possibilità di poter procedere al pagamento degli acconti di avanzamento lavori maturati sino al momento della sospensione, anche laddove queste ultime superino i 45 gg., sembra coerente con l’obiettivo di iniettare nuova liquidità all’interno del sistema.
Nuove soglie sono state previste anche per la scelta della procedura di aggiudicazione, con l’affidamento diretto, anche senza previa consultazione di due o più operatori economici, che nei lavori sale fino a 150.000,00238 , prevedendo il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, ex art. 63, per i lavori che vanno da 150.000,00 a 350.000,00 previa consultazione di 5 operatori economici, che diventano, rispettivamente, 10 e 15 nei casi di lavori da 350.000,00 euro ad un 1.000.000,00 e per quelli superiore al milione di euro. Una procedura, quella prevista dall’art. 63, a cui si poteva far ricorso solo in casi eccezionali (assenza di offerta, assenza di fornitori specializzati ecc.) o in casi di estrema urgenza derivanti da eventi imprevisti ed imprevedibili dall’amministrazione aggiudicatrice. Una procedura piuttosto snella239, quindi, che assieme all’innalzamento della soglia per l’affidamento diretto segna una netta inversione di tendenza rispetto al sistema, piuttosto rigido, disegnato dal legislatore del 2016.
In altre parole, il legislatore ha rimodulato la struttura disegnata dal D.Lgs. 50/2016 tentando di renderla più agile e snella, e lo ha fatto agendo su alcuni punti chiave che possiamo riassumere come segue:
- La tempistica del processo di approvvigionamento, scongiurando dapprima che la sospensione già prevista dall’art. 103 del D. L. n. 18 del 17/03/2020 provocasse un impasse dell’intero sistema di procurement pubblico. Per questo è stato previsto, che la S.A. debba adottare ogni soluzione organizzativa idonea ad assicurare la celere e ragionevole durata del procedimento. A tal proposito sono stati altresì fissati i termini massimi per arrivare all’aggiudicazione nelle procedure sottosoglia, previsti in due mesi dal primo atto di avvio del procedimento per gli affidamenti diretti e quattro mesi per le procedure negoziate240. Si è cercato poi di scandire, in modo più tempestivo e puntuale, anche la fase di presentazione delle offerte che, come abbiamo visto, per le procedure aperte sottosoglia in casi di urgenza debitamente motivati, ad esempio, si è addirittura dimezzata.
- Ha tentato di snellire l’intero processo di approvvigionamento, attraverso la previsione di modalità di affidamento “agevolate”, innalzando i tetti per l’affidamento diretto e prevedendo la possibilità di ricorrere alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara ex art. 63 fino alla soglia comunitaria, affidando la tutela dell’imparzialità e della concorrenza ad un meccanismo di richiesta di preventivi in crescendo. Anche la fase conclusiva del contratto è stata oggetto di un profondo ripensamento, escludendo lo stand-still in ipotesi espressamente indicate. L’esecuzione anticipata, per ragioni di urgenza, è adesso prevista anche nelle more della verifica dei requisiti ex art. 80 nonché dei requisiti di qualificazione previsti per la partecipazione alla procedura. Infine, sempre con l’intento di snellire la procedura, anche l’obbligo di
238 Per servizi e forniture sale, invece, fino a 75.000,00 con la previsione di poter ricorrere alla procedura prevista ex art. 63 per la fascia immediatamente successiva che arriva fino a 214.000,00.
239 Si sgancia in questo modo la procedura dell’art. 63 dal doppio binario che era stato previsto per le situazioni emergenziali con la S.U. che resta così la via maestra da seguire in tutte quelle circostanze che “non consentono alcun indugio, in caso di eventi emergenziali di protezione civile o di eventi calamitosi derivanti dall’attività dell’uomo, per un importo massimo dei lavori di euro 200.000,00”.
240 In entrambi i casi sono stati previsti 60 giorni per la firma del contratto, qualora si verifichi la mancata tempestiva stipula dello stesso o il tardivo avvio dell’esecuzione, ciò può essere valutato ai fini della responsabilità del RUP per danno erariale, qualora invece sia imputabile all’operatore economico costituisce causa di esclusione o risoluzione per inadempimento.
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sopralluogo può esser previsto, a pena di esclusione, solo nei casi strettamente indispensabili in ragione della tipologia, del contenuto o della complessità dell’appalto.
- Infine, con l’intento di favorire l’immissione di liquidità all’interno del sistema è stata prevista la possibilità di emissione di SAL parziali entro 15 giorni dall’entrata in vigore del Decreto241, la possibilità di pagamento per questi ultimi anche in caso di sospensione superiore ai 45 giorni, il rimborso dei maggiori costi sostenuti per l’adeguamento agli standard di sicurezza previsti per il contenimento dell’epidemia242, e l’innalzamento del tetto per poter richiedere l’anticipazione contrattuale fino al 30%243 già prevista dal Decreto Rilancio. Cancellato anche l'obbligo della garanzia provvisoria del 2% per gli appalti sottosoglia salvo che, in considerazione della tipologia e specificità della singola procedura, ricorrano particolari esigenze che giustifichino tale richiesta, che la stazione appaltante indica nell’avviso di indizione della gara o in altro atto equivalente. Nel caso in cui sia richiesta la garanzia provvisoria, il relativo ammontare è comunque dimezzato.
Paragrafo 3. RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Il ripensamento del sistema di infrastrutture digitali, le opportunità offerte dallo smart working, l’importanza di adeguate iniziative formative per consolidare adeguate skills digitali, l’esigenza di rendere strutturali i team multidisciplinari dando vita a una classe dirigente pubblica in grado di conciliare l’approccio manageriale con le competenze giuridiche specifiche, la volontà di superare un modello di ripartizione delle competenze che ha esasperato il principio di leale collaborazione ottenendo come unico risultato quello di far esplodere il contenzioso, rappresentano oggi le principali sfide per garantire un exit strategy di successo e per rilanciare la competitività del Paese a livello internazionale.
Sul versante del public procurement, pur apprezzando lo sforzo del legislatore per snellire nuovamente un’architettura piuttosto rigida qual era quella disegnata dal, seppur giovane, D. Lgs 50/2016, che nel breve periodo può senza dubbio rappresentare una leva per rilanciare l’economia di un Paese colpito duramente da questa crisi sanitaria ed economica, nel lungo periodo occorre ripensare attentamente all’intera infrastruttura dotandola, da un lato, di quei presidi digitali che non possono più essere rimandati, e dall’altro, ricorrendo a quella professionalizzazione delle strutture appaltanti che riesca a garantire un adeguato know-how degli operatori e un deciso innalzamento degli standard qualitativi delle prestazioni. L’allargamento delle maglie nelle procedure di affidamento, assieme all’innalzamento dei tetti e all’estensione della procedura negoziata ex art. 63 potrebbero portare benefici che, se fossero resi strutturali ed adeguatamente compensati da altrettanti presidi anticorruzione volti a garantire un’effettiva rotazione e l’imparzialità nell’allocazione delle risorse, potrebbero indubbi vantaggi. In altre parole, occorre dar vita a sistemi in grado di far accendere tempestivamente la spia rossa quando necessario. Un set di indicatori di rischio che riesca a fornire un quadro di monitoraggio semplice ed intuitivo per ravvisare prontamente eventuali anomalie. Nell’attesa della centralizzazione della spesa, una mappa di indicatori per ciascun buyer pubblico sarebbe senza dubbio un’ottima base di partenza, oltre ad un’efficace strumento per conoscere e approfondire meglio le dinamiche interne. Tali indicatori potrebbero essere ulteriormente scomponibili a livello di singolo RUP per far emergere in modo ancor più lampante eventuali responsabilità e conflitti di interesse. Si tratta di
241 Con l’obbligo di procedere al pagamento entro 45 giorni dall’emissione del certificato.
242 Tali somme integrative possono essere attinte dalle somme a disposizione indicate nei Q.E. dei progetti e, ove necessario, utilizzando anche le economie di gara derivanti dai ribassi d’asta.
243 Compatibilmente con le risorse stanziate annualmente, per tutte le procedure che scaturiscono da bandi o avvisi pubblicati successivamente alla data del 19 Maggio 2020 (data di entrata in vigore del D.L. 34/2020 convertito con la Legge n. 77/2020).
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indicatori anche piuttosto semplici nella loro costruzione, a titolo esemplificativo possiamo accennare indicatori che prendono in considerazione il grado di utilizzo dell’offerta OEPV, il differenziale tra il valore finale del contratto e quanto invece previsto inizialmente, il numero dei contratti modificati per effetto di varianti, il numero dei contratti prorogati (non per motivi tecnici), la media dei preventivi richiesti in caso di affidamenti diretti o viceversa il numero di procedure per cui è stata presentata un’unica offerta, un indice di rotazione degli operatori invitati o degli affidatari244
Insomma, al di là di quello che sarà il dopo crisi, al di là delle opportunità che saremo o meno in grado di cogliere, degli scenari che si apriranno, delle scelte che segneranno l’ennesimo capitolo del procurement pubblico, questa crisi ci deve insegnare che non è della discrezionalità che bisogna aver paura perché “quando l’amministrazione sceglie giustificando le proprie ragioni, opera in modo trasparente e quindi verificabile”245
244 Per un’analisi dettagliata delle prospettive e dei limiti di tale sistema di indicatori si veda ANAC, Relazione annuale 2016, pp. 57-66.
245 R. Cantone - E. Carloni, Corruzione e anticorruzione: dieci lezioni, Feltrinelli, 2018, p. 159.
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Il diritto di accesso del consigliere comunale non è un diritto “tiranno”, ma strumentale (all’espletamento del mandato): il caso del relativo accesso all’elenco dei nuclei familiari a cui siano stati concessi buoni spesa.
Di GIUSEPPE VINCIGUERRA
Con la sentenza n. 2089 pubblicata l’11 marzo 2021, la V Sezione del Consiglio di Stato, ritenendo fondate, con carattere assorbente, le censure mosse dal Comune ricorrente nella parte diretta a contestare l’estensione attribuita dal pronunciamento di primo grado al diritto di accesso ex art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000, ha accolto il relativo ricorso in riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata (Sezione prima) n. 574/2020, concernente l’istanza di accesso di un consigliere comunale diretta a conoscere i nominativi dei residenti nel Comune di Ruoti beneficiari ed esclusi dalle provvidenze economiche di cui all’Ordinanza del 29 marzo 2020, n. 658, del Capo della Protezione Civile presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (recante: Ulteriori interventi urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili).
Con l’istanza de qua, il consigliere comunale aveva chiesto di accedere all’«elenco dei nuclei familiari a cui sono stati concessi i buoni spesa» e a «un eventuale elenco dei nuclei familiari di cui (sic) avevano fatto richiesta ma, (sic) sono stati esclusi». In riscontro ad essa, il Comune aveva comunicato al consigliere i seguenti dati: l’importo del contributo stanziato dalla Protezione civile e dalla Regione Basilicata (con delibera di giunta del 27 marzo 2020, n. 215) a favore dell’ente locale; il numero dei beneficiari ammessi e delle istanze ancora in esame; e l’ammontare complessivo erogato.
Alla nota di riscontro dell’istanza di accesso era inoltre stato allegato un elenco delle domande, recante l’indicazione della data di ricezione e del numero di protocollo assegnato, della composizione del nucleo familiare del richiedente, del reddito mensile dichiarato, di eventuali altre indennità già percepite (tra cui, con separata menzione, il reddito di cittadinanza), dell’esito dell’istanza e dell’importo erogato.
Era al contrario stata omessa l’indicazione dei nominativi dei soggetti istanti, con la motivazione che tali dati erano da considerarsi «sensibili» ai sensi del Regolamento europeo sulla protezione dei dati [Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016] e del Codice nazionale della privacy (decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196).
Da ciò il ricorso ex art. 116 c.p.a. del consigliere comunale, accolto dal Tar Basilicata con la succitata sentenza, nella considerazione che il consigliere comunale sia titolare - ai sensi dell’art. 43, comma 2, del Testo unico sulle leggi sull’Ordinamento degli enti locali (decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267) - di «un incondizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere utili all’espletamento delle proprie funzioni», al quale non sono opponibili «limitazioni connesse all’esigenza di assicurare la riservatezza dei dati e il diritto alla privacy dei terzi». Per il Tar, questa esigenza sarebbe invero tutelata dalla sottoposizione del consigliere «al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge», ad opera dell’ultimo inciso del citato art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000246 .
246 In generale, sul diritto di accesso ai documenti amministrativi, cfr., inter alia, AGRIFOGLIO, La trasparenza dell’azione amministrativa e il principio del contraddittorio: tra procedimento e processo, in Dir. proc. amm., 191, 281;
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Tra le censure mosse dall’amministrazione appellante, degne di nota in questa sede appaiono quelle di cui al terzo, ma soprattutto al secondo motivo di appello.
In particolare, con il terzo motivo d’appello la sentenza viene censurata per violazione dell’art. 49 cod. proc. amm. per non avere ordinato l’estensione del contraddittorio ai beneficiari dei buoni spesa, da considerarsi nella fattispecie de qua «portatori di un interesse giuridicamente qualificato di natura contraria a quello del ricorrente» e dunque controinteressati rispetto a quest’ultimo247
Con il secondo motivo d’appello, il Comune ha, per un verso, censurato la sentenza appellata per violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull’accesso agli atti amministrativi di cui agli artt. 22 e seguenti della legge sul procedimento amministrativo, e di cui all’art. 43, comma 2, del testo unico sugli enti locali, per avere il Tar posto a fondamento della relativa pronuncia di accoglimento del ricorso proprio detta ultima disposizione normativa a fronte di un’istanza di accesso fondata invece in via esclusiva sulla disciplina dell’accesso di cui alla legge n. 241 del 1990, e dunque, con ciò, non avvedendosi della «mutatio libelli» di controparte rilevabile d’ufficio, senza pertanto far corretta applicazione dei principi giurisprudenziali concernenti i rapporti tra le diverse forme di accesso248 . Con il medesimo motivo di appello, ritenendo il Comune che il diritto del consigliere comunale all’accesso agli atti dell’ente locale ex art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000 non sia – contrariamente a quanto statuito dalla sentenza di primo grado - “incondizionato”, ha poi per altro verso dedotto che, da un lato, la conoscenza dei soggetti che avevano chiesto le provvidenze di cui al richiamato provvedimento emergenziale non sarebbe stata utile all’espletamento delle funzioni di consigliere comunale; e, dall’altro lato, che tale conoscenza avrebbe determinato «una gravissima lesione degli intangibili diritti alla riservatezza e alla privacy dei beneficiari» delle prestazioni assistenziali, ritenendosi peraltro che in ogni caso le prerogative connesse alla carica di consigliere nel caso di specie siano state soddisfatte con la comunicazione al richiedente dei dati resi disponibili in riscontro alla relativa istanza di accesso, rispetto ai quali – si sostiene - l’aggiunta dei nominativi non sarebbe stata di alcuna utilità.
G. ARENZA (a cura di), La trasparenza amministrativa. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, Bologna, 1991; M. CLARICH, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi, in Giorn dir. amm., 1995, 132; A. SANDULLI, L’accesso ai documenti ammnistrativi, in Giorn. dir. amm., 1995, 1061; SCOGNAMIGLIO A., Il diritto di accesso nella disciplina della l. 7 agosto 1990, n. 241 ed il problema della legittimazione, in Riv. Trim. dir. pubbl., 1996, 93 ss.; sul frontegiurisprudenziale,intemadigenericitàdell’istanzadiaccessodifensivo v.recentissimasentenzaConsigliodiStato, Adunanza Plenaria,n.4 del 18marzo 2021;per una disaminasul rapporto tra accesso e riservatezza, cfr.: L. IEVA, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e tutela della riservatezza della persona umana, in Foro amm. (Il), 2001, n. 9, p. 2644; G. CASSANO, I dati sensibili, la salute, la riservatezza e l’accesso ai documenti amministrativi, Nota a sent. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 30/03/2001, n. 1882, in Giurispr. it., 2002, n. 2, p. 405; F. MARTINI, Accesso e riservatezza: due valori a confronto, in Diritto dell'informazione e dell'informatica (Il), 2006, n. 2, p. 155; C. SARTORELLI, Il diritto alla riservatezza e il diritto di accesso: alla ricerca di un punto di equilibrio, in Foro amm. (Il), T.A.R., 2007, n. 7/8, p. 2639; L. LO MEO, L. CARBONE, Diritto alla riservatezza e diritto di accesso, in Giornale di diritto amministrativo, 2008, n. 8, p. 905; S. TERESI, Diritto di accesso e diritto alla riservatezza: un delicato equilibrio, nota a sent. Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 28/07/2015, n. 2367, in Diritto di autore (Il), 2015, n. 3, p. 517. 247 Sui diritti dei controinteressati nell’ambito dell’accesso amministrativo, cfr.: M. IMMORDINO, Alcune riflessioni su diritto di accesso, riservatezza e tutela processuale del controinteressato, nota a sent. TAR, sez. V, Campania, sentenza 27/03/2003, n. 3025, in Foro amm. (Il) T.A.R., 2003, n. 6, p. 2037; S. MEZZACAPO, Con il nuovo regolamento sull’accesso necessario coinvolgere i controinteressati – Ricorso al Tar contro il “differimento”, in Guida al diritto, 2006, n. 23, p. 58; R. PROIETTI, Enti, così si evolve il diritto di accesso. Tutela e garanzie ai controinteressati; in Diritto e giustizia, 2006, n. 27, p. 84; G. FERRARI, Accesso ai documenti non preceduto dalla comunicazione al soggetto potenzialmente interessato alla riservatezza, nota a sent. TAR, sez. II, Lazio, sentenza 21/05/2008, n. 4790, in Giorn. di dir. amm., 2008, n. 8, p. 910.
248 Per una compiuta ricostruzione concernente i rapporti tra le diverse forme di accesso, si rinvia ai principi all’uopo recentemente affermati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 20 gennaio 2020.
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L’attribuzione - da parte del giudice di prime cure - al diritto in questione di un carattere «incondizionato» (ogniqualvolta esso riguardi atti dell’amministrazione che per il consigliere comunale «possano essere utili all’espletamento delle proprie funzioni»), a dir del Consiglio di Stato nella sentenza che si commenta, si porrebbe nella prospettiva ricostruttiva - da quest’ultimo non condivisa, e oserei dire ribaltata - del diritto di accesso del consigliere comunale come un diritto «“tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona».
Il ribaltamento della prospettiva ricostruttiva di cui si è detto nella pronuncia in esame viene condotto dal Giudice d’appello essenzialmente sulla base di due diverse argomentazioni.
Sotto un primo profilo, il Consiglio di Stato ritiene che l’accesso del consigliere comunale non si sottragga alla regola del ragionevole bilanciamento propria dei rapporti tra diritti fondamentali di pari rango. Detta prima argomentazione, rifacendosi al pronunciamento della Corte Costituzionale di cui alla sentenza 19 maggio 2013, n. 85249 - in occasione del quale la Corte ha affermato che in un ordinamento costituzionale, in cui i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano «in rapporto di integrazione reciproca», non ordinato su base gerarchica, non è possibile «individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri», e dunque una «illimitata espansione» dei primi a danno di questi ultimi - appare condividerne il consequenziale precipitato logico circa la necessità che i predetti diritti di rango costituzionale vadano coordinati secondo «un ragionevole bilanciamento», e ciò essenzialmente ai fini della tutela della “dignità della persona”, ovvero, in altri termini, nel rispetto del cd. principio personalistico, la cui formale enunciazione in sede costituzionale si rinviene nei principi di uguaglianza formale e sostanziale dell’individuo e nei doveri di solidarietà sociale di cui agli artt. 3, commi 1 e 2, e 2 della Costituzione. Pur riconoscendo dunque il Collegio giudicante che il diritto di accesso del consigliere comunale abbia un’estensione ampia, maggiore dell’accesso agli atti amministrativi ai sensi della legge 7 agosto 1990, n. 241, desumibile dalla lettera del più volte citato art. 43, comma 2, del testo unico sull’ordinamento degli enti locali, secondo cui il consigliere comunale ha diritto di ottenere dagli uffici dell’amministrazione presso cui esercita il proprio mandato politicoamministrativo e dai suoi enti strumentali «tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato»250, lo stesso ne esclude espressamente la possibilità di esercizio con pregiudizio di altri interessi riconosciuti dall’ordinamento parimenti meritevoli di tutela, senza che pertanto il diritto de quo possa sottrarsi al necessario bilanciamento con questi ultimi, così che, negandone, in altre parole, un rapporto di prevalenza assoluta, a parer di chi scrive, nel pronunciamento del Consiglio di Stato pare al contrario potersi cogliere la possibilità di
249 Trattasi della sentenza della Corte costituzionale di rigetto delle questioni di costituzionalità sulla disciplina penalistica speciale relativa allo stabilimento industriale dell’Ilva di Taranto nella parte in cui se ne assumeva un contrasto con il diritto alla salute ex art. 32 Cost..
250 Sulla maggiore ampiezza del diritto di accesso del consigliere comunale ex art. 43 del Tuel, rispetto all’accesso documentale di cui agli artt. 22 e seguenti della legge n. 241/1990, v. Cons. Stato, V, 13 agosto 2020, n. 5032; per un maggiore approfondimento cfr., inoltre, L. CARBONE, R. MAZZARO, Osservatorio del Consiglio di Stato – Segretezza dell’atto e diritto del consigliere comunale, nota a sent. Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 05/04/2001, n. 1893, in Corr. giur. (Il), 2001, n. 5, p. 622; G. FERRARI, L. TARANTINO, Sui limiti del diritto d’accesso del consigliere comunale, nota a sent. Consiglio di Stato, sez. V, decisione 23/09/2010, n. 708, in Urbanistica e appalti, 2010, n. 11, p. 1366; G. FERRARI, Istanza di accesso ai documenti da parte di consigliere comunale, nota a sent. TAR, Pescara, sentenza 07/05/2012, n. 190, in Giornale di dir. amm., 2012, n. 8/9, p. 892. Più di recente, sul tema del diritto di accesso del consigliere comunale ai sistemi informatici ed in particolare al protocollo informatico mediante il rilascio di apposite credenziali di accesso on line, cfr. sentenza Consiglio di Stato, Sez. V, 26 maggio 2020, n. 3345, con commento di M. DEODATI, Limiti al diritto di accesso e sistemi informatici: quando la digitalizzazione è una minaccia, in quotidianopa.leggiditalia.it, 16/06/2020; M. LUCCA, Diritto di accesso del consigliere comunale da remoto al protocollo e alla contabilità: un (evidente) caso di abuso del diritto, in mauriziolucca.com 05.07.2020; F. PEZZOLLA, Il rilascio delle credenziali per l’accesso al protocollo informatico da parte del consigliere comunale. Due pronunce a confronto, in lasettimanagiuridica.it, 17.03.2021.
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configurare detto rapporto, al più, in termini di prevalenza relativa che, caso per caso, sia il frutto proprio di detto equo bilanciamento tra i diversi diritti che di volta in volta vengano in rilievo.
Sotto un distinto profilo, la preclusione all’esercizio del diritto di accesso del consigliere comunale con possibile pregiudizio di altri diritti/interessi parimenti tutelati dalla Costituzione è dal Consiglio di Stato ricondotta al «limite funzionale intrinseco» cui il diritto d’accesso è sottoposto, e che si ritiene potersi rintracciare nel richiamo alla utilità delle notizie e delle informazioni possedute dall’ente locale rispetto alla funzione di rappresentanza politica del consigliere comunale, espressamente riportato nel testo dell’art. 43, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000.
Il limite della cd. funzionalizzazione dell’accesso (del consigliere comunale) all’espletamento del proprio mandato implica – a dir del Collegio giudicante – che “il bisogno di conoscenza del titolare della carica elettiva debba porsi in rapporto di strumentalità con la funzione «di indirizzo e di controllo politico-amministrativo», di cui nell’ordinamento dell’ente locale è collegialmente rivestito il consiglio comunale (art. 42, comma 1, t.u.e.l.), e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell’organo elettivo (art. 43)”.
Sotto questo profilo, la Sezione del Consiglio di Stato si muove sul medesimo crinale già tracciato da essa stessa con relative precedenti pronunce in ordine alla strumentalità del diritto di accesso del consigliere comunale, a mezzo delle quali si è sottolineato, da un lato, che lo scopo del diritto di accesso del consigliere comunale è quello «di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere tutte le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale»251, nonché, dall’altro, che non è «sufficiente rivestire la carica di consigliere per essere legittimati sic et simpliciter all’accesso, ma occorre dare atto che l’istanza muova da un’effettiva esigenza collegata all’esame di questioni proprie dell’assemblea consiliare»252, così profilandosi la possibilità di una delimitazione del diritto de quo finanche sul fronte del relativo ambito oggettivo.
Sulle base delle argomentazioni di cui si è dato conto, il Giudice d’appello ha così ritenuto che nel caso di specie, con il negare i nominativi dei soggetti richiedenti le provvidenze erogate dalla Protezione civile a livello locale, ma con il fornire nel contempo tutte le altre notizie relative a tali istanze, il Comune di Ruoti abbia messo a disposizione del consigliere comunale ogni informazione utile per l’esercizio delle funzioni di rappresenta politico-amministrativa inerenti alla relativa carica, realizzando - a Suo dire - un equilibrato bilanciamento tra le prerogative ad essa connesse con le contrapposte esigenze di tutela della riservatezza della persona. Non condivisibili sono state d’altro canto ritenute dalla V Sezione del Consiglio di Stato le deduzioni difensive del consigliere comunale nella parte in cui ha affermato che la conoscenza dei nominativi dei soggetti richiedenti i buoni spesa messi a disposizione della Protezione civile sarebbe stata necessaria per «poter intraprendere iniziative politiche a sostegno (e) verificare anche la correttezza della distribuzione (attività che non possono essere prerogativa assoluta di un funzionario alle dirette dipendenze del Sindaco e/o della Giunta)»253, nulla tuttavia che - osserva il Collegio giudicante – l’originario ricorrente non potesse già fare sulla base delle informazioni e dei dati messigli a disposizione
251 In questi termini, si è espressa la V Sezione del Consiglio di Stato con la siccitata sentenza n. 5032 del 13 agosto 2020.
252 Così, Cons. Stato, V, 2 gennaio 2019, n. 12.
253 Seppur avente carattere di ultroneità ai nostri fini, non ci si può esimere neppure in questa sede dal rilevare l’assoluta carenza di fondamento di tale censura, non rinvenendosi all’interno dell’Ordinamento degli enti locali (rectius dei Comuni) alcun rapporto di dipendenza (organica e/o funzionale) tra il funzionario comunale ordinariamente preposto alla gestione dell’attività amministrativa in questione ed il Sindaco e/o la Giunta comunale, risultando peraltro improntato il complesso dei reciproci rapporti all’interno del sistema delle autonomie locali al rispetto del principio della distinzione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali.
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dal Comune di Ruoti in riscontro alla sua istanza di accesso254, ritenendo che con questi dati il consigliere fosse nelle condizioni di accertare se la gestione dei buoni spesa da parte degli uffici comunali competenti sia stata legittima ed efficace ed eventualmente di promuovere in sede consiliare le necessarie iniziative finalizzate a sollecitare un controllo dell’organo di indirizzo politico dell’ente comunale sull’operato degli uffici competenti, non avendo peraltro – a dir del Collegio – il consigliere dimostrato quale utilità concreta ed aggiuntiva rispetto ai dati acquisiti avrebbe avuto per l’esercizio del suo mandato la conoscenza dei nominativi dei soggetti richiedenti.
Al contrario, il Consiglio di Stato dichiara di condividere quanto dedotto dal Comune di Ruoti in ordine al fatto che l’accesso a tali nominativi avrebbe fatto venire meno il riserbo su un dato personale consistente nello stato di bisogno del soggetto richiedente il buono pasto, che, in base all’ordinanza della protezione civile più volte richiamata, costituiva uno dei presupposti per potervi accedere (art. 2, comma 6)255, ritenendo che la conoscenza dei nominativi dei soggetti in condizione economica disagiata non sia strumentale all’esercizio delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo, e, pertanto, suscettibile di tradursi in un inutile sacrificio delle ragioni di riservatezza di questi ultimi, il tutto senza prendere in considerazione l’effetto dissuasivo (a scapito del reale bisogno di accedervi) sui predetti soggetti disagiati che - a parer di chi scrive – potrebbe discendere dalla incondizionata ostensibilità in favore dei consiglieri comunali dei nominativi in questione.
A conclusioni diverse non conduce - a dir del Giudice d’appello - neppure la previsione normativa di cui al comma 2 del medesimo art. 43 del t.u.e.l., secondo la quale il consigliere comunale è tenuto al segreto sui dati e le informazioni di cui sia venuto a conoscenza all’esito dell’accesso agli atti dell’amministrazione, osservando il Consiglio di Stato che «in termini generali il segreto è un obbligo che si riferisce all’uso di dati e informazioni legittimamente acquisiti, mentre nel presente giudizio si controverte proprio sulla legittimità di tale acquisizione». Nel caso specifico – prosegue il Collegio giudicante - «l’obbligo del consigliere comunale di attenersi al segreto comporta che i dati e le informazioni acquisite siano utilizzati esclusivamente per l’esercizio del suo mandato e a vietare per contro qualsiasi uso privato. Lo stesso obbligo non tutela invece la riservatezza delle persone, la quale verrebbe comunque lesa se l’accesso venisse consentito».
In aggiunta a ciò, il Consiglio di Stato osserva che proprio dalla strumentalità del diritto di accesso dei consiglieri comunali alla funzione «di indirizzo e di controllo politico-amministrativo», di cui nell’ordinamento dell’ente locale è collegialmente rivestito il consiglio comunale, e alle prerogative attribuite singolarmente al componente dell’organo elettivo (attesa la ordinaria pubblicità delle sedute dell’organo consiliare nelle quali le predette prerogative sono destinate ad essere esercitate) «discenderebbe peraltro una potenziale conoscibilità erga omnes dei dati e delle informazioni riservate, con inerente aggravamento della lesione della riservatezza delle persone che solo il diniego di accesso può salvaguardare»256 .
Degna di attenzione appare infine la considerazione incidentale espressa dal Consiglio di Stato in ordine alla potenziale estensione della funzione di indirizzo politico-amministrativo inerente la carica di consigliere comunale, affermandosi
254 Viene invero sottolineato come nell’elenco allegato alla nota con cui l’amministrazione si è determinata sull’istanza de qua fossero contenuti i riferimenti temporali e di numero di protocollo, i presupposti reddituali su cui le domande di provvidenze economiche sono state decise, con il relativo esito e l’importo riconosciuto.
255 Per un approfondimento sul tema dei cd. fondi di solidarietà alimentare legati all’emergenza sanitaria da Covid-19, sia consentito rinviare a G. VINCIGUERRA, “Fondi solidarietà alimentare Regione Sicilia: alcuni chiarimenti”, pubblicato sul quotidiano partecipativo della PA - lentepubblica.it (21 aprile 2020).
256 Argomentazione quest’ultima che, a parer di chi scrive, appare rivelarsi inconferente, attese le responsabilità, anche personali, che l’ordinamento riconduce alle eventuali lesioni della riservatezza delle persone, risultando peraltro il paventatoaggravamento dellalesione dellariservatezza dellepersone inragionedella potenziale conoscibilità erga omnes dei dati e delle informazioni riservate nel corso delle sedute pubbliche dell’organo elettivo unicamente un rischio che in ogni caso può essere mitigato con le apposite cautele/misure prescritte dalla normativa in materia.
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al riguardo che nel relativo ambito non rientri il potere di sostituirsi al singolo interessato né un riesame di legittimità di singoli provvedimenti adottati dai competenti uffici comunali, attesa la valenza lato sensu politica connessa alle funzioni di controllo de quibus, e non anche di sindacato di legittimità o tanto meno di carattere “inquisitorio”, con ciò ponendo condivisibilmente un argine al grave rischio di travalicamento (rectius straripamento) di funzioni/poteri a danno dell’attuale assetto dell’equilibrio costituzionalmente garantito tra i diversi poteri dello Stato257 .
SENTENZE RILEVANTI DEI MESI DI MARZO E APRILE 2021
Il Consiglio di Stato si esprime in tema di apertura in seduta non pubblica delle offerte nelle gare telematiche.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 1 marzo 2021, n. 1700.
In sede di gara pubblica, sussiste l’obbligo di apertura in seduta pubblica delle buste contenenti tanto la documentazione amministrativa che le offerte, tecniche ed economiche, onde assicurare in tale sede una ricognizione trasparente, oltre che dell'integrità del plico, anche del relativo contenuto documentale che valga a garantire i concorrenti dal pericolo di manipolazioni successive delle offerte proprie e di quelle altrui, eventualmente dovute ad inserimenti, sottrazioni o alterazioni di documenti. In tale fase la verifica consentita consiste in un semplice controllo preliminare degli atti inviati, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che i suddetti principi vanno necessariamente verificati in stretta aderenza con il regime delle singole procedure selettive onde accertare l'effettiva replicabilità del rischio che mirano a scongiurare.
Nel caso della gara svolta in modalità telematica, con caricamento della documentazione su piattaforma informatica messa a disposizione dei concorrenti, è possibile tracciare in maniera incontrovertibile i flussi di dati tra i singoli operatori partecipanti, garantendo una immediata e diretta verifica della data di confezionamento dei documenti trasmessi, della loro acquisizione e di ogni eventuale tentativo di modifica.
Siffatta modalità di espletamento della procedura di gara è stata ritenuta dalla stessa giurisprudenza idonea a garantire la trasparenza, anche in assenza di seduta pubblica, anche per l’apertura delle offerte tecniche (e di quelle offerte economiche), per la maggiore sicurezza quanto alla conservazione dell'integrità degli atti che offre.
La Suprema Corte si esprime sulla configurabilità del delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sent. 1 marzo 2021, n. 8057.
La Sesta sezione ha affermato che è configurabile il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 cod. pen., come modificato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella legge 11 settembre 2020, n. 120, non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta è connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio.
Il TAR Calabria si esprime sull'avvalimento c.d. di garanzia e sulla sua validità ai fini del conseguimento di un punteggio tecnico più elevato.
TAR Calabria - Catanzaro, Sez. I, sent. 1 marzo 2021, n. 444.
La giurisprudenza (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. III, 5 marzo 2018, n. 1339) ha chiarito che, nell'avvalimento c.d. di garanzia - avente cioè ad oggetto, come nel caso di specie, il requisito di capacità economica finanziaria,
257 Sul tema della resistenza del diritto alla riservatezza rispetto ad un atteggiamento “inquisitorio” del consigliere comunale, cfr.: A. MARI, La riservatezza resiste al consigliere comunale che diventa inquisitore, in Diritto e giustizia, 2002, n. 13, p. 14.
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rappresentato dal fatturato sia globale che specifico - proprio ad evitare il rischio che il prestito dei requisiti rimanga soltanto su un piano astratto e cartolare e l'impresa ausiliaria si trasformi in una semplice cartiera produttiva di schemi contrattuali privi di sostanza, occorre che dalla dichiarazione dell'ausiliaria emerga con certezza ed in modo circostanziato l'impegno contrattuale a prestare e a mettere a disposizione dell'ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale della prima, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità; l'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di avvalimento, deve quindi diventare, di fatto, un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario, poiché solo in caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo (che quindi abbia ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di determinate risorse; tuttavia tale impegno a diventare un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario non può risultare nel contratto in modo generico e quale semplice formula di stile, ma deve essere in qualche modo determinato o, quantomeno, determinabile, poiché l'impegno contrattualmente assunto dall'ausiliaria deve ritenersi completo, concreto, serio e determinato, nella misura in cui attesta la messa a disposizione del fatturato e delle risorse eventualmente necessarie e contenga un vincolante impegno finanziario nei confronti della stazione appaltante;
- i2) nel caso di specie, il requisito di serietà e determinabilità dell’impegno è integrato dai contratti di avvalimento prodotti, in quanto gli operatori economici ausiliari hanno con essi assunto formale impegno nei confronti della stazione appaltante di mettere a disposizione dell’operatore ausiliato le risorse di cui esso sia carente, ai fini del perfetto espletamento della attività previste nell’appalto, specificamente individuate;
l) è invece fondato il primo dei motivi aggiunti, con cui si deduce che l’amministrazione ha illegittimamente considerato i servizi analoghi svolti da una delle società ausiliarie non solo per ritenere soddisfatti i requisiti di partecipazione alla procedura, ma anche ai fini dell’attribuzione del punteggio con riferimento all’offerta tecnica;
- l1) ed infatti, l’avvalimento è un istituto utilizzabile esclusivamente per accedere alla gara, non anche per conseguire un punteggio più elevato per l'offerta tecnica (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2020, n. 1916; Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2020, n. 4785);
- l2) se così è, il consorzio resistente non avrebbe potuto prendere in considerazione, come invece ha fatto, ai fini della valutazione dell’offerta tecnica proposta dallo Studio Tecnico Bevacqua Luigi, i servizi analoghi prestati dalle imprese ausiliarie.
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Il provvedimento di revoca è sempre esito di una scelta ampiamente discrezionale dell’amministrazione. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 01 marzo 2021, n. 1700.
Il provvedimento di revoca è sempre esito di una scelta ampiamente discrezionale dell’amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2020, n. 1837; III, 29 novembre 2016, n. 5026), anche nel caso di ius superveniens che comporti una modifica del quadro normativo esistente al momento di adozione del provvedimento amministrativo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 giugno 2015, n. 3237).
Benchè l’art. 21 – quinquies l. 7 agosto 1990, n. 241 preveda quale condizione legittimante il riesame del provvedimento il solo caso di “mutamento della situazione di fatto”, peraltro che sia “non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento”, non può dubitarsi che una sopravvenienza normativa possa essere giusta ragione di revoca del provvedimento, sempre a condizione, comunque, che, in conseguenza del nuovo assetto normativo, non sia più possibile conservare gli effetti del provvedimento ovvero anche perché non sia più conveniente o opportuna la decisione assunta, e, dunque, per una rivalutazione dell’interesse pubblico originario.
L’accesso, per fini penali, a dati contenenti comunicazioni elettroniche sulla vita privata è autorizzato soltanto allo scopo di lottare contro gravi forme di criminalità o di prevenire gravi minacce alla sicurezza pubblica. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 29 del 2 marzo 2021, sent. nella causa C-746/18 H.K. / Prokuratuur.
L’accesso, per fini penali, ad un insieme di dati di comunicazioni elettroniche relativi al traffico o all’ubicazione, che permettano di trarre precise conclusioni sulla vita privata, è autorizzato soltanto allo scopo di lottare contro gravi forme di criminalità o di prevenire gravi minacce alla sicurezza pubblica.
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Il diritto dell’Unione osta, peraltro, ad una normativa nazionale che attribuisca al pubblico ministero la competenza ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati suddetti al fine di condurre un’istruttoria penale In Estonia è stato instaurato un procedimento penale nei confronti di H.K. per le imputazioni di furto, utilizzazione della carta bancaria di un terzo e violenza nei confronti di persone partecipanti a un procedimento giudiziario. H.K. è stato condannato per questi reati da un tribunale di primo grado ad una pena detentiva di due anni. Tale decisione è stata successivamente confermata in appello. I verbali sui quali si fonda la constatazione dei reati suddetti sono stati redatti, segnatamente, sulla base di dati personali generati nel quadro della fornitura di servizi di comunicazioni elettroniche.
La Riigikohus (Corte suprema, Estonia), dinanzi alla quale H.K. ha proposto un ricorso per cassazione, ha sollevato dei dubbi riguardo alla compatibilità con il diritto dell’Unione 1 dei presupposti in presenza dei quali gli organi inquirenti hanno avuto accesso ai dati suddetti. Tali dubbi riguardano, in primo luogo, la questione se la durata del periodo per il quale gli organi inquirenti hanno avuto accesso ai dati costituisca un criterio atto a permettere di valutare la gravità dell’ingerenza che tale accesso determina nei diritti fondamentali delle persone interessate. Così, per il caso in cui questo periodo sia molto breve o la quantità di dati raccolti sia assai limitata, il giudice del rinvio si è chiesto se l’obiettivo della lotta contro la criminalità in generale, e non soltanto contro le forme gravi di criminalità, sia idoneo a giustificare una siffatta ingerenza. In secondo luogo, il giudice del rinvio ha formulato dei dubbi quanto alla possibilità di considerare il pubblico ministero estone, alla luce dei diversi compiti che gli sono affidati dalla normativa nazionale, come un’autorità amministrativa «indipendente» ai sensi della sentenza Tele2 Sverige e Watson e a. 2 , idonea ad autorizzare l’accesso dell’autorità incaricata dell’indagine ai dati in questione. Con la sua sentenza, la Corte, riunita in Grande Sezione, giudica che la direttiva «vita privata e comunicazioni elettroniche», letta alla luce della Carta, osti ad una normativa nazionale, la quale permetta l’accesso delle autorità pubbliche a dati relativi al traffico o a dati relativi all’ubicazione, idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica o sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate e a permettere di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica. Secondo la Corte, la durata del periodo per il quale l’accesso a tali dati è stato richiesto e la quantità o la natura dei dati disponibili per tale periodo non hanno alcuna incidenza al riguardo.
Inoltre, la Corte considera che questa medesima direttiva, letta alla luce della Carta, osti ad una normativa nazionale che renda il pubblico ministero competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione al fine di condurre un’istruttoria penale. Giudizio della Corte Per quanto riguarda i presupposti in presenza dei quali l’accesso ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione conservati dai fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche può, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, essere concesso ad autorità pubbliche, in applicazione di una misura adottata ai sensi della direttiva «vita privata e comunicazioni elettroniche» 3 , la Corte ricorda quanto da essa statuito nella sua sentenza La Quadrature du Net e a. 4 . Infatti, detta direttiva autorizza gli Stati membri ad adottare, tra l’altro agli scopi suddetti, misure legislative intese a limitare la portata dei diritti e degli obblighi previsti dalla direttiva medesima, e segnatamente l’obbligo di garantire la riservatezza delle comunicazioni e dei dati relativi al traffico 5 , unicamente a condizione che vengano rispettati i principi generali del diritto dell’Unione, tra i quali figura il principio di proporzionalità, e i diritti fondamentali garantiti dalla Carta 6 . In tale contesto, la direttiva osta a misure legislative che impongano ai fornitori di servizi di comunicazione elettronica, in via preventiva, una conservazione generalizzata e indifferenziata dei dati relativi al traffico e dei dati relativi all’ubicazione. Per quanto concerne l’obiettivo della prevenzione, della ricerca, dell’accertamento e del perseguimento di reati, perseguito dalla normativa in questione, conformemente al principio di proporzionalità, la Corte considera che soltanto gli obiettivi della lotta contro le forme gravi di criminalità o della prevenzione di gravi minacce per la sicurezza pubblica sono idonei a giustificare l’accesso delle autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, suscettibili di permettere di trarre precise conclusioni sulla vita privata delle persone di cui trattasi, senza che altri fattori attinenti alla proporzionalità di una domanda di accesso, come la durata del periodo per il quale viene richiesto l’accesso a dati siffatti, possano avere come effetto che l’obiettivo di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati in generale sia tale da giustificare un accesso del genere. Per quanto riguarda la competenza conferita al pubblico ministero ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione al fine di dirigere un’istruttoria penale, la Corte ricorda che spetta al diritto nazionale stabilire i presupposti in presenza dei quali i fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche devono concedere alle autorità nazionali competenti l’accesso ai dati di cui essi dispongono. Tuttavia, per soddisfare il requisito di proporzionalità, tale normativa deve prevedere regole chiare e precise che disciplinino la portata e l’applicazione della misura in questione e fissino dei requisiti minimi, di modo che le persone i cui dati personali vengono in discussione dispongano di garanzie sufficienti che consentano di proteggere efficacemente tali dati contro i rischi di abusi.
Tale normativa deve essere legalmente vincolante nell’ordinamento interno e precisare in quali circostanze e a quali condizioni sostanziali e procedurali possa essere adottata una misura che prevede il trattamento di dati del genere, in modo da garantire che l’ingerenza sia limitata allo stretto necessario. Secondo la Corte, al fine di garantire, in pratica, il
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pieno rispetto di tali condizioni, è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente e che la decisione di tale giudice o di tale entità intervenga a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette presentata, segnatamente, nel quadro di procedure di prevenzione o di accertamento di reati o di azioni penali instaurate. In caso di urgenza debitamente giustificata, il controllo deve intervenire entro breve termine. A questo proposito, la Corte precisa che il controllo preventivo esige, tra l’altro, che il giudice o l’entità incaricata di effettuare tale controllo disponga di tutte le attribuzioni e presenti tutte le garanzie necessarie al fine di assicurare una conciliazione dei diversi interessi e diritti in gioco. Per quanto riguarda più in particolare un’indagine penale, un controllo siffatto esige che tale giudice o tale entità sia in grado di garantire un giusto equilibrio tra, da un lato, gli interessi connessi alle necessità dell’indagine nell’ambito della lotta contro la criminalità e, dall’altro, i diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali delle persone i cui dati sono interessati dall’accesso.
Qualora tale controllo venga effettuato non da un giudice bensì da un’entità amministrativa indipendente, quest’ultima deve godere di uno status che le permetta di agire nell’assolvimento dei propri compiti in modo obiettivo e imparziale, e deve a tale scopo essere al riparo da qualsiasi influenza esterna. A giudizio della Corte, ne consegue che il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Orbene, ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che, come nel caso del pubblico ministero estone, diriga il procedimento di indagine ed eserciti, se del caso, l’azione penale. Ne consegue che il pubblico ministero non è in grado di effettuare il suddetto controllo preventivo.
Il TAR Veneto si esprime sulla possibilità di correzione d'ufficio dell'errore materiale presente nell'offerta economica.
TAR Veneto, Sez. III, sent. del 02 marzo 2021, n.291.
Con più specifico riferimento all’errore materiale, è stato di recente evidenziato che “Per indirizzo giurisprudenziale univoco, anche di questa sezione, ciò che si richiede al fine di poter indentificare un errore materiale all'interno dell'offerta di gara e, quindi, procedere legittimamente alla sua rettifica, è che l'espressione erronea sia univocamente riconoscibile come tale, ovvero come frutto di un "errore ostativo" intervenuto nella fase della estrinsecazione formale della volontà. La valutazione che la stazione appaltante è chiamata a svolgere e che la giurisprudenza descrive con icastiche varianti lessicali (lapsus calami rilevabile ictu oculi ed ex ante, quindi senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva della volontà), proprio perché si connota di oggettività e di immediatezza non può, in linea di principio, derivare da sforzi ricostruttivi e interpretativi, ma deve arrestarsi al riscontro di un'inesatta formulazione "materiale" dell'atto. Una cosa è, dunque, l'interpretazione conservativa dell'atto (1465 c.c.), altra è la correzione di una sua incongruenza estrinseca e formale, rinvenibile nel suo sostrato materiale, espressivo o comunicativo (1433 c.c.). In un caso, si fa riferimento a dati intrinseci all'atto, attinenti al suo significato giuridico e che ne motivano una certa valutazione contenutistica; nel secondo caso, viene emendata l'espressione materiale, come percepita nella sua consistenza fisica (ictu oculi), in un momento indipendente e antecedente alla ponderazione del suo significato giuridico (ex ante). Si deve tuttavia ritenere che questi parametri ricostruttivi non debbano essere estremizzati e che, dunque, possa riconoscersi una certa circolarità "ermeneutica" tra interpretazione e rilevazione dell'errore materiale - ben potendo questo risaltare anche da una palese distonia di tipo logico o discorsivo rispetto alla restante trama espositiva del documento.” (Consiglio di Stato, sez. III; 9 dicembre 2020, n. 7758).
Dunque, sulla base degli approdi giurisprudenziali, sono stati precisati i seguenti principi:
Fermo restando il principio di immodificabilità dell'offerta, l'errore materiale può essere rettificato d'ufficio dall'amministrazione soltanto nell'ipotesi in cui lo stesso risulti riconoscibile. Tale riconoscibilità deve comunque essere valutata e valutabile ex ante;
Ciò significa che l'offerente sia incorso in una svista ictu oculi rilevabile, ossia senza svolgere sul punto particolari approfondimenti. Il tutto in base a semplici e intellegibili operazioni di carattere matematico (ossia meri interventi di rettifica del dato numerico non corretto);
Deve inoltre risultare palese l'effettiva volontà negoziale che lo stesso concorrente abbia inteso manifestare, senza particolari attività di verifica o di interpretazione circa il contenuto dell'offerta formulata;
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Più in particolare, una tale volontà deve poter essere ricostruita, ossia rettificata d'ufficio, senza ricorrere ad "ausili esterni" o a fonti di conoscenza estranee all'offerta medesima (quali il soccorso istruttorio, dichiarazioni integrative o rettificative dell'offerente o altri supplementi di natura tecnica). Non deve in altre parole rinvenirsi alcuna "attività manipolativa", da parte della stazione appaltante, onde correggere il suddetto errore materiale”.
Il TAR Napoli si esprime sui provvedimenti di attribuzione a terzi di beni facenti parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico.
TAR Napoli, Sez. IV, sent. del 2 marzo 2021, n. 1398.
La possibilità di attribuire a terzi la disponibilità di beni di proprietà pubblica, assoggettati allo svolgimento di un servizio pubblico, e, quindi, facenti parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico, è tradizionalmente rimessa allo strumento concessorio, tipico provvedimento ampliativo di diritto pubblico.
Ha chiarito il Tar che la possibilità di attribuire a terzi la disponibilità di beni di proprietà pubblica, assoggettati allo svolgimento di un servizio pubblico, e, quindi, facenti parte del patrimonio indisponibile dell’ente pubblico, è tradizionalmente rimessa allo strumento concessorio, tipico provvedimento ampliativo di diritto pubblico (v. in tal senso, Cass. civ., SS.UU., n. 5487 del 2014).
Giova rammentare che la concessione di beni pubblici – qual è quella di cui si discute - è istituto in cui è immanente l’interesse dell’amministrazione a un corretto utilizzo del bene affidato in uso speciale al privato concessionario di talché il contratto che regola il rapporto si rivela essere dipendente logicamente e giuridicamente dal provvedimento con cui si estrinseca il potere di affidamento dell’uso del bene. A tale schema, peraltro, corrisponde la persistenza, anche nella fase esecutiva del rapporto, di poteri di supremazia dell’amministrazione.
In punto di riparto di giurisdizione, quanto si è appena argomentato vale a distinguere la fattispecie in esame dalle figure di concessione ascrivibili alle previsioni del codice degli appalti (art. 3 lett. ‘uu’ e ‘vv’, d.lgs. n. 50 del 2016) rispetto alle quali sta emergendo, nella Corte regolatrice, un indirizzo che restringe la giurisdizione del Giudice amministrativo applicando, per lo più, il criterio di riparto previsto nell'ambito delle procedura di evidenza pubblica (Cass. civ., SS.UU., n. 31027 del 27 novembre 2019 e n. 18267 dell’8 luglio 2019).
Nel caso in esame, trova, invece, applicazione il criterio di cui all’art. 133, comma 1, lett. b, c.p.a. per la concessione di beni pubblici che rimette alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie “aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici, ad eccezione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi e quelle attribuite ai tribunali delle acque pubbliche e al Tribunale superiore delle acque pubbliche”.
Il Tar ha ancora ricordato che nell’ambito delle concessioni di beni pubblici, non è ipotizzabile il rinnovo tacito in quanto non è possibile desumere la volontà della P.A. per implicito e, quindi, al di fuori del procedimento prescritto dalla legge per la sua formazione e senza le forme prescritte a tal fine.
Il principio del divieto di rinnovo dei contratti pubblici scaduti, pur previsto espressamente con riferimento al settore degli appalti, si estende anche al settore delle concessioni dei beni pubblici in quanto esso deriva dall’applicazione della regola, di matrice comunitaria, per cui i beni pubblici contendibili non devono poter essere sottratti per un tempo eccessivo e senza gara al mercato e, quindi, alla possibilità degli operatori economici di ottenerne l’affidamento.
Durata della misura di sostegno e monitoraggio ispirata a finalità di anticorruzione in pendenza della durata del rapporto contrattuale tra la società e l’Amministrazione. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 3 marzo 2021, n. 1791.
La misura del sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8 dell’art. 32, d.l. n. 90 del 2014, è agganciata alla durata del contratto cui si correla, siccome funzionale alla sua corretta gestione ed esecuzione, essendo la ratio sottesa di stabilire, nella pendenza del legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto
L’art. 32, d.l. n. 90 del 2014 rispetto alle misure ispirate da finalità di anticorruzione, prevede tre tipologie di misure applicabili: la prima, di cui al comma 1, lett. a), consistente nella rinnovazione degli organi sociali, mira alla immediata sostituzione del soggetto coinvolto dalle indagini, la seconda di cui al comma 1, lett. b), consistente nella gestione straordinaria e temporanea dell'impresa, implica una gestione sostitutiva ed è finalizzata alla completa esecuzione della
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prestazione oggetto del rapporto contratto in relazione al quale sono emerse le fattispecie di reato o gli altri comportamenti illeciti; la terza, definita sostegno e monitoraggio, individuata al comma 8, di minore impatto persegue una finalità indubbiamente meno invasiva atteso che si risolve nella nomina di uno o più esperti i quali “… forniscono all’impresa prescrizioni operative, elaborate secondo riconosciuti indicatori e modelli di trasparenza, riferite agli ambiti organizzativi, al sistema di controllo interno e agli organi amministrativi di controllo”.
La misura del tutoraggio presuppone che le indagini penali pendenti coinvolgano “componenti di organi societari diversi”, intesi come componenti di organi societari non necessari ai quali, dunque, non è demandata la responsabilità dell’amministrazione dell’azienda e che, dunque, riflettono un minore livello di infiltrazione criminale nei meccanismi vitali dell’impresa.
L’efficacia delle suddette misure è agganciata alla durata del contratto cui si correla la singola misura siccome funzionali alla sua corretta gestione ed esecuzione.
A tale approdo si giunge non solo in base al tenore letterale dell’art. 32 ma anche valorizzando, sulla scorta della giurisprudenza di questa Sezione formatasi in relazione alla misura del commissariamento, la ratio sottesa al reticolo delle disposizioni argomento e che, a fronte di un'ipotesi di illecito penale che coinvolga un contratto pubblico, mira a coniugare le esigenze, da un lato, di evitare che si determinino soluzioni di continuità o difficoltà nella gestione del contratto che possano condurre a fattispecie di inadempimento contrattuale a danno dell'interesse pubblico e, dall'altro lato, di garantire che il contratto stesso sia gestito ed eseguito in modo conforme ai principi di legalità, trasparenza ed efficienza.
D’altro canto, le stesse linee guida Anac, fin dalla loro prima versione del 15 luglio 2014, aggiornata in data 8 luglio 2020), indicano la ratio dell’intervento legislativo giustappunto nell’esigenza di fare in modo che, in presenza delle situazioni patologiche descritte dalla norma, “l’esecuzione del contratto pubblico non venga oltremodo a soffrire di tale situazione”, dal momento che “la prioritaria istanza a cui ha corrisposto il legislatore sembra essere quella di porre rimedio all’affievolimento dell’efficacia dei presidi legalitari da cui appaiono afflitte le procedure contrattuali, senza che ne risentano i tempi di esecuzione della commessa pubblica, finendo col coniugare, dunque, entrambe le descritte esigenze”. Nella detta prospettiva, il legislatore ha, dunque, introdotto misure di chiaro stampo cautelare che spaziano da interventi che incidono, più o meno direttamente, sulla governance (sostegno e monitoraggio ovvero rinnovo degli organi sociali) a misure ad contractum (commissariamento) che si risolvono nella gestione controllata del contratto. Nel caso del tutoraggio è pur vero che il beneficio della misura non ha un’immediata ricaduta sul contratto siccome volto a promuovere un percorso di revisione virtuosa dell’impresa attraverso l’introduzione di un presidio di esperti che, senza incidere sulla composizione ed i poteri degli organi di amministrazione, sono chiamati a riorientarne in senso lato la governance onde ricondurre la gestione complessiva dell’Azienda su binari di legalità e trasparenza con trasversale ricaduta sull’intero assetto organizzativo e gestionale dell’impresa.
Pur tuttavia, tanto i presupposti giustificativi della misura, che le modalità di attuazione non possono che essere permeati dalla finalità di fondo, che è quella di assicurare, nella cornice temporale in cui è attivo un legame contrattuale con l’Amministrazione, le condizioni di piena legalità entro cui può e deve svilupparsi tale rapporto. È, dunque, proprio il perdurante legame che lega l’impresa all’Amministrazione che fonda e giustifica un intervento autoritativo finalizzato a ripristinare una cornice di necessaria legalità entro cui ineludibilmente dovrà svilupparsi tale rapporto.
Annullamento della gara a causa di contrasto tra le regole dettate dalla lex specialis. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 3 mazo 2021, n. 1813
La giurisprudenza del giudice amministrativo ha chiarito che benché il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto abbiano ciascuno una propria autonomia ed una propria peculiare funzione nell’economia della procedura, il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando, tutti insieme costituiscono la lex specialis della gara (Cons. Stato, sez. VI, 15 dicembre 2014, n. 6154; id., sez. V, 5 settembre 2011, n. 4981; id. 25 maggio 2010, n. 3311; id. 12 dicembre 2009, n. 7792), in tal modo sottolineandosi il carattere vincolante che (tutte) quelle disposizioni assumono non solo nei confronti dei concorrenti, ma anche dell’amministrazione appaltante, in attuazione dei principi costituzionali fissati dall’art. 97).
Quanto agli eventuali contrasti (interni) tra le singole disposizioni della lex specialis ed alla loro risoluzione, è stato osservato che tra i ricordati atti sussiste nondimeno una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara (Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2012, n. 5297; id. 23 giugno 2010, n. 3963), laddove le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime (Cons. Stato, sez. III, 29 aprile 2015, n. 2186; id. 11 luglio 2013, n. 3735; id., sez. V, 24 gennaio 2013, n. 439).
Nella specie, i suddetti principi non possono però trovare pratica applicazione.
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L’impossibilità di superare la contraddittorietà delle disposizioni sulla formula da applicare per individuare il valore dell’offerta economica è determinata dal fatto che è lo stesso Capitolato a prevedere regole non conformi, e ciò aggrava la confusione in ordine alla disciplina cui fare riferimento.
Ed invero, sussiste in capo all’amministrazione che indice la gara l’obbligo di chiarezza (espressione del più generale principio di buona fede), la cui violazione comporta – in applicazione del principio di autoresponsabilità – che le conseguenze derivanti dalla presenza di clausole contraddittorie nella lex specialis di gara non possono ricadere sul concorrente che, in modo incolpevole, abbia fatto affidamento su di esse (Cons. Stato, sez. III, 10 giugno 2016, n. 2497).
Tutte le disposizioni che in qualche modo regolano i presupposti, lo svolgimento e la conclusione della gara per la scelta del contraente, siano esse contenute nel bando ovvero nella lettera d’invito e nei loro allegati (disciplinare e capitolato), concorrono a formarne la disciplina e ne costituiscono, nel loro insieme, la lex specialis, per cui in caso di oscurità ed equivocità o erroneità attribuibile alla stazione appaltante, un corretto rapporto tra amministrazione e privato, che sia rispettoso dei principi generali del buon andamento dell’azione amministrativa e di imparzialità e di quello specifico enunciato nell’art. 1337 c.c., che presidia con la buona fede lo svolgimento delle trattative e la formazione del contratto, impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l’affidamento degli interessati in buona fede, interpretandola per ciò che essa espressamente dice, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, attraverso indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati (C.g.a. 20 dicembre 2010, n. 1515).
Venendo al caso di specie, una lettura idonea a superare l’ambiguità non è possibile.
Gli atti della gara in questione sono stati redatti in modo non lineare nel loro insieme – pur essendo di pacifica comprensione presi nella loro singolarità – senza che l’evidente distonia tra due norme del Capitolato possa essere liquidata semplicisticamente come frutto di un mero errore.
Resta infatti difficile, anche accedendo alla tesi del refuso, arrivare alla conclusione dell’appellante, secondo cui non è dubbio che ad essere “palesemente” sbagliata è la formula dell’art. 18 del Capitolato - la cui rubrica, rileva il Collegio, evidenzia però che la norma reca il “criterio di valutazione delle offerte” - mentre a dover essere inequivocabilmente seguito sarebbe il successivo art. 19, che però - sottolinea ancora il Collegio - introduce la “Descrizione dell’offerta tecnica” (come indica la sua rubrica).
Stando così le cose non può trovare neanche applicazione il principio, elaborato da una pacifica giurisprudenza del giudice amministrativo, secondo cui l’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione ed il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di buona fede, ex art. 1366 c.c., devono essere individuati solo in base di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere (Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364; id., sez. V, 27 marzo 2013, n. 1769).
Nel caso all’esame del Collegio non si tratta, infatti, di disposizioni poco chiare di cui va capita la portata, ma di contrasto tra regole dettate dalla lex specialis di gara.
4. Come si è detto, la fondatezza del rilievo del giudice di primo grado in ordine alla “confusione” ingenerata dalla lex specialis con riferimento alla formula utilizzata per calcolare l’offerta economica esonera questo giudice dall’esame dell’ulteriore vizio riscontrato dal Tar Napoli, comportando entrambi i profili di illegittimità l’annullamento dell’intera gara. ***
Per il TAR Bologna la naturopatia non è assimilabile ad attività di estetica e quindi non è assoggettata al regime autorizzatorio.
TAR Bologna, Sez. II, sent. del 4 marzo 2021, n. 207.
L’attività di naturopata svolta presso una erboristeria non è assoggettata al regime autorizzatorio, non essendo assimilabile ad attività di estetica.
