Radice primo capitolo

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"RADICE" Copyright 2014 - Liliana Marchesi TUTTI I DIRITTI RISERVATI Cover realizzata da Liliana Marchesi Immagini originali: © Konradbak - Fotolia.com © Kanea - Fotolia.com

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Vi è un mondo ancora inesplorato, in ognuno di noi.

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Alle mie fantastiche Diaboliche Ladies... Il mio affetto per voi va oltre le parole.

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Prefazione

Un mondo perfetto in cui non vi è posto per la criminalità. Un Sistema impeccabile che ha saputo estirpare il marcio dalla società e donare a tutti una vita serena e tranquilla. Certo, le differenze fra classi sociali ci sono ancora, ma a tutti è stata data l'opportunità di vivere con dignità. Persino io me la sono cavata dopo che mia madre morì, cedendo la nostra casa di campagna ad uno dei rami del Mind, il Sistema che da anni ormai è a capo di tutto e che ha saputo riportare la pace nel mondo, in cambio di una somma che mi avrebbe consentito di pagare gli studi e di crearmi una posizione all'interno della società. Peccato che la sola posizione che sia riuscita a crearmi sia stata quella di cameriera in un locale di Brooklyn, sulla 29th Street, ad un passo dal GreenWood Cemetery, luogo in cui non mi sarei dovuta trovare il 5 Settembre del 2044.

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Ottobre 2044

Solo qualche settimana fa la mia massima preoccupazione riguardava la scelta del film da vedere durante la mia serata di riposo dal Greenwood Coffee. Ma adesso... Nulla è più come prima. Io non sono più quella di prima.

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Quattro settimane prima

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1. La sconosciuta

I tiepidi raggi di un sole stanco di un'estate appena terminata si riflettevano nella specchiera del mio comò di legno, un mobile più vecchio di me recuperato da un rigattiere per pochi dollari, irradiando la camera da letto di un'atmosfera dolce e delicata. E nel dormiveglia, osservando il pulviscolo che indisturbato danzava nell'aria, lasciai che per un breve istante la mia mente tornasse a quando ero bambina, a quando mia madre saliva le scale della nostra casa di campagna per venire a svegliarmi. A volte era il cigolio della porta a destarmi, ma quasi sempre era la sua presenza. Silenziosa si metteva a sedere ai piedi del mio letto, e nonostante fosse una donna minuta, il peso del suo corpo premeva quanto bastava sul materasso affinché io mi accorgessi che era lì. Ora mia madre è morta, e non verrà più a sedersi ai piedi del mio letto, un letto distante anni luce da quello che avevo nella casa di campagna che sono stata costretta a vendere per riuscire ad andare avanti. Ogni giorno sento la sua mancanza, un vuoto incolmabile che mi preme nel petto, più di quanto 20


abbia mai sentito quella di un padre senza volto e senza nome. Però, fortunatamente ho ancora i ricordi dei momenti felici trascorsi insieme a lei a farmi compagnia. Grazie al cielo i ricordi nessuno ti costringe a venderli. Si possono solamente perdere, ed io faccio del mio meglio affinché ciò non accada, rispolverandone qualcuno di tanto in tanto. Spinta dal brontolio del mio stomaco, abbandonai i ricordi sotto le coperte per raggiungere il bagno. Feci pipì, mi sciacquai il viso con l'acqua fredda nella speranza di liberarmi definitivamente del sonno, e mi diressi in cucina per affondare i denti nella colazione: una fetta di pizza avanzata dalla sera prima. Alquanto disgustoso forse, ma dato che l'ora di pranzo era passata da un pezzo, un pancake mi sembrava decisamente fuori luogo. Dopo aver dedicato un po' di tempo a rassettare il minuscolo appartamento, e aver cercato invano di domare i boccoli ribelli che una volta giunta al Greenwood Coffee avrei imprigionato definitivamente in un elastico per capelli, m'infilai il giubbetto di jeans, afferrai il grembiule nero del locale ed uscii di casa. «Buongiorno Kendall», ogni volta che lasciavo il mio appartamento, la signora Philips era sempre lì a sbrigare qualche faccenda -pulizia delle scale interne del palazzo, cura delle uniche due piante striminzite che decoravano l'atrio di ingresso, controllo della 21


funzionalità della maniglia della porta di casa sua- ed era sempre pronta a darmi il buongiorno come se non aspettasse altro da tutta la mattina. Inizialmente la cosa mi aveva preoccupata un po', temevo fosse una specie di vicina impicciona, ma col passare del tempo ho capito che il saluto e il sorriso cordiale che le rivolgevo erano molto probabilmente gli unici della sua triste giornata. «Buongiorno signora Philips, come andiamo oggi?». «Bene cara, bene. Come sempre», lei non avrebbe mai ammesso di sentirsi terribilmente sola, ma guardandola negli occhi si poteva scorgere un abisso di dolore senza fine. Per questo non mi soffermavo mai sul suo sguardo. Temevo che incrociandolo troppo a lungo ci sarei sprofondata dentro. Uscendo in strada, ad accogliermi trovai il solito trambusto e via vai di persone. Essendo lontana dal centro di Brooklyn la zona in cui vivevo avrebbe dovuto essere piuttosto tranquilla, ma le persone che abitavano lì si davano sempre un gran da fare per mandare avanti le loro attività, rendendo ogni attimo della giornata caotico. C'era il fiorista all'angolo della strada, perennemente intento a spostare qualche pianta per fare in modo che i raggi solari ne riscaldassero le foglie; c'erano i ragazzini del quartiere impegnati a bighellonare lungo il marciapiede per i restanti giorni 22


di vacanza che li separano dall'inizio delle scuole; c'erano gli spazzini che ritiravano l'immondizia, lasciandosi alle spalle una scia di cartacce svolazzanti cadute dai bidoni; e poi c'ero io, con la borsa a tracolla, il grembiule in mano e un sorriso cordiale per tutti i passanti che incrociavo. Non mi dispiaceva vivere al 221 della E 5th Street, era piacevole. Non meraviglioso come quando stavo nella casa di campagna, ma per il momento andava bene. Dopo una camminata di circa quaranta minuti, finalmente arrivai alla mia seconda casa, il Greenwood Coffee, dove turisti e abitanti del posto erano soliti passare per un pranzo veloce, un caffè o una birra a tarda serata. Non appena entrai, Carol, la proprietaria, mi fece cenno di raggiungerla con urgenza. «Buongiorno Carol?», la salutai sfilandomi il giubbetto di jeans. «Tesoro, per fortuna sei qui», Carol era sempre piuttosto enfatica quando parlava, ma nell'inaspettato abbraccio con cui mi accolse, vi lessi un disagio concreto. «Tutto bene Carol?», le domandai titubante. «No Kendall! Per niente! Missy mi ha appena chiamato dall'ospedale».

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«È nato il bambino? Stanno bene?», subito dopo aver pronunciato quelle domande, collegai la preoccupazione che avevo scorto nell'espressione di Carol, a ciò che mi aveva appena rivelato. E quello che lei disse in seguito, confermò le mie paure. «Il bambino non ce l'ha fatta». Sapevamo benissimo che il bambino di Missy, una delle prime cameriere ad essere stata assunta al Greenwood, sarebbe potuto morire nelle prime ore di vita, come qualsiasi altro neonato che veniva al mondo, ma questo non ci aveva impedito durante i nove mesi di gestazione di sperare che lui sarebbe stato uno dei fortunati che riuscivano a sopravvivere. Da moltissimi anni ormai, il solo problema che affliggeva l'intera umanità era l'altissimo tasso di mortalità neonatale. Nessuno riusciva a spiegarsi perché accadesse. I bambini venivano dati alla luce sani, e nell'arco della stessa giornata le infermiere li rinvenivano privi di vita nelle loro culle. Al pensiero di ciò che Missy doveva provare in quel momento mi si aprì una crepa nel cuore. Perdere qualcuno che ami è terribile, ma perderlo prima ancora di avergli dimostrato quanto lo ami è persino peggio. Non le sarebbe rimasto nulla di quel bambino, solo il ricordo di un dolore lacerante, e forse incurabile. «Carol, perché non vai da lei? Penso io al locale stasera», Carol e Missy abitavano nello stesso palazzo, quindi si poteva dire che in un certo senso fossero 24


quasi parenti, e Missy aveva bisogno di tutto il sostegno possibile in questo momento. «Davvero lo faresti?», gli occhi castani di Carol si riempirono di lacrime. «Certamente. Va' da lei. Tanto oggi è Lunedì, non ci sarà molto da fare. Probabilmente alle undici starò già abbassando la serranda», la rassicurai, nella speranza che si allontanasse prima che anch'io aprissi i rubinetti. «Grazie tesoro, sei un angelo. Porterò a Missy i tuoi saluti e le dirò che andrai a trovarla presto», così dicendo Carol si allontanò di corsa da me, afferrò la borsa riposta dietro il bancone e dopo avermi dato un bacio sulla fronte lasciò il Greenwood Coffee nelle mie mani. In tutta la serata dovetti preparare solamente un paio di whiskey e qualche caffè. Come avevo previsto non ebbi granché da fare, ma avrei di gran lunga preferito essere sommersa di comande e che ogni singolo tavolo fosse occupato da gente affamata e assetata, in modo da dover correre per riuscire ad accontentare tutti e non avere il tempo di ascoltare i miei pensieri. Invece, nel silenzio attenuato dalla radio che trasmetteva canzoni jazz non feci altro che pensare al bambino di Missy, e a tutti quei bambini che morivano ogni giorno a poche ore dal loro primo vagito. Com'è possibile che il Mind non riesca a porre rimedio a questa piaga? 25


Perché nessuno è in grado di individuare la causa di questi decessi? Ma soprattutto, dove trovavano le coppie il coraggio di provare a mettere su famiglia pur sapendo a cosa vanno incontro? Il desiderio di avere un figlio è davvero così grande da decidere di correre il rischio? «Ehi tu! Me la dai o no la mia birra?», un tizio con i capelli corti e un filo di barba incolta era appoggiato al bancone e mi fissava con insistenza. «Come scusi?», le mie riflessioni dovevano avermi distratta più del solito. Non lo avevo nemmeno visto entrare. «La birra che ti ho chiesto cinque minuti fa. Posso averla? Avrei una certa fretta», gli occhi di quel tale, di un azzurro cupo come il colore di un cielo in tempesta, inchiodarono i miei sgretolando qualsiasi altro pensiero, e per un brevissimo istante fu come se all'improvviso il mio cervello si fosse spento. Poi, fortunatamente si riavviò. «Certo, certo. Mi scusi», dissi affrettandomi a preparare la birra che non ricordavo mi avesse ordinato. Quando poggiai il boccale sul bancone, tardai qualche istante a ritrarre la mano e le dita di lui sfiorarono le mie dandomi una leggera scossa. Era tardi, tutti i clienti se ne erano già andati, e la strana sensazione che provavo in presenza di

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quell'individuo mi fece sperare ardentemente che avesse realmente fretta di andarsene come aveva detto. Senza volerlo, rimasi ad osservarlo mentre si portava il bicchiere di vetro alle labbra. Avrei voluto voltarmi, dargli le spalle, eppure non riuscivo a muovermi da lì. Mi sentivo terribilmente in imbarazzo, e l'espressione divertita dello sconosciuto non migliorava le cose. Poi, ritrovando un briciolo di forza di volontà, mi scrollai di dosso quella sensazione di impotenza che mi aveva assalita ed esclamai improvvisamente: «Non aveva detto di avere fretta? Io dovrei proprio chiudere adesso». Il tale dagli occhi cupi fu così sorpreso dal tono diretto che avevo sfoderato che per poco non si strozzò con l'ultima sorsata di birra. Adesso ero io quella con l'espressione divertita, e un brivido di soddisfazione mi percorse la pelle. Senza aggiungere una sola parola, il bellimbusto estrasse una banconota da dieci dollari e la depose sul bancone. Poi, dimenticandosi il resto e dopo avermi squadrata un'ultima volta con un'intensità che mi fece rizzare i peli delle braccia, uscì dal locale come se lo avessi appena cacciato; cosa che in un certo senso avevo fatto. In meno di trenta minuti diedi una pulita al pavimento e rifornii i frigoriferi di bibite e birre in bottiglia, controllai che l'uscita sul retro fosse chiusa e 27


