Il gioiello

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1 Gesundheit

“Non riesco nemmeno a pronunciare il nome, di questo posto.” “Gesundheit,” disse Lisi. Da quando le sue figlie erano arrivate e sino a quando non se ne andarono Batsheva Badichi non fece che lamentarsi. Considerava quel soggiorno in una clinica per la riabilitazione un eccesso che sarebbe certamente costato qualche strale dal cielo. In fin dei conti non era mica la prima persona che si rompeva tre costole tentando di estrarre una carpa dalla vasca da bagno, e di sicuro neanche l’ultima. “Se penso alle conoscenze che ho dovuto muovere perché la prendessero,” mormorò Chavazelet. Nei primi giorni di ricovero le sorelle si erano date i turni, di modo da non dover venire tutte ogni giorno. Ma i brontolii di Batsheva avevano fatto sì che alla fine tanto Georgette quanto Chavazelet dichiarassero di non esser più disposte ad andare a trovare la madre senza scorta. E quando non c’era nei paraggi altra vittima, toccava a Lisi accompagnarle, anche se non era il “suo giorno”. Dopotutto, Lisi mica lavora: fare la giornalista sarebbe un lavoro? Un lavoro è una cosa che ha dei confini chiari, che comporta fare cose ben precise a ore fisse in un luogo fisso, dove vigono una gerarchia e delle regole. Invano Lisi dichiarava di aver un pezzo da scrivere, una notizia da trasmettere, che doveva intervistare quel russo che aveva appiccato il fuoco alla 1


roulotte della sua ex moglie o gli etiopi che manifestavano contro il vitto del centro d’accoglienza, o il capo missione del “movimento per la venuta del Messia”. Le sorelle dichiaravano che stando così le cose quel giorno nessuno sarebbe andato a trovare la mamma, e così Lisi era costretta a ripensarci e ad accompagnarle, accreditando con il suo gesto il pregiudizio delle sorelle in merito al suo lavoro. Gesundheit era una clinica privata per la quale la mutua copriva le spese solo in casi molto rari. Era di proprietà del dottor Yanush Schwarz, un medico che aveva lavorato per qualche anno all’ospedale Soroka ma che grazie a uno studio ben avviato e a un’eredità capitata a fagiolo aveva ben presto potuto lasciare la sanità pubblica e metter su la sua piccola gallina dalle uova d’oro: una residenza per anziani ma anche clinica per la riabilitazione, a seconda dei mezzi del paziente. La sede era stata in passato proprietà dell’esercito come convalescenziario per militari. Si trovava in mezzo a un grande cortile cintato da una barriera di palme che teneva lontani il trambusto della città e i veleni delle automobili sulla strada statale. Una veranda coperta di rampicanti s’affacciava su un giardino roccioso fitto di cactus. Nella veranda i tavoli e le sedie destinati agli ospiti erano però per lo più disertati. Il bel giardino era troppo caldo d’estate e troppo freddo d’inverno. Gli ospiti preferivano contemplarlo dalla sala dotata di aria condizionata o riscaldamento. Al piano terra c’erano una decina di stanze, lo studio del dottor Schwarz, il salone, la sala da pranzo, i locali per le terapie e i servizi. Il primo piano ospitava dieci stanze per il personale. L’edificio era ampio e luminoso. Pareti e mobilia erano dipinti di bianco, panna, avorio e giallo, e neanche in un angolo della clinica si sentiva il solito odore di quei posti: un miscuglio di disinfettante, orina e brodo di pollo. Contrariamente a quanto si potesse pensare, il nome “Gesundheit” non era stato dato al posto perché in tedesco significa “salute”: bastava una breve sosta davanti alla targhetta di ottone affissa sotto il campanello d’ingresso per capire che si chiamava così per via di Mendel Moritz Gesundheit, 2