Ha ricordato la sentenza che le attività di estetista (definite dall’art. 1, l. n. 1 del 1990) non sono assimilabili a quelle che comportano l'esercizio di discipline bio-naturali, essendo queste ultime caratterizzate da una diversità di approccio e
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di finalità, volte a favorire il miglioramento e la conservazione del benessere globale della persona, a prescindere dal perseguimento di benefici di tipo estetico da ritenersi diversamente dalle prime non regolamentate e completamente liberalizzate. Il naturopata non è una figura professionale giuridicamente legittimata, non esistendo un albo o scuole di formazione legalmente riconosciute, potendo comunque operare nei centri estetici o termali, nei centri fitness o come nel caso di specie nelle erboristerie.
Ha chiarito la sentenza che nel caso sottoposto al Tar l’ispezione effettuata dalla polizia municipale assunta a presupposto dall’impugnata ordinanza non ha evidenziato la presenza di messaggi pubblicitari e/o strumenti volti all’esercizio dell’attività di estetista bensì della pratica di riflessologia plantare, di massaggi orientali, linfodrenaggio ecc. tutte volte a favorire il miglioramento e la conservazione del benessere globale della persona, a prescindere dal perseguimento di benefici di tipo estetico.
Il TAR Catania si esprime sui principi che regolano il diritto di accesso agli atti istruttori dei procedimenti disciplinari.
TAR Catania, Sez. I, sent. del 4 marzo 2021, n. 695.
Il giudizio in materia di accesso - anche se si atteggia impugnatorio nella fase di proposizione del ricorso, in quanto rivolto contro l'atto di diniego o avverso il silenzio - diniego formatosi sulla relativa istanza e il relativo ricorso deve essere esperito nel termine perentorio di 30 giorni - è sostanzialmente rivolto ad accertare la sussistenza o meno del titolo all'accesso nella specifica situazione alla luce dei parametri normativi, indipendentemente dalla maggiore o minore correttezza delle ragioni addotte dall'Amministrazione per giustificarne il diniego. Il giudizio de quo ha per oggetto, dunque, la verifica della spettanza o meno del diritto di accesso.
Il giudice può ordinare l'esibizione dei documenti richiesti, così sostituendosi all'Amministrazione e ordinandole un facere pubblicistico, solo se ne sussistono i presupposti (cfr. art. 116, comma 4, cod. proc. amm.). Questo implica che, al di là degli specifici vizi e della specifica motivazione del provvedimento amministrativo di diniego dell'accesso, il giudice deve verificare se sussistono o meno i presupposti dell'accesso, potendo pertanto negarlo anche per motivi diversi da quelli indicati nel provvedimento amministrativo.
Proprio in ragione di quanto appena evidenziato, nessuna rilevanza può avere il fatto che la parte resistente non ha provveduto - ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 12 aprile 2006, n. 184 - una volta individuati i soggetti controinteressati, a dare comunicazione agli stessi dell’avvenuta presentazione da parte dell’odierno ricorrente della istanza di accesso (onde consentire loro di presentare motivata opposizione), procedendo direttamente al rigetto della domanda di acceso. Ed invero, va ribadito il consolidato orientamento secondo il quale il giudizio in materia di accesso è rivolto all’accertamento della sussistenza o meno del diritto dell'istante all'accesso medesimo e, in tal senso, è dunque un “giudizio sul rapporto”.
In sintesi, parte ricorrente evidenzia - a fondamento delle domande proposte - che l’esigenza di accedere ai documenti richiesti (e, in particolare, agli atti istruttori del procedimento disciplinare relativo ai geometri sospesi) sorge dalla necessità di verificare il rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza e di imparzialità nell’adozione delle sanzioni disciplinari, rilevando ai fini della censura della disparità di trattamento nell’impugnazione della sanzione (cfr., in particolare, pag. 2 della memoria depositata in data 29 dicembre 2020).
Il Collegio osserva che di recente è stata evidenziata l’esistenza di “due le logiche all’interno delle quali opera l’istituto dell’accesso: la logica partecipativa e della trasparenza e quella difensiva”; segnatamente, in ordine alla disciplina dell’art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (il quale stabilisce che deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia “necessaria” per curare o per difendere i propri interessi giuridici e che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia “strettamente indispensabile e nei termini previsti dall' articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”), la “logica difensiva è costruita intorno al principio dell’accessibilità dei documenti amministrativi per esigenze di tutela e si traduce in un onere aggravato sul piano probatorio, nel senso che grava sulla parte interessata l’onere di dimostrare che il documento al quale intende accedere è necessario (o, addirittura, strettamente indispensabile se concerne dati sensibili o giudiziari) per la cura o la difesa dei propri interessi.
La tecnica legislativa utilizzata nel comma 7, rispetto ai precedenti commi del medesimo art. 24, avvalora la tesi che questo aggravamento probatorio in tanto si giustifica, proprio in quanto si fuoriesce dalla stretta logica partecipativa e di trasparenza, per entrare in quella, diversa, difensiva” (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 25 settembre 2020, n. 19). 1 Orbene, va in primo luogo evidenziato che in sede di accesso ai documenti, pur dovendo riconoscersi il tradizionale valore di “chiusura” al c.d. accesso difensivo, deve escludersi che le esigenze di cura e difesa di interessi giuridici contemplate
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dal citato art. 24, comma 7, legge 7 agosto 1990, n. 241 possano essere tutelate sino al punto di ammettere istanze di accesso “riferite a rapporti estranei dalla sfera giuridica del richiedente” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 19 marzo 2020, n. 1939; Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2017, n. 4043). In secondo luogo, il Collegio ritiene che la necessità degli atti di cui si chiede l’ostensione per esigenze difensive, prevista dal più volte citato art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241, non sussiste laddove il richiedente non ha alcuna prova del vizio di disparità di trattamento, meramente ipotetico, e mira a fare un’indagine alla ricerca di tale vizio; in casi del genere, invero, l'indagine potrebbe anche, ad esibizione degli atti avvenuta, risolversi nell'assenza del vizio suddetto, ovvero nell'assenza in relazione a talune pratiche visionate, con il risultato che la privacy è violata senza che il diritto di difesa sia stato soddisfatto.
Infine, l’esigenza di tutela della riservatezza non potrebbe ritenersi soddisfatta con l’accorgimento dell’oscuramento dei nomi (peraltro già conosciuti), in quanto è proprio il complesso dell’attività concernente la fase istruttoria e decisoria del procedimento disciplinare (acquisizione dei dati concernenti la morosità; contestazione disciplinare e giustificazioni addotte dall’incolpato; motivazione della sanzione irrogata) che forma oggetto di tutela. 3. In conclusione, il ricorso proposto deve essere respinto in ogni sua domanda.
Modifica della qualificazione del ricorso per revocazione da straordinaria in ordinaria da parte del giudice: natura e conseguenze. Pronuncia del CGARS.
CGARS, Sez. giurisdizionale, sent. del 5 marzo 2021, n. 192.
Ove il giudice modifichi la qualificazione del ricorso per revocazione da straordinaria in ordinaria, trovano applicazione i diversi e più brevi termini entro cui può essere proposto il rimedio revocatorio ordinario e i casi in cui lo stesso è proponibile
Ha affermato il CGARS che mutandosi la qualificazione della revocazione da straordinaria in ordinaria, devono applicarsi i diversi e più brevi termini entro cui può essere proposto il rimedio revocatorio ordinario e i casi in cui lo stesso è proponibile.
È pacifico che ex art. 92 c.p.a. il termine per proporre la revocazione ordinaria è di sessanta giorni decorrenti dalla notifica della sentenza ovvero di sei mesi dal deposito della sentenza non notificata. Nel caso che ci occupa, al momento della notificazione del ricorso per revocazione, i termini massimi per proporre la revocazione ordinaria della sentenza de quo erano ampiamente superati.
In secondo luogo, ai sensi dell’art. 106, comma 3, c.p.a., “contro le sentenze dei tribunali amministrativi regionali la revocazione è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello”. La previsione va interpretata nel senso che contro le sentenze dei Tar è ammesso solo il rimedio della revocazione straordinaria, e non anche quello della revocazione ordinaria. Infatti, dato che i termini della revocazione ordinaria sono identici ai termini dell’appello, i vizi di revocazione ordinaria delle sentenze dei Tar si convertono in motivi di appello e si fanno valere con il rimedio dell’appello. Quindi, l’impedimento “oggettivo” a proporre appello, ricorre solo nel caso di revocazione straordinaria, e non può logicamente ricorrere in caso di revocazione ordinaria.
Non può invece condividersi una diversa esegesi dell’art. 106, comma 3 c.p.a., secondo cui la revocazione ordinaria di una sentenza del Tar sarebbe ammissibile in caso di impedimento “soggettivo” a proporre appello. Infatti, chi è parte del giudizio di primo grado, ancorché parte non costituita, può sempre proporre l’appello. Chi non è parte, si avvale del diverso rimedio dell’opposizione di terzo. Dunque l’art. 106, comma 3, c.p.a. fa riferimento solo ad un “impedimento oggettivo” a proporre appello, che a sua volta ricorre nel solo caso di revocazione straordinaria, e non ad un impedimento soggettivo.
Legittima la previsione di un punteggio aggiuntivo per le imprese che esprimono un apprezzabile radicamento nel territorio. Pronuncia del TAR Catanzaro.
TAR Catanzaro, Sez. I, sent. del 5 marzo 2021, n. 472.
Venendo al merito della questione, la clausola controversa introduce, nel novero degli elementi tramite i quali valutare l’offerta tecnica (e non, si puntualizza, nell’ambito dei requisiti per l’ammissione alla gara), un profilo non rientrante direttamente nel capitolo prestazionale in sé e per sé considerato, quanto piuttosto – in quanto riconducibile al “fatto storico” (come qualificato dal ricorrente) dell’esperienza soggettiva pregressa dei concorrenti nel territorio provinciale ove il controverso servizio dovrà essere espletato – inquadrabile nell’ambito dei requisiti soggettivi in possesso dei concorrenti.
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Sull’aspetto ora evidenziato – quello, cioè, della commistione tra caratteristiche oggettive dell’offerta presentata in una determinata gara e requisiti soggettivi in possesso del concorrente (tematica sulla quale la giurisprudenza aveva, in passato, opposto dubbi di ammissibilità, atteso che la riferibilità di tali clausole non al proprium dell’offerta quanto al curriculum maturato avrebbe determinato l’insorgere di indebite discriminazioni e distorsioni alla concorrenza) – la giurisprudenza (anche questa Sezione: cfr. sentenza n. 357 del 22.2.2021) ha avuto modo osservare che “la possibilità di applicare in maniera “attenuata” il divieto generale, di derivazione comunitaria, di commistione tra le caratteristiche oggettive della offerta e i requisiti soggettivi della impresa concorrente, è da ritenere ammessa soltanto a) se aspetti dell’attività dell’impresa possano effettivamente “illuminare” la qualità della offerta (cfr. CdS, VI, 2770/08 e sez. V n. 837/09), e b) a condizione che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell’aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell’appalto, non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo” (Consiglio di Stato sez. V, 3.10.2012, n.5197).
E’ stato, infatti, rilevato che un’applicazione meno rigida dell’incondizionata affermazione di tale divieto “deve però essere mantenuta entro rigorosi limiti applicativi; in particolare, pur potendosi ritenere superata l’iniziale differenziazione tra appalti di servizi e appalti di lavori (tuttavia ancora confermata, incidentalmente, da Cons. Stato, V, 17 gennaio 2018, n. 279), va in linea di principio data continuità e riconfermato il fondamento del divieto di commistione tra requisiti soggettivi di partecipazione e requisiti oggettivi di valutazione dell’offerta, con la specificazione che ne è tuttavia consentita un’applicazione attenuata, secondo criteri di proporzionalità, ragionevolezza ed adeguatezza, quando sia dimostrato, caso per caso, che per le qualificazioni possedute il concorrente offra garanzie di qualità nell’esecuzione del contratto apprezzabili in sede di valutazione tecnica delle offerte (cfr. Cons. Stato, III, 27 settembre 2016, n. 3970)”, tenuto conto che “l’ammissibilità di aspetti attinenti al profilo soggettivo è condizionata al fatto che detti elementi possano non vengano apprezzati, in astratto, come requisito meramente soggettivo dell’impresa partecipante, ma costituiscano un elemento di valutazione strettamente correlato all’oggetto dell’appalto e afferente all’offerta tecnica presentata, condizionando l’esecuzione del contratto, nei termini e secondo modalità specificamente apprezzate dalla stazione appaltante; e sempre che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell’aggiudicazione, al requisito in parola non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo” (Consiglio di Stato, Sez. V, 17.3.2020, n. 1916).
Per completezza, si precisa che, sulla stessa lunghezza d’onda, è stato altresì affermato che: “Non è irragionevole attribuire un determinato punteggio, in sede di gara d’appalto, peraltro non determinante, ad operatori che hanno già svolto attività sociali nella Regione, con ciò maturando una significativa esperienza delle necessità locali, ovvero che hanno una loro sede nell’ambito della Regione, il che esprime un apprezzabile radicamento nel territorio e semplifica i rapporti con la ditta che si aggiudica la commessa” (T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 8.4.2011, n.190).
Trasposte al caso controverso le succitate coordinate interpretative (ritenute, peraltro, pienamente rispettose del diritto euronitario), ne consegue che la contestata clausola della legge di gara, in sé considerata, non appaia irragionevole e la relativa previsione non risulti censurabile in sede giurisdizionale………..
Consegue da quanto esposto che, quantunque, in astratto, anche soggetti privi di una rete di relazioni sul territorio (non avendo precedentemente gestito servizi di accoglienza in tale ambito territoriale) possano costruire, nel corso dell’espletamento del servizio, una rete idonea a radicarsi sul territorio, è anche vero che la previsione di un punteggio aggiuntivo per chi già possiede tale integrazione per aver espletato il medesimo servizio in precedenza, può consentire di valorizzare l’idoneità della rete già formata nel tempo quale “quid pluris” astrattamente idoneo a migliorare il servizio da espletare.
Anche sotto l’aspetto del peso della contestata clausola nell’economia della gara, il punteggio attribuito al controverso sub-criterio (pari a 10 punti rispetto al totale di 100 punti attribuibili all’offerta tecnica nel suo complesso) risulta ragionevolmente equilibrato e, dunque, inidoneo a sbilanciare le posizioni tra i competitor tramite l’insorgere di distorsioni anticoncorrenziali.
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Il Consiglio di Stato si esprime sulla violazione delle distanze tra edifici.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 5 marzo 2021, n. 1867.
Qualora sia evidente la violazione delle distanze tra edifici diventa irrilevante la qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia e dunque l’inapplicabilità dell’art. 9, d.m. n. 1444 del 1968, che riguarda esclusivamente le nuove costruzioni.
Ha ricordato la Sezione che la giurisprudenza, sia amministrativa che civile (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612; id. 28 ottobre 2019, n. 27476; id. 10 febbraio 2020, n. 3043) ha evidenziato una tendenziale autonomia del
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concetto in ambito civilistico, rimarcando che, ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici di origine codicistica, la nozione di costruzione non può identificarsi con quella di edificio, ma deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Nel caso all’esame della Sezione, vengono in evidenza interventi sulla volumetria dell’immobile. In relazione ai singoli elementi progettuali, la violazione delle distanze appare evidente, essendo così conseguentemente irrilevante la vantata qualificazione delle opere come interventi di ristrutturazione edilizia.
Va inoltre qui vagliata la circostanza che, nel computo complessivo della volumetria, l’intervento, compensando aumenti e diminuzioni, determina una complessiva riduzione dell’impatto; il che renderebbe l’intervento non significativo anche dal punto di vista civilistico.
Tuttavia, tale esito appare recessivo di fronte all’esigenza di tutelare le distanze che, come recita il citato art. 9, sono quelle minime e che quindi possono essere violate anche solo puntualmente, atteso che il carattere di nuova costruzione va riscontrato in rapporto ai “caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno” (Cass. civ., sez. II, 15 dicembre 2020, n. 28612).
La Suprema Corte si esprime in tema di risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo.
Corte di Cassazione, Sez. IV, sent. dell'8 marzo 2021, n. 6319.
In tema di risarcimento del danno in caso di licenziamento illegittimo, la Sezione Lavoro ha affermato, dando seguito a quanto stabilito dalla Corte di giustizia U.E. con la sentenza 25 giugno 2020, cause riunite C-762/18 e C-37/19, che, nell’intervallo temporale tra la data di licenziamento e quella di reintegrazione, il lavoratore ha diritto a vedersi corrispondere anche l’indennità sostitutiva delle ferie, dei permessi e delle festività non godute, atteso che il diritto alle ferie, previsto dall’art. 31, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dalla dir. 2003/88/CE, come interpretati dalla Corte di giustizia, non può essere subordinato all’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa qualora tale svolgimento sia impedito da fattori imprevedibili ed estranei alla volontà del lavoratore, tra cui rientra l’iniziativa del datore di lavoro, rivelatasi poi illegittima.
Non costituisce falso, e quindi non comporta l'esclusione dalla gara, l'omessa indicazione di aver riportato una condanna per bancarotta fraudolenta. Pronuncia del TAR Bologna.
TAR Bologna, Sez. I, sent. dell'8 marzo 2021, n. 208.
Costituisce dichiarazione reticente, e quindi incompleta, ma non falsa ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f bis, d.lgs. n. 50 del 2016, l’omessa indicazione di aver riportato una condanna per bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 c.p.; la bancarotta fraudolenta non rientra, infatti nel reato di frode - annoverato dalla stazione appaltante nel documento di gara unico europeo come condanna da indicare se riportata - secondo un interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia
Ha ricordato il Tar che la più recente giurisprudenza ha distinto tra l’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza, con conseguente facoltà della stazione appaltante di valutare la stessa ai fini dell’attendibilità e dell’integrità dell’operatore economico e la falsità delle dichiarazioni, ovvero la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, dove si rappresenta una circostanza in fatto diversa dal vero, cui consegue l’automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell’inaffidabilità e della non integrità dell’operatore economico, mentre ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l’esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull’affidabilità dello stesso.
Solo alla condotta che integra una falsa dichiarazione consegue l'automatica esclusione dalla procedura di gara poiché depone in maniera inequivocabile nel senso dell'inaffidabilità e della non integrità dell'operatore economico, mentre, ogni altra condotta, omissiva o reticente che sia, comporta l'esclusione dalla procedura solo per via di un apprezzamento da parte della stazione appaltante che sia prognosi sfavorevole sull'affidabilità dello stesso (...). Il concetto di “falso”,
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nell'ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera. Dunque, il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso.
Ha aggiunto il Tar, con precipuo riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, che il riferimento operato nel DGUE alla condanna (tra gli altri) per “frode” (ricompreso nell’elenco ivi predisposto dalla stazione appaltante) e non già a quelle di “bancarotta fraudolenta” concretamente riportata, può esimere da responsabilità il dichiarante, non rientrandovi la fattispecie di cui all’art. 216 c.p., secondo una interpretazione necessariamente non estensiva stante il principio di tassatività delle cause di esclusione valevole in subiecta materia e coerente con la disciplina comunitaria.
La condanna per frode indicata nello schema di DGUE predisposto dalla stazione appaltante tra le condanne da dichiarare da parte dei concorrenti opera un chiaro riferimento all’art. 80, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 in tema di condanne penali definitive automaticamente escludenti, tra cui alla lett. c) è ricompresa la “frode ai sensi dell’articolo 1 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee”. Ad avviso del Tar si tratta di una fattispecie incriminatrice riguardante i soli fatti commessi in danno della predetta Comunità potendovi ad es. far rientrare la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 c.p.) ma non la bancarotta fraudolenta, stante la non identità del bene protetto dalla norma ovvero in tal ultima fattispecie dell'interesse dei creditori all'integrità del patrimonio del debitore a garanzia del soddisfacimento del credito (Cass. pen., sez. V, 21 settembre 2007, n. 39043). Non a caso la stessa Anac nelle Linee Guida n. 6 pur non avendo tale atto valore normativo né vincolante per la stazione appaltante annovera i reati fallimentari tra le cause di esclusione non automaticamente escludenti di cui al citato comma 5 lett c) e non del comma 1 dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016.
Il TAR Toscana si esprime sulla illegittimità delle proroghe delle concessioni demaniali marittime fino al 2033.
TAR Toscana, Sez. II, sent. dell'8 marzo 2021, n. 363.
Il rilascio delle concessioni demaniali che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE è subordinato all’espletamento di una procedura di selezione tra potenziali candidati, che deve presentare garanzie di imparzialità, trasparenza e pubblicità, con la conseguenza che è illegittima la proroga disposta dall’Amministrazione resistente e la conseguente decisione di non dar corso alla procedura comparativa perchè disposte in aperta violazione del divieto, introdotto dalla normativa eurounitaria, di applicazione dell’art. 1, commi 682 e 683, l. n. 145 del 2018
Ha ricordato la Sezione che prima ancora della nota sentenza della Corte di Giustizia del 14 luglio 2016 (in cause riunite C-458/14, Promoimpresa S.r.l. e C-67/15, Mario Melis e altri), la giurisprudenza aveva già largamente aderito all’interpretazione dell’art. 37 cod. nav. che privilegia l’esperimento della selezione pubblica nel rilascio delle concessioni demaniali marittime, derivante dall’esigenza di applicare le norme conformemente ai principi comunitari in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, sanciti dalla direttiva 123/2016, essendo pacifico che tali principi si applicano anche a materie diverse dagli appalti, in quanto riconducibili ad attività, suscettibile di apprezzamento in termini economici.
In tal senso si era espresso, già da tempo risalente, il Consiglio di Stato che ha ritenuto applicabili i detti principi “anche alle concessioni di beni pubblici, fungendo da parametro di interpretazione e limitazione del diritto di insistenza di cui all' art. 37 del codice della navigazione”, sottolineandosi che “la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione di area demaniale marittima si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato, tale da imporre una procedura competitiva ispirata ai ricordati principi di trasparenza e non discriminazione”.
Detti principi sono stati riaffermati dalla Corte di Giustizia UE, nella nota sentenza sez. V, 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, ad avviso della quale “L'articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati”. Da tale sentenza, si desume che la proroga ex lege delle concessioni demaniali aventi natura turistico-ricreativa non può essere generalizzata, dovendo la normativa nazionale ispirarsi alle regole della Unione europea sulla indizione delle gare.
La Corte di Giustizia, più specificamente, chiamata a pronunciarsi sulla portata dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE (cd. Bolkestein) del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (direttiva servizi), ha affermato, in primo luogo, che le concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo rientrano in linea di principio nel campo di applicazione della suindicata direttiva, restando rimessa al giudice nazionale
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la valutazione circa la natura “scarsa” o meno della risorsa naturale attribuita in concessione, con conseguente illegittimità di un regime di proroga ex lege delle concessioni aventi ad oggetto risorse naturali scarse, regime ritenuto equivalente al rinnovo automatico delle concessioni in essere, espressamente vietato dall’art. 12 della direttiva.
In secondo luogo, la Corte di giustizia ha affermato che, per le concessioni alle quali la direttiva non può trovare applicazione, l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) osta a una normativa nazionale, come quella italiana oggetto dei rinvii pregiudiziali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo.
Pertanto, in seguito alla soppressione, in ragione delle disposizioni legislative sopra richiamate, dell’istituto del “diritto di insistenza”, ossia del diritto di preferenza dei concessionari uscenti, l’amministrazione che intenda procedere a una nuova concessione del bene demaniale marittimo con finalità turistico-ricreativa, in aderenza ai principi eurounitari della libera di circolazione dei servizi, della par condicio, dell’imparzialità e della trasparenza, ai sensi del novellato art. 37 cod. nav., è tenuta ad indire una procedura selettiva e a dare prevalenza alla proposta di gestione privata del bene che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e risponda a un più rilevante interesse pubblico, anche sotto il profilo economico.
A fronte dell’intervenuta cessazione del rapporto concessorio, come sopra già evidenziato, il titolare del titolo concessorio in questione può vantare un mero interesse di fatto a che l’amministrazione proceda ad una nuova concessione in suo favore e non già una situazione qualificata in qualità di concessionario uscente, con conseguente inconfigurabilità di alcun obbligo di proroga ex lege o da parte dell’amministrazione.
Ne deriva che l’operatività delle proroghe disposte dal legislatore nazionale non può che essere esclusa in ossequio alla pronuncia del 2016 del giudice eurounitario, come già stabilito dal Consiglio di Stato, sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874, con riferimento, sia alle proroghe disposte dall'art. 1, comma 18, d.l. n. 194 del 2009 e dall'art. 34-duodecies, d.l. n. 179 del 2012, e, a decorrere dal 1° gennaio 2013, dall'art. 1, comma 547, l. 24 dicembre 2012, n. 228, sia alla proroga legislativa automatica delle concessioni demaniali in essere fino al 2033, disposta dall’articolo unico, comma 683, l. 30 dicembre 2018, n. 145.
Di talché la proroga legale delle concessioni demaniali in assenza di gara “non può avere cittadinanza nel nostro ordinamento”.
Nel caso di specie, deve dunque trovare applicazione la Direttiva 2006/123/CE (c.d. “Direttiva Servizi”), il cui art. 12 prevede chiaramente che «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento» (par. 1) e che, in tali casi, «l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami» (par. 2).
Tale Direttiva è espressiva di norme immediatamente precettive – in particolare, sotto il profilo della precisa e puntuale “norma di divieto” che si rivolge, senza che occorra alcuna disciplina attuativa di sorta da parte degli Stati membri, a qualunque ipotesi (tanto più se generalizzata e incondizionata come nel caso di specie) di proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico-ricreative, in assenza di procedura di selezione tra i potenziali candidati. E rispetto a tale “norma di divieto”, indiscutibilmente dotata di efficacia diretta, il diritto interno è necessariamente tenuto a conformarsi.
Peraltro, anche la Corte Costituzionale, con la recente sentenza n. 10 del 29 gennaio 2021, in relazione ad una norma di legge regionale che prevedeva un meccanismo di rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime già esistenti, ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, affermando fra l’altro, che tale meccanismo di rinnovo sottrarrebbe le concessioni “alle procedure a evidenza pubblica conformi ai principi, comunitari e statali, di tutela della concorrenza… per consentire de facto la mera prosecuzione dei rapporti concessori già in essere, con un effetto di proroga sostanzialmente automatica – o comunque sottratta alla disciplina concorrenziale – in favore dei precedenti titolari. Un effetto, come poc’anzi rammentato, già più volte ritenuto costituzionalmente illegittimo da questa Corte”.
Il Tar ha aggiunto che l’applicabilità della Direttiva europea non può dipendere dall’epoca del rilascio concessioni, dovendo trovare applicazione il principio tempus regit actum e dovendo il provvedimento amministrativo di proroga essere esaminato alla luce della disciplina anche eurounitaria vigente.
Il Consiglio di Stato si esprime sulla giurisdizione in materia di graduatorie scolastiche di istituto nelle quali si attinge per le supplenze.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 9 marzo 2021, n. 2007.
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Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia proposta avverso le graduatorie scolastiche di istituto per le supplenze di cui all’art. 4, commi 6-bis e 6-ter, l. n. 124 del 1999 nel caso in cui non venga in considerazione il diritto a permanere nelle graduatorie permanenti ad esaurimento del personale docente (GAE), bensì la diversa ipotesi che ha quale presupposto le graduatorie d’istituto, a cui il Dirigente scolastico attinge per supplenze annuali o temporanee, e la domanda giudiziale riguarda direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo di formazioni di tali graduatorie a cui corrisponde una posizione soggettiva di interessa legittimo
Ha ricordato la Sezione che le procedure relative alla formazione e all’aggiornamento delle graduatorie permanenti (GAE) del personale docente non sono procedure concorsuali, onde non può ritenersi la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 165 del 2001. Si tratta, infatti, di atti che non possono che restare ricompresi tra le determinazioni assunte con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato ex art. 5, comma 2, del richiamato decreto legislativo, a fronte dei quali sussistono solo posizioni di diritto soggettivo, poiché le pretesa consiste solo nella conformità o difformità a legge degli atti inerenti al rapporto già instaurato e, dunque, di gestione della graduatoria.
Diversa la conclusione nel caso in cui non venga in considerazione il diritto a permanere nelle citate GAE, bensì la ben diversa ipotesi, già presa in considerazione dalla giurisprudenza (Cass.civ., sez. un., n. 21198 del 2017), che ha quale presupposto le graduatorie d’istituto, a cui il Dirigente scolastico attinge per supplenze annuali o temporanee, e la domanda giudiziale riguarda direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo di formazioni di tali graduatorie a cui corrisponde una posizione soggettiva di interessa legittimo.
La giurisprudenza citata (Cass.civ., sez. un., n. 21198 del 2017), infatti, pur affermando la generale sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario per le controversie relative al collocamento nelle graduatorie permanenti (GAE) del personale docente – e pur non escludendo, anche in questo ambito, la possibile permanenza di una residuale giurisdizione del giudice amministrativo (Cass.civ., sez. un., n. 27991 e n. 27992 del 2013) - è pervenuta ad una diversa conclusione nelle controversie riguardanti le graduatorie d’istituto, poiché in tale caso, per consolidata giurisprudenza amministrativa, ricorrono tutti gli elementi caratteristici della procedura concorsuale pubblica: il bando iniziale, la fissazione dei criteri valutativi dei titoli, la presenza di una Commissione incaricata della valutazione dei titoli dei candidati, la formazione di una graduatoria finale.
Pertanto, non si applicano in questo caso i principi affermati dalla giurisprudenza in materia di collocamento dei docenti nelle graduatorie permanenti ad esaurimento (GAE), per le quali normalmente è esclusa ogni tipologia di attività autoritativa sulla base di valutazioni discrezionali della PA, venendo in rilievo atti che non possono che restare ricompresi tra le determinazioni assunte con la capacità ed i poteri del datore di lavoro privato ex art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001.
Le disposizioni dettate da un Piano di assetto idrogeologico sono irretroattive. Pronuncia del Consiglio di Stato. Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 10 marzo 2021, n. 2038.
Le disposizioni di un Piano di assetto idrogeologico (Pai) che circoscrivono l’efficacia ai nuovi interventi costruttivi non possono essere interpretate come applicabili anche alle richieste di sanatoria edilizia.
Ha ricordato la sentenza che se è evidente che i limiti e i vincoli fissati dal Piano non possono che riferirsi alle opere successive alla sua entrata in vigore, ciò non può valere per quegli interventi realizzati senza titolo sui quali è chiesto l’accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e, pertanto, per esse non può non valere anche il requisito della doppia conformità alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione che al momento della presentazione dell’istanza
Il Consiglio di Stato si esprima in tema di annullamento, da parte della Soprintendenza, dell'autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 10 marzo 2021, n. 2041.
L’omessa indicazione della specifica disposizione violata del Codice dei beni culturali ed ambientali non determina l’illegittimità del provvedimento adottato dalla Soprintendenza con il quale è stata annullata una autorizzazione paesaggistica rilasciata da un Comune, se nel decreto è fatto riferimento alla violazione del decreto ministeriale che ha sottoposto l’area di interesse al vincolo, il che consente di individuare la violazione delle norme contenute del Codice.
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La sentenza ha altresì escluso che la motivazione addotta dal primo giudice sia contraddittoria in quanto da un lato afferma che si deve tener conto della “percezione dell’insieme connessa ai punti di vista o di belvedere” e dall’altro che i manufatti fossero visibili anche da altri luoghi con ciò dando rilievo alla circostanza, che non sarebbe contemplata nelle norme di riferimento, che le opere fossero visibili da punti, diversi da quelli di belvedere, posti all’interno dell’area vincolata. La sentenza fa infatti espressamente riferimento alla formulazione dell’art. 139, comma 1, lett. d), del codice in relazione sia ai “punti di vista” che ai punti di “belvedere”, precisando che ciò preclude una distinzione tra interno ed esterno del territorio protetto e giungendo quindi alla conclusione che la tutela della visibilità non è limitata esclusivamente ai punti di belvedere.
La Corte di Cassazione si esprime in tema di frode assicurativa ex art. 642 cod. penale. Corte di Cassazione, Sez. II, sent. del 10 marzo 2021, n. 9553.
In tema di frode assicurativa, la Seconda sezione ha affermato che la falsificazione della documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione, prevista dall’art. 642 cod. pen., può essere integrata tanto da una falsità materiale quanto da una falsità ideologica poiché la norma, a differenza di quelle in tema di reati di falso, non distingue espressamente tra i due tipi di falsità.
“LEGGE SEVERINO”: LA SOSPENSIONE AUTOMATICA DEL CONSIGLIERE REGIONALE CONDANNATO IN VIA NON DEFINITIVA NON CONTRASTA CON LA CONVENZIONE EDU
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato dell’11 marzo 2021.
Non contrasta con l’articolo 3 del Protocollo addizionale alla CEDU sulla tutela del diritto di voto attivo e passivo, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, la sospensione automatica dalla carica prevista dalla “legge Severino”
(d.lgs. n. 235 del 2012) di chi sia stato condannato in via non definitiva per reati di particolare gravità o commessi contro la pubblica amministrazione. È quanto si legge nella sentenza sentenza n. 35, depositata oggi (redattrice Daria de Pretis), con cui la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della “legge Severino” sollevate dal Tribunale di Genova, davanti al quale è stato impugnato il provvedimento di sospensione dalla carica di un consigliere regionale ligure condannato in primo grado per peculato.
In base alla giurisprudenza della Corte EDU, i legislatori nazionali godono di un ampio margine di apprezzamento nella disciplina del diritto di elettorato passivo, in particolare quando viene in gioco la peculiare esigenza di garantire stabilità ed effettività di un sistema democratico nel quadro del concetto di «democrazia capace di difendere se stessa». E questo è il caso della disposizione censurata che, con la previsione di determinati requisiti di onorabilità degli eletti, mira a garantire l’integrità del processo democratico nonché la trasparenza e la tutela dell’immagine dell’amministrazione.
Pertanto, la previsione dell’applicazione automatica della misura non contrasta con il citato articolo 3 del Protocollo CEDU solo perché non affida ai giudici nazionali il potere di individualizzarla. In base alla giurisprudenza di Strasburgo, infatti, gli Stati contraenti possono scegliere se affidare al giudice la valutazione sulla proporzionalità della misura o incorporare questo apprezzamento nel testo della legge, attraverso un bilanciamento a priori degli interessi in gioco. Nella sentenza la Corte ha anche negato che vi sia stata violazione del principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni, per l’esistenza di una competenza regionale in materia di ineleggibilità e incompatibilità dei consiglieri regionali prevista dall’articolo 122 della Costituzione. Il nucleo essenziale della disciplina della sospensione contenuta nel d.lgs. n. 235 del 2012 va ricondotto, sulla base del criterio della prevalenza, alla materia di competenza statale esclusiva «ordine pubblico e sicurezza» (articolo 117, comma 2, lettera h, Costituzione). Non si tratta, quindi, di un’ipotesi di intreccio inestricabile di materie, che solo imporrebbe il previo coinvolgimento delle Regioni.
Principio di precauzione nell'ambito della circolazione di piante contaminate o contaminabili dal batterio Xylella. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 11 marzo 2021, n. 2096.
È legittimo l’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, pur trattandosi di pianta non contaminata né contaminabile dallo specifico agente patogeno da debellare
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Ha premesso la Sezione che la materia in esame è soggetta all’applicazione del principio di precauzione.
L’ordito delle pertinenti fonti comunitarie trae origine dalla direttiva UE n. 2000/29, la quale ha inteso perseguire l’obiettivo di garantire un elevato livello di protezione fitosanitaria contro l'introduzione nell'Unione di organismi nocivi nei prodotti importati da paesi terzi. Le più specifiche regole di contenimento della circolazione di piante contaminate o contaminabili dal batterio Xylella si sono conformate a questo obiettivo di fondo, in quanto sono state concepite come misure strettamente funzionali all’eradicazione del batterio, ovvero alla circoscrizione della sua ulteriore diffusione all'infuori della Regione Puglia.
Su questo sfondo strategico si innesta il richiamo al principio di precauzione, criterio di orientamento certamente invocabile in un ambito di interessi (la salubrità e la salute delle piante) quali quelli che rilevano nella materia fitosanitaria (v., in tal senso, Corte giustizia UE sez. I, n. 78/2016, punti 53-55).
Il principio di precauzione, estendendo l’azione di contrasto anche ad aree di rischio non ancora accertate ma potenziali, consente un approccio più efficace avverso l’introduzione e la diffusione degli agenti infestanti; esso quindi amplia l’impatto della tutela di interessi prevalenti (presi in considerazione dalla direttiva del 2000), attraverso una bilanciata e proporzionata opzione di preferenza su altri istanze con essi antagoniste (il commercio e l’iniziativa economicoimprenditoriale).
Se queste sono le finalità avute di mira dalle autorità regolatrici, in piena coerenza con i principi della normativa comunitaria, appare del tutto evidente l’irrilevanza della specifica destinazione d’uso della merce potenziale vettrice del batterio. È infatti trascurabile la circostanza che le barbatelle di vite non siano destinate al consumatore finale ma ad altri imprenditori, poiché ciò che rileva è unicamente il nesso tra la loro movimentazione e l’incremento del rischio di diffusione del batterio, nesso che, appunto, le misure di contrasto hanno inteso cautelativamente sciogliere. Proprio nella materia delle misure di contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa sul territorio pugliese, questa sezione ha già avuto modo di ricordare, come del resto ha fatto la Corte di Giustizia UE nella già citata sentenza del 9 giugno 2016, in C-78/16 (punti 47-48): a) che il legislatore dell’Unione, al pari del legislatore nazionale, deve tenere conto del principio di precauzione, in virtù del quale, quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi; b) che qualora risulti impossibile determinare con certezza l’esistenza o la portata del rischio asserito, a causa della natura non concludente dei risultati degli studi condotti, ma persista la probabilità di un danno reale (per la salute pubblica o per l’equilibrio fitosanitario) nell’ipotesi in cui il rischio si realizzasse, il principio di precauzione giustifica l’adozione di misure restrittive (v., in particolare, Corte di Giustizia UE, 17 dicembre 2015, in C-157/14, punti 81-82); c) che il suddetto principio deve, inoltre, essere applicato tenendo conto del principio di proporzionalità, il quale esige che gli atti delle istituzioni dell’Unione e quelli adottati dalle amministrazioni nazionali in conseguenza non superino i limiti di ciò che è appropriato e necessario per il conseguimento degli obiettivi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere a quella meno gravosa, e che gli inconvenienti causati non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti.
Quanto, poi, all’inserimento della Vitis nell’elenco delle piante specificate, cioè sensibili a tutti i ceppi batterici di Xylella fastidiosa, ha ricordato la Sezione che il quinto considerando della decisione UE n. 2352/2017 chiarisce che “Le prove scientifiche cui fa riferimento l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) nel parere scientifico del gennaio 2015 indicano che esiste la possibilità di una ricombinazione genetica tra diverse sottospecie dell'organismo specificato rilevato in altre parti del mondo, con effetti su nuove specie vegetali che non erano mai risultate infette dalle sottospecie interessate. Di conseguenza, al fine di garantire un approccio più precauzionale e dato che recentemente sono state rilevate diverse sottospecie nell'Unione, è importante chiarire che, qualora in una zona siano state rilevate più di una sottospecie dell'organismo specificato, tale zona dovrebbe essere delimitata in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie. Inoltre, se l'individuazione della presenza di una sottospecie è in corso, lo Stato membro interessato dovrebbe delimitare in via precauzionale anche tale zona in relazione all'organismo specificato e a tutte le sue possibili sottospecie”
Sono, dunque, le stesse fonti scientifiche prese in considerazione dalla Commissione UE a confermare come all’epoca non esistesse alcuna certezza assoluta sulla non contaminabilità della Vitis ad una delle sottospecie del batterio da Xylella, il che giustificava, in una logica di complessiva precauzione ed al fine di evitare anche solo la potenziale infezione e diffusione dell'organismo specificato, l’adozione delle misure qui contestate.
Su questa base si sono orientate le iniziative delle autorità comunitarie e nazionali, sino a che le evidenze scientifiche hanno giustificato un graduale cambio di strategia.
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Concessioni a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato e limiti temporali per l’esercizio del potere di autotutela. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 15 marzo 2021, n. 2207.
E’ legittimo il decreto del Ministero dei beni culturali ed ambientali che ha ritirato l'affidamento in concessione del bene immobile culturale denominato della Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone, alla Dignitatis Humanae, a causa della mancanza dei requisiti richiesti dal bando che riguardavano non solo la personalità giuridica, ma anche lo Statuto dell'associazione, che al tempo della presentazione della domanda non riportava gli indirizzi di tutela e valorizzazione richiesti dal ministero
Il limite temporale dei 18 mesi per l’esercizio del potere di autotutela, introdotto dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole
Ha chiarito la Sezione che il d.m. 6 ottobre 2015, recante la disciplina del rilascio delle concessioni in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato, si esprimano in termini estremamente chiari nel prevedere che alla selezione possano partecipare solo associazioni e fondazioni riconosciute, perché solo a queste tipologie di enti è consentito di essere destinatari della concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato.
Il tenore dell’art. 2 del citato decreto ministeriale non lascia spazio a diverse interpretazioni laddove stabilisce testualmente che “Le concessioni disciplinate dal presente decreto sono riservate alle associazioni e fondazioni di cui al Libro I del codice civile, dotate di personalità giuridica e prive di fini di lucro, che siano in possesso dei seguenti requisiti:
a) previsione, tra le finalità principali definite per legge o per statuto, dello svolgimento di attività di tutela, di promozione, di valorizzazione o di conoscenza dei beni culturali e paesaggistici;
b) documentata esperienza almeno quinquennale nel settore della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale;
c) documentata esperienza nella gestione, nell'ultimo quinquennio antecedente la pubblicazione dell'avviso pubblico di cui all'art. 3, di almeno un immobile culturale, pubblico o privato, con attestazione della soprintendenza territorialmente competente di adeguata manutenzione e apertura alla pubblica fruizione”.
I requisiti dovevano essere posseduti alla scadenza del termine fissato per presentazione delle domande. Ciò discende da un principio immanente nel nostro ordinamento in virtù del quale i requisiti richiesti per la partecipazione ad una selezione pubblica debbono essere posseduti al momento della scadenza del termine perentorio stabilito dal bando per la presentazione della domanda di partecipazione, al fine di non pregiudicare la par condicio tra i candidati ad una selezione pubblica, che sempre deve assistere lo svolgimento di una siffatta procedura amministrativa, anche solo quale precipitato del principio di cui all’art. 97 Cost., oltre ai principi, criteri e disposizioni recati dall’art. 1, l. n. 241 del 1990, che disciplina ogni tipologia di attività amministrativa, anche di tipo selettivo e che, ovviamente (operando, in via principale, quale principio generale relativo alla legittimazione a partecipare alla selezione e non quale condizione per l’ottenimento del beneficio derivante dall’avere superato favorevolmente la selezione stessa), trova applicazione anche nell’ipotesi in cui si verifichi il caso della partecipazione di un solo candidato alla selezione.
Ha ancora affermato la Sezione che la selezione avviata dal Ministero dei beni culturali e conclusa con l’adozione di un decreto di approvazione della graduatoria e di individuazione dell’assegnatario della concessione di un bene immobile di rilievo culturale ha ad oggetto, senza alcun dubbio, l’assegnazione di un vantaggio economico [e proprio per questa ragione la scelta del concessionario di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico va effettuata mediante procedura competitiva di evidenza pubblica, in applicazione diretta dei principi di matrice eurounitaria del Trattato dell'Unione europea.
La Sezione ha premesso che la concessione per la cura e lo sfruttamento (e quindi, in sintesi, della gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione. L’operazione, ad evidente carattere dicotomico, si completa con la stipula della convenzione, che caratterizza il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, per mezzo della quale le parti, concedente e concessionario, disciplinano gli aspetti concreti e “la vita” della gestione del bene demaniale, individuando le peculiarità che contraddistinguono il rapporto tra le parti, anche sotto il profilo economico.
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Dunque il momento civilistico non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionato dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario.
Infatti la concessione demaniale integra una fattispecie complessa (a portata dicotomica), alla cui formazione concorrono il potere discrezionale dell’amministrazione e la volontà del privato di accettare le condizioni negoziali di disciplina del rapporto (regime di utilizzo, durata, assetto economico dei rapporti, cause di decadenza per inadempimento, condizioni economiche per lo sfruttamento e la gestione del bene, ecc.). Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio.
Nello stesso tempo, però, i due momenti, quello pubblicistico e quello consensuale, integrano l’atto complesso costituito dalla concessione-contratto. L’atto accessivo ad una concessione (il “contratto”) che, giuridicamente, va qualificata quale tipico provvedimento amministrativo costitutivo, parteciperebbe della natura provvedimentale della concessione medesima, ben potendo, dunque, al pari di essa, essere oggetto dell'esercizio di poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, stante l’intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra le due fasi e tra gli atti che le concludono. D’altronde, anche per quello che si dirà nel prosieguo, una volta accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si è proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità pervade il contratto e quindi provoca la decadenza dal beneficio ottenuto indebitamente.
Ne deriva che, non solo il rilascio di una concessione costituisce un provvedimento di attribuzione di vantaggi economici “a persone ed enti pubblici e privati” (per come è specificato nell’art. 12, l. n. 241 del 1990), ampliativo della sfera giuridica (ed economica) del destinatario, che rappresenta il momento prodromico e pregiudiziale per la composizione civilistica degli interessi del concedente e del concessionario, ma nei confronti di detto provvedimento e del procedimento all’esito del quale esso viene adottato trovano sicuramente applicazione le disposizioni recate dalla l. n. 241 del 1990, ivi compreso l’istituto dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Ha ancora ricordato la Sezione che il potere di autotutela decisoria è, invero, un potere amministrativo di secondo grado, che si esercita su un precedente provvedimento amministrativo, vale a dire su una manifestazione di volontà già responsabilmente espressa dall'amministrazione e in sé costitutiva di affidamenti nei destinatari e che, in base all'art. 21nonies, l. n. 241 del 1990, per esigenze di sicurezza giuridica e certezza dei rapporti immanenti all’ordinamento, deve essere inderogabilmente esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, entro diciotto mesi “dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”
Nel caso di specie si è al cospetto di un soggetto (l’associazione DHI) che ha conseguito un vantaggio economico (l’assegnazione del bene di rilievo culturale, all’esito di una selezione, tramite concessione) sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla relativa selezione, poi dimostratesi non veritiere.
Il giudice di primo grado ha ritenuto che, al ricorrere di una siffatta ipotesi, l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento, adottato sulla scorta della dichiarazione non veritiera, solo all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) avviato nei confronti del dichiarante (ovviamente, laddove detto procedimento venga realmente avviato), in ossequio alla norma contenuta nell’art. 21-nonies, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990.
La Sezione ha ritenuto che tale lettura interpretativa della norma non è condivisibile.
Va detto che in epoca recente, pur se in materia di dichiarazioni rese in occasione di una procedura di gara svolta ai sensi del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, ma esprimendo principi che ben possono attagliarsi al caso qui in esame, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2020 n. 16, ha affermato che: in via generale, “è risalente l'insegnamento filosofico secondo cui vero e falso non sono nelle cose ma nel pensiero e nondimeno dipendono dal rapporto di quest'ultimo con la realtà. In tanto una dichiarazione che esprima tale pensiero può dunque essere ritenuta falsa in quanto la realtà cui essa si riferisce sia in rerum natura”; premesso quanto sopra, le informazioni false o fuorvianti rese da un concorrente ben possono essere idonee ad influenzare le decisioni che verranno assunte da un’amministrazione che sta svolgendo una procedura selettiva; va però precisato che non è sufficiente che l’informazione sia falsa ma anche che la stessa sia diretta ed in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva; a ciò va aggiunto che le informazioni sono strumentali rispetto ai provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativamente alla procedura selettiva, i quali sono a loro volta emessi non solo sulla base dell’accertamento di presupposti di fatto ma anche di valutazioni di carattere giuridico,
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opinabili tanto per quest’ultima quanto per l’operatore economico che le abbia fornite. Ne consegue che, in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale, la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione della stazione appaltante diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nella comune attitudine di entrambe le informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione.
Da tutto quanto sopra discende che la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità.
Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241 del 1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., conduce ad affermare che il termine massimo di 18 mesi assegnato dal legislatore nel 2015 all’amministrazione per ritirare dal mondo giuridico, con effetto retroattivo, il provvedimento di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici è stato introdotto al fine di garantire il rispetto del principio del legittimo affidamento che trova il suo fondamento, nell’ordinamento unionale, nei principi del Trattato dell’unione europea e, in quello nazionale, nei principi dell’art. 97 Cost. nonché nelle disposizioni recate dall’art. 1, comma 1, l. n. 241 del 1990.
Sotto il versante del diritto eurounitario (nell'ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia UE), il principio di tutela del legittimo affidamento impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da un atto specifico e concreto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa, salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico (e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita). Nello stesso tempo però, affinché un affidamento sia legittimo è necessario un requisito oggettivo, che coincide con la necessità che il vantaggio sia chiaramente attribuito da un atto all'uopo rivolto e che sia decorso un arco temporale tale da ingenerare l'aspettativa del suo consolidamento e un requisito soggettivo, che coincide con la buona fede non colposa del destinatario del vantaggio (l'affidamento non è quindi legittimo ove chi lo invoca versi in una situazione di dolo o colpa).
Sulla spinta dei principi unionali il nostro legislatore ha dunque introdotto un limite massimo per l’adozione di atto di ritiro di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, sempre che costui sia parte passiva e incolpevole nella provocazione della patologia che, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 1, l. n. 241 del 1990, affligge l’atto da ritirarsi, sicché la responsabilità nella adozione dell’atto illegittimo deve totalmente ascriversi all’amministrazione.
Diverso è il caso in cui il profilo patologico che affligge l’atto e che ne impone, al ricorrere dei presupposti, la rimozione, sia ascrivibile al comportamento mantenuto dalla parte che ha ottenuto l’adozione in suo favore dell’atto autorizzatorio ovvero di attribuzione di vantaggi economici.
Ancora una volta, in considerazione dell’art. 97 Cost e dell’art. 3 Cost., quest’ultimo con riferimento agli altri soggetti che pur potendo aspirare al rilascio del provvedimento ampliativo della sfera giuridica dell’interessato hanno dovuto accettare che il provvedimento favorevole fosse assegnato ad altri, l’ordinamento (sia quello unionale che quello nazionale) non può tollerare che il vantaggio sia conseguito attraverso un comportamento non corretto che abbia indotto in errore l’amministrazione procedente, sviando in modo decisivo la valutazione dei presupposti fissati dalla legge ai fini del rilascio del provvedimento attributivo di quel vantaggio, pregiudicando (anche solo potenzialmente) le aspirazioni di altri (nel caso di specie alla selezione potrebbero non avere partecipato associazioni che, non possedendo i requisiti richiesti dall’avviso pubblico, sapevano che sarebbero state escluse e che, peraltro, potrebbero avere conseguito i requisiti richiesti in epoca successiva rispetto alla scadenza del termine per la presentazione delle domande esattamente come l’associazione DHI che ha, dunque, partecipato alla selezione senza essere in possesso dei requisiti richiesti, addirittura aggiudicandosela).
Pertanto, la surriproposta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. 241 del n. 1990, porta ad affermare che il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione
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distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario. ***
La Suprema Corte si esprime sulla proroga del termine di prescrizione del reato in caso di sospensione del processo nei confronti di imputato irreperibile.
Corte di Cassazione, Sez. III, sent. del 15 marzo 2021, n. 9943.
La Terza Sezione ha affermato che il termine di prescrizione del reato, in caso di sospensione del processo nei confronti di imputato irreperibile ai sensi dell’art. 420-quater cod. proc. pen., si proroga, stante il richiamo dell’art. 159, ultimo comma, cod. pen., all’art. 161, secondo comma, cod. pen., solo in ragione di un ulteriore quarto - o della diversa frazione prevista dal medesimo art. 161, secondo comma - calcolato sul termine ordinario e non sul termine massimo (corrispondente al termine ordinario già prorogato di un quarto, o di diversa frazione, per effetto di atti interruttivi).
Provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca in materia di reati contro la pubblica amministrazione. Pronuncia della Suprema Corte.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sent. del 15 marzo 2021, n. 10096.
In tema di reati contro la pubblica amministrazione, la Sesta sezione ha affermato che, è legittimo il provvedimento con cui il giudice, investito di una richiesta di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente del prezzo o del profitto del reato ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., non ravvisando gli estremi di un reato suscettibile di rilevare ai fini della confisca preveduta da quest’ultimo articolo, emetta comunque un provvedimento di sequestro finalizzato alla confisca ex art. 335-bis cod. pen., qualora ritenga la sussistenza di un reato legittimante la stessa.
Il TAR Bari si esprime sui c.d. requisiti morali necessari per il conseguimento della patente di guida.
TAR Bari, Sez. II, sent. del 16 marzo 2021, n. 469.
In materia di apprezzamento dei c.d. requisiti morali necessari per il conseguimento della patente di guida occorre distinguere tra colui che domandi il rilascio della patente di guida della categoria richiesta, una volta raggiunti i requisiti previsti (artt. 115, 116, 119, 120, comma 1, 121, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) e colui che, successivamente, perda il solo requisito morale (art. 120, comma 2, d.lgs. n. 285 del 1992)
Ha ricordato il Tar che solo per il primo rilascio del titolo abilitativo, il legislatore del codice della strada ha inteso richiedere il possesso della pienezza dei requisiti morali, talché il soggetto deve possederli ab origine, oppure deve conseguirli accedendo al beneficio della riabilitazione (penale e/o di prevenzione).
Successivamente, ossia durante la validità dell’abilitazione alla guida, laddove subentrino condanne penali per specifici reati, la dichiarazione di delinquenza (abituale, professionale o per tendenza), l’applicazione di misure di sicurezza, o la sottoposizione a misure di prevenzione, la patente “può” essere revocata dall’autorità prefettizia, nell’esercizio di peculiari poteri discrezionali riconosciuti nella sostanza quale autorità di P.S. (art. 120, comma 2, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e Corte cost. 9 febbraio 2018, n. 22; id. 20 febbraio 2020, n. 24; id. 27 maggio 2020, n. 99), correlati all’interesse pubblico alla prevenzione dei fatti di reato o c.d. antisociali.
Con peculiare riferimento all’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte costituzionale, nella sentenza del 27 maggio 2020, n. 99, ha sottolineato l’importanza di una verifica puntuale della necessità o dell’opportunità della revoca della patente di guida in via amministrativa, a fronte della specifica misura di prevenzione, cui nel caso concreto sia stato sottoposto il suo titolare, anche al fine di non contraddire l’eventuale finalità, di inserimento del soggetto nel circuito lavorativo, che la misura stessa si proponga.
Decorso del tempo ex lege previsto e non necessità della riabilitazione.
Ha aggiunto la Sezione che il codice della strada prevede che, decorso un certo lasso di tempo dall’intervenuta revoca della patente di guida, il soggetto interessato possa chiedere il rilascio di un nuovo titolo (art. 120, comma 3, del codice della strada).
Il testo di legge non richiede espressamente il rilascio della riabilitazione, bensì indica direttamente, quale elementochiave, il lasso di tempo ostativo al rilascio, ossia l’impossibilità di rinnovare il documento prima che intercorra un dato
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periodo; ma, allo stesso tempo, detto indicato elemento assume una valenza permissiva, concedendo cioè la possibilità di richiedere il nuovo rilascio della patente di guida, sulla base della semplice constatazione del tempo trascorso. Null’altro aggiunge o specifica (lex ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit).
Peraltro, il dato lasso di tempo costituisce anche limite all’esercizio del potere di revoca, in quanto la disposizione consente al prefetto di revocare la patente di guida, purché comunque non siano trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione (art. 120, comma 2, del codice della strada).
Dunque, l’adozione del provvedimento restrittivo non è vincolato, bensì discrezionale, non sempre è adottato, ma solo al riscontro motivato di elementi che lo giustifichino. Quando poi siano decorsi, in ogni caso, tre anni non è più consentito revocare la patente; allo stesso tempo, però, il decorso del triennio legittima la richiesta di un nuovo titolo di guida.
Ne esce pertanto confermata la tesi preferibile e prevalente, secondo la quale non risulta necessario il rilascio di alcun provvedimento di riabilitazione, nei consimili casi di revoca della patente, assumendo il limite temporale prescritto fondamento e termine di misura del potere discrezionale in questione.
Il TAR Salerno si esprime sulla distinzione tra verifica facoltativa e obbligatoria dell'anomalia dell’offerta presentata in sede di gara pubblica.
TAR Salerno, Sez. I, sent. del 16 marzo 2021, n. 697.
La cd. verifica facoltativa dell’anomalia dell’offerta presentata in sede di gara pubblica, di cui al comma 6, ultima parte, dell’art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 configura una potestà ampiamente discrezionale, che prescinde “dall’uso di particolari forme sacramentali”, salva la necessità della “individuazione espressa degli indicatori che – in assenza della condizione di superamento dei 4/5 di entrambe le componenti tecnica ed economica dell’offerta predeterminata legislativamente per la verifica di anomalia – facciano ritenere l’opportunità di procedere alla suddetta verifica; pertanto la verifica facoltativa, a differenza di quella obbligatoria, quella è caratterizzata da una più ampia discrezionalità tecnica della stazione appaltante, che si estende anche all’an della verifica stessa.
Ha premesso la Sezione che ai sensi dell’art. 97, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini dell’attivazione della verifica cd. obbligatoria di anomalia (nelle ipotesi in cui il criterio di aggiudicazione sia quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa), è necessario che sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, siano entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara. Quindi, se i punti relativi al solo prezzo non sono pari o superiori a tale limite, non può essere attivata la verifica obbligatoria. Tuttavia, poiché la norma in esame richiama il successivo comma 6, che prevede la verifica cd. facoltativa di anomalia, può essere ciò nondimeno attivata tale seconda fattispecie di verifica. Ha aggiunto la Sezione che in sede di sub-procedimento di verifica di anomalia, il concorrente deve fornire nelle giustifiche una puntuale indicazione degli oneri aziendali di sicurezza, parametrati alla specificità dell'organizzazione produttiva dell’impresa e alla tipologia di offerta presentata. Occorre infatti necessariamente distinguere, nelle procedure di evidenza pubblica, gli oneri di sicurezza per le interferenze, la cui misura va predeterminata dalla stazione appaltante, dagli oneri di sicurezza da rischio specifico, cd. interni o aziendali, la cui quantificazione spetta necessariamente ad ogni concorrente in rapporto alla sua offerta economica e deve essere effettuata in maniera specifica e puntuale, non essendo a tal fine sufficiente un calcolo degli stessi effettuato in modo generico, non analitico e in via meramente presuntiva attraverso una formula matematica che li rapporta ad una percentuale delle spese generali.
La verifica di anomalia può essere condotta dal RUP senza il supporto della commissione. Pur in mancanza di specifica attribuzione di competenza in relazione alla gestione del subprocedimento di anomalia (che viene affidata dall'art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 alla "stazione appaltante", senza ulteriori specificazioni), la giurisprudenza ha ripetutamente affermato il principio per cui nelle gare di appalto spetta al RUP, quale dominus della gara, la competenza nel sub-procedimento di verifica di anomalia. Ha infine ricordato la Sezione che l'art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 ha previsto che "la stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione delle spiegazioni", eliminando dunque l'obbligo di contraddittorio orale, previsto dal previgente art. 88, d.lgs. n. 163 del 2006 e individuando una struttura monofasica e semplificata del procedimento; nella sostanza, una ulteriore fase di confronto procedimentale dopo la presentazione delle giustificazioni non è più prevista come obbligatoria e la stazione appaltante non è più tenuta alla richiesta di ulteriori chiarimenti o a un’audizione.
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 17 marzo 2021
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*** INCOMPATIBILI CON LA COSTITUZIONE I GIUDICI AUSILIARI, MA A PARTIRE DAL 31 OTTOBRE 2025
Sono incostituzionali le norme che hanno previsto, come magistrati onorari, i giudici ausiliari presso le Corti d’appello. Le quali, tuttavia, potranno continuare ad avvalersi legittimamente dei giudici ausiliari per ridurre l’arretrato fino a quando, entro la data del 31 ottobre 2025, si perverrà ad una riforma complessiva della magistratura onoraria, nel rispetto dei principi costituzionali. È quanto si legge nella sentenza n. 41 depositata oggi (redattore Giovanni Amoroso) con cui ha Corte costituzionale ha accolto la questione sollevata dalla terza sezione civile della Cassazione nell’ambito di due giudizi aventi ad oggetto altrettanti ricorsi contro sentenze di Corte d’appello emesse da un collegio composto anche da un giudice onorario ausiliario. Sono stati quindi dichiarate incostituzionali gli articoli da 62 a 72 del Dl n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98 del 9 agosto 2013. La Consulta ha affermato che l’articolo 106 della Costituzione, secondo cui è possibile la nomina di magistrati onorari “per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli”, permette solo eccezionalmente e temporaneamente che, in via di supplenza, i giudici onorari possano svolgere funzioni collegiali di primo grado. Quindi, nei Tribunali e non già nelle Corti (d’appello o di cassazione). Pertanto, l’istituzione dei giudici onorari ausiliari, destinati, in base alla legge, a svolgere stabilmente e soltanto funzioni collegiali presso le Corti d’appello, nelle controversie civili, deve ritenersi in aperto contrasto con l’articolo 106 della Costituzione. Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme che hanno istituto e disciplinato i giudici onorari ausiliari, la Corte ha però ritenuto necessario lasciare al legislatore un sufficiente lasso di tempo che “assicuri la necessaria gradualità nella completa attuazione della normativa costituzionale”. È stato così indicato il termine previsto dall’articolo 32, primo periodo, del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, di riforma generale della magistratura onoraria, ossia quello del 31 ottobre 2025. Fino ad allora, la “temporanea tollerabilità costituzionale” dell’attuale assetto è volta ad evitare l’annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le Corti d’appello dell’apporto di questi giudici onorari per la riduzione dell’arretrato nelle cause civili.