depositai il magro incasso della serata nella cassaforte posta nell'ufficio di Carol. Dopodiché, infilandomi il giubbetto di jeans sopra il grembiule nero del Greenwood, uscii per tornarmene a casa. Non appena varcai la soglia del locale, mentre mi apprestavo a chiudere la serranda con il lucchetto, una brezza fredda mi sfiorò il collo con le sue gelide dita, costringendomi a sciogliere i capelli nella speranza di ripararmi almeno un po'. E fu proprio mentre cercavo di districare l'elastico dai miei boccoli ribelli che qualcosa, o qualcuno, mi urtò violentemente facendomi cadere a terra. «Ehi! Ma cosa...», prima che la rabbia che avevo covato per tutta la sera nei confronti di ciò che era accaduto a Missy, esplodesse in seguito a quell'innocuo incidente, vidi da cosa, anzi da chi, ero stata travolta. Distesa ad un solo passo da me vi era una donna avvolta in un mantello scuro, aveva il viso pallido come quello di un cadavere, gli occhi arrossati dal pianto e stringeva un fagottino al petto. Per un attimo rimasi impietrita. Il Mind aveva ripulito le strade da qualsiasi fonte di pericolo o disordine, perciò ritrovarsi di fronte una donna che aveva tutta l'aria di essere una pazza o una drogata non era cosa da tutti i giorni. Istintivamente, il primo comando che il mio cervello inviò alle braccia, fu quello di prendere il cellulare dalla borsa e di comporre il numero dell'Arm, 28


il ramo del Mind addetto alla sicurezza. "Siete in linea con l'Arm, se avete un disordine da segnalare restate in attesa", ma non appena la voce del risponditore automatico ebbe terminato di gracchiare il suo messaggio nel silenzio della notte, la sconosciuta al mio fianco mi schiaffeggiò la mano facendo balzare il cellulare lontano da noi. «Ti prego no! Non chiamarli!», la sua voce era spezzata dalla disperazione, e nei suoi occhi scuri e lucidi non vi era altro che una tacita supplica: "Aiutami!". Era chiaro che non mi avrebbe fatto del male. Come avrebbe potuto? Era così debole da non riuscire nemmeno ad alzarsi da terra. Eppure nella mia testa sentivo ancora il forte impulso di recuperare il cellulare per cercare di contattare l'Arm. Decisi di controllare quantomeno il suo stato di salute, nel caso l'Arm mi avesse fatto domande, perciò puntandomi sulle mani mi inginocchiai accanto a lei, ed allungando le braccia cercai di afferrare le sue per aiutarla a rimettersi in piedi. «Attenta!», la donna si ritrasse dalla mia offerta di aiuto stringendosi ancor di più al petto il fagottino che aveva fra le braccia. Fu allora che lo udii: il pianto soffocato di un neonato. Per poco non ricaddi all'indietro per lo stupore! «Ma... quello è? Tu...», non sarei mai riuscita a terminare la frase, ero troppo sconvolta. 29


Nel tentativo di capire perché ero seduta fuori dal locale di Carol con una donna mezza morta di fronte a me, e per giunta con in braccio un bambino, i miei occhi schizzarono in ogni direzione in cerca di informazioni. La strada era deserta e questo mi fece supporre che nessuno stesse inseguendo quella donna. La scrutai di nuovo, questa volta cercando di metterla a fuoco meglio, e subito mi accorsi del rivolo di sangue che le sporcava entrambe le caviglie e i piedi scalzi. «Oddio! Ma tu hai appena partorito?», non so dove trovai la forza, ma in qualche modo superai lo shock e mi avvicinai di nuovo a lei. «Ti devo portare in ospedale al più presto! Stai perdendo molto sangue e il tuo bambino ha bisogno di assistenza immediata o potrebbe morire», mentre con le mani cercavo di stabilire un contatto fisico con la donna, per un brevissimo istante i miei pensieri corsero a Missy. «No! Tu non capisci! Se mi porterai in ospedale morirò. Il mio bambino morirà!», la donna allungò una mano e si aggrappò al colletto del mio giubbetto di jeans per attirare il mio viso più vicino al suo. «Tu devi aiutarmi a raggiungere il Mausoleo! Ti supplico! È l'unica possibilità che ho di salvare il mio bambino!», sussurrò disperata. «Il Mausoleo? Io... Io non conosco questo posto», per un attimo inconsciamente dovevo aver preso in considerazione la possibilità di accompagnarla in quel 30


luogo a me sconosciuto, altrimenti non avrei mai perso tempo a frugare nei miei ricordi alla ricerca di un posto con quel nome. «No, adesso ti porto in ospedale e...». «NO!», il grido fuori controllo della donna mi trafisse i timpani fino a raggiungere il cuore, che rimase impietrito da tanta tenacia. «Tu ora mi aiuti ad alzarmi, e mi porti al di là di quel cancello», la mano tremante della sconosciuta si protese per indicare la cancellata del Green-Wood Cemetery, dall'altra parte della strada. «Che cosa? Vuoi che ti porti in un cimitero? Ridotta in questo stato?», non poteva essere vero. Non stava accadendo realmente. «Tu portami al di là del cancello. Al resto penseranno loro», la donna cercò di alzarsi. E mentre nella mia testa scoppiettavano mille domande, le offrii il mio aiuto senza rendermene conto, «Loro chi?». «Lo vedrai». A quel punto non so se fu la curiosità a spingermi a fare ciò che quella donna mi aveva chiesto, ma in qualche modo abbandonai il cellulare e con esso l'idea di chiamare l'Arm, e i miei piedi iniziarono a muoversi in direzione del cancello del Green-Wood Cemetery. Indisturbate, grazie all'ora tarda che da quelle parti faceva rintanare tutti nelle proprie abitazioni, attraversammo la 5th Avenue e raggiungemmo uno degli ingressi del cimitero. 31


Il bambino singhiozzava contro il petto della madre ed io non potevo fare a meno di provare una profonda angoscia pensando al destino di quella creatura indifesa. «Non riusciremo ad entrare. Il cancello sarà chiuso», esternai la mia preoccupazione. «Sarà aperto. Loro lo hanno lasciato aperto per me», disse lei con estrema convinzione. «Loro chi?», insistetti. Anche se sapere chi stavamo per incontrare nel cuore della notte nel bel mezzo di un cimitero non mi avrebbe certo rassicurata. Quando finalmente raggiungemmo l'entrata, proprio come aveva detto la donna, il cancello di ferro era stato lasciato socchiuso. Un nodo in gola mi impedì di deglutire l'amaro del terrore che si stava facendo strada dentro di me. Con la mano sinistra, spinsi leggermente la cancellata in modo da aprirla quel tanto che sarebbe bastato a farci passare, e il cigolio dei cardini che accompagnò il nostro ingresso mi penetrò la carne graffiandomi le ossa come fosse un artiglio. «Il Mausoleo è da quella parte», la donna mi indicò la strada con un cenno del capo, senza allentare la presa sul bambino, avvolto in una coperta che mi impediva di vederlo, che teneva stretto al petto con entrambe le braccia, mentre io cercavo di sostenerla con tutte le mie forze.

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All'improvviso mi parve di scorgere un'ombra passarci accanto rapidamente, ma dato che voltandomi non vidi nessuno, capii che doveva trattarsi della mia stessa paura che si stava divertendo a prendersi gioco di me. Silenziose ci trascinammo a passi lenti lungo un sentiero che fiancheggiava diverse tombe, rischiarate a malapena dal chiarore della luna piena e dalla luce dei lampioni delle strade che circondavano il cimitero al di là della cancellata. Andando al lavoro mi era capitato spesso di passare attraverso il cimitero, ma di giorno era un luogo completamente diverso grazie alla presenza dei turisti che portavano vita in quella distesa di verde incastonata di monumenti lapidei. Ora, invece, vi era solamente il respiro della morte a riecheggiare fra gli alberi. «Eccolo!», il sollievo di essere finalmente arrivata dove voleva, riempì di lacrime gli occhi della sconosciuta, intenti a fissare un edificio tombale a forma di piramide con un ingresso rettangolare sorvegliato da due statue: quella di una donna con in braccio un bambino, e quella di un uomo con un agnello fra le braccia. La sensazione che delle ombre sfrecciassero da un albero all'altro diveniva sempre più forte, spingendomi a guardarmi intorno in maniera convulsa. Poi, la pesante porta del Mausoleo si aprì.

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E sulla soglia comparve lui... l'uomo dagli occhi cupi come un cielo in tempesta.

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