ISSN 2280-8817
L’ARTE È MORTA LE ESEQUIE IN RETE
LA GALLERISTA DI VOGHERA PARLA LIA RUMMA
mensile - POSTE ITALIANE S.P.A. SPED. IN A.P. 70% - ROMA - copia euro 0,001
UN ITALIANO A VENEZIA INTERVISTA A GIONI SULLA BIENNALE
COM’È BELLO IL BELPAESE STORIE DI GALLERISTI IMMIGRATI
CSI IN VERSIONE MONZESE L’ARMA AL SERVIZIO DELL’ARTE
COMPRARE CHAGALL SU EBAY IN CINQUE MOSSE E UNA TRUFFA
anno iii numero 12 marzo-aprile 2013
L’ARCHITETTURA DI MUMBAI E LA TRASFERTA DI ANNA ZEGNA
tonelli
massimiliano
a situazione è talmente difficile che non è contemplabile una sua, banale, “soluzione”. Diventa più sensato e meno velleitario, oltre che oggettivamente più fattibile, immaginare diversivi. Scelte operative che permettano di smarcarci da una crisi che dura da quasi cinque anni e che non è affatto vero che sfiora soltanto il mondo della cultura. Le analisi economico-finanziarie sono contrastanti perché, effettivamente, il mercato dell’ar-
te - inteso come compravendite d’alto bordo e aste internazionali - ha subìto contraccolpi solo all’inizio. Diciamo nel 2009. Poi quasi
più niente: quotazioni su, aste vivaci, un fiume di denaro che, magari proprio per la crisi, affluiva da Christie’s, Sotheby’s e Phillips, per differenziare e mediare i poco remunerativi investimenti borsistici o immobiliari. In realtà, però, la situazione ha continuato a deteriorarsi massicciamente. Non solo in Italia, al di là di quello che possiamo pensare: su ordini di grandezza e proporzioni sempre diverse, Paesi come Olanda, Regno Unito e addirittura Francia si sono ritrovate in enorme difficoltà per l’arretramento dell’impegno privato, ma soprattutto per l’assottigliamento del contributo pubblico alla cultura. La Spagna è alla disperazione. L’Italia contrappone la sua fenomenale capacità di arrangiarsi a un contesto oggettivamente clamoroso. Siamo ancora qui benché si sia visto di tutto: chiusura di tanti musei, commissariamenti, storiche rassegne saltate. Una situazione, come dicevamo in premessa, che non presenta soluzioni. Nel senso che non ci sono e non ci saranno ricette per tornare in un modo o nell’altro allo status quo ante. Occorre semmai generare un nuovo status quo in cui trovare un modus vivendi necessariamente diverso dal precedente. Per tutti: artisti, critici, curatori, musei, gallerie private, riviste come quella che avete in mano. Anche nelle recentissime settimane, qualsiasi tentativo o prospettiva di “normalità” è stata tarpata: il caos del quadro politico obbligherà a governi non sereni, che di certo non avranno modo di mettere lo sviluppo culturale del Paese tra le priorità; questo fa il paio, simbolicamente, con assessori alla cultura che, non accettando bilanci e stanziamenti largamente insufficienti, vengono allontanati dalla giunta: è successo a Milano, non in una città qualsiasi. La reazione, appunto, deve essere non conforme. Occorre un diversivo, soprattutto un diversivo alla nenia insopportabile di lamentele sempliciotte che sembrano contagiare parte degli addetti ai lavori.
Il riscatto deve partire - se ne prendano la responsabilità, visto che è una locuzione oggi in voga - dagli artisti. Da loro! In un periodo del genere ci si aspetterebbe qualcosa di diverso dal sostanziale immobilismo attendista che pervade la nostra classe creativa. La crisi economica può essere qualcosa di duro e poco piacevole, ma può essere anche qualcosa di stimolante. Può rappresentare una sfida che deve essere colta. Si può e si deve rispondere con la produzione. La pro-du-zio-ne. La produzione di opere d’arte che sappiano farsi interpreti del momento, che lo fissino nella storia, che ne anticipino gli esiti. La strada la devono segnare gli artisti e nessun altro: almeno loro non stiano a guardare, almeno loro non ci tedino con patetiche lagne.
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editoriale
stefano
mirti
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rande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”, scriveva Mao Tse-Tung. Non mi ricordo esattamente a che cosa facesse riferimento, ma per certo non parlava dell’idea di “scuola” arrivati al 13esimo anno (cioè, contando anche il 2000, il 14esimo) del nuovo millennio. Questo fatto di vivere in un mondo in cui le trasformazioni sono sempre più intense e sempre più veloci lo abbiamo oramai (cognitivamente) acquisito. Abbiamo visto Napster (e poi iTunes) disintegrare l’industria discografica così come la conoscevamo. Ma non solo. Mentre l’intera filiera produttiva veniva fatta a brandelli, cambiava nel contempo in maniera radicale il modo in cui ci si procura e si fruisce la musica. Praticamente da un giorno all’altro. A pensarci, incredibile. Il processo è irreversibile e nulla sarà più come prima. La musica, le riviste, i giornali, il commercio, Wikipedia e altre cento cose che definiscono il nuovo perimetro della nostra vita quotidiana. Pensate ora a cinque anni fa. Un mondo dove il 99% di noi non solo non utilizzava i social network (Facebook o Twitter che fossero), ma non aveva neppure cognizione dell’esistenza stessa di strumenti simili. E poi gli smartphone o, se preferite, le elezioni da poco concluse. Questa rivoluzione (questo sistema di
rivoluzioni) assomiglia all’uragano del Mago di Oz. Passa l’uragano, e quello che lascia non sono necessariamente distruzioni (cioè, non solo). L’aspetto rilevante
della faccenda è che passa l’uragano, e questo fa sì che Dorothy entri in un mondo completamente diverso. Chi scrive nella vita sa fare due cose: progettare e insegnare. Avendo lo spazio per condividere alcuni miei pensieri, direi che in questo preciso istante l’uragano si sta abbattendo sul mondo della scuola (in verità, si è già abbattuto). In tempi brevissimi (esattamente come è stato per la musica, l’informazione, le agenzie di viaggio, le librerie...), l’intero universo di “come si trasmette il sapere da una generazione all’altra” (normalmente definito come ‘scuola’) verrà rivoltato da cima a fondo. La cosa certa è che questa rivoluzione è in atto qui e ora. L’altra cosa certa è che in questo momento ci sono cento, mille, diecimila persone che stanno facendo ogni sorta di esperimenti. E nessuno è in grado di riuscire a capire quale sarà il modello giusto. Però qui non siamo alle corse dei cavalli; non è importante capire quale sarà il cavallo che vince o la scommessa che ci farà diventare ricchi. L’aspetto importante è provarci. Ognuno a modo suo, senza stare ad aspettare le istruzioni, l’how to dagli esperti. Perché qui non ci sono esperti, tutti procedono a spanne. Questa rivoluzione a me piace, proprio perché avviene dal basso. Perché viene portata avanti da migliaia di insegnanti e studenti, ognuno per conto suo. Mescolando start-up, piattaforme digitali, strumenti social, idee visionarie, esperimenti fatti nella propria classe e/o nel proprio corso, magari utilizzando lezioni su Youtube che ci arrivano (gratis) dall’altra parte del pianeta. Da questo punto di vista, non è importante capire quale sia il meccanismo giusto e
utilizzarlo per i nostri fini. L’aspetto importante è il provarci in prima persona. Sperimentare, fare, rifare, sbagliare, osservare quello che fanno gli altri e provare un’altra volta. La rivoluzione
è in corso, e non esistono avanguardie o élite illuminate a guidarci. È una rivoluzione partecipativa, un processo a cui ognuno può contribuire. Ognuno secondo le proprie capacità, ognuno secondo le proprie necessità. Cos’altro potremmo chiedere? Progettista, fa parte del team di Whoami, prototipo di scuola on-line / off-line / game
l’altro editoriale
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direttore del progetto marzotto e di fuoribiennale docente di estetica in design della moda - politecnico di milano
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columnist
IL MODELLO SVEZIA sacco
Un paio d’anni fa ho tenuto alcune conferenze a Halmstad, capoluogo dell’Halland, sud-ovest della Svezia, per parlare dello sviluppo locale a base culturale e delle sue implicazioni in termini di politiche territoriali. Alle conferenze hanno assistito produttori culturali, politici e pubblici amministratori. Al termine, un dibattito composto ma vivace, con domande tecniche e contenutistiche. A distanza di poche settimane sono iniziati i contatti per verificare come il materiale potesse tradursi in un percorso di lavoro sul territorio. In pochi mesi siamo passati a ragionare sul budget e a predisporre un programma di formazione per i lavoratori socialmente utili locali che sarebbero stati coinvolti. Qualche altro mese e il progetto è partito. Nel frattempo hanno iniziato a tradurre i nostri lavori in svedese. Il libro è corredato da un’intervista portata avanti da un giornalista a partire da uno studio attento dei materiali, quindi condotta con domande appropriate e approfondite che hanno permesso di chiarire aspetti su cui non avevo sufficientemente riflettuto. Mentre il progetto partiva, mi è stato chiesto di ripetere l’esperienza della presentazione a Göteborg. Tempo pochi mesi e una delegazione ci è venuta a trovare a Milano. Non solo i tecnici, ma anche i politici e gli amministratori locali hanno ascoltato con attenzione, prendendo appunti, facendo domande. Il nuovo progetto partirà anche lì. Nel frattempo, altre regioni svedesi iniziano a interessarsi. E iniziano ad arrivare i primi segnali di interesse anche dalla Norvegia. Lo confesso: non sembra quasi di lavorare. Tutto si svolge come programmato, nei tempi stabiliti. Le amministrazioni hanno una chiara idea di quel che bisogna fare e degli obiettivi da perseguire, erogano le risorse nelle modalità concordate, attraverso procedure semplicissime. Rispetto al susseguirsi dei colpi di scena che allietano il rapporto con le tipiche amministrazioni locali italiane, c’è quasi da annoiarsi. È più o meno la differenza che c’è tra la commedia dell’arte e un manuale di istruzioni tecniche. A proposito: la metodologia su cui si basa il nostro lavoro l’avevamo sviluppata in un progetto europeo pilota nella Regione Veneto, presentandola poi in varie conferenze in Regione ma anche in altri Paesi, tra cui la Svezia. È così che è partito tutto. E in Veneto, invece, com’è andata? Lascio la risposta alla vostra immaginazione.
pier luigi
severino
fabio
vicepresidente dell’associazione economia della cultura
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illa Duodo guarda una stupenda campagna sottostante, coltivata da villette a schiera, capannoncini e improbabili azzardi di cemento. Pensata da Scamozzi, allievo del Palladio, se ne sta sotto un imponente mastio federiciano, che confina con un maestoso castello. Alla villa si aggiungono una serie di fermate che portano pure alla indulgenza plenaria. Insomma, una densità artistica straordinaria, tipicamente italiana. Normalità italica. La fine certa, per ora, delle migliaia di ville e dimore storiche è purtroppo un misto triste solitario e final di abbandono o dimenticanza. Un patrimonio, detto e stradetto, in ogni patois o dialetto che si voglia, difficile da rimettere in moto. Faticoso trovare vie innovative o sostenibili, idee vere, post-turistiche, che mantengano, conservino e rilancino. Questa di M31 a Monselice pare però una possibilità concreta. Da Natale la villa si è regalata una quarantina di giovani che ci lavorano. Nulla a che vedere con beni artistici o affini. Sono ricercatori, ingegneri, visionari tecnologhi che lavorano in start up tecno-manifatturiere. “In Italia dovremmo cercare una nostra via dell’innovazione, una forma di nuovo Rinascimento che metta assieme tradizione, creatività, innovazione”, mi spiega il visionario Ruggero Frezza, ex prof dell’Università di Padova, considerato un guru nel mondo dell’innovazione e che sei anni fa ha dato lo start all’avventura di M31. Quale posto migliore, dunque, di una villa per creare un incubatore-pensatoio? Confrontarsi con la bellezza e il silenzio della storia e dell’arte con i software e l’hardware contemporaneo. La cosa esalta i giovani abitanti e genera un fascino irresistibile all’estero. Silicon Valley in primis, che invidia le nostre ville quanto noi i suoi garage. E in villa c’è stata pure una sperimentazione con la Bevilacqua La Masa, che ha messo in dialogo alcuni suoi giovani artisti con i neoimprenditori del team M31, per provare prime formule di dialogo e relazione. Risultati, a detta dei partecipanti, super. Sintesi: una villa storica sfitta oggi genera un affitto pubblico, è popolata di giovani visionari che creano valore, ha generato grande interesse e partecipazione tanto nella comunità locale quanto dall’estero. Si chiama case history. Da replicare.