generoso benefattore. Ora che si andava verso l’estate il posto era praticamente deserto. Nel mese di luglio il dottor Schwarz chiudeva infatti i battenti e se ne andava in vacanza in Svizzera. Dopo Pasqua non prendevano più ospiti nuovi (i pazienti lì si chiamavano ospiti), spedivano a casa chi dava segni di ripresa e si davano da fare per trovare una sistemazione acconcia a chi ne aveva ancora bisogno. La direttrice operativa era Judie Bismuth, una minuta ungherese rotonda e frizzante, che Georgette e Chavazelet conoscevano sin dai tempi della scuola per infermiere. “Allora come andiamo, cara Batsheva? La torta l’abbiamo mangiata? Ruben si offende se lasciamo la torta nel piatto, eh. Vuole della frutta cotta? Arriva subito torta anche per Chavazelet e Lili.” Sin dal primo giorno Lisi era diventata Lili, per Judie. Il suo ebraico enfatico e sgrammaticato lo condiva di inglese approssimato e tedesco zoppo. Però parlava con la sicurezza e la grazia di chi sa che le parole non sono l’unico mezzo di comunicazione a disposizione di una bella donna. Judie si diresse ora verso Benyamin Blooms, un vecchietto che stava zampettando sulle stampelle in direzione della “sua” poltrona davanti alla finestra. Lo seguì senza che lui se ne accorgesse, tendendo le braccia intorno ai suoi fianchi, pronta ad afferrarlo nel caso fosse caduto. “Bravo Benji!” esclamò quando lui si sedette, “you are wonderful !” “You are wonderful too,” sorrise quello con la bocca piena di dentoni che riflettevano una luce sintetica e verdastra, posando le stampelle accanto alla poltrona. “Sono sicura che ci va a letto,” sussurrò Chavazelet. “Chavazelet!” protestò sua madre. “Che fortuna ha avuto che il dottor Schwarz l’ha presa qui,” continuò Chavazelet. “Al Soroka stavano per licenziarla. Andava a letto con tutti. Medici. Malati. Faceva il filo persino alle donne, se erano sole e ricche. Sperava sempre che qualcuno si innamorasse 3


di lei e le lasciasse un’eredità. Varie volte ha ricevuto delle belle somme, da malati o familiari. E non ne faceva neanche mistero.” “Io non sono certo ricca e lei è molto buona con me,” dichiarò Batsheva Badichi in difesa di Judie. “È una brava donna, una brava infermiera e una truffatrice.” “Ma lui ha novant’anni!” insorse Batsheva. “E allora?” “Con un figlio di settanta! E una nuora! Nipoti! Pronipoti!” “Allora andrà a letto con il figlio, poco ma sicuro.” “Ma è australiano!” Ruben arrivò con un vassoio sopra il quale c’era della torta per Chavazelet e Lisi, per il wonderful Benji e per un’anziana in miniatura che, seduta insieme al figlio, guardava con somma attenzione il televisore spento. Lisi si ricordava di Ruben dai tempi del suo processo. Aveva trentadue, trentatré anni, era un marcantonio nerboruto che faceva il contabile in una ditta di Sodoma. Quand’era in ferie, di giorno faceva il sub a Eilat e di notte andava ovunque ci fossero da bere e belle ragazze. Una sera era arrivato al Pellicano Blu con un gruppo di amici e vi aveva trovato il marito di sua sorella incollato a una cantante tedesca in un atteggiamento inequivocabile. Così lui aveva separato i due, trasformato suo cognato in un mucchio scomposto di ossa, lasciato un bel ricordo alla talentuosa teutonica, oltre che rotto una sedia sulla testa del barista che cercava di intromettersi e con l’occasione fatto a pezzi una parte non irrilevante del locale. In assenza di precedenti penali e grazie a testimonianze convincenti sulla sua indole, il giudice l’aveva condannato a sei mesi di servizi sociali, verdetto questo che aveva riempito il cuore di Judie di ammirazione per quel saggio giudice. Ruben si era rivelato un ragazzo sensibile e di buon cuore, che non sdegnava nessuna mansione. Quando il giardiniere era assente, faceva lui il suo lavoro, e se non c’era il cuoco – come quella settimana – si metteva lui ai fornelli, e lo faceva con la riverente felicità del dilettante che riceve dal maestro la bacchetta per dirigere. 4


“Falle mangiare la frutta cotta,” disse Ruben all’uomo seduto vicino alla vecchietta impettita, “non mangia niente. Shifra!” tuonò tutt’a un tratto la sua voce, violando bruscamente il silenzio sonnecchiante che regnava nel salone. L’anziana levò verso di lui i suoi occhi buoni e con tono pacato ma sbigottito domandò: “Sì, ragazzo?”. “Mangia la frutta cotta!” urlò Ruben. “Fra poco.” “Subito!”
Shifra scoppiò a ridere. Sotto la maschera sfocata fece capolino il volto della bella donna ch’era stata: due occhi vispi, l’ironia, il piacere di ricevere l’attenzione di un bel ragazzo. Ma tutto si spense così come s’era acceso, e lei si chiuse di nuovo in se stessa, riprendendo a fissare lo schermo della televisione. “Falla mangiare,” ordinò Ruben al figlio. “Evidentemente non ha fame.” “Fa fatica. Aiutala.” Il figlio riempì il cucchiaino di polpa di frutta e lo avvicinò alla bocca della madre. Lei ingurgitò e poi piegò il capo, sorridendo a Ruben. “Alex! Esther!” esclamò Blooms verso il figlio e la nuora appena entrati in sala. Lisi conosceva ormai tutti i degenti, parenti e amici compresi. Lanciò un’occhiata furtiva all’orologio e scoprì che erano passati solo dodici minuti da quando lei e Chavazelet erano arrivate. Quando tutti ebbero finito di mangiare il dessert, Judie si sedette a giocare a bridge con i tre Blooms. Erano tutti alti, sportivi, abbronzati e magri. Esther portava dei pantaloni bianchi e una camicetta il cui candore era esaltato dalla collana con un pendaglio rettangolare in cui erano incastonate delle pietre preziose. Alex era un dentista specializzato in ricostruzione mascellare che lavorava solo tre giorni la settimana, “per diletto”. Tre volte la settimana andava con Esther a Cesarea a giocare a golf, e covava l’ambizione di fondare un club di croquet, cosa di cui ad Ashkelon, la città dove vivevano, si sentiva molto la mancanza. Sono sicuramente di quei tipi che contano il calcio e i trigliceridi di ogni boccone, pensò Lisi. La loro invidiabile salute 5


aveva un che di arrogante e saccente, al punto da farle rimpiangere il fatto di non fumare. “Buio,” disse improvvisamente Shifra, mentre impallidiva e sgranava gli occhi. “Mamma?” Tankhum Levitt si chinò verso la madre tenendo per aria il cucchiaino. In un baleno Judie fu da lei, le prese la mano, le sentì il polso, le accarezzò il capo. “Vieni, tesoro, andiamo in camera, ci siamo stancate un pochetto, non è successo nulla, riposo e ti senti subito meglio. Allora Tankhum, puoi aiutarmi?” Judie e Tankhum fecero alzare Shifra, le misero le mani sul deambulatore e la condussero fuori. Pareva una bambola di pezza che trascinava le gambe tremule, arrancando a ogni passo. Batsheva Badichi li guardò con aria indignata. “Non si caccia via di casa una vecchietta novantenne.” “Mica l’hanno cacciata,” ribatté Chavazelet. “Stanno facendo i lavori. Quando avranno finito, la riporteranno a casa.” “Ma lui non ha mica lasciato la casa,” disse Batsheva. Chavazelet roteò gli occhi verso il soffitto, per la disperazione. “Lei ha bisogno di cure ventiquattr’ore su ventiquattro. Non sa neanche dove si trova.” “Certo che lo sa. È debole ma non rimbecillita. Ci ho parlato. È simpatica e sveglia.” “Suo figlio viene tutti i giorni.” “Grazie molte.” “Posso portare via il piatto?” domandò Ruben. Le tre donne gli sorrisero. Non avrebbe potuto scegliere un momento migliore, per intromettersi. “Vuoi portare a casa la giornata?” domandò poi a Lisi. “Che?” “Blooms ha donato al Soroka una grossa somma per comprare un macchinario di cui hanno bisogno.” “Che macchinario?” domandò Chavazelet, che lavorava in quell’ospedale. “Qualcosa per il reparto di oncologia. Non so di preciso.” 6


“Parla ebraico?” domandò Lisi. “Sì, certo. Un ebraico biblico. È nato qui quando c’erano ancora i turchi. Emigrato in Australia quando era giovane, ha fatto fortuna. Miniere, ferrovie, aerei per spargere pesticidi. La moglie è morta un anno fa, così lui ha deciso di tornare in Israele. Il figlio e la nuora sono qui già da cinque anni. Scappati dall’Australia per via del buco dell’ozono.” “Che?” “Dicono che in Australia ci si ammala di cancro della pelle più che in qualunque altro posto al mondo. Per via dell’ozono, cioè. Hai una bella storia, Lisi.” “Gli va di essere intervistato?” “Non ho idea. Mi è venuto in mente lì per lì.” Ruben si diresse verso la cucina con i piatti in mano, mentre Lisi andò dal terzetto australiano, benedicendo in cuor suo il caro Ruben che l’aveva affrancata dai resoconti medici di sua madre. Batsheva Badichi parlava delle sue costole rotte con il talento naturale dell’affabulatore, montando picchi drammatici e interrompendo il corso della trama con pause comiche, che ad ascoltarla veniva quasi voglia di subire la stessa sorte. Per sua sfortuna, però, le due figlie maggiori facevano le infermiere al Soroka, pertanto le storie di malattie erano l’ultima cosa che gradivano sentire nelle loro ore libere, mentre Lisi le aveva già sentite mille volte. Benyamin Blooms non voleva la stampa. Neanche quella simpatizzante. I suoi soldi erano una faccenda privata, così come la donazione. Aveva comprato un tomografo computerizzato per il Soroka perché era ciò di cui l’ospedale aveva bisogno. Se loro avessero deciso di dare notizia del tomografo computerizzato, allora lei l’avrebbe saputo. Ma non voleva che la cosa uscisse da lui. Benyamin Blooms non cercava pubblicità. Non l’aveva mai cercata. Malgrado i suoi novant’anni, malgrado la sua temporanea infermità, era determinato e prepotente. Aveva un viso stretto, abbronzato e solcato di rughe, il viso di una persona che aveva 7


trascorso molto tempo all’aperto, sotto il sole. Il naso era troppo grande, carnoso e butterato come una vecchia patata, con due vistose protuberanze. Una sulla narice e l’altra all’attaccatura. Gli occhi erano molto chiari, color carta seccata e ingiallita. “Se ho capito bene, lei è nato in Israele, giusto?” “Chi l’ha detto?” Lisi alzò le spalle. Non le andava di mettere di mezzo Ruben. Aveva già abbastanza problemi, lui. Decise di mostrare interesse per la salute di Benyamin Blooms: sapeva bene che non c’è niente come una bella chiacchierata sulle ossa rotte per entrare in confidenza con qualcuno. “Che le è successo? Perché si trova qui?” “Adesso le interessa la mia salute.” “Non per il giornale. Chiedevo così. Io sono qui per via di mia mamma.” “Sua mamma non fa altro che cercare di educarmi.” “Fa lo stesso con me.” Blooms sorrise e la guardò. Lisi era una ragazza troppo alta e troppo goffa: per questo aveva ormai perso da tempo la speranza di conquistare il prossimo buttandola sull’aspetto fisico. Le labbra spalmate di rosso vivo e i grandi orecchini di plastica erano l’ultimo suo baluardo sulla via della trascuratezza totale. La gente di solito la guardava senza vederla, e si dimenticava di lei appena era sparita dalla vista. Così, capì subito che Blooms la stava guardando davvero. Un senso di imbarazzo attraversò la sua spina dorsale, dalla nuca al coccige. Capì che lui vedeva anche quello che lei non aveva piacere di mostrare. “Mi sono rotto il femore,” rispose. “Come ha fatto?” “Niente di che. Ero a letto e quando ho cercato di alzarmi non ci sono riuscito, perché l’osso si era rotto.” Blooms poi non si risparmiò certo in dettagli. Vuoi saperlo? Allora ti tocca una risposta esaustiva, disse il suo sguardo. Raccontò pertanto che era caduto, non era riuscito ad alzarsi, e quanto tempo era passato prima dell’arrivo della domestica, e com’era andata al 8


pronto soccorso, che cosa gli avevano fatto, e l’effetto delle varie medicine, e quanto tempo sarebbe passato prima di potersi rimettere in piedi. Aveva le mani grandi di chi le aveva usate per lavorare. Con delle macchie giallastre sulla pelle rugosa, screpolata come il cuoio di vecchie scarpe. “Non ero mai stato malato,” commentò con un tono improvvisamente irritato. “Alex può testimoniarlo. Vero, Alex?” “Però hai problemi di prostata, papà.” “Problemi di prostata!” Blooms agitò una mano verso Alex, come per scacciare una zanzara. “La prima e ultima volta che sono stato in ospedale era ancora durante la guerra.” “Quale guerra?” “La prima.” Blooms scoppiò a ridere, scoprendo i suoi denti sintetici. “Non era neanche ancora nata sua nonna. Lei di dov’è?” “Di qui. Di Be’er Sheva.” “Nata a Be’er Sheva?” “Sì.” “E i suoi genitori?” “Egitto.” “Come si chiamano?” “Badichi.” “Non conosco.” “È stato in Egitto?” “Prima che nascesse sua nonna.” “Ma è nato in Israele.” “Testarda, nevvero?” Qualcosa sembrava divertire Benyamin Blooms. Come uno scherzo privato che gli accese un lampo furbetto negli occhi. Alex ed Esther tacevano, immobili. Devono avere più paura di lui che del buco dell’ozono, pensò Lisi. “Dove sta il segreto?” “Nessun segreto.” “Quanti anni ha? Ottanta?” Benyamin Blooms ridacchiò, Alex ed Esther sorrisero. 9


“Settanta?” Ora Blooms scoppiò proprio a ridere. Lisi notò di sottecchi sua madre e Chavazelet che la stavano fissando stupite. Lisi era nota per essere totalmente priva di senso dell’umorismo. Dunque non si capacitavano di come fosse riuscita a far ridere il vecchio australiano. “Novanta, mia cara, novanta.” “Mi prende in giro.” “Alex ne ha quasi settanta!” “È vero?” chiese Lisi a Alex. Alex guardò suo padre in cerca di conferma, prima di dare la risposta. “E diglielo, su!” Blooms diede un pugno sulla spalla di Alex. Le nocche contratte sbiancarono e le macchie affiorarono sulla pelle dura e ruvida, parevano schizzi d’olio. Si diverte a spaventare suo figlio, pensò Lisi. “Gerusalemme?” provò a indovinare Lisi. “Tiberiade? No. Il suo ebraico non è quello degli ebrei indigeni, piuttosto quello dei pionieri di campagna. Metulla? Petah Tiqwa?” Blooms la guardò divertito, stringendo le labbra. Judie Bismuth tornò in sala, fresca e piena di energie come sempre. Riferì che avevano dato a Shifra una pillola, così finalmente si era addormentata. Aveva perso di colpo l’orientamento. E chiesto al povero Tankhum di portarle il suo cavallo, i suoi album e la pistola. Capita così, con i vecchi. Fino a un certo punto sono presenti, poi di colpo partono. “Don’t worry, Benji darling,” provocò Blooms, “a te non succederà. Succede solo alle persone buone.” Risero tutti e due, con un’aria complice. Una smorfia di disgusto si profilò per un attimo sulle labbra di Esther, ma passò subito. Lisi si domandò se non aveva ragione Chavazelet sul fatto che Judie andava a letto con Benji darling. “Facciamo un bridge?” “Dobbiamo tornare ad Ashkelon. Abbiamo un’ospite,” rispose Esther a Judie. 10


“La tua tedesca è ancora qui?” domandò Blooms rivolto a Esther. “Ma è appena arrivata!” rispose lei. “Una partita sola,” disse Benyamin Blooms. “Prima facciamo un giretto in sala. Come on, Benji!” “Prima la partita.” “Prima il giretto.” “Ne ho già fatto uno mezz’ora fa.” “Ce la puoi fare. Niente scene, Benji. Sino alla porta e ritorno, su!” “Non mi vanno queste stampelle. Sono troppo leggere.” “Non sono troppo leggere. Sei tu che sei troppo pesante.” “Avevi promesso di portarmene di nuove,” protestò con il figlio. Judie fece alzare Blooms, gli diede le stampelle e lo fece camminare per la stanza, accompagnando ogni suo passo con esclamazioni di incoraggiamento e ammirazione. Lisi tornò dalla madre e dalla sorella. “Ti ha dato l’intervista?” domandò Chavazelet. “No.” “Allora cosa avevate tanto da parlare?” “Ha regalato un tomografo al Soroka. Puoi informarti tu e dirmi quando, quanto costa, e come mai sono arrivati a lui?” “Ma se dici che non vuole fare interviste.” “Oggi non vuole. Domani la farà. E se non la farà, scriverò facendo a meno di lui. Non ho mica bisogno della sua autorizzazione.” Tankhum Levitt tornò in sala con lo sguardo perso, l’aria disarmata. “Pensa che posso andare?” chiese a Judie. “Certo, mio caro Tankhum,” lo tranquillizzò lei, “certo che puoi.” “Ho gli imbianchini che mi aspettano a casa.” “Shifra ora dormirà come un bebè, Tankhum. E Judie non si muove di qui. Fra mezz’ora vado da lei per controllare che sia 11


tutto a posto. Anche il dottor Schwarz andrà a vederla prima di tornare a casa. Vai pure, ci vediamo domani.” “Con il cavallo.” “Con il cavallo e la pistola,” sorrise Judie. “Chiamo più tardi per sapere come va.” “Benissimo, tesoro. Son qui.” “Benissimo, tesoro. Son qui,” le fece il verso Chavazelet quando furono dentro la Justy di Lisi. “Perché ce l’hai tanto con lei?” “Tu le sue storie non le hai ancora sentite. Sua madre era una principessa, suo nonno aveva avuto un’onorificenza dall’imperatore in persona, e suo papà era un latifondista. È cresciuta con una balia inglese, un’istitutrice francese, una guardarobiera, una cuoca, d’inverno andava a sciare, d’estate in Riviera. Quando sono arrivati i comunisti è scappata qui con quel che aveva addosso e si è tirata su le maniche. Come se qualcun altro fosse arrivato con qualcosa di più, qui.” “E se fosse tutto vero?” “Le potrei anche credere, se non vedessi con i miei occhi come ronza intorno ai malati per spillargli denaro. A loro o ai loro familiari. Le persone sole le raccontavano tutti i loro segreti, erano contente che qualcuno le ascoltasse. Poi lei ricattava i familiari. Due volte l’hanno portata in tribunale, dopo che i malati avevano cambiato il testamento per lasciare tutto a lei. Quando è successo per la terza volta, le hanno mostrato la porta. Senza indennità, senza referenze.” “Allora come mai il dottor Schwarz l’ha presa?” “È una brava infermiera che lavora benissimo con gli anziani. Mica tutti hanno pazienza con loro. La verità è che non ce l’ha quasi nessuno. Gli anziani ci fanno senso e ci minacciano. L’impotenza, la perdita di autonomia, la paura che è questo che ci aspetta alla fin fine… La mamma mi fa uscire dai gangheri, Lisi. Mi trattengo continuamente. Ma s’è mai visto, tenere le carpe nella vasca da bagno?!” 12


“Ci prendiamo un caffè da qualche parte?” “No. Vado a casa, e sgrido Ilan e le bambine finché non mi sono calmata.” “Buon divertimento, Chavazelet.” “Grazie, Lisi.”

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Estratto da: Shulamit Lapid, Il gioiello Titolo originale dell’opera: ‫( התכשיט‬Ha-Tachshit) Traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal © 1992 by Shulamit Lapid Published by arrangement with The Institute for the Translation of Hebrew Literature © 2015 astoria srl corso C. Colombo 11 – 20144 Milano Prima edizione: luglio 2015 ISBN 978-88-98713-15-8 In copertina: illustrazione di Annamaria Passaro; nel tondo: Pierre Tetar Van Elven, Gerusalemme © Stapleton Collection/Corbis/Contrasto Progetto grafico: zevilhéritier

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