Le Sezioni Unite si esprimono sull'applicabilità della causa di esclusione della colpevolezza prevista dall'art. 384 cod. pen.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 17 marzo 2021, n. 10381.
Le Sezioni Unite hanno affermato che l’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
Riparto competenze tra Stato e Regioni in materia di rifiuti. Pronuncia del TAR Napoli.
TAR Napoli, Sez. V, sent. del 17 marzo 2021, n. 1790.
In materia di smaltimento dei rifiuti, lo Stato è titolare di una competenza statale esclusiva, riconducibile all'ipotesi della “tutela dell'ambiente e dell'ecosistema" prevista dall'art. 117, comma 2, lett. s), Cost. per cui deve intendersi inibito al legislatore regionale introdurre deroghe o limiti di varia natura e portata; pertanto, non è consentito al legislatore regionale derogare alla ripartizione di competenze stabilita a livello nazionale fra le Regioni, che hanno il potere di autorizzare i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti ex artt. 196, comma 1, lett. d), e 208 t.u. ambiente e le Province, che hanno il potere di pianificare le zone idonee e non idonee agli impianti sulla base dei criteri stabiliti nel piano di gestione dei rifiuti della Regione, ex art. 197, comma 1, lett. d), T.U.A..
Ha affermato la Sezione che l’art. 197 comma 1 lett. d) T.U.A. va letta in coordinamento con le norme di cui agli artt. 196 e 199 del medesimo T.U.A.
Ai sensi dell'art. 196, comma 1, lett. a), l.Lgs. n. 152 del 2006, è di competenza della regione la predisposizione, l'adozione e l'aggiornamento, sentiti le province, i comuni e le Autorità d'ambito, dei piani regionali di gestione dei rifiuti, di cui all'articolo 199. In particolare, ai sensi dell'art.199, comma 3, lett. d) il piano regionale per la gestione dei rifiuti contiene informazioni sui criteri di riferimento per l'individuazione dei siti e la capacità dei futuri impianti di smaltimento o dei grandi impianti di recupero, se necessario, nonché, ai sensi della lettera l), i criteri per l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti nonché per l'individuazione dei luoghi o impianti adatti allo smaltimento dei rifiuti. Alle province compete pertanto, ai sensi dell'art. 197, comma 1, lett. d), l'individuazione, sulla base delle previsioni del piano territoriale di coordinamento di cui all'art. 20, comma 2, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ove già adottato, e delle previsioni di cui all'art. 199, comma 3, lett. d) e h), nonché sentiti l'Autorità d'ambito ed i comuni, delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, nonché delle zone non idonee alla localizzazione di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti. A sua volta, l'art. 20, comma 2, d.lgs. n. 267 del 2000, prevede l'adozione da parte della provincia, in attuazione della legislazione e dei programmi regionali, del piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio. Pertanto non è revocabile in dubbio che la provincia è tenuta ad
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individuare le zone del territorio provinciale da ritenersi in generale, ovvero per qualsiasi tipologia di impianti per il trattamento e la gestione dei rifiuti, non idonee alla ubicazione degli impianti medesimi. Tale competenza è rimasta in capo all’Ente Provincia anche dopo l’entrata in vigore della l. n. 56 del 2014, cd. “legge Del Rio”. Infatti, fra le funzioni fondamentali assegnate alle province “riformate”, così come elencate al comma 85 dell’articolo unico di detta normativa, figurano la “pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell'ambiente, per gli aspetti di competenza”. Dalla norma di cui all’art. 197 T.UA. si evince inoltre che l’intervento dell’Autorità d’ambito è puramente consultivo, al pari di quello dei Comuni, ferma rimanendo la prevalenza delle previsioni del piano territoriale di coordinamento, ove già adottato, che deve peraltro uniformarsi agli indirizzi espressi dalla Regione nel piano regionale per la gestione dei rifiuti.
L'Adunanza Plenaria si esprime in materia di accesso difensivo.
Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 18 marzo 2021, n. 4.
In materia di accesso difensivo ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 si deve escludere che sia sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare; la pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990.
L’Alto Consesso ha richiamato quanto aveva già chiarito con le pronunce nn. 19, 20 e 21 del 25 settembre 2020.
Ha ricordato che la volontà del legislatore (art. 25, l. n. 241 del 1990) è di esigere che le finalità dell’accesso siano dedotte e rappresentate dalla parte in modo puntuale e specifico nell’istanza di ostensione, e suffragate con idonea documentazione (ad es. scambi di corrispondenza; diffide stragiudiziali; in caso di causa già pendente, indicazione sintetica del relativo oggetto e dei fatti oggetto di prova; ecc.), così da permettere all’amministrazione detentrice del documento il vaglio del nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione “finale” controversa.
In questa prospettiva, e per rispondere ai quesiti sopra ricordati e posti dall’ordinanza di rimessione, questa Adunanza plenaria ha escluso che possa ritenersi sufficiente un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, siano esse riferite a un processo già pendente oppure ancora instaurando, poiché l’ostensione del documento passa attraverso un rigoroso vaglio circa l’appena descritto nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale controversa.
Altra e non meno importante questione, adombrata dall’ordinanza di rimessione, è poi quella afferente alla ricostruzione della disciplina del bilanciamento tra interesse all’accesso difensivo dell’istante e la tutela della riservatezza del controinteressato.
Come questa Adunanza ha però già chiarito nelle richiamate pronunce, l’art. 24, l. n. 241 del 1990 prevede, al riguardo:
a) al comma 1, una tendenziale esclusione diretta legale dall’accesso documentale per le ipotesi ivi contemplate; b) al comma 2, un’esclusione demandata ad un regolamento governativo, con cui possono essere individuati casi di sottrazione all'accesso di documenti amministrativi, tra l'altro e per quanto qui interessa, nella lettera d) «quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all'amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono»; c) al comma 7 un’esclusione basata su un giudizio valutativo di tipo comparativo di composizione degli interessi confliggenti facenti capo al richiedente e, rispettivamente, al controinteressato, modulato in ragione del grado di intensità dei contrapposti interessi ed improntato ai tre criteri della necessarietà, dell'indispensabilità e della parità di rango.
Ebbene, ai fini del bilanciamento tra il diritto di accesso difensivo, preordinato all’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale in senso lato, e la tutela della riservatezza, secondo la previsione dell’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990, non trova applicazione né il criterio della stretta indispensabilità (riferito ai dati sensibili e giudiziari) né il
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criterio dell'indispensabilità e della parità di rango (riferito ai dati cc.dd. supersensibili), ma il criterio generale della “necessità” ai fini della “cura” e della “difesa” di un proprio interesse giuridico, ritenuto dal legislatore tendenzialmente prevalente sulla tutela della riservatezza, a condizione del riscontro della sussistenza dei presupposti generali, di cui si è detto, dell’accesso documentale di tipo difensivo.
Se così è, come questa Adunanza plenaria ha già precisato nelle sentenze nn. 19, 20 e 21 del 25 settembre 2020, è chiaro che il collegamento tra la situazione legittimante e la documentazione richiesta, richiesto da questa Adunanza plenaria, impone un’attenta analisi della motivazione che la pubblica amministrazione ha adottato nel provvedimento con cui ha accolto o, viceversa, respinto l’istanza di accesso.
Soltanto attraverso l’esame di questa motivazione è infatti possibile comprendere se questo collegamento, nel senso sopra precisato, esista effettivamente e se l’esigenza di difesa rappresentata dall’istante prevalga o meno sul contrario interesse alla riservatezza nel delicato bilanciamento tra i valori in gioco.
La pubblica amministrazione detentrice del documento e il giudice amministrativo adìto nel giudizio di accesso ai sensi dell’art. 116 c.p.a. non devono invece svolgere alcuna ultronea valutazione sulla influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione o allo stesso giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso.
Un diverso ragionamento reintrodurrebbe nella disciplina dell’accesso difensivo e, soprattutto, nella sua pratica applicazione limiti e preclusioni che, invece, non sono contemplati dalla legge, la quale ha già previsto, come si è detto, adeguati criterî per valutare la situazione legittimante all’accesso difensivo e per effettuare il bilanciamento tra gli interessi contrapposti all’ostensione del documento o alla riservatezza.
Certamente, se l’istanza di accesso sia motivata unicamente, ai sensi dell’art. 25, comma 2, l. n. 241 del 1990, con riferimento ad esigenze difensive di un particolare giudizio e il giudice di quella causa si sia già pronunciato sull’ammissibilità o, addirittura, sulla rilevanza del documento nel giudizio già instaurato, la pubblica amministrazione e, in sede contenziosa ai sensi dell’art. 116 c.p.a., il giudice amministrativo dovranno tenere conto di questa valutazione, sul piano motivazionale, ma sempre e solo per valutare la concretezza e l’attualità del bisogno di conoscenza a fini difensivi, nei termini si è detto, e non già per sostituirsi ex ante al giudice competente nella inammissibile e impossibile prognosi circa la fondatezza di una particolare tesi difensiva, alla quale la richiesta di accesso sia preordinata, salvo, ovviamente, il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, in ipotesi di esercizio pretestuoso o temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241 del 1990.
Partecipazione alla gara di un consorzio stabile che ripeta la qualificazione da una consorziata non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori. Pronuncia dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 18 marzo 2021, n. 5.
La consorziata di un consorzio stabile, non designata ai fini dell’esecuzione dei lavori, è equiparabile, ai fini dell’applicazione dell’art. 63 della direttiva 24/2014/UE e dell’art. 89, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, all’impresa ausiliaria nell’avvalimento, sicché la perdita da parte della stessa del requisito impone alla stazione appaltante di ordinarne la sostituzione
La questione era stata rimessa dal CGARS, ord., 29 dicembre 2020, n. 1211.
Ha chiarito l’Alto consesso che il consorzio ordinario di cui agli artt. 2602 e ss. c.c., pur essendo un autonomo centro di rapporti giuridici, non comporta l’assorbimento delle aziende consorziate in un organismo unitario costituente un’impresa collettiva, né esercita autonomamente e direttamente attività imprenditoriale, ma si limita a disciplinare e coordinare, attraverso un’organizzazione comune, le azioni degli imprenditori riuniti (Cass. civ., sez. trib., 9 marzo 2020, n. 6569; id., sez. I, 27 gennaio 2014, n. 1636).
Nel consorzio con attività esterna la struttura organizzativa provvede all’espletamento in comune di una o alcune funzioni (ad esempio, l’acquisto di beni strumentali o di materie prime, la distribuzione, la pubblicità, etc.), ma nemmeno in tale ipotesi il consorzio, nella sua disciplina civilistica, è dotato di una propria realtà aziendale. Ne discende che, ai fini della disciplina in materia di contratti pubblici, il consorzio ordinario è considerato un soggetto con identità plurisoggettiva, che opera in qualità di mandatario delle imprese della compagine. Esso prende necessariamente parte alla gara per tutte le consorziate e si qualifica attraverso di esse, in quanto le stesse, nell’ipotesi di aggiudicazione, eseguiranno il servizio, rimanendo esclusa la possibilità di partecipare solo per conto di alcune associate (Cons. St., sez.
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V, 6 ottobre 2015, n. 4652, il quale ha statuito l’illegittimità della partecipazione di un consorzio ordinario che, pur riunendo due società, aveva dichiarato di gareggiare per conto di una sola di esse).
Non è così per i consorzi stabili. Questi, a mente dell’art. 45, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, sono costituiti “tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro” che “abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni, istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”
È in particolare il riferimento aggiuntivo e qualificante alla “comune struttura di impresa” che induce ad approdare verso lidi ermeneutici diversi ed opposti rispetto a quanto visto per i consorzi ordinari. I partecipanti in questo caso danno infatti vita ad una stabile struttura di impresa collettiva, la quale, oltre a presentare una propria soggettività giuridica con autonomia anche patrimoniale, rimane distinta e autonoma rispetto alle aziende dei singoli imprenditori ed è strutturata, quale azienda consortile, per eseguire, anche in proprio (ossia senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate), le prestazioni affidate a mezzo del contratto.
Proprio sulla base di questa impostazione, la Corte di Giustizia UE (C-376/08, 23 dicembre 2009) è giunta ad ammettere la contemporanea partecipazione alla medesima gara del consorzio stabile e della consorziata, ove quest’ultima non sia stata designata per l’esecuzione del contratto e non abbia pertanto concordato la presentazione dell’offerta.
Tanto chiarito sul versante della natura giuridica del consorzio stabile, giova fare un ulteriore cenno esplicativo al cd. meccanismo di qualificazione alla “rinfusa” che ha segnatamente caratterizzato la vicenda in causa.
Trattasi del portato dell’art. 31, comma 1, d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56, vigente all’epoca dei fatti di causa, per il quale: “I consorzi di cui agli artt. 45, comma 2, lettera c) e 46, comma 1, lettera f), al fine della qualificazione, possono utilizzare sia i requisiti di qualificazione maturati in proprio, sia quelli posseduti dalle singole imprese consorziate designate per l’esecuzione delle prestazioni, sia, mediante avvalimento, quelli delle singole imprese consorziate non designate per l’esecuzione del contratto. Con le linee guida dell’Anac di cui all’art. 84, comma 2, sono stabiliti, ai fini della qualificazione, i criteri per l’imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni”.
La disposizione ha avuto vigore sino al 2019. L'art. 1, comma 20, lett. l), n. 1), d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 giugno 2019, n. 55, ha eliminato tale regola, ripristinando l’originaria e limitata perimetrazione del cd. cumulo alla rinfusa ai soli aspetti relativi alla “disponibilità delle attrezzature e dei mezzi d'opera, nonché all'organico medio annuo”, i quali sono “computati cumulativamente in capo al consorzio ancorché posseduti dalle singole imprese consorziate”.
Siffatto peculiare meccanismo (si ribadisce, esteso all’epoca dei fatti di causa anche ai requisiti di qualificazione, ma oggi limitato ad attrezzature, mezzi d'opera e organico medio annuo) ha radici nella natura del consorzio stabile e si giustifica in ragione: a) del patto consortile, comunque caratterizzato dalla causa mutualistica; b) del rapporto duraturo ed improntato a stretta collaborazione tra le consorziate avente come fine “una comune struttura di impresa”.
Quanto sopra, se è vero in via generale in relazione al cumulo di alcuni requisiti necessari alla partecipazione, necessita invece di un distinguo, ai diversi fini dei legami che si instaurano nell’ambito della gara, tra consorzio stabile e consorziate, a seconda se queste ultime siano o meno designate per l’esecuzione dei lavori.
Solo le consorziate designate per l’esecuzione dei lavori partecipano alla gara e concordano l’offerta, assumendo una responsabilità in solido con il consorzio stabile nei confronti della stazione appaltante (art. 47 comma 2, del codice dei contratti). Per le altre il consorzio si limita a mutuare, ex lege, i requisiti oggettivi, senza che da ciò discenda alcuna vincolo di responsabilità solidale per l’eventuale mancata o erronea esecuzione dell’appalto.
Si è dinanzi, in quest’ultimo caso, ad un rapporto molto simile a quello dell’avvalimento (non a caso espressamente denominato tale dalla vecchia versione dell’art. 47 comma 2, ratione temporis applicabile), anche se, per certi versi, meno intenso: da una parte, infatti, il consorziato presta i requisiti senza partecipare all’offerta, similmente all’impresa avvalsa (senza bisogno di dichiarazioni, soccorrendo la “comune struttura di impresa” e il disposto di legge), dall’altra, pur facendo ciò, rimane esente da responsabilità (diversamente dall’impresa avvalsa).
Una forma di avvalimento attenuata dall’assenza di responsabilità dunque.
Questa constatazione, se intermediata attraverso l’elaborazione logica, è di per sé sufficiente a giustificare l’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti.
A mente della disposizione citata, infatti la stazione appaltante (in luogo di disporre l’esclusione in cui inesorabilmente incorrerebbe un concorrente nell’ambito di un raggruppamento o di un consorzio ordinario o stabile) impone
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all'operatore economico di “sostituire” i soggetti di cui si avvale “che non soddisfano un pertinente criterio di selezione o per i quali sussistono motivi obbligatori di esclusione”. Ergo, se è possibile, in via eccezionale, sostituire il soggetto legato da un rapporto di avvalimento, a fortiori dev’essere possibile sostituire il consorziato nei confronti del quale sussiste un vincolo che rispetto all’avvalimento è meno intenso.
Del resto, che questa sia la soluzione per colmare la lacuna normativa esistente, ed evidenziata dall’ordinanza di rimessione, per il caso del consorziato non designato per l’esecuzione, trova piena conferma nell’ampia formulazione dell’art. 63 della direttiva 2014/24/UE, il quale, nel disciplinare l’avvalimento, vi ricomprende tutti i casi in cui un operatore economico, per un determinato appalto, fa “affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con questi ultimi”, senza dare rilevanza qualificante alla responsabilità solidale dei soggetti avvalsi. Circostanza, quest’ultima, rimessa piuttosto dalla direttiva all’eventuale decisione discrezionale dell’amministrazione aggiudicatrice (l’amministrazione aggiudicatrice “può esigere” che l’operatore economico e i soggetti di cui sopra siano solidalmente responsabili dell’esecuzione del contratto, recita l’art. 63 cit.), anche se poi tradottasi in un precetto di legge in sede di recepimento nell’ordinamento italiano (art. 89, comma 5, codice dei contratti).
Non v’è ragione, dunque, per riservare al consorzio che si avvale dei requisiti di un consorziato “non designato”, un trattamento diverso da quello riservato ad un qualunque partecipante, singolo o associato, che ricorre all’avvalimento. Nell’uno, come nell’altro caso, in virtù dell’art. 89 comma 3 del codice dei contratti, ove il requisito “prestato” venga meno, l’impresa avvalsa potrà, rectius, dovrà essere sostituita.
In risposta alle preoccupazioni manifestate dal Collegio rimettente, e al fine di garantire chiarezza e certezza al quadro esegetico complessivo, può aggiungersi che la chiave interpretativa innanzi delineata non tocca la perdurante validità del principio di necessaria continuità nel possesso dei requisiti, affermato dall’Adunanza Plenaria con sentenza 8/2015, né il più generale principio di immodificabilità soggettiva del concorrente (salvi i casi previsti della legge nel caso di raggruppamento temporaneo di imprese).
Con tale decisione l’Adunanza, ribadendo il portato della costante giurisprudenza antecedente, ha affermato il principio generale, secondo cui “il possesso dei requisiti di ammissione si impone a partire dall'atto di presentazione della domanda di partecipazione e per tutta la durata della procedura di evidenza pubblica”; chiarendo che “per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col pur rilevante principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente (ancor prima che aggiudicatario), dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica, a prescindere dalla indicazione, da parte del legislatore, di specifiche fasi espressamente dedicate alla verifica stessa, quali quelle di cui all’art. 11, comma 8, ed all’art. 48, d.lgs. n. 163 del 2006”.
Trattasi di un principio del quale, a valle dell’Adunanza Plenaria citata, nessuno più dubita, e che merita piena adesione anche oggi, in questa sede.
E’ pur vero che, nel caso allora deciso, l’Adunanza si spinse a precisare che sussiste “sul piano dell’accertamento dei requisiti di ordine generale e tecnico-professionali ed economici, una totale equiparazione tra gli operatori economici offerenti in via diretta e gli operatori economici in rapporto di avvalimento e dunque, in definitiva, fra i primi e l’imprenditore, che preferisca seguire la via del possesso mediato ed indiretto dei requisiti di partecipazione ad una gara”, con ciò lasciando chiaramente intendere che l’affermato principio di continuità dovesse valere anche per l’impresa avvalsa.
Tuttavia detta ultima affermazione dev’essere letta nel quadro normativo, ratione temporis vigente, anche comunitario, che pacificamente escludeva la possibilità di una sostituzione dell’impresa rimasta priva di requisiti, a prescindere se essa fosse legata da un vincolo di associazione temporanea con l’aggiudicatario o da un più tenue rapporto di avvalimento (art. 44 della Dir. 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE).
Quel quadro normativo è mutato, e per il tramite del più volte citato art. 63 della direttiva 2014/24/UE, esso oggi pacificamente impone che il soggetto avvalso che nelle more del procedimento di gara o durante l’esecuzione del contratto perda i requisiti, venga sostituito.
Dunque non v’è più motivo per discorrere, in relazione a tale peculiare fattispecie, di necessaria “continuità” nel possesso dei requisiti del concorrente che si avvale dell’apporto claudicante di terzi, a pena di esclusione.
La sostituzione è appunto lo strumento nuovo e alternativo che, alla luce del principio di proporzionalità, consente quella continuità predicata dall’Adunanza Plenaria nel 2015, in tutti i casi in cui il concorrente si avvalga dell’ausilio di operatore terzi. Trattasi di un "istituto del tutto innovativo", secondo la definizione datane dal Consiglio Stato (sez. III, n. 5359 del 2015) e dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea (C-223/16 del 14 settembre 2017, Casertana costruzioni s.r.l.).
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Esso restituisce al soggetto avvalso la sua vera natura di soggetto che presta i requisiti al concorrente, senza partecipare alla compagine e all’offerta da questa formulata e risponde all'esigenza, stimata superiore, di evitare l'esclusione del concorrente, singolo o associato, per ragioni a lui non direttamente riconducibili o imputabili. Esigenza quest’ultima evidentemente strumentale a stimolare il ricorso all'avvalimento: il concorrente, infatti, può contare sul fatto che, nel caso in cui l'ausiliaria non presenti o perda i requisiti prescritti, potrà procedere alla sua sostituzione senza il rischio di essere, solo per questa circostanza, estromesso automaticamente dalla procedura selettiva.
Di tale mutato quadro ha dato di recente atto l’ordinanza 20 marzo 2020, n. 2005, con la quale la terza sezione del Consiglio di Stato ha adito in via pregiudiziale la Corte di Giustizia dell’Unione europea proprio in relazione al meccanismo sostitutivo contemplato dall’art. 89, co. 3, del d.lgs. n. 50/2016, sostenendone la necessaria estensione, a termini del diritto dell’unione, a tutte le fattispecie di esclusione, a prescindere dai motivi (attualmente l’art. 89 comma 3 e la giurisprudenza escludono pacificamente che la sostituzione possa avvenire nel caso di dichiarazioni mendaci.
L'inosservanza dei principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria non costituisce motivo di revocazione della sentenza. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 18 marzo 2021, n. 2342.
L’eventuale inosservanza da parte di una Sezione del Consiglio di Stato del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria non può mai costituire motivo di revocazione della sentenza
Ha chiarito la Sezione che tale inosservanza non può mai costituire motivo di revocazione della sentenza, non comportando né contrasto fra giudicati, allorché – come di norma avviene - il giudicato formatosi sulla decisione dell’Adunanza plenaria non sia stato reso fra le stesse parti della sentenza in cui si denuncia l’inosservanza, né errore di fatto revocatorio, trattandosi al più di errore di diritto per violazione dell’art. 99, comma 3, c.p.a. sotto il profilo della contestualizzazione e sussunzione del principio di diritto. Né a diverse soluzioni può pervenirsi in ragione della ritenuta assenza di rimedi processuali alla predetta inosservanza, dal momento che le ipotesi di revocazione previste dall’art. 395 c.p.c., richiamate dall’art. 106 c.p.a., hanno infatti carattere tassativo, eccezionale e derogatorio (rispetto alla regola della intangibilità del giudicato), e pertanto non ammettono interpretazione estensiva né applicazione analogica.
La stessa Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ha chiarito che un principio di diritto espresso ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a. non vale a configurare un contrasto di giudicati e quindi non può costituire parametro di riferimento nemmeno ai sensi dell’ulteriore ipotesi di revocazione prevista dall’art. 395, n. 5), c.p.c.. Ciò in quanto “L’attività di contestualizzazione e di sussunzione del principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria ai sensi dell’articolo 99, comma 4 del cod. proc. amm. in relazione alle peculiarità del caso concreto spetta alla Sezione cui è rimessa la decisione del ricorso”.
Sicché, a maggior ragione, la stessa conclusione vale in tutti gli altri giudizi nei quali venga prospettata l’applicazione del medesimo principio di diritto.
Anche in precedenza, la giurisprudenza di questo Consiglio, a fronte di istanze di revocazione analoghe a quella in esame, ha sottolineato che non è possibile “forzare” il disposto dell’art. 395 c.p.c. per dare una sanzione processuale ad un precetto per il quale tale sanzione non è stata prevista dal legislatore.
Si tratta infatti, a ben vedere, non di un “vuoto di tutela da censurare” quanto dell’individuazione di “un ragionevole punto di equilibrio tra la ricerca di una maggiore uniformità interpretativa in funzione della certezza del diritto e la libertà e l’indipendenza, anche interna, del giudice”. Conseguentemente, si tratta di un vizio e assimilato a un qualsiasi errore di diritto non denunciabile col ricorso per revocazione.
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Il Consiglio di Stato si esprime sui ricorsi collettivi e la legittimazione attiva ad impugnare gli atti di pianificazione.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 18 marzo 2021, n. 2341.i
Affinché i ricorsi collettivi siano ammissibili nel processo amministrativo, occorre che vi sia identità di situazioni sostanziali e processuali; è, in particolare, necessario che le domande giudiziali siano identiche nell’oggetto, ossia afferiscano ai medesimi atti e rechino le medesime censure; le posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti siano del tutto omogenee e sovrapponibili; i ricorrenti non versino in condizioni di neppure potenziale contrasto
Non sussiste la legittimazione a impugnare atti di pianificazione in ragione della mera qualità di cittadino residente nel
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territorio interessato dagli stessi anche se il suolo è stato qualificato dalla legislazione regionale come “bene comune”.
Ha chiarito la Sezione che anche nell’attuale cornice codicistica la proposizione del ricorso collettivo rappresenta una deroga al principio generale secondo il quale ogni domanda, in quanto tesa a tutelare un interesse meritevole di tutela, deve essere proposta dal relativo titolare con separata azione.
Ciò, del resto, è il precipitato tecnico della natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, deputata ad erogare tutela giurisdizionale ad una posizione soggettiva lesa dall’azione amministrativa, non a veicolare un controllo oggettivo della legittimità dell’azione amministrativa stessa, scisso da una concreta lesione arrecata agli specifici interessi di un determinato consociato.
In altra prospettiva, il controllo della legittimità dell’azione amministrativa non è l’obiettivo ultimo del processo amministrativo, ma configura, invece, un (sia pur ineludibile) strumento funzionale alla tutela della situazione azionata in giudizio, che costituisce l’oggetto, lo scopo ed il limite della giurisdizione amministrativa (art. 1 c.p.a.).
Pertanto, la proposizione contestuale di un’impugnativa da parte di più soggetti, sia essa rivolta contro uno stesso atto o contro più atti tra loro connessi, è soggetta al rispetto di stringenti requisiti, sia di segno negativo che di segno positivo: i primi sono rappresentati dall’assenza di una situazione di conflittualità di interessi, anche solo potenziale, per effetto della quale l’accoglimento della domanda di alcuni dei ricorrenti sarebbe logicamente incompatibile con l’accoglimento delle istanze degli altri; i secondi consistono, invece, nell’identità delle posizioni sostanziali e processuali dei ricorrenti, essendo necessario che le domande giurisdizionali siano identiche nell’oggetto, che gli atti impugnati abbiano lo stesso contenuto e che vengano censurati per gli stessi motivi.
Ha ricordato la Sezione che la regola giurisprudenziale della carenza di legittimazione a impugnare atti di pianificazione in ragione della mera qualità di cittadino residente nel territorio interessato dagli stessi non soffre eccezione per il fatto che la legislazione regionale in materia, nella parte in cui introduce condizioni e limiti al potere comunale di pianificazione, abbia qualificato il suolo come “bene comune” da salvaguardare. Infatti, dal momento che la materia “ordinamento civile” è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l), Cost.), e dovendo le leggi regionali essere interpretate secundum Constitutionem, la qualificazione del suolo come “bene comune” contenuta in una legge regionale non può essere interpretata come volta ad alterare ab interno lo statuto del diritto di proprietà come enucleato nel codice civile e le facoltà che vi rientrano, ivi comprese quelle di iniziativa processuale. La Sezione ha aggiunto che, in termini generali, allorché la previsione urbanistica impugnata non afferisca direttamente alla proprietà del ricorrente ma ad un’area ad essa contermine, è necessario che sia enucleata specificamente la concreta lesione arrecata dalla previsione, pena l’inammissibilità del gravame.
Contestazione con reclamo ed autotutela degli atti del commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio della P.A.. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 18 marzo 2021, n. 2335.
Gli atti del commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio della p.a. possono essere contestati dalle parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha nominato il commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 114, comma 4, c.p.a.; non possono invece essere annullati in autotutela dall’Amministrazione.
Ha chiarito la Sezione che anche il commissario ad acta nominato nello speciale rito avverso il silenzio della p.a., ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a. così come quello nominato in sede di ottemperanza, è un ausiliario del giudice e non un organo straordinario dell’amministrazione. Pertanto, anche in tale ipotesi gli atti commissariali possono essere contestati dalle parti del giudizio solo dinanzi allo stesso giudice che ha nominato il commissario, attraverso lo strumento del reclamo di cui all’art. 114, comma 4, c.p.a., disposizione la cui applicazione, ancorché non espressamente richiamata, è implicita nel disposto del comma 4 del precitato art. 117 (“il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”), chiaramente espressivo dell’intento del legislatore di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio-inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati. La Sezione ha invece escluso che gli atti adottati dal commissario ad acta nominato dal giudice in esito allo speciale giudizio avverso il silenzio-inadempimento della p.a. non possono essere rimossi in autotutela dall’amministrazione sostituita dal commissario. dato decisivo al fine di dirimere la res controversa è costituito non dal tipo di attività (segnatamente, dall’ampiezza della valutazione discrezionale) che il commissario è chiamato a svolgere nel contesto del giudizio di ottemperanza e del giudizio avverso il silenzio-inadempimento, bensì dalla natura intrinseca degli atti commissariali, in quanto tali.
Questi, infatti, non sono geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa, ma, al contrario, conseguono proprio, a monte, al rilievo giurisdizionale di un illegittimo esercizio di tale potestà o di
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un’illegittima omissione di tale doveroso esercizio. Ne consegue, in un sistema che costituzionalmente non tollera vuoti di tutela giurisdizionale, l’esigenza di una supplenza giudiziaria, veicolata tramite una specifica figura che, sostituendosi all’Amministrazione, emani, quale ausiliario del giudice e nell’esercizio, dunque, di un potere soggettivamente giurisdizionale, i necessari atti. L’Amministrazione sostituita, pertanto, non viene indebitamente “espropriata” del potere di autotutela, che, nel caso degli atti commissariali, in radice non le compete, proprio perché il commissario non è un organo straordinario dell’Amministrazione, bensì un organo ausiliario del giudice. Di converso, l’Amministrazione non è privata della facoltà di contestare gli atti commissariali, potendo attivare l’apposito rimedio del reclamo.
Giudizio di affidabilità dell'operatore economico in presenza di sentenze penali non definitive. Pronuncia del TAR Salerno.
TAR Salerno, Sez. II, sent. del 22 marzo 2021, n. 731.
E’ illegittima, in quanto manifestamente irragionevole, la determinazione con cui la stazione appaltante, con un ragionamento formalistico e condotto in astratto, reputi non integrata la fattispecie espulsiva dei gravi illeciti professionali unicamente sulla base della non definitività dei provvedimenti assunti in sede penale, senza alcuna motivata valutazione, ponderata in concreto, degli elementi che emergano da tali procedimenti e provvedimenti, i quali siano potenzialmente idonei ad incidere sull’affidabilità professionale dell’operatore economico.
Ha affermato la Sezione che alcun dubbio può sorgere sull’obbligo di completa disclosure, nel corso del procedimento di gara, di informazioni relative a provvedimenti e procedimenti penali non assurti al rango della definitività, le qualinon risultando dal casellario giudiziario - devono nondimeno essere portate a conoscenza della stazione appaltante, in forza di quanto previsto dall’art.80, comma 5, lett. c) e c-bis), d.lgs. n. 50 del 2016.
La prima fattispecie (lett. c) afferisce, in modo omnicomprensivo, ai gravi illeciti professionali, che si configurano, quale possibile causa di esclusione dalle pubbliche gare, allorchè la stazione appaltante reputi, con “adeguati mezzi”, pregiudicata l’affidabilità dell’operatore economico.
La seconda fattispecie (lett. c-bis) si configura allorquando, fra l’altro, l’operatore economico abbia omesso informazioni suscettibili di influenzare l’esito del procedimento selettivo, in tal modo orientando in modo scorretto le valutazioni della stazione appaltante e quindi compromettendo l’imparzialità e la correttezza delle sue valutazioni.
Ad avviso della Sezione non è rilevante, agli effetti dell’obbligo di effettuare la dichiarazione, la circostanza per cui la sentenza di condanna sia intervenuta nel corso del procedimento di gara, e successivamente alla dichiarazione resa a corredo della domanda di partecipazione, in virtù del principio, costantemente riconosciuto dalla giurisprudenza e ritenuto immanente al sistema degli appalti, della necessità che il possesso dei requisiti generali di partecipazione sia posseduto fin dalla partecipazione e per tutto il procedimento selettivo, finanche nella fase esecutiva del contratto.
Ciò posto, si evidenzia comunque che (anche in questa circostanza) l’omissione in parola non può determinare l’automatica espulsione del concorrente dalla gara, come invece pretenderebbe la ricorrente.
Sul tema, soccorrono le coordinate ermeneutiche di recente fornite dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza del 28 agosto 2020, n .16. Secondo la prospettiva fornita dal massimo Organo nomofilattico della Giustizia Amministrativa, le falsità o, come nel caso di specie, le omissioni dichiarative poste in essere dal concorrente nel procedimento selettivo, nell’ambito di fasi preordinate all’adozione dei provvedimenti di ammissione/esclusione a/dalla gara, rientrano nel campo applicativo di cui alla lett. c-bis dell’art. 80, e quindi nell’orbita dei gravi illeciti professionali, con conseguente necessità per la stazione appaltante di dare corso ad un processo valutativo discrezionale, condotto in concreto e non in astratto, circa l’idoneità delle situazioni apprese o dichiarate ad incidere sull’affidabilità professionale dell’operatore economico.
Il punto nodale del condivisibile ragionamento svolto dalla Plenaria risiede nella distinzione fra il falso di cui alla lett. fbis, che conduce all’automatismo espulsivo, e che tuttavia ha carattere residuale, e il falso/l’omissione rilevanti ai sensi della lett. c-bis, concernenti informazioni propedeutiche all’ammissione in gara, che invece, rientrando nella categoria dei gravi illeciti (posto che la disciplina è unica in base alla Direttiva 2024/24/UE, nonché in base al Codice dei contratti, e solo il d.l. n. 32 del 2019 ha differenziato le diverse fattispecie), richiedono un approccio case by case,
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costituente esercizio di discrezionalità della stazione appaltante, non surrogabile in sede giurisdizionale in ossequio al principio costituzionale della separazione dei poteri.
Il Consiglio di Stato interviene sulla distinzione tra concessione di pubblico servizio e appalto di servizi.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 22 marzo 2021, n. 2426.
Il rapporto di concessione di pubblico servizio si distingue dall’appalto di servizi per l’assunzione, da parte del concessionario, del rischio di domanda, nel senso che mentre l’appalto ha struttura bifasica tra appaltante ed appaltatore ed il compenso di quest’ultimo grava interamente sull’appaltante, nella concessione, connotata da una dimensione triadica, il concessionario ha rapporti negoziali diretti con l’utenza finale, dalla cui richiesta di servizi trae la propria remunerazione.
Data la premessa, la Sezione ha tratto la conseguenza che, essendo insito nel meccanismo causale della concessione che la fluttuazione della domanda del servizio costituisca un rischio traslato in capo al concessionario (anzi costituisca il rischio principale assunto dal concessionario), affinché possa farsi luogo a una revisione dei profili economici concordati con il concedente è necessaria la comprovata ricorrenza di eventi eccezionali e straordinari, oggettivamente esterni ed estranei al funzionamento del mercato di settore, non essendo invece sufficienti all’uopo mere fluttuazioni della domanda, dato fisiologico di ogni mercato, che l’operatore economico non può non considerare come aspetto caratterizzante, intrinseco ed ineliminabile del contesto in cui opera.
Il CGARS si esprime sul termine per la comunicazione del decreto di fissazione di udienza per il rito appalti.
CGARS, dec. del 22 marzo 2021, n. 55.
L’art. 71 comma 5, c.p.a., con riferimento alle cause sottoposte al rito dell’art. 120 c.p.a., si riferisce solo alla prima udienza di trattazione nel merito e non alle successive.
Il comma 5 dell’art. 71 c.p.a. dispone “Il decreto di fissazione è comunicato a cura dell'ufficio di segreteria, almeno sessanta giorni prima dell'udienza fissata, sia al ricorrente che alle parti costituite in giudizio. Tale termine è ridotto a quarantacinque giorni, su accordo delle parti, se l'udienza di merito è fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.”.
Ha chiarito il decreto che a tale conclusione si perviene perché, ai sensi dell’art. 120, comma 6, c.p.a.: a.1) il giudizio va definito a una udienza fissata d’ufficio e da tenersi entro 45 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente; a.2) in caso di esigenze istruttorie o di difesa, la definizione del merito va rinviata ad una udienza da tenersi “non oltre trenta giorni”; a.3) l’ultima previsione menzionata conferma che, fermo il termine dilatorio di trenta giorni tra avviso alle parti e data dell’udienza quanto alla prima udienza di merito (in base al combinato disposto dell’art. 71, comma 5, e dell’art. 120, comma 6, primo periodo c.p.a.), le udienze di merito successive alla prima si devono tenere “non oltre trenta giorni” dalla precedente, sicché i trenta giorni – peraltro di calendario e non liberi – sono un termine massimo e non un termine minimo, ben potendosi fissare l’udienza ad una distanza inferiore a 30 giorni dall’avviso; a.4) la previsione in commento, recata dall’ultimo periodo dell’art. 120, comma 6, c.p.a., rispondendo alla ratio acceleratoria che ispira al rito appalti, si deve applicare in ogni ipotesi di rinvio dell’udienza, quindi anche nel caso di rimessione della causa alla Plenaria e di fissazione della nuova udienza dopo la decisione della Plenaria.
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Impugnabilità diretta di un atto avente forza di legge dinanzi al giudice amministrativo: sussiste il difetto assoluto di giurisdizione. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 22 marzo 2021, n. 2409.
È inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso con il quale si impugni in via diretta dinanzi al giudice amministrativo un atto avente forza di legge, chiedendone l’annullamento previa rimessione alla Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, sul presupposto che nella specie si tratti di una leggeprovvedimento.
Ha chiarito la Sezione, con riferimento alle “leggi-provvedimento”, che se è vero che la Corte, al fine di assicurare piena tutela alle situazioni soggettive degli amministrati che si assumano lese da una norma di legge a contenuto
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sostanzialmente provvedimentale, assume un approccio ampio sulla rilevanza delle questioni di costituzionalità (e, quindi, come sottolineato anche dal Comune odierno appellante, anche sui rapporti tra giudizio di costituzionalità e giudizio a quo), ciò nondimeno deve escludersi l’impugnabilità diretta della legge-provvedimento dinanzi al giudice amministrativo, dovendo il giudizio di costituzionalità conservare il proprio carattere incidentale, e quindi muovere pur sempre dall’impugnazione di un atto amministrativo (sulla cui qualificazione in termini di lesività e impugnabilità, a sua volta la giurisprudenza amministrativa adotta un approccio peculiare rispetto ai comuni principi proprio in quanto trattasi di atti direttamente applicativi di una legge- provvedimento, v. Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2008, n. 4933).
Regole e principi dei contratti attivi. Pronuncia del TAR Salerno.
TAR Salerno, Sez. I, sent. del 22 marzo 2021, n. 727.
Ai sensi dell'art. 4, d.lgs. n. 50 del 2016, i contratti attivi della Pubblica amministrazione sono esclusi dalla procedura di evidenza pubblica, ma sono tuttavia assoggettati ai “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”. Quindi la Pubblica Amministrazione che intenda affidare a terzi un proprio bene non può liberamente, come un qualsiasi contraente privato, individuare la propria controparte negoziale (mediante le modalità ritenute più opportune), ma deve rispettare un nucleo minimo di regole di evidenza pubblica (in particolare, di pubblicità), a tutela dell’interesse pubblico al miglior utilizzo del bene, della concorrenza e del mercato.
Ha chiarito la Sezione che ai fini dell'inclusione di un bene nel patrimonio indisponibile deve sussistere il doppio requisito, soggettivo e oggettivo, id est, la manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo, di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio, e l'effettiva e attuale destinazione del bene a pubblico servizio” (Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2020, n. 5779).
Come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione (sia pure ai fini della delimitazione della giurisdizione esclusiva ex art. 33 del d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80) con sentenza 30 marzo 2000, n. 71, “il servizio si qualifica come "pubblico" perché l'attività in cui esso consiste si indirizza istituzionalmente al pubblico, mirando a soddisfare direttamente esigenze della collettività in coerenza con i compiti dell'amministrazione pubblica (che possono essere realizzati direttamente o indirettamente, attraverso l'attività di privati). Il servizio pubblico è, cioè, caratterizzato da un elemento funzionale (soddisfacimento diretto di bisogni di interesse generale) che non si rinviene nell'attività privata imprenditoriale, anche se indirizzata e coordinata a fini sociali”. Nel caso esaminato dalle Sezioni Unite si è, così, affermato che “l'attività di produzione e distribuzione di farmaci da parte delle case farmaceutiche non si indirizza istituzionalmente al pubblico, servendo a rifornire strutture (ospedaliere e farmaceutiche) che soddisfano successivamente le esigenze della collettività”.
Di conseguenza, lo strumento giuridico attraverso il quale concedere a terzi il diritto di (mera) utilizzazione del bene è rappresentato dallo schema negoziale privatistico della locazione, come chiarito dalla giurisprudenza, che evidenzia come: “questa corretta impostazione, incentrata sulla diversa natura oggettiva dei beni, pur soggettivamente riferibili al titolare pubblico, determina anche conseguenze in ordine alla individuazione degli strumenti giuridici utilizzabili per attribuire a soggetti terzi il diritto di utilizzazione. 18. Tali mezzi non sono affatto fungibili per tutti i beni soggettivamente appartenenti all'amministrazione, ma devono risultare congruenti alle regole proprie di ciascuna categoria di beni. In tale prospettiva, il modulo pubblicistico della concessione appare l'unico pienamente compatibile con il regime dei beni pubblici in senso stretto (patrimonio indisponibile e demanio). Non sembra avere spazio, invece, lo schema normativo della locazione di diritto comune, se non nei limitati margini in cui la relativa disciplina sia puntualmente recepita nelle convenzioni accessive al provvedimento, oppure esprima alcuni principi di carattere generalissimo, idonei a colmare eventuali lacune di disciplina del rapporto” e che “in difetto di tali condizioni e della conseguente ascrivibilità del bene al patrimonio indisponibile, la cessione in godimento del bene medesimo in favore di privati non può essere ricondotta ad un rapporto di concessione amministrativa (demaniale), ma, inerendo ad un bene facente parte del patrimonio disponibile, al di là del nomen iuris che le parti contraenti abbiano inteso dare al rapporto, essa viene ad inquadrarsi nello schema privatistico della locazione”.
La Suprema Corte si esprime in tema di contestazioni "a catena" nell'ambito della disciplina emergenziale di cui al decreto-legge 17 marzo 2020, n. 83.
Corte di Cassazione, Sez. II, sent. del 23 marzo 2021, n. 11165.
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La Seconda sezione ha affermato che, in tema di contestazioni "a catena", la sospensione dei termini di custodia cautelare, conseguente all’applicazione della disciplina emergenziale di cui al decreto-legge 17 marzo 2020, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, in relazione alla misura adottata per prima opera anche con riferimento ai termini, decorrenti dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza, relativi alla misura adottata con la seconda ordinanza.
Accesso agli atti sanitari finalizzato all'esperimento dell'azione giudiziaria. Pronuncia del TAR Pescara. TAR Pescara, sent. del 23 marzo, n. 180.
E' illegittimo il diniego di accesso alla copia della segnalazione effettuata da un’Azienda sanitaria locale al Sistema di Monitoraggio degli errori sanitari, istituito presso il Ministero della salute, se è solo tale documentazione a consentire l’effettivo esercizio del controllo del privato sull’operato della Pubblica Amministrazione e l'eventuale esperimento dell'azione giudiziaria.
Ritiene il Collegio che vada riconosciuta in capo all’odierna ricorrente la sussistenza di una posizione differenziata, giuridicamente rilevante, qualificabile come interesse legittimo, dotata dei connotati della concretezza ed attualità necessari per proporre ricorso in funzione del conseguimento di un’utilità, che pacificamente può rivestire anche natura morale o mediata, conseguibile per effetto di una pronuncia favorevole che, stante la natura ed il rango costituzionale primario del bene-interesse protetto, non può restare circoscritto né soddisfatto in un’accezione meramente patrimoniale limitata al solo possibile esperimento dell’azione di responsabilità professionale per danni, o all’accesso agli atti del procedimento (cfr Cons. St. n.5018/2019).
Va innanzitutto rilevato, che, contrariamente a quanto dedotto, l’istanza proposta dalla ricorrente non ha ad oggetto l’attività di organizzazione interna con cui l’amministrazione si occupa della prevenzione e della gestione del rischio sanitario, c.d. risk managmenet, onde migliorare il livello e la qualità del servizio nei confronti della collettività. Ciò in quanto, a ben vedere, l’attività di gestione del rischio, attiene ad una fase necessariamente successiva a quella di individuazione dell’evento, e non preventiva, e, come si evince dal contenuto del Protocollo Ministeriale sopra richiamato, si identifica nella redazione di un Piano di Azione da redigere e trasmettere, 45 giorni dopo la segnalazione dell’evento come avverso, per descrivere “le azioni intraprese in seguito ai risultati emersi dall’indagine avviata dalla struttura ed in particolare dall’analisi delle cause e dei fattori contribuenti e/o determinanti l’evento sentinella” con l’individuazione della figura del responsabile del monitoraggio dell’azione”. In particolare, come si è innanzi anticipato, nel Protocollo per l’individuazione degli eventi sentinella, la comunicazione dell’evento avverso avviene nella Fase 1 con la Scheda A, e solo successivamente, una volta che siano state accertate le cause ed i fattori di rischio, questi saranno comunicati assieme al Piano di Azione che fa parte della Scheda B propria della Fase 2 che deve essere inviata dopo 45 giorni dalla validazione della Scheda 1 sugli eventi sentinella. La redazione del Piano di Azione propria del risk management costituisce quindi solo l’ultima fase di un processo di individuazione, verifica dell’evento, accertamento della sua connotazione di gravità, ed individuazione delle cause che scaturisce comunque dalla valutazione del singolo caso clinico e dal suo inquadramento o meno come anomalia suscettibile di legittimare l’intervento del piano contenente le misure di riduzione dell’errore e di contenimento del rischio.
In sostanza, parte ricorrente, con l’istanza in esame, non ha inteso sollecitare una pronuncia dell’amministrazione sull’adozione del Piano di Azione previsto dal Protocollo Ministeriale sugli eventi sentinella, rispetto al quale è indubbiamente estranea, trattandosi di un’attività pro futuro, ma ha mostrato un interesse conoscitivo rispetto alle motivazione della qualificazione o mancata qualificazione del sinistro come evento avverso, che attiene ad una fase comunque antecedente e prodromica all’attivazione del c.d. risk management che intanto può essere attivato in quanto un evento avverso sia qualificato come evento sentinella e sia considerato fattore di rischio.
Non vi è dubbio che il sistema delineato dall’art, 1, commi 538 e 539, della l. n. 208 del 2015, dall’art. 3 bis del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, l’art. 1, comma 539, della l. n. 208 del 2015, come modificato dall’art. 16, comma 1, della l. n. 24 del 2017,e dalla legge n. 24/2017, sia rivolto a garantire nei confronti della collettività una migliore gestione del rischio connesso agli errori sanitari, una maggiore appropriatezza delle risorse disponibili, ed una migliore tutela del paziente.
Tuttavia la posizione soggettiva di parte ricorrente inerisce esclusivamente la fase di individuazione e qualificazione del sinistro, ed è del tutto estranea alla successiva fase di attivazione delle misure correttive che si estrinseca attraverso i percorsi di audit, lo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, l’analisi delle possibili attività finalizzate alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari, la sensibilizzazione e formazione continua del personale, l’acquisizione dei dati da parte dell’Osservatorio presso i Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e per la sicurezza del paziente, ossia tutte quelle iniziative che sono pertinenti alla gestione del rischio ed all’individuazione delle soluzioni più appropriate che ineriscono la tutela della salute come bene della collettività. Tale sistema risponde ovviamente ad
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un interesse pubblico finalizzato alla prevenzione di rischi in materia sanitaria e al monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure che, certamente, si colloca nella più ampia e fondamentale cornice del diritto alla sicurezza delle cure, affermato dall’art. 1 della l. n. 24 del 2017, ed è indubitabile che ad esso sia da ritenersi estranea la posizione del singolo paziente, il cui evento è l’occasione da cui scaturisce l’attivazione del meccanismo rispetto al quale il singolo non potrà in alcun modo interloquire con gli organismi preposti, in presenza di un processo di organizzazione interno all’amministrazione.
Non può quindi accedersi ad un’interpretazione sulla cui base, nella materia in esame, non possa configurarsi come tutelabile la posizione soggettiva di interesse legittimo del privato che abbia subito una lesione a fronte dell’esercizio di un’attività amministrativa con cui l’A.sl. nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica esprime una valutazione medica in ordine alla riconducibilità di un sinistro a gravi errori e/o anomalie nel funzionamento di un servizio o nella condotta professionale degli operatori sanitari.
Appare innanzitutto riduttivo ritenere che la tutela del privato possa trovare spazio solo nell’ambito della giurisdizione ordinaria, secondo le diverse forme e modalità, previste dalla stessa l. n. 24 del 2017, ossia attraverso l’esperimento dell’azione di risarcimento del danno cagionato dall’errore medico (v., in particolare, art. 7 della l. n. 24 del 2017), o tramite accesso agli atti come previsto dall’art. 4 commi 2 e 3 della legge n. 24/2017.
Come si è affermato in precedenza, con la pronuncia non definitiva di questo T.a.r. n.349/2017 non fatta oggetto di gravame, va riconosciuta come immanente al nostro ordinamento la rilevanza giuridica che viene conferita all’ interesse legittimo individuale e qualificato di ciascun paziente, quale fruitore e finanziatore del servizio sanitario nazionale che trova conferma nel sempre maggior rilievo accordato agli interessi procedimentali amministrativi degli utenti dell’attività sanitaria, e che nella materia in esame trova spazio nell’ampio ruolo attribuito sia al paziente che ai suoi familiari quali “parti necessarie” nella partecipazione al procedimento di individuazione e qualificazione dell’evento avverso, che non può dirsi riducibile al mero apporto di un interventore volontario, o portatore di interesse indifferenziato.
Di qui non può ritenersi percorribile l’opzione di parte resistente incentrata sull’assenza di legittimazione dei pazienti stessi e dei loro familiari, oltre che di tutti i potenziali utenti, ad agire avverso l’inerzia dell’Amministrazione rispetto all’attività discrezionale tecnica di qualificazione giuridica del sinistro, poiché, a voler diversamente argomentare, gli istituti appena menzionati resterebbero rimessi al mero arbitrio dell’Amministrazione stessa e sostanzialmente privi di effettività, in assenza di garanzia di un controllo di legittimità sulla fase di individuazione del rischio che presuppone lo studio e l’analisi del singolo caso da parte dell’amministrazione, con implicito riconoscimento di un errore e/o di un malfunzionamento del servizio la cui gravità, anche in presenza di un solo evento, è suscettibile di mettere in moto il complesso sistema del c.d. risk management di sicuro interesse pubblico.
Un candidato escluso da una gara, nel suo ricorso contro l’ammissione dell'offerta di un altro offerente, non può invocare unicamente la violazione del principio di eguaglianza nella valutazione delle offerte. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 47 del 24 marzo 2021, Sentenza nella causa C-771/19 NAMA Symvouloi Michanikoi kai Meletites AE - LDK Symvouloi Michanikoi A.E. e a./Archi Exetasis Prodikastikon Prosfigon (AEPP) e Attiko Metro A.E.
Il diritto dell’Unione osta a una prassi nazionale secondo la quale un candidato escluso da una gara in un appalto pubblico, nel suo ricorso contro l’ammissione dell'offerta di un altro offerente, può invocare unicamente la violazione del principio di eguaglianza nella valutazione delle offerte.
Il rigetto del ricorso amministrativo precontenzioso contro l’esclusione del candidato non incide sul suo interesse ad agire, purché tale rigetto da parte di un’istanza nazionale indipendente non abbia acquisito autorità di cosa giudicata Il 24 gennaio 2018, la società Attiko Metro ha lanciato una gara aperta per i servizi di consulenza tecnica per il progetto di estensione della metropolitana di Atene (Grecia)1 , del valore di circa 21,5 milioni di euro.
La prima fase della procedura di aggiudicazione comprendeva, segnatamente, il controllo delle offerte tecniche dei candidati, mentre la seconda fase comprendeva l'apertura delle offerte economiche e la valutazione complessiva. Quattro candidati, tra cui NAMA e a. e SALFO e a. 2 , delle associazioni di imprese di consulenza tecnica, hanno presentato un’offerta ciascuno. Il 6 marzo 2019, il consiglio di amministrazione della Attiko Metro ha deciso di escludere l’offerta della NAMA allo stadio del controllo delle offerte tecniche, per il fatto che l'esperienza di alcuni membri della sua squadra nella costruzione di opere non soddisfaceva i requisiti del bando di gara mantre ha ammesso l’offerta della SALFO nella seconda fase della procedura. Il 26 marzo 2019, la NAMA ha presentato all’Archi Exetasis
Prodikastikon Prosfigon (AEPP) (Autorità per i ricorsi amministrativi precontenziosi in materia di appalti pubblici,
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Grecia) 3 un ricorso amministrativo precontenzioso contro questa decisione, contestando sia il rigetto della sua offerta tecnica sia l'ammissione dell'offerta tecnica della SALFO. Con decisione del 21 maggio 2019, l'AEPP ha parzialmente respinto questo ricorso, accogliendolo unicamente nella parte in cui era diretto contro le motivazioni della decisione della Attiko Metro riguardo alla prova dell'esperienza di uno dei membri della squadra proposta dalla NAMA.
La NAMA ha proposto dinanzi al Symvoulio tis Epikrateias (Epitropi Anastolon) [Consiglio di Stato (Commissione per le sospensioni) Grecia], un ricorso con cui chiedeva la sospensione dell'esecuzione della decisione dell'AEPP e della decisione del consiglio di amministrazione della Attiko Metro. Detto giudice ha osservato di aver costantemente affermato che un offerente escluso dalla gara non ha interesse a contestare la legittimità della partecipazione di un altro offerente, a meno che non lamenti una violazione del principio di eguaglianza nella valutazione delle offerte. Per questa ragione, ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia questioni relative all’interpretazione della direttiva sulle aggiudicazioni di appalti e di concessioni 4 . Detto giudice intende chiarire, in particolare, se tale prassi nazionale sia in contrasto con il diritto dell’Unione. Con l’odierna sentenza, la Corte ricorda, anzitutto, che si applica al regime di tutela giurisdizionale instaurato dalla direttiva il principio giurisprudenziale5 secondo il quale, nell'ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, gli offerenti di cui si chiede l'esclusione hanno un equivalente interesse legittimo all'esclusione dell'offerta degli altri offerenti ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto.
Tale direttiva ha l’obiettivo di una tutela giurisdizionale efficace e rapida, da ottenersi segnatamente attraverso provvedimenti provvisori, e non autorizza gli Stati membri a subordinare l’esercizio del diritto di ricorso al fatto che la procedura di aggiudicazione di appalto pubblico abbia formalmente raggiunto una fase determinata. Sotto questo profilo, una normativa nazionale che richieda che l’offerente attenda la decisione di aggiudicazione dell’appalto prima di poter proporre un ricorso contro la decisione di ammissione di un altro offerente violerebbe la direttiva. In tal senso, la Corte ha concluso che l’offerente escluso può presentare un ricorso contro la decisione dell'ente aggiudicatore che ammette l'offerta di uno dei suoi concorrenti, qualunque sia la fase della procedura di attribuzione di un appalto pubblico in cui tale decisione viene adottata. Per quanto riguarda, poi, i motivi che un offerente escluso può far valere nell'ambito di un siffatto ricorso, la Corte rileva che la direttiva non prevede alcuna condizione diversa da quella secondo cui l’offerente può invocare motivi relativi alla violazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici o delle norme nazionali che recepiscono tale diritto e ha il diritto di sollevare qualsiasi motivo contro la decisione di ammettere un altro offerente, compresi quelli non collegati alle irregolarità in base alle quali la sua offerta è stata esclusa, purché la decisione di esclusione di detto offerente non sia stata confermata da una decisione che ha acquisito autorità di cosa giudicata, ciò che spetta al giudice del rinvio di determinare.
Infine, quanto al fatto che il diritto nazionale imponga all'offerente escluso di presentare un ricorso amministrativo precontenzioso prima di poter adire il giudice nazionale, la direttiva autorizza gli Stati membri ad affidare ad organi non giurisdizionali il compito di decidere in primo grado sui ricorsi previsti da tale direttiva, purché ogni presunto inadempimento nell'esercizio dei poteri ad essi conferiti sia soggetto a un ricorso giurisdizionale o a un ricorso presso un altro organo che sia una giurisdizione indipendente dall'ente aggiudicatore e dall’organo non giurisdizionale che ha statuito in primo grado. In tale contesto, la Corte conclude che la direttiva dev’essere interpretata nel senso che un offerente escluso da una gara in un appalto pubblico in uno stadio precedente alla fase di aggiudicazione di tale appalto, la cui domanda di sospensione dell'esecuzione della decisione che lo ha escluso sia stata respinta, può invocare, nella sua domanda di sospensione dell'esecuzione della decisione di ammissione dell'offerta di un altro offerente, presentata contemporaneamente, tutti i motivi attinenti alla violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o di norme nazionali che traspongono tale diritto, ivi compresi motivi che non presentano connessione con le irregolarità in base alle quali la sua offerta è stata esclusa. Tale facoltà non è influenzata dal fatto che il ricorso amministrativo precontenzioso dinanzi a un organo nazionale indipendente che, secondo il diritto nazionale, doveva essere previamente presentato da tale offerente contro la sua decisione di esclusione sia stato respinto, purché tale rigetto non abbia acquisito autorità di cosa giudicata.
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Sono soggetti a una sola sanzione i conducenti di camion e autobus che durante un controllo non presentano i fogli di registrazione del cronotachigrafo relativi ai 28 giorni precedenti. Pronuncia del CGUE.
CGUE, comunicato n. 45 del 24 marzo 2021, sent. nelle cause riunite C-870/19 e C-871/19 Prefettura Ufficio territoriale del governo di Firenze / MI e TB.
I conducenti di camion, pullman e autobus, che, in occasione di un controllo, non presentano i fogli di registrazione del cronotachigrafo relativi alla giornata del controllo e ai 28 giorni precedenti, sono soggetti a una sola sanzione, indipendentemente dal numero di fogli di registrazione mancanti A tale settore è applicabile il principio di legalità dei reati e delle pene, secondo il quale i cittadini devono essere in grado di conoscere i comportamenti che implicano la loro responsabilità e le sanzioni previste dalla legge Nel 2013, in occasione di due controlli stradali effettuati in Italia, le autorità italiane hanno constatato che i sigg. MI (causa C-870/19) e TB (causa C-871/19), nella loro qualità di
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conducenti di veicoli adibiti al trasporto su strada (camion, pullman o autobus), non erano in grado di presentare i fogli di registrazione del cronotachigrafo installato a bordo dei loro veicoli, relativi alla giornata in corso e a numerosi dei 28 giorni precedenti. Tali autorità hanno quindi inflitto varie sanzioni amministrative ai sigg. MI e TB, per una serie di infrazioni.
I sigg. MI e TB hanno impugnato tali sanzioni dinanzi ai giudici italiani. La Corte suprema di cassazione (Italia), investita di tali controversie in ultimo grado, chiede alla Corte di giustizia, in sostanza, se il diritto dell’Unione1 , il quale impone che un conducente sia in grado di presentare i fogli di registrazione relativi al periodo comprendente la giornata del controllo e i 28 giorni precedenti, debba essere interpretato nel senso che, in circostanze come quelle dei procedimenti di cui trattasi, le autorità competenti debbano infliggere al conducente una sanzione unica, a fronte di un’infrazione unica, oppure più sanzioni distinte, a fronte di più infrazioni distinte, il cui numero corrisponderebbe a quello dei fogli di registrazione mancanti. Nella sua sentenza odierna, la Corte dichiara che, in caso di mancata presentazione, da parte dei conducenti di camion, pullman e autobus sottoposti a controllo, dei fogli di registrazione del cronotachigrafo relativi a vari giorni di attività nel corso del periodo comprendente la giornata del controllo e i 28 giorni precedenti, le autorità competenti dello Stato membro del luogo del controllo sono tenute a constatare un’infrazione unica in capo a tale conducente e a infliggergli un’unica sanzione.
La Corte osserva che la normativa in questione mira, da un lato, al miglioramento delle condizioni di lavoro dei conducenti di camion, pullman e autobus nonché della sicurezza stradale in generale e, dall’altro, alla definizione di criteri uniformi relativi ai periodi di guida e di riposo dei conducenti nonché al loro controllo. Ciascuno Stato membro deve garantire l’osservanza di tali norme nel suo territorio predisponendo un regime sanzionatorio per ogni infrazione. La Corte sottolinea che il diritto dell’Unione stabilisce un obbligo unico applicabile all’intero periodo di 29 giorni. Pertanto, la violazione di tale obbligo costituisce un’infrazione unica e istantanea, consistente nell’impossibilità, per il conducente interessato, di presentare, al momento del controllo, tutti o parte di questi 29 fogli di registrazione. Tale infrazione non può che dar luogo a una sola sanzione.
La Corte precisa, tuttavia, che un’infrazione del genere è tanto più grave quanto più elevato è il numero di fogli di registrazione che non possono essere presentati dal conducente. La Corte ricorda che gli Stati membri devono prevedere sanzioni sufficientemente elevate, proporzionate alla gravità delle infrazioni, per produrre un reale effetto dissuasivo. Inoltre, tali sanzioni devono essere sufficientemente modulabili a seconda della gravità delle infrazioni. La Corte sottolinea che il principio di legalità dei reati e delle pene, sancito dall’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è applicabile a tale settore. Tale principio esige che la legge definisca chiaramente le infrazioni e le sanzioni che le reprimono. Tale condizione si rivela soddisfatta qualora il soggetto sia in grado di sapere, sulla base del dettato della disposizione pertinente e se del caso con l’aiuto dell’interpretazione che ne è data dai tribunali, quali atti e omissioni implichino la sua responsabilità.
Il CGARS si esprime sulla concessione servizio di distribuzione automatica di bevande e prodotti alimentari preconfezionati in ambito scolastico.
CGARS, sent. del 24 marzo 2021, n. 247.
La gara bandita da un Istituto scolastico per l’affidamento in concessione del servizio di distribuzione automatica di bevande e prodotti alimentari preconfezionati presso le proprie sedi ha ad oggetto una “concessione di servizi” ex art. 3, comma 1, lett. vv), d.lgs. n. 50 del 2016, che l’Istituto scolastico intende affidare a terzi accompagnata da una concessione d’uso di spazio pubblico; infatti, anche a voler prescindere dalla espressa qualificazione di concessione di servizi fornita dalla stazione appaltante, l’oggetto della gara è costituito da un contratto a titolo oneroso con cui la stazione appaltante affida ad un operatore economico la gestione di un servizio riconoscendo a titolo di corrispettivo il diritto di gestire il servizio, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dello stesso, per cui l’oggetto della gara rientra esattamente nella definizione di concessione di servizi scolpita dal codice dei contratti pubblici.
L’obbligo di indicazione separata dei costi di manodopera e degli oneri di salute e di sicurezza - prevista dall’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 e astrattamente applicabile anche ai contratti di concessione ai sensi dell’art. 164,
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comma 2, dello stesso Codice, secondo cui alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di servizi si applicano “per quanto compatibili”, le disposizioni relative ai “criteri di aggiudicazione” – non si estende alla concessione del servizio di distribuzione automatica di bevande e prodotti alimentari preconfezionati, nella quale la componente “umana” del servizio assume rilievo minimo.
Ha chiarito la Sezione che per servizio di ristorazione mediante distributori automatici (servizio coincidente con quello oggetto della procedura di gara), si intende la gestione economico-funzionale del servizio di ristoro a mezzo di distributori automatici di alimenti, bevande e altri generi di conforto da collocarsi presso i locali dell’Istituzione; tale servizio comprende anche lo svolgimento di attività accessorie quali, a titolo esemplificativo, la consegna, l’installazione e la messa in esercizio dei distributori nonché la manutenzione.
In tal caso, così come nel più ampio servizio di ristorazione mediante bar, accanto all’affidamento del servizio, l’Istituzione concede al gestore l’utilizzo degli spazi interni necessari all’esercizio dell’attività (concessione di bene pubblico), con specifico riferimento alle aree nelle quali è ubicato il bar o. come nel caso di specie, sulle quali vengono installati i distributori. Il contratto di affidamento dei servizi in oggetto, secondo una consolidata giurisprudenza, si qualifica in termini di “concessione di servizi”, in quanto determina l’assunzione in capo all’affidatario del rischio operativo legato alla sua gestione.
Il rischio operativo si sostanzia essenzialmente in: rischio di domanda, in quanto il concessionario ottiene il proprio compenso non già dall’Istituzione ma dagli utenti che fruiscono del Servizio stesso (acquistando le bevande e gli alimenti offerti dal bar o dai distributori automatici), con conseguente rischio connesso alle possibili oscillazioni dei volumi di domanda; rischio di disponibilità, in quanto il concessionario deve gestire il servizio, garantendo i livelli prestazionali stabiliti nel contratto, trovando in caso contrario applicazione le penali pattuite nel contratto medesimo.
L’affidamento deve garantire la qualità, la continuità, l’accessibilità, la disponibilità e la completezza dei servizi, tenendo conto delle esigenze specifiche delle diverse categorie di utenti. Il concessionario di servizi può essere remunerato, a seconda delle specificità del singolo affidamento: dall’utenza; mediante canone o pagamento da parte dell’Amministrazione; mediante contributo pubblico; attraverso una remunerazioni in diritti.
Il concessionario è remunerato dall’utenza e tale forma di remunerazione si sostanzia nel cash flow derivante allo stesso dalla erogazione di servizi presso l’utenza (c.d. sfruttamento economico del servizio). Tale forma di remunerazione, che, in definitiva, deriva dalla vendita dei servizi resi al mercato, è infatti connaturata ai cc.dd. servizi caldi, nei quali si configura un rischio operativo in capo al privato sul lato della domanda, ai sensi di quanto previsto dall’art. 165, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016.
Il servizio in discorso ha indubbiamente una rilevanza pubblica, in quanto, pur estraneo alle funzioni istituzionale dell’Amministrazione aggiudicatrice, ne costituisce comunque un’utilità accessoria, in favore degli utenti del servizio pubblico scolastico, vale a dire dei docenti, del personale impiegatizio, degli studenti e dei visitatori, sicché può ritenersi strumentale alle esigenze connesse alla continuità della presenza in sede del personale, nonché degli utenti del vero e proprio servizio pubblico scolastico. In altri termini, la natura pubblica del servizio trova fondamento nella sua strumentalità allo svolgimento delle funzioni pubbliche istituzionali dell’Amministrazione scolastica.
Ad avviso del CGARS l’indicazione separata dei costi di manodopera e degli oneri di salute e di sicurezza si rivelerebbe un inutile e dannoso formalismo, in quanto lesivo del principio del favor partecipationis cui sono ispirate le procedure ad evidenza pubblica. La ratio dell’evidenza pubblica sia a livello nazionale che sovranazionale, infatti, è volta al migliore utilizzo possibile del danaro e degli altri beni della collettività e alla tutela della libertà di concorrenza tra le imprese. Di talché, il principio cardine delle gare pubbliche è quello del favor partecipationis, atteso che solo attraverso la più ampia possibile presentazione di offerte da parte degli operatori economici “qualificati” è possibile garantire, da un lato, che l’Amministrazione individui, tra i tanti, il “miglior contraente”, dall’altro, l’esplicazione di una piena ed effettiva concorrenza tra le imprese in un mercato libero.
Sulla base delle esposte considerazioni, l’inciso “per quanto compatibili” di cui all’art. 164, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 deve essere interpretato nel senso che non è compatibile con il sistema della scelta del contraente, disegnato in sede europea e nazionale, l’applicabilità dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 all’affidamento di una concessione di servizi in cui, come nel caso in esame, l’elemento della prestazione lavorativa risulti di scarsa incidenza.
Nella specie, la giurisprudenza è recentemente intervenuta per rilevare che, qualora si tratti di una concessione di servizi e non di un contratto passivo di appalto per lavori, servizi o forniture, la diversa struttura giuridica del negozio non comporta la dovuta applicazione della norma di cui al richiamato art. 95, comma 10, vista l’evidente differenza strutturale ed il peso economico assunto nei secondi dal costo del lavoro.
Nel caso di specie, in particolare, la componente “umana” del servizio assume rilievo minimo, riducendosi alle attività che richiedono la presenza fisica di prestatori di lavoro nell’adempimento degli obblighi relativi al rifornimento dei
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distributori automatici e sostituzione degli stessi in caso di guasti irreparabili, pulizia, rimozione giornaliera dei rifiuti e manutenzione ordinaria e straordinaria dei distributori e degli impianti, nonché pulizia delle aree antistanti), le quali, da considerare in relazione alla tipologia di servizio gestito, richiedono evidentemente una minima applicazione di personale.
L’incidenza delle prestazioni di lavoro, invece, potrebbe assumere maggiore consistenza nella diversa ipotesi di affidamento di “servizio di ristorazione mediante bar”, in cui sarebbe necessario prevedere la presenza di uno o più cuochi e di altro personale a carattere continuativo, ma nel “servizio di ristorazione mediante distributori automatici” è intuitivamente esiguo.
Le componenti di reddito ad efficacia pluriennale dilatano i termini di accertamento. Pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte.
Corte di Cassazione, SS.UU., sent. del 25 marzo 2021, n. 8500.
Le Sezioni Unite, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio: “nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, ex art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.
Il Consiglio di Stato si esprime sull'istituto dell'avvalimento premiale.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 25 marzo 2021, n. 2526.
L’istituto dell’avvalimento rileva non solo ai fini della qualificazione ma anche per la valutazione dell’offerta.
Ha chiarito la Sezione che la problematica dell’avvalimento c.d. premiale (che evoca, in buona sostanza, la praticabilità del suo utilizzato anche ai fini del riconoscimento di un punteggio maggiore nella valutazione dell'offerta tecnica, ove essa sia formulata tenendo in considerazione le competenze, risorse e capacità effettivamente trasferite all’operatore economico ausiliato) ha diviso la giurisprudenza del giudice amministrativo.
Invero a fronte di un orientamento sostanzialmente favorevole e prima facie generalizzante (che muove dalla considerazione che ciò che è oggetto del contratto di avvalimento entri a fare organicamente parte della complessiva offerta presentata dalla concorrente: C.g.a. 15 aprile 2016, n. 109), si trova affermato un avviso apparentemente preclusivo (da ultimo ribadito – peraltro, con riferimento ad una fattispecie in cui l’ausiliata era già in possesso, in proprio, dei requisiti di partecipazione – da Cons. Stato, sez. V, 16 marzo 2020, n. 1881) ed uno in certo senso intermedio, che lo esclude nei casi in cui l’elemento di valutazione dell’offerta consista in un requisito soggettivo o curriculare, ammettendolo per i requisiti speciali.
Ad avviso della Sezione, però, si tratti di un contrasto piuttosto apparente che reale.
Come è noto, la funzione essenziale dell’istituto è quella di legittimare, nella prospettiva proconcorrenziale del favor partecipationis, l’ampliamento della platea dei potenziali concorrenti alle procedure evidenziali, attraverso l’abilitazione all’accesso di operatori economici che, pur privi dei necessari requisiti, dei mezzi e delle risorse richieste dalla legge di gara, siano in grado di acquisirli grazie all’apporto collaborativo di soggetti terzi, che ne garantiscano la messa a disposizione per la durata del contratto.
La complessiva logica ‘economica’ sottesa al meccanismo partecipativo si traduce, sul piano ‘giuridico’, nella valorizzazione – in un contesto negoziale trilaterale, operante sia sul piano interno dei “legami” (peraltro formalmente non tipizzati) tra la concorrente ausiliata e l’impresa ausiliaria che sul piano esterno dei rapporti con la stazione appaltante (cfr. art. 89, comma 1 d. lgs. n. 50/2016, che pretende la formalizzazione di apposita dichiarazione promissoria impegnativa indirizzata ad utrasque) – di una effettiva ‘messa a disposizione’ di risorse di carattere economico, finanziario tecnico o professionale (corrispondenti al c.d. requisiti speciali, di ordine oggettivo, concretanti criteri di selezione delle offerte, ex art. 83 d. lgs. cit.) che, ferma restando la formale imputazione della esecuzione (cfr. art. 89, comma 8), giustifica (anche laddove l’ausiliaria non assuma, come pure è astrattamente possibile, il ruolo di impresa associata o subappaltatrice: cfr., rispettivamente, art. 89, commi 1 e 8) la responsabilità solidale per l’esatto adempimento (cfr. art. 89, comma 5).
Per tal via, la (concreta) funzione dell’avvalimento (che ne fonda e, ad un tempo, ne limita la meritevolezza sul piano civilistico dei programmati assetti negoziali e la legittimità sul piano pubblicistico della dinamica procedimentale evidenziale) si specifica in relazione alla sua chiarita attitudine a dotare un operatore economico (che ne fosse privo) dei requisiti economico-finanziari, delle risorse professionali e dei mezzi tecnici “necessari per partecipare ad una
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procedura di gara”.
Sta in ciò (di là dalla distinzione tra avvalimento operativo ed avvalimento tutorio, rispettivamente operanti sul piano della prestazione divisata o della mera funzione di garanzia della serietà e qualità dell’offerta) il fondamento, diffusamente ribadito in giurisprudenza (cfr., da ultimo, la ricordata Cons. Stato n. 1881 del 2020), del divieto dell’avvalimento (meramente) premiale, il cui scopo (che trasmoda in alterazione, piuttosto che di implementazione, della logica concorrenziale) sia, cioè, esclusivamente quello di conseguire (non sussistendo alcuna concreta necessità dell’incremento delle risorse) una migliore valutazione dell’offerta.
Appare, in altri termini, dirimente la circostanza che il ricorso all’istituto operi a favore di un operatore che, in difetto, sarebbe effettivamente privo dei requisiti di partecipazione (alla cui acquisizione è, per tal via, concretamente funzionale l’apporto operativo dell’impresa ausiliaria) ovvero di chi – potendo senz’altro concorrere, avendone mezzi e requisiti – miri esclusivamente a alla (maggior) valorizzazione della (propria) proposta negoziale: nel qual caso la preclusione deve essere, propter tenorem rationis, correlata all’abuso di avvalimento, che lo trasforma, di fatto, in un mero escamotage per incrementare il punteggio ad una offerta cui nulla ha concretamente da aggiungere la partecipazione ausiliaria.
Con più lungo discorso, appare del tutto fisiologica l’eventualità che l’operatore economico concorrente ricorra all’avvalimento al fine di conseguire requisiti di cui è carente e, nello strutturare e formulare la propria offerta tecnica, contempli nell’ambito della stessa anche beni prodotti o forniti dall’impresa ausiliaria ovvero mezzi, attrezzature, risorse e personale messi a disposizione da quest’ultima: nel qual caso è evidente che i termini dell’offerta negoziale devono poter essere valutati ed apprezzati in quanto tali, con l’attribuzione dei relativi punteggi, nella prospettiva di una effettiva messa a disposizione della stazione appaltante all’esito dell’aggiudicazione e dell’affidamento del contratto. Deve, per contro, ritenersi precluso che il concorrente si avvantaggi, rispetto agli altri, delle esperienze pregresse dell’ausiliaria, ovvero di titoli o di attributi spettanti a quest’ultima (che, in quanto tali, non qualifichino operativamente ed integrativamente il tenore dell’offerta e non siano, perciò, oggetto di una prospettica e specifica attività esecutiva): ciò che, appunto, deve segnatamente dirsi nella ipotesi in cui il concorrente possegga già, in proprio, le risorse necessarie per l’esecuzione della commessa e ricorra all’ausilio all’esclusivo (ed evidentemente immeritevole) fine di conseguire un mero punteggio incrementale, cui non corrisponderebbe una reale ed effettiva qualificazione della proposta.
Del resto, a diversamente opinare, non solo si negherebbe la stessa ratio proconcorrenziale dell’istituto, ma si finirebbe per contraddire il canone di par condicio dei competitori, per i quali non sussistono, sul piano generale, preclusioni di sorta alla possibilità di indicare, nell’offerta, beni prodotti da altre imprese ovvero mezzi, personale e risorse, la cui disponibilità fosse acquisita in forza di contratti di subappalto o di subfornitura o di qualunque altro tipo di contratto idoneo.
In questo senso, anzi, trova piena giustificazione la generità tipologica che connota, per espressa opzione positiva, l’avvalimento, il cui tratto essenziale (fatto palese dalla evidente labilità connotativa della relativa formula linguistica) è proprio quello della irrilevanza, per la stazione appaltante, della natura dei rapporti sottostanti tra il concorrente ausiliato e l’impresa ausiliaria, in quanto ciò che occorre accertare è solo che il primo dimostri di poter disporre, a qualsiasi titolo, dei mezzi della seconda.
Se così è, l’avvalimento rileva non solo soli ai fini della qualificazione ma anche per la valutazione dell’offerta.
Discrezionalità dell'Ente locale di prevedere criteri e modalità nel cambio di destinazione d'uso per le strutture ricettive. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. I, 25 marzo 2021, n. 475.
Ai sensi dell’art. 8, l. 17 maggio 1983, n. 217, l’Ente locale può prevedere con discrezionalità criteri e modalità per la rimozione del vincolo alberghiero, distinguendo tra le diverse zone del suo territorio e tra le differenti tipologie di strutture, ma non può del tutto trascurare il profilo legato alla perdita di convenienza economico-produttiva dell’impresa alberghiera introducendo ulteriori presupposti non previsti dalla legge.
Ha ricordato la Sezione che il vincolo alberghiero è stato introdotto con l’articolo unico della l. 24 luglio 1936, n. 1692, di conversione, con modificazioni, del r.d.l. 2 gennaio 1936, n. 274, che vietava l’alienazione o la locazione “per uso diverso da quello alberghiero” (e “…senza la autorizzazione del Ministero per la stampa e la propaganda”) degli edifici alla data d’entrata in vigore del r.d.l. “… interamente o prevalentemente destinati ad uso di albergo, pensione o locanda…”. In sostanza, la rimozione del vincolo di destinazione, finalizzato a conservare l’offerta turistico-ricettiva, era consentita solo all’esito di un apposito procedimento autorizzatorio.
L’art. 1, d.lgs.lt. 19 marzo 1945, n. 117 ha prorogato l’efficacia della l. n. 1692 del 1936, e quindi il vincolo, “…fino a cinque anni dalla cessazione dello stato di guerra, fermi restando gli effetti degli atti e dei provvedimenti che siano stati presi a termini della legge stessa”; in seguito, il termine è stato ulteriormente prorogato con diversi interventi legislativi sino a quando, con sentenza 8 gennaio 1981 n. 4, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
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dell’ultima disposizione di proroga (la l. 28 luglio 1967, n. 628, che prolungava il vincolo sino al 31 dicembre 1968) giacché lasciava inalterato il vincolo alberghiero solo per i vecchi alberghi (risalenti ad epoca precedente al 1936), mentre quelli realizzati successivamente non ne erano gravati, pur essendo mutato il contesto che giustificava la differenziazione tra gli immobili soggetti alla proroga e quelli invece esonerati dal vincolo.
La Corte costituzionale, in particolare, è stata chiamata a pronunciarsi sulle censure mosse dal giudice a quo alla l. 28 luglio 1967, n. 628 (che prolungava il vincolo posto dalla precedente l. n. 358 del 1951) per violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., dal momento che le disposizioni di proroga del vincolo hanno, sì, mantenuto in vigore il precedente regime vincolistico, ma in un ambito più ridotto rispetto a quello dell'iniziale applicazione, lasciando ad esso sottoposti solo determinati immobili e risparmiandone altri. Il criterio discretivo adottato, osserva il giudice a quo, era giustificato nel momento in cui è stato sancito dal legislatore, ma con l'evolvere delle circostanze avrebbe perduto il suo razionale fondamento.
La Corte ha chiarito che la discriminazione fra gli immobili destinati ad uso alberghiero risale in verità al precedente articolo 26 del d.lg. del Capo provvisorio dello Stato 6 dicembre 1946, n. 424 che, al primo comma, dispone "le norme del decreto legislativo luogotenenziale 19 marzo 1945, n. 117, riguardanti la disponibilità degli immobili destinati ad uso alberghiero non si applicano nei confronti degli immobili che siano destinati ad uso di albergo, pensione o locanda, successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto" e ne spiega il significato: “il legislatore vuole, fin da questo momento, fugare le remore che l'ancora urgente ricostruzione edilizia può incontrare nel nostro settore, per via del regime vincolistico, ripristinato poco prima, con le norme del 1945, in tutto il suo rigore”. La norma citata pertanto “rimuove il vincolo, una volta per tutte, con riguardo agli immobili adibiti ad albergo dopo l'entrata in vigore dell'atto legislativo che la contiene: questa statuizione abolitiva del vincolo - (per il futuro, nel senso testè chiarito) - è, allora, evidentemente presupposta dalla successiva legge di proroga del 1951, là dove, all'art. 1, si fa esplicito riferimento soltanto agli immobili destinati all'uso alberghiero prima della data di pubblicazione del decreto n. 117 del 1945”.
La Corte ha quindi spiegato che il vincolo in definitiva grava di un onere in più gli immobili che avevano in precedenza ricevuto la destinazione prescritta, in ragione del fatto che nel dopoguerra vi era la “necessità di non diminuire le ridotte ed insostituibili attrezzature turistiche allora esistenti. Ma una tale esigenza, pressante per quanto fosse a suo tempo, è venuta affievolendosi, a misura che si è accresciuto ed ammodernato il patrimonio alberghiero; mentre la discriminazione introdotta nel regime vincolistico è troppo a lungo trascorsa da una proroga all'altra, sconfinando oltre il ragionevole esercizio della discrezionalità legislativa”. Ciò posto, la Corte ha concluso nel senso che sussiste la lesione del principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.
Dalla pronuncia della Corte costituzionale, la giurisprudenza successiva ha ricavato il principio dell'intrinseca natura temporalmente limitata dei vincoli per l'uso alberghiero di un immobile e il principio che tali vincoli hanno ragione di esistere in funzione di esigenze concrete e sono destinati naturalmente ad affievolirsi.
Come osservato dalla giurisprudenza amministrativa, la posizione della Corte costituzionale è diventata in seguito canone di azione del legislatore. È infatti intervenuta la l. 17 maggio 1983, n. 217 - Legge quadro per il turismo e interventi per il potenziamento e la qualificazione dell'offerta turistica - che ha posto i principi fondamentali in materia, ai quali le Regioni avrebbero dovuto conformarsi nell’esercizio della loro competenza legislativa concorrente.
La legge del 1983 ha previsto la possibilità che le leggi regionali sottopongano a vincolo di destinazione le strutture alberghiere, ai fini della conservazione e della tutela del patrimonio ricettivo e nel perseguimento dell’interesse pubblico dell’utilità sociale, nonché la facoltà dei Comuni di individuare, nell’ambito dei propri strumenti urbanistici, le aree destinate ad attività turistiche e ricettive, determinandone la disciplina di tutela e utilizzazione, in conformità alle disposizioni regionali eventualmente dettate in materia.
In particolare, pur prevedendosi all’art. 8 la possibilità di istituire un vincolo di destinazione per le strutture ricettive, è stata disposta espressamente, al comma 5 del citato articolo, la possibilità di rimozione di detto vincolo, dando incarico alle Regioni, al successivo comma 6, di procedere all’individuazione di criteri e modalità, fermo restando che tale limitazione viene comunque meno, su richiesta del proprietario, solo se è comprovata la non convenienza economicoproduttiva della struttura ricettiva e previa restituzione di contributi e agevolazioni pubbliche eventualmente percepiti e opportunamente rivalutati ove lo svincolo avvenga prima della scadenza del finanziamento agevolato.
La previsione del vincolo deriva dalla volontà del legislatore di accordare una tutela prioritaria allo sviluppo del settore turistico, ritenuto strategico per l'economia nazionale, e trova giustificazione nel fatto che occorre evitare di snaturare i tessuti turistico-ricettivi già esistenti – particolarmente importanti per un Paese a vocazione turistica qual è il nostro
e impedire forme di speculazione derivanti dalla trasformazione delle predette strutture in immobili destinati ad usi abitativi, anche in considerazione del fatto che spesso le strutture ricettive si trovano in luoghi di particolare pregio ambientale, paesaggistico o anche solo turistico.
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Tuttavia, l’Amministrazione, pur godendo di ampio potere discrezionale, deve rispettare la norma di legge che, in caso di non convenienza economico-produttiva, permette la rimozione del vincolo, seppure osservando i criteri e le modalità per la rimozione del vincolo fissati dalla legge regionale (art. 8, comma 6, l. n. 217 del 1983).
Le Sezioni Unite si esprimono sull'omologazione dell'accordo di ristrutturazione del debito in caso di mancata adesione da parte dell'amministrazione finanziaria.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 25 marzo 2021, n. 8504.
Le Sezioni Unite civili hanno stabilito che la controversia inerente il diniego sull’istanza di cd. “transazione fiscale” ex art. 182-ter l.fall. (nel testo vigente novellato dall’art. 1, comma 81, della legge n. 232 del 2016), proposta dal debitore nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall., appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, dovendosi valorizzare, per un verso, il tenore della seconda parte del comma 4 della predetta norma – pure inapplicabile “ratione temporis”, essendo stata aggiunta dall’art. 3, comma 1-bis, lett. b), del d.l. n. 125 del 2020 convertito con modificazioni dalla legge n. 159 del 2020, in vigore dal 4 dicembre 2020 –, che attribuisce al tribunale il potere di omologare l’accordo anche in mancanza di adesione da parte dell’amministrazione finanziaria, e, per altro verso, la “prevalente/assorbente” finalità concorsuale dell’accordo transattivo.
ELEZIONI POLITICHE E CONTENZIOSO PREELETTORALE: LA COSTITUZIONE NON ESCLUDE LA GIURISDIZIONE DEL GIUDICE ORDINARIO SULL’AMMISSIONE DI LISTE O DI CANDIDATI
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 26 marzo 2021
La Costituzione non esclude la giurisdizione del giudice ordinario – giudice “naturale” dei diritti – sul contenzioso che nasce nel cosiddetto procedimento preparatorio alle elezioni politiche nazionali, e che include le controversie relative all’ammissione di liste o di candidati, coinvolgendo quindi il diritto di elettorato passivo garantito dall’articolo 51 della Costituzione. Ferma la necessità di garantire l’indipendenza delle Camere - attraverso la riserva alle Giunte parlamentari del compito di giudicare i titoli di ammissione dei proclamati eletti - l’articolo 66 della Costituzione, sia nella formulazione testuale sia alla luce dei lavori dell’Assemblea costituente, «non sottrae affatto al giudice ordinario, quale giudice naturale dei diritti, la competenza a conoscere della violazione del diritto di elettorato passivo nellafase antecedente alle elezioni, quando non si ragiona né di componenti eletti di un’assemblea parlamentare né dei loro titoli di ammissione». Sono alcune delle affermazioni di maggior rilievo contenute nella sentenza n.48 (relatore Nicolò Zanon) depositata oggi, con cui la Corte costituzionale ha deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Roma sul Testo unico delle norme per l’elezione della Camera dei deputati (articolo 18-bis Dpr n. 361 del 1957).
Investito da un ricorso dell’associazione politica + Europa e di un candidato della medesima lista, il Tribunale dubitava della conformità a Costituzione dell’articolo 18-bis là dove stabilisce, da un lato, il numero minimo di sottoscrizioni che ciascuna lista deve raccogliere per presentarsi alle elezioni per la Camera dei deputati e, dall’altro, l’ambito dei soggetti esonerati dal relativo onere. In particolare, secondo il Tribunale doveva considerarsi eccessivo il numero di firme da raccogliere in ciascun collegio plurinominale (almeno 1500), e troppo ristretto il novero dei soggetti politici esonerati dall’onere di raccogliere le sottoscrizioni (limitato ai soggetti costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere).
La Corte - dopo aver preso atto dell’assenza di un rito processuale che, in relazione alle elezioni politiche nazionali, consenta la tutela giurisdizionale tempestiva del diritto di elettorato passivo - ha ritenuto comunque sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, soprattutto al fine di evitare il permanere di un ambito dell’ordinamento giuridico immune dal controllo di costituzionalità. Si legge infatti nella sentenza: «In un quadro in cui è la stessa Costituzione a disporre termini stringenti (in base all’articolo 61 della Costituzione le elezioni delle nuove Camere devono svolgersi entro 70 giorni dalla fine delle precedenti), ne deriva la necessità, anche per le elezioni politiche, della previsione di un rito ad hoc, che assicuri una giustizia pre-elettorale tempestiva. In attesa del necessario intervento del legislatore, allo stato attuale della normativa e delle interpretazioni su di essa prevalenti, l’azione di accertamento di fronte al giudice ordinario – sempre che sussistal’interesse ad agire (articolo 100 del Codice di procedura civile) – risulta l’unico rimedio possibile per consentire la verifica della pienezza del diritto di elettorato passivo e la sua conformità alla Costituzione». La prima censura, relativa al numero minimo di sottoscrizioni necessario per presentare liste nei collegi plurinominali, è stata comunque ritenuta non fondata. Infatti, alla luce dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia e in considerazione, inoltre, dell’interesse costituzionalmente rilevante alla serietà delle candidature, la quantità di firme richieste non è stata giudicata manifestamente irragionevole. La seconda censura, volta ad estendere l’ambito dei
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soggetti esonerati dall’onere di raccolta delle sottoscrizioni, è stata invece ritenuta inammissibile, perché affetta da carenza di motivazione, sia sull’interesse ad agire dei ricorrenti nel giudizio a quo, sia, di riflesso, sulla rilevanza.
Le Sezioni Unite si esprimono su una questione di particolare importanza in tema di presentazione dell’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato.
Corte di Cassazione, SS.UU., sent. del 26 marzo 2021, n. 8561.
Le Sezioni Unite, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che la presentazione dell’istanza di distrazione delle spese proposta dal difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato non costituisce rinuncia implicita al beneficio da parte dell’assistito, attesa la diversa finalità ed il diverso piano di operatività del gratuito patrocinio e della distrazione delle spese - l’uno volto a garantire alla parte non abbiente l’effettività del diritto di difesa e l’altra ad attribuire al difensore un diritto in rem propriam - con la conseguenza che il difensore è privo del potere di disporre dei diritti sostanziali della parte, compreso il diritto soggettivo all’assistenza dello Stato per le spese del processo, potendo la rinuncia allo stesso provenire solo dal titolare del beneficio, e tenuto conto, peraltro, che l’istituto del gratuito patrocinio è revocabile solo nelle tre ipotesi tipizzate nell’art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, norma eccezionale, come tale non applicabile analogicamente.
Potere autorizzatorio delle Regione nel procedimento di autorizzazione paesaggistica e meccanismo del silenzioassenso tra amministrazioni. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 29 marzo 2021, n. 2640.
Nel procedimento di autorizzazione paesaggistica disciplinato dall’art. 146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, il potere autorizzatorio appartiene in prima battuta alla Regione, spettando alla Soprintendenza un parere sulla proposta di provvedimento da questa sottopostale (parere che, sebbene vincolante in via ordinaria, cessa di esserlo se reso tardivamente e per di più può essere pretermesso in caso di sua mancata espressione, secondo quanto previsto dal comma 9 del medesimo art. 146, come modificato dal d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164; tale assetto di competenze non viene alterato per il solo fatto che in determinati casi l’autorizzazione paesaggistica debba essere acquisita in seno a una conferenza di servizi, che costituisce soltanto un modulo procedimentale semplificatorio per l’acquisizione dei diversi atti di assenso richiesti in ordine a un intervento; ne discende che l’art. 14-ter, comma 7, l. 7 agosto 1990, n. 241, il quale, laddove considera acquisito senza condizioni l’assenso delle amministrazioni che non abbiano partecipato alla conferenza o comunque non si siano pronunciate (ivi comprese quelle preposte alla tutela di interessi “sensibili” quale quello paesaggistico), va riferito unicamente agli “assensi” da rendere direttamente all’amministrazione procedente, e non anche all’ipotesi di autorizzazione paesaggistica, laddove la Soprintendenza è chiamata a esprimersi non direttamente sulla compatibilità dell’intervento, ma sulla proposta al riguardo formulata della Regione.
Il meccanismo del silenzio-assenso tra amministrazioni di cui all’art. 17-bis, l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla l. 7 agosto 2015, n. 124, si applica esclusivamente ai rapporti fra l’amministrazione “procedente” per l’adozione di un provvedimento definitivo e quelle chiamate a rendere “assensi, concerti o nulla osta” a questo prodromici, e non anche al rapporto “interno” fra le amministrazioni chiamate a co-gestire l’istruttoria e la decisione in ordine al rilascio di tali assensi nei confronti di un’amministrazione terza, come è nel caso della Regione e della Soprintendenza in relazione all’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42
Ha ricordato la Sezione che alla funzione di tutela del paesaggio (che il Ministero dei beni culturali esercita esprimendo il suo obbligatorio parere nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici, che di volta in volta possono venire in considerazione, essendo esso atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, attraverso il quale, similmente a quanto avviene nell’espressione del parere di cui all’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, l’intervento progettato viene messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della sua compatibilità con il tutelato interesse pubblico paesaggistico, valutazione che è istituzionalmente finalizzata a evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto. Questa regola essenziale di tecnicità e di concretezza, per cui il giudizio di compatibilità dev’essere, appunto, “tecnico” e “proprio” del caso concreto, applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost., il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. Anche laddove, cioè, il legislatore abbia scelto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza dei servizi, essa non comporta comunque un’attenuazione della rilevanza della tutela paesaggistica perché questa si fonda su un espresso principio fondamentale costituzionale.
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Ha ancora affermato la Sezione che a seguito del decorso del termine per l’espressione del parere vincolante (rectius: conforme) da parte della Soprintendenza, l’organo statale non resti in assoluto privato della possibilità di rendere un parere; tuttavia il parere in tal modo espresso perderà il proprio valore vincolante e dovrà essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione preposta al rilascio del titolo.
Ne consegue, pertanto, che se nel corso di una prima fase (che si esaurisce con il decorso del termine di legge), l’organo statale può, nella pienezza dei suoi poteri di cogestione del vincolo, emanare un parere vincolante dal quale l’amministrazione deputata all’adozione dell’autorizzazione finale non potrà discostarsi (ai sensi dell’art. 146, comma 8, d.lgs. 42 del 2004), successivamente l’amministrazione procedente “provvede sulla domanda di autorizzazione” (comma 9 dello stesso d.lgs. n. 42), essendo pertanto legittimata all’adozione dell’autorizzazione prescindendo in radice dal parere della Soprintendenza.
Siffatto assetto di competenze, alla stregua dei principi sopra richiamati, non può essere stravolto per il solo fatto che l’autorizzazione paesaggistica debba essere acquisita in seno a una conferenza di servizi, né su di esso incide il meccanismo del silenzio-assenso tra amministrazioni di cui all’art. 17-bis, l. n. 241 del 1990. Quest’ultimo – come detto – vale esclusivamente nei rapporti fra l’amministrazione “procedente” e quelle chiamate a rendere “assensi, concerti o nulla osta”, e non anche nel rapporto “interno” fra le amministrazioni chiamate a co-gestire l’istruttoria e la decisione in ordine al rilascio di tali assensi.
Il Consiglio di Stato si esprime sulle prestazioni occasionali rese in Italia da professionisti (avvocati) stabiliti in altri Stati membri e sulle modalità di accesso all'Albo dei patrocinatori innanzi alle giurisdizioni superiori.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 29 marzo 2021, n. 2600.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per preteso contrasto con gli artt. 3 e 41, Cost., dell’art. 22, l. 31 dicembre 2012, n. 247, laddove, pur dopo la modifica dell’art. 9, comma 2, d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, ad opera dell’art. 1, l. 20 novembre 2017, n. 167 (legge europea 2017), che ha eliminato la disparità di trattamento precedentemente sussistente fra avvocati formatisi in Italia e avvocati stabiliti in ordine all’accesso all’Albo dei patrocinanti davanti alle giurisdizioni superiori, conserverebbe un effetto discriminatorio in danno degli avvocati italiani a causa della perdurante vigenza dell’art. 8, l. 9 febbraio 1982, n. 31, che regola le prestazioni occasionali rese in Italia da professionisti stabiliti in altri Stati membri.
Ha chiarito la Sezione che l’art. 8, l. 9 febbraio 1982, n. 31 non rappresenta, infatti, un idoneo tertium comparationis ai fini del test di ragionevolezza delle disposizioni sospette di incostituzionalità, poiché queste ultime regolano un requisito (l’iscrizione all’Albo speciale) che è specificamente richiesto all’avvocato c.d. stabilito, ma che non è necessario ai fini della libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione garantita dal Trattato, purché svolta in modo occasionale e senza il requisito della continuità; in particolare, alla stregua della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la temporaneità o (non) occasionalità dell’attività forense svolta in altro Stato membro si deve valutare tenendo conto della durata, della frequenza, della periodicità e della continuità della prestazione stessa, sussistendo una rilevante differenza di disciplina fra professionisti che possono esercitare stabilmente in un dato Paese dell’Unione e professionisti che possono farlo solo occasionalmente, in quanto un cittadino di uno Stato membro che, in maniera stabile e continua, esercita un’attività professionale in un altro Stato membro in cui, da un domicilio professionale, offre i propri servizi, tra l’altro, ai cittadini di questo Stato, è soggetto alle disposizioni del capo del Trattato relativo al diritto di stabilimento e non a quelle del capo relativo ai servizi.
Inoltre, allorché l’accesso a un’attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.
Ha aggiunto la Sezione che i concetti di temporaneità e occasionalità dell’attività professionale trovano poi una precisa definizione normativa alla stregua dei criteri enunciati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 30 novembre 1995, in causa C-55/94.
Secondo la Corte di Giustizia, la temporaneità (o non) dell’attività forense svolta in altro Stato membro si deve valutare tenendo conto della durata, della frequenza, della periodicità e della continuità della prestazione stessa.
Anche per il giudice comunitario sussiste pertanto una rilevante differenza di disciplina fra professionisti che possono esercitare stabilmente in un dato Paese dell’Unione e professionisti che possono farlo solo occasionalmente, in quanto secondo la Corte, un cittadino di uno Stato membro che, in maniera stabile e continua, esercita un’attività professionale in un altro Stato membro in cui, da un domicilio professionale, offre i propri servizi, tra l’altro, ai cittadini di questo Stato, è soggetto alle disposizioni del capo del Trattato relativo al diritto di stabilimento e non a quelle del capo relativo ai servizi.
Inoltre, allorché l’accesso a un’attività specifica, o il suo esercizio, è subordinato, nello Stato membro ospitante, a determinate condizioni, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfarle.
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Va ricordato, altresì, che le statuizioni della Corte di Giustizia assumono portata precettiva nel nostro ordinamento, ricevendo puntuale declinazione negli obblighi di comunicazione e nei controlli disciplinati dalla stessa legge n. 31 del 1982, la cui violazione può assumere anche rilevanza penale (Cass. pen., sez. VI, 16 dicembre 1999, n. 715, in ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 348 c.p.).
La disomogeneità delle situazioni poste a raffronto – per le quali vige una disciplina differente, a seconda della occasionalità o stabilità dell’attività – consente, in definitiva, di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale riproposta in sede di appello.
Disciplina innovativa sulla modalità di costituzione di società start-up. Pronuncia del Consiglio di Stato. Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. del 29 marzo 2021, n. 2643.
È illegittimo il decreto del Ministero dello sviluppo economico 17 febbraio 2016, recante “modalità di redazione degli atti costitutivi di società a responsabilità limitata start-up innovative”, non potendo il potere esercitato avere alcuna portata innovativa dell’ordinamento, ovvero incidere sulla tipologia degli atti necessari per la costituzione delle start up innovative, così come previsti dalla norma primaria (art. 4, comma 10-bis, d.l. 24 gennaio 2015, n. 3), che si limita a rimettere ad un decreto la predisposizione del modello uniforme, decreto che non poteva che interessare la sola modalità pratiche di redazione dell’atto costituivo, continuando per il resto ad operare le regole tradizionali; pertanto, prevedendo la norma primaria un’alternatività quanto alle modalità di costituzione (atto pubblico ovvero per atto sottoscritto con le modalità previste dall’art. 24 del Codice dell’amministrazione digitale), illegittimamente il decreto dispone che l’atto costitutivo e lo statuto, ove disgiunto, sono redatti in modalità esclusivamente informatica.
L’art. 11, d.P.R. n. 581 del 1995 ha attribuito agli Uffici del Registro delle Imprese la competenza ad un controllo di tipo eminentemente formale, ossia non diretto ad accertare l’effettiva esistenza delle condizioni per l’iscrizione della società nel registro, ma basato sull’esame della documentazione presentata dal notaio; pertanto, è illegittimo l’art. 2, comma 2, lett. h) (relativa alla “liceità, possibilità, determinabilità dell’oggetto”) del decreto del Ministero dello sviluppo economico 17 febbraio 2016, recante “modalità di redazione degli atti costitutivi di società a responsabilità limitata start-up innovative”, relativamente ai controlli demandati all’Ufficio del Registro, la cui portata non pare poter essere assimilata a quella di cui all’art. 11, comma 6, lett. e), d.P.R. n. 581 del 1995, neppure nella sua accezione più estensiva innanzi riferita, che include anche il possibile rilievo degli eventuali vizi di validità, i quali, però, devono derivare da una difformità formale dell’atto, non potendo implicare alcun tipo di indagine o valutazione ulteriore da parte dell’Ufficio del Registro delle Imprese.
Il decreto del Ministero dello sviluppo economico 17 febbraio 2016, recante “modalità di redazione degli atti costitutivi di società a responsabilità limitata start-up innovative”, deputato alla sola disciplina della peculiare fattispecie della costituzione delle società start-up innovative attraverso una modalità alternativa a quella tradizionale, non può incidere sulla formazione delle società a responsabilità limitata ordinarie; pertanto, in assenza di un’idonea copertura legislativa al riguardo, l’iscrizione alla sezione ordinaria può “permanere” solo se la società possieda i requisiti di forma e di sostanza di una comune società a responsabilità limitata; in altri termini, la regola è applicabile alle sole start-up innovative costituite con atto pubblico, in modo da escludere in radice fenomeni di possibile aggiramento della normativa sulla costituzione delle società a responsabilità limitata.
Ha premesso la Sezione che l’art. 25, d. l. 18 ottobre 2012 n. 179 (conv. con modif. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221) ha introdotto nell’ordinamento la società “start-up innovativa”, consistente in una speciale società di capitali in possesso dei requisiti elencati dal comma 2 della stessa norma: costituzione e svolgimento di attività d’impresa da non più di 60 mesi; residenza in Italia o in Stato UE o SEE purché con sede produttiva o filiale in Italia; totale del valore della produzione annua non superiore a 5 mln. di euro a partire dal secondo anno di attività; non distribuzione di utili; oggetto sociale esclusivo o prevalente consistente nello sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico; costituzione non derivante da fusione, scissione, cessione di azienda o di ramo di azienda; possesso di almeno uno degli ulteriori requisiti previsti, quali, in estrema sintesi: ammontare delle spese in ricerca e sviluppo uguali o superiori a un determinato parametro; impiego di personale altamente qualificato nelle proporzioni indicate; titolarità di almeno una privativa industriale in campi innovativi
I commi 8 ss. del citato art. 25 disciplinano l’istituzione, da parte delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, di una “apposita sezione speciale del registro delle imprese” ex art. 2188 c.c., a cui la start-up innovativa deve essere iscritta, dettando al contempo le modalità di iscrizione.
Con d.m. 17 febbraio 2016 (recante “modalità di redazione degli atti costitutivi di società a responsabilità limitata startup innovative”) è stato previsto: che in deroga all’art. 2463 c.c. i contratti di s.r.l. per la costituzione di start-
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up innovative “sono redatti in forma elettronica e firmati digitalmente a norma…, in totale conformità allo standard allegato sotto la lettera A al presente decreto, redatto sulle base delle specifiche tecniche del modello, di cui all’art. 2, comma 1” (art. 1, comma 1); che l’atto costitutivo e lo statuto “sono redatti in modalità esclusivamente informatica…” (art. 1, comma 2), non essendo “richiesta alcuna autentica di sottoscrizione” (comma 5); che detto “documento informatico”, una volta “formato”, è presentato all’ufficio del registro delle imprese, “redatto sulla base delle specifiche tecniche del formato elettronico elaborabile del modello, contenente le relative istruzioni per l’iscrizione, emanate dal Ministero dello sviluppo economico, e pubblicate sul sito internet del Ministero medesimo” (art. 2, comma 1); che l’ufficio del registro, effettuate le verifiche ivi indicate (art. 2, comma 2), dispone l’“iscrizione provvisoria” della società nella sezione ordinaria del registro, con apposita annotazione, e, su istanza dell’interessata, l’iscrizione nella sezione speciale ex art. 25, d. l. n. 179 del 2012 (conseguibile soltanto dopo l’iscrizione provvisoria; artt. 2 e 3); che in caso di cancellazione dalla sezione speciale per motivi sopravvenuti, la società “mantiene l’iscrizione in sezione ordinaria, senza alcuna necessità di modificare o ripetere l’atto, fino ad eventuale modifica statutaria” (secondo le regole ordinarie di cui all’art. 2480 c.c.; art. 4).
Ha ancora chiarito la Sezione che l’art. 8, l. n. 580 del 1993 è stato “istituito presso la camera di commercio il registro delle imprese di cui all’articolo 2188 del codice civile” (comma 1). A sua volta l’art. 2189, comma 2, c.c. prevede che: “Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio del registro deve accertare l’autenticità della sottoscrizione e il concorso delle condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione”.
Di fatto, il registro delle imprese è stato attuato nel 1995, mediante l’emanazione del regolamento attuativo previsto dall’ottavo comma del citato art. 8, l. n. 580 del 1993. In particolare, l’art. 11, comma 6, d.P.R. n. 581 del 1995 (norma di attuazione della disposizione codicistica) stabilisce che: “Prima di procedere all’iscrizione, l’ufficio accerta: a) l’autenticità della sottoscrizione della domanda; b) la regolarità della compilazione del modello di domanda; c) la corrispondenza dell’atto o del fatto del quale si chiede l’iscrizione a quello previsto dalla legge; d) l’allegazione dei documenti dei quali la legge prescrive la presentazione; e) il concorso delle altre condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione”.
La dottrina è pressoché concorde nel riconoscere che, in base alla disciplina normativa innanzi ricordata, al conservatore sia consentito un controllo meramente formale, tale dovendosi intendere quello che ha ad oggetto l’accertamento dei requisiti formali della domanda e, dunque, dell’autenticità della sottoscrizione del richiedente, della regolarità della compilazione del modello di domanda e dell’allegazione dei documenti dei quali la legge prescrive la presentazione.
Il controllo di regolarità dell’atto di cui viene chiesta l’iscrizione comprende peraltro altresì, nell’ambito della verifica del “concorso delle condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione”, di cui al comma 2 dell’art. 2189 cit., l’accertamento della corrispondenza dell’atto o del fatto del quale si chiede l’iscrizione a quello previsto dalla legge, espressamente indicato dal comma 6 dell’art. 11 del regolamento attuativo (d.P.R. 7 dicembre 1995, n. 581). Tale ulteriore controllo viene usualmente denominato “qualificatorio”, perché il conservatore non deve limitarsi a ricevere l’atto e a verificare la regolarità e la completezza della domanda sotto il profilo formale, ma deve altresì procedere alla qualificazione dell’atto presentato per l’iscrizione, onde accertare se sia conforme al modello di atto previsto dalla legge per il quale è prescritta l’iscrizione.
Anche tale tipologia di controllo, seppur con diverse sfumature da parte dei commentatori, viene tendenzialmente ricondotto alla sola “formale verifica della corrispondenza tipologica dell’atto da iscrivere a quello previsto dalla legge” (decreto Trib. Padova 16 febbraio 2007). In questo senso si esprime la giurisprudenza maggioritaria del Giudice del Registro delle Imprese.
Per altro, anche in base ad un orientamento maggiormente estensivo, il controllo del Conservatore è comunque e sempre limitato a quei vizi dell’atto che devono essere estrinseci all’atto stesso, rilevabili immediatamente, senza che si rendano a tal fine necessari accertamenti, che esulerebbero dai poteri di controllo del conservatore (Trib. Reggio Emilia 29 febbraio 2016).
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Le Sezioni Unite si esprimono sull'interpretazione dell’art. 828, comma 2, c.p.c. riguardante il termine c.d. «lungo» per impugnare (per nullità) il lodo.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 30 marzo 2021, n. 8776.
Le Sezioni Unite, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato che il disposto di cui all’art. 828, comma 2, c.p.c. deve essere interpretato nel senso che il termine c.d. «lungo» per impugnare (per nullità) il lodo decorre dalla data dell’ultima sottoscrizione - e non dalla comunicazione del lodo alle parti o dal suo deposito -, in tal senso orientando non solo la lettera ma anche la ratio della norma citata, in coerenza con la logica e la struttura dell’intero sistema dell’arbitrato, atteso che il lodo, salvo quanto disposto dall’art. 825 c.p.c. ai fini dell’esecutività, produce gli effetti della sentenza pronunciata dall’Autorità giudiziaria proprio dalla data della sua ultima sottoscrizione. Tale specifica scelta del legislatore non contrasta con alcun precetto costituzionale, in quanto la tutela del soccombente è garantita dal lungo periodo per impugnare, nonché dalla certa sua conoscenza della decisione
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arbitrale mediante la comunicazione alle parti del lodo entro appena dieci giorni, la quale lascia a disposizione ancora un lungo lasso per impugnare il lodo stesso, senza alcuna compromissione del diritto di difesa, ove diligentemente esercitato.
La procedura di gara inizia con la pubblicazione del bando di gara e non con l'adozione di atti interni come la determina a contrarre. Pronuncia del TAR Catanzaro.
TAR Catanzaro, Sez. I, sent. del 30 marzo 2021, n. 713
Per avvio della procedura di gara deve intendersi la pubblicazione del bando di gara e non, invece, l’adozione di atti interni, quali, come nella fattispecie, la determinazione a contrarre.
Verso tale conclusione depone anzitutto l’art. 32, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, il quale ancora chiaramente alla fase antecedente l’avvio della gara l’atto con il quale le stazioni appaltanti decretano o determinano di contrarre in conformità ai propri ordinamenti.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha osservato che “la determina a contrarre non ha una efficacia propriamente provvedimentale, non producendo effetti giuridici autonomi verso terzi quale atto presupposto suscettibile di autonoma impugnazione. In quanto precede l’avvio della procedura di affidamento, lo stesso ha, invece, natura più propriamente “endoprocedimentale” e, quindi, di regola è inidoneo a costituire in capo a terzi posizioni di interesse qualificato. La sua funzione, infatti, attiene essenzialmente alla corretta assunzione di impegni di spesa da parte dell’Amministrazione nell’ambito del controllo e della gestione delle risorse finanziarie dell’ente pubblico, esaurendo gli effetti all’interno dell’Amministrazione stessa (T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 26 maggio 2014 n. 485; T.A.R. Trentino-Alto Adige, Trento, 16 febbraio 2017 n. 53; T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 17.07.2017, n. 680)” (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 5.9.2018, n.5380).
Per completezza si rileva che anche il Comunicato del Presidente dell’ANAC del 20.5.2020 ha osservato che per “avvio della procedura” si intende la data di pubblicazione del bando di gara oppure, nel caso di procedure senza previa pubblicazione di bando, la data di invio della lettera di invito a presentare l’offerta.
Pertanto, non rilevando, ai fini dell’esclusione dalla contribuzione all’ANAC, il momento dell’assunzione della determinazione a contrarre bensì la pubblicazione del bando di gara, il fatto che la prima sia stata adottata in data 28.12.2020 risulta irrilevante – in difetto di prova che il bando sia stato pubblicato entro il 31.12.2020 – ai fini di tale esenzione.
Valutazioni dell'Amministrazione sull'istanza di accesso agli atti prodromici allo scioglimento di un Comune per infiltrazione mafiosa che involga documentazione classificata. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. I, 30 marzo 2021, n. 545.
Nel caso di un’istanza di accesso agli atti prodromici allo scioglimento di un Comune che involga documentazione classificata, l’Amministrazione è chiamata a distinguere se gli atti oggetto dell’istanza sono coperti dal segreto di Stato, se essi sono riservati ai sensi dell’art. 42, L. 3 Agosto 2007 n. 124, oppure se si tratta di atti esclusi dall’accesso sulla base di una regolamento adottato ai sensi dell’art. 24 L. 241/1990: nel primo caso, l’Amministrazione dovrà applicare quanto stabilito dagli artt. 39, 40, e 41 della L. 3 Agosto 2007 n. 124, cioè porre le informazioni, i documenti, gli atti, le attività, le cose e i luoghi coperti da segreto di Stato a conoscenza esclusivamente dei soggetti e delle autorità chiamati a svolgere rispetto ad essi funzioni essenziali, nei limiti e nelle parti indispensabili per l'assolvimento dei rispettivi compiti e il raggiungimento dei fini rispettivamente fissati; nel secondo caso, l’Amministrazione dovrà mettere gli atti a disposizione dell’autorità giudiziaria che ne abbia fatto richiesta, spettando a quest’ultima la conservazione con modalità idonee a tutelare la riservatezza e la salvaguardia del diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia; infine, nel terzo caso, l’Amministrazione dovrà distinguere tra accesso partecipativo, da escludersi, e accesso difensivo, da ritenersi, invece, ammissibile.
La questione sottoposta alla Sezione è se i principi formulati dal Consiglio di Stato con il parere 1 luglio 2014, n. 2226 “possa[no] valere per le istanze di accesso rivolte all’Amministrazione, riguardanti la documentazione istruttoria “classificata” formata nella fase procedimentale, a prescindere dall’esercizio del diritto di azione giurisdizionale”. Con tale parere era stato affermato che l’accesso alla documentazione classificata non può essere escluso dall’Amministrazione, laddove la conoscenza dell’atto richiesto si renda necessaria per la difesa in sede giurisdizionale degli interessi giuridici del soggetto istante.
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Ha preliminarmente chiarito la Sezione che il procedimento di scioglimento contemplato dall’art. 143 TUEL rientra nella classe degli strumenti preordinati alla prevenzione e alla repressione in via amministrativa dei fenomeni criminali di stampo mafioso.
I poteri di accertamento circa l’emersione di tali forme di collegamento o condizionamento sono conferiti, dal comma 2, all’autorità prefettizia competente per territorio, la quale, ove intenda promuovere l’accesso presso l’ente locale interessato dalla procedura di scioglimento, si avvale del supporto ispettivo di un’apposita commissione d’indagine. Ai sensi del comma 3, la sequenza procedimentale prosegue con la trasmissione al Ministero dell’Interno di una relazione redatta dal Prefetto, ove si dà atto dell’accertata sussistenza degli indici fattuali enucleati dal comma 1.
Lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali è conclusivamente disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell'Interno, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri (comma 4, primo periodo). La proposta formulata dal Ministero dell’Interno deve indicare analiticamente le anomalie riscontrate, i provvedimenti necessari a rimuovere gli effetti pregiudizievoli cagionati dal fenomeno di infiltrazione criminale, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa alla dissoluzione dei consigli comunali e provinciali (comma 4, secondo periodo). Gli effetti dello scioglimento sono individuati nella “cessazione dalla carica di consigliere, di sindaco, di presidente della provincia, di componente delle rispettive giunte e di ogni altro incarico comunque connesso alle cariche ricoperte, anche se diversamente disposto dalle leggi vigenti in materia di ordinamento e funzionamento degli organi predetti” (comma 4, ultimo periodo).
Il comma 9 dell’art. 143, nella formulazione introdotta dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, prevede che “[i]l decreto di scioglimento è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Al decreto sono allegate la proposta del Ministro dell'Interno e la relazione del Prefetto, salvo che il Consiglio dei Ministri disponga di mantenere la riservatezza su parti della proposta o della relazione nei casi in cui lo ritenga strettamente necessario”. Innovando rispetto al regime originariamente previsto dall’art. 15-bis, l. 19 marzo 1990, n. 55, la norma sancisce, dunque, il principio di necessaria pubblicità non del solo decreto di scioglimento ma anche della proposta ministeriale e della relazione prefettizia.
Resta in ogni caso ferma la facoltà del Consiglio dei Ministri di escludere parzialmente la divulgazione della proposta e della relazione per ragioni di stretta necessità.
Soffermandosi poi sulla disciplina del diritto di accesso, il parere ha ricordato che tale riconoscimento costituisce lo storico esito di un complesso processo di riforma organizzativa e procedimentale della Pubblica amministrazione, all’esito del quale si è pervenuti alla costruzione di un innovativo modello di partecipazione democratica del cittadino alle funzioni amministrative. A seguito dell’entrata in vigore della l. 7 agosto 1990, n. 241, l’ordinamento ha infatti individuato nel diritto all’ostensione dei documenti detenuti dalle Amministrazioni un essenziale presidio di trasparenza e imparzialità dell’attività di cura dell’interesse pubblico.
Il percorso di conformazione dell’azione amministrativa al moderno sistema di ostensione documentale trova oggi uno stabile consolidamento normativo nelle disposizioni di cui all’art. 22, comma 2, l. n. 241 del 1990, secondo cui “[l]’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza”
L’osservanza degli obblighi posti a carico dell’Amministrazione dal regime di cui al Capo V della legge citata attiene inoltre ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 29, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990).
È innegabile sotto altro aspetto la relazione esistente tra il diritto di accesso e la tutela in giudizio delle situazioni giuridiche soggettive. Si consideri, al riguardo, che l’Adunanza plenaria, con decisione 18 aprile 2006, n. 6, ha affermato che, al di là della (controversa) natura giuridica del diritto di accesso, quest’ultimo costituisce una situazione giuridica che, più che fornire utilità finali, risulta caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante. Tale relazione risulta spesso confermata dalla giurisprudenza che, in più occasioni, ha stabilito regole di coordinamento tra l’accesso e i tempi di proposizione della domanda giudiziale ferma restando l’autonomia della legittimazione all’accesso rispetto alla difesa in giudizio. L'interesse alla conoscenza dei documenti amministrativi, invero, è di suo un bene della vita autonomo, meritevole di tutela separatamente dalle posizioni sulle quali abbia poi ad incidere l'attività amministrativa.
Sin dall’originaria formulazione dell’art. 22, la disciplina del diritto di accesso documentale ha mostrato di congiungere, da un lato, l’ampliamento degli spazi di trasparenza dell’azione amministrativa, dall’altro, i limiti soggettivi derivanti dalla necessaria dimostrazione di un inscindibile vincolo sostanziale tra l’interesse conoscitivo del richiedente e la titolarità di una situazione giuridicamente rilevante. Tale impostazione normativa è giunta ad un ulteriore grado di specificazione legislativa con l’entrata in vigore della l. 11 febbraio 2005, n. 15, la quale, nel modificare la struttura fondamentale della legge generale sul procedimento, ha delineato il contenuto dei presupposti di qualificazione soggettiva richiesti per l’esercizio del diritto di accesso. Nella vigente formulazione dell’art. 22, comma 1, lett. b),
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l’accoglimento delle istanze di ostensione presentate dal privato è infatti subordinato alla dimostrazione di un “interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”.
In ragione del potenziale conflitto tra le esigenze di tutela delle pretese conoscitive e la necessaria protezione di contrastanti interessi di rilevanza pubblicistica o individuale, l’art. 24, l. n. 241 del 1990 contempla un complesso di limiti all’esercizio del diritto di accesso, la cui determinazione - come si avrà modo di osservare nel prosieguo del presente parere - è affidata non soltanto alla fonte legale (comma 1), ma anche alla potestà regolamentare del Governo (comma 6) e delle singole Amministrazioni (comma 2).
4.2. In vista della realizzazione delle condizioni di effettivo godimento delle posizioni giuridiche sostanziali tutelate dall’ordinamento, l’art. 24, comma 7, tuttavia riconosce, con una clausola di chiusura del delineato sistema di conoscibilità documentale, un’ulteriore facoltà di accesso, la quale dimostra una potenziale prevalenza sulle fattispecie ordinariamente preclusive della pretesa ostensiva. Tanto si desume dallo stesso tenore letterale del citato art. 24, comma 7, secondo cui “[d]eve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’art. 60, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
Ha ancora ricordato la Sezione che il sistema di conoscibilità documentale disciplinato dalla l. n. 241 del 1990, è stato progressivamente integrato da ulteriori rimedi ostensivi (sulla complementarietà, e non alternatività, si veda la sentenza Cons. St., Ad. Pl., 2 aprile 2020, n. 10 che verrà successivamente esaminata), i quali, all’esito di un complesso processo di evoluzione legislativa, hanno contribuito alla definitiva affermazione del principio di trasparenza amministrativa. In attuazione dei principi di partecipazione democratica allo svolgimento delle funzioni istituzionali, il graduale consolidamento normativo del canone di “accessibilità totale” dei documenti ammnistrativi, oltre ad aver ampliato la sfera dei rimedi funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali (art. 2 Cost.), ha conferito effettività al generale parametro di buon andamento dell’attività di cura dell’interesse pubblico (art. 97 Cost.). Nel determinare le funzioni tipiche della trasparenza amministrativa, lo stesso legislatore ha espressamente riconosciuto che le tecniche di divulgazione generalizzata degli atti amministrativi, “nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezione dei dati personali”, concorrono ad attuare i fondamentali principi democratici sui quali si fonda l’ordinamento costituzionale (art. 1, comma 2, d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33).
A seguito della riforma di cui al d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97, il sistema di trasparenza organizzativa e procedimentale della pubblica Amministrazione opera sulla base di due distinti istituti.
L’accesso civico “semplice” attribuisce ad ogni cittadino, indipendentemente dalla dimostrazione della titolarità di un interesse conoscitivo qualificato, il diritto di esigere l’ostensione dei documenti la cui pubblicazione sia stata omessa dalla pubblica Amministrazione in violazione di un obbligo di divulgazione previsto dalla legge (art. 5, comma 1, d.lgs. n. 33 del 2013).
L’accesso civico “generalizzato”, invece, consente a “chiunque” di visionare ed estrarre copia cartacea o informatica di atti “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013).
Per effetto dell’adesione dell’ordinamento al modello di conoscibilità generalizzata delle informazioni amministrative proprio dei cosiddetti sistemi FOIA (Freedom of information act), l’interesse conoscitivo del richiedente è elevato al rango di un diritto fondamentale (cosiddetto “right to know”), non altrimenti limitabile se non in ragione di contrastanti esigenze di riservatezza espressamente individuate dalla legge.
La disciplina delle preclusioni all’esercizio del diritto di accesso civico “generalizzato” si ricava dall’articolo 5bis, d.lgs. n. 33 del 2013, le cui disposizioni contemplano un duplice ordine di cause ostative all’accoglimento dell’istanza di ostensione.
In specie, l’Amministrazione può negare la divulgazione dei documenti richiesti ove tale misura limitativa risulti necessaria per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici e privati rispettivamente enumerati dai commi 1 e 2 del citato art.5-bis.
L’accesso civico “generalizzato” è invece escluso in termini assoluti “nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1 della legge n. 241 del 1990” (comma 3).
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La disciplina delle nuove forme di trasparenza amministrativa differisce significativamente rispetto all’ordinario regime di ostensione documentale previsto dalla l. n. 241 del 1990. Ed invero, l’accesso civico “semplice” e “generalizzato”, pur consentendo l’ostensione dei documenti richiesti a prescindere dalla dimostrazione di un interesse diretto, concreto e attuale, incontra un limite non superabile nelle cause ostative enucleate dall’art. 5-bis, d.lgs. n. 33 del 2013. Viceversa, le norme sull’accesso esoprocedimentale esigono la titolarità di una situazione giuridica legittimante, ma sanciscono la prevalenza dell’interesse conoscitivo “difensivo” nel conflitto con le contrastanti esigenze di riservatezza.
La coesistenza normativa di differenti schemi di ostensione documentale previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo e dal d.lgs. n. 33 del 2013 non ha mancato di sollevare rilevanti dubbi interpretativi nella dottrina e nella giurisprudenza amministrativa. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 2 aprile 2020, n. 10, ha tuttavia chiarito che “il rapporto tra le due discipline generali dell’accesso documentale e dell’accesso civico generalizzato (…) non può essere letto unicamente e astrattamente, secondo un criterio di specialità e, dunque, di esclusione reciproca, ma secondo un canone ermeneutico di completamento/inclusione, in quanto la logica di fondo sottesa alla reazione tra le discipline non è quella della separazione, ma quella dell’integrazione dei diversi regimi, pur nelle loro differenze, in vista della tutela preferenziale dell’interesse conoscitivo che rifugge in sé da una segregazione assoluta “per materia” delle singole discipline” (§ 25.1).
Ha ancora ricordato la Sezione che l’art. 24, l. n. 241 del 1990 disciplina le fattispecie in cui il diritto di accesso è escluso in ragione dell’esistenza di contrastanti interessi potenzialmente lesi dall’ostensione del documento amministrativo.
Ha aggiunto che le preclusioni generali previste dalla norma in esame possono essere variamente classificate.
Una prima categoria di limiti all’ostensione documentale comprende i vincoli previsti dalle norme sul segreto di Stato di cui alla l. 3 agosto 2007, n. 124 (sopravvenuta alla l. 24 ottobre 1977, n. 801 menzionata dal vigente testo dell’articolo 24, comma 1, lettera a). A tale riguardo è bene ricordare che, ai sensi dell’art. 39, l. 3 agosto 2007, n. 124, sono coperti dal segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all'integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all'indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. Le informazioni, i documenti, gli atti, le attività, le cose e i luoghi coperti da segreto di Stato sono posti a conoscenza esclusivamente dei soggetti e delle autorità chiamati a svolgere rispetto ad essi funzioni essenziali, nei limiti e nelle parti indispensabili per l'assolvimento dei rispettivi compiti e il raggiungimento dei fini rispettivamente fissati. Tutti gli atti riguardanti il segreto di Stato devono essere conservati con accorgimenti atti ad impedirne la manipolazione, la sottrazione o la distruzione. L’art. 40, l. 3 agosto 2007, n. 124, nel modificare alcuni articoli del codice di procedura penale, stabilisce le regole da utilizzare quando, iniziato un processo penale, vengano in rilievo fatti coperti dal segreto di Stato. Il successivo art. 41 detta ulteriori disposizioni integrative, stabilendo, tra l’altro, che “[a]i pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati e agli incaricati di pubblico servizio è fatto divieto di riferire riguardo a fatti coperti dal segreto di Stato” (comma 1).
Sempre nella l. n. 124 del 2007, è contenuta la disciplina degli atti “classificati”. Per l’art. 42, comma 1, legge cit., le classifiche di segretezza sono attribuite per circoscrivere la conoscenza di informazioni, documenti, atti, attività o cose ai soli soggetti che abbiano necessità di accedervi in ragione delle proprie funzioni istituzionali. Le classifiche sono quelle di segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato (comma 3).
Giova in questa sede ricordare che la classifica di segretezza è apposta, e può essere elevata, dall'autorità che forma il documento, l'atto o acquisisce per prima la notizia, ovvero è responsabile della cosa, o acquisisce dall'estero documenti, atti, notizie o cose (art. 42, comma 2), mentre il vincolo derivante dal segreto di Stato è apposto e, ove possibile, annotato, su espressa disposizione del Presidente del Consiglio dei ministri, sugli atti, documenti o cose che ne sono oggetto, anche se acquisiti all'estero (art. 39, comma 4).
Diverso è anche il regime di conoscibilità perché per gli atti coperti da segreto di Stato vale quanto stabilito dagli artt. 39, 40 e 41, legge cit., mentre per i documenti classificati viene in rilievo la regola sancita dall’art. 42, comma 8, a tenore del quale, qualora l'autorità giudiziaria ordini l'esibizione di documenti classificati per i quali non sia opposto il segreto di Stato, gli atti sono consegnati all'autorità giudiziaria richiedente, che ne cura la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia.
Una seconda categoria di preclusioni all’esercizio del diritto di accesso è individuata dal medesimo art. 24, comma 1, lett. a), in ogni altra ipotesi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente prevista dalla legge.
Le ipotesi sono numerose. Solo in via esemplificativa si ricordi che, qualora il pubblico dipendente, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnali al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all'art. 1, comma 7, l. 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all'Autorità nazionale anticorruzione, condotte
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illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, le predette segnalazioni sono sottratte all’accesso. Altra ipotesi da ricordare è quella stabilita in materia di appalti dall’art. 53, comma 5, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
L’art. 24 citato affida poi al potere regolamentare del Governo l’individuazione di ulteriori tipologie documentali non ostensibili. Tale potestà normativa secondaria deve peraltro essere esercitata entro i limiti previsti dal comma 6 del già citato art. 24, il quale enumera gli interessi pubblici e privati idonei a giustificare un rigetto delle istanze conoscitive formulate dal privato. Per quanto d’interesse in questa sede, giova ricordare che, ai sensi della lett. c) del comma 6, il Governo può escludere l’esercizio del diritto di accesso “quando i documenti riguardino le strutture, i mezzi, le dotazioni, il personale e le azioni strettamente strumentali alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità con particolare riferimento alle tecniche investigative, alla identità delle fonti di informazione e alla sicurezza dei beni e delle persone coinvolte, all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”.
Alle esclusioni di matrice governativa si aggiungono altresì le cause ostative selezionabili dalle singole pubbliche amministrazioni, le quali, ai sensi dell’art. 24, comma 2, “individuano le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1”. Nell’esercizio di tale potestà le pubbliche amministrazioni possono vietare l’accesso ai documenti la cui divulgazione possa cagionare un pregiudizio concreto agli interessi previsti dall’art. 24, l. n. 241 del 1990, ivi inclusi quelli connessi alla tutela dell’ordine pubblico e alla prevenzione e repressione dei fenomeni criminali (comma 6, lett. c). Tanto si desume dalle disposizioni di cui all’art. 8, d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, le quali, pur contenendo riferimenti normativi non più attuali, sono rimaste in vigore nelle more dell’adozione di un nuovo regolamento governativo avente fondamento legale nella vigente formulazione dell’art. 24, comma 6, l. n. 241 del 1990 (art. 15, comma 1, d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184).
Completano il novero dei limiti al diritto di accesso le esigenze di segretezza derivanti dallo svolgimento di procedimenti tributari e selettivi ovvero dall’esercizio dell’attività amministrativa diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione (art. 24, comma 1, lett. b, c, d).
La Sezione ha quindi affermato che dal delineato quadro delle preclusioni normative all’esercizio delle facoltà conoscitive emergono le profonde differenze intercorrenti tra i limiti all’ostensione dei documenti coperti dal segreto di Stato o altrimenti vincolati dalle classifiche di segretezza e le esclusioni giustificate dalle esigenze di tutela dell’ordine pubblico.
Ed invero, l’apposizione del segreto di Stato (ex art. 39) e la classificazione documentale secondo i parametri previsti dall’art. 42, l. 3 agosto 2007, n. 124 producono gli effetti prima indicati e hanno essenzialmente la funzione di garantire l’integrità della Repubblica (art. 39, l. cit.).
Per converso, nei casi in cui la divulgazione sia espressamente vietata dalle disposizioni regolamentari del Governo o dagli atti adottati dalle singole pubbliche amministrazioni vengono in rilievo – per quanto di interesse in questa sede –le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e gli scopi di prevenzione e repressione dei fenomeni criminali; conseguentemente tali interessi vengono tutelati con modalità differenti rispetto a quelle previste dalla disciplina sul segreto di Stato e sugli atti classificati.
Ha ancora aggiunto la Sezione che le esclusioni del diritto di accesso derivanti dall’apposizione del segreto di Stato o delle classifiche di segretezza e i limiti imposti dalle esigenze di mantenimento dell’ordine pubblico manifestano una differente capacità di resistenza alla portata derogatoria della clausola di chiusura prevista dall’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990.
In base allo schema normativo delineato dall’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990, ove l’istanza formulata dal privato presenti un’intrinseca preordinazione difensiva e la conoscenza del documento amministrativo risulti necessaria per la protezione di una situazione giuridicamente rilevante, l’interesse ostensivo del richiedente prevale sulle esclusioni che ordinariamente impediscono l’esercizio del diritto di accesso.
L’accesso “difensivo” si connota quindi per la combinazione tra le limitazioni derivanti dall’aggravamento degli oneri di dimostrazione posti a carico del richiedente e l’attitudine al superamento delle preclusioni generali alla divulgazione delle categorie documentali escluse. Come osservato dall’Adunanza Plenaria con la pronuncia da ultimo citata, “l’accesso difensivo è costruito come una fattispecie ostensiva autonoma, caratterizzata (dal lato attivo) da una vis espansiva capace di superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi; e connotata (sul piano degli oneri) da una stringente limitazione, ossia quella di dovere dimostrare la ‘necessità’ della conoscenza dell’atto o la sua ‘stretta indispensabilità’, nei casi in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari”.
È evidente che la portata dell’articolo 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 risulta diversa a seconda delle differenti ipotesi.
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Ove l’istanza abbia ad oggetto documenti coperti dal segreto di Stato, ai sensi dell’art. 39, l. n. 124 del 2007, si applicherà quanto stabilito dalla legge da ultimo citata, con sostanziale sterilizzazione della portata dell’art. 24, comma 7, l. cit., e conseguentemente gli atti “sono posti a conoscenza esclusivamente dei soggetti e delle autorità chiamati a svolgere rispetto ad essi funzioni essenziali, nei limiti e nelle parti indispensabili per l'assolvimento dei rispettivi compiti e il raggiungimento dei fini rispettivamente fissati” (art. 39, comma 2, l.e cit.) e nel giudizio potrà essere opposto il segreto di Stato con le modalità e i limiti previsti agli artt. 40 e 41, l. n. 124 del 2007.
Se invece gli atti sono vincolati dalle cosiddette classifiche di segretezza, il diritto di accesso “difensivo” può essere esercitato esclusivamente nelle sole forme prescritte dall’articolo 42, comma 8, l. n. 124 del 2007, il quale, circoscrivendo l’ambito di conoscibilità delle informazioni classificate, presuppone e integra (trattandosi peraltro di norma successiva) la disciplina del meccanismo ostensivo previsto dall’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990. Valgono, al riguardo, i principi formulati da questa Sezione con il citato parere 1 luglio 2014, n. 2226, secondo cui, ai sensi dell’art. 42, comma 8, cit., l‘interesse difensivo alla conoscenza degli atti classificati deve essere fatto valere dinnanzi all’autorità giudiziaria, la quale è tenuta a valutare se, nel caso concreto, le esigenze di tutela del diritto di difesa possano giustificare l’esibizione processuale del documento vincolato.
Viceversa, ove vengano in rilievo atti sottratti all’accesso in forza di disposizioni regolamentari adottate dal Governo o dalle singole amministrazioni, il controlimite disciplinato dall’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990 torna ad esprimere la propria ordinaria intensità derogatoria, assicurando l’ostensione dei documenti la cui conoscenza sia necessaria per la difesa degli interessi giuridici del richiedente, secondo i principi richiamati dall’Adunanza Plenaria prima citata.
Sul punto la Sezione rileva altresì che il c.d. accesso difensivo, stabilito dal più volte richiamato comma 7 dell’art. 24, nell’attuale formulazione della legge ha un oggetto più ampio di quello che aveva nel testo originario, riferibile anche alle fattispecie che vengono in discussione col presente parere, e, in secondo luogo, non risulta limitato alla semplice visione.
Tutto ciò chiarito, con riferimento al quesito sottoposto la Sezione ha osservato preliminarmente che il d.m. 10 maggio 1994, n. 415 contiene riferimenti normativi ormai superati e che pertanto sarebbe opportuno un suo aggiornamento.
La Sezione ha suggerito, altresì, di rivedere il d.m. citato anche alla luce del differente quadro di principi oggi vigente, sostanzialmente riconducibile ad una disciplina successiva a quella esistente al momento dell’emanazione del d.m. in questione.
Con specifico riferimento poi alle fattispecie interessate dai quesiti posti, la disposizione regolamentare di cui al citato art. 3, comma 1, lett. m), dovrebbe essere adeguata al mutato contesto legislativo generale, nonché, in specie, alla disciplina di cui al vigente art. 143, comma 9, TUEL, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. 15 luglio 2009, n. 94, dispone oggi, tra l’altro, che la proposta ministeriale e la relazione prefettizia devono essere pubblicate nella Gazzetta ufficiale congiuntamente al decreto di scioglimento, fatta salva la facoltà del Consiglio dei Ministri di precluderne parzialmente la divulgazione per ragioni di stretta necessità.
Tutto ciò premesso, passando alla risposta ai quesiti, alla luce delle considerazioni prima svolte, emerge innanzitutto che per legge la proposta del Ministro dell'interno e la relazione del prefetto devono essere pubblicate, unitamente al d.P.R. che decreta lo scioglimento, salvo che il Consiglio dei ministri disponga di mantenere la riservatezza su parti della proposta o della relazione nei casi in cui lo ritenga strettamente necessario (art. 143, comma 9, TUEL).
Il Ministero, inoltre, nell’individuare gli eventuali limiti all’accesso, dovrà distinguere tra le diverse categorie di atti e le differenti ipotesi di esclusione dall’accesso.
Ed invero, una ben precisa disciplina deve essere rispettata in relazione agli atti coperti da segreto di Stato (art. 39, l. n 124 del 2007), altra disciplina va riservata agli “atti classificati”, magari con la classifica “riservato” (art. 42, l. n. 124 del 2007), e altra disciplina ancora deve essere applicata agli atti esclusi dall’accesso in ragione di una specifica previsione regolamentare (art. 24, commi 2 e 6, l. n. 241 del 1990) o di legge (art. 24, comma 1, lett. a), l. n. 241 del 1990).
Esemplificando, se nella fase istruttoria la commissione d’indagine dovesse acquisire un atto coperto da segreto di Stato – circostanza questa che la Sezione, attesa la peculiarità degli interessi tutelati dalla disciplina sul segreto di Stato (“integrità della Repubblica”), reputa di non probabile verificazione
dovrà applicarsi quanto stabilito dagli artt. 39, 40 e 41, l. n. 124 del 2007.
Se invece l’amministrazione venisse a conoscenza, e utilizzasse, documenti classificati come “riservati”, sempre dalla l. n. 124 del 2007 (art. 42), allora spetterà all’autorità giudiziaria procedente, se ritiene, ordinarne l’esibizione e, sempre che non sia opposto il segreto di Stato, curarne “la conservazione con modalità che ne tutelino la riservatezza, garantendo il diritto delle parti nel procedimento a prenderne visione senza estrarne copia”. Lo speciale regime di
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esibizione giudiziale previsto dall’art. 42, comma 8, l. n. 124 del 2007, può infatti operare unicamente nell’ambito di un sistema di segretezza informativa fondato sulle esigenze di protezione degli “interessi fondamentali della Repubblica” (art.4, comma 2, d.P.C.M. 12 giugno 2009, n. 7).
Ha ancora ricordato la Sezione che l’autorità che ha proceduto a “classificare” il documento può, sempre con valutazione ampiamente discrezionale, decidere di “declassificarlo”; naturalmente si tratta di valutazione che non spetta al Collegio compiere ma solo all’amministrazione che ha proceduto alla classificazione.
Se la commissione utilizza, invece, atti esclusi dall’accesso in base alle previsioni regolamentari richiamate dall’art. 24 cit., occorrerà distinguere tra accesso partecipativo – escluso in ragione delle considerazioni prima effettuate nell’esame della sentenza dell’Adunanza Plenaria – e accesso difensivo, da ritenere, invece, ammissibile. Ed invero, le preclusioni individuate dalle fonti regolamentari, per quanto idonee ad impedire l’esercizio del diritto di accesso partecipativo, esauriscono la loro portata escludente ove la pretesa conoscitiva presenti un’intrinseca connotazione difensiva. Ove l’istanza di accesso espliciti le ragioni fattuali e normative idonee a rivelare la necessità della conoscenza del documento per la cura o la difesa di una situazione giuridicamente rilevante, l’interesse ostensivo del richiedente, in forza della clausola di chiusura prevista dall’art. 24, comma 7, l. n. 241 del 1990, prevale sulle preclusioni frapposte dalla fonte regolamentare alla divulgazione degli atti contemplati dall’art. 3, comma 1, lettera m), d.m. cit.
Emerge altresì che, in applicazione dell’art. 5 bis, d.lgs. n. 33 del 2013, è escluso l’accesso civico di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33 del 2013 per gli atti istruttori in questione, attese le differenti finalità di questo istituto e le diverse condizioni di operatività.
ILLEGITTIMA LA PRECLUSIONE ASSOLUTA ALLA DETENZIONE DOMICILIARE PER IL CONDANNATO ULTRASETTANTENNE RECIDIVO
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 31 marzo 2021
Gli ultrasettantenni condannati a una pena detentiva potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare anche se dichiarati recidivi. Cade dunque la preclusione assoluta stabilita nei loro confronti dall’ordinamento penitenziario. La magistratura di sorveglianza dovrà valutare caso per caso se il condannato sia in concreto meritevole di accedere a questa particolare misura alternativa alla detenzione, tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosità sociale. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 56, depositata oggi (redattore Francesco Viganò), dichiarando incostituzionale il divieto assoluto di accedere alla detenzione domiciliare stabilito per gli ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva (articolo 47-ter, primo comma, della legge sull’ordinamento penitenziario). La Corte ha osservato che la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni è ispirata al principio di umanità della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. La misura si fonda su una duplice presunzione. Da un lato, il legislatore presume una generale diminuzione della pericolosità sociale del condannato anziano, che quindi può di regola essere contenuta adeguatamente imponendogli la permanenza nel domicilio, secondo le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli. Dall’altro lato, appare verosimile che “il carico di sofferenza associato alla permanenza in carcere cresca con l’avanzare dell’età, e con il conseguente sempre maggiore bisogno, da parte del condannato, di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente gli possono essere assicurate in un contesto intramurario, caratterizzato dalla forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti di ogni età”. A fronte di ciò, la Corte ha sottolineato l’anomalia della disposizione esaminata: l’unica, nell’intero ordinamento penitenziario, che fa discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato condannato con l’aggravante della recidiva. È vero che il riconoscimento della recidiva da parte del giudice della condanna non discende automaticamente dalla circostanza che l’imputato sia già stato condannato per un precedente reato, ma già comporta un giudizio individualizzato di maggiore colpevolezza e pericolosità del reo. Tuttavia, la Corte ha osservato che tale giudizio è formulato unicamente ai fini della quantificazione della pena da infliggere, e dunque non è né attuale né specifico rispetto alle ragioni che potrebbero giustificare l’esecuzione della pena in detenzione domiciliare. Tra queste ragioni spiccano, in particolare, “i cambiamenti avvenuti nella persona del reo, e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi già intrapreso” dal condannato dopo la sentenza, ivi compreso il tempo già trascorso in carcere, nonché la maggiore sofferenza determinata dalla detenzione su una persona di età avanzata. La preclusione assoluta stabilita dalla norma è stata pertanto ritenuta irragionevole, anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanità della pena, in conformità alla costante giurisprudenza che considera contrarie agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione.
Le Sezioni Unite si esprimono sul riconoscimento in Italia del provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva.
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Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 31 marzo 2021, n. 9006.
Le Sezioni Unite, pronunciando su questione di massima di particolare importanza, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione”.
Appalto integrato con progettazione esecutiva e progettista esterno sprovvisto di requisiti - Qualificazione dei controinteressati nel rito appalti. Pronuncia del Consiglio del CGARS.
CGARS, sent. del 31 marzo 2021, n. 276.
Prima della formale aggiudicazione della gara il primo graduato all’esito della procedura non riveste la qualifica di controinteressato, al quale il ricorso deve essere notificato.
Nell’appalto integrato, che comprende progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art. 59, comma 1bis, del codice dei contratti pubblici, è possibile la estromissione del soggetto sprovvisto del requisito e la sua eventuale sostituzione con altro soggetto che, viceversa, sia in possesso di tutti i requisiti di ordine generale, salvo il caso in cui il progettista esterno all’impresa si associ con quest’ultima ai fini della progettazione ma soprattutto ai fini dell’offerta, vale a dire si qualifica come offerente.
Ha ricordato il CGARS che il concorrente primo in graduatoria, in assenza di un provvedimento di aggiudicazione, non rivestiva una posizione di controinteressato in senso tecnico.
Le gare di appalto, come tutte le procedure concorsuali, si caratterizzano per la loro articolazione in due fasi: la fase di ammissione alla procedura e la fase di svolgimento della gara vera e propria.
Nella fase di ammissione, il candidato è titolare di un interesse legittimo “strumentale” alla partecipazione, per cui vanta un interesse legittimo oppositivo alla esclusione, rispetto al quale non sussistono interessi qualificati di altri concorrenti a meno che non sia medio tempore intervenuta l’aggiudicazione in loro favore.
La fase di svolgimento della gara, invece, si contraddistingue per la scarsità dei beni della vita ai quali i concorrenti ammessi aspirano.
In particolare, nelle gare di appalto, il “bene della vita”, costituito dall’aggiudicazione, è unico, per cui, mentre nell’ammissione può essere eventualmente soddisfatto l’interesse legittimo “strumentale” di ogni candidato, in esito allo svolgimento della gara può essere soddisfatto uno e uno solo interesse legittimo “finale” ad ottenere l’affidamento dell’appalto.
La vicenda contenziosa all’esame attiene alla fase dell’ammissione, in quanto, sebbene la gara si sia svolta e sia stata formata la graduatoria, la stazione appaltante non ha ancora proceduto all’aggiudicazione ed ha escluso dalla procedura le prime due classificate.
In altri termini, non rileva la circostanza che la gara, al momento di proposizione del ricorso, è già stata espletata, con la formazione della relativa graduatoria.
Ha ricordato il CGARS l’appalto in discorso è un appalto integrato comprende progettazione esecutiva ed esecuzione dei lavori, ai sensi dell’art.59, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici.
L’appalto integrato è caratterizzato dal fatto che l’oggetto negoziale è unico, nel senso che non vi è una doppia gara, una per la progettazione, l’altra per l’esecuzione dei lavori, ma un’unica gara, con un unico aggiudicatario, che diviene il solo contraente della stazione appaltante per tutte le prestazioni pattuite.
Il comma 1-bis dell’art. 59, d.lgs. n. 50 del 2016, in proposito, stabilisce che “le stazioni appaltanti possono ricorrere all’affidamento della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla base del progetto definitivo dell’amministrazione aggiudicatrice nei casi in cui l’elemento tecnologico o innovativo delle opere oggetto dell’appalto sia nettamente prevalente rispetto all’importo complessivo dei lavori” e specifica che “i requisiti minimi per lo svolgimento della progettazione oggetto del contratto sono previsti nei documenti di gara nel rispetto del presente codice e del regolamento di cui all’articolo 216, comma 27-octies; detti requisiti sono posseduti dalle imprese attestate per prestazioni di sola costruzione attraverso un progettista ‘raggruppato’ o ‘indicato’ in sede di offerta, in grado di dimostrarli, scelto tra i soggetti di cui all’articolo 46, comma”.
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Una previsione sostanzialmente simile era contenuta nell’art. 53, comma 3, del previgente d.lgs. n. 163 del 2006.
Il progettista, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge, quindi, può essere individuato e coinvolto in tre modi: a) mandante in raggruppamento temporaneo “eterogeneo” con gli operatori economici che partecipano per l’appalto o alla concessione dei lavori e, in tal caso, assume anche la qualifica di offerente; b) indicato ma estraneo all’offerente (cfr. sul tema Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 9 luglio 2020, n. 13), cosiddetto ausiliario che presta un “avvalimento atipico”; c) appartenente allo staff tecnico dell’offerente che concorre per i lavori, a tale scopo contrattualizzato da quest’ultimo operatore economico; in tal caso, lo staff tecnico può essere costituito anche da più professionisti contrattualizzati individualmente in quanto assunti a tempo indeterminato e a tempo pieno, quindi integrati nell’impresa con un rapporto diretto.
Se lo staff tecnico dell’impresa non ha i requisiti tecnico-professionali per la progettazione, l’impresa concorrente deve ricorrere a una delle fattispecie sub a) o sub b).
Nella specie l’art. 10 del disciplinare di gara, coerentemente con la descritta normativa, ha disposto che i soggetti in possesso di attestazione SOA per la sola costruzione, ai sensi dell’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, devono alternativamente: indicare, in sede di offerta, un progettista, sia esso persona fisica o giuridica, qualificato per l’attività di progettazione, in possesso dei requisiti progettuali e di regolare abilitazione professionale ad operare nello Stato italiano, al quale saranno affidate in subappalto le attività di progettazione (Progettista “indicato”); associare, quale mandante di raggruppamento temporaneo di tipo verticale assegnatario della progettazione, uno dei soggetti elencati all’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i., in possesso dei requisiti progettuali di cui al successivo punto 10.2 (Progettista “associato”).
Il citato art. 10, inoltre, dispone che non è ammessa, pena l’esclusione, la partecipazione alla gara di quei concorrenti che si avvalgono di progettisti “indicati” o “associati” per i quali sussistono le cause ostative alla partecipazione indicate nel paragrafo (vale a dire, i motivi di esclusione di cui all’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 13 del 9 luglio 2020, ha chiarito che la posizione giuridica del “progettista indicato” dall’impresa che ha formulato l’offerta, è quella di un prestatore d’opera professionale che non entra a far parte della struttura societaria che si avvale della sua opera, e men che meno rientra nella struttura societaria
Il concorrente ed il “progettista indicato” rimangono due soggetti distinti, che svolgono funzioni differenti, con conseguente diversa distribuzione delle responsabilità.
Con la decisione n. 13 del 2020, l’Adunanza Plenaria, pertanto, confermando la posizione maggioritaria della giurisprudenza, ha affermato che il progettista “indicato” va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo, sicché non rientra nella figura del concorrente e, infatti, ha espresso il seguente principio di diritto: “il progettista indicato, nell’accezione e nella terminologia dell’articolo 53, comma [3], del decreto legislativo n. 163 del 2006, va qualificato come professionista esterno incaricato di redigere il progetto esecutivo. Pertanto non rientra nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico, nel significato attribuito dalla normativa interna e da quella dell’Unione europea. Sicché non può utilizzare l’istituto dell’avvalimento per la doppia ragione che esso è riservato all’operatore economico in senso tecnico e che l’avvalimento cosiddetto “a cascata” era escluso anche nel regime del codice dei contratti pubblici, ora abrogato e sostituito dal decreto legislativo n. 50 del 2016, che espressamente lo vieta”.
Ha aggiunto la Sezione che accertata l’assenza di uno dei requisiti generali nel progettista indicato, l’offerente debba essere automaticamente escluso, come avvenuto nel caso di specie, ovvero sia possibile la estromissione del soggetto sprovvisto del requisito e la sua eventuale sostituzione con altro soggetto che, viceversa, sia in possesso di tutti i requisiti di ordine generale.
La qualificazione del progettista indicato come di un soggetto diverso dai concorrenti alla procedura determina che in caso di raggruppamento di progettisti - quantomeno nelle ipotesi in cui il soggetto da estromettere non sia stato determinante per la costituzione del raggruppamento, avendo contribuito in modo essenziale a “portare” i requisiti di qualificazione necessari alla partecipazione - il concorrente non possa essere per ciò solo escluso a seguito dell’accertata carenza di un requisito di carattere generale del progettista indicato, essendo consentita la sua estromissione, nel caso di specie dal RTP dei progettisti, e la sua sostituzione.
In altri termini, non essendo un offerente, ma un collaboratore (o, più propriamente, un ausiliario) del concorrente, deve ritenersi possibile la estromissione e l’eventuale sostituzione del progettista indicato con altro professionista, non incorrendosi in una ipotesi di modificazione dell’offerta, né di modificazione soggettiva del concorrente.
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Un trattamento diverso, invece, deve essere riservato al caso nel quale il progettista esterno all’impresa si associa con quest’ultima ai fini della progettazione ma soprattutto ai fini dell’offerta, vale a dire si qualifica come offerente.
La differenza si rivela evidente, poiché, trattandosi di offerente, il progettista “associato”, non solo, al pari del progettista “indicato”, è coinvolto direttamente dai motivi di esclusione di cui all’art. 80 del Aodice dei contratti pubblici ma, a differenza del progettista “indicato”, è decisamente arduo ritenere che possa essere estromesso o sostituito, in quanto ciò determinerebbe una modificazione dell’offerta e dell’offerente, per cui la sua esclusione è destinata a riflettersi, travolgendolo, sull’intero raggruppamento temporaneo tra l’impresa e il progettista.
D’altra parte, deve ritenersi che escludere in via automatica il concorrente per una carenza riscontrata in capo ad un soggetto allo stesso estraneo costituisce un esito contrario ai principi comunitari di cui all’art. 57, comma 3, della Direttiva UE 2014/24, ed in particolare a quello di proporzionalità (cfr. in proposito, sia pure in tema di subappalto, Corte di giustizia dell’Unione Europea 30 gennaio 2020, in causa C-395/2019).
Nel caso sottoposto all’esame del C.g.a. la clausola della lex specialis, facendo riferimento anche ai progettisti “indicati”, ha chiaramente disposto l’esclusione per fattispecie come quelle in esame, né tale clausola è stata oggetto di impugnazione.
Tuttavia, l’esclusione dalla gara per inosservanza delle previsioni della lex specialis può essere disposta solo ove tali previsioni siano poste a tutela di un interesse pubblico effettivo e rilevante, sicché, nell’ottica di favorire la realizzazione delle finalità sottese alla normativa in materia, attraverso il fondamentale canone del favor partecipationis è in atto un processo di dequotazione delle carenze formali o, comunque, superabili che precludono l’accesso alla gara, di cui sono testimoni, in particolare, l’introduzione del principio di tassatività delle fonti delle cause di esclusione e l’ampliamento del c.d. soccorso istruttorio.
Il principio della tassatività delle fonti delle cause di esclusione, in origine introdotto, attraverso il comma 1-bis dell’art. 46, d.lgs. n. 163 del 2016, dal d.l. n. 70 del 2011, è ora contenuto nell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016, il quale, nella parte finale, sancisce che “I bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Ora, non c’è dubbio che la causa di esclusione di cui all’art. 10 del disciplinare sia correttamente mutuata dall’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, che disciplina per l’appunto i motivi di esclusione dalle gare pubbliche. Tuttavia, il detto art. 80 si riferisce alla “esclusione di un operatore economico dalla partecipazione”, sicché si riferisce agli offerenti, vale a dire alle imprese concorrenti, laddove, come si è illustrato, il progettista “indicato” non è un offerente, perché costituisce un soggetto affatto diverso dal concorrente, per cui non può ritenersi che la disposizione di legge si riferisca anche ai progettisti “indicati”.
Ne consegue che, a prescindere dalla mancata impugnazione, la clausola deve essere dichiarata nulla, perché contiene una causa di esclusione non prevista dal codice dei contratti pubblici o da altra disposizione di legge.
Regole e principi cui soggiace l'interpretazione della "lex specialis". Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 31 marzo 2021, n.2710.
In termini più generali, proprio alla luce del piano tenore testuale sopra riportato della legge di gara non è dato cogliere il fondamento dell’incertezza esegetica rilevata nella sentenza impugnata, dovendosi pertanto ribadire il generale principio (ex plurimis, Cons. Stato, III, 6 marzo 2019, n. 1547) per cui dev’essere “privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese, l’interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza, atteso che è necessario evitare che il procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale.
Inoltre, l’interpretazione della "lex specialis" soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale”.
Ciò al fine di garantire che le procedure concorsuali si svolgano secondo obiettivi principi di certezza e di trasparenza (id est, di verificabilità), i quali impongono di ritenere di stretta interpretazione le clausole della lex specialis di gara.
Il CGARS si esprime sulle caratteristiche dell'appalto avente ad oggetto attività principale di natura intellettuale.
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CGARS, sent. del 31 marzo 2021, n. 278.
L’appalto, avente ad oggetto i servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria di progettazione definitiva ed esecutiva, studio di impatto ambientale, comprensivo di esecuzione di indagini geologiche e geotecniche, ha come prestazione prevalente servizi di natura intellettuale, a nulla rilevando che nell’oggetto dell’appalto sia compresa anche l’esecuzione di indagini geologiche e geotecniche, essendo complementari e subvalenti e, quindi, accessorie rispetto all’attività principale di natura intellettuale, non sussistendo l’obbligo di indicazione specifica degli oneri sicurezza, anche qualora l’organizzazione della prestazione intellettuale possa essere comunque tale da esporre il prestatore ad una qualche forma di rischio; i servizi di natura intellettuale cui fa riferimento l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 sono, infatti, quelli in cui le prestazioni intellettuali rivestono carattere prevalente, ancorché non esclusivo, nel contesto delle prestazioni erogate, rispetto alle attività materiali.
Ha ricordato il CGARS che l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che, nell’offerta economica, l’operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a).
La disposizione non ha carattere innovativo, ma ricognitivo di un precedente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui gli oneri di sicurezza interna non sono configurabili negli appalti concernenti servizi di natura intellettuale (Cons. Stato, sez. V, n. 3163 del 2018). In proposito, la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che, laddove qualificato in termini intellettuali, non sussiste l’obbligo di indicazione specifica degli oneri sicurezza, anche qualora l’organizzazione della prestazione intellettuale possa essere comunque tale da esporre il prestatore ad una qualche forma di rischio (Cons. Stato, sez. V, n. 4688 del 2020).
Ha aggiunto il CGARS che, anche in considerazione della ratio cui è ispirata la normativa sulle procedure ad evidenza pubblica, ritiene che i servizi di natura intellettuale cui fa riferimento l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 siano quelli in cui le prestazioni intellettuali rivestono carattere prevalente, ancorché non esclusivo, nel contesto delle prestazioni erogate, rispetto alle attività materiali.
La ratio dell’evidenza pubblica sia a livello nazionale che sovranazionale, infatti, è volta al migliore utilizzo possibile del danaro e degli altri beni della collettività e alla tutela della libertà di concorrenza tra le imprese.
Di talché, il principio cardine delle gare pubbliche è quello del favor partecipationis, atteso che solo attraverso la più ampia possibile presentazione di offerte da parte degli operatori economici “qualificati” è possibile garantire, da un lato, che l’Amministrazione individui, tra i tanti, il “miglior contraente”, dall’altro, l’esplicazione di una piena ed effettiva concorrenza tra le imprese in un mercato libero
LICENZIAMENTI ECONOMICI: OBBLIGATORIA LA REINTEGRA SE IL FATTO È MANIFESTAMENTE INSUSSISTENTE
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 1 aprile 2021
In un sistema che, per scelta consapevole del legislatore, attribuisce rilievo al presupposto comune dell’insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l’applicazione della tutela reintegratoria del lavoratore, si rivela “disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza” il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte dell’inconsistenza della giustificazione addotta e della presenza di un vizio ben più grave rispetto alla pura e semplice insussistenza del fatto. È quanto si legge in un passaggio della sentenza n. 59 depositata oggi (redattrice Silvana Sciarra) con cui la Corte costituzionale (come anticipato nel comunicato stampa del 24 febbraio) ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori – nel testo modificato dalla “riforma Fornero” – con riferimento all’articolo 3 della Costituzione. In particolare, la Corte ha censurato la norma nella parte in cui prevede che il giudice, una volta accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare”, invece che “applica altresì” la tutela reintegratoria. In particolare, il principio di eguaglianza risulta violato se la reintegrazione, in caso di licenziamenti economici, è prevista come facoltativa – mentre è obbligatoria nei licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo – quando il fatto che li ha determinati è manifestamente insussistente. Non si giustifica un diverso trattamento riservato ai licenziamenti economici, nonostante la più incisiva connotazione della inesistenza del fatto, indicata dal legislatore come ‘‘manifesta’’. Alla violazione del principio di eguaglianza si associa l’irragionevolezza intrinseca del criterio distintivo adottato, che conduce a ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento. Per i licenziamenti economici, infatti, il legislatore rende facoltativa la reintegrazione senza offrire all’interprete un chiaro criterio direttivo. La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è rimessa a una valutazione del giudice, disancorata da precisi punti di riferimento. Resta fermo che al giudice si riconosce una discrezionalità che
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non deve ‘‘sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità’’ dunque non può né deve lambire le scelte imprenditoriali. ‘‘Il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio’’.
Potere discrezionale della Stazione Appaltante di suddividere un appalto in diversi lotti. Pronuncia del TAR Veneto.
TAR Veneto, Sez. III, sent. del 1 aprile 2021, n. 419.
La suddivisione dell’appalto in termini strettamente geografici e per base d’asta non solo non viola il dettato dell’art. 51 citato, ma è coerente con esso, avendo la Stazione appaltante provveduto a suddividere la gara in modo da consentire una diversa partecipazione per quanto possibile su più lotti.
In altre parole, l’obbligo di suddivisione in lotti imposto dall’art. 51, d.lgs. n. 50 del 2016, è stato assolto dall’Amministrazione, senza che potesse imporsi un particolare obbligo di motivazione per le specifiche modalità con le quali tale suddivisione è stata strutturata, fermo restando che, comunque, la stessa non risulta irrazionale tenuto conto delle caratteristiche funzionali del servizio.
Al riguardo, il Consiglio di Stato ha sottolineato che <<sebbene sia indubbio che la suddivisione in lotti rappresenti uno strumento posto a tutela della concorrenza sotto il profilo della massima partecipazione alle gare, è altrettanto indubbio che tale principio non costituisca un precetto inviolabile né possa comprimere eccessivamente la discrezionalità amministrativa di cui godono le Stazioni Appaltanti nella predisposizione degli atti di gara in funzione degli interessi sottesi alla domanda pubblica, assumendo, piuttosto, la natura di principio generale adattabile alle peculiarità del caso di specie (Cons. Stato, sez. V, 11/01/2018, n. 123; Sez. III, 12/02/2020, n. 1076) e derogabile, seppur attraverso una decisione che deve essere adeguatamente motivata (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4669, Sez III, n. 1076/2020 cit.). Nel caso di specie la gara è stata suddivisa in quattro lotti e il quomodo della suddivisione non ha certamente impedito all’appellante di partecipare, indi l’amministrazione ha pedissequamente applicato il disposto di legge, senza derogarvi, pur potendo, in astratto, motivatamente farlo. Nessuna violazione di legge v’è stata>> (C. Stato, sez. III, 07/05/2020, n. 2881).
Nel caso di specie, come detto, la gara è stata suddivisa in sette lotti e tale suddivisione non ha impedito a parte ricorrente di partecipare, di talché non vi era nemmeno un obbligo, nel caso di specie, da parte della Stazione appaltante, di motivare la scelta così operata.
Nello stesso senso, quindi, deve ritenersi non vi fosse necessità per l’Amministrazione di motivare specificamente l’accorpamento di più Ulss, così come non è dato ravvisare in tale accorpamento uno specifico “vulnus” al principio di tutela della concorrenza e un collegamento “causale” con la mancata aggiudicazione degli appalti in favore della ricorrente.
Per quanto concerne, poi, la contestata mancata previsione del vincolo di aggiudicazione, ai sensi del comma 3 della predetta norma, nuovamente il Consiglio di Stato ha sottolineato come <<ai sensi dell’art. 51, comma 3, del codice dei contratti le stazioni appaltanti sono facultizzate a limitare il numero di lotti che possono essere aggiudicati a un solo offerente (a condizione che il numero massimo di lotti per offerente sia indicato nel bando di gara o nell’invito a confermare interesse, a presentare offerte o a negoziare); pertanto, l’avere omesso una simile previsione non può ridondare in illegittimità stigmatizzabile dinanzi al giudice amministrativo. La possibilità di stabilire un limite alla aggiudicazione di tutti i lotti di cui all’articolo 51 del codice dei contratti è una facoltà discrezionale il cui mancato esercizio non è – da solo e di per sé sintomo di illegittimità>> (in tal senso, C. Stato, sez. III, 07/05/2020, n. 2881 e C. Stato, sez. III, 07/07/2020, n. 4361).
Ciò che la giurisprudenza, in particolare del Consiglio di Stato, nelle decisioni più recenti, sta mettendo chiaramente in evidenza è il fatto che l’onere motivazionale in capo alla Stazione appaltante deve essere assolto, peraltro in modo puntuale, solo laddove, nel caso del primo comma dell’art. 51, d.lgs. n. 50 del 2016, la P.a. intenda “non” adeguarsi al principio di divisione in lotti, ovvero aggiudichi la gara mediante una procedura formalmente, oltreché sostanzialmente, unica; nel caso del secondo comma, laddove intenda limitare la possibilità di partecipazione o di vittoria delle imprese nei singoli lotti, mediante l’apposizione di un vincolo di aggiudicazione o partecipazione.
In questo senso, deve essere letta e interpretata la sentenza del Consiglio di Stato n. 5746/20 che, nel richiamare tutti i precedenti giurisprudenziali in materia, ha, in particolare, sottolineato che <<in materia di appalti pubblici è principio di carattere generale la preferenza per la suddivisione in lotti, in quanto diretta a favorire la partecipazione alle gare delle piccole e medie imprese; tale principio, come recepito all’art. 51 D.Lgs. n. 50 del 2016, non costituisce peraltro una regola inderogabile: la norma consente alla stazione appaltante di derogarvi per giustificati motivi, che devono essere puntualmente espressi nel bando o nella lettera di invito, essendo il precetto della ripartizione in lotti funzionale alla
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tutela della concorrenza (es. Cons. St., sez. V, 7 febbraio 2020, n. 973; 26 giugno 2017, n. 3110; sez. III, 21 marzo 2019, n. 1857)>>.
La specifica motivazione, cui deve corrispondere anche un’adeguata istruttoria, occorre in caso di deroga al principio di suddivisione in lotti, così come nel caso di apposizione di vincolo di partecipazione e aggiudicazione.
Diversamente, la questione in ordine alla irragionevolezza o illogicità della strutturazione della gara può, comunque, porsi, a prescindere dalla presenza di una puntuale motivazione espressa contenuta nella delibera di indizione della gara, e al di là della violazione o meno dell’art. 51, d.lgs. n. 50 del 2016, in relazione al rispetto dei principi di cui all’art. 30 del medesimo decreto, di portata generale; in tal senso, la scelta metodologica operata dalla P.A. può dirsi legittima qualora, pur in difetto di una espressa e articolata motivazione, si evinca dalla stessa struttura della gara e dagli atti che eventualmente la precedono, che la valutazione non sia manifestamente illogica e lesiva degli interessi della concorrenza.
Questo sempre tenendo conto che, come già detto, nel caso di specie, similmente alla fattispecie di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. 5746/20 citata, <<il divisato assetto organizzativo non ha arrecato nocumento alla ricorrente in primo grado che ha potuto legittimamente partecipare alla gara. Oltretutto, alla stregua delle acquisizioni istruttorie, nemmeno può validamente sostenersi che l’appalto in questione crei le condizioni di mercato chiuso, in quanto la fornitura qui in rilievo, anzitutto, si riferisce solo alle strutture sanitarie ed ospedaliere pubbliche e, comunque, non ne determina la saturazione>>.
Allora, proprio con riferimento al profilo della asserita violazione dell’art. 30, d.lgs. n. 50 del 2016, non sono nemmeno ravvisabili elementi idonei a far ritenere illegittima la scelta della Stazione in relazione al rispetto dei principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità.
La scelta della Stazione Appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce, infatti, una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico; in tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto; il potere medesimo resta delimitato, oltre che da specifiche norme del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza (da ultimo, C. Stato sez. VI, 2 gennaio 2020, n.25; C. Stato, sez. III, 13 novembre 2017, n. 5224).
Nel caso di specie, lo sforzo approntato della Pubblica Amministrazione di bilanciare gli interessi della concorrenza, da un lato, e le esigenze/caratteristiche tecnico-economiche dello specifico appalto, che ha trovato una sintesi nella divisione in lotti geografici e per base d’asta, non è censurabile di irragionevolezza o illegittimità e ciò in considerazione del fatto che, a fronte della identità funzionale dell’oggetto della procedura, non irragionevolmente la Stazione appaltante ha inteso recuperare l’eventuale deficit di diversificazione proconcorrenziale frazionando le procedure per macroaree geografiche, limitando così gli importi a base d’asta. Il tutto previa consultazione di mercato (si vedano i docc. 10 e 11 depositati dall’Amministrazione resistente).
Non si rinvengono, in altre parole, elementi atti a far ritenere che la Stazione appaltante abbia inteso limitare artificiosamente la concorrenza allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici.
Le Sezioni Unite si esprimono sull’ordinanza che decide sull’istanza di concessione della liberazione anticipata.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 1 aprile 2021, n. 12581.
Le Sezioni Unite hanno affermato che l’ordinanza che decide sull’istanza di concessione della liberazione anticipata (art. 69-bis, comma 1, ord. pen.) deve essere in ogni caso notificata al difensore del condannato, se del caso nominato d’ufficio, legittimato a proporre reclamo; quest’ultimo è soggetto alla disciplina delle impugnazioni.
Interpretazione della locuzione "pubbliche amministrazioni". Pronuncia del TAR Veneto.
TAR Veneto, Sez. I, sent. del 2 aprile 2021, n. 434.
Il primo ed il secondo motivo, con i quali la ricorrente sostiene che dovrebbe essere data un’interpretazione lata della locuzione “pubbliche amministrazioni” e che per ragioni di connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati.
Nell’ordinamento sono rinvenibili molteplici nozioni di pubbliche amministrazioni, ed in diversi settori si è assistito all’estensione del regime giuridico originariamente applicabile ai soli enti pubblici anche a soggetti formalmente privati
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ma connotati da punto di vista sostanziale da tratti di carattere pubblicistico. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla materia della contabilità pubblica, della responsabilità erariale, o alla previsione dell’obbligo di rispettare le procedure ad evidenza pubblica anche per soggetti che hanno natura privata.
A livello definitorio vi è una nozione di “pubbliche amministrazioni” che delimita il settore del pubblico impiego prevista all’art. 1, comma 2, del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, secondo cui “per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300”.
Tale nozione tuttavia non è l’unica.
Come questa Sezione ha rilevato con riguardo ad analoga questione concernente il medesimo affidamento, esiste infatti anche una nozione molto più ampia di “pubbliche amministrazioni” prevista dalla normativa nazionale in materia di contabilità e finanza pubblica di recepimento della disciplina comunitaria di cui al regolamento (UE) n. 549/2013 del Palamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2013, relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell’Unione Europea. La legge 31 dicembre 2009, n. 196, all’art. 1, comma 2, dispone che ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica per “amministrazioni pubbliche” si intendono gli enti e i soggetti indicati a fini statistici in appositi elenchi approvati dall’Istat con proprio provvedimento (ad oggi vale il Comunicato del 30 settembre 2015 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 30 settembre 2015, n. 227). Tale provvedimento, in applicazione della disciplina comunitaria, prescinde totalmente dalla natura giuridica pubblica o privata dei soggetti interessati, e dà invece prevalenza alle fonti di finanziamento pubbliche (vi sono ad esempio le società per azioni in mano pubblica, alcuni enti di previdenza privati, le Fondazioni pubbliche ecc.) ricomprendendo pertanto anche una molteplicità di persone giuridiche private (T.A.R. Veneto, Sez. I, 1 aprile 2021, n. 428).
Ciò vale a fortiori per le società in house che costituiscono in realtà articolazioni in senso sostanziale della pubblica amministrazione da cui promanano.
Il disciplinare nel caso in esame ha previsto quale requisito di capacità tecnica e professionale l’aver eseguito tre contratti in ciascun ramo o rischio assicurativo analoghi a quelli oggetto del lotto, per servizi resi in favore delle “pubbliche amministrazioni” senza tuttavia dettarne un’apposita definizione e senza specificare a quale nozione di pubblica amministrazione, tra quelle rinvenibili nell’ordinamento, fare riferimento.
A fronte di tale obiettiva incertezza il Collegio ritiene che, in applicazione dei principi e criteri ermeneutici in materia di contratti pacificamente applicabili ai bandi di gara, nel caso di specie, come dedotto dalla ricorrente nel primo motivo, l’Amministrazione avrebbe dovuto accedere all’interpretazione più ampia possibile, di tipo sostanzialistico, di pubbliche amministrazioni rinvenibile nello specifico settore normativo di riferimento che è quello delle procedure di evidenza pubblica applicabile alla gara in oggetto, comprensivo pertanto delle nozioni di “amministrazioni aggiudicatrici”, di “enti aggiudicatori” o di “soggetti aggiudicatori” di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), e), e f), del d.lgs. n. 50 del 2016.
La ricorrente sul punto condivisibilmente deduce che una limitazione del dato esperienziale ai soli servizi prestati in favore delle “pubbliche amministrazioni” in senso stretto è priva di qualsiasi giustificazione di ordine logico, tecnico e giuridico rispetto alle prestazioni assicurative previste dal lotto, che ha ad oggetto la responsabilità civile verso terzi e i prestatori di lavoro, che non presentano affatto dei profili distintivi a seconda che siano rese in favore di un soggetto pubblico o privato, e pertanto la predetta clausola, ove interpretata nel senso fatto proprio dall’Amministrazione, sarebbe inesorabilmente illegittima ed annullabile.
Il Consiglio di Stato si esprime sugli atti unilaterali d'obbligo propedeutici al rilascio del permesso di costruire in area priva di idonea urbanizzazione.
Consiglio di Stato, Sez. II, sent. 6 aprile 2021, n. 2773.
Gli atti unilaterali d'obbligo associati alla concessione ad aedificandum, siccome propedeutici al rilascio del permesso di costruire in area priva di idonea urbanizzazione, vanno letti in ottica procedimentale e quindi pubblicistica, di guisa che una loro eventuale nullità sia ricondotta al paradigma normativo di cui all'art. 21 septies, l. n. 241 del 1990 e
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verificata non guardando all’atto unilaterale d’obbligo nella sua potenziale veste negoziale quanto invece valorizzandone il profilo teleologico che lo attrae alla piattaforma provvedimentale.
Il rilascio di atti unilaterali d’obbligo da parte del richiedente un titolo edilizio in area non completamente urbanizzata, per la loro natura servente ed endoprocedimentale, non collide né con l’art. 11, l. n. 10 del 1977 (ora art. 16, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) né con l’art. 28, l. n. 1150 del 1942: non con il primo, perché esso trae fondamento dall’elemento volontaristico che sottende la stessa domanda edificatoria, altrimenti non accoglibile; non con il secondo, perché la mancata previsione urbanistica della necessaria interposizione della pianificazione di dettaglio non elide l'esigenza – alla quale soggiace l’impegno surrogatorio della parte privata – di portare a compimento il processo di urbanizzazione dell’area
Ha chiarito la Sezione che gli atti d’obbligo, proprio in quanto ‘unilaterali’, presentano peculiarità tali da aver meritato nel tempo un autonomo spazio nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Essi, cioè, pur appartenendo al più ampio genus degli atti negoziali e dispositivi coi quali il privato assume obbligazioni, si caratterizzano per essere teleologicamente orientati al rilascio del titolo edilizio nel quale sono destinati a confluire. E' stato pertanto affermato che essi non rivestono un’autonoma efficacia negoziale, ma incidono tramite la stessa sul provvedimento cui sono intimamente collegati, tanto da divenirne un “elemento accidentale”, mutuando la terminologia di cui alla nota sistematica civilistica che distingue tra essentialia e accidentalia negotii (Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2013, n. 5628; Cass., Sez. Un., 11 luglio 1994, n. 6527; id. 20 aprile 2007, n. 9360).
I più recenti arresti convergono piuttosto sulla accentuazione della funzione di individuazione convenzionale del contenuto di un provvedimento che l'amministrazione andrà ad emettere a conclusione del procedimento preordinato all'esercizio della funzione urbanistico-edilizia, appunto. Si è perciò affermato che la convenzione, stipulata tra un Comune e un privato costruttore, con la quale questi, al fine di conseguire il rilascio di un titolo edilizio, si obblighi ad un facere o a determinati adempimenti nei confronti dell'ente pubblico (quale, ad esempio, la destinazione di un'area ad uno specifico uso, cedendola), non costituisce un contratto di diritto privato, ma neppure ha specifica autonomia e natura di fonte negoziale del regolamento dei contrapposti interessi delle parti stipulanti, configurandosi come atto intermedio del procedimento amministrativo volto al conseguimento del provvedimento finale, dal quale promanano poteri autoritativi della pubblica amministrazione”.
Si lascia quindi preferire un’impostazione pubblicistica, che, ponendo in luce il carattere accessivo dell’atto unilaterale d’obbligo, consente di escludere che esso si esaurisca nel modulo negoziale non avendo una funzione autonoma quanto servente ai fini del rilascio del titolo; e ciò in disparte l’oggetto dell’obbligo di parte privata, ora consistente nella diretta realizzazione delle opere di urbanizzazione ora nella cessione di un’area ora, infine, nella costituzione di una servitù di uso pubblico.
E’ proprio la dimensione funzionale degli atti unilaterali di obbligo che deve guidare la ricerca del suo fondamento legale non traducendosi in una sorta di obbligo a contrarre quanto nella inserzione, nella rinnovata complessità del provvedimento abilitativo, di un elemento accidentale che risponde all’esigenza propria dell’Amministrazione di assicurare una completa ed esauriente urbanizzazione consentendo così quella edificazione privata altrimenti preclusa.
L’intervento del privato a tali fini assume quindi una valenza surrogatoria e di supplenza della mano pubblica, che ben si inquadra in quella consensualità del potere che storicamente si è affermata in materia urbanistica prima con la lottizzazione convenzionata, quindi con l’ampio e multiforme fenomeno della perequazione urbanistica. Calato in siffatto contesto, l’atto unilaterale d’obbligo non solo perde quella carica autoritativa di cui l’appellante discorre, auspicando la ricerca di un suo specifico referente normativo, quanto riflette una dimensione funzionale che lo atteggia ad elemento propedeutico al rilascio del titolo edilizio invece che un atto a sé stante frutto di una determinazione eteroimposta. Deve quindi concludersi sul punto nel senso che la deduzione di nullità per difetto assoluto di attribuzione non trova riscontro ab origine in quanto è lo stesso potere autoritativo che non si configura nel caso di specie, assumendo l’atto unilaterale d’obbligo il valore di atto strumentale al rilascio del titolo edilizio che, in disparte ogni altra considerazione, è atto emesso su istanza di parte. L’assunzione dei compiti di completamento dell’urbanizzazione dell’area consente infatti il rilascio della concessione edilizia cui mira il privato, rilascio altrimenti precluso da tale mancanza. L’assunzione quindi libera e non coartata dell’obbligo di eseguire le opere di urbanizzazione – in disparte ogni riferimento alla disciplina localmente vigente - consente di ritenere la vicenda attratta alla norma di cui all’art. 11, l. n. 10 del 1977 (ora art. 16 del testo unico edilizia) la cui formula lessicale (“può obbligarsi”) riflette proprio quella carica volontaristica che, come detto, connota la fattispecie accessiva al rilascio del titolo edilizio. Ad opinare diversamente, il fatto che il legislatore discorra espressamente di subordinazione all’atto d’obbligo del rilascio del titolo solo in caso di lottizzazione convenzionata non significa che esso non abbia cittadinanza anche nel caso della edificazione diretta, ovverosia non mediata dalla necessaria pianificazione attuativa, proprio in considerazione del suo fondamento volontaristico che è associato alla stessa domanda edificatoria, stante l’ineludibile (e non contestata)
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necessità vuoi di realizzare ab initio vuoi di completare le opere di urbanizzazione già esistenti ma ancora insufficienti. In altre parole gli atti unilaterali d’obbligo non mutano natura a seconda che si tratti o meno di una lottizzazione convenzionata cosicché essi sono comunque sostenuti dalla volontà del richiedente il titolo.
La necessità di subordinare il suo rilascio alla realizzazione di parte delle opere di urbanizzazione si palesa allo stesso modo sia nel caso di un’area vergine che già parzialmente urbanizzata cosicché, pur a voler enfatizzare la necessità di rinvenire un preciso referente normativo nel panorama ordinamentale in grado di suffragare la “tipicità” degli atti unilaterali d’obbligo ai fini del rilascio dei titoli ad aedificandum in aree suscettibili di edificazione diretta, può essere valorizzato a tale scopo (anche) l’art. 28, l. n. 1150 del 1942. La valorizzata natura volontaristica dell’impegno di parte privata consente, per altro verso, di escludere ogni possibile violazione del principio di riserva di legge in materia di imposizioni tributarie.
Il Consiglio di Stato si esprime sulla concessione dell’aiuto de minimis alle imprese e sulla possibilità di cumulo con altri aiuti.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 7 aprile 2021, n. 2792.
Ai fini della concessione degli aiuti de minimis all'impresa il controllo di verifica dei presupposti deve svolgersi prima di procedere alla concessione del contributo e il mero inserimento della lista dei potenziali beneficiari non configura una concessione del contributo almeno fino all’esito favorevole della verifica del non superamento del limite “de minimis”.
Qualora una impresa faccia legittimamente domanda di un aiuto “de minimis” che, a causa dell'esistenza di aiuti precedenti, porterebbe l'importo complessivo degli aiuti concessi a superare il massimale previsto, l’amministrazione concedente deve consentirle di optare, fino alla definitiva concessione di tale aiuto, per la riduzione del finanziamento richiesto o per la rinuncia, totale o parziale, a precedenti aiuti già percepiti, al fine di non superare tale massimale.
Con ord. 31 luglio 2019, n. 5447 la Sezione aveva rimesso alla Corte di Giustizia Ue la questione se le regole in materia di concessione degli aiuti fissate dagli artt. 3 e 6 del Regolamento n. 1407/2013 debbano essere interpretate nel senso che per l’impresa richiedente, che incorra nel superamento del tetto massimo concedibile in virtù del cumulo con pregressi contributi, sia possibile - sino alla effettiva erogazione del contributo richiesto - optare per la riduzione del finanziamento (mediante modifica o variante al progetto) o per la rinuncia (totale o parziale) a pregressi contributi, eventualmente già percepiti, al fine di rientrare nel limite massimo erogabile; e se le stesse disposizioni debbano essere interpretate nel senso che le diverse prospettate opzioni (variante o rinuncia) valgono anche se non previste espressamente dalla normativa nazionale e/o dall’avviso pubblico relativo alla concessione dell’aiuto. Ha affermato la Sezione che al fine del decidere occorre fare riferimento all’interpretazione data agli artt. 3 e 6 del Regolamento UE 1047/2013 dalla Corte di Giustizia, con la sentenza pubblicata il 28 ottobre 2020.
In particolare, dall’interpretazione data al disposto dell’art. 3, paragrafo 7, si evince che il momento nel quale occorre valutare se il cumulo con altri aiuti superi il massimale “de minimis” è quello della concessione, mentre, dalla formulazione dell’art. 3 paragrafo 4 risulta, altresì, che gli aiuti de minimis sono considerati “concessi nel momento in cui all'impresa è accordato, a norma del regime giuridico nazionale applicabile, il diritto di ricevere gli aiuti, indipendentemente dalla data di erogazione degli aiuti de minimis all'impresa”.
Il momento in cui l’aiuto viene effettivamente concesso creando in capo all’impresa il diritto a riceverlo, che segna anche il limite entro cui il medesimo può essere eventualmente ridotto, deve essere quindi definito dal giudice a quo alla stregua della vigente disciplina nazionale e del bando nazionale di riferimento, che a propria volte devono essere però interpretati in senso conforme alla luce della specifica disciplina euro-unitaria di riferimento.
In particolare, prima di concedere l'aiuto lo Stato, secondo il testo italiano del Regolamento “richiede una dichiarazione all'impresa interessata (...) relativa a qualsiasi altro aiuto "de minimis" ricevuto (...) durante i due esercizi finanziari precedenti e l'esercizio finanziario in corso”, ma, secondo tutte le versioni linguistiche diverse dalla versione italiana lo Stato “concede nuovi aiuti "de minimis" (...) soltanto dopo aver accertato che essi non facciano salire l'importo complessivo degli aiuti "de minimis" concessi all'impresa interessata a un livello superiore al massimale». Secondo l’espressa pronuncia della Corte di Giustizia, “risulta quindi chiaramente da tali disposizioni che il controllo esercitato dagli Stati membri affinché siano rispettate le norme in materia di cumulo deve avvenire prima di concedere l'aiuto”. Il dato letterale della norma euro-unitaria di riferimento è, quindi, ritenuto chiaro nel sancire che il controllo di verifica dei presupposti deve svolgersi prima di procedere alla concessione del contributo. Ne discende che nella specie, l’offerta di riduzione del contributo, essendo intervenuta prima della verifica da parte dell’Amministrazione circa il non complessivo superamento dell’importo “de minimis”, è stata effettuata prima della concessione del contributo, conseguendone l’erroneità, e quindi l’illegittimità, del diniego in quanto motivato dall’impossibilità di rinunciare parzialmente a un contributo già erogato, posto che il mero inserimento della lista dei potenziali beneficiari non poteva
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configurare, secondo l’ordinamento unionale come interpretato dalla Corte di Giustizia, una concessione del contributo almeno fino all’esito favorevole della verifica del non superamento del limite “de minimis”.
Ha chiarito la Sezione che nessuna disposizione volta ad imporre agli Stati membri di consentire alle imprese di ridurre l’entità del finanziamento richiesto al fine di rientrare nel “de minimis”, dovendo gli Stati membri attenersi al principio di cooperazione di cui all’art. 4, paragrafo 3, TUE e, quindi, agevolare il rispetto delle norme applicabili agli aiuti di Stato “istituendo modalità di controllo tali da garantire che l'importo complessivo degli aiuti de minimis concessi a un'impresa unica secondo la norma "de minimis" non superi il massimale complessivo ammissibile”. Ne discende che, una volta garantito il non superamento del massimale complessivo ammissibile, la procedura di concessione degli aiuti rimane disciplinata dalla normativa nazionale, così come disposto dall’art. 3, paragrafo 4, del Regolamento n. 1047 del 2013.
Sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni in sede di impugnazione del provvedimento di scioglimento di un Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. Pronuncia del Consiglio di Stato. Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 7 aprile 2021, n. 2793.
In sede di impugnazione del provvedimento di scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti, svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito.
Lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Ha preliminarmente ricordato la Sezione le indicazioni di principio dettate dalla Corte costituzionale 19 marzo 1993, n. 103, secondo le quali il potere di scioglimento in questione deve essere esercitato in presenza di situazioni di fatto che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi, suffragate da risultanze obiettive e con il supporto di adeguata motivazione; tuttavia, la presenza di risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche ob relationem, non deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve essere influenzata dall'esito di eventuali procedimenti giudiziari che abbiano lambito o investito la medesima vicenda storica.
Recisa la connessione con la materia processual-penalistica, va al contempo rimarcata la natura di provvedimento non sanzionatorio ma preventivo della misura ex art. 143, t.u. 18 agosto 2000, n. 267, in quanto posto a salvaguardia dell’amministrazione pubblica di fronte alla pressione e all’influenza della criminalità organizzata. Alla stregua di tale ratio trovano giustificazione sia il margine, particolarmente ampio, della potestà di apprezzamento di cui fruisce l'Amministrazione; sia la possibilità di dare peso anche a situazioni non traducibili in addebiti personali, ma tali da rendere plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell'esperienza, l'ipotesi di una possibile soggezione degli amministratori alla criminalità organizzata.
Rilevano, perciò, anche “situazioni che non rivelino né lascino presumere l’intenzione degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata”, anche perché, diversamente, ove questa intenzione emergesse, sussisterebbero i presupposti per l'avvio dell'azione penale o, almeno, per l'applicazione delle misure di prevenzione a carico degli amministratori, mentre la scelta del legislatore è stata quella di non subordinare lo scioglimento del consiglio comunale né a tali circostanze, né al compimento di specifiche illegittimità.
Tutto quanto sopra chiarito spiega anche perché, nell’ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose – finalizzato, dunque, a contrastare una patologia del sistema democratico – l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità, non richiedendosi né che la commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti tra l’amministrazione e le organizzazioni criminali risultino da prove inconfutabili, ma solo che sussistano sufficienti elementi univoci e coerenti volti a far ritenere un relazione dinamica tra l’Amministrazione e i gruppi criminali.
Sulla base della stessa ratio si comprende perché il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non possa spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti, svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito; del pari si comprende come in sede giurisdizionale non sia affatto necessario un puntiglioso e cavilloso accertamento di ogni singolo episodio, più o meno in sé rivelatore della volontà degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata, né, come detto, delle responsabilità personali, anche penali, di questi ultimi.
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A quanto sin qui posto, deve infine aggiungersi che le evidenziate puntualizzazioni concordano con l’assenza di sovrapposizioni fra la vertenza avente ad oggetto la legittimità del provvedimento ex art. 143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 e quella avente ad oggetto la declaratoria d’incandidabilità degli ex amministratori considerati responsabili degli accadimenti posti a fondamento della misura dissolutoria.
Quest’ultima investe un frammento della prima, riguardando solo ed esclusivamente ciò che costituisce oggetto di addebito all’ex amministratore che, con la propria condotta, ha provocato ovvero contribuito a provocare il verificarsi delle situazioni di cui al citato comma 1 dell’art. 143. Per tale motivo, essa riguarda in via diretta e immediata solo parte del sostrato fattuale della misura dissolutoria, del quale il giudice civile può (e deve) accertare la veridicità e, circostanza ancor più importante, può autonomamente apprezzare la rilevanza e significatività soprattutto al fine di stabilire la sussistenza o meno di responsabilità dovute anche a mera “culpa in vigilando”.
Neppure può esigersi che il giudizio di permeabilità dell’ente al condizionamento esterno passi attraverso il bilanciamento dei “meriti” e dei “demeriti” ascrivibile alla gestione pubblica, in quanto l’eventuale allegazione di “.. provvedimenti utilmente adottati dall’amministrazione comunale […] non dimostra che l’inerzia di questa in altri ambiti o settori della vita pubblica non abbia potuto favorire, consapevolmente, il perdurare o l’insorgere di un condizionamento o di un collegamento mafioso”. D’altra parte, “.. il condizionamento o il collegamento mafioso dell’ente non necessariamente implicano una paralisi o una regressione dell’intera attività di questo, in ogni suo settore, ma ben possono convivere e anzi convivono con l’adozione di provvedimenti non di rado, e almeno in apparenza, anche utili per l’intera collettività, secondo una logica compromissoria, “distributiva”, “popolare”, frutto di una collusione tra politica e mafia”.
Ha ricordato la Sezione che lo scioglimento del consiglio comunale pe infiltrazione mafiosa si può fondare su un complesso di elementi indiziari da valutare in un’ottica inferenziale complessiva.
Questa valenza sintomatica si apprezza, viepiù, in virtù della più generale considerazione che, oltre all'ipotesi del "collegamento" di politici e dipendenti locali con la criminalità organizzata, l'art. 143, d.lgs n. 267 del 2000 prevede anche il parametro normativo del "condizionamento", potendo entrambe le situazioni - collegamento e/o condizionamento - realizzarsi nella vita amministrativa degli enti locali influenzati dalle cosche.
La ratio della legge è quella di intervenire per interrompere il rapporto di connivenza o di convenienza degli amministratori locali con sodalizi criminali di stampo mafioso che può rintracciarsi sia nella cosiddetta contiguità compiacente in presenza di clientelismo e di corruzione, come nel caso di specie; sia nella cosiddetta contiguità soggiacente esercitata con pressioni, minacce e atti intimidatori che influenzano in maniera determinante e diretta la vita dell'ente.
Secondo pacifica giurisprudenza, inoltre, lo scioglimento si giustifica tanto nelle ipotesi in cui emergano sintomi di condizionamento riguardanti le scelte strettamente di governo, quanto nei casi in cui i sintomi di condizionamento riguardino le attività di gestione, le quali sostanzialmente finiscono per essere quelle di maggior interesse per le consorterie criminali, visto che attraverso di esse si possono più facilmente e rapidamente ottenere benefici e vantaggi. Al contempo, l’adozione della misura dissolutoria di cui all’art.143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 è legittima come nel caso di diretto coinvolgimento dell’apparato politico-amministrativo, così anche nel caso di “inadeguatezza” dello stesso nel regolare compimento dei poteri di vigilanza e nella regolare gestione burocratica dell’amministrazione pubblica.
Ha affermato la Sezione che l’esclusione della garanzia partecipativa nelle forme dettate dall’art. 7, l. 7 agosto 1990, n. 241 è legata alla stessa natura dell'atto di scioglimento che dà ragione dell'esistenza, oltre che della gravità, dell'urgenza del provvedere, cui non può non correlarsi l'affievolimento dell'esigenza di salvaguardare in capo ai destinatari, nell'avvio dell'iter del procedimento di scioglimento, le garanzie partecipative e del contraddittorio assicurate dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Questa impostazione trova autorevole avallo, sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 97 Cost., nella pronuncia della Corte costituzionale n. 103 del 1993, stando alla quale la mancanza della previsione della preventiva contestazione degli addebiti (e della possibilità, di conseguenza, di dedurre in ordine ad essi) nel corso del procedimento amministrativo relativo alle ipotesi di scioglimento appare giustificata dalla loro peculiarità, essendo quelle misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell'ordinamento alle ipotesi di attentato all'ordine ed alla sicurezza pubblica. Una evenienza dunque che esige interventi rapidi e decisi, il che esclude che possa ravvisarsi l'asserito contrasto con l'art. 97 Cost., dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 23 del 1978; ord. n. 503 del 1987), non è compreso quello del ‘giusto procedimento’ amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost..
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Responsabilità risarcitoria dell'Amministrazione per illegittimità del provvedimento per difetto di motivazione. Pronuncia del CGARS.
CGARS, sent. del 7 aprile 2021, n. 295.
Dall’accertamento, con sentenza passata in giudicato, della illegittimità della revoca di un piano di lottizzazione non consegue l’automatico accertamento della colpa in capo all’amministrazione che aveva adottato il piano, ove l’annullamento sia stato disposto per difetto di motivazione e non perché sia stata valutata la legittimità della condotta che aveva portato all’adozione del piano stesso.
Ha chiarito il CGARS che la sentenza che aveva dichiarato l’illegittimità della revoca del piano di lottizzazione non si era spinta anche ad affermare la “colpa” dell’Amministrazione.
Il Giudice si è, infatti, limitato all’analisi del motivo di gravame volto a sindacare l’atto oggetto del suo scrutinio (id est, il provvedimento di revoca del piano di lottizzazione) sotto il profilo - il primo nell’ordine logico - della c.d. “violazione di legge”. Avendo accertato che l’Amministrazione aveva fatto un uso errato delle norme regionali e nazionali in tema di “misure di salvaguardia” (pretendendo di applicarle anche prima della formale adozione del nuovo strumento urbanistico), ha ritenuto tale vizio “assorbente” e dunque sufficiente per pervenire all’annullamento del provvedimento.
E poiché l’annullamento “per violazione di legge” di un provvedimento amministrativo non implica - di regola - alcun esame sulla “colpa” dell’Amministrazione che lo ha posto in essere (accertamento necessario per i soli giudizi risarcitori), è evidente che la “questione della colpa” non è (né può essere ritenuta) rimasta “assorbita” nel giudicato che ha sancito la illegittimità della revoca.
Il CGARS ha inoltre aggiunto che affermare l’illegittimità di un ‘provvedimento di revoca’ di un atto amministrativo non significa in alcun modo affermare automaticamente (o implicitamente) anche - e per relativo converso - la legittimità dell’atto che era stato revocato.
È noto, infatti, che la regola - tipica dei processi ordinari - secondo cui il giudicato “assorbe il dedotto ed il deducibile” (chiudendo pertanto ogni questione, anche se non trattata), non opera in sede di giurisdizione generale di legittimità; e che comunque nel c.d. processo amministrativo di annullamento ben può accadere (ed accade sovente, fisiologicamente) che il Giudice - la cui attività giurisdizionale è fortemente condizionata dai motivi di gravame introdotti dalla parte ricorrente e comunque dalle domande delle parti - finisca per soffermarsi ad esaminare esclusivamente l’atto (e cioè la legittimità del provvedimento), senza spingere la sua conoscenza sull’intero “rapporto” (emergente dalla controversia) fra cittadino ed Amministrazione. Da tutto quanto fin qui osservato deve concludersi che l’accoglimento della domanda giudiziale di annullamento della delibera commissariale di revoca del piano di lottizzazione dell’area di proprietà della società appellante non ha affatto sancito (e men che mai con efficacia di giudicato) la piena legittimità della delibera con cui il piano di lottizzazione era stato (illo tempore) approvato (prima che venisse revocato); né, dunque e comunque, la colpevolezza della condotta del Commissario straordinario (o della Amministrazione commissariale, così può essere e sarà in seguito definita per distinguerla dalla Amministrazione comunale agente in via ordinaria) nell’aver proceduto alla revoca di tale delibera.
Parametri per la verifica di congruità del costo della manodopera di cui all’art. 97, comma 10, del Codice dei contratti pubblici. Pronuncia del TAR Salerno.
TAR Salerno, Sez. I, sent. dell'8 aprile 2021, n. 867.
Ai fini della verifica della congruità dell’offerta presentata in sede di gara non assume rilevanza il parametro ANCE che, se può costituire un utile riferimento per corroborare le valutazioni di congruità del costo del lavoro, quale canone riferito a dati generali e aggregati (percentuale generale del costo del lavoro per singola tipologia di lavorazione), non può costituire unico fondamento dell’analisi condotta dalla Stazione appaltante.
La verifica del costo della manodopera di cui all’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 mira ad accertare la congruità del valore dichiarato non sulla base dell’affermato rispetto delle garanzie retributive dei lavoratori, ma delle caratteristiche specifiche dell’impresa e dell’offerta, considerando in concreto il numero di lavoratori impiegati per l’esecuzione delle opere previste in contratto, distinti per inquadramento e ore di utilizzo, al fine di determinare il costo orario delle maestranze destinate all’esecuzione dell’appalto e verificare così il rispetto dei parametri salariali di riferimento indicati nelle tabelle ministeriali di cui all’art. 23, comma 16, del d.lgs. n. 50/2016, richiamato dall’art. 97, comma 5, lett. d, del medesimo decreto (disposizione questa a cui fa rinvio l’art. 95, comma 10, ai fini della verifica del costo della manodopera condotta contestualmente o separatamente da una verifica di congruità complessiva dell’offerta).
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Come nella verifica di anomalia, devono essere forniti alla Stazione appaltante tutti gli elementi necessari alla ricostruzione del costo della manodopera sopportato dall’impresa per l’esecuzione di quanto proposto con l’offerta prodotta in gara, eventualmente anche non strettamente relativi a tale costo ma utili alla ricostruzione dello stesso.
Tale analisi non può limitarsi semplicemente alla verifica dell’incidenza percentuale del costo complessivo della manodopera sulle singole lavorazioni, confrontandola con quella riscontrabile nell’ambito del mercato di riferimento, ma deve andare a considerare anche le particolarità della singola impresa e della singola offerta al fine di accertare che il costo complessivamente indicato inglobi effettivamente trattamenti salariali non inferiori ai minimi previsti per i singoli lavoratori impiegati.
Non può pertanto assumere rilevanza il parametro ANCE che, se può costituire un utile riferimento per corroborare le valutazioni di congruità del costo del lavoro, quale canone riferito a dati generali e aggregati (percentuale generale del costo del lavoro per singola tipologia di lavorazione), non può costituire unico fondamento dell’analisi condotta dalla Stazione appaltante. Il documento ANCE è infatti legato alla finalità di contrastare il lavoro sommerso e irregolare e reca indici meramente convenzionali per una verifica ex post della incidenza del costo del lavoro sul valore dell’opera, indici che non possono essere “utilizzati ad altri fini o comunque quali indicatori per i prezzi degli appalti”.
Il TAR Bari si esprime sul rapporto intercorrente tra tutela cautelare e giudizio incidentale di costituzionalità.
TAR Bari, Sez. III, ord. dell'8 aprile 2021, n. 128.
Nella fase cautelare, al fine di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi, ove ne ricorrano i presupposti, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non può escludersi, quando gli interessi in gioco lo richiedano, una forma limitata di controllo diffuso che consente la concessione del provvedimento di sospensione, rinviando alla fase di merito, al quale il provvedimento cautelare è strumentalmente collegato, il controllo della Corte costituzionale, con effetti erga omnes.
Ha chiarito il Collegio che nel caso sottoposto al proprio esame la concessione delle misura cautelare (ammissione con riserva), non comporta la disapplicazione di una norma vigente, ma tende a conciliare la tutela immediata e reale, ancorché interinale, degli interessi in gioco con il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi, e si presenta ad un tempo misura idonea ad evitare il danno grave e irreparabile del ricorrente, consentendogli di partecipare alle prove concorsuali a parità di condizioni con gli altri concorrenti, ed a scongiurare il rischio per l’amministrazione di una invalidazione totale dell’intera procedura concorsuale, rispetto al quale il prospettato pregiudizio organizzativo appare recessivo.
L’ordinanza ha quindi richiamato la sentenza della Cass. civ., sez. un., 18 novembre 2015, n. 23542, che ha ritenuto inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione che - in un giudizio proposto in primo grado innanzi al giudice ordinario il quale, in corso di causa, abbia adottato, a domanda del ricorrente di provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., un provvedimento diretto ad accordare al ricorrente una tutela provvisoria ed interinale nelle more del giudizio incidentale di costituzionalità che contestualmente, con ordinanza di rimessione, abbia sollevato - lamenti l’eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice assumendo che la tutela cautelare era preclusa per legge e che il contestuale sollevamento della questione di legittimità costituzionale non autorizzava quel giudice a non applicare la norma della cui legittimità costituzionale dubitava, atteso che nella questione così proposta non è identificabile una questione di giurisdizione ex artt. 37 e 41 c.p.c. che la Corte di cassazione, a sezioni unite, possa essere chiamata a risolvere.
Il Tar ha quindi concluso nel senso della non sussistenza dell’eccesso di potere giurisdizionale nella concessione della chiesta tutela cautelare interinale.
Eccezionalità della norma che esonera dagli accertamenti psico-attitudinali per l'accesso alle forze armate e di polizia. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. dell'8 aprile 2021, n. 2826.
L’art. 24, l. n. 53 del 1989, laddove esige che l’esonero dagli accertamenti psico-attitudinali riguardi la parte degli stessi effettuata al momento dell’ingresso nella carriera, rappresenta norma eccezionale che, in quanto tale, è suscettibile di stretta interpretazione.
La Sezione, quanto alla reiterazione degli accertamenti attitudinali, ha evidenziato che la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, n. 3622 del 2020) ha chiarito che: a) l’art. 2, d.m. n. 198 del 2003 consente la reiterazione anche in corso di rapporto, purché dietro “adeguata motivazione” e “in relazione a specifiche circostanze rilevate d'ufficio”; b)
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più in generale, l’art. 25, comma 2, l. n. 121 del 1981 stabilisce che “i requisiti psico-fisici e attitudinali, di cui debbono essere in possesso gli appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato, che esplicano funzioni di polizia, sono stabiliti con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno”, in tal modo, evidentemente, postulandone la necessaria e continuativa permanenza in capo al personale in servizio; c) la verifica circa il perdurante possesso dei requisiti richiesti ex lege prescinde sia dal pregresso percorso di carriera del dipendente, sia da eventuali profili di colpa in capo a questo e costituisce, di contro, una generale facoltà dell'Amministrazione, quale precipitato tecnico-organizzativo del principio di buon andamento Cons. Stato, sez. III, 11 settembre 2014, n. 4651, secondo cui l’Amministrazione è tenuta, al fine di ben adempiere alle funzioni istituzionali, all’accertamento dell’attuale, piena ed effettiva idoneità del personale allo svolgimento dei delicati compiti di istituto, ogniqualvolta ve ne sia il caso); d) è immune da censure la motivata decisione amministrativa di disporre un apposito accertamento in merito, proprio al fine di vagliare il concreto ed attuale profilo psico-fisico ed attitudinale del soggetto riammesso, dopo lungo tempo, in servizio. ***
Risarcibilità del danno da annullamento per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria del diniego di autorizzazione unica alla realizzazione di un impianto energetico da fonti rinnovabili. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. dell'8 aprile 2021, n. 2848.
Non spetta il risarcimento dei danni da annullamento (reiterato) del diniego di autorizzazione unica alla realizzazione di un impianto energetico da fonti rinnovabili ex art. 12, d.lgs. n. 387 del 2003, per vizi formali o per difetto di motivazione o di istruttoria, in quanto non emerge la prova della concreta spettanza del bene della vita; in ogni caso, va esclusa la risarcibilità del danno emergente consistente nelle spese di progettazione rientrante nella alea propria dell’attività di impresa.
La Sezione ha, altresì, precisato che in relazione ai presupposti per la configurabilità del danno da perdita di chance, la valutazione relativa al “grado di consistenza” della chance rileva sotto il profilo dell’accertamento dell’ingiustizia del danno e non del nesso di causalità, e deve essere compiuta dal giudice secondo le evidenze del caso concreto, per verificare che il fatto lesivo è effettivamente illecito, perché ha inciso, in maniera ingiustificata, su una situazione giuridicamente meritevole di tutela e non rispetto ad una mera aspirazione, ad un interesse di fatto o a circostanze che non assurgono al rango di “bene della vita”.
I profili di causalità, rispetto alla fattispecie di danno di cui si discorre, andranno accertati, invece, come segue: la causalità materiale dovrà intercorrere in termini di certezza, seppure accertata secondo la regola del “più probabile che non”, tra la condotta illecita e asseritamente lesiva e la lesione, per l’appunto, della situazione di vantaggio; la causalità giuridica dovrà intercorrere fra questa lesione (la compromissione definitiva dell’asserita probabile occasione di conseguire l’autorizzazione alla realizzazione e alla gestione dell’impianto) e il tipo di pregiudizio patrimoniale che si assume essersi prodotto (ossia, il non avere potuto gestire con profitto l’impianto e non avere, conseguentemente, fruito dei vantaggi patrimoniali da ciò discendenti).
L'Adunanza Plenaria si esprime sul risarcimento del danno in forma specifica, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda, per occupazione illegittima di suolo privato da parte dell'Amministrazione.
Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 9 aprile 2021, n. 6.
La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, investita della causa d’appello, ha pronunciato l’ordinanza n. 6531/2020, con la quale, ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod. proc. amm., ha rimesso la causa all’Adunanza plenaria sulle seguenti questioni:
«a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’
sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;
b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che
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motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;
c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio, per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);
d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente)».
La Sezione rimettente rileva che la soluzione della questione presuppone: - per un verso, la corretta definizione del rapporto tra le due forme di tutela esperite nei due giudizi, quali azioni distinte e autonome ovvero quali modalità alternative di attuazione dell’unitaria obbligazione risarcitoria (tenendo altresì conto dei principi affermati dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 2, 3 e 4 del 2020, circa la possibilità di convertire – anche in sede d’appello
la domanda di restituzione, basata sulla lesione del diritto di proprietà, nella domanda di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, basata sulla lesione dell’interesse legittimo pretensivo disciplinato da tale disposizione); - per altro verso, l’individuazione degli effetti delle novità normative, nonché del cambiamento dell’orientamento giurisprudenziale sviluppatosi sulle forme di tutela esperibili avverso l’occupazione sine titulo di immobili da parte della pubblica amministrazione, per individuare se la domanda formulata in primo grado sia «nuova» rispetto a quella decisa dal giudice civile, il che dovrebbe ritenersi determinante per verificare se nel caso di specie sia ravvisabile una res iudicata preclusiva della medesima domanda di primo grado.
Si tratta di risolvere la questione, se e in presenza di quali presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto (ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd occupazione acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione in pristino, quale quella esperita nel caso di specie dinanzi al TAR per la Sardegna con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Ulteriore tematica da affrontare nell’esercizio della funzione nomofilattica, attesa la stretta connessione con l’oggetto delle questioni deferite con l’ordinanza di rimessione – è se siffatto giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio di un’azione ex artt. 31 e 117 cod. proc. amm. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
In risposta ai primi due quesiti deferiti, riportati sopra sub §§ 5.a) e 5.b), l'Adunanza Plenaria, al termine di un articolato ragionamento, formula i seguenti principi di diritto:
«(i) In caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l’accertamento del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva, alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell’azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell’azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell’azione ex artt. 31 e 117 Cod. proc. amm. avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001.
(ii) Ai fini della produzione di tale effetto preclusivo non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un’espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell’amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un’interpretazione logicosistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto».
Restano assorbiti i quesiti sub §§ 5.c) e 5.d), presupponenti la mancata formazione del giudicato sul regime proprietario del bene; presupposto negativo, nella specie da escludere.
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Soggetto tenuto al versamento del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche in caso di concessione del suolo comunale per le infrastrutture di telecomunicazione.
Consiglio di Stato, Sez. II, sent. del 12 aprile 2021, n. 2976.
L’art. 63, d.lgs. n. 446 del 1997 indicava - diversamente dall’attuale art. 1, comma 848, della legge “di bilancio” 30 dicembre 2020, n. 178 - quale unico soggetto tenuto al versamento Cosap l’operatore titolare della concessione del suolo comunale per le infrastrutture di telecomunicazione ed occupante il suolo con la propria infrastruttura e non i soggetti ospitati, nei cui confronti gli accordi con il titolare della concessione ben potevano tenere indenne quest’ultimo per la parte d’infrastruttura da essi utilizzata.
Ha chiarito la Sezione che la tesi della unicità, nel vigore della suddetta normativa, del soggetto tenuto al Cosap non confligge col principio e con il processo di liberalizzazione del settore delle telecomunicazioni, poiché le relative criticità ai fini della liberalizzazione apparivano adeguatamente superabili dagli accordi economici fra il concessionario e l’operatore da esso ospitato, accordi che appaiono di minor impatto rispetto alla criticità amministrativa derivante, in assenza di specifica disciplina, da un incremento, per il medesimo suolo concesso all’originario operatore, di ulteriori concessioni a scomputo della concessione originaria.
Ha ancora chiarito la Sezione che la pregressa Circolare del Ministero delle finanze n. 1/D.F. del 20 gennaio 2009 (recante “Chiarimenti in ordine all’applicazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Tosap) e del canone (Cosap) per le occupazioni effettuate con cavi, condutture e impianti da aziende di erogazione di pubblici servizi. Articoli 46 47 del decreto legislativo 15 novembre 1993, numero 507 e articolo 63, comma 2, lettera F) del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446”) aveva natura non vincolante ma interpretativa e di chiarimento per i Comuni, diretti destinatari della norma istitutiva del Cosap e della relativa potestà di normazione regolamentare. E la circostanza che l’art. 1, comma 848, della legge “di bilancio” 30 dicembre 2020, n. 178 abbia ridisciplinato la materia prevedendo tra l’altro “… il canone è dovuto dal soggetto titolare dell'atto di concessione dell'occupazione del suolo pubblico e dai soggetti che occupano il suolo pubblico, anche in via mediata, attraverso l'utilizzo materiale delle infrastrutture del soggetto titolare della concessione sulla base del numero delle rispettive utenze … ”, non incide sulle situazioni pregresse, essendo normazione successiva.
Il TAR Lazio si esprime in tema di competenza dell’Agcom sulla tutela del diritto d’autore.
TAR Lazio, Sez. III ter, sent. del 12 aprile 2021, n. 4260.
L’autorità garante per le comunicazioni è competente a verificare il rispetto del diritto di autore anche sulla Rassegna stampa resa attraverso le reti di comunicazione elettronica limitatamente ad opere trasmesse in formato digitale intangibile o comunque digitalizzate, non essendo tale competenza limitata alle opere native digitali e/o distribuite attraverso siti aperti o comunque accessibili al pubblico indifferenziato senza l’utilizzo di credenziali.
È illegittima la Rassegna stampa con la riproduzione integrale di articoli e di pagine di giornali, senza l’autorizzazione del titolare del diritto esclusivo alla riproduzione.
Ha chiarito il Tar che il legislatore, nell’attribuire all’Agcom siffatto potere di vigilanza in materia di tutela del diritto d’autore utilizza una formulazione coerente a quella dell’art. 13 della legge sul diritto d’autore laddove prevede che “il diritto esclusivo di riprodurre ha per oggetto la moltiplicazione in copie diretta o indiretta, temporanea o permanente, in tutto o in parte dell'opera, in qualunque modo o forma, come la copiatura a mano, la stampa, la litografia, l'incisione, la fotografia, la fonografia, la cinematografia ed ogni altro procedimento di riproduzione”.
Non è dunque possibile restringere lo spettro delle attribuzioni dell’Autorità sull’assunto che l’intervento in questione non rientrerebbe nella tutela del diritto d’autore “sulle reti di comunicazione elettronica”.
Ed, invero, il regolamento Agcom in materia di tutela del diritto d’autore per la definizione di “reti di comunicazione elettronica”, all’art. 1, lett. l) rinvia all’ articolo 1, comma 1, lettera dd), del Codice delle comunicazioni elettroniche, che le definisce come: “i sistemi di trasmissione e, se del caso, le apparecchiature di commutazione o di instradamento e altre risorse, inclusi gli elementi di rete non attivi, che consentono di trasmettere segnali via cavo, via radio, a mezzo di fibre ottiche o con altri mezzi elettromagnetici, comprese le reti satellitari, le reti terrestri mobili e fisse (a commutazione di circuito e a commutazione di pacchetto, compresa Internet), le reti utilizzate per la diffusione circolare dei programmi sonori e televisivi, i sistemi per il trasporto della corrente elettrica, nella misura in cui siano utilizzati per trasmettere i segnali, le reti televisive via cavo, indipendentemente dal tipo di informazione trasportato”.
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Orbene, nella specie, come confermato dalla stessa ricorrente, l’accesso alla rassegna stampa avviene tramite il sito https://new.ecostampa.net/ “mediante l’inserimento di user name e password”.
Vertendosi, pertanto, in materia di diffusione non autorizzata di opere digitali attraverso le reti di comunicazione elettronica limitatamente ad opere trasmesse in formato digitale intangibile o comunque digitalizzate non residua alcun margine di dubbio in merito alla competenza dell’Autorità ad esercitare il potere di vigilanza (cfr. punto 73 delle premesse della delibera Agcom 680/13 cons. di adozione del regolamento).
Né vi è una limitazione normativamente prevista al potere di vigilanza dell’Agcom alle sole opere native digitali e/o distribuite attraverso siti aperti o comunque accessibili al pubblico indifferenziato senza l’utilizzo di credenziali.
Il potere di vigilanza attribuito all’Agcom in materia di diritto d’autore riguarda, invero, qualsiasi opera digitale definita dall’ art. 1, lett. p) del regolamento come “un’opera, o parti di essa, di carattere sonoro, audiovisivo, fotografico, videoludico, editoriale e letterario, inclusi i programmi applicativi e i sistemi operativi per elaboratore, tutelata dalla Legge sul diritto d’autore e diffusa su reti di comunicazione elettronica”.
A parere della sezione, la circostanza che la società di media monitoring svolga selezione e organizzazione delle opere non costituisce scriminante al divieto di riproduzione di articoli di giornale o di parti o pagine di giornale, in cui vi sia la riserva della riproduzione, in quanto non contemplata né dal diritto interno né dal diritto comunitario.
L’attività resta quindi lesiva del diritto di proprietà intellettuale dell’autore dell’articolo e dei diritti patrimoniali dell’editore.
D’altra parte non si può negare che la creazione di una banca dati come quelle create dalle società di media monitoring ricorrente il cui servizio viene realizzato con la riproduzione di articoli integrali pubblicati sul quotidiano controinteressato non comporti una diminuzione, non giustificata peraltro da alcun interesse pubblico o generale, del profitto che l'editore può legittimamente aspettarsi dallo sfruttamento monopolistico connesso al diritto patrimoniale d'autore che ha a sua volta acquisito dall’autore dell’opera.
Né può ragionevolmente negarsi che, nel caso di utilizzazione da parte di terzi di parti dell'opera collettiva giornale nell'ambito delle rassegne di stampa, i singoli contributi non siano ancora percepiti e valutati dagli utenti della banca dati come parti dell'originaria opera collettiva e non come gli elementi di una raccolta diversa ed autonoma. Insomma, è ancora il diritto sull'opera originaria, e non quello eventualmente sussistente sulle parti separate di esso, a venire in rilievo.
Ad un diverso approdo ermeneutico potrebbe pervenirsi se la rassegna stampa si limitasse a fornire informazioni non complete, si limitasse ad una mera citazione dell'articolo giornalistico, lasciando inalterato il bisogno per il lettore di acquistare copia del periodico per leggervi l'articolo di suo interesse oppure se si limitasse a riprendere una parte non rilevante dei contributi presenti sul giornale e li riorganizzasse e sintetizzasse autonomamente senza riprodurre integralmente gli articoli. In conclusione, è proprio l'elemento della completezza dell’articolo riprodotto a rendere la rassegna stampa un succedaneo dell'acquisto del giornale. ***
Il CGARS si esprime sull'applicabilità della l. n. 68 del 1999 in materia di assunzione obbligatorie delle categorie protette presso le società in house siciliane.
CGARS, Sez. cons., 12 aprile 2021, n. 130.
Le assunzioni obbligatorie delle categorie protette di cui alla l. n. 68 del 1999 sono escluse dal blocco assunzionale previsto per le società partecipate della Regione Siciliana.
Ha affermato la Sezione che la soluzione della questione, nei termini appena citati, trovi pieno riscontro nei principi di rango costituzionale e di livello comunitario in cui la stessa si inserisce.
Il riferimento è in primo luogo all’art. 38, comma 3, Cost. in cui si legge che «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale».
Il costituente, nell’inserire tale principio nell’ambito del Titolo dedicato ai rapporti economici, ha evidentemente inteso porre alla base dell’ordinamento l’esigenza di tutelare e supportare le categorie deboli non solo in via assistenziale, ma anche promuovendo l’inserimento di tali soggetti nel mondo del lavoro, pur nell’ambito dell’economia di mercato.
Proprio a tale logica risponde, con ogni evidenza, la l. n. 68 del 12 marzo 1999, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», la quale, quindi, gode di un fondamento costituzionale. Ma vi è di più. Invero, se la Costituzione sancisce il diritto dei disabili all’avviamento professionale e offre copertura alla normativa di settore (l. n. 68 del 1999), tale principio trova riconoscimento anche a livello eurocomunitario. Più nello specifico, all’art. 26 della Carta dei diritti
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fondamentali dell’Unione Europea, rubricato «Inserimento delle persone con disabilità» e inserito significativamente nel Titolo dedicato all’Uguaglianza, in cui si legge che «L’ Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità».
Peraltro, è giusto il caso di ricordare che, con l’entrata in vigore dell’art. 6 del Trattato di Lisbona, è stato espressamente attribuito alla Carta dei Diritti Fondamentali lo stesso valore giuridico dei Trattati.
Sicché se è vero che a norma dell’art. 51 di tale Carta le disposizioni in essa contenute vincolano gli Stati Membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione», è nondimeno evidente che la salvaguardia dei diritti di tali categorie deboli, anche sotto il profilo di promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, rappresenta uno dei valori posti a fondamento del progetto euro-unitario.
Vincoli più stringenti quanto a politiche attive di integrazione e tutela dei disabili si riscontrano, poi, sul piano del diritto internazionale pattizio.
Il riferimento è alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e al relativo protocollo opzionale, sottoscritta dall’Italia già a marzo 2007 e la cui ratifica è stata autorizzata dal Parlamento con legge del 3 marzo 2009 n. 18.
In particolare, a norma dell’art. 27 della citata Convenzione «Gli Stati Parti riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri; segnatamente il diritto di potersi mantenere attraverso un lavoro liberamente scelto o accettato in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro […] prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – in particolare al fine di:
[…] (g) assumere persone con disabilità nel settore pubblico; (h) favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure […]».
La centralità che in tale ottica ricopre la l. n. 68 del 1999 è poi espressamente riconosciuta nel primo Rapporto alle Nazioni Unite trasmesso dall’Italia, in conformità a quanto previsto dall’art. 35 della convenzione, a fine novembre 2012.
Invero, in tale rapporto, in relazione all’attuazione del citato art. 27 si legge che «la principale misura legislativa», sotto tale profilo, è rappresentata proprio dalla legge n. 68 del 1999 in quanto volta all’inserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità. In tale documento si evidenzia, tra l’altro, proprio la circostanza che la normativa in parola impone ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, che presentino determinati requisiti dimensionali, di avere alle loro dipendenze lavoratori con disabilità individuando a tal fine una “quota di riserva”.
Ciò posto, non è poi superfluo evidenziare che, stipulando tale Convenzione, lo Stato Italiano si è obbligato non solo ad adottare le misure adeguate a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti ma anche «ad astenersi dall’intraprendere ogni atto o pratica che sia in contrasto con la presente Convenzione ed a garantire che le autorità pubbliche e le istituzioni agiscano in conformità con la presente Convenzione».
Né è possibile dubitare dell’effettiva cogenza degli impegni assunti per il legislatore non solo nazionale ma anche regionale.
Invero, gli obblighi internazionali assunti costituiscono, ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., parametri interposti di costituzionalità. È noto, sul punto, il principio espresso dalla Corte costituzionale secondo il quale le norme convenzionali internazionali «integrano il parametro costituzionale», pur rimanendo ad un livello sub-costituzionale ed essendo pertanto necessario verificare la loro conformità non solo rispetto ai principi supremi del nostro ordinamento (come avviene nel caso del diritto dell’Unione Europea), ma rispetto a tutte le norme costituzionali (Corte cost., sent. nn. 348-349/2007, c.d. “sentenze gemelle”).
Nel caso de quo, alla luce delle considerazioni svolte, in particolare con riferimento all’art. 38 Cost., è di ogni evidenza l’esito positivo di tale verifica.
Dal nuovo sistema delle fonti tracciato dalla Corte costituzionale deriva, in primo luogo e per quanto di rilievo nel caso oggetto del presente procedimento, che il giudice nazionale nell’interpretare le norme interne è tenuto a privilegiare quell’interpretazione che non si ponga in contrasto con il diritto pattizio laddove in caso di irriducibili antinomie lo stesso dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale per la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. Pertanto, è innanzitutto in tale ottica che è necessario affrontare la questione relativa all’operatività del c.d. blocco delle assunzioni per il settore pubblico previsto ai sensi dell’art. 1, comma 10, l.reg. Sicilia n. 25 del 2008, anche con riferimento ai soggetti tutelati ex l. n. 68 del 1999.
La questione, in particolare, è venuta in rilievo in quanto la successiva l. reg. società partecipate n. 11 del 2010, all’art. 20, comma 6, ha previsto, con specifico riferimento alle società a totale o maggioritaria partecipazione della Regione Siciliana, il divieto di procedere a nuove assunzioni di personale «ivi comprese quelle già autorizzate e quelle previste da disposizioni di carattere speciale». Tale divieto sarebbe parso poi ulteriormente rafforzato da due recenti delibere della Giunta Regionale, rispettivamente la n. 492 del 30 dicembre 2019 e la n. 619 del 31 dicembre 2020.
Assume, quindi, fondamentale importanza stabilire se tra le disposizioni a carattere speciale richiamate dalla legge regionale debba o meno considerarsi compresa altresì la l. n. 68 del 1999.
Tuttavia, avuto riguardo ai valori sanciti a livello costituzionale ed europeo, nonché alla luce degli obblighi
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internazionali assunti dallo Stato Italiano come ricostruiti supra, risulta evidente che la soluzione debba essere, e non possa non essere, quella che esclude che il blocco delle assunzioni sancito dal legislatore regionale ricomprenda altresì i lavoratori disabili sia pure limitatamente alle quote di riserva stabilite dalla legge n. 68 del 1999. In altre parole, l’obiettivo di tutela dei soggetti con disabilità, anche sotto il profilo della promozione del loro inserimento nel mondo del lavoro, ha un rilievo a livello non solo costituzionale, ma anche internazionale, tale da impedire che lo stesso venga sacrificato per ragioni di mera opportunità finanziaria.
In quest’ottica si pone, d’altra parte, anche la pronuncia della Corte dei conti, Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, opportunamente richiamata dall’Ufficio legislativo e legale, in base alla quale «i rapporti tra la normativa che prevede le c.d. assunzioni obbligatorie per le categorie protette, da un lato, e le norme finalizzate al contenimento della spesa pubblica ed al risanamento dei bilanci delle amministrazioni pubbliche promulgate negli ultimi anni – tra cui chiaramente rientrano anche le disposizioni in materia di blocco delle assunzioni -, dall’altro, ancorché non debbano ritenersi incompatibili o inconciliabili, devono, comunque, risolversi nel senso della prevalenza delle disposizioni che impongono obblighi assunzionali di soggetti appartenenti alle categorie protette, nei limiti della copertura della c.d. quota d’obbligo, sulle previsioni che pongono vincoli e divieti di assunzione». (Sezioni Riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva, n. 36/2008/SSRR/PAR del 10 dicembre 2008, n. 49/2011/SSRR/PAR dell’1 luglio 2011, n. 29/SSRR/PAR del 29 agosto 2013, n. 76/SSRR/PAR del 31 ottobre 2012).
Conseguenze della violazione dei limiti dimensionali (principio di sinteticità) dell'atto. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. del 13 aprile 2021, n. 3006.
Nel caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzati, l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a. (introdotto dalla legge di conversione del d.l. 31 agosto 2016, n. 168), sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; peraltro, al fine di non “sorprendere” le parti in una fase caratterizzata dall’assenza di una applicazione sistematica da parte della giurisprudenza delle suddette conseguenze delle condotte difformi, è opportuno, nel rispetto del principio di leale collaborazione ex art. 2, comma 2, c.p.a., invitare le parti a riformulare le difese nei limiti dimensionali previsti, con il divieto di introdurre fatti, motivi ed eccezioni nuovi rispetto a quelli già dedotti.
Ha ricordato la Sezione che la brevità dell’atto processuale (in termini di caratteri, pagine e battute) è appunto lo strumento attraverso il quale il legislatore ha inteso vincolare le parti a quello sforzo di “sintesi” giuridica della materia controversa, sul presupposto che l’intellegibilità dell’atto (e quindi la giustizia della decisione) è grandemente ostacolata da esposizioni confuse e causidiche.
In assenza (e aspettando) l’introduzione di meccanismi deflattivi, al fine di amministrare nel migliore modo possibile una imponente mole di contenzioso, il servizio giustizia, in quanto “risorsa scarsa”, ha bisogno della collaborazione dell’intero ceto giuridico.
Mentre l’iniziale impostazione legislativa faceva leva unicamente sulla condanna alle spese di lite (art. 26.p.a.), l’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., in modo estremamente innovativo sul piano sistematico, sanziona in termini (non di nullità, bensì) di “inutilizzabilità” le difese sovrabbondanti, in quanto il giudice è autorizzato a presumere che la violazione dei limiti dimensionali (ove ingiustificata) sia tale da compromettere l’esame tempestivo e l’intellegibilità della domanda; in questi termini va interpretata la disposizione che ha introdotto una deroga rispetto all’obbligo generalmente esistente in campo al giudice di pronunciare su tutta la domanda (il mancato esame delle difese sovrabbondanti non è infatti censurabile come vizio di infra-petizione); in definitiva, la sinteticità non è più un mero canone orientativo della condotta delle parti, bensì è oramai una regola del processo amministrativo (che coinvolge peraltro anche il giudice: art. 3 c.p.a.), strettamente funzionale alla realizzazione del giusto processo, sotto il profilo della sua ragionevole durata (art. 111 Cost.).
Sono conformi al diritto UE gli aiuti statali in favore delle compagnie aeree per i danni derivanti dalla cancellazione o dalla riprogrammazione dei voli a causa dalla pandemia. Pronuncia del Tribunale dell’UE.
Tribunale dell’Unione europea, comunicato n. 52 del 14 aprile 2021 Sentenze nelle cause T-378/20 Ryanair DAC/Commissione e T-379/20 Ryanair DAC/Commissione
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Sono conformi al diritto dell’Unione le misure di aiuto adottate dalla Svezia e dalla Danimarca a favore della SAS per i danni derivanti dalla cancellazione o dalla riprogrammazione dei voli a seguito delle restrizioni di viaggio causate dalla pandemia di Covid-19
Dato che la SAS detiene una quota di mercato significativamente più elevata di quelle del suo concorrente più prossimo in questi due Stati membri, gli aiuti non costituiscono una discriminazione illegittima Nell’aprile 2020, la Danimarca e la Svezia hanno notificato alla Commissione due misure di aiuto distinte a favore della società SAS AB, consistenti ciascuna in una garanzia su una linea di credito rinnovabile per un importo massimo di 1,5 miliardi di corone svedesi (SEK)1 . Tali misure erano volte a compensare parzialmente la SAS per i danni derivanti dalla cancellazione o dalla riprogrammazione dei suoi voli a seguito dell’istituzione di restrizioni di viaggio nel contesto della pandemia di Covid19. Con decisioni del 15 aprile 20202 e del 24 aprile 20203 , la Commissione ha qualificato le misure notificate come aiuti di Stato compatibili con il mercato interno ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE.
Conformemente a tale disposizione, sono compatibili con il mercato interno gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali. La compagnia aerea Ryanair ha presentato ricorsi diretti all’annullamento di tali decisioni, i quali sono tuttavia respinti dalla Decima Sezione ampliata del Tribunale dell’Unione europea. A tale proposito, essa conferma la legalità di misure di aiuto individuali adottate per far fronte alle conseguenze della pandemia di Covid-19 alla luce dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE.
Giudizio del Tribunale Il Tribunale respinge, in primo luogo, il motivo di ricorso vertente sul fatto che gli aiuti accordati sarebbero incompatibili con il mercato interno perché destinati a ovviare ai danni subiti da una sola società. A tale riguardo, il Tribunale chiarisce che, conformemente all’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE, un aiuto può essere destinato a ovviare ai danni arrecati da un evento eccezionale anche se esso va a beneficio soltanto di un’impresa individuale senza ovviare all’integralità dei danni arrecati da tale evento. Di conseguenza, la Commissione non era incorsa in un errore di diritto per il solo fatto che delle misure di aiuto a favore della SAS non beneficiavano tutte le vittime dei danni causati dalla pandemia di Covid-19. In secondo luogo, il Tribunale respinge il motivo di ricorso della Ryanair con cui si contesta la proporzionalità delle misure di aiuto rispetto ai danni causati alla SAS dalla pandemia di Covid-19.
Il Tribunale ricorda, anzitutto, che l’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE consente solo di compensare gli svantaggi economici causati direttamente da calamità naturali o da altri eventi eccezionali. Tuttavia, dato il carattere evolutivo della pandemia e il carattere necessariamente previsionale della quantificazione del danno da essa arrecato alla SAS, la Commissione aveva presentato con sufficiente precisione un metodo di calcolo per la valutazione di detto danno idoneo a evitare il rischio di un’eventuale sovracompensazione.
A tale proposito, il Tribunale sottolinea, inoltre, l’impegno assunto dalla Danimarca e dalla Svezia di effettuare una valutazione ex post del danno effettivamente subìto dalla SAS, non oltre il 30 giugno 2021, e di chiedere, se del caso, a quest’ultima il rimborso dell’aiuto eccedente il danno in questione, tenuto conto dell’insieme degli aiuti che possono essere accordati alla SAS in conseguenza della pandemia di Covid-19, anche da autorità straniere. In terzo luogo, il Tribunale respinge il motivo di ricorso vertente sulla presunta violazione del principio di non discriminazione. Un aiuto individuale comporta infatti, per sua natura, una differenza di trattamento, se non una discriminazione, la quale è insita nel carattere individuale della misura. Sostenere che un aiuto del genere è contrario al principio di non discriminazione equivarrebbe, quindi, a mettere sistematicamente in discussione la compatibilità con il mercato interno di qualsiasi aiuto individuale, quando invece il diritto dell’Unione consente agli Stati membri di concedere simili aiuti, purché siano soddisfatte le condizioni previste all’articolo 107 TFUE.
In aggiunta, anche supponendo che la differenza di trattamento introdotta dalle misure in questione possa essere assimilata a una discriminazione in forza di tale principio, essa può essere giustificata qualora sia necessaria, adeguata e proporzionata per conseguire un obiettivo legittimo. Analogamente, nella misura in cui la Ryanair fa altresì riferimento all’articolo 18 TFUE, il Tribunale osserva, inoltre, che tale disposizione vieta ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità nel campo di applicazione dei trattati, senza pregiudizio delle disposizioni particolari dagli stessi previste. Orbene, poiché l’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE figura, secondo il Tribunale, tra le disposizioni particolari previste dai trattati, esso continua il suo esame delle misure in questione su tale base. A tale riguardo, il Tribunale conferma, da un lato, che l’obiettivo delle misure in questione soddisfa le condizioni poste dall’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE, in quanto mira effettivamente a ovviare in parte ai danni arrecati alla SAS da un evento eccezionale, ossia la pandemia di Covid-19. Il Tribunale constata, dall’altro lato, che la differenza di trattamento a favore della SAS è adeguata ai fini del conseguimento dell’obiettivo di dette misure e non va al di là di quanto è necessario per conseguire tale obiettivo, poiché la SAS detiene la maggiore quota di mercato in Danimarca e in Svezia e tale quota di mercato è significativamente più elevata di quelle del suo concorrente più prossimo in entrambi i paesi. In quarto luogo, il Tribunale esamina le decisioni della Commissione alla luce della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento. Il Tribunale rileva a tale proposito che la Ryanair non dimostra in che modo il carattere esclusivo
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della misura sia tale da dissuaderla dallo stabilirsi in Danimarca o in Svezia oppure dall’effettuare prestazioni di servizi da e verso uno o l’altro di tali paesi.
Per quanto riguarda la causa T-379/20, il Tribunale constata, inoltre, che la misura di aiuto notificata dalla Svezia presenta carattere subordinato al regime di aiuti svedese adottato in forza dell’articolo 107, paragrafo 3, lettera b), TFUE al fine di far fronte al turbamento dell’economia della Svezia causato dalla pandemia di Covid-19.
Tuttavia, esso respinge l’argomento vertente sul fatto che tale misura non potrebbe avere, per tale ragione, l’obiettivo di ovviare a un evento eccezionale, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), TFUE. A tale riguardo, il Tribunale precisa che il Trattato FUE non osta a un’applicazione concomitante dell’articolo 107, paragrafo 2, lettera b), e dell’articolo 107, paragrafo 3, lettera b), TFUE, purché siano soddisfatte le condizioni di ciascuna di queste due disposizioni. Ciò vale in particolare quando i fatti e le circostanze che danno luogo a un grave turbamento dell’economia derivano da un evento eccezionale. Il Tribunale respinge, infine, in quanto infondati i motivi di ricorso vertenti sulla presunta violazione dell’obbligo di motivazione e constata che non è necessario esaminare la fondatezza del motivo di ricorso vertente sulla violazione dei diritti procedurali derivanti dall’articolo 108, paragrafo 2, TFUE.
La Suprema Corte si esprime sulla compatibilità del reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione con la libertà di espressione garantita dall'art. 10 CEDU.
Corte di Cassazione, Sez. V, sent. del 14 aprile 2021, n. 13993.
La Quinta sezione penale ha affermato che l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione, anche se non commesso nell’ambito di attività giornalistica, può essere compatibile con la libertà di espressione, garantita dall’art. 10 CEDU, soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi di odio o istigazione alla violenza.
Conseguenze dell’esclusione dalla gara di un’offerta ritenuta anomala. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 14 aprile 2021, n. 3085.
L’annullamento del provvedimento di esclusione dalla gara di un’offerta ritenuta anomala non comporta l’obbligo per la stazione appaltante, prima di procedere all’aggiudicazione, di operare una nuova valutazione di anomalia, ove la pronuncia caducatoria non comporti – come nel caso di specie - margini per la riedizione del potere, fondandosi sull’accertamento della sostenibilità economica di tale offerta.
Ha chiarito la Sezione che il giudicato che, accogliendo il ricorso contro il provvedimento di esclusione per anomalia dell’offerta, accerti la congruità dell’offerta medesima in punto di sostenibilità economica della stessa, preclude la proposizione, all’esito di un nuovo provvedimento di aggiudicazione non preceduto da nuova valutazione di congruità, di motivi di ricorso che censurano l’aggiudicazione per ritenuta anomalia della relativa offerta (anche in ragione del carattere globale ed omnicomprensivo di tale giudizio).
Legittimità del diniego di rilascio di nuova patente di guida revocata per condanne penali. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 14 aprile 2021, n. 3084.
È illegittimo il diniego di nulla osta al rilascio della nuova patente di guida in ragione della sussistenza, a carico del richiedente, di sentenze per i reati di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 9 ottobre 1990, senza che siano intervenuti provvedimenti riabilitativi, atteso che il mero decorso del tempo comporta la rilasciabilità del titolo.
Ha chiarito la Sezione, richiamando precedenti del giudice di appello che la revoca della patente, nei casi previsti dall'art. 120 del Codice della strada, non ha natura sanzionatoria né costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, ma rappresenta la constatazione dell'insussistenza (sopravvenuta) dei "requisiti morali" prescritti per il conseguimento di quel titolo di abilitazione. Nel senso della possibilità di rilasciare una nuova patente di guida depongono una serie di elementi, quali: il comma 1 dell’art. 120 del Codice della strada àncora il divieto di conseguire la patente per la durata dei divieti, ma prevede la possibilità di conseguire “di nuovo” il titolo, salvo per “le persone a cui sia applicata per la seconda volta, con sentenza
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di condanna per il reato di cui al terzo periodo del comma 2 dell'articolo 222”; il comma 2 ancora prevede che “La revoca non può essere disposta se sono trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione, o di quella del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati indicati al primo periodo del medesimo comma 1”; il comma 3 dispone che “La persona destinataria del provvedimento di revoca di cui al comma 2 non può conseguire una nuova patente di guida prima che siano trascorsi almeno tre anni”.
Dal dato normativo sopra evidenziato, si ricava che il rinnovo della patente è possibile e previsto dalla disciplina, che la valutazione negativa del requisito morale è ‘a termine’ per così dire, poiché dopo tre anni, l’Amministrazione non potrebbe procedere alla revoca, nel caso in cui non sia disposta prima, che l’ostatività al nuovo titolo discende da una nuova condanna.
Ne discende che l’eventuale riabilitazione può avere semmai effetti ai fini della domanda di rilascio prima del decorso dei tre anni, ma non costituisce – in base alla lettera della norma – condizione ulteriore per il rilascio una volta decorso l’arco temporale previsto.
L’attività di protezione di persone maggiorenni legalmente incapaci svolta da un avvocato costituisce un’attività economica. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 57/21 del 15 aprile 2021, sent. nella causa C-846/19 EQ / Administration de l'Enregistrement, des Domaines et de la TVA
L’attività di protezione di persone maggiorenni legalmente incapaci svolta da un avvocato costituisce, in linea di principio, un’attività economica.
Essa può essere esentata dall’IVA se le prestazioni di servizi in questione sono strettamente connesse all'assistenza e alla previdenza sociale e se l’avvocato beneficia, per l’impresa che egli gestisce a tali fini, di un riconoscimento quale organismo avente carattere sociale Il diritto lussemburghese protegge le persone maggiorenni legalmente incapaci mediante misure di curatela e di tutela che consentono di consigliare, controllare o rappresentare tali persone negli atti della vita civile, attribuendo poteri di gestione e di rappresentanza a terzi. In pratica, i curatori, gli amministratori tutelari, i mandatari speciali e i mandatari ad hoc sono generalmente membri della famiglia, ma anche avvocati. EQ, avvocato iscritto all’ordine forense nel 1994, svolge dal 2004 attività di mandatario nell’ambito dei regimi di protezione dei maggiorenni incapaci. Nel 2018, l'amministrazione tributaria lussemburghese gli richiede il pagamento della tassa sul valore aggiunto (IVA) a titolo delle attività di rappresentanza delle persone maggiorenni legalmente incapaci svolte negli anni 2014 e 2015.
EQ considera che tali attività non costituiscano attività economiche soggette all’IVA e, in ogni caso, che esse adempiano una funzione sociale e debbano essere esenti a tal titolo in forza del diritto nazionale che recepisce la direttiva IVA.1 Al contrario, l’amministrazione tributaria lussemburghese ritiene che le prestazioni fornite nell'ambito di un'attività professionale di avvocato costituiscano un'attività economica e non possano essere esentate dall'IVA: a suo parere, EQ non soddisfa la condizione di essere un organismo avente carattere sociale necessaria a far valere l'esenzione. Investito di tale controversia, il tribunal d’arrondissement (Tribunale circoscrizionale, Lussemburgo) chiede se l’attività di protezione delle persone maggiorenni legalmente incapaci possa beneficiare di un'esenzione dall'IVA e chiede alla Corte di giustizia, in particolare, se tali attività rientrino nella nozione di «attività economica» ai sensi della direttiva IVA, se tali attività siano esenti in quanto «prestazioni di servizi strettamente connesse con l’assistenza e la previdenza sociale» e se l'avvocato che le svolge possa essere considerato come «organismo riconosciuto dallo Stato membro interessato come avente carattere sociale». Con l’odierna sentenza, la Corte stabilisce che le prestazioni di servizi a favore di maggiorenni legalmente incapaci, volte a proteggerli negli atti della vita civile, costituiscono un'attività economica. Secondo il diritto dell'Unione, sono soggette all'IVA solo le attività di natura economica, e più precisamente le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisce in quanto tale. Anche se spetta al giudice nazionale accertare se le prestazioni di servizi fornite a favore di maggiorenni legalmente incapaci siano state effettuate a titolo oneroso, la Corte fa riferimento agli elementi di interpretazione che permettono di stabilire l'esistenza di un nesso diretto tra dette prestazioni e le somme percepite da EQ nell'ambito dei suoi mandati di gestione, anche se il corrispettivo di tali prestazioni non è stato ottenuto direttamente dal destinatario ma da un terzo, o la remunerazione delle prestazioni di servizi è stata fissata sulla base di una valutazione legata alla situazione finanziaria della persona legalmente incapace o in modo forfettario. Per quanto riguarda la natura economica delle prestazioni, la Corte osserva che EQ ricava dalle prestazioni effettuate entrate a carattere permanente e che il livello delle entrate che ha ricavato dalle sue attività non è insufficiente rispetto ai suoi costi di funzionamento.
La Corte esamina inoltre le condizioni per l'applicazione di un'esenzione, affermando che le prestazioni di servizi fornite a favore di maggiorenni legalmente incapaci e volte a proteggerli negli atti della vita civile rientrano nella nozione di «prestazioni di servizi strettamente connesse con l’assistenza e la previdenza sociale» ai sensi della direttiva
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IVA. Per contro, non rientrano nell'esenzione attività più generali di sostegno o di consulenza di ordine giuridico, finanziario o di altro tipo, come quelle che possono essere connesse alle competenze specifiche di un avvocato, di un consulente finanziario o di un agente immobiliare, anche se sono svolte da un prestatore nel contesto della protezione che fornisce ad una persona legalmente incapace. La Corte precisa inoltre che spetta a ciascuno Stato membro elaborare le norme relative al riconoscimento del carattere sociale degli organismi diversi da quelli di diritto pubblico. A questo proposito, la Corte osserva che la nozione di «organismi riconosciuti come aventi carattere sociale» è, in linea di principio, sufficientemente ampia da includere le persone fisiche che perseguono, nell'ambito della loro impresa, uno scopo di lucro. Nel caso di specie, le prestazioni di servizi interessate sono state fornite da un avvocato iscritto all’ordine forense, e anche se la categoria professionale degli avvocati non può essere caratterizzata, in generale, come avente carattere sociale, la Corte non esclude che un avvocato che presta servizi strettamente connessi all'assistenza e alla previdenza sociale possa dimostrare un impegno sociale stabile, impegno dimostrato da EQ nel corso degli anni 2014 e 2015, cosa che spetta al giudice del rinvio verificare, nel rispetto del margine di discrezionalità di cui gode lo Stato membro interessato a tale riguardo.
Disparità di trattamento fondata sull'età tra i lavoratori del settore pubblico collocati in regime di riserva di manodopera. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 58 del 15 aprile 2021, sent. nella causa C-511/19 AB / Olympiako Athlitiko Kentro Athinon – Spyros Louis.
Lavoratori del settore pubblico collocati, a certe condizioni, in regime di riserva di manodopera: la normativa greca non è contraria al diritto dell’Unione La disparità di trattamento fondata sull’età, che tale regime istituisce, persegue un obiettivo legittimo di politica del lavoro i cui mezzi di conseguimento sono appropriati e necessari Nel 1982 AB è stato assunto dall’Olympiako Athlitiko Kentro Athinon – Spyros Louis (OAKA) (Centro atletico olimpico di Atene - Spyros Louis, Grecia), una persona giuridica di diritto privato appartenente al settore pubblico greco, in forza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Gli sono state affidate, nel 1998, le funzioni di consigliere tecnico. Il 1° febbraio 2012, in applicazione della legge 4024/2011 1 , ΑΒ è stato collocato in regime di riserva di manodopera prima del suo pensionamento, il che ha comportato una riduzione della sua retribuzione al 60% del suo stipendio base 2 . Il 30 aprile 2013, l’OAKA ha risolto il suo contratto senza versargli l’indennità prevista in caso di licenziamento. Tale rifiuto era fondato sulla legge citata, la quale prevede una compensazione tra l’indennità di licenziamento dovuta e la retribuzione versata all’impiegato durante la sua assegnazione alla riserva di manodopera.
Dinanzi ai giudici greci, AB ha contestato in particolare la validità del suo trasferimento verso il regime di riserva di manodopera, ritenendo che il diritto greco avesse introdotto una disparità di trattamento fondata sull’età contraria alla direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro3 . Egli ha chiesto che l’OAKA fosse condannata a versargli, da un lato, la differenza tra lo stipendio che percepiva prima del suo trasferimento e quello che ha percepito in seguito nonché, dall’altro, un importo a titolo di indennità di licenziamento. Investito della controversia in ultimo grado, l’Areios Pagos (Corte di cassazione, Grecia) ha sottoposto alla Corte di giustizia talune questioni sull’interpretazione della direttiva. Esso chiede, tra l’altro, se tale regime, riservato ai lavoratori dipendenti secondo un criterio fondato sulla prossimità al pensionamento a tasso intero, il che presuppone che essi abbiano completato un periodo di contribuzione di 35 anni e abbiano raggiunto l’età di 58 anni, durante il periodo tra il 1° gennaio 2012 e il 31 dicembre 2013, comporti una discriminazione indiretta fondata sull’età e se, in tal caso, tale discriminazione possa essere giustificata.
Con la sua sentenza odierna, la Corte dichiara che non è contraria al diritto dell’Unione una normativa nazionale che persegue un giustificato obiettivo di politica del lavoro e prevede mezzi appropriati e necessari per il suo conseguimento. Essa conferma, anzitutto, che la normativa in questione rientra nella sfera di applicazione della direttiva, la quale si applica anche agli impiegati di persone giuridiche di diritto privato appartenente al settore pubblico in senso ampio per quanto riguarda in particolare le condizioni di licenziamento e di retribuzione.
La Corte osserva poi che il collocamento in regime di riserva di manodopera era previsto per lavoratori del settore pubblico in senso ampio che soddisfacevano, durante il periodo di cui trattasi, le condizioni previste per il pensionamento a tasso intero. Il fatto, per il lavoratore, di dover raggiungere l’età minima di 58 anni costituisce una condizione indispensabile per la sua ammissibilità al pensionamento a tasso intero e, di conseguenza, per il suo trasferimento verso il regime di riserva di manodopera. Pertanto, l’applicazione di tale regime di fonda su un criterio indissolubilmente collegato all’età dei lavoratori interessati.
Anche se l’altra condizione, di aver completato 35 anni di contribuzione per l’ammissibilità al pensionamento a tasso intero, dev’essere considerata un criterio apparentemente neutrale, la Corte conclude che la normativa greca contiene
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una disparità di trattamento direttamente fondata sull’età. Tuttavia, conformemente alla direttiva, una disparità di trattamento fondata sull’età può essere giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da legittime finalità, segnatamente di politica sociale e di occupazione. La Corte considera che la necessità immediata di ridurre le spese pubbliche salariali per far fronte alla crisi economica greca non può costituire, di per sé, una finalità legittima tale da giustificare una disparità di trattamento fondata sull’età ai sensi della direttiva. Tuttavia, il regime della riserva di manodopera risponde a giustificati obiettivi di politica del lavoro. Da un lato, esso contribuisce alla promozione di un elevato livello di occupazione, il che rappresenta uno degli obiettivi perseguiti dall’Unione. Dall’altro, esso consente di stabilire un equilibrio strutturale in ragione dell’età tra giovani funzionari e funzionari più anziani.
La Corte verifica quindi se i mezzi di realizzazione degli obiettivi di politica del lavoro sopra citati siano appropriati e necessari. Essa constata che il regime di riserva di manodopera costituisce un mezzo appropriato per la realizzazione di tali obiettivi. Per quanto riguarda il carattere necessario delle misure adottate, la Corte ricorda che spetta agli Stati membri trovare un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, vale a dire tra il mantenimento di un elevato livello occupazionale a beneficio dei lavoratori più giovani e il rispetto del diritto al lavoro. A tale titolo, i lavoratori interessati dal collocamento in tale regime vi sono sottoposti per un periodo relativamente breve, ossia per un massimo di 24 mesi. Inoltre, poiché, al termine di tale periodo, essi beneficiano di una pensione a tasso intero, la soppressione dell’indennità di licenziamento non appare irragionevole. La Corte rileva inoltre che i lavoratori collocati in tale regime beneficiano di misure di tutela che hanno l’effetto di attenuarne gli effetti sfavorevoli. Tali misure comprendono, tra le altre, la possibilità, a determinate condizioni, di trovare un altro impiego nel settore privato, o esercitare la libera professione senza perdere il diritto a percepire la retribuzione relativa al suddetto regime, ma anche la deroga al suddetto regime per i gruppi sociali vulnerabili che necessitano di protezione. Di conseguenza, essa dichiara che la normativa non pregiudica in modo eccessivo gli interessi dei lavoratori che sono stati sottoposti al regime e che non eccede quindi quanto necessario per raggiungere gli obiettivi di politica del lavoro.
Interesse ad ottenere una pronuncia di merito una volta venuta meno l’utilità dell’annullamento. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 15 aprile 2021, n. 3086.
Ai sensi dell’art. 34 c.p.a., solo l’interesse risarcitorio dà titolo all’accertamento dell’illegittimità di un provvedimento impugnato, una volta divenuto inutile l’annullamento giurisdizionale di un provvedimento non più efficace.
Ha chiarito la Sezione che il principio secondo il quale l’interesse meritevole di tutela può correlarsi, una volta venuta meno l’utilità dell’annullamento, a posizioni d’interesse “strumentale o morale” ha riguardo ad utilità giuridiche comunque attuali, funzionalmente collegate agli effetti del provvedimento impugnato: consistenti, in altre parole, nel “vantaggio che il ricorrente può conseguire per effetto dell'accoglimento del ricorso” in relazione alla “concreta possibilità di perseguire un bene della vita, anche di natura morale o residuale, attraverso il processo, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell'interesse protetto”.
Il legislatore ha perimetrato con chiarezza che l’unica forma d’interesse che legittima la prosecuzione del giudizio una volta acclarata l’inutilità dell’annullamento è quella che sorregge l’azione risarcitoria. Non esiste, evidentemente, un tertium genus (il cui riconoscimento sarebbe peraltro contra legem, in presenza del chiaro disposto dell’art. 34, comma 3, c.p.a.), ma unicamente il rilievo di posizioni d’interesse comunque connesse ad un bene della vita (ancorché immateriale) in qualche modo inciso dal provvedimento. Il bene della vita cui aspira l’odierno appellante è invece relativo ad una sorta di “interpello” preventivo in merito all’organizzazione e all’attività d’impresa che possa, in futuro, costituire oggetto (non conflittuale) di atti di esercizio del potere amministrativo attribuito dalla disposizione del cui significato si controverte (art. 28, comma 2, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 8). Una simile pretesa non legittima – per il diritto positivo - l’affermazione della permanenza dell’interesse all’accertamento della illegittimità del provvedimento nel giudizio impugnatorio, una volta acclarata l’inutilità della pronuncia caducatoria. In un’ottica di coerenza sistematica va peraltro rilevato che neppure lo stesso interesse che, a determinate condizioni, legittima – ove ammissibile - la proposizione dell’azione di mero accertamento nel processo amministrativo, può essere ancorato alla tutela di situazioni future od eventuali, non potendo “prescindere dall'esistenza di un pregiudizio attuale del diritto”.
Configurabilità del concorso formale tra il delitto di peculato e quello di bancarotta fraudolenta. Pronuncia della Corte di Cassazione.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sent. del 16 aprile 2021, n. 14402.
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La Sesta sezione ha affermato che è configurabile il concorso formale tra il delitto di peculato e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione trattandosi di reati che si differenziano per struttura ed offensività.
Il legame di parentale non costituisce un indizio dell’infiltrazione mafiosa se dal rapporto non scaturisce una cointeressenza in illeciti rapporti. Pronuncia del CGARS.
CGARS, sent. del 16 aprile 2021, n. 323.
Il legame parentale non costituisce di per sé un indizio dell’infiltrazione mafiosa, specie laddove il parente deriva la propria presunta pericolosità dalla frequentazione di altri soggetti; la pericolosità sociale non si trasferisce infatti automaticamente da un parente all’altro ma occorre almeno ipotizzare che dal rapporto di parentela sia scaturita una cointeressenza in illeciti rapporti o compartecipazione in azioni sospette.
Ha chiarito il C.g.a. che ai sensi dell’art. 84 comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, l'informazione antimafia consiste nell'attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese. L’art. 93 comma 4, dispone che il prefetto valuta se dai dati raccolti possano desumersi elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa, e l’art. 91 comma 6, che il prefetto può, altresì, desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all'attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l'attività d'impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata, nonché dall'accertamento delle violazioni degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari di cui all'art. 3, l. 13 agosto 2010, n. 136, commesse con la condizione della reiterazione prevista dall'art. 8-bis, l. 24 novembre 1981, n. 689.
La Corte costituzionale ha inquadrato l’istituto affermando che “il potere di adottare un'informazione interdittiva nei confronti delle imprese private oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa perché, pur comportando tale atto un grave sacrificio della libertà di impresa (nella specie era in gioco l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane), esso è giustificato dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana” (Corte cost. 26 marzo 2020, n. 57).
Con riferimento ai rapporti di parentela la giurisprudenza ha chiarito che laddove il nucleo forte della motivazione del provvedimento prefettizio consista nella valorizzazione dei legami affettivi o parentali intercorrenti tra esponenti della compagine sociale e soggetti affiliati o vicini alle consorterie criminali, dovranno con chiarezza emergere gli elementi concreti che abbiano indotto l’Autorità a ritenere il predetto legame affettivo o parentale una via d’accesso agevolata alla gestione dell’impresa. Non può dedursi, dal mero vincolo parentale con un soggetto controindicato, non supportato da ulteriori elementi validi, la vocazione criminale del parente stesso: tuttavia, è anche vero che, se non si può scegliere la propria parentela, si può cionondimeno scegliere di prendere le definitive distanze da essa, ove ponga in essere attività non accettabili. Detto altrimenti, ben può il parente di un soggetto riconosciuto affiliato alle consorterie mafiose svolgere attività imprenditoriale, anche interfacciandosi con la committenza pubblica: a condizione, però, che sia chiara la sua distanza concreta e certa dal metodo e dal mondo criminale”.
Divieto di proporre azioni esecutive contro gli enti del Servizio sanitario nazionale fino al 31 dicembre 2021. Pronuncia del CGARS.
CGARS, sent. del 19 aprile 2021, n. 338.
L’art. 117, comma 4, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 – secondo cui nel periodo di emergenza Covid-19 nei confronti degli enti del Servizio sanitario nazionale di cui all'art. 19, d.lgs. 23 giugno 2011, n. 118, non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive - deve essere interpretato nel senso che impedisca solo temporalmente la prosecuzione delle azioni esecutive, non in via definitiva.
Da segnalare che il Tar Reggio Calabria, con ordinanza 31 marzo 2021, n. 228 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 117, comma 4, d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito dalla l. 17 luglio 2020, n. 77, per violazione degli artt. 24, commi 1 e 2, 111, comma 2, e 3, Cost., nella parte in cui ha imposto, per fronteggiare la situazione di emergenza sanitaria da Covid-19, il divieto di proporre contro gli enti del Servizio sanitario nazionale azioni esecutive, tra cui l’azione di ottemperanza di cui agli artt. 112 e segg. c.p.a., prorogando, per continuare a rispondere al bisogno emergenziale, l’iniziale termine del 31 dicembre 2020 al 31 dicembre 2021 senza considerare, a favore del creditore, paralleli meccanismi di tutela per equivalente.
Ha chiarito il C.g.a. che nel periodo dell’emergenza, il cui termine è attualmente indicato nel 31 dicembre 2021, non possano essere intraprese o proseguite azioni esecutive (è l’espressione “proseguite” che determina l’applicabilità della
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disposizione, dal punto di vista temporale, al presente giudizio, atteso che il ricorso introduttivo è stato notificato e depositato nel luglio 2019, in un momento antecedente rispetto all’entrata in vigore della richiamata normativa) e che i pignoramenti e le prenotazioni a debito effettuati prima dell’entrata in vigore del d.l. non producano effetti fino al 31 dicembre 2021.
Nella categoria delle azioni esecutive, alle quali è riferita la disposizione contenuta introdotta nell’art. 117 comma 4, d.l n. 34 del 2020, è annoverabile il giudizio di ottemperanza in quanto volto a rendere effettiva (concretamente fruibile) la tutela accordata con la pronuncia di cognizione.
Specie in relazione alle pronunce del giudice civile, come il decreto ingiuntivo non opposto di cui alla presente controversia, le cui statuizioni di condanna sono generalmente contenute nel dispositivo in modo puntuale, l’impostazione tradizionale riconosce infatti al giudizio di ottemperanza natura prevalentemente di esecuzione, e solo in minima parte di cognizione (per residui spazi, quali domande accessorie o sopravvenienze).
La stessa lettera dell’art. 112 c.p.a. rimanda alternativamente all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionale e alla loro attuazione, essendo questa la finalità del rimedio giurisdizionale, indipendentemente dal fatto che, specie in relazione alle pronunce del g.a., il giudice dell’ottemperanza si serva anche di poteri cognitori.
Con specifico riferimento al caso di specie, inoltre, la Corte costituzionale, allorquando ha giudicato la costituzionalità di una norma analoga a quella de quo, ha espressamente affermato che la modifica normativa che ha espressamente ricompreso fra le azioni esecutive il giudizio di ottemperanza stata introdotta “solo a chiarire il contenuto della norma (cioè ad annoverare, così come peraltro generalmente riconosciuto, il giudizio amministrativo di ottemperanza fra le azioni esecutive)” (Corte cost. 12 luglio 2013, n. 186).
Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, la norma di cui all’art. 117, comma 4, d.l. n. 34 del 2020 è applicabile al giudizio di ottemperanza.
A Sezione ha pertanto ritenuto che l’art. 117, comma 4, d.l. n. 34 del 2020 deve essere interpretato nel senso che impedisca solo temporalmente la prosecuzione delle azioni esecutive, non in via definitiva, così non determinando l’improcedibilità del ricorso per ottemperanza (invece dichiarata con la pronuncia gravata).
Ciò in quanto: la finalità della norma è quella di far fronte alle esigenze della situazione emergenziale e di assicurare, in particolare, la liquidità necessaria a onorare i debiti sorti per tale finalità; il circoscritto periodo temporale che connota la misura è necessariamente legato a esigenze transitorie che, nel caso di specie, soggiacciono all’andamento della pandemia, evento la cui eccezionalità nella storia contemporanea è difficilmente rinvenibile in altro accadimento, e richiama la rilevanza del termine finale; l’espresso riferimento all’emergenza e alla finalità di assicurare liquidità è contabilmente da collegare a esigenze di cassa, nel caso di specie sopravvenute e (si assume temporalmente prevalenti) rispetto alla programmazione di bilancio; rispetto a quest’ultima, che rispecchia (anche) gli impegni e le obbligazioni già assunti dall’Amministrazione, non viene prescritto alcunchè.
Conseguenze della presentazione di documento falso in fase di gara. Pronuncia del Consiglio di Stato. Consiglio di Stato, Sez. V, sent. del 19 aprile 2021, n. 3176.
È chiaro d’altra parte che il documento oggetto di falsità – così come correttamente dedotto dall’appellante nel secondo motivo, perciò da accogliere – incide proprio, per suo valore e collocazione nel quadro dell’offerta, su profili valutativi di quest’ultima (in specie, sub-criterio A.3.1, citato): per questo, alla luce dei principi affermati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, la falsità non può rilevare nella specie ex se in termini espulsivi, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. f-bis), d.lgs. n. 50 del 2016, riguardando invero un elemento integrato nell’offerta tecnica e che dà luogo a un’ipotesi di falsità informativa ex art. 80, comma 5, lett. c) (ora c-bis)), d.lgs. n. 50 del 2016 «suscettibil[e] di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione».
In particolare, l’Adunanza plenaria ha chiarito al riguardo che “la falsità di informazioni rese dall’operatore economico partecipante a procedure di affidamento di contratti pubblici e finalizzata all’adozione dei provvedimenti di competenza della stazione appaltante concernenti l’ammissione alla gara, la selezione delle offerte e l’aggiudicazione, è riconducibile all’ipotesi prevista dalla lettera c) [ora c-bis)] dell’art. 80, comma 5, del codice dei contratti di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50”, e “in conseguenza di ciò la stazione appaltante è tenuta a svolgere la valutazione di integrità e affidabilità del concorrente, ai sensi della medesima disposizione, senza alcun automatismo espulsivo” (Cons. Stato, Ad. plen., 28 agosto 2020, n. 16).
Nella specie, a fronte di una scrittura falsa integrata nell’offerta – e ivi rilevante a fini informativi, circa la disponibilità di un’area astrattamente incidente sull’attribuzione dei punteggi (cfr., al riguardo, la stessa Ad. plen., n. 16 del 2020,
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cit., ove si afferma che “documenti e dichiarazioni sono comunque veicolo di informazioni che l’operatore economico è tenuto a dare alla stazione appaltante e che quest’ultima a sua volta deve discrezionalmente valutare per assumere le proprie determinazioni nella procedura di gara”, da cui la “identità di oggetto tra le lettere c) e f-bis))- spetta comunque all’amministrazione l’apprezzamento della falsità, sotto i vari profili della condotta mendace in sé, nonché in relazione al fatto cui essa si riferisce e al suo portato, e così infine all’affidabilità e integrità dell’operatore economico (cfr., inter multis, Cons. Stato, V, 12 aprile 2019, n. 2407).
Irrilevante è invece la circostanza che l’allegazione sarebbe il frutto di un mero errore materiale e che riguardi una dichiarazione resa da un terzo, atteso che i profili di falsità informativa rilevano a prescindere dalla loro rimproverabilità, purché riconducibili quanto meno a negligenza, ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c) (ora c-bis)), d.lgs. n. 50 del 2016 («anche per negligenza»), qui certamente ravvisabile trattandosi della presentazione di offerta, da parte di un operatore professionale, alla quale è annessa una scrittura privata chiaramente mendace.
In ragione di quanto suesposto, spetta dunque all’amministrazione valutare la condotta della xxxx ai sensi della lettera c) (coincidente ora, in parte qua, con la lett. c-bis)) dell’art, 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 per addivenire a un giudizio di esclusione o meno dell’impresa a fronte della commessa falsità, incidente su profili di valutazione dell’offerta: nello svolgere tale apprezzamento l’amministrazione valuterà – secondo i consueti canoni fissati dalla giurisprudenza
sia la condotta di falso in sé, sia il fatto su cui essa ricade e la sua rilevanza, e per essi l’integrità e affidabilità dell’impresa.
Le Sezioni Unite si esprimono in tema di unione bancaria creata tra gli Stati dell'eurozona e di Meccanismo di vigilanza unico (MVU).
Corte di Cassazione, SS.UU., sent. del 20 aprile 2021, n. 10355.
Nell'unione bancaria creata tra gli Stati dell'eurozona, il Meccanismo di vigilanza unico (MVU) di cui al Regolamento (UE) n. 1024/2013 presuppone che il potere decisionale esclusivo in ordine alle acquisizioni di partecipazioni qualificate in banche appartenga alla BCE. Il coinvolgimento delle autorità nazionali nel procedimento che conduce all'adozione della decisione della BCE non mette in dubbio la qualificazione degli atti delle autorità nazionali centrali (ANC) come atti dell'Unione, perché come affermato dalla Corte di giustizia con la sentenza 19 dicembre 2018 (causa C-219/17) tutti gli atti, nel quadro normativo e procedimentale previsto dal Meccanismo di vigilanza unico, sono tappa di un procedimento unitario nel quale la BCE esercita, essa sola, il potere decisionale. Trattandosi del potere di un'istituzione dell'Unione, sull'esercizio di esso grava la competenza esclusiva del giudice dell'Unione dal punto di vista del controllo di legittimità di tutti gli atti, pure intermedi o preparatori, e pure in applicazione della legislazione nazionale ove il diritto dell'Unione riconosca differenti opzioni normative agli Stati membri, cosa che esclude ogni competenza giurisdizionale nazionale in controversie relative alla sorte degli atti del medesimo procedimento, anche ove ne sia fatta valere la contrarietà a un giudicato nazionale nel contesto della giurisdizione di ottemperanza.
La Suprema Corte si esprime sulla causa di proscioglimento prevista dall’art. 72-bis cod. proc. pen.
Corte di Cassazione, Sez. VI, sent. del 20 aprile 2021, n. 14853.
La Sesta sezione ha affermato che la causa di proscioglimento prevista dall’art. 72-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 22, della legge 23 giugno 2017, n. 103, non è applicabile nei confronti dell’imputato impossibilitato a partecipare al processo per ragioni attinenti alle sue condizioni di salute fisica e non mentale.
Risarcibilità del danno da ritardo e natura dell'indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990. Pronuncia del TAR Lazio.
TAR Lazio, Sez. II bis, sent. del 20 aprile 2021, n. 4597.
L’indennizzo per il ritardo della pubblica amministrazione è previsto a fronte di una attività illegittima della stessa Amministrazione, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente.
La natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della Pubblica amministrazione ostano a ritenere che il relativo diritto sorga solamente come conseguenza automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento.
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Ha preliminarmente ricordato il Tar che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 riconosce al danneggiato dal ritardo della P.A. due azioni concorrenti tra loro, una avente ad oggetto il risarcimento del danno vero e proprio e l’altra relativa all’indennizzo per il “mero” ritardo. Quest’ultimo istituto è immediatamente applicabile alle fattispecie regolate dalla norma, anche se non risulta emanato il regolamento al quale lo stesso art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 consente di disciplinare modi e condizioni (atteso che la stessa norma rinvia prima di tutto “alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge”, rispetto alla quale l’emanazione del regolamento ai sensi dell'art. 17, comma 2, l. 23 agosto 1988, n. 400 è dunque solo facoltativa).
Le due azioni dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 dipendono da un medesimo presupposto in fatto (ossia la violazione del termine di conclusione del procedimento) e condividono la medesima finalità compensativa (dato che l’importo dell’indennizzo, ove riconosciuto dal giudice, va detratto da quello del risarcimento, escludendosene dunque la cumulatività, cfr. anche Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2018, punto 6.3.2), differenziandosi solo quanto a presupposti ed ambito oggettivo dell’illecito risarcibile.
A tal proposito, si osserva che il termine “indennizzo” o “indennità” è utilizzato dal legislatore in significati diversi e non univoci, essendo talvolta sinonimi di risarcimento (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.), anche in rapporto a pregiudizi conseguenti ad un legittimo provvedimento di revoca (art. 21 quinquies, l. n. 241 del 1990), o comunque di attività legittime della PA (come nel caso delle della dipendenza da cause di servizio), altre volte di corrispettivo (come nei casi dell’espropriazione), o ancora di ristoro per un mancato esercizio di attività dovuta (come nel caso dell’art. 1381 cod.civ.) o necessitata per ragioni di protezione dell’agente (come nel caso dell’art. 2045 cod.civ.) e così via.
L’indennizzo è, dunque, un meccanismo che la legge predispone a fronte di attività legittime l’esercizio delle quali comporta il sacrificio di altri valori o interessi (ritenuti cedevoli) e che è rivolto ad assicurare un ristoro ed un parziale riequilibrio di questi ultimi per motivi di equità sostanziale.
Ma, nel caso di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, non è possibile rinvenire i tratti caratteristici dell’istituto appena descritti, perché l’indennizzo per il ritardo è previsto a fronte di una attività illegittima della PA, ossia in conseguenza alla violazione di un termine cogente.
Non si è, dunque, in presenza dell’esercizio di una facoltà della parte pubblica (perché quest’ultima è titolare dell’obbligo a provvedere, che va esercitato nei termini previsti, a meno di non voler sostenere che l’Amministrazione abbia l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine ed al contempo la facoltà di non rispettare quest’ultimo) e per tale ragione non si pone un problema di riequilibrio di interessi meritevoli di tutela in conflitto tra loro.
Ha chiarito la Sezione che la natura compensativa dell’indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 e la circostanza che esso sia configurato quale rimedio ad una attività illecita della P.A., ostano, dunque, a ritenere che il relativo diritto sorga solamente in consegua automatica della violazione del termine per provvedere, e cioè a prescindere dalla sussistenza di una lesione ad un interesse meritevole di tutela ulteriore e distinto da quello alla tempestiva conclusione del procedimento.
A ciò conducono due ordini di considerazioni.
Secondo un primo rilievo, laddove si affermasse, come prospettano i ricorrenti, il diritto all’indennizzo anche all’esito del provvedimento (tardivo ma) pienamente satisfattivo (ovvero il diritto ad un indennizzo in assenza di un interesse leso ulteriore e distinto rispetto a quello strumentale alla tempestiva conclusione del procedimento), la fattispecie di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 avrebbe natura sostanzialmente sanzionatoria, ma come tale sarebbe di dubbia compatibilità costituzionale perché la sanzione risulterebbe affidata al mero arbitrio del giudice (non essendo configurabile la sua commisurazione “secondo equità”, dato che la liquidazione ex art. 1226 del cod.civ. ha ad oggetto solo l’entità del pregiudizio risarcibile in funzione risarcitoria o compensativa).
Secondo un diverso ordine esegetico, sono decisive le differenze con la parallela disposizione di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del 2013, conv. in legge, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98.
La giurisprudenza che se n’è occupata mostra, invero, di considerare fungibili le discipline delle due diverse disposizioni di legge, tanto da ritenere che l’azione di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 è esperibile anche in assenza del regolamento del comma 12 dell’art. 28 (salvo ritenerla soggetta all’onere della previa proposizione della procedura sostitutiva costituita dal comma 2 dell’art. 28, senza chiarire le ragioni di una siffatta estensione, specie se si considera che una procedura sostitutiva è prevista dall’art. 2, comma 9bis e 9 ter, l. n. 241 del 1990 ed il comma 2 bis non la richiama).
Tale impostazione, quindi, induce ad ingenerare il dubbio che anche l’indennizzo di cui all’art. 2 bis cit. – in parallelo all’indennizzo di cui all’art. 28 cit. - debba operare quale mero automatismo conseguente alla violazione del termine.
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Tuttavia, è la stessa disposizione dell’art. 28, d.l. n. 69 del 2013 a fondare la necessità di una esegesi adeguatamente differenziata dell’istituto indennitario di cui all’art. 2 bis della l. 241/90, posto che quest’ultima norma è stata introdotta dalla prima in un testo ben differente (che non subordinata l’indennizzo ai medesimi presupposti di rito che sono disciplinati per l’azione ex art. 28 cit.) e tanto che se ne riconosce l’applicabilità anche in assenza del regolamento di cui al comma 12 (laddove si ritenesse diversamente, l’art. 2 bis, l. 241 del 1990 in nulla si differenzierebbe dalla previsione dell’art. 28, comma 1, d.l. n. 69 del 2013; dovrebbero quindi applicarsi anche alla domanda di indennizzo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 i limiti quantitativi di 30 euro/giorno per un massimo di 2.000,00 euro; non avrebbe alcun senso ripetere una norma identica nella disciplina generale del procedimento amministrativo; neppure sussisterebbero ragioni per escludere le limitazioni della sfera di applicazione dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 previste dal comma 10 dell’art. 28 cit. per “le disposizioni del presente articolo”).
Chiarito che le due disposizioni operano su piani diversi, le differenze implicano che l’istituto di cui all’art. 28, d.l. n. 69 del 2013 è “speciale” rispetto alla norma di ordine generale di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ed appresta una tutela semplificata in favore delle attività di impresa (mediante una forfetizzazione dell’indennizzo da ritardo, bilanciata da un onere procedimentale specifico), per le quali è non irragionevole ritenere il “tempo” e la certezza della conclusione del procedimento quale interesse meritevole di tutela; mentre, nell’ambito della disciplina ordinaria di cui all’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, l’indennizzo (stante la mancata predeterminazione del suo importo) rimane ancorato alla ordinaria funzione compensativa-ripristinatoria e dunque presuppone la dimostrazione della sussistenza di un pregiudizio nel ritardo della conclusione del procedimento ulteriore e distinto rispetto al “bene tempo” (che per i soggetti diversi dagli operatori economici è un valore fortemente soggettivo e come tale esposto ad incerta quantificabilità sotto il profilo monetario).
In altri termini, nel caso dell’art. 28, d.l. 69 del 2013, l’indennizzo da ritardo sorge in quanto la lesione è presunta dalla legge, che infatti predetermina il valore dell’importo da liquidare; nel caso dell’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990, la lesione va invece allegata dal richiedente e (specie nell’assenza del regolamento meglio indicato nello stesso art. 2 bis) costituirà il referente oggettivo al quale il giudice dovrà agganciare la commisurazione dell’indennizzo così da poterlo ad essa parametrare per il tramite della liquidazione equitativa.
Attesa l’evidente unitarietà dell’area dell’illecito e dunque del presupposto oggettivo sia del risarcimento che dell’indennizzo da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo, deve perciò affermarsi che l’art. 2 bis, l. n. 241 del 1990 ritaglia, entro il perimetro del danno risarcibile, una fattispecie di liquidazione semplificata per i pregiudizi riconducibili alla lesione di interessi non patrimoniali. La norma ripartisce i mezzi di tutela riservando all’azione di risarcimento del danno l’ordinario ristoro del pregiudizio patrimoniale (o patrimonialmente valutabile) che l’interessato subisce dal ritardato beneficio dipendente dall’azione della PA (con conseguente onere della prova a carico del danneggiato sia del pregiudizio che del suo ammontare, della sua riferibilità al ritardo, e della sussistenza della colpa o del dolo dell’Amministrazione nel non aver provveduto nei termini dovuti) e demandando all’indennizzo, strumento più agevole e di pronta liquidazione, la tutela della sfera non patrimoniale dell’interesse del richiedente (così che il danneggiato dovrà solo allegare il ritardo e la sussistenza dell’interesse leso).
Compatibilità della disciplina antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011) con i principi costituzionali ed eurounitari.
Consiglio di Stato, Sez. III, sent. del 20 aprile 2021, n. 3182.
La disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 in materia di informativa antimafia non si pone in contrasto con i principi costituzionali ed eurounitari.
La Sezione ha premesso di non ignorare che voci fortemente critiche si sono alzate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’“onda lunga” di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia generica, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.
Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.
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L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 – ma con un ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso Codice, laddove si riferisce a non meglio precisati “concreti elementi” – non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.
La Sezione ha ritenuto, alla stregua di quanto già affermato dalla Sezione (5 settembre 2019, n. 6105), che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, Cedu, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.
Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (v. anche art. 91, comma 4), “eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate” e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.
Nella stessa sentenza sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che “mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze”, conseguendone che “molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica” (§ 107), e ha precisato altresì che “una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità” (§ 108).
Ora, non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, come si è visto, abbia fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell'art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.
Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 30 novembre 2017, dep. 4 gennaio 2018, n. 111).
Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a verificare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame. Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata
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della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
La funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi. Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella citata sentenza, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legittimità sostanziale. Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché “il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una ‘condizione’ personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale” (Cass. pen., sez. II, 9 luglio 2018, n. 30974).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha così enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo ‘tassativizzante’ – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti ‘indici’ o ‘spie’ dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli. Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate in pronunzie di questa Sezione, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
Come condivisibilmente affermato nella sentenza 5 settembre 2019, n. 6105, deve essere riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie. La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.
Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione di questo Consiglio di Stato non osta nemmeno l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto.
Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza n. 24 del 2019, infatti, allorché si versi – come nel caso di specie – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle
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condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base “dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione”. Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; id., sez. I, 4 giugno 2002, Olivieiria c. Paesi Bassi; id. 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.
Nel caso di specie, non si può dubitare che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consenta ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività. Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di più, si traggono dalla ancor più recente sentenza n. 195 del 24 luglio 2019, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l’art. 28, comma 1, d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., laddove la Corte costituzionale ha rilevato che, mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come “concreti, univoci e rilevanti” (art. 143, comma 1, del T.U.E.L.), invece, quanto alle “condotte illecite gravi e reiterate”, di cui al comma 7-bis censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere “situazioni sintomatiche”, sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio “è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale”.
Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011, poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente chiarito. Anzi proprio la sentenza n. 195 del 24 luglio 2019 della Corte costituzionale sembra confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve essere “determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”, per usare le parole della Corte costituzionale (sent. n. 195 del 24 luglio 2019, appena citata, che richiama la sentenza n. 115 del 7 aprile 2011 della stessa Corte costituzionale sull’art. 54, comma 4, del T.U.E.L.)
Ritiene questo Collegio che, alla luce di quanto si è chiarito, siano così soddisfatte le condizioni di tassatività sostanziale, richieste dal diritto convenzionale e dal diritto costituzionale interno, e indefettibili anche per la delicatissima materia delle informazioni antimafia a tutela di diritti fondamentali, come la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte costituzionale nella propria costante giurisprudenza ribadiscono. La tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa Corte costituzionale) “elasticità della copertura legislativa”, giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.
Parimenti la Sezione ha ritenuto che il criterio del “più probabile che non” soddisfi, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella già richiamata sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e “riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un ‘giusto processo’ ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione” (Corte cost. 27 febbraio 2019, n. 24).
Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, nel richiedere la verifica della c.d. probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio, non richiedendosi infatti, in questa
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materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.
Per queste ragioni la Sezione ha ribadito il proprio orientamento, già riaffermato nella sentenza n. 758 del 30 gennaio 2019, senza dover rimettere la questione di legittimità costituzionale e comunitaria degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, per violazione degli artt. 1 Prot. add. CEDU, art. 2 Prot. nn. 4 e 6 CEDU e degli artt. 3, 24, 41, 42, 97 e 111 Cost..
Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale”. E questo Consiglio ha già esaurientemente illustrato nella già richiamata sentenza n. 758 del 2019, alle cui argomentazioni tutte qui ci si richiama, le ragioni per le quali a questa materia, sul piano della c.d. tassatività processuale, non è legittimo applicare le regole probatorie del giudizio penale, dove ben altri e differenti sono i beni di rilievo costituzionali a venire in gioco, e in particolare i criterî di accertamento, propri del giudizio dibattimentale, e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tipica inferenza logica che, se applicata al diritto della prevenzione, imporrebbe alla pubblica amministrazione una probatio diabolica, come si è osservato in dottrina, in quanto, se intesa in senso assoluto, richiederebbe di falsificare ogni ipotesi contraria e, se intesa in senso relativo (secondo il modello dell’abduzione pura, che implica l’assunzione di una ipotesi che va corroborata alla luce degli specifici riscontri probatori), richiederebbe alla pubblica amministrazione uno sforzo istruttorio sproporzionato rispetto alla finalità del suo potere e ai mezzi di cui è dotata per esercitarlo.
Le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale della prevenzione antimafia sono agevolmente superabili, per gli argomenti già esposti in merito all’istituto dell’informazione antimafia, ma anche ricorrendo al criterio dell’interpretazione sistematica, cui il giudice ben può ricorrere per valutare i profili applicativi e interpretativi di un istituto, esaminandone la coerenza con il sistema normativo in cui esso è inserito.
Ed allora, per la materia in esame, non può sfuggire come il codice antimafia abbia, al suo interno, principi ed istituti
ancorché diversi dalla interdittiva antimafia – che sono posti a presidio di un ragionevole contemperamento tra l’interesse generale prioritario alla prevenzione contro la mafia e il diritto di ciascun imprenditore alla tutela costituzionale di cui all’art. 41 Cost., appunto con i limiti che spetta al legislatore stabilire.
L’istituto della gestione con controllo giudiziale di cui all’art. 34-bis del codice antimafia, introdotto dall’art. 11, l. n. 161 del 2017, dimostra in particolare come il legislatore abbia ben considerato ipotesi in cui – pur in presenza di una informazione antimafia – l’interesse alla sopravvivenza di una impresa può essere tutelato accordando una “occasione” per rimuovere entro un periodo temporale breve, grazie appunto al controllo giudiziale sulla gestione aziendale, la contaminazione mafiosa che il provvedimento interdittivo aveva rilevato. E non a caso l’effetto sulla informazione antimafia non è certo caducante, giacché il giudice ordinario, che non ha potere di sindacarne la legittimità, determina solo la sospensione dell’effetto interdittivo dell’impresa per tutto il periodo della amministrazione controllata.
Il legislatore, quindi, ha stabilito: a) che l’informazione antimafia è meramente sospesa nei suoi effetti, fermo restando il sindacato del giudice amministrativo, che parimenti resta sospeso, potendo riprendere il procedimento dopo la conclusione del periodo fissato dal giudice ordinario; b) che, ove la contaminazione mafiosa sia ritenuta occasionale e quindi rimovibile in tempi brevi, la tutela costituzionale dell’impresa può essere garantita, seppure sotto il controllo del giudice cui spetterà valutare se durante il periodo stabilito – di solito uno o due anni – le infiltrazioni siano state tutte rimosse, anche attraverso riscontrabili modifiche nella compagine e nel “portafoglio contratti” della società.
Questa ulteriore riflessione vale in modo compiuto a sgombrare il campo da dubbi relativi alla sistematica condizione di equilibrio e contemperamento realizzata dal codice antimafia con riguardo a interessi e diritti meritevoli di indubbia considerazione.
La Sezione ha escluso peraltro l’esistenza di un obbligo di rimessione alla Corte di giustizia nella presente sede d’appello, per essere questo Consiglio di Stato giudice di ultima istanza per gli effetti dell’obbligo di rimessione alla Corte europea sancito dall’art. 267, comma 3, TFUE. Tale obbligo, infatti, non sussiste nelle ipotesi in cui la questione sollevata sia identica ad altra sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale della Corte, o la giurisprudenza costante della Corte risolva il punto di diritto controverso, indipendentemente dalla natura del procedimento in cui tale giurisprudenza si sia formata (c.d. teoria dell’acte éclairé); ipotesi, quest’ultima, che, alla luce della sopra riportata giurisprudenza della Corte di giustizia in materia, appare ricorrere nel caso di specie.
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Illegittimità della richiesta di fatturato irragionevole quale requisito di partecipazione. Pronuncia del TAR Napoli.
TAR Napoli, Sez. V, sent. del 20 aprile 2021, n. 2497.
Gioverà ricordare che l’art. 83 del Codice dei Contratti prevede che "le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere: a) che gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto dell'appalto" (cfr. commi 4, lettera a) e che “Il fatturato minimo annuo richiesto ai sensi del comma 4, lettera a) non può comunque superare il doppio del valore stimato dell'appalto, calcolato in relazione al periodo di riferimento dello stesso, salvo in circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento. La stazione appaltante, ove richieda un fatturato minimo annuo, ne indica le ragioni nei documenti di gara” (cfr. comma 5).
La norma che è contenuta nella richiamata disposizione limita espressamente l'esercizio della discrezionalità della stazione appaltante sotto due profili, che operano alternativamente: il primo è di carattere quantitativo, prescrivendo che il fatturato richiesto non possa superare il doppio del valore stimato dell'appalto, rapportato al periodo di riferimento; il secondo limite, invece, è di carattere sistematico e opera come eccezione che supera il primo, nel senso che l’amministrazione può prevedere, in casi peculiari, una soglia di fatturato superiore al limite quantitativo di cui si è detto ma una tale scelta, comportando un inevitabile restringimento della platea dei concorrenti, deve essere rigorosamente motivata, in modo che emerga la sua intrinseca ragionevolezza e proporzionalità rispetto all’effetto riduttivo della concorrenza che ne può conseguire, in relazione all’interesse pubblico che l’amministrazione ha inteso salvaguardare.
Dunque ragionevolezza e proporzionalità della previsione derogatoria posta dalla lex specialis operano come limite mobile alla scelta discrezionale dell’amministrazione, consentendo a quest’ultima, alla stregua di una rigorosa motivazione, di superare il limite quantitativo (del doppio del fatturato specifico) che - in forza di una valutazione ex ante, presuntivamente operata dal legislatore – è in grado di comprovare la adeguatezza, sotto il profilo quantitativo, della misura in cui si è inteso circoscrivere la platea dei concorrenti.
Del resto, la pacifica giurisprudenza in tema di requisito di fatturato specifico, anche della Sezione, ha chiarito che, posto che l'art. 83, comma 5, del D.Lgs n. 50 del 2016 prevede tre classi di requisiti a dimostrazione della capacità economica e finanziaria e che quella relativa al fatturato minimo, tanto più se specifico, può effettivamente ridurre drasticamente la platea dei concorrenti, qualora l'Amministrazione scelga tale ipotesi è tenuta ad indicarne le ragioni e tale motivazione va fornita indipendentemente dal rispetto del limite del doppio del valore stimato dell'appalto (cfr. Cons. Stato, Sez. III, sent. 19 gennaio 2018, n. 357; TAR Napoli, Sez. V, sent. 6 maggio 2019 n. 2435).
Va anche soggiunto che la norma àncora al “fatturato minimo annuo” e al “valore stimato dell’appalto, calcolato in relazione al periodo di riferimento dello stesso” i termini su cui parametrare il requisito, di talché, ove il fatturato richiesto sia rapportato ad un arco temporale più lungo dell’anno, il valore dell’appalto corrispondente deve essere rapportato all’equivalente arco temporale, consentendosi altrimenti alle amministrazioni, come perspicacemente rimarcato dalla difesa ricorrente, di far dipendere dalla durata dell’appalto, da esse predeterminata a monte, l’applicazione, a valle, di requisiti più o meno rigorosi.
Nel caso all’esame, a fronte di un importo triennale pari a €. 2.686.500, l'ASL - come anche ribadito col chiarimento n. 2 del 2 dicembre 2020 – ha richiesto il possesso di un fatturato complessivo nel medesimo arco temporale triennale, e segnatamente nel triennio 2017/2019, pari "a euro 8.955.000, per il lotto 2", di talché il fatturato specifico nel triennio richiesto risulta superiore al doppio del corrispondente importo dell’appalto nel periodo di riferimento, senza che risultino rappresentate negli atti di gara “circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici connessi alla natura dei servizi e forniture, oggetto di affidamento”.
In tal modo operando - ovvero fissando requisiti eccedenti la misura massima prevista dalla norma in assenza, tuttavia, di rigorosa motivazione - la stazione appaltante ha finito per restringere la platea dei concorrenti in maniera che appare affatto non giustificata, irragionevole e non necessaria.
Il motivo è dunque fondato.
5.2 Con il secondo e terzo motivo le ricorrenti lamentano che la lex specialis avrebbe richiesto inderogabilmente, ancora una volta, requisiti partecipativi illogici e sproporzionati, prescrivendo, al punto 3.5 del bando, che i concorrenti fossero abilitati in proprio a rilasciare la dichiarazione di conformità PED ovvero "attestazioni certificanti l'abilitazione a rilasciare dichiarazione di conformità secondo Direttiva 97/23/CE in materia di attrezzature a pressione (Direttiva PED) necessarie al fine di procedere con una regolare installazione delle centrali gas medicinali (serbatoi criogenici), secondo normativa", senza alcuna possibilità di conseguire altrimenti detta dichiarazione, anche precisando che:
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- la certificazione di conformità alle direttiva PED non poteva essere rilasciata da un Organismo notificato indipendente a tanto abilitato, ai sensi del D. Lgs. 93/2000 e s.m.i di attuazione delle cennate direttive (cfr. risposta al quesito n. 3 con avviso n. 1 del 26 novembre 2020);
- detto requisito non poteva essere oggetto di avvalimento (cfr. art. 7.4 del bando).
Anche tali censure sono fondate.
Come noto, l’istituto dell’avvalimento ha una portata generale, rispondendo all’esigenza della massima partecipazione consentendo ai concorrenti, che siano privi dei requisiti di capacità tecnica, economica e professionale richiesti dal bando, di concorrere ricorrendo ai requisiti di altri soggetti; di talché, quand’anche la certificazione di qualità riguardasse una qualità soggettiva dell’impresa, ugualmente potrebbe essere oggetto di avvalimento, rientrando tra i requisiti soggettivi che possono essere comprovati mediante tale strumento.
Ciò chiarito in termini generali, ritiene il Collegio che la lex specialis, nella parte in cui ha inteso inibire il soddisfacimento del requisito di cui all'art. 3.5 del bando a mezzo di avvalimento, è illegittima, violando il generale precetto di cui all'art. 89 del D.Lgs. 50/2016 che prevede che l'operatore economico "può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale e di cui all'articolo 83, comma 1 lett. b) e c) necessari per partecipare ad una procedura di gara (...) avvalendosi delle capacità di altri soggetti (..)".
Né il requisito controverso può ritenersi compreso tra i requisiti non avallabili, essendosi chiarito, in relazione ad analoga fattispecie, che "la certificazione di cui alla Direttiva 97/23/CE in materia di attrezzature a pressione Direttiva PED" può in astratto costituire oggetto di contratto di avvalimento (cfr. TAR Lombardia, Milano, 15 ottobre 2013, n. 2306), salva la verifica in concreto dell’idoneità del contratto di avvalimento ad assicurare che l’impresa ausiliaria abbia assunto anche l’obbligazione di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata, in relazione all’esecuzione dell’appalto, le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità (e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti), essendo poi onere del concorrente provare l’effettiva disponibilità di un requisito che, per le sue caratteristiche, è collegato all’intera organizzazione dell'impresa, alle sue procedure interne, al bagaglio delle conoscenze utilizzate nello svolgimento delle attività.
5.3 Con ulteriore motivo, le ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 23 del Codice dei Contratti, che, ai commi 14 e 15, impone alle stazioni appaltanti di predisporre, per gli appalti di servizi quale quello che ci occupa, il relativo progetto, prescrivendo, in particolare, al comma 15, che, “per quanto attiene agli appalti di servizi, il progetto deve contenere: la relazione tecnico illustrativa del contesto in cui è inserito il servizio (...) per i servizi di gestione dei patrimoni immobiliari, ivi inclusi quelli di gestione della manutenzione e sostenibilità energetica, i progetti devono riferirsi anche a quanto previsto dalle pertinenti norme tecniche”.
Il motivo è inammissibile, non avendo la clausola censurata natura escludente.
Secondo la consolidata giurisprudenza vanno considerate “clausole immediatamente escludenti” del bando, comportanti l'onere della immediata impugnazione di questo, solo quelle che con assoluta e oggettiva certezza incidono direttamente sull'interesse delle imprese in quanto precludono, per ragioni oggettive e non di normale alea contrattuale, un'utile partecipazione alla gara a un operatore economico.
A tal fine quest'ultimo è tenuto a dimostrare, in via pregiudiziale, il suo interesse ad agire quando prova di non aver potuto formulare, anche in ragione della propria organizzazione aziendale, un'offerta oggettivamente competitiva, e dimostra, nel merito, l'illegittimità della legge di gara quando prova che tale impossibilità è comune alla maggioranza delle imprese operanti nel settore.
Nel caso all’esame, l’Ati ricorrente non ha provato di essere stata impossibilitata alla formulazione di un’offerta competitiva, anche avuto riguardo alla circostanza che, come si evince dalle incontestate argomentazioni difensive formulate dalla resistente amministrazione, la S.A. ha immediatamente messo a disposizione le strutture per i sopralluoghi a richiesta, ritenendo sufficiente, se valutato opportuno dalla concorrente, anche il sopralluogo in una sola struttura ospedaliera per la presentazione dell’offerta.
Le superiori considerazioni risultano nondimeno confortate dagli stessi rilievi svolti dalla ricorrente, nella parte in cui rimarca che, a fronte della denunciata mancanza progettuale, l’art. 15.2 del bando/disciplinare imponeva ai concorrenti, al fine di conseguire gli 80 punti previsti per l’offerta tecnica, la formulazione di una dettagliata relazione tecnica su tutti i molteplici aspetti progettuali coinvolti nel complesso di servizi messi a gara, asserendo conclusivamente
ma senza fornire prova adeguata sul punto - che una tale completa e dettagliata relazione avrebbe potuto essere compiutamente predisposta esclusivamente dal gestore uscente, unico operatore economico in grado di conoscere il contesto nel quale dovrà svolgersi il servizio.
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In altre parole, la mancanza dell’elaborato tecnico non ha costituito nella specie circostanza oggettivamente preclusiva alla partecipazione alla gara delle ricorrenti, quanto piuttosto contingenza idonea di per sé a influire negativamente sulla valutazione da parte della S.A. dell’offerta tecnica da esse presentata, di talché deve escludersene il carattere di immediata lesività.
La disciplina del trasporto marittimo veloce passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria è conforme al diritto eurounitario? Questione rimessa alla CGUE.
Consiglio di Stato, Sez. V, ord. del 21 aprile 2021, n. 3212.
Sono rimesse alla Corte di giustizia Ue le questioni se osta al diritto eurounitario, e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma come l’art. 47, comma 11 - bis, d.l. n. 50 del 24 aprile 2017, convertito in legge 21 giugno 2017, n. 96, che: a) equipara o quanto meno consente di equiparare per legge il trasporto marittimo veloce passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria a quello di trasporto ferroviario via mare tra la penisola e la Sicilia, di cui alla lett. e), dell’art. 2, del decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione n. 138 T del 31 ottobre 2000; b) crea o appare idonea a creare una riserva in favore di Rete ferroviaria italiana s.p.a. del servizio di collegamento ferroviario via mare anche attraverso l'impiego di mezzi navali veloci tra la Sicilia e la penisola”.
Ha ricordato la Sezione che il comma 11 bis dell’art. 47, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, dispone che “Al fine di migliorare la flessibilità dei collegamenti ferroviari dei passeggeri tra la Sicilia e la penisola, il servizio di collegamento ferroviario via mare di cui all’articolo 2, comma 1, lettera e), del decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione n. 138 T del 31 ottobre 2000 può essere effettuato anche attraverso l’impiego di mezzi navali veloci il cui modello di esercizio sia correlato al servizio di trasporto ferroviario da e per la Sicilia, in particolare nelle tratte di andata e ritorno, Messina-Villa San Giovanni e Messina – Reggio Calabria, da attuare nell’ambito delle risorse previste a legislazione vigente destinate al Contratto di programma – parte servizi tra lo Stato e la società Rete ferroviaria italiana Spa e fermi restando i servizi ivi stabiliti”.
Il decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione n. 138 T del 31 ottobre 2000 ha rilasciato, all’art. 1, a Ferrovie dello Stato – Società Trasporti e Servizi per Azioni la concessione ai fini della gestione dell’infrastruttura ferroviaria nazionale, prevedendo (comma 2) che la stessa avrebbe dovuto provvedere alla costituzione di apposita società per la gestione dell’infrastruttura ferroviaria nazionale.
Secondo l’art. 2, lett. e), di tale decreto costituivano oggetto di concessione “il collegamento ferroviario via mare fra la penisola e, rispettivamente, la Sicilia e la Sardegna”.
Ha aggiunto ancora la Sezione che i servizi di trasporto marittimo, oggetto del contratto stipulato il 24 giugno 2015, sono sottoposti al principio di libera prestazione, per effetto del quale ciascun armatore dell’Unione può offrire servizi di cabotaggio tra i porti di qualunque Stato membro, come stabilito dal regolamento CEE 3577/1992; tale principio è derogabile (art. 4), prevendendosi la possibilità per gli Stati di imporre obblighi di servizio pubblico per il trasporto passeggeri e merci, da, tra e verso le isole, previa verifica del c.d. fallimento del mercato.
Il servizio di trasporto marittimo veloce passeggeri è pertanto in linea di principio assoggettato alle regole del Codice dei Contratti Pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016), non rientrando nelle esclusioni specifiche di cui agli artt. 17 e 18 del predetto d.lgs. n. 50 del 2016.
Al contrario, i servizi di trasporto ferroviario non sono assoggettati alle regole dell’evidenza pubblica.
La disposizione di cui al comma 11 bis dell’art. 47, d.l. 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla l. 21 giugno 2017, n. 96, in virtù della quale il MIT ha affidato direttamente e senza gara il servizio di collegamento veloce passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria, equipara o quanto meno consente di equiparare per legge il trasporto marittimo veloce passeggeri tra il porto di Messina e quello di Reggio Calabria a quello di trasporto ferroviario via mare tra la penisola e la Sicilia, di cui alla lett. e), dell’ar. 2, del decreto del Ministero dei trasporti e della navigazione n. 138 T del 31 ottobre 2000.
In particolare, la predetta disposizione: a) sotto un primo profilo, sottrae, ingiustificatamente e senza alcuna adeguata motivazione, soprattutto in ordine alla verifica del corretto funzionamento del mercato di riferimento ovvero circa una eventuale situazione di fallimento del mercato, al mercato e alle regole dell’evidenza pubblica l’affidamento del servizio di collegamento marittimo veloce passeggeri tra i porti di Messina e Reggio Calabria, in contrasto con le disposizioni degli artt. 17 e 18, d.lgs. n. 50 del 2016 e del regolamento CEE 3577/1992; b) sotto altro profilo, crea o
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appare creare o attribuire di fatto in favore di RFI, la società costituita dalla concessionaria Ferrovie dello Stato –Società Trasporti e Servizi per Azioni, quale società per la gestione dell’infrastruttura ferroviaria nazionale, un diritto speciale o esclusivo per la gestione del collegamento marittimo veloce passeggeri tra i porti di Messina e Reggio Calabria; c) sotto ulteriore profilo è idonea a realizzare sempre in favore di RFI una misura di aiuto di stato, falsando o minacciando la concorrenza, tanto più che la previsione in esame non è temporalmente limitata al reperimento delle risorse finanziarie necessarie per indire la procedura di evidenza pubblica per la relativa aggiudicazione.
Essa pertanto, ad avviso della Sezione, si pone in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 101, 102, 106 e 107 TFUE.
L'avvalimento infragruppo va provato con l'allegazione di idoneo contratto. Pronuncia del TAR Lazio.
TAR Lazio, Roma, Sez. II Quater, sent. del 21 aprile 2021, n. 4686.
Risulta, altresì, fondata la censura proposta dalla controinteressata, ricorrente in via incidentale, secondo cui la società istante, avendo dichiarato in sede di partecipazione, di possedere il requisito di cui all’art. 6.5.2 del disciplinare, “grazie all’istituto dell’avvalimento da parte di aaa socio unico di bbb”, indipendentemente dalla natura cd. infragruppo dell’avvalimento, avrebbe dovuto, comunque, allegare idoneo contratto di avvalimento intercorrente tra le società in questione, pena l’esclusione dalla gara.
Tale contratto, infatti, non avrebbe potuto dirsi surrogato dalla mera dichiarazione unilaterale resa dall’ausiliaria, socio unico della concorrente e da quest’ultima allegata alla domanda di partecipazione, giacché indirizzata, esclusivamente, all’amministrazione e, come tale, priva di efficacia vincolate tra le parti private coinvolte nell’operazione di “messa a disposizione” delle risorse funzionali a garantire la corretta esecuzione della commessa pubblica (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 maggio 2020, n. 3209; Cons. Stato, Sez. V, 22 ottobre 2019, n. 7188).
Quanto sopra trova conforto in quel recente e condiviso orientamento giurisprudenziale, anche di questo Tribunale, formatosi a seguito dell’entrata in vigore del cd. Codici appalti, secondo cui, giacché l’art. 89 d.lgs. n. 50 del 2016 non riproduce più, per il c.d. avvalimento infragruppo, le facilitazioni probatorie previste nell’art. 49, comma 2, lettera g), dell’abrogato d.lgs. n. 163 del 2006 (per cui, in luogo del contratto di avvalimento, vi era la possibilità di presentare una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo), anche in caso di appartenenza ad un medesimo gruppo societario, la concorrente, pena l’esclusione dalla gara, è, comunque, tenuta a produrre un contratto di avvalimento nel quale essere cristallizzati gli impegni assunti nei suoi confronti dall’ausiliaria cd. infragruppo (cfr. T.A.R. Roma, Lazio, sez. II, 15/02/2021, n. 1841; Consiglio di Stato sez. VI, 13/02/2018, n. 907; TAR Lazio, Roma, III, 9.5.2017, n. 5545).
In applicazione dei principi testè esposti, la Commissione aggiudicatrice, preso atto dell’intervenuto deposito di una mera dichiarazione unilaterale di messa a disposizione sottoscritta dalla società francese, socio unico della concorrente yyyy., avrebbe dovuto de plano escludere quest’ultima dalla gara, senza l’attivazione del soccorso istruttorio, essendo tale rimedio volto esclusivamente a chiarire e a completare dichiarazioni o documenti comunque preesistenti alla presentazione dell’offerta e non già, come nella specie, a colmare la sostanziale carenza di un requisito essenziale per la partecipazione, comprovata dall’intervenuta sottoscrizione postuma del contratto in questione (v. Consiglio Stato, III, 4.1.2021, n. 68; C.d.S., Sez. III, 19 giugno 2017, n. 2985; Sez. V, 27 luglio 2016, n. 3396 e 28 settembre 2015, n. 4507; Consiglio di Stato, V, 30.3.2017, n. 1456; Consiglio di Stato, III, 29.1. 2016, n. 346).
Il dirottamento di un volo verso un aeroporto vicino non conferisce al passeggero il diritto a una compensazione pecuniaria forfettaria. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 68 del 22 aprile 2021, sent. nella causa C-826/19 WZ / Austrian Airlines AG.
Il dirottamento di un volo verso un aeroporto vicino non dà di per sé diritto a una compensazione pecuniaria forfettaria.
La compagnia aerea deve invece offrire di propria iniziativa al passeggero la presa in carico delle spese di trasferimento verso l’aeroporto per il quale era stata effettuata la prenotazione o, eventualmente, verso un’altra destinazione vicina
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con lui concordata Un passeggero dell’Austrian Airlines chiede a quest’ultima una compensazione forfettaria di EUR 250 per il dirottamento del suo volo da Vienna (Austria) a Berlino (Germania). Tale volo, che doveva inizialmente atterrare all’aeroporto di Berlino Tegel, è invece alla fine atterrato all’aeroporto di Berlino Schönefeld con quasi un’ora di ritardo. L’Austrian Airlines non ha proposto al passeggero un trasporto aggiuntivo, né di farsi carico essa stessa delle spese di trasferimento tra questi due aeroporti. Mentre l’aeroporto di Berlino Tegel è situato nel Land Berlino, l’aeroporto di Berlino Schönefeld si trova nel vicino Land Brandeburgo.
L’Austrian Airlines sostiene che il semplice dirottamento verso un aeroporto vicino non dà diritto, diversamente da una cancellazione o un ritardo prolungato all’arrivo (tre ore o più), a una compensazione forfettaria di EUR 250, 400 o 600 1 . Per giunta, secondo tale compagnia aerea, il ritardo era dovuto a circostanze eccezionali, vale a dire rilevanti problemi meteorologici verificatisi durante la terzultima rotazione dell’aeromobile. Il Landesgericht Korneuburg (Tribunale del Land, Korneuburg, Austria), investito della controversia, chiede alla Corte di giustizia di interpretare il regolamento sui diritti dei passeggeri aerei 2 . Tale regolamento prevede che, quando un volo è dirottato verso un aeroporto diverso da quello prenotato dal passeggero, ma che serve la stessa città o regione, la compagnia aerea prende in carico le spese di trasferimento del passeggero dall'aeroporto di arrivo all'aeroporto per il quale era stata effettuata la prenotazione o ad un'altra destinazione vicina, concordata con il passeggero.
Con la sua odierna sentenza, la Corte di giustizia dichiara che il dirottamento di un volo verso un aeroporto che serve la stessa città o regione 3 non conferisce al passeggero un diritto a compensazione pecuniaria per cancellazione del volo. Per poter ritenere che l’aeroporto sostitutivo serva la stessa città o regione, non è necessario che esso sia situato nello stesso territorio (in senso amministrativo) della città o regione in cui si trova l’aeroporto per il quale era stata effettuata la prenotazione.
Quel che conta è che esso presenti una stretta vicinanza con detto territorio. Il passeggero dispone invece, in linea di principio, di un diritto a compensazione forfettaria qualora egli raggiunga la sua destinazione finale, ossia l’aeroporto di destinazione per il quale era stata effettuata la prenotazione o un'altra destinazione vicina concordata con il passeggero, tre ore o più dopo l’orario di arrivo originariamente previsto. Per determinare l’entità del ritardo subito all’arrivo, occorre fare riferimento all’orario in cui il passeggero giunge, dopo il suo trasferimento, all’aeroporto per il quale era stata effettuata la prenotazione o, eventualmente, ad un’altra destinazione vicina, concordata con la compagnia aerea.
In tale contesto, la Corte precisa che, per sottrarsi al proprio obbligo di compensazione pecuniaria dei passeggeri in caso di ritardo prolungato di un volo all’arrivo, la compagnia aerea può avvalersi di una circostanza eccezionale che ha inciso non su detto volo ritardato, bensì su un precedente volo da essa stessa operata col medesimo aereo nell’ambito della terzultima rotazione di tale aeromobile, a condizione che esista un nesso di causalità diretta tra la verificazione di tale circostanza e il ritardo prolungato del volo successivo.
Inoltre, la Corte statuisce che la compagnia aerea è tenuta a proporre di propria iniziativa la presa in carico delle spese di trasferimento verso l’aeroporto per il quale era stata effettuata la prenotazione o, eventualmente, verso un’altra destinazione vicina, concordata con il passeggero. Se la compagnia aerea non rispetta il proprio obbligo di prendere in carico tali spese, il passeggero ha diritto al rimborso delle somme da lui sostenute e che, alla luce delle circostanze proprie di ciascun caso di specie, risultino necessarie, appropriate e ragionevoli al fine di ovviare all’omissione della compagnia aerea. La violazione dell’obbligo di presa in carico non conferisce invece al passeggero un diritto a compensazione pecuniaria forfettaria di EUR 250, 400 o 600.
Considerazione del lavoro irregolare in sede di rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Pronuncia del CGARS.
CGARS, sent del 22 aprile 2021, n. 353.
In sede di rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere considerato, al fine di integrare il presupposto del reddito, il lavoro irregolare.
Ha ricordato il CGARS che il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è disciplinato dalla direttiva 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE che, ad avviso della Corte di giustizia (17 luglio 2014 in C-469/13), deve essere interpretata nel senso che non consente ad uno Stato membro di rilasciare un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a condizioni più favorevoli di quelle previste nella stessa direttiva. Ciò in quanto l’armonizzazione delle condizioni per il conferimento dello status di soggiornante di lungo periodo favorisce la reciproca fiducia fra gli Stati membri. In tale contesto, il considerando 17 della citata direttiva enuncia che i titoli di soggiorno permanenti o di validità illimitata rilasciati a condizioni più favorevoli rispetto a quelle previste da detta direttiva non danno accesso al diritto di soggiorno in altri Stati membri.
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Come risulta infatti da una lettura combinata degli artt. 2, lettera b), e 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/109, un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo riconosciuto da uno Stato membro produce effetti anche sugli altri stati posto che conferisce, in linea di principio, al suo titolare il diritto di soggiornare per più di tre mesi nel territorio di Stati membri diversi da quello che gli ha concesso lo status di soggiornante di lungo periodo. Ne deriva che i requisiti di rilascio del permesso di soggiorno UE di lungo periodo, di cui alla presente controversia, richiedono di essere valutati con un particolare rigore, comunque adeguato a garantire il rispetto della disciplina interna, interpretata alla luce della direttiva UE.
L’art. 5 della direttiva stabilisce, per quanto di interesse nella presente controversia, che gli Stati membri richiedono ai cittadini di paesi terzi di comprovare che dispongono, per sé e per i familiari a carico, di risorse stabili e regolari, sufficienti al sostentamento loro e dei loro familiari, senza fare ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro interessato. “Gli Stati membri valutano dette risorse con riferimento alla loro natura e regolarità e possono tenere conto del livello minimo di retribuzioni e pensioni prima della presentazione della richiesta dello status di soggiornante di lungo periodo”.
L’art. 9, d.lgs. n. 286 del 1998, che dispone l’istanza di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, può essere presentata dallo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale.
Detto ciò, la giurisprudenza formatasi nella materia dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato (quindi non direttamente sul permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) ha in più occasioni ritenuto non spendibile il lavoro irregolare al fine di integrare il presupposto del reddito.
Per una prima impostazione, se l’onere di dimostrare i requisiti reddituali imposto dagli artt. 4 e 5, d.l.gs. n. 286 del 1998 al soggetto istante non è soddisfatto mediante la dimostrazione di concreti e leciti mezzi di sostentamento di cui il richiedente dispone in Italia, non è consentito alla Questura il rilascio o il rinnovo del permesso, considerata anche la ratio della normativa, cioè di permettere il soggiorno sul territorio nazionale solo agli stranieri dotati di mezzi di sostentamento idonei e sufficienti, per consentire loro una vita dignitosa ed evitare che si dedichino ad attività illecite o criminose.
In una diversa prospettiva la giurisprudenza ha in qualche caso (comunque non rappresentativo di un orientamento consolidato) valorizzato positivamente la circostanza della sussistenza di un rapporto di lavoro, atteso l’orientamento della Corte di cassazione circa la liceità del rapporto di lavoro in nero (Cass., sez. lav., 5 novembre 2010, n. 22559).
Peraltro negli ultimi anni sono state peraltro introdotte (art. 5, d.l. 16 luglio 2012, n. 109 e art. 103, d.l. n. 34 del 2020) fattispecie di sanatoria del rapporto di lavoro irregolare a vantaggio di stranieri (che non hanno coinvolto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo), riguardanti ipotesi di lavoro subordinato (mentre nel caso di specie l’appellante ha prospettato una situazione nella quale fra le parti è intercorso un rapporto di lavoro riconducibile all’associazione in partecipazione).
La presenza di tali disposizioni rende oltremodo incerta la possibilità, riconosciuta solo in qualche caso dalla giurisprudenza citata, di valorizzare in modo generalizzato (quindi al di fuori dall’ambito applicativo di specifiche fattispecie normative) la sussistenza di lavoro irregolare, al fine del rilascio del permesso di soggiorno. “Il mancato versamento dei contributi di legge prova che, se anche il rapporto di lavoro non fosse inesistente, sarebbe un rapporto di lavoro “in nero” che come tale non costituisce un valido presupposto per l’ottenimento di un permesso di soggiorno ordinario. Tanto che si rende necessario, da parte del legislatore, intervenire con periodiche leggi di “sanatoria” che consentono la c.d. “emersione del lavoro irregolare” al fine della regolarizzazione e conseguente rilascio del permesso di soggiorno”.
Da quanto sopra discende che la presenza di un lavoro irregolare (e quindi di un reddito occulto per lo Stato italiano) non è, se non in casi particolari, una condizione utilizzabile al fine di dimostrare la sussistenza del requisito reddituale di cui all’art. 5, d.P.R. n. 286 del 1998.
A diversa conclusione non può giungersi richiamando la giurisprudenza, formatasi sul permesso di soggiorno diverso da quello UE per soggiornanti di lungo periodo, secondo cui nel procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno l'extracomunitario può dimostrare con vari strumenti probatori, ove necessario, il possesso del requisito del reddito minimo proveniente da fonte lecita, anche se si tratta di redditi provenienti da rapporti di lavoro con evasione dei relativi contributi dovuti all'ente previdenziale”, e ciò in quanto il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo richiede una valutazione dei requisiti adeguata a garantire il rispetto delle condizioni stabilite a livello eurounitario, per quanto riguarda il caso di specie la sussistenza di “risorse stabili e regolari”.
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Omessa previsione parità di genere nei Consigli degli Ordini dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dei collegi dei revisori. Pronuncia del TAR Lazio.
TAR Lazio, Sez. I, sent. del 22 aprile 2021, n. 4706.
È illegittimo il regolamento elettorale per l'elezione dei Consigli degli Ordini dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dei collegi dei revisori in carica dal 1° gennaio 2021 al 31 dicembre 2024, per violazione del principio di parità di accesso alle cariche elettive e della sua obbligatoria promozione di cui all’art. 51 Cost..
Ha ricordato la Sezione che il primo comma dell’art. 51 Cost., nel testo novellato a seguito della legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, dispone che “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Viene così sancito il principio di parità di accesso alle cariche elettive e della sua obbligatoria promozione, che costituisce una naturale declinazione del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost..
La giurisprudenza amministrativa, oltre ad affermare, nel solco della richiamata pronuncia del Giudice delle Leggi, che l’art. 51 Cost. ha valore di norma immediatamente vincolante e come tale idonea a conformare ed indirizzare lo svolgimento della discrezionalità amministrativa ponendosi rispetto ad essa quale parametro di legittimità sostanziale si è occupata del problema dell’attuazione dell’art. 51 Cost. avuto riguardo all’accesso a cariche elettive presso organi amministrativi, osservando che l’equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi in seno a tali organi garantisce “l’acquisizione al modus operandi dell’ente, e quindi alla sua concreta azione amministrativa, di tutto quel patrimonio, umano, culturale, sociale, di sensibilità e di professionalità, che assume una articolata e diversificata dimensione in ragione proprio della diversità del genere. Organi squilibrati nella rappresentanza di genere, in altre parole, oltre ad evidenziare un deficit di rappresentanza democratica dell’articolata composizione del tessuto sociale e del corpo elettorale (…) risultano anche potenzialmente carenti sul piano della funzionalità, perché sprovvisti dell’apporto collaborativo del genere non adeguatamente rappresentato”.
La richiamata pronuncia ha condivisibilmente aggiunto che “l’equilibrio di genere, come parametro conformativo di legittimità sostanziale dell’azione amministrativa, nato nell’ottica dell’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale fra i sessi, viene così ad acquistare una ulteriore dimensione funzionale, collocandosi nell’ambito degli strumenti attuativi dei principi di cui all’art. 97 Cost.: dove l’equilibrata partecipazione di uomini e donne (col diverso patrimonio di umanità, sensibilità, approccio culturale e professionale che caratterizza i due generi) ai meccanismi decisionali e operativi di organismi esecutivi o di vertice diventa nuovo strumento di garanzia di funzionalità, maggiore produttività, ottimale perseguimento degli obiettivi, trasparenza ed imparzialità dell’azione pubblica”.
Ha peraltro chiarito la Sezione che non può dirsi esistente un obbligo generalizzato, costituzionalmente imposto, di inserire all’interno di qualsiasi disciplina elettorale riguardante la composizione di organi amministrativi su base elettiva un meccanismo “correttivo” con finalità di parità di genere. La funzione promozionale e di riequilibrio tra i generi dell’art. 51 Cost. risponde ad una diversa finalità, che è quella di chiedere ai soggetti che operano nell’ordinamento giuridico di valutare la necessità, tenuto conto del contesto normativo, sociale e storico di riferimento, se inserire o meno un siffatto meccanismo e, in caso affermativo, di graduarne l’incisività a seconda del grado di sottorappresentanza del genere femminile riscontrato.
Poiché una corretta lettura dell’art. 51 Cost. implica che la promozione delle pari opportunità non sia demandata soltanto al legislatore ma veda il coinvolgimento di tutti i pubblici poteri, il Consiglio Nazionale avrebbe dovuto adottare in prima battuta e nell’attesa dell’intervento del legislatore le opportune misure per il rispetto della parità di genere sancito dall’art. 51, non essendogli consentito esercitare il potere regolamentare secondo modalità solo formalmente rispettose dalla legge ma sostanzialmente in contrasto, per ammissione dello stesso organo, al precetto costituzionale.
L'Adunanza Plenaria si pronuncia sulla responsabilità della P. A. per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Consiglio di Stato, Ad. Plen., sent. del 23 aprile 2021, n. 7.
Le questioni deferite sono sorte in un contenzioso (articolato in quattro ricorsi) promosso dalla Iris Impianti Energia Rinnovabile Siracusa s.r.l. per la condanna della Regione siciliana al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo con cui l’amministrazione regionale ha autorizzato, con decreti di data 18 febbraio 2013, la realizzazione e gestione di tre impianti fotovoltaici nel Comune di Siracusa, sui quattro domandati dalla medesima ricorrente, ai sensi dell’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione
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dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), con istanze presentate all’amministrazione tra il giugno del 2009 e il luglio del 2010.
Il risarcimento è chiesto in ragione del fatto che a causa del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni – per le quali la ricorrente aveva dapprima agito ex art. 117 cod. proc. amm. contro il silenzio serbato dall’amministrazione e quindi in ottemperanza – l’investimento a suo dire sarebbe divenuto antieconomico. Ciò per effetto del divieto di accesso al regime tariffario incentivante ai sensi dell’(ora abrogato) art. 7 d.lgs. n. 387 del 2003 connesso alla produzione di energia da fonti rinnovabili (solare), introdotto, per gli impianti fotovoltaici realizzati con moduli collocati a terra su fondi agricoli, dall’art. 65 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1.
Con una prima questione deferita il Consiglio di giustizia amministrativa chiede di stabilire se la sopravvenienza normativa da ultimo menzionata interrompa il nesso causale tra l’inerzia dell’amministrazione nel definire i procedimenti autorizzativi originati dalle istanze della società ricorrente e il danno da quest’ultima lamentato a titolo di lucro cessante (o alternativamente quale chance di guadagno), consistente nel venir meno dei margini economici realizzabili con il regime incentivante. Le ulteriori questioni deferite riguardano la misura del danno risarcibile in conseguenza del ritardo, le quali vengono dal giudice rimettente poste in dipendenza con quella relativa alla natura della responsabilità della pubblica amministrazione, se cioè essa abbia natura contrattuale o da fatto illecito.
e questioni ex art. 99 cod. proc. amm. su cui l’Adunanza plenaria è chiamata a pronunciarsi concernono la responsabilità dell’amministrazione pubblica per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa. Con riguardo ad esse il giudice rimettente ha già ritenuto – con efficacia di giudicato interno – che sussistano «numerosi elementi della fattispecie», di seguito riportati:
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a) la condotta dell’Amministrazione posta in essere in violazione della regola di conclusione del procedimento amministrativo nella tempistica prescritta;
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b) la fondatezza della pretesa concernente il bene della vita (come testimoniato dalla adozione, seppur in ritardo, dei provvedimenti autorizzatori);
c) la sopravvenienza normativa ostativa all’ottenimento degli incentivi, che Iris avrebbe ottenuto se l’Amministrazione avesse provveduto per tempo;
d) la colpa dell’Amministrazione (nessuna esimente è stata da quest’ultima prospettata per giustificare il proprio non modesto ritardo nel provvedere)».
Il Consiglio di giustizia amministrativa ravvisa invece «ragioni di incertezza in relazione all’applicazione del requisito del nesso di causalità e alla misura e ampiezza del danno da risarcire, che dipendono dalla qualificazione della responsabilità dell’Amministrazione, e dalla conseguente applicabilità del canone della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c., e dalla nozione di danno quale conseguenza immediata e diretta della condotta». Con specifico riguardo alla qualificazione della responsabilità della pubblica amministrazione, per il giudice rimettente sarebbero maturi i tempi per una «revisione critica del regime consolidato di scrutinio della responsabilità dell’Amministrazione in una duplice direzione, assimilazione della responsabilità dell’Amministrazione alla responsabilità contrattuale e apprezzamento del ruolo del rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita dell’obbligazione risarcitoria».
A seguito di articolato ragionamento vengono formulati i seguenti principi di diritto sulle questioni deferite ex art. 99, comma 1, cod. proc. amm. all’Adunanza plenaria dal Consiglio di giustizia amministrativa, al quale la causa va restituita ai sensi della comma 4 della medesima disposizione:
a) la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 cod. civ. –da ritenere espressione di un principio generale dell’ordinamento- i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 cod. civ.; e non anche il criterio della prevedibilità del danno previsto dall’art. 1225 cod. civ.;
- b) con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati;
c) con riferimento al periodo successivo alla sopravvenienza normativa, occorre stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è
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riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi;
d) in ogni caso, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione.
Rimessa alla Corte di Giustizia Ue la questione del limite di età a 30 anni per la partecipazione alla selezione per posti di commissario della Polizia di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. IV, ord. del 23 aprile 2021, n. 3272.
Deve essere rimessa alla Corte Giustizia Ue la questione se la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, l’art. 3 del TUE, l’art. 10, TFUE e l’art. 21 della Carte dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea vadano interpretati nel senso di ostare alla normativa nazionale contenuta nel d.lgs. n. 334 del 2000 e nelle fonti di rango secondario adottate dal Ministero dell’interno, la quale prevede un limite di età pari a trent’anni nella partecipazione ad una selezione per posti di commissario della carriera dei funzionari della Polizia di Stato
Ha ricordato la Sezione che la direttiva 2000/78 CE è stata attuata nell’ordinamento nazionale dal d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, che ne riproduce quasi alla lettera gli articoli.
In particolare, l’art. 2 prevede le nozioni di “discriminazione” e di “discriminazione diretta” negli stessi termini dell’art. 2 della direttiva sopra riportato. L’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 216 del 2003 prevede poi il campo di applicazione del decreto, e in particolare, così come l’art. 3 della direttiva, che “il principio di parità di trattamento senza distinzione … di età … si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato … con specifico riferimento” fra l’altro ad “accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”.
La disciplina degli artt. 4 e 6 della direttiva è infine riprodotta nello stesso art. 3 del decreto. In dettaglio, il comma 3 prevede che: “Nel rispetto dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell'àmbito del rapporto di lavoro … non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse … all'età …, qualora, per la natura dell'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell'attività medesima.”. Il comma 4 bis lettera c) fa salva “la fissazione di un'età massima per l'assunzione, basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o sulla necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento”. Infine, il comma 6 prima parte prevede che “Non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.”
Ciò posto, la disciplina generale dell’età di accesso ai concorsi pubblici è stabilita dall’art. 3, comma 6, l. 15 maggio 1997, n. 127, secondo il quale “La partecipazione ai concorsi indetti da pubbliche amministrazioni non è soggetta a limiti di età, salvo deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità dell'amministrazione”.
Nello specifico, la figura professionale del commissario di polizia è disciplinata dal d.lgs. 5 ottobre 2000, n. 334.
Il limite di età per partecipare al relativo concorso è previsto dall’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, secondo cui “Il limite di età per la partecipazione al concorso, non superiore a trenta anni, è stabilito dal regolamento adottato ai sensi dell'art. 3, comma 6, l. 15 maggio 1997, n. 127, fatte salve le deroghe di cui al predetto regolamento”. A sua volta il regolamento d.m. 13 luglio 2018, n. 103 all’art. 3, comma 1, prevede appunto un limite di 30 anni.
Si deve segnalare anche l’art. 3, comma 3, d.lgs. n. 334 del 2000, che prevede comunque nell’ambito del concorso una prova di efficienza fisica, il cui esito negativo può da solo determinare il non superamento della selezione. Infine, l’art. 3, comma 4, sempre del decreto n. 334 del 2000 ha previsto che “il venti per cento dei posti disponibili per l'accesso alla qualifica di commissario è riservato al personale della Polizia di Stato in possesso del prescritto diploma di laurea a contenuto giuridico e con un'età non superiore a quaranta anni”, quindi di dieci anni superiore al limite generale. Infine, per il personale della Polizia di Stato, l’età limite oltre la quale il personale è collocato a riposo per raggiunti limiti di età è di 61 anni, ai sensi degli artt. 1 e 2, d.lgs. 30 aprile 1997, n. 165.
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La Sezione ha sollevato dubbi sulla compatibilità della sopra citata normativa nazionale con il diritto dell’Unione, sul rilievo che il possibile contrasto non sia tale da potere essere superato con la disapplicazione diretta della norma nazionale in favore della norma europea, e richieda quindi la pronuncia di codesta Corte.
In primo luogo, le circostanze di cui a questo procedimento rientrano all’evidenza nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, trattandosi di questione relativa all’accesso al lavoro nel settore pubblico, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a, della direttiva.
Si tratta, inoltre, di una discriminazione in base all’età ai sensi dell’art. 2 della direttiva, non giustificata ai sensi dei successivi artt. 4 e 6 di essa.
A semplice lettura del citato art. 2, comma 2, del decreto n. 334 del 2000, è evidente che le funzioni del commissario di Polizia sono essenzialmente direttive e di carattere amministrativo. Non sono previste come essenziali a questa figura professionale funzioni operative di tipo esecutivo che, come tali, richiedano capacità fisiche particolarmente significative, paragonabili a quelle richieste al semplice agente di un corpo di polizia nazionale.
Infine, l’età pensionabile fissata come si è visto a 61 anni assicura comunque un congruo periodo di servizio prima del collocamento a riposo anche a chi incominciasse la propria carriera dopo i 30 anni.
Casi in cui il credito del professionista che abbia assistito il debitore nel concordato preventivo goda della prededuzione nel successivo fallimento. Questione rimessa alle Sezioni Unite.
Corte di Cassazione, Sez. I, ord. del 23 aprile 2021, n. 10885.
La Prima sezione civile ha rimesso gli atti al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite della questione, oggetto di contrasto tra le decisioni della Corte e, comunque, di massima di particolare importanza, se il credito del professionista che abbia assistito il debitore nel concordato preventivo goda della prededuzione nel successivo fallimento:
i) quando la procedura di concordato con riserva sia stata definita con un decreto d'inammissibilità pronunciato prima della sua apertura;
ii) quando la prestazione sia funzionale alla procedura minore o trovi fondamento nella legge e non sia soltanto “occasionale”;
iii) “ex lege” in favore solo dell’attestatore ovvero anche degli altri professionisti designati dal debitore; iv) valutando la cd. “funzionalità” della prestazione resa soltanto “ex ante”;
v) valutando sempre l’esatto adempimento della prestazione e il suo carattere non abusivo.
Sentenza pronunciata in assenza del condannato che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili derivanti dall'omessa citazione. Pronuncia delle Sezioni Unite.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 23 aprile 2021, n. 15498.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che:
- il condannato con sentenza pronunciata in assenza che intenda eccepire nullità assolute ed insanabili, derivanti dall'omessa citazione in giudizio propria e/o del proprio difensore nel procedimento di cognizione, non può adire il giudice dell'esecuzione per richiedere ai sensi dell'art. 670 cod. proc. pen. in relazione ai detti vizi, la declaratoria della illegittimità del titolo di condanna e la sua non esecutività; può, invece, proporre richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell'art. 629-bis cod. proc. pen., allegando l'incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo che possa essere derivata dalle indicate nullità;
- la richiesta formulata dal condannato perché sia dichiarata la non esecutività della sentenza ai sensi dell'art. 670 cod. proc. pen., in ragione di nullità che abbiano riguardato la citazione a giudizio nel procedimento di cognizione, non è riqualificabile come richiesta di rescissione del giudicato ai sensi dell'art. 568, comma 5, cod. proc. pen.
Il CGARS si esprime sull'abuso del rinvio pregiudiziale.
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CGARS, sent. non def. del 26 aprile 2021, n. 371.
Al fine di reprimere un “abuso del rinvio pregiudiziale”, devono ritenersi inammissibili questioni non pertinenti perché manifestamente irrilevanti per la soluzione del giudizio principale o perché del tutto generali o di natura meramente ipotetica, o comunque ove risulti in modo evidente che la richiesta di interpretazione del diritto dell’Unione non presenta alcun legame concreto con l’oggetto della causa
Non è concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, quale può essere la rimessione alla Corte di giustizia Ue, ben sollevabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione – parziale - della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente.
Ha ricordato la Sezione che Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2020, n. 4970, ha affermato che la presenza di una “inconferente” e “irrilevante” istanza di rimessione alla Corte di giustizia UE esclude l’obbligo di rinvio pregiudiziale.
Ha aggiunto che a seguito di ordinanza 5 marzo 2012 n. 1244, con la quale il Consiglio di Stato ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito “se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria”, la Corte (con la nota decisione 18 luglio 2013 causa C136/12, punto 26) ha chiaramente risposto che “dal rapporto fra il secondo e il terzo comma dell’art. 267 TFUE deriva che i giudici di cui al comma terzo dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell’Unione onde consentir loro di decidere. Tali giudici non sono, pertanto, tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull’esito della controversia (sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a., 283/81).
Ha ricordato il C.g.a. che secondo la Corte di giustizia UE (10 lugllio 2014 C-213/13) il giudicato nazionale è intangibile, se così stabiliscono le norme processuali interne, e per converso tangibile solo se le norme procedurali interne applicabili glielo consentono.
In tale ottica, il C.g.a. ha avuto occasione di affermare che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ripetutamente precisato che il principio dell’intangibilità del giudicato nazionale è stato assunto anche come principio generale dell’ordinamento giuridico comunitario e che, al di fuori di alcuni casi eccezionali, il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione (sentenza del 3 settembre 2009 su causa C-2/08; cfr. anche sentenza della sez. I, 16 marzo 2006, C-234/04).
E se anche ci sono limitati spazi per superare un giudicato nazionale in contrasto con il diritto eurounitario, tanto deve ritenersi ammesso quando il contrasto non era denunciabile prima del giudicato, e si manifesta dopo di esso, a causa di sopravvenienze normativa o di una sopravvenuta decisione della Corte di giustizia.
Non è certo concepibile, nell’ambito di un corretto andamento processuale ispirato a leale collaborazione dei soggetti del processo, che una questione pregiudiziale, ben prospettabile prima della decisione della causa, venga prospettata solo dopo la decisione- parziale- della causa stessa, ove l’esito della decisione sia considerato non soddisfacente. Questo costituisce una singolare inversione dell’ordine logico delle questioni, in cui quelle “pregiudiziali” vanno decise, per definizione normativa e logica, “prima” del “giudizio di merito” e non dopo, al fine di porre nel nulla un giudizio di merito non conforme alle aspettative di parte. ***
La Suprema Corte si esprime in tema di rescissione del giudicato nel caso si succedano nel tempo diverse discipline e non vi sia una specifica norma transitoria.
Corte di Cassazione, Sez. V, sent. del 26 aprile 2021, n. 15666.
La Quinta Sezione penale, pronunciandosi in tema di rescissione del giudicato, ha affermato che, nel caso si succedano nel tempo diverse discipline e non vi sia una specifica norma transitoria, per individuare la normativa applicabile occorre fare riferimento non al momento della pronuncia della sentenza passata in giudicato, ma a quello in cui il condannato “in assenza” è venuto a conoscenza del provvedimento e può, pertanto, esercitare il diritto all’impugnazione straordinaria.
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Difetto di motivazione e convalida postuma dell'atto viziato. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 27 aprile 2021, n. 3385.
Ai fini della convalida dell’atto viziato da insufficiente motivazione, va posta la distinzione: a) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale della funzione (in termini di contraddittorietà, sviamento, travisamento, difetto dei presupposti), il difetto degli elementi giustificativi del potere non può giammai essere emendato, tantomeno con un mero maquillage della motivazione: l’atto dovrà comunque essere annullato; b) se invece la carenza della motivazione equivale unicamente ad una insufficienza del discorso giustificativo-formale, ovvero al non corretto riepilogo della decisione presa, siamo di fronte ad un vizio formale dell’atto e non della funzione: in tale caso, non vi sono ragioni per non riconoscersi all’amministrazione la possibilità di tirare nuovamente le fila delle stesse risultanze procedimentali, munendo l’atto originario di una argomentazione giustificativa sufficiente e lasciandone ferma l’essenza dispositiva, in quanto riflette la corretta sintesi ordinatoria degli interessi appresi nel procedimento
La convalida dell’atto viziato da insufficiente motivazione, va posta la distinzione: a) se l’inadeguatezza della motivazione riflette un vizio sostanziale può essere adottata anche se pende l’impugnativa dell’atto da convalidare; in tale caso, l’interessato, con motivi aggiunti, può domandare, sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato ‒ contestandone quindi la stessa ammissibilità ‒, sia l’annullamento dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità
L’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990, come novellato dall’art. 12, comma 1, lett. e, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120. ‒ che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza, già nella fase del procedimento, sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente in relazione ai profili non ancora esaminati ‒ deve trovare applicazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione.
La Sezione ha affrontato la questione della conservazione dell’atto amministrativo operata mediante un nuovo atto integrativo della motivazione insufficiente.
La dottrina pubblicistica ha sempre ritenuto ammissibile il fenomeno della «convalescenza» dell’atto amministrativo. La possibilità per l’Amministrazione di concludere il riesame del proprio operato con una decisione di carattere conservativo trova fondamento nel principio generale di economicità e conservazione dei valori giuridici e nella garanzia del buon andamento dell’agire amministrativo.
A seconda della specie di vizio da emendarsi, è stata nel corso del tempo elaborata una articolata tassonomia di atti ad esito confermativo, dei quali fanno parte: la conferma, la ratifica, la convalida, la rettifica, la conversione e la sanatoria.
Sul piano della ricostruzione sistematica, l’insieme di tali istituti è stato ricompreso nella categoria dell’autotutela, ovvero della potestà generale dell’amministrazione di prevenire o risolvere le controversie sulla legittimità dei propri atti, inquadrandoli fra i procedimenti di secondo grado.
In particolare, la pubblica amministrazione ha la facoltà di convalidare i propri atti affetti da vizi di legittimità, attraverso una manifestazione di volontà intesa ad eliminare il vizio da cui l’atto stesso è inficiato.
Al pari dell’istituto romanistico della convalida del contratto annullabile, la convalida amministrativa trae anch’essa origine dalla necessità di rimediare alla “rottura” del collegamento funzionale tra fattispecie concreta e fattispecie astratta, ma si distingue dall’omonimo istituto civilistico, in quanto: nel diritto privato, la convalida si attua attraverso atti e comportamenti negoziali della parte che potrebbe avvalersi dell’invalidità a proprio vantaggio; nel diritto amministrativo, invece soggetto legittimato alla convalida è colui (l’apparato amministrativo) che intende prevenire o scongiurare l’azione di annullamento della controparte.
La l. 11 febbraio 2005, n. 15, ha tipizzato la figura, pur restando tra gli istituti meno studiati in ragione della sua limitata applicazione pratica e giurisprudenziale.
Il comma 2 dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 fa espressamente «salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole».
Per quanto scarna, la proposizione tratteggia la convalida come un istituto di carattere generale, volto a rendere l’atto stabile a tutti gli effetti per i quali è preordinato, ogniqualvolta il pubblico interesse ne richieda il consolidamento. Sotto altro profilo, la collocazione della norma nel medesimo articolo dedicato all’annullamento d’ufficio, conferma la comune ambientazione dei due istituti nell’ambito dell’autotutela. Tale correlazione appare altresì espressiva di un principio di preferenza per la scelta amministrativa volta alla correzione e alla conservazione ‒ ove possibile ‒ di quanto precedentemente disposto, rispetto all’opzione eliminatoria.
L’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore consente di ricomprendere nella convalida anche altre figure giuridiche, pure espressive del fenomeno della convalescenza, quali: i) la sanatoria, ovvero l’effetto che si verifica allorquando un provvedimento viziato per mancanza nel procedimento di un atto preparatorio viene sanato dalla successiva emanazione dell’atto mancante; ii) la ratifica, consistente nell’appropriazione dell’atto, emesso da un organo incompetente (ovvero fornito di una competenza temporanea e occasionale), da parte della Autorità che sarebbe stata
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competente.
La convalida continua invece a distinguersi, per struttura e funzione, da altri istituti limitrofi e segnatamente: a) dall’atto meramente confermativo ‒ enucleato dalla giurisprudenza per impedire l’elusione della perentorietà del termine di ricorso ‒ il quale non modifica forma, motivazione e dispositivo del provvedimento confermato (rimasto generalmente inoppugnato); b) dalla conferma propria, la quale ‒ sebbene connotata dall’apertura di una nuova istruttoria ‒ non è comunque volta a rimuovere alcun vizio; c) dalla rettifica, avente ad oggetto le difformità che con comportano l’invalidità del provvedimento originario ma solo la sua irregolarità; d) dalla conversione che tiene fermo l’atto originario sussumendolo però sotto una diversa fattispecie legale.
Sul piano della dinamica giuridica, la convalida non determina una modificazione strutturale del provvedimento viziato (non configurabile neppure logicamente, essendosi la fattispecie stessa già integralmente conclusa), bensì il sorgere di una fattispecie complessa, derivante dalla “saldatura” con il provvedimento convalidato, fonte di una sintesi effettuale autonoma.
L’efficacia consolidativa degli effetti della convalida opera retroattivamente: il provvedimento di convalida, ricollegandosi all’atto convalidato, ne mantiene fermi gli effetti fin dal momento in cui esso venne emanato (si tratta di una opinione risalente quantomeno a Consiglio di Stato, sez. V, 21 luglio 1951, n. 682). La decorrenza ex tunc è connaturale alla funzione della convalida di eliminare gli effetti del vizio con un provvedimento nuovo ed autonomo. È questa la principale differenza rispetto alla rinnovazione dell’atto che invece non retroagisce per conservarne gli effetti fin dall’origine.
La retroattività della convalida trova tuttavia un importante limite nelle ipotesi in cui l’esercizio del potere sia sottoposto ad un termine perentorio, scaduto il quale anche il potere di convalida viene necessariamente meno. Sul piano della struttura, il legislatore conferma che la convalida ha un contenuto positivo e non si sostanzia nella mera rinunzia a far valere la potestà di auto-annullamento (come pure in passato teorizzato da alcuni autori).
Il legislatore non ha voluto tuttavia irrigidire i requisiti di forma-contenuto dell’atto: pare quindi superato quell’orientamento giurisprudenziale che, in analogia con le disposizioni del codice civile, riteneva che la convalida dovesse necessariamente contenere l’espressa menzione dell’atto da convalidare, del vizio che lo inficia, e la chiara manifestazione della volontà di eliminare il vizio.
Appare infatti sufficiente che, dal tenore complessivo, si desuma che la “causa” dell’atto è quella di dare stabilità e sicurezza a un atto invalido, in quanto la situazione, che da esso è derivata, ne richiede il consolidamento (e dunque «sussistendone le ragioni di interesse pubblico»).
La norma, analogamente a quanto disposto per l’annullamento d’ufficio, richiede che l’esercizio del potere di riesame avvenga entro un termine ragionevole. Peraltro, è interessante notare come lo stesso trascorrere del tempo possa contribuire a corroborare il legittimo affidamento del privato che dal provvedimento invalido abbia ricavato delle utilità (circostanza, come noto, ostativa all’esercizio dei poteri di auto-annullamento ai sensi dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241 del 1990).
Ciò posto in via generale, veniamo ora al principale nodo problematico rilevante ai fini del decidere: l’emendabilità tramite l’atto di convalida del vizio di motivazione, in termini generali e nel corso del giudizio già instaurato per il suo annullamento.
Non si vi sono dubbi circa la possibilità di emendare i vizi di tipo formale e procedimentale, ivi compreso quello di incompetenza (relativa). Deve ritenersi possibile per la pubblica amministrazione anche di procedere alla convalida di un provvedimento non annullabile ai sensi del citato comma 2 dell’art. 21-octies (la cui regola si muove sul piano processuale), sebbene in tal caso l’utilità giuridica consista al più soltanto in una maggiore certezza e stabilità del rapporto amministrativo.
Non sono invece sanabili i vizi che possono definirsi “sostanziali” ‒ derivanti cioè dall’insussistenza di un presupposto o requisito di legge, ovvero dall’irragionevolezza e non proporzionalità del decisum ‒ rispetto ai quali la semplice dichiarazione dell’Amministrazione di volerli convalidare non può che rimanere priva di effetto.
La convalida, in questi casi, non potrebbe mai assicurare il permanere, senza alterazioni, della parte dispositiva del provvedimento su cui intende operare. Se infatti l’illegittimità attiene al contenuto dell’atto, la stessa può essere eliminata solo attraverso la sua riforma (spunti in tal senso si traggono, sia pure nel diverso contesto della c.d. fiscalizzazione dell’abuso edilizio, nella decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 del 2020). Sono così poste le basi per comprendere entro quali limiti è possibile convalidare ‒ ossia sottrarre al rimedio dell’annullamento (e dell’auto annullamento) ‒ il vizio di insufficiente motivazione.
La Sezione si è posta il problema della convalida in corso di giudizio. Nel vigore del modello processuale amministrativo primigenio ‒ in cui la res litigiosa era tutta incentrata “sull’atto” ‒, si è sempre ritenuta ineludibile condizione di ammissibilità della convalida la circostanza che non fosse pendente l’impugnativa dell’atto da convalidare. Se infatti ‒ si diceva ‒ la convalida valesse ad impedire l’annullamento dell’atto invalido in pendenza di una impugnativa giurisdizionale, l’Autorità finirebbe con l’eludere le garanzie predisposte a tutela del cittadino leso dal provvedimento, il quale «ha acquisito il diritto a ottenere una decisione di annullamento del provvedimento viziato».
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A tale assunto, si faceva eccezione soltanto per il caso del vizio di incompetenza in virtù dell’espressa previsione contenuta nell’art. 6, l. n. 249 del 1968 ‒ secondo cui “Alla convalida in corso di giudizio degli atti viziati di incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale” ‒ norma ritenuta dai più espressiva di un principio generale, come tale applicabile per analogia anche ad altri casi affini.
Sennonché, le ragioni di tale preclusione sono totalmente venute meno nell’impianto del nuovo processo amministrativo.
In primo luogo, al privato è oramai riconosciuta la possibilità di impugnare, mediante la proposizione di motivi aggiunti, tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti e connessi all’oggetto del ricorso stesso.
L’interessato, quindi, nel corso del medesimo giudizio, ben potrà domandare, sia l’annullamento dell’atto di convalida perché autonomamente viziato ‒ contestandone quindi la stessa “ammissibilità” ‒, sia l’annullamento dell’atto come convalidato, adducendone la persistente illegittimità.
Questa soluzione è inoltre conforme a principi di effettività e concentrazione della tutela (art. 7, comma 7, c.p.a.), i quali postulano il massimo ampliamento del contenuto di accertamento del giudicato amministrativo. Tale canone processuale si realizza facendo confluire all’interno dello stesso rapporto processuale ‒ per quanto possibile ‒ tutti gli aspetti della materia controversa dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, evitando defatiganti parcellizzazioni della medesima disputa. Quando l’Amministrazione conserva intatto il potere di riemanare un provvedimento con dispositivo identico a quello che risulterebbe annullato per mero difetto di motivazione ‒ in quanto il giudicato non ha potuto accertare la spettanza del provvedimento favorevole ‒, la combinazione di convalida (la quale può essere spontanea, ovvero occasionata da un ‘remand’ o da una richiesta di chiarimenti del giudice) e motivi aggiunti avverso l’atto di riesercizio del potere è in grado di accrescere le potenzialità cognitive dell’azione di annullamento, consentendo di focalizzare l’accertamento, per successive approssimazioni, sull’intera vicenda di potere (diversa è l’ipotesi in cui venga contestato un atti non ripetibile, giacché in tal caso, come si è detto sopra, la convalida non avrebbe effetto retroattivo).
Il predetto dispositivo di concentrazione ‒ coniugando l’inesauribilità del potere amministrativo con il diritto di difesa ‒ agevola entrambe le parti del giudizio, in quanto: consente al ricorrente una più rapida ed efficace verifica della sua possibilità di risultato vantaggioso (perseguita attraverso la deduzione di un vizio strumentale come il difetto di motivazione); consente all’amministrazione di evitare annullamenti del tutto “sovradimensionati” rispetto alla reale consistenza dell’interesse materiale del privato, potendo dimostrare che l’insufficiente motivazione non ha alterato la fondatezza sostanziale della decisione.
Nei procedimenti ad istanza di parte, la definizione positiva (e non parentetica) del conflitto sarà peraltro agevolata dalla nuova regola di preclusione procedimentale di cui all’art. 10-bis, l. n. 241 del 1990 (come novellato dall’art. 12, comma 1, lettera e, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120), secondo cui “In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”.
Tale precetto che impone alla pubblica amministrazione di esaminare l’affare nella sua interezza ‒ già nella fase del procedimento (e non solo nel processo, come la giurisprudenza già riteneva in alcune ipotesi: cfr. Consiglio di Stato, sentenza n. 1321 del 2019), sollevando, una volta per tutte la questioni ritenute rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione ai profili non ancora esaminati ‒ dovrà trovare attuazione, per evidenti ragioni sistematiche (e per evitare facili aggiramenti), anche nel caso di convalida per difetto di motivazione. Ha ancora chiarito la Sezione che l’ammissibilità, nei limiti anzidetti, di una motivazione successiva non comporta una ‘dequotazione’ dell’obbligo motivazionale, sussistendo adeguati disincentivi alla sua inosservanza: sul piano individuale, perché restano ferme le ricadute negative sulla valutazione della performance del funzionario; sul piano processuale, in quanto il giudice potrà accollare (in tutto o in parte) le spese di lite all’Amministrazione che (pur non soccombente, cionondimeno) abbia con il suo comportamento dato scaturigine alla controversia.
Presupposti del silenzio inadempimento ed atti amministrativi di sanatoria ai sensi dell’art. 37 del t.u. edilizia adottati dal Comune. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 28 aprile 2021, n. 3430.
Non sussiste un’inerzia amministrativa qualora il Comune, a fronte dell’istanza di repressione di abusi edilizi, abbia concluso il relativo procedimento manifestando una volontà dispositiva ostativa alla demolizione delle opere allo stato residuanti nell’area di proprietà dei controinteressati, ritenute dall’Amministrazione assentite da titoli in sanatoria; in tale modo, il Comune è pervenuto all’archiviazione del relativo procedimento amministrativo, assumendo una decisione censurabile con un’azione impugnatoria, ma non con il rimedio di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a..
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Ha ricordato la Sezione che sussiste l'obbligo del Comune di provvedere sull'istanza di repressione di abusi edilizi, presentata dal proprietario dell’area confinante a quella di realizzazione delle opere abusive, “il quale, appunto per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a.
In via generale, ha ricordato la Sezione che affinché possa configurarsi il silenzio inadempimento contestabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, l. n. 241 del 1990 e 31 e 117 c.p.a., occorre che sussista un obbligo di provvedere e che, decorso il termine di conclusione del procedimento, non sia stato assunto alcun provvedimento espresso, avendo tenuto l’Amministrazione procedente una condotta inerte.
In particolare, la giurisprudenza di questo Consiglio ha ritenuto che un obbligo di provvedere sussista in tutte le fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano all’Amministrazione l'adozione di un provvedimento e, quindi, tutte le volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione pubblica.
Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall’intermediazione del pubblico potere, l’Amministrazione, dunque, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti ad istanza di parte e l’organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l’attuale formulazione dell’art. 2, comma 1, l. n. 241 del 1990, pure in caso di “manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità della domanda”, impone l’adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte.
Il silenzio inadempimento non può, invece, configurarsi in presenza di posizioni giuridiche di diritto soggettivo, aventi ad oggetto un’utilità giuridico economica attribuita direttamente dal dato positivo, non necessitante dell’intermediazione amministrativa per la sua acquisizione al patrimonio giuridico individuale della parte ricorrente.
In particolare, l’azione avverso il silenzio “presuppone la sussistenza di posizioni d interesse legittimo (da tutelare dall’inerzia dell’amministrazione) e non già di diritto soggettivo. Tantomeno il procedimento avverso il silenzio può essere attivato per ottenere la tutela di diritti di credito nei confronti della Pubblica Amministrazione”. Come precisato da questo Consiglio, "la fattispecie del del c.d. "silenzio-inadempimento" riguarda le ipotesi in cui, di fronte alla formale richiesta di un provvedimento da parte di un privato, costituente atto iniziale di una procedura amministrativa normativamente prevista per l'emanazione di una determinazione autoritativa su istanza di parte, l'Amministrazione, titolare della relativa competenza, omette di provvedere entro i termini stabiliti dalla legge; di conseguenza, l'omissione dell'adozione del provvedimento finale assume il valore di silenzio-inadempimento (o rifiuto) solo nel caso in cui sussisteva un obbligo giuridico di provvedere, cioè di esercitare una pubblica funzione attribuita normativamente alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta, attivando un procedimento amministrativo in funzione dell'adozione di un atto tipizzato nella sfera autoritativa del diritto pubblico; presupposto per l'azione avverso il silenzio è, dunque, l'esistenza di uno specifico obbligo (e non di una generica facoltà o di una mera potestà) in capo all'amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica e differenziata del ricorrente".
I presupposti per l'attivazione del rito sono dunque sia l'esistenza di uno specifico obbligo di provvedere in capo all'amministrazione, sia la natura provvedimentale dell'attività oggetto della sollecitazione: il rito previsto dagli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo rappresenta infatti sul piano processuale lo strumento rimediale per la violazione della regola dell'obbligo di agire in via provvedimentale sancita dall'art. 2, l. n. 241 del 1990”.
L’obbligo di provvedere, peraltro, non può considerarsi assolto mediante l’adozione di atti meramente interlocutori, finalizzati a stimolare il contraddittorio infraprocedimentale, per propria natura non idonei a manifestare la volontà dispositiva dell’ente procedente e, dunque, a configurare una decisione provvedimentale sulle questioni oggetto del procedimento.
L’insussistenza di un obbligo di provvedere o l’avvenuta conclusione del procedimento con un atto espresso ostano, dunque, all’accoglimento del ricorso ex artt. 31 e 117 c.p.a. ***
Natura del risarcimento del danno per abuso dei contratti a tempo determinato. Pronuncia del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. del 28 aprile 2021, n. 3429.
Le somme percepite dal pubblico dipendente a titolo di risarcimento del danno per l’illegittima apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro non possono essere sottoposte a tassazione, tenuto conto che il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 non sarebbe un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro, ma da perdita di chance.
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Ha chiarito la Sezione che sul piano tributario, al fine di verificare l’assoggettabilità ad imposizione fiscale delle somme dovute dall’Amministrazione datrice di lavoro in favore del proprio dipendente a titolo risarcitorio, occorre avere riguardo al fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria.
In particolare, ha affermato la Corte di cassazione (sez. V, ord., 24 settembre 2019, n. 23717) che in tema d'imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata degli artt. 6, comma 2, e 46, d.P.R. n. 917 del 1986, si ricava che, al fine di poter negare l'assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro o che tale erogazione, in base all'interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all'interruzione del rapporto di lavoro.
Con particolare riferimento all’indennità riconosciuta al lavoratore pubblico in caso di illecita reiterazione di contratti di lavoro a termine, inoltre, si è rilevato che in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un'occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell'art. 1223 c.c. (Cass. civ., s.l., ord., 14 gennaio 2021, n. 559).
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, pertanto, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell'onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183 (oggi art. 28, l. n. 81 del 2015) e quindi nella misura pari ad un'indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'art. 8, l. 15 luglio 1966, n. 604 (Cass. civ., s.l., ord., 14 dicembre 2020, n. 28423). Ne deriva, pertanto, che, assumendo l'importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, natura risarcitoria da perdita di chance, come tale estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986 (Cass. civ., sez. VI, ord., 23 ottobre 2019, n. 27011).
Uno Stato membro può rifiutare di riconoscere una patente di guida rilasciata da altro Stato membro dopo aver vietato al titolare di guidare nel proprio territorio. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 70 del 29 aprile 2021, sent. nelle cause C-47/20 F. / Stadt Karlsruhe e C-56/20 AR / Stadt Pforzheim.
Uno Stato membro può rifiutare di riconoscere una patente di guida, semplicemente rinnovata in altro Stato membro, dopo aver vietato al titolare di guidare nel proprio territorio Esso non può, invece, apporre sulla patente alcuna menzione recante il divieto di guidare nel proprio territorio, poiché questa modifica rientra nella competenza esclusiva dello Stato membro di residenza normale del titolare Nella causa C-47/20, un cittadino tedesco (F.) avente la sua residenza normale in Spagna, detiene dal 1992 una patente di guida spagnola (categorie A e B). Avendo circolato in Germania in stato di ebbrezza, egli è stato privato, per inidoneità alla guida, del diritto di guidare con detta patente. Inoltre, gli è stato vietato, per un periodo di quattordici mesi, di richiedere una nuova patente di guida. Durante detto periodo di divieto, nonché al termine di esso, le autorità spagnole hanno rinnovato più volte la patente di guida di F., rilasciandogli nuovi documenti. Qualche anno dopo la scadenza del periodo di divieto, F. ha depositato presso la città di Karlsruhe (Germania) una domanda volta ad ottenere il riconoscimento della validità della sua patente di guida spagnola.
La città di Karlsruhe ha respinto detta domanda, affermando che, secondo il diritto tedesco, F. doveva presentare una perizia medico-psicologica al fine di eliminare i dubbi circa la sua idoneità alla guida. Infatti, in Spagna egli non aveva ottenuto alcuna nuova patente di guida la cui validità dovesse essere riconosciuta ai sensi della direttiva concernente la patente di guida 1 , ma si era visto consegnare unicamente alcuni documenti volti a rinnovare la sua patente di guida iniziale. Il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale, Germania), investita della controversia, ha sollevato dinanzi alla Corte di giustizia talune questioni in merito alla portata del principio del riconoscimento reciproco delle patenti di guida sancito dalla direttiva.
Con la sua odierna sentenza in detta causa, la Corte di giustizia ricorda che il principio del riconoscimento reciproco si impone anche per quanto riguarda le patenti di guida rilasciate all’esito di un rinnovo, fatte salve le eccezioni previste dalla direttiva 2 . La Corte indica, a tal riguardo, che uno Stato membro può, a causa di un’infrazione commessa nel suo
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territorio, rifiutarsi di riconoscere la validità della patente e stabilire i requisiti che il titolare deve soddisfare per riacquistare il diritto di guidare nel suo territorio 3 . Per contro, qualora l’interessato si sia visto rilasciare nel suo Stato membro di residenza, dopo il decorso del periodo di divieto, una nuova patente di guida, il riconoscimento della validità di quest’ultima non può essere subordinato alla produzione di una perizia medico-psicologica 4 . Infatti, in una situazione di questo tipo, l’inidoneità alla guida è stata sanata dalla verifica dell’idoneità effettuata da un altro Stato membro al momento del rilascio di tale nuova patente di guida, dato che lo Stato membro del rilascio è tenuto, in tale sede, a verificare se il candidato soddisfi i requisiti minimi relativi all’idoneità fisica e mentale alla guida.
Tuttavia, il mero rinnovo di una patente di guida delle categorie A e B non può essere assimilato al rilascio di una nuova patente di guida, in quanto la direttiva non obbliga gli Stati membri a procedere, al momento del rinnovo, ad una verifica del rispetto delle norme minime concernenti l’idoneità fisica e mentale alla guida. Di conseguenza, lo Stato membro nel cui territorio il titolare di una patente di guida delle categorie A e B che sia stata unicamente oggetto di rinnovo intende circolare, dopo essere stato privato, a seguito di un’infrazione stradale commessa su detto territorio, del diritto di guidare un veicolo su quest’ultimo, può rifiutarsi di riconoscere la validità di tale patente qualora non siano soddisfatte le condizioni previste dal diritto nazionale per il recupero del diritto di guidare in tale territorio. In tal modo, può essere ridotto il rischio di incidenti stradali. Al titolare della patente di guida deve comunque essere consentito di fornire la prova che la sua idoneità alla guida è stata oggetto, al momento del rinnovo di tale patente, di un controllo che permetta di considerare che la sua inidoneità alla guida è stata revocata per effetto di tale rinnovo. Per contro, nella sua odierna sentenza in un’altra causa, C-56/20, la Corte sottolinea che le iscrizioni che compaiono sulla patente di guida rientrano nella competenza esclusiva dello Stato membro di residenza normale del titolare. Pertanto, un altro Stato membro non può apporre sulla patente, il cui modello è armonizzato in formato tessera plastificata, una menzione recante il divieto di guidare nel suo territorio. Esso ben può, tuttavia, rivolgersi allo Stato membro di residenza affinché quest’ultimo iscriva una tale menzione.
Inoltre, non risulta escluso che lo Stato membro di soggiorno temporaneo verifichi, segnatamente per via elettronica, in caso di controllo stradale nel suo territorio, se l’interessato sia stato oggetto di una misura che lo priva del suo diritto di guidare in tale territorio. Tale seconda causa riguarda un cittadino austriaco (AR), il quale contesta dinanzi al Verwaltungsgerichtshof Baden-Württemberg (Tribunale amministrativo superiore del Land Baden-Württemberg) la decisione della città di Pforzheim (Germania) recante l’ingiunzione di presentare la sua patente di guida austriaca affinché vi sia apposta una menzione dell’invalidità di quest’ultima per il territorio tedesco, nel quale gli è stata revocata l’autorizzazione alla guida a motivo del fatto che egli aveva guidato un veicolo sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
La conclusione di un contratto di assicurazione per la circolazione di un autoveicolo è obbligatoria quando il veicolo di cui trattasi è immatricolato in uno Stato membro e non è stato regolarmente ritirato dalla circolazione. Pronuncia della CGUE.
CGUE, comunicato n. 71 del 29 aprile 2021, sent. nella causa C-383/19 Powiat Ostrowski/Ubezpieczeniowy Fundusz Gwarancyjny.
La conclusione di un contratto di assicurazione della responsabilità civile per la circolazione di un autoveicolo è obbligatoria quando il veicolo di cui trattasi è immatricolato in uno Stato membro e non è stato regolarmente ritirato dalla circolazione Un tale obbligo non può essere escluso per il mero fatto che un veicolo immatricolato è, in un determinato momento, inidoneo a circolare a causa delle sue condizioni tecniche Il 7 febbraio 2018, il Powiat Ostrowski (distretto di Ostrów, Polonia), ente locale polacco, è divenuto proprietario, sulla base di una decisione giudiziaria, successiva a una decisione di confisca, di un veicolo immatricolato in Polonia. In seguito alla notifica di tale decisione, il 20 aprile 2018, il distretto ha assicurato il veicolo a partire dal successivo giorno di apertura dell’amministrazione, ovvero dal lunedì 23 aprile 2018. Tenuto conto delle sue cattive condizioni tecniche il distretto ha disposto che tale veicolo fosse rottamato, ai fini della sua demolizione. Sulla base del certificato rilasciato dal centro di demolizione, la radiazione del veicolo è avvenuta il 22 giugno 2018.
Il 10 luglio 2018, l’Ubezpieczeniowy Fundusz Gwarancyjny (Fondo di garanzia assicurativa, Polonia) ha inflitto al distretto una sanzione pari a 4 200 PLN (circa EUR 933) per essere venuto meno al suo obbligo di concludere un contratto di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di tale veicolo nel periodo compreso tra il 7 febbraio e il 22 aprile 2018. Il Powiat Ostrowski ha adito il Sąd Rejonowy w Ostrowie Wielkopolskim (Tribunale distrettuale di Ostrów Wielkopolski), per far dichiarare che, nel periodo controverso, non aveva l’obbligo di assicurare il veicolo. Detto giudice ha interrogato la Corte sull’esistenza di un obbligo di concludere un contratto di assicurazione della responsabilità civile 1 per un veicolo immatricolato in uno Stato membro che si trova su un terreno privato, non è idoneo alla circolazione a causa delle sue condizioni tecniche ed è destinato alla demolizione per scelta del suo proprietario.
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Con la sua sentenza in data odierna, la Corte ha dichiarato che la conclusione di un contratto di assicurazione della responsabilità civile relativa alla circolazione di un autoveicolo è obbligatoria quando il veicolo di cui trattasi è immatricolato in uno Stato membro, qualora tale veicolo non sia stato regolarmente ritirato dalla circolazione conformemente alla normativa nazionale applicabile. Giudizio della Corte In primo luogo, la Corte rileva che la conclusione di un contratto di assicurazione della responsabilità civile relativa alla circolazione di un autoveicolo è, in linea di principio, obbligatoria per un veicolo immatricolato in uno Stato membro, che si trova su un terreno privato e che è destinato alla demolizione a causa della scelta del suo proprietario, anche quando tale veicolo non è, in un dato momento, idoneo a circolare a causa delle sue condizioni tecniche.
A tale proposito, la Corte ricorda che la nozione di «veicolo» è una nozione oggettiva e indipendente dall’uso che viene fatto o che può essere fatto del veicolo di cui trattasi o dall’intenzione del proprietario del veicolo o di un’altra persona di utilizzarlo effettivamente. Orbene, le condizioni tecniche di un veicolo possono variare nel tempo e il loro eventuale rispristino dipende da fattori soggettivi, come la volontà del proprietario o del detentore di effettuare o far effettuare le riparazioni necessarie e la disponibilità dei fondi necessari a tale scopo. Di conseguenza, se il mero fatto che un veicolo è, in un determinato momento, inidoneo a circolare fosse sufficiente a privarlo della sua qualità di veicolo e a sottrarlo all’obbligo di assicurazione, il carattere oggettivo di tale nozione di «veicolo» sarebbe rimesso in discussione. Inoltre, l’obbligo di assicurazione non è connesso all’utilizzo del veicolo come mezzo di trasporto in un determinato momento né alla questione se il veicolo di cui trattasi abbia effettivamente causato danni. Di conseguenza, l’obbligo di assicurazione non può essere escluso per il mero fatto che un veicolo immatricolato è, in un determinato momento, inidoneo a circolare a causa delle sue condizioni tecniche e, quindi, inidoneo a causare un danno, e ciò anche se è questo il caso fin dal trasferimento del diritto di proprietà.
Parimenti, l’intenzione del suo proprietario o di un’altra persona di far demolire il veicolo non consente che detto veicolo perda, per il solo fatto di tale intenzione, la sua qualità di «veicolo» e sia quindi sottratto a tale obbligo di assicurazione. Infatti, la qualificazione come «veicolo» e la portata dell’obbligo di assicurazione non possono dipendere da tali fattori soggettivi, poiché ciò pregiudicherebbe la prevedibilità, la stabilità e la continuità di tale obbligo, il cui rispetto è tuttavia necessario per garantire la certezza del diritto. In secondo luogo, la Corte dichiara che l’obbligo, in linea di principio, di assicurare un veicolo immatricolato in uno Stato membro, che si trova su un terreno privato e che è destinato alla demolizione per scelta del suo proprietario, anche qualora, in un determinato momento, sia inidoneo alla circolazione in ragione delle sue condizioni tecniche, s’impone, da un lato, al fine di assicurare la tutela delle vittime di incidenti stradali, dal momento che l’intervento dell’organismo di indennizzo dei danni alle cose o alle persone causati da un veicolo non assicurato è previsto esclusivamente nei casi in cui la conclusione dell’assicurazione è obbligatoria. Infatti, tale interpretazione garantisce che tali vittime siano comunque risarcite o dall’assicuratore, in forza di un contratto concluso a tal fine, o dall’organismo di indennizzo qualora non sia stato assolto l’obbligo di assicurare il veicolo coinvolto nell’incidente, oppure tale veicolo non sia stato identificato. Dall’altro lato, essa consente di assicurare al meglio il rispetto dell’obiettivo di garantire la libera circolazione sia dei veicoli che stazionano abitualmente nel territorio dell’Unione sia delle persone che si trovano a bordo dei medesimi. Infatti, solo assicurando una maggiore tutela delle eventuali vittime di incidenti causati da autoveicoli è possibile imporre agli Stati membri5 di astenersi dall’effettuare controlli sistematici dell’assicurazione della responsabilità civile per i veicoli che entrano nel loro territorio in provenienza da un altro Stato membro, il che è indispensabile per garantire tale libertà di circolazione. In terzo e ultimo luogo, la Corte precisa che affinché un veicolo sia escluso dall’obbligo di assicurazione deve essere ufficialmente ritirato dalla circolazione, conformemente alle norme nazionali applicabili. Infatti, sebbene l’immatricolazione di un veicolo attesti, in linea di principio, la sua idoneità a circolare, e, quindi, ad essere utilizzato come mezzo di trasporto, un veicolo immatricolato può essere, in modo oggettivo, definitivamente inidoneo a circolare a causa delle sue cattive condizioni tecniche. La constatazione di tale inidoneità a circolare e quella della perdita della sua qualità di «veicolo» devono, tuttavia, essere effettuate in modo obiettivo. A tale proposito, sebbene la cancellazione dell’immatricolazione del veicolo possa costituire una siffatta constatazione oggettiva, il diritto dell’Unione6 non disciplina il modo in cui un tale veicolo può essere legalmente ritirato dalla circolazione. Di conseguenza, tale rimozione può, secondo la normativa nazionale, essere constatata in modo diverso dalla cancellazione dell’immatricolazione del veicolo considerato.
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IL “DIRITTO AL SILENZIO” VALE ANCHE NEI CONFRONTI DELLA BANCA D’ITALIA E DELLA CONSOB
Ufficio Stampa della Corte costituzionale, comunicato del 30 aprile 2021
Il diritto fondamentale al silenzio vale anche rispetto ai poteri d’indagine della Banca d’Italia e della Consob, quando dalle risposte alle domande possa emergere la propria responsabilità. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 84 depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 187-quinquiesdecies del testo unico sulla finanza, “nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”. La questione esaminata dalla Consulta nasce dalla vicenda dell’amministratore di una società sottoposto a una pesante sanzione pecuniaria per non avere risposto alle domande della Consob su operazioni finanziarie sospette da lui compiute. L’interessato aveva impugnato la sanzione, sostenendo di aver semplicemente esercitato il diritto costituzionale di non rispondere a domande da cui sarebbe potuta emergere la propria responsabilità. La Corte di cassazione, investita del caso, aveva sollevato nel 2018 questione di legittimità costituzionale dell’articolo 187-quinquiesdecies, che prevede una sanzione da 50.000 a un milione di euro a carico di chi “non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia o della CONSOB”, senza prevedere alcuna eccezione in favore di chi sia già sospettato di avere commesso un illecito. Con l’ordinanza 117 del 2019 (si veda il comunicato stampa del 10 maggio 2019), la Corte costituzionale aveva preso atto che è lo stesso diritto comunitario a stabilire, a carico degli Stati, l’obbligo di sanzionare la mancata collaborazione con le autorità di vigilanza sui mercati finanziari. Pertanto, aveva chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea se, ai sensi del diritto comunitario, quest’obbligo valga anche nei confronti di chi è già sospettato di aver commesso un illecito; e se, in questi casi, un simile obbligo sia compatibile con il “diritto al silenzio” riconosciuto dalla Costituzione italiana, dal diritto internazionale e dalla stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A tali quesiti la Corte di giustizia dell’Unione europea ha risposto con la sentenza dello scorso 2 febbraio (si veda qui la sintesi ufficiale della sentenza), chiarendo anzitutto che il diritto al silenzio è parte integrante dei principi dell’equo processo, così come riconosciuti dalla stessa Carta dei diritti fondamentali Ue. Questo diritto – hanno proseguito i giudici di Lussemburgo –opera anche nell’ambito dei procedimenti amministrativi suscettibili di sfociare nell’applicazione di sanzioni aventi carattere punitivo, come quelle previste nell’ordinamento italiano per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate. Con la sentenza depositata oggi, la Consulta ha sottolineato anzitutto che l’interpretazione della disciplina comunitaria fornita dalla Corte di giustizia collima con la lettura del diritto al silenzio che la stessa Corte italiana aveva offerto nel proprio rinvio pregiudiziale, in armonia con le indicazioni provenienti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Dal diritto al silenzio discende dunque l’impossibilità di punire una persona fisica che si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto dalla Banca d’Italia o dalla Consob, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo o addirittura penale. La Corte ha tuttavia precisato che il diritto al silenzio non giustifica comportamenti ostruzionistici fonte di indebiti ritardi allo svolgimento dell’attività di vigilanza, come il rifiuto di presentarsi a un’audizione, ovvero manovre dilatorie finalizzate a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa, o ancora l’omessa consegna di dati, documenti, registrazioni preesistenti alla richiesta dell’autorità.
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Le Sezioni Unite enunciano importanti principi in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo.
Corte di Cassazione, SS. UU., sent. del 30 aprile 2021, n. 11421.
Le Sezioni Unite civili, a risoluzione di contrasto, hanno affermato i seguenti principi in tema di assicurazione sulla vita a favore di un terzo:
- La designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dall’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte dello stipulante, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione.
- La designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo, il cui pagamento ciascuno potrà esigere dall’assicuratore nella rispettiva misura.
- Allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo.
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