seganfreddo
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distretti industriali sono stati la formula vincente per l’imprenditoria, culturalmente votata all’individualismo; l’unica via per coagulare massa critica e quindi competitività. Oggi l’esigenza di essere uniti è uno spartiacque tra chi ce la fa e chi scompare. Si pensi ai settori di offerta caratterizzata dalla presenza di imprenditoria privata: editoria, musica, cinema e gran parte di spettacolo dal vivo. Spesso sono nati e cresciuti grazie a forme di sostegno o tutela pubblica e ne sono stati condizionati nel modo di essere impresa. Le ristrettezze di finanza pubblica e la crescente consapevolezza che mai più si potrà tornare a quelle abitudini stanno spingendo molti sull’orlo del precipizio: o si cambia o si cade. Le pratiche del consumo non riescono a far vedere i piccoli, i quali a loro volta non riescono a farsi vedere. Non è solo una questione di comunicazione. Unione non significa solo accumulo di capitali che permettono di fare acquisti altrimenti impossibili. Significa soprattutto strategia. Le associazioni di categoria, al pari dei singoli, stanno vivendo un momento di crisi proprio per il rinnovato (o meno) ruolo che possono svolgere. Da interlocutore della politica nella prassi delle richieste assistenziali (naturalmente estremizzo), le associazioni sono diventate, a partire dagli Anni Novanta, incapaci di rappresentare alcunché, perché i modelli clientelari sono cambiati. Oggi però conoscono nuova vita. I sindacati d’impresa possono diventare non più collettore di prebende, ma capacità di sintesi delle intelligenze e delle volontà degli associati. I consumi culturali sono esplosi. Il digitale ha aperto il mercato assoluto e sempre più soggetti della domanda e dell’offerta lo coglieranno. Ma in questa fluidità molti affogheranno, perché incapaci di darsi un’identità, di agganciare la propria ad altre per farne una complessa. È una sfida affascinante, perché prevalgono le opportunità alle minacce, perché vincono le forze (dell’unione) alle debolezze (dei singoli). La lentezza ad accendersi d’entusiasmo è l’ennesima dimostrazione di quanto il nostro Paese sia ancora frequentato, nei posti di comando, da persone vetuste, inadeguate, che non vogliono e non possono capire che il mondo è cambiato, e la vita può anche essere molto più bella di prima.
LA VILLA DEI TECNOLOGHI
cristiano
L’UNIONE FA LA FORZA
docente di economia della cultura università iulm di milano
a cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, la più alta tra le chiese ortodosse al mondo, sorge sul luogo dove i sovietici avevano costruito la più grande piscina scoperta al mondo. I moscoviti ironizzano sulla sua presenza, perché in qualche modo questa montagna di pietra bianca di una piscina conserva il ricordo. A dire il vero, prima che i sovietici erigessero il loro monumento alla salute pubblica, una cattedrale in quel luogo c’era già. Per abbatterla c’erano voluti quintali di dinamite e dodici mesi per smaltirne i detriti. La nuova cattedrale, con le sue cupole dorate, sorge proprio di fronte al Museo Puskin, altra gloria nazionale. Il Puskin ha tre ali: quella centrale dedicata all’arte antica, quella di sinistra riservata alle raccolte private e quella di destra dedicata all’arte europea e americana del XIX e XX secolo. È qui che la vista diventa inaspettata; di più: magica. I quadri sono appesi in spazi angusti, sono poco protetti e male illuminati, ma proprio per questo la relazione che si stabilisce con essi è quasi carnale. Qui le ballerine di Degas, le meravigliose indigene di Gauguin, il Matisse algerino non incutono timore. Mi sono sentito come un bambino a Disneyland: quanti quadri del secolo d’oro francese, e di che qualità! E che straordinari - pochi ma bellissimi - Picasso e Léger e van Gogh e Renoir e Cézanne… Quale potente mecenate, quale ispirato monarca poteva aver collezionato tanto e così bene? C’è voluto un amico poco attento all’arte, ma molto alla storia militare, uno di quelli che colleziona soldatini di piombo, che cita a memoria Clausewitz o Sun Tzu, per svelare l’arcano. Il collezionista capace di mettere insieme una collezione come questa in pochi giorni ha un nome e un cognome: Grigorii Kozlov, comandante dell’Armata Rossa. A Berlino nel 1945 è arrivata per prima. Così, quello che i nazisti avevano metodicamente sottratto ai francesi, i sovietici lo hanno sottratto ai tedeschi. Due regimi dediti a tutto un altro genere di estetica rispetto a quella degli impressionisti: il bottino di guerra ha un sapore specialissimo, che sollecita altre parti del cervello oltre a quella dedicata alla visione. Fu un saccheggio colossale: qualcosa come centinaia di migliaia di quadri, sculture, monete, vetri, tappeti, libri, gioielli è finito al Puskin, al Tretyakov e all’Ermitage. Mai restituito.
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ella tradizione dell’arte & scienza da cui nasce l’immaginario dell’arte digitale, il robot è una figura positiva, in una linea di armonioso sviluppo e controllo del mondo meccanico. In Giappone il termine kansei definisce una scienza che umanizza il robot, antropomorfizzandone i tratti somatici e sperimentando il rapporto con i nostri sentimenti e la nostra cultura. L’uso di robot in progetti d’arte digitale sono stati limitati soprattutto a causa dei costi, ma le metafore con cui la presenza e l’essenza della robotica sono state indagate non coincidono con la visione delle ricerche scientifiche. Queste metafore sono concentrate sull’ambiguità del doppio, del rispecchiamento umano/ non-umano, naturale e artificiale. La domotica procede con estrema lentezza e l’applicazione di massa non sembra così vicina. Quello che avanza, e in fretta, è invece l’uso sempre più esteso dei droni militari. A giustificarlo è il risparmio di vite umane in azioni di guerra. Su questo tema si sono mossi improvvisamente le aree pacifiste e i gruppi che combattono per la limitazione delle armi in Usa. L’utilità immediata dei droni è indubbia, ma le domande che pongono sono molte: come controllare l’uso di queste armi robotizzate? Cosa può diventare l’uso dei droni nel controllo sociale? Due artisti digitali canadesi, Louis Philippe Demers e Bill Vorn, negli Anni Novanta realizzarono una installazione, No man’s land, che metteva in atto le atmosfere di Terminator. In un vasto ambiente sotterraneo, illuminato da una luce bluastra e percorso da lampi di luce, un gran numero di robot stridevano e minacciavano il pubblico. Robot che assomigliavano ai collage di frammenti meccanici assemblati da Tinguely negli Anni Sessanta, ma senza l’ironia neo-dada. In Portrait One di Luc Courchesne, un video-volto femminile risponde alle domande del fruitore secondo uno schema preordinato. In questi e in molti altri esempi, i sentimenti espressi dai lavori sono il dubbio e la diffidenza. Si riapre il problema identitario uomo/macchina. Quali droni controlleranno i droni? Il joystick diventa un elemento di morte?
taiuti
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L’ALBA DEI DRONI
lorenzo
marcello
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ggi le immagini e gli oggetti che popolano il mondo dell’arte precedono la somma degli sforzi per fruirle secondo un tempo adeguato alla loro assimilazione simbolica. È come se il consumo anticipasse la significazione sociale. D’altra parte, in un mondo colonizzato da immagini liquide che sfidano ogni concezione storica del tempo, che speranza c’è per la sedimentazione simbolica? C’è un tempo per assimilare l’inarrestabile flusso che governa il mondo dell’arte? L’estetica generalizzata che da qualche tempo anima autori come Genette, Jean-Marie Schaeffer, Yves Michaud e altri fa del pluralismo un postulato che ha forti analogie con la democrazia liberale fondata sulla diversificazione del prodotto. L’eredità della filosofia americana (Goodman, Danto) da cui prendono spunto predilige l’approccio descrittivo a quello valutativo, il quale mette l’accento non più sulle differenze che le opere provocano, ma sull’analisi delle descrizioni. L’irriducibilità soggettiva rivendicata da questa visione estetica tende a legittimare una concezione delle opere d’arte come sfera privata. In altre parole: fai una cosa qualsiasi, purché poi associ un significato qualsiasi che lo istituzionalizzi in quanto “opera d’arte”. Perché non è la cosa in sé che vale, ma l’idea che gli è associata. In questo contesto, gli oggetti d’arte si trasformano in segnali di riconoscimento di un’idea. In genere questi autori fanno di Duchamp il loro campione. Ma è proprio Duchamp a smentirli quando, nei suoi appunti e nelle sue lettere, dichiara di essere un artigiano e non un “artista concettuale”, e che agli “artisti” preferiva la compagnia del signor Candel, venditore di formaggi. In alcuni appunti dichiara di essere interessato alla costruzione di “cose che osano” e non di “cose qualsiasi” come le scatole Brillo di cui va pazzo Arthur Danto. Il bricolage era la sua passione: unisce caso e rigore. Il vero scandalo di Duchamp - ricorda Didi-Huberman -, più che l’orinatoio, era rendere le opere non commerciabili. Solo poco prima di morire, nel 1967, un museo europeo acquistò una sua opera. Tutto il contrario della teoria pluralista dell’arte. Che scambia giudizio di realtà e giudizio di valore, per parlare la lingua di Kant. Vale a dire giudizio a posteriori (il significato che si associa a un oggetto) e giudizio riflettente (la costruzione del senso, oggi così mortificato). In altre parole: assistiamo al trionfo dei fatti a scapito dei fattori. Trionfo degli effetti sulle cause.
premoli
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TWISTS OF FATE
aldo
L’AMATORE DI FORMAGGI
critico di arte e media docente di architettura università la sapienza di roma
trend forecaster
saggista e redattore di cyberzone
columnist
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dURALEX
di RAFFAELLA PELLEGRINO
THE TRUST IN ART… WE TRUST IN ART Durante Arte Fiera 2013 si è svolto all’Accademia di Belle Arti di Bologna il convegno Il trust ed i beni culturali, sottotitolato Per proteggere e mantenere integro il tuo patrimonio. Nel sistema dell’arte contemporanea – fatto anche di valori economici delle opere, di valutazioni e quotazioni – non si poteva non parlare di trust. Il trust è un istituto giuridico di origine anglosassone, applicato anche in Italia, che si sostanzia nell’affidamento a un terzo di determinati beni perché li amministri e li gestisca per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente. Con l’istituzione di un trust, una persona (il disponente o settlor) trasferisce a un terzo (il trustee), con atto tra vivi o per causa di morte, la proprietà di beni (mobili o immobili), opere d’arte, polizze ecc. affinché il trustee li gestisca nell’interesse di uno o più beneficiari o per il perseguimento di scopi specifici. Una peculiarità del trust – che potrebbe renderlo appetibile qualora si voglia agire in frode ai creditori – è che i beni conferiti in trust costituiscono un patrimonio separato e distinto dal patrimonio sia del disponente che del trustee. Per effetto di tale segregazione patrimoniale, i beni in trust possono essere aggrediti solo dai creditori del trust stesso e non anche dai creditori del disponente e del trustee. Anche un’opera d’arte o un’intera collezione può essere conferita in un trust, il cui trustee potrà gestire l’acquisto e la vendita di opere, l’esposizione, la manutenzione e il prestito della collezione. Può essere costituito un trust temporaneo per realizzare il prestito di una collezione a una istituzione museale, che potrà esporre le opere sotto la direzione del trustee e, a monte, secondo la volontà del disponente trascritta nell’atto istitutivo. Senza la pretesa di effettuare un esame esaustivo delle clausole che è necessario inserire nell’atto istitutivo di un trust, anche ai fini della sua piena validità sul piano giuridico, si può dire che nell’atto devono essere specificati i poteri/doveri del trustee, deve essere descritta l’opera con indicazione della provenienza (ad esempio fatture di acquisto) e dell’autenticità (ad esempio certificati di autenticità, eventuali expertise), devono essere regolati aspetti vari ed eventuali (ad esempio pagamento di diritti d’autore, assicurazioni, costi di spedizione). Alcuni esempi di trust operanti nel mondo dell’arte, di cui non è dato conoscere il concreto assetto dei rapporti giuridici tra le parti coinvolte, sono il J. Paul Getty Trust (nota istituzione culturale filantropica americana), il Fiorucci Art Trust (istituito nel 2011 da Nicoletta Fiorucci per promuovere l’arte contemporanea e privo di una propria collezione). Il trust è dunque da annoverare tra gli strumenti giuridici, fra i quali anche la più diffusa fondazione, di cui collezionisti e proprietari di opere d’arte possono avvalersi per gestire al meglio il proprio patrimonio artistico.
NUOVO SPAZIO
ANNAMARRA
ROMA
Sorge nel cuore dell’antico quartiere ebraico di Roma questo spazio dedicato al contemporaneo. Il nome è quello dell’intraprendente collezionista Anna Marra. Caratterizzano il luogo: un portone in legno, uno spazio diviso su più livelli e un piccolo cortile posteriore. L’intervista di Martina Adami (e la foto di Sebastiano Luciano). Come nasce la decisione di aprire la galleria? Dopo lo scioglimento dell’Associazione Mara Coccia, di cui ero co-direttrice, desideravo continuare a supportare e promuovere l’arte contemporanea, in special modo quella italiana, non solo nel nostro Paese ma anche all’estero. Così ho deciso ristrutturare il piano terra della mia casa e adibire questo spazio a galleria. Qual è l’impostazione che vuoi dare? L’inprint che Mara mi ha dato è molto forte. La scultura è nelle corde di Mara come nelle mie, da sempre. Non voglio assolutamente lasciare l’attività di associazione culturale, che vuol dire buoni rapporti di collaborazione con le istituzioni. Il mio obiettivo è svolgere in questo spazio un attività anche e sopratutto culturale. Che tipo di gallerista sarai? Il rapporto umano sarà quello che prediligerò, ma credo sia molto importante anche una certa coerenza nell’offerta culturale. Ad esempio: ho appunto avvertito la necessità di un filo conduttore per i primi mesi di vita della galleria. Quali sono le mostre che hai in programma? Nelle prime tre mostre, con cui ho pensato di dare il via alla stagione, ho voluto individuare prima di tutto un tema, il metallo, e ho chiamato a confrontarsi con esso tre artisti. Ha iniziato questo percorso Giovanni Albanese, a seguire ci sarà la giovane artista Veronica Botticelli e, per concludere, avrà luogo la mostra dello scultore Teodosio Magnoni. Ho cercato di diversificare la proposta con tre diverse generazioni, linguaggi e livelli di notorietà. Come pensi di affrontare questa situazione di crisi che investe anche il mercato dell’arte? Ritengo di avere una dose giusta di follia, coraggio e ottimismo. Credo che la situazione si sbloccherà. Il mio punto di forza sta nell’essere certa della qualità e del valore dell’offerta artistica italiana, ancora molto poco conosciuta all’estero. Quindi credo possa essere una sorta di arma vincente, in questo momento, impostare dei progetti condividendoli con altre istituzioni e gallerie. Via San’Angelo in Pescheria 32 info@annamarracontemporanea.it - www.annamarracontemporanea.it
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NEWS
Andrea Bruciati “direttore” di ArtVerona. Affiancherà Massimo Simonetti Decisamente ricca di novità si preannuncia l’edizione numero nove di ArtVerona prevista per ottobre. Da quest’anno, come avevamo anticipato a ottobre scorso, la rassegna entra in pancia all’Ente Fiera veronese e dunque diventa una manifestazione interna e di proprietà del quartiere fieristico scaligero. La nuova configurazione esclude la presenza di veri e propri “direttori” in quanto in un ente pubblico questa denominazione può essere associata solo a dirigenti interni. Massimo Simonetti, dunque, da sempre a capo della kermesse, si trasformerà in consulente artistico e - ecco la notizia - verrà affiancato da Andrea Bruciati. Il curatore marchigiano si affiancherà a Simonetti e dunque evolverà nel suo ruolo, che lo vede presente a Verona fin dal 2009 come curatore della fortunata sezione On Stage. La mossa dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, la caparbia volontà di ArtVerona nel ritagliarsi il suo ruolo e di difendere le posizioni conquistate nell’affollato scacchiere del risiko fieristico italiano. L’intuito e le capacità di talent scouting di Bruciati, unite all’esperienza e alle buone relazioni di Simonetti, costituiscono un tandem complementare. www.artverona.it
I più grandi artisti italiani? Luca Pignatelli e Marcello Lo Giudice. Lo dice il report annuale di Artprice Siete sempre convinti che gli artisti italiani fatichino sulla scena internazionale? Sbagliate, o per lo meno vi basate su fonti incomplete. E probabilmente non seguite i nomi giusti: come quelli di Luca Pignatelli e Marcello Lo Giudice, che - dati alla mano - sono fra coloro i quali tengono alte le sorti tricolori sulla scena globale. Dati? Sì, quelli del report annuale di Artprice, che fra l’altro stila una graduatoria dei 500 artisti che nell’anno precedente hanno registrato le maggiori vendite nelle aste internazionali.Non mancano le sorprese. Come il fatto di trovarvi sette italiani: gli spagnoli, per fare un esempio, sono soltanto tre. Dunque, il connazionale più in alto è, of course, Maurizio Cattelan, posizione numero 21, che fra il 1° luglio 2011 e il 30 giugno 2012 ha avuto vendite per 7.881.310 euro. Dietro di lui, Giuseppe Penone (151esimo, con € 737.070), terzo Mimmo Paladino (187esimo), poi Francesco Clemente (203), seguito dal citato Pignatelli (334esimo, con € 253.661). Il quale, tanto per dare un riferimento tangibile, si mette alle spalle uno come Olafur Eliasson. Si scende alla posizione 417 per trovare Vanessa Beecroft, mentre alla 435 staziona Lo Giudice (€ 191.637, più di Grayson Perry, per dire). E la top ten? Anche qui non mancano i dati scioccanti: dopo il primo, che è di gran lunga Jean-Michel Basquiat con quasi 80 milioni di euro, la lista mette in fila Zeng Fanzhi, Christopher Wool, Damien HIrst, Zhang Xiaogang, Zhou Chunya, Richard Prince, Chen Yifei, Jeff Koons e He Jiaying. Cinque cinesi sui primi dieci… Massimo Mattioli www.artprice.com
Dinos Chapman lancia il suo primo album. Paesaggi elettronici pulsanti e cupi, come visioni sotterranee Lo conosciamo nelle vesti di artista visivo. Lui, Dinos Chapman, assieme all’inseparabile fratello Jake, contribuì a generare quel movimento inquieto, esplosivo e controverso che furono gli Young British Artists. E i due furono, indubbiamente, tra i migliori esponenti del gruppo, star celebrate in tutto il mondo per quel loro inconfondibile immaginario: provocatorio, macabro, sfacciatamente dark, al limite tra posthuman, horror, gotico, politico ed erotico. Ora è tempo di un nuovo debutto. Comincia per Dinos una carriera di musicista elettronico, improvvisa deviazione che giunge, in realtà, al termine di un decennio di solitarie
RUBELL FAMILY. COSA SI È FATTO E COSA SI FARÀ Incontriamo Don e Mera Rubell, patron della Rubell Family Collection, per uno scambio informale sul loro modo di guardare all’arte. Per scoprire che nel futuro c’è un museo a Washington DC e una mostra dedicata all’arte contemporanea cinese. Senza dimenticare una tappa a Venezia. La Rubell Family Collection è stata fondata nel 1964. Qual è stata la prima opera che avete acquistato e perché? Il nostro primo acquisto è stato un vivace dipinto di un artista molto giovane. Da quel momento, l’arte è diventata parte integrante della vostra vita, finché un giorno avete aperto la collezione al pubblico, con un approccio altamente innovativo a Miami. Che cosa vi ha condotto a questa decisione? Eravamo appassionati d’arte già da quando vivevamo a New York, molto tempo prima di trasferirci a Miami. Ma essere a Miami ci ha dato l’opportunità di avere uno spazio di 40mila mq che non avremmo potuto avere a New York. Ho iniziato la mia carriera come insegnante [Mera Rubell, N.d.R.] e credo sia veramente importante entrare in contatto con il pubblico e invitarlo a visitare la collezione. Impariamo sempre cose nuove sull’arte dalle persone che visitano la collezione. Quali sono state le reazioni dei collezionisti e del pubblico di Miami? Come è cambiato nel corso degli anni il progetto di una “open collection”? Ci furono reazioni discordanti in merito al processo che vedeva una collezione privata trasformarsi in museo aperto al pubblico, ma in ultima analisi i risultati sono stati assolutamente positivi. E guarda quanti spazi per l’arte sono saltati fuori in tutta Wynwood e nel distretto del design, anche grazie alla presenza della Collezione. E il rapporto con gli artisti? Ci potete raccontare qualche aneddoto a proposito di un’opera che vi
sta particolarmente a cuore? Quando ci siamo incontrati la prima volta, Basquiat lavorava nella cantina di una galleria di Soho. Ci siamo andati per fare uno studio visit. Era uno spettacolo strano: lui era molto bello e dipingeva due pezzi che avremmo poi comprato. Teneva in mano un libro di Cy Twombly. Ho trovato tutto ciò davvero interessante e innovativo. Basquiat era profondamente radicato nella storia dell’arte. Avete recentemente annunciato l’apertura di un nuovo spazio in Washington DC… Il progetto è alla fase iniziale. È situato al piano terra della vecchia Randall School di fronte al Capitol Skyline, un hotel che abbiamo a Southwest DC, uno splendido quartiere emergente a pochi minuti di distanza dal Mall. L’obiettivo è costruire un centro multifunzionale, con imprese, ristoranti e soprattutto - cosa più importante - un museo. Come selezionate le opere che acquistate? Partecipiamo personalmente alle aste, alle fiere. Visitiamo le gallerie e così scegliamo gli artisti e le opere. Le decisioni vengono prese di concerto con mio marito Don e mio figlio Jason. Questa dinamica genera molte conversazioni, dibattiti e tante emozioni. C’è qualcosa che non vi piace del mondo dell’arte? Non c’è niente che ci preoccupa profondamente, tranne che spesso le persone dimenticano che collezionare arte può essere accessibile ed emozionante. Qualsiasi budget tu abbia, puoi diventare un collezionista, specialmente se guardi avanti e non indietro. C’è troppa enfasi sul fatto che il mondo dell’arte è riservato ai ricchi. Non lo è: il mondo dell’arte può essere molto aperto, pubblico, e un’esperienza partecipativa. Cosa vi piace di più? La nostra gioia più grande è sempre stata incontrare gli artisti e sostenere il loro lavoro.
sperimentazioni casalinghe. Sì, perché Dinos, vittima di un’artrite reumatoide e condannato a un’insonnia progressiva, ha trascorso ore e ore nel cuore della notte a manipolare suoni, a cercare, a comporre, a registrare. Poco tempo fa, l’occasione: qualcuno viene a sapere di questa attività, consumata nel seminterrato della sua casa di Londra; ascoltati i pezzi, a sorpresa arriva la proposta di pubblicare un disco. 13 pezzi incisi da The Vinyl Factory: electro cupa - e non poteva essere altrimenti -, distorta, traboccante di energia sovversiva e di umorismo noir. La musica di Luftbobler - questo il titolo dell’album - lui la chiama “schlampige musik”. E nel futuro di Dinos? Lui si dichiara pronto a continuare. Magari suonando dal vivo, coinvolgendo anche Jake, il fratello dall’anima rock, già avvezzo alla chitarra e ai live. Helga Marsala www.jakeanddinoschapman.com
Venti di innovazione dal Sudafrica. Cape Town è la Capitale del Design 2014 I venti dell’innovazione soffiano in direzioni sempre più disparate. Che l’Occidente stia cedendo il passo è in una certa misura dato per assunto. Eppure, la nomina della sudafricana Cape Town a Capitale del Design non può che far riflettere. Prima città africana a essere candidata al titolo (l’ultima vincitrice è stata Helsinki nel 2012, mentre per quanto ci riguarda abbiamo avuto Torino nel 2008), Cape Town ha un retaggio gravoso, nel bene e nel male, fatto di apartheid e schiavitù, ma anche di grande spirito commerciale e multiculturalità. L’organizzazione non profit Cape Town Design, che si occuperà del programma e di tutti gli aspetti dell’organizzazione, sottolinea il bisogno di un approccio al design socialmente utile: con lo slogan Live Design. Transform Life, l’idea stessa di design si spoglia dei tanti attributi manieristici e pseudo-artistici che troppo spesso la contaminano, tornando alla propria essenza: semplificare e migliorare come mission principale. Grande attenzione per la progettazione, ma anche per la fruizione, nel tentativo di coinvolgere un pubblico eterogeneo, stimolandone l’immaginazione e raccontando quanto sia multiforme e incisiva, rispetto al quotidiano, la natura del design. Urbano Nannelli www.worlddesigncapital.com
A questo proposito, deve essere per voi una grande soddisfazione vedere vostra figlia Jennifer intraprendere la carriera dell’artista, con un percorso di natura partecipativa. Siete in qualche modo coinvolti nella sua ricerca? Non direi che siamo coinvolti nella sua ricerca, ma è stato emozionante vederla sviluppare la sua pratica presso la Collezione, dove ha fatto per ben undici anni le sue installazioni per l’annual breakfast. Siamo molto orgogliosi di Jennifer. Non è facile lanciarsi come artista quando si arriva da una famiglia di collezionisti, ma con lei l’opera parla da sé, e le persone la amano. C’è qualche evento in particolare che attendete con ansia? Siamo molto entusiasti della mostra dedicata all’arte contemporanea cinese che apriremo durante Miami Art Basel nel dicembre 2013 presso la Collezione. Sarete a Venezia per la Biennale? Non perdiamo mai né la Biennale né Art Basel! SANTA NASTRO rfc.museum
LAP TAB
di ALFREDO CRAMEROTTI
SHOW.ME.PICTURES SMP è un’iniziativa editoriale che Michael Sargeant ha creato nel 2009 mentre ancora studiava all’Università di Derby, nel Regno Unito. È cominciata con quello che fanno un po’ tutti gli studenti, surfando la vastità di Internet in cerca di immagini e contenuti che mettessero in moto qualcosa di creativo. E siccome bisognava pur salvare i risultati da qualche parte, Sargeant ha creato un blog per indicizzare le immagini, potervi accedere e condividerle in tempi successivi. Per tutto il primo anno è stato uno dei tanti blog di fotografia. Dopo un periodo di rodaggio, il progetto si è decisamente orientato verso la curatela online, un approccio che ha servito molto l’autore stesso, ma anche altri colleghi. Il blog è diventato uno strumento per lo sviluppo della pratica curatoriale on- e off-line, a cui tutti possono accedere. SMP è da tenere d’occhio per la presenza di artisti validi, molte volte emergenti ma anche noti, e per il taglio sapiente nel mettere assieme artisti, tematiche e concetti espositivi. Sargeant sta producendo una mostra online significativa per numero e profilo degli artisti coinvolti, che sarà pronta per l’inizio del 2014. Mi sembra importante che questo progetto riesca a mettere in piedi una narrativa visuale e tematica con un potenziale di audience notevole, e che costerà decisamente poco. Nel clima economico in cui viaggiano le gallerie e istituzioni artistiche, non è da sottovalutare il fatto che prima si possa organizzare e promuovere una mostra online, per poi raccogliere risultati e supporti per realizzarla in altri luoghi. Anche fallendo ogni possibile obiettivo, si riesce comunque a fare un passo che altrimenti rimane solo potenziale. Presto SMP entrerà in una nuova fase: la carta stampata. Le pubblicazioni periodiche non sostituiranno il progetto online, ma saranno complementari, offrendo una diversa angolatura e presumibilmente coinvolgendo altre persone. Vedremo quello che ne uscirà. Magari migrerà anche nello spazio fisico, mantenendo i tre canali - online, pubblicazioni e galleria - distinti ma con un denominatore curatoriale comune. Per il momento, godiamoci questa chicca. www.showmepictures.tumblr.com
NEWS 11
Residenza d’artista una e trina. Ecco gli artisti che prenderanno parte alla terza edizione di Resò Fatma Bucak e Franco Ariaudo, attivi sul territorio piemontese, sono stati selezionati per le residenze a Townhouse Gallery del Cairo e alla Khoj International Artists association di New Delhi; dall’Egitto Malak Helmi e Nida Ghouse saranno in residenza presso la Fondazione Spinola Banna a Poirino, mentre gli indiani del Frame-works Collective saranno ospiti del PAV di Torino. Sono questi gli artisti che prenderanno parte alla terza edizione di Resò, il programma di residenze internazionali per artista promosso dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT. Programmati tra la primavera e l’autunno del 2013, i progetti si dividono appunto in residenze OUT, dal Piemonte verso l’estero, e in residenze IN, dall’estero verso il Piemonte. Inaugurata nel 2010, la piattaforma ha visto transitare tra Torino, il Piemonte, New Delhi, Il Cairo, Rio de Janeiro e San Paolo numerosi artisti giovani, ma già attivi nel sistema dell’arte internazionale, tra cui Magdi Mostafa, Dina Danish, Amilcar Packer, Massimiliano e Gianluca De Serio, Paola Anziché, Ottavia Castellina ed Eva Frapiccini. www.reso-network.net
OPERA SEXY
Torna a casa, Fendi! La mitica maison restaura con 2,5 milioni la Fontana di Trevi. Un nuovo caso Della Valle? Lo stile sbarazzino e giovanilista del Ponte di Rialto jeansato Diesel; il look casual-chic del Colosseo in Tod’s: tra plausi e polemiche ci si va abituando al griffaggio selvaggio delle case di moda su restauri e interventi di conservazione; mano tesa da parte dell’impresa a un patrimonio in costante debito di maquillage. Nel filone dei magnati del lusso (Renzo Rosso spende a Venezia 5 milioni, Diego Della Valle a Roma cinque volte tanto) ecco inserirsi pure il marchio Fendi, che inaugura la lunga marcia verso il 90esimo compleanno della griffe, con il sostegno ai lavori di pulitura di uno dei più amati, riconosciuti e fragili monumenti romani. Il programma Fendi for fountains mette sul piatto 2 milioni e 180mila euro: cantieri da avviare al più presto per restituire al suo antico splendore, entro il 2015, la Fontana di Trevi, ferita dai cedimenti di frammenti della decorazione marmorea nello scorso giugno. Pochi mesi dopo, nell’inverno 2011, altri crolli costarono al Comune 320mila euro. Polemiche in vista? In effetti Il Messaggero si è subito chiesto che fine avessero fatto i 250mila euro promessi a
di FERRUCCIO GIROMINI
BONNY HARD ON Frédérique Morrel, parigina, ex insegnante di arte, moda e design presso l’École Supérieure d’Arts Appliqués Duperré, da qualche anno con la collaborazione attiva del marito Aaron Levin, lui invece proveniente dal Kansas, ha avviato un’impresa di arte, moda e design – appunto – che si distingue a prima vista. Firmandosi collettivamente Frederique Morrel, eliminati dunque quegli accenti acuti troppo francesi per la platea internazionale, i due producono nude forme naturali life-size (esseri umani e animali e assimilati) rifasciate in multicolori patchwork di scampoli di arazzi, i cui disegni creano sui corpi sottostanti effetti asimmetrici di distorsione percettiva. Dicendo di ispirarsi a un quilt di miti e temi che comprende il Peccato originale e la Cacciata dall’Eden, il Diluvio universale e l’Arca di Noè, la Caduta e la Redenzione, la Morte e la Rinascita, la Vanitas e la Natura morta, ma anche i bucolici paesaggi settecenteschi o i giardini aristocratici di Fragonard, alla fine la coppia ricrea una sorta di deviante museo di storia naturale che allinea un caleidoscopio barocco di forme imbalsamate psichedeliche. Di questo giardino zoologico fintamente tassidermico fanno parte soprattutto mammiferi gentili: cavalli, cervi, daini, conigli. Realizzati volumetricamente in resine o fibre di vetro e ricoperti di variopinte pezze di recupero con inserzioni di vera pelliccia e corno – e in alcuni casi mozzati e appesi al muro come antichi trofei di caccia (ma questi, ribattezzati Passe-murailles, per la coppia di artisti sono “creature viventi che hanno letteralmente trapassato i muri per venire a raccontarci le loro storie personali”) – gli animali così ricreati divengono antenati totemici ideali “visitatori” del nostro mondo, ora timidi, ora aggressivi. Alcuni, in particolare, sembrano interpretare ruoli abbastanza precisi. Ad esempio, in ossequio alle loro leggendarie doti riproduttive, i conigli ostentano spudoratamente genitali monumentali (anche se cercano di nascondersi dietro denominazioni più gentili: “bonnies” anziché playboy-“bunnies”). Viceversa i cerbiatti bambi(n)eschi offrono ingenui le tenere terga, e in ciò si fanno metafora della piccola indifesa vittima del lupo di turno (che potrebbe essere anche un coniglio?!). La carica fortemente ironico-affettiva nelle titolazioni controbilancia il ricercato e stordente kitsch di molte opere del postmoderno duo, che non disdegna misurarsi – dando prova di un certo umorismo – anche con teschi e scheletri umani, a maggior soddisfazione dei collezionisti internazionali che si contendono tali eccentrici manufatti. L’ultima uscita pubblica di successo è stata in febbraio nel cantone svizzero di Berna: sotto il titolo Wild Art Hunting, le policrome bestiole uscite dal bosco hanno invaso il villaggio alpino di Mürren. www.frederiquemorrel.com
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NECROLOGY NAGISA OSHIMA 31 marzo 1932 – 15 gennaio 2013 SHOZO SHIMAMOTO 22 gennaio 1928 – 25 gennaio 2013 ANTONIO CARONIA 1944 - 30 gennaio 2013 BEPPE DEVALLE 8 aprile 1940 – 5 febbraio 2013 RICHARD ARTSCHWAGER 26 dicembre 1923 – 9 febbraio 2013 GABRIELE BASILICO 12 agosto 1944 – 13 febbraio 2013 BARBARA TOSI 9 dicembre 1949 – 15 marzo 2013 LUCILLA CAPORILLI FERRO 1965 - 18 marzo 2013
suo tempo dall’imprenditore capitolino Mauro De Dominicis. Annunciato dono di cui non s’è più saputo nulla. Vuoi vedere che anche stavolta, a un certo punto, esploderà il caso, come fu per il chiacchieratissimo intervento di Della Valle sul Colosseo, per via di una mancata concessione con regolare evidenza pubblica? Nessuna gara e nessun bando, in effetti, nemmeno stavolta. Così, anche per Fendi e la Fontana di Trevi potrebbe sollevarsi un agguerrito j’accuse di autority, associazioni, sindacati, o persino di altri imprenditori potenzialmente interessati. Seguito ovviamente, dal solito polverone mediatico. E vuoi vedere che magari qualcuno si metterà d’impegno per sottolineare ancora, con raccapriccio, quanto forte sia l’invadenza delle mega-aziende fashion italiane, nelle faccende che dovrebbero competere la gestione pubblica dei beni culturali? Uno scambio impari, si è spesso commentato: loro danno un po’ di quattrini, ma di fatto si impossessano dell’immagine di un capolavoro che appartiene alla collettività. Rapaci operazioni di branding o opportuna partecipazione dell’upper class danarosa alle politiche culturali nazionali? Filantropia o business? Nel frattempo, sarebbe forse il caso di iniziare a gestire queste preziose operazioni tramite appositi bandi, al fine di evitare rallentamenti, ostacoli e polemiche di sorta. A beneficiarne sarebbero le città italiane, che di investimenti per la cultura - pubblici o privati che siano - hanno sete, come non mai. Helga Marsala e Francesco Sala www.fendi.com
Bergamo contemporanea. Terzo anno per Artdate, l’art week firmata The Blank Un lungo weekend per l’arte contemporanea, a Bergamo. Tre giorni, da venerdì 17 a domenica 19 maggio, per godersi una sfilza di proposte. Il tutto sotto la bandiera, ormai ben piantata sul suolo cittadino, di The Blank, il network di spazi pubblici e privati nato nel 2010 per mettere in rete le migliori energie locali e portare avanti un progetto continuativo e collaborativo sulla promozione del contemporaneo. Per il terzo anno, The Blank propone dunque Ardate, grande opening urbano in cui inaugurazioni, visite guidate, talk, appuntamenti espositivi e performativi si susseguono ininterrottamente. Confermati i blitz negli spazi di artisti e collezionisti: per l’Apertura Collezioni è prevista una visita da Claudia e Giulio Pandini - quest’ultimo attuale presidente del Club GAMeC - mentre per la sezione Studio Visit apriranno le porte dei loro
LETTERE dA UNA PROfESSORESSA
di MARIA ROSA SOSSAI
LA POLONIA DI MIROSLAW BALKA La dodicesima lettera è indirizzata a Jimmie Durham, artista, attivista ed educatore. Un ricordo che inizia con le riprese di un film nel 2003 e arriva agli insegnamenti di una distruzione controllata. Caro Jimmie, ci siamo incontrati la prima volta nel 2003 a Paliano durante le riprese del film The Pursuit of Happiness, che stavi girando insieme ad Anri Sala; in quell’occasione, Mario e Dora Pieroni avevano chiesto a un gruppo di amici fra artisti, curatori, collezionisti di fare le comparse nel film. Intorno a te e alla troupe c’era un’atmosfera di allegra complicità. Pronunciavi le parole in modo lento e pacato, accompagnandole con uno sguardo sorridente, forse per manifestare la tua volontà di stabilire un contatto con tutti, riservando loro la massima attenzione possibile. Quei momenti vissuti insieme mi sono tornati in mente mentre rivedevo il film, proiettato all’interno della tua mostra personale inauguratasi di recente al MACRO di Roma. Ma a spingermi a scriverti questa lettera sono state soprattutto le immagini della performance Smashing da te realizzata nel 2005 a conclusione dell’incarico come visiting professor
alla Fondazione Ratti di Como. Eri intento a distruggere sistematicamente con una grossa pietra gli oggetti che i partecipanti al workshop poggiavano su un tavolo davanti a te. Il modo in cui eseguivi queste distruzioni, ritmate dal rimbombo della pietra che sbatteva sul tavolo, presentava una serie di elementi in stridente contraddizione fra loro: la potenziale violenza dei gesti era bilanciata da un misurato controllo, l’incongruità del contesto si scontrava con la ripetitività rituale dell’azione. Inoltre, dopo ogni annientamento rilasciavi una certificazione con bollo, riponevi la penna nel taschino della giacca e il bollo dentro il cassetto, con la pedanteria tipica del burocrate di un ufficio del catasto in antitesi con la solennità dei tuoi gesti. Dalla visione dell’opera emergeva l’insegnamento che ogni crescita prevede la messa in discussione e il superamento di quello che già esiste. Le tue sobrie demolizioni erano un modo di aprire gli occhi sull’esperienza artistica che deve conservare la freschezza dell’imprevedibile e tenere alta la curiosità sui suoi esiti. L’attivismo politico maturato nel Movimento Indiano d’America ti ha insegnato a trasformare i gesti apparentemente devastatori in un dispositivo utile a riappropriarsi della Storia, ren-
atelier Mario Cresci, Italo Chiodi, Ferdinando Ferrario, Dreamland (Marco Travali e Rita Casdia) e Upper Art (Paolo Baraldi, Daniele Maffeis, Simone Longaretti ), oltre allo studio di architettura Azero e allo studio di produzione multimedia 341 Production. Confermato anche Art Passport, il “passaporto dell’arte” su cui si potranno collezionare i timbri disegnati da artisti e poi apposti presso musei e gallerie coinvolti. Ogni passaporto diventa così una piccola opera d’arte assolutamente unica. Sono 17 gli spazi e le istituzioni che aderiscono quest’anno, tra cui la GAMeC, l’Accademia Carrara di Belle Arti, BAF - Bergamo Arte Fiera, il nuovissimo BACo – Base Arte Contemporanea, Shots Gallery, Spazio Estro, Studio Vanna Casati, Thomas Brambilla, Temporary Black Space. Helga Marsala www.theblank.it
“Sarò il nuovo Amelio”. Cicelyn si appresta ad aprire la sua galleria a Napoli Uscito un po’ ammaccato e deluso dalla vicenda del Madre, museo che ha contribuito a creare, Eduardo Cicelyn deve a questo punto ricollocarsi. E deve farlo a maggior ragione dopo aver bucato anche l’iniziativa di bloccare il concorso internazionale per la nomina del nuovo direttore del Madre. Senza più un ruolo in città (dopo averne determinato le fortune artistiche nell’ultimo quindicennio, a partire dalle grandi installazioni in piazza Plebiscito) e senza il generoso stipendio regionale, Cicelyn aveva dunque bisogno di una nuova vita, anche per dimenticarsi le brutte vicissitudini che lo hanno portato addirittura a querelare tutta una vasta platea di suoi ex colleghi (l’Eduardo nazionale nasce giornalista), rei di averlo eccessivamente incalzato durante il Madre-gate. A quanto pare, questa nuova vita sarà da gallerista. Di più: da novello Lucio Amelio. “Voglio ripetere l’epopea del gallerista che aprì a piazza dei Martiri nel 1969”, pare vada ripetendo Cicelyn in giro per la capitale del Sud. Un obiettivo ambizioso che parte dallo spazio espositivo: è qualcosa di più di un’indiscrezione, infatti, la location della nuova galleria. Proprio quel Palazzo Partanna, proprio quella stessa piazza dei Martiri e proprio quello stesso piano nobile che ospitò la Galleria Lucio Amelio (e in anni recenti quella non meno potente di Alfonso Artiaco). Accreditate fonti all’ombra del Maschio Angioino danno per già firmato il contratto d’affitto con la proprietà e dunque, al netto di qualche lavoro di adeguamento, imminente l’apertura. Forse anche prima dell’estate. Già, ma con cosa? I bene informati sono pronti a giurare che si tratterà di una collettiva di artisti inglesi, di cui alcuni già passati in mostra al Madre proprio durante la gestione Cicelyn. Un piccolo rischio di conflitto di interessi si palesa, dunque. E viene sottolineato da un operatore partenopeo che chiede di restare anonimo: “Cicelyn già viene a inserirsi in un contesto in crisi investendo i tanti soldi guadagnati grazie a un lauto stipendio pubblico, almeno potrebbe evitare di utilizzare a suo beneficio commerciale artisti che sono cresciuti e conosciuti a Napoli grazie a investimenti collettivi che tra l’altro, a posteriori, si sono rivelati eccessivi e comunque non sostenibili”. Insomma, c’è di mezzo Eduardo Cicelyn e, nel bene o nel male, qualche polemica non mancherà.
NUOVO SPAZIO
dendo la conoscenza uno strumento democratico e non più un esercizio al servizio del potere. Il libero arbitrio e l’affermazione del principio di libertà si attuano attraverso processi di decostruzione che sono il perno attorno a cui ruota il processo creativo e, aggiungerei, qualsiasi atto formativo. Il vero educatore è quindi colui che si fa carico dell’impossibilità di insegnare e custodisce consapevolmente il vuoto di sapere che ne deriva. Sulla scia di quanto affermato da Martin Heidegger, che nel 1951 scriveva “il pensiero più provocatorio è quello che non abbiamo ancora concepito”, l’attività intellettuale consiste nella valorizzazione di quello stiamo facendo e pensando in questo momento, conferendo così un senso sempre nuovo al nostro stare al mondo. Ritengo di avere ricevuto un insegnamento dalla tua generosità, quando alla fine delle riprese del film ci hai raccolto intorno a te e hai regalato a ognuno di noi un disegno come ringraziamento per la nostra partecipazione al film: il mio ha al centro una casetta con sopra una freccia e la parola “a house” seguita a destra dalla scritta: “many more houses, high-rise apartment buildings, museums, churches, banks, etc.”.
MONTORO12
ROMA
Un collezionista e una docente dell’Università americana a Roma. Un palazzo del Seicento. L’esordio con un grande del Novecento, Dennis Oppenheim. Presentazione in grande per Montoro12, nuova ruggente proposta capitolina. Chi ha promosso la nascita di Montoro12 e da che estrazione provengono i nuovi galleristi? Montoro12 nasce da un’idea di Ursula Hawlitschka, direttrice della cattedra di Storia dell’Arte dell’American University of Rome, che prima di trasferirsi in Italia ha collaborato con importanti gallerie di New York, e di un collezionista romano. È un periodo in cui purtroppo molte gallerie chiudono. Da dove arrivano le motivazioni profonde per investire in un momento come questo? Le motivazioni nascono dalla volontà di creare un progetto internazionale che dia visibilità anche all’estero, oltre che in Italia, ad artisti emergenti e già conosciuti del panorama artistico del nostro Paese. Su che tipo di clientela e pubblico puntate? Il tipo di pubblico che vorremmo raggiungere è, oltre ovviamente a quello dei collezionisti, è costituito da persone che trovano motivazioni e interesse per avvicinarsi al contemporaneo. Cosa c’era al posto della vostra galleria? In che spazi vi siete installati? Era un magazzino di un palazzo secentesco del centro di Roma, Palazzo Montoro. Si tratta di un ambiente unico molto alto, che si presta perfettamente a mostre e installazioni. Cosa state proponendo, dopo la prima importante personale dedicata a Dennis Oppenheim? Dopo la mostra dedicata a Oppenheim - che per noi è un tributo a un immenso artista che abbiamo avuto la fortuna e l’onore di conoscere personalmente abbiamo allestito una personale di Alfonso Fratteggiani Bianchi, a cui seguirà un’altra mostra prima dell’estate e due tra settembre e dicembre. Via di Montoro 12 06 68308500 info@montoro12.it - www.montoro12.it
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IL MONDO IN UNA PAGINA
Nonostante l’avanzare dell’e-book e le immense potenzialità del digitale, il fascino della carta stampata resta immutato. Forme, materiali e odori dell’editoria tradizionale non smettono di stimolare l’immaginazione. Per tutti i bibliofili, una carrellata di accessori e gadget a tema. di ValenTina Tanni
TOMI PORTATILI Si chiama BookBook ed è una custodia protettiva per il vostro computer portatile fatta a forma di libro antico. L’esterno è rigido e foderato di pelle, l’interno invece è soffice, per attutire gli urti. Ogni esemplare viene realizzato a mano ed è diverso da tutti gli altri. Efficace anche come antifurto. www.twelvesouth.com
LA SPINA DORSALE DEL SAPERE Una libreria ispirata alle forme anatomiche. Si chiama Schiena ed è frutto dell’immaginazione del bolognese Pietro Travaglini. Flessibile, luminosa e adatta a ogni tipo di ambiente, questa piccola libreria è composta di sette elementi scorrevoli che possono essere posizionati in configurazioni sempre diverse. www.pietrotravaglinidesign.com
ORDINE ALFABETICO Pensato per essere allo stesso tempo un divisorio e uno scaffale portaoggetti, Aakkoset,, mobile disegnato dal progettista finlandese Lincoln Kayiwa, è una proposta divertente per tutti gli ambienti. Per i maniaci dell’ordine (alfabetico). www.kayiwa.fi
LE ARMI DELLA CULTURA Di fermalibri divertenti ce ne sono molti in commercio, ma il Katana Bookend, Bookend prodotto da Just Mustard, è di sicuro il migliore. Allineate i vostri romanzi preferiti e fateli sembrare trafitti da una minacciosa e affilata spada giapponese. Consigliato ai fan di Tarantino. www.justmustard.com
PAGINE ACCESE Lumio è una lampada a forma di libro che si accende quando è aperta e si spegne quando è chiusa. Portatile e funzionante a batteria (dura fino a otto ore consecutive), può anche essere appesa a mo’ di lampadario. Quando è chiusa, occupa lo spazio di un’agenda. www.hellolumio.com
PETALI DI INCHIOSTRO Florilegi di parole. Letteralmente. Questi romantici bouquet sono realizzati utilizzando pagine riciclate da vecchi libri: romanzi, poesie, manoscritti. Ideali per decorare la casa, ma anche per un bouquet nuziale alternativo. Sono fatti a mano e in vendita su Etsy. www.etsy.com/shop/annemusingdesigns
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CONSIGLI
SEGRETI BIBLIOTECARI Custodiscono segreti, oggetti preziosi o semplicemente ricordi da tenere al riparo da occhi indiscreti. Sono i Secret Storage Books, veri volumi scavati all’interno per nascondere quello che il mondo non deve vedere. Una tradizione antichissima, rinnovata da una piccola azienda canadese che può vantare quindici anni di attività. www.secretstoragebooks.com
LIBRO, DOLCE LIBRO È una lampada ma anche un poggia-libro. In più, è a forma di casetta. Cosa volere di più? Questo delizioso oggetto si chiama Bookrest Lamp ed è progettato dalla Suck Uk, azienda inglese di design creativo. Per leggere con la luce giusta e non perdere mai il segno. www.suck.uk.com
PROTETTI DALLA CONOSCENZA Per i campeggiatori bibliofili c’è la Fully Booked Tent, divertente tenda da campeggio a forma di libro aperto. Disegnata dall’inglese Jack Maxwell, ospita due persone ed è prodotta con materiali di altissima qualità. Per leggere al riparo da qualsiasi condizione climatica. www.fieldcandy.com
RICETTE SHAKESPIRIANE Dal genio dei designer parigini di Atypyk nasce la Romeo & Julienne Cutting Board, un divertente tagliere in legno a forma di libro. Un regalo ideale per gli amanti della letteratura classica e della buona cucina. Oltre che dei giochi di parole… www.atypyk.com
IMPARARE A GUARDARE
Gran parte dell’estetica occidentale si basa sul senso della vista. Ma essere in grado di vedere non basta. Occorre esercitare lo sguardo per poter godere appieno dell’arte, e del mondo. Abbiamo allora selezionato qualche strumento utile, dai saggi alle testimonianze, fino ad alcuni esempi di godibilità più o meno immediata. di marco enrico giacomelli
SGUARDI PERICOLOSI Cita il Libretto Rosso di Mao. Solo che ha la copertina nera e il titolo inciso in color oro. Sono aforismi e statement di Ai Weiwei, l’artista e architetto noto per le noie giudiziarie con il sistema giuridico cinese. In italiano è disponibile anche la traduzione del suo blog, edito da Johan & Levi. Ai Weiwei Weiwei-isms - Princeton U.P.
LEGGERE CIÒ CHE SI VEDEVA I primi film d’animazione italiani? I fratelli Dinamite e La rosa di Bagdad. Risposta errata. La Scrimitore dimostra come la storia (del cinema) possa essere approfondita e in parte riscritta. E presenta tutto ciò che sulle pellicole fu impresso dal 1911 al 1949, anno della proiezione dei cartoon succitati. Raffaella Scrimitore - Le origini dell’animazione italiana - Tunué
L’OCCHIO DEL COLLEZIONISTA “Qual è la sua passione?”. “Osservare”. Sta (quasi) tutta qui la ricchezza intellettuale di Giuseppe Panza. La voce di uno fra i collezionisti più importanti del nostro Paese, e quella della moglie Giovanna, al microfono di Philippe Ungar. Per attraversare la vicenda di chi ha collezionato l’incollezionabile. Giuseppe e Giovanna Panza collezionisti - Silvana Editoriale
OLTRE LO SPECCHIO Il testo è il classico del 1865 nella traduzione di Milli Graffi. Ma i disegni, i disegni… Il vivacissimo editore romano Orecchio acerbo pubblica nientemeno che le visioni di Yayoi Kusama, ovvero disegni, certo, ma anche incursioni tipografiche, commenti retinici, inserti optical e naturalmente tanti pois. Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie - Orecchio acerbo
INTROSPEZIONI PUBBLICHE Guardare se stessi, uno degli atti più complessi. E magari immortalarlo: è l’autoscatto. Bonomi ne indaga storia e metodo e poetica nella fotografia contemporanea, in un libro riccamente illustrato che comprende 700 artisti e quarant’anni di scatti. Fra i capitoli più interessanti, quello sul corpo assente. Giorgio Bonomi Il corpo solitario - Rubbettino
GUARDARSI INDIETRO Nel 1967 lo storico dell’arte Pierre Schneider invita al Louvre: Chagall, Sam Francis, Giacometti, Miró, Barnett Newman, Riopelle, Soulages, Saul Steinberg, Bram van Velde, Maria Elena Vieira da Silva e Zao Wou-Ki. In quelle sale ormai non c’è più nulla di interessante? Undici dialoghi per scoprirlo. Pierre Schneider Louvre, mon amour - Johan & Levi
AGUZZA LA VISTA Piste da sci e impianti di risalita; piscine e scivoli di acquapark; bar e teatri, ponti e scale di navi da crociera. Sono i soggetti dell’ultimo, tripartito volume del fotografo Stefano Cerio. Soggetti dai quali la presenza umana è escissa, mentre gli scenari sono colti in momenti disfunzionali: piscine vuote, seggiovie in notturna… Stefano Cerio - Vice versa - Contrasto
SUPPORTI ALLA VISIONE Della mania infografica abbiamo già parlato e praticato su Artribune Magazine. Taschen ha sfornato uno dei suoi volumoni sull’argomento, con un approccio anche storico che parte da Lascaux e dagli Antichi Egizi. Per poi passare a esempi suddivisi negli insiemi Location, Time, Category e Hierarchy. Sandra Rendgen Information Graphics - Taschen
per gli acquisti 17
APPROPOSITO IMUSEUM RESCUE iMuseum Rescue è un bel gioco a tema museale, un passatempo ipnotico e accattivante per grandi e piccini. La missione è semplice: è scoppiato un incendio nel museo e bisogna manovrare i mezzi dei pompieri per salvare i visitatori che si gettano dalle finestre per salvarsi dalle fiamme. La musica ricorda la migliore tradizione dei videogiochi “arcade” ed è talmente semplice da essere a prova di bambino. Qualche difettuccio c’è, come le fastidiose pubblicità, ma possono essere evitate acquistando la versione full del gioco, in vendita a meno di un euro. Il tema, purtroppo, è diventato di triste attualità lo scorso 14 febbraio, quando un vero incendio è scoppiato al MAGA di Gallarate, seguito, a meno di un mese di distanza, dal terribile rogo alla Città della Scienza di Napoli. Speriamo che i giochi ispirati ai musei aumentino, e magari non solo a tema incendiario… itunes.apple.com costo: gratis / ¤ 0,89 per la versione full piattaforme: iPhone, iPod Touch, iPad
NUOVO SPAZIO
di SIMONA CARACENI
ART LAB Esistono moltissime app per disegnare, ma una delle più belle e divertenti è prodotta dal MoMA di New York. Permette di esibire la propria creatività in molti modi: disegnando con lo stile degli artisti esposti nel museo, creando composizioni sonore, poemi fatti di parole o di forme. Si può anche collaborare in gruppo, colorare, tagliare e scoprire informazioni su Henri Matisse, Elizabeth Murray, Jean Arp, Jim Lambie, Brice Marden e molti altri. Ovviamente è possibile condividere le proprie creazioni sui social network. Deliziosa per i grandi, ma anche curatissima per i bambini, la app è davvero utile per tutta la famiglia. Da non sottovalutare, infatti, le funzioni attivabili solo dai “grandi”, come quella che permette di gestire la condivisione sui social e quella che consente di guidare al meglio i propri figli durante il processo creativo. www.moma.org costo: gratis piattaforme: iPad
BY GALLERY
MILANO La zona è quella, intesa in senso ampio, di Porta Venezia. E in quelle sale si selezionavano modelle. Ora c’è una galleria gestita da due giovani appassionati, che per la loro scuderia guardano anche a Documenta. Come nasce l’idea di BY gallery Nasce dalla grande passione per l’arte contemporanea che accomuna due giovani: Tatiana Yasinek, con dieci anni di esperienza come P.R. e assistente di galleria, e Roberto Borgonovo, collezionista e appassionato d’arte. Il proposito è poter condividere questa passione.
Com’è partire con una nuova iniziativa in un periodo di grande crisi? La crisi accomuna tutti i settori, e riteniamo che la qualità sia l’elemento fondamentale che determini il successo o meno di qualsiasi attività imprenditoriale. Inoltre le opere d’arte sono un bene “emozionale” che risponde a dinamiche di mercato differenti da quelle comuni, meno correlate all’andamento economico generale. Infine riteniamo che, anche dal punto di vista economico, l’investimento in arte possa essere proficuo. Aprendo avete pensato alla tipologia di pubblico e clientela? Nessuna tipologia in particolare, ma tutti i collezionisti e appassionati di arte contemporanea. Rivolgendo la nostra ricerca principalmente su giovani artisti internazionali, speriamo anche di poter coinvolgere tutti i giovani collezionisti che si sono da poco interessati a questo fantastico mondo. Se doveste sintetizzare in tre parole la linea della galleria, cosa direste? Giovane, dinamica, versatile. Raccontateci dei vostri spazi espositivi. Come sono, cosa c’era prima? Pensiamo che il nostro spazio sia molto bello, ce ne siamo subito innamorati: è molto luminoso e con il soffitto alto quasi 5 metri. Insomma, perfetto per una galleria d’arte. Prima c’era un’agenzia di recruitment di modelle: penso che i vicini preferissero il precedente inquilino! E ora una anticipazione sulle prossime mostre. Siamo in contatto con alcuni giovani artisti, tra cui un fotografo americano (classe 1981) che ha appena esposto a dOCUMENTA (13). Ora abbiamo in galleria una personale di Timothy Greenfield-Sanders. Via Garofalo 31 02 36750934 info@bygallery.it - www.bygallery.it
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NEWS
UNESCO WORLD HERITAGE L’Unesco ha realizzato, in occasione del suo 40esimo anniversario, una app per scoprire i siti inseriti nella lista ufficiale del Patrimonio mondiale, in collaborazione con Harper Collins e Aimer Media. In poco tempo l’applicazione ha totalizzato più di 13mila download da iTunes. Non male, considerando che il prezzo di lancio nel 2011 è stato di 7,99 dollari, per poi scendere a 4,99 e infine arrivare agli attuali 2,99. Il sito MuseumToGo l’ha censita fra le app più costose di tutti i tempi, insieme alle applicazioni di ambito medico e alle utility di lavoro. È anche interessante notare che, cercando su iTunes “Unesco World Heritage” compaiono ben 113 app, perlopiù gratuite, che offrono contenuti prelevati da Wikipedia o da altre risorse online che sembrano comunque alternative dignitose. Un bel successo, dunque, per l’applicazione ufficiale, che ha saputo battere la concorrenza con un prodotto evidentemente ben fatto. O sarò stato il marchio Unesco ad attirare gli utenti? whc.unesco.org costo: ¤ 2,99 piattaforme: iPhone, iPod Touch, iPad
Arte e informazione. Alla Quadriennale di Roma due giorni di workshop trasversali per fare il punto sulla comunicazione nel settore Quadriennale di Roma in crisi? Certo, metabolizzare l’annullamento dell’edizione prevista della mostra storica, quella che dà il nome all’istituzione, non è cosa da poco. Ma dalle parti di Villa Carpegna non ci stanno a tirare i remi in barca: e rilanciano, con un grande evento dedicato al ricco tema Arte e informazione. Una due-giorni che il 19 e 20 aprile vedrà nella Capitale confrontarsi i responsabili dei programmi e delle pagine culturali sui mezzi di comunicazione mainstream (televisione, radio, carta stampata, internet), i direttori delle testate d’arte contemporanea cartacee e su web oggi prodotte in Italia, in dialogo con critici d’arte e specialisti. Il workshop, aperto al pubblico, è accompagnato da una mostra delle principale riviste d’arte contemporanea made in Italy, tratte dalla raccolta del centro di documentazione della Quadriennale, l’ArBiQ. Qualche nome dei protagonisti dei workshop? Stefano Monti, Filipa Ramos, Angela Vettese, Franco Debenedetti, Marco Senaldi, Philippe Daverio Elena del Drago, Massimiliano Tonelli, Roberto Pisoni - direttore di Sky Arte HD -, Umberto Allemandi, Giancarlo Politi. www.quadriennalediroma.org
Pisapia dimissiona Boeri. Al suo posto il fedelissimo Filippo Del Corno. Costa caro all’architetto l’ultimo battibecco sui budget per le mostre Si chiude con amarezza e sconforto il rapporto da sempre burrascoso che a Milano ha visto protagonisti Giuliano Pisapia e Stefano Boeri, con il sindaco che ritira le deleghe al più scomodo dei suoi assessori, approfittando del rimpasto seguito al definitivo
DOMUS ACADEMY HA UN NUOVO DIRETTORE INTERVISTA CON GIANLUIGI RICUPERATI vita, per la propria carriera, per la propria passione. L’educazione è il fatto trasformativo per antonomasia, e in tempi deliranti e interessanti come quelli in cui stiamo è giusto e bello essere ‘quanto mai visionari’, come mi ha suggerito Ute Meta Bauer, magistra, quando le ho detto che stavo facendo colloqui per la direzione di Domus Academy.
La notizia è circolata rapidamente. Ma è il caso di saperne qualcosa in più. E così abbiamo incontrato il diretto interessato. Perché il ruolo di dean alla Domus Academy è di quelli rilevanti assai. Ecco come ha risposto Gianluigi Ricuperati [nella foto di Sebastiano Pellion] alle nostre domande. Sei il nuovo dean della Domus Academy. In pratica che ruolo avrai? Quello del direttore della scuola. C’è una parte di invenzione, una parte di gestione, una parte di rappresentanza: da miscelare a seconda delle occorrenze e della strategia. Scegliere maestri straordinari, aiutare la macchina a muoversi bene, metterci la faccia quando serve. Fra le parole chiave che hai proposto, c’è la multidisciplinarietà. Un approccio che a Torino conosciamo bene, visto che in quel senso hai ordinato l’ultima edizione di Giorno per giorno. Alla Domus Academy come si tradurrà questo concetto? Questa scuola è sempre stata multidisciplinare: il corso di ‘tendenze espressive’ negli Anni Ottanta era affidato a uno dei fondatori, Pierre Restany. Un altro dei fondatori, Alessandro Guerriero, è una voce tuttora molto presente nel campus. La moda la seguiva Gianfranco Ferrè, che era nato come architetto ed era uomo colto e curiosissimo. I maestri del design in senso proprio, da Mendini a Sottsass a Branzi, sono tutti intellettuali che hanno anche fatto i progettisti: il dialogo tra discipline avviene sempre su un terreno instabile, pericoloso, avventuroso. Ma attenzione, non è un’opportunità. È l’unica chance. L’idea che un futuro progettista di oggetti o spazi non legga il libro che sto leggendo ora, per esempio, 2050 di Laurence C. Smith (Einaudi), un saggio-reportage su come il mondo intorno ai poli sarà il ‘centro’ dell’attività politica ed economica fra trent’anni – un libro fantastico e inquietante, molto preciso e sostenuto da un magistero scientifico assolutamente attendibile; ecco, l’idea che questo libro non venga letto da chi dovrà disegnare il mondo fisico e immateriale di domani, ecco, è un’opzione che non voglio considerare. È questione di urgenza. Chi hai già in mente nel ruolo del visiting professor?
e volontario addio di Bruno Tabacci, che aveva lasciato la fondamentale delega al bilancio. Il tutto a metà marzo, dopo la dolorosa approvazione del Rendiconto 2012 e la richiesta di Pisapia di tirare la cinghia, a fronte di un bilancio 2013 a rischio sforamento del patto di stabilità. A margine la polemica fra lo stesso sindaco e Boeri, i cui investimenti di 160mila euro per due mostre erano ritenuti poco in linea con il regime di austerity voluto da Palazzo Marino. “Sono amareggiato per una decisione che non mi è stata motivata, che mi è davvero difficile interpretare e che rischia di compromettere importanti progetti per il futuro della città”, ha commentato l’architetto. Il posto di Boeri è andato a Filippo Del Corno: compositore, classe 1970, tra le anime del think tank allargato - il gruppo dei cosiddetti “Mille” che aveva steso il vittorioso programma elettorale di Pisapia. E che aveva ottenuto come premio per il proprio supporto la carica di presidente della Fondazione Milano, potente braccio operativo di Palazzo Marino nella gestione delle scuole civiche (Paolo Grassi su tutte). Francesco Sala
Ora è presto per dirlo, anche se ovviamente ci stiamo già lavorando, insieme a Italo Rota e ad Alberto Bonisoli e a Marc Ledermann, i vertici del campus che unisce Domus Academy e Naba, ora di proprietà di Laureate Universities. Posso anticipare che si tratterà di menti di prim’ordine, di qualità internazionale, e perfettamente sospese tra l’ovvietà di ‘scegliere i migliori’ e la vera sfida, che è scegliere quelli che domani saranno considerati da tutti gli altri ‘i migliori’. Un altro punto sul quale hai insistito è la coniugazione di didattica e visionarietà. Ci spieghi meglio cosa intendi? È importantissimo, mai come ora, fare uscire da qui persone che abbiano la forza e la competenza non solo per ‘inserirsi’ nel mondo del lavoro, ma per inventare nuove professioni, che compaiono agli occhi attenti di mese in mese, soprattutto in quel catino infinito di possibilità e prospettive che è la ‘progettualità digitale’. Oggi non si può più pensare che ‘design’ sia solo realizzare splendidi complementi d’arredo, o spazi speciali: certo, la tradizione e l’industria del mobile sono centrali, ma come ignorare che il disegno pensato della vita digitale è l’orizzonte ovvio e inevitabile di migliaia di ragazze e ragazzi under 24 che vogliono ‘progettare’? E a Domus Academy c’è già uno splendido staff che nei settori del design della moda e dell’urbanistica dà opportunità reali a studenti che vengono da tutto il mondo. Ma per rispondere alla tua domanda, chi viene qui desidera trasformarsi per il meglio. Per la propria
La Domus Academy ha una percentuale di studenti stranieri che sfiora la totalità. Significa che l’Italia, e Milano in particolare, ha ancora qualcosa da dire? Oppure si “vive di rendita”? Io credo che in parte viva di rendita, e in parte abbia qualcosa da dire, ancora. È nostra responsabilità bilanciare questa miscela, e non farla esplodere in mano. È mia responsabilità, in questo caso, nostra, tua, sua. È la sfida politica in senso ‘alto’ più cocente che il Paese possa affrontare adesso, perché è connessa con la reputazione, e la reputazione è connessa con la produzione di lavoro, e la produzione di lavoro è connessa col benessere e la coesione sociale, e con la bellezza e la difficoltà di vivere oggi, in un tempo di rivoluzioni. Come vedi, non sto parlando solo di ‘design’, perché il ‘design’ è parte di un sistema, e non può essere portato avanti in solitaria. È necessario coltivare visioni d’insieme piene di minuscoli dettagli ingranditi. Si dice, spesso a ragione, che l’Italia non è un paese per giovani. Tu però hai 35 anni. Commenti? Mi sono dato da fare, e ho incontrato persone come Italo Rota, che mi ha tirato dentro questo progetto di Domus Academy a piccoli e poi grandi passi: Italo, pur essendo nato nel 1953, non soffre come tanti suoi coetanei della sindrome di Crono. Tanti altri miei coetanei, si danno da fare, anche meglio di me, anche di più. E ricevono porte in faccia. Ma cambierà, e sta già cambiando. Senza l’apporto degli under 40 - di questi under 40, immersi o più vicini alla natività digitale - nessun anello di questa beata catena chiamata Italia saprà rilanciarsi, sopravvivere, e prosperare. MARCO ENRICO GIACOMELLI www.domusacademy.it
GESTIONALIA
di IRENE SANESI
CULTURELESS GROWTH? Può esserci crescita senza cultura? La provocazione non è casuale e l’espressione Cultureless Growth nasce nell’alveo di quel trend economico postmoderno in cui si assiste a una crescita senza creazione di posti di lavoro (Jobless Growth), in larga parte generata dal fenomeno clouding. In effetti, viviamo in un’epoca paradossale. Sul mercato finanziario e speculativo globale crescono con costanza e stabilità i rendimenti dei fondi d’arte: hanno fatto notizia le performance dei violini dei maestri liutai cremonesi, considerati dagli investitori “beni rifugio”, dotati al contempo di materialità e della sacra aura intangibile. Il Fine Violins Found, fondo lanciato nel 2008 da Florian Leonhard, tra i principali investitori londinesi in arte, ha già raccolto 50 milioni di euro. Sul mercato locale, intanto, sembra non interessare lo sviluppo di una soft economy nell’ambito dei beni culturali. L’attenzione è prevalentemente alla tutela o, come spesso si usa dire, alla salvaguardia, quasi a indicare lo stato di emergenza in cui versa il patrimonio culturale, e alla valorizzazione, che rimangono le basi delle politiche culturali. La cura dell’artefatto dovrebbe piuttosto andare di pari passo con un investimento nei linguaggi contemporanei, che sono fondamentali per cambiare i mores e costruire un sistema basato su relazioni e identità dinamiche, oltre che sulla qualità. Chi avesse inteso la soft economy come sola offerta di mostre ed eventi ha compreso male: meno circenses, più produzione culturale, connessioni “glocreal” (globale, creativo, locale) e innovazione gestionale. Forse vale la pena ribadire il concetto, visto che ci troviamo in una rubrica che si intitola Gestionalia: senza l’insieme dei comportamenti con cui un’impresa culturale si esprime, nell’esistente e nelle sue prospettive (la gestione, appunto) non si darebbero né tutela né valorizzazione. Da questo punto di vista, combinando fatica e intuizione, possiamo ancora innovare, “non essendo il miglior giocatore, ma ideando nuovi giochi”. E quando si utilizzerà la parola management, come del resto accade trattando della gestione delle risorse, non dimentichiamo che l’accezione del verbo ‘to manage’ (da manus: opera, azione, impresa) riguarda anche la gestione della conoscenza: “Non esistono risorse senza conoscenza. È strategico il come orientare e usare la nostra acquisizione di conoscenza”. La finanza (letteralmente tutto ciò che ha un fine) ha sbagliato molto di recente, ma alcune scelte, come il Fine Violins Found, insegnano molto e ci raccontano una storia (altrettanto recente) di investimenti che coniugano artefatto (materiale) e conoscenza (intangibles) nel nome di Amati, Guarneri del Gesù, Stradivari. A ribadire che non ci sono crescita né rendita senza cultura.
NEWS 19
NUOVO SPAZIO
VAN dER
TORINO
Prima si chiamava Fart ed era un progetto nomade. Dopo un anno di progetti in giro per la città, è ora di prendere casa. Nasce così Van Der, galleria con uno stretto legame con la grafica. D’altra parte, gli spazi sono quelli che ospitavano la storica Galleria Franco Masoero. Come nasce l’idea della Van Der? Nasce dagli insegnamenti e dall’irrequietezza di anni di gavetta. Dalla volontà di fare qualcosa in autonomia. Dall’esigenza di creare uno spazio vivace, aperto alle collaborazioni, prima fra tutte quella con il progetto di grafica d’arte PrintAboutMe, i cui progetti vengono spesso presentati negli spazi di Van Der. Com’è partire con una nuova iniziativa come questa in un periodo di grande crisi? È una sfida ma credo sia il momento giusto. Se non altro proprio per il periodo. Crisi: tutti ne parlano. Sembra una parola magica, capace di cambiare l’umore, i pensieri, le azioni delle persone. La senti e ti viene un brivido. È come trovarsi nelle sabbie mobili con tutti attorno che ti danno un unico consiglio: sta fermo, altrimenti affondi. Ho capito, magari non affondi, però nemmeno ne esci. Allora, per come la vedo io, meglio muoversi e vedere che succede. Aprendo avete pensato al tipo di pubblico e clientela? L’idea è essere trasversali. Con i progetti e i lavori di PrintAboutMe ci rivolgiamo a chiunque. Le stampe d’arte che proponiamo partono da prezzi accessibili anche dagli studenti. Mentre Van Der porta avanti in maniera autonoma una ricerca più contemporanea, il cui obiettivo è presentare giovani artisti che speriamo possano interessare i collezionisti attenti alle novità.
Le private sales uccidono Haunch of Venison. Dopo sei anni Christie’s esce dal mercato galleristico L’avevamo scritto più volte, del sempre maggiore impatto che le private sales andavano assumendo nel bilanci delle grandi case d’asta internazionali. Ora questo trend giunge all’estremo e conduce Christie’s ad annunciare la chiusura di Haunch of Venison, la galleria acquisita nel 2007 dai mercanti Harry Blain e Graham Southern, con due sedi, a Londra e a Chelsea. “Le vendite private sono in crescita esponenziale, e la decisione presa è che è lì che ci si debba concentrare”, ha dichiarato a Bloomberg Emilio Steinberger, senior international director della galleria. Un impoverimento, per il panorama galleristico globale: negli anni, Haunch of Venison ha lavorato con grandi artisti come Frank Stella, Gunther Uecker, Giuseppe Penone, Patricia Piccinini. Altri grandi nomi, da Bill Viola ad Anton Henning a Matt Collishaw, avevano invece seguito i due fondatori nella loro nuova galleria, la BlainSouthern, con sedi a Londra e Berlino. haunchofvenison.com
Terremoto a Los Angeles. Il LACMA mette sul tavolo 100 milioni di dollari per comprarsi il MOCA
Via Giulia di Barolo 13c 333 5205386 vandergallery@hotmail.com - vandergallery.blogspot.it
Se non è il Big One, il catastrofico terremoto che pende sulla testa dei californiani, atteso quando la faglia di Sant’Andrea dovesse decidere di risvegliarsi, poco ci manca. L’area è quella, Los Angeles per la precisione, e la geografia in questo caso è una geografia museale, quindi più innocua della sismologia. Ma la portata della notizia è comunque deflagrante: in sintesi, il LACMA si mangia il MOCA. Meno brutalmente, il Los Angeles County Museum of Art presenta un’offerta formale per acquisire il Museum of Contemporary Art Los Angeles. Lo stesso LACMA, con un documento pubblicato sul proprio website, ha presentato poi la novità con toni diversi, come una profferta di fusione “non ostile”, per usare un termine finanziario. Ma dietro a questo atto si nascondono tutte la rivoluzioni in atto da tempo nel sistema museale losangeleno: in primis, il cupio dissolvi nel quale fin dal suo arrivo il direttore-star Jeffrey Deitch ha trascinato - probabilmente aiutato da conti non proprio in ordine - quello che era uno dei musei di contemporaneo più importan-
BRAIN dRAIN
di NEVE MAZZOLENI
Se doveste sintetizzare in tre righe la linea della galleria? In realtà ci saranno due linee che viaggeranno in parallelo. La prima è l’attività di Van Der come spazio di ricerca. La seconda è Van Der come spazio di presentazione dei progetti di PrintAboutMe. Gli spazi espositivi: come sono, cosa c’era prima? Sono 55 mq calpestabili, 120 di pareti bianche e 4 vetrine su strada. Il caso, o la provvidenza, ha voluto che prima di noi ci fosse un’altra galleria con annessa stamperia d’arte. Insomma, era il posto perfetto. E ora una anticipazione sulle prossime mostre di qui alla fine della stagione. Il 2013 l’abbiamo iniziato preparando con calma e puntiglio il progetto per lo stand alla fiera Set Up di Bologna. A febbraio abbiamo inaugurato la prima personale a Torino di Cristiano Tassinari. Segue la prima personale in Italia di Sophie Lecuyere, giovane artista francese di cui abbiamo prodotto anche un libro d’artista con PrintAboutMe. Poi continueremo con progetti di Daniele Catalli, Ernesto Di Franco, Wim Starkenburg...
ZARA AUDIELLO | VENEZIA BELGRADO Ha aperto una project room a Belgrado, organizza tour d’artista per Berlino, si definisce “curatrice combattente”. Ma l’obiettivo principale di Zara Audiello è creare uno scambio fra Serbia e Italia. Anche per questo ha lasciato Venezia. Come sei arrivata in Serbia? Sono anomala rispetto alla tendenza della “fuga di cervelli”: la Serbia infatti patisce una grave recessione, peggiore della nostra. Vivendo a Venezia, sin dai tempi degli studi viaggiavo per la penisola balcanica, costruendo i miei riferimenti. Ho seguito la mia ricerca intorno al conflitto, inteso sia come combattimento che come antagonismo storico, lotta di classe. Mi definisco una “curatrice combattente”. Cerco forme artistiche non fini a se stesse, ma che gravitino intorno ad azioni di trasformazione sociale. La Serbia è autentica in questo senso. Com’è la comunità artistica locale? Triste e dura insieme. C’è una diffusa ironia e cinismo nelle forme espressive, un senso di disincanto. Nell’assenza quasi totale di istituzioni, la scena indipendente è ricchissima, in fermento e libera nella sua destrutturazione. Se qualcuno ha un’idea, la mette in campo, anche perché l’attenzione del
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NEWS
pubblico, soprattutto giovanile, è alta. In Italia erano anni che non trovavo tale spazio, senza sgomitare. Qui non c’è un vero sistema dell’arte, nemmeno un mercato. Il Museo di Arte Contemporanea è in restauro da decenni, sebbene la storia artistica serba sia stata un faro nell’area del socialismo di Tito. Cosa stai costruendo? Ho aperto una project room quest’anno, si chiama Beo project: ospito in residenza artisti serbi in dialogo con l’Italia. La mia idea è costruire un ponte e uno scambio inter-culturale. Già lo faccio con l’associazione 22.37 e con il progetto Art&Tours a Berlino in collaborazione con Stefania Migliorati. Ho già organizzato due mostre in Italia con la partecipazione di giovani serbi: a Verona in Palazzo Forti con La Casa, collettiva di giovani artisti Serbi e a Bologna in PerAspera-Drammaturgie possibili con la rassegna di videoarte Italia/Serbia: crossing. E cinque mostre presso la Beo project. Mi promuovo con le mie forze, ma le poche istituzioni culturali serbe, come il Ministero della Cultura, mi danno molto credito e finanziano. Quelle italiane sono ugualmente interessate, ma ad oggi non sono ancora riuscita a coinvolgerle. Più difficile chiedere un loro sostegno economico.
Si riesce a vivere del lavoro intellettuale e creativo? Qui è possibile perché il costo della vita è più contenuto, ma anche perché il mondo dell’arte ha voglia di investire e condividere, dunque c’è meno resistenza e più collaborazione. Il fatto che sia italiana è un valore per loro, in quanto condivido nuovi punti di vista ed esperienze, dunque posso proporre e lavorare con la loro attiva partecipazione. L’inglese ci aiuta in tutto questo. Quali gli organi a cui richiedere patrocini, supporti e sponsorizzazioni? Le poche istituzioni culturali serbe, come il Ministero della Cultura, elargiscono finanziamenti per progetti che promuovono la cultura serba all’estero. Fra i premi va segnalato il Dimitrije Bašicevic Mangelos Award per giovani artisti emergenti, con una residenza a New York. Come può, anche il Museo di Arte Contemporanea sostiene, perlomeno con la sua rete di comunicazione. Tornerai? Preferisco tenere un piede in due scarpe. Il prossimo cervello in fuga sarà Elisa Tosoni
PER dOVERE dI CRONACA
di GIACINTO DI PIETRANTONIO
NON È COLPA DELLE ARCHISTAR L’attacco di Libeskind alle “archistar” - come se lui non lo fosse - sembra riaprire la questione della funzionalità dell’architettura, pilastro della modernità e che la postmodernità ha invece investito, o reinvestito, anche di altre qualità, che vanno oltre l’osservanza funzionalista. In quanto forma d’arte dotata di simbologia, nel corso del tempo all’architettura è stata affidato il compito di creare edifici che rappresentassero epoche società: in Egitto come in Grecia, ancora oggi vediamo architetture-testimonianza non solo della storia di quei popoli, ma il senso di una società che possiamo raccontare attraverso l’architettura. Sappiamo, infatti, che piramidi e templi ci parlano delle civiltà succitate perché la religione è l’orizzonte entro cui si muove la società, così come la società dell’Impero Romano sarà rappresentata dall’architettura religiosa e civile. La caduta dell’Impero cede il passo al Medioevo, in cui domina la spiritualità della chiesa cristiana, che passa poi la mano al tempo della secolarizzazione, dove le forme della rappresentazione architettonica si sono confrontate nello stesso luogo: la piazza in cui si fronteggiano la chiesa e il palazzo, il vescovo e il principe. La rivoluzione industriale ha dato una ulteriore scossa e/o possibilità: l’architettura si sposta sulla fabbrica e sugli edifici annessi, fino a coinvolgere la progettazione di intere città. Pensiamo al complesso di Crespi d’Adda, dove l’architettura si è esercitata su fabbriche, abitazioni, scuole e altri servizi collegati, nel tentativo di realizzare l’utopia socialista modernista della cittàfabbrica come luogo e strumento di emancipazione. Queste architetture - come altri esperimenti sociali della modernità, ad esempio la Brasilia di Oscar Niemeyer - riflettevano il tempo dell’esaltazione del lavoro a cui la teoria marxista dava il suo orizzonte filosofico e ideologico, messo successivamente in crisi dalla società postindustriale o postmoderna. È
il tempo dell’eterno presente circolare, in cui viviamo da una quarantina d’anni e dove l’architettura ha spostato ancora una volta i suoi interessi, per farsi strumento di rappresentazione simbolica: dalla società del lavoro a quella della cultura, dalla fatica e dal sudore al piacere e all’informazione. Perciò i luoghi della nuova progettazione architettonica sono diventati i musei, anche quello milanese - forse mancato - di Libeskind. Ovviamente gli architetti non hanno smesso di progettare altre tipologie di edifici ma, come ha detto Mario Botta al Congresso Mondiale degli Amici dei Musei, tenutosi a Genova nel 2011: “Nel XX secolo si sono progettati più di cento musei e oggi ogni architetto vuole progettare un museo come voleva progettare una cattedrale nel Medioevo”. È soprattutto questo “nuovo luogo” ad alta spettacolarità che ha fatto sì che gli architetti venissero definiti archistar. Perché l’architettura ha spostato i suoi interessi verso la rappresentazione di luoghi significativi della società dello spettacolo, società che ha bisogno di star in tutte le sue versioni e che per questo aggiunge alle star dello spettacolo tradizionale anche archistar, chefstar, sartistar e così via. Per le archistar i musei hanno finito per rappresentare i luoghi della progettazione privilegiata in quanto luoghi ad alta comunicazione spettacolare e simbolica, tant’è che a un architetto basta progettare un museo per divenire una celebrità. Ma c’è un dato linguistico da osservare: la maggior parte delle archistar ha visto nel museo un luogo in cui potersi permettere la massima libertà espressiva in virtù del fatto che il museo, soprattutto quello d’arte moderna e contemporanea, è un luogo in cui si espongono opere che sono il risultato di una libertà a 360 gradi, la libertà linguistica dell’arte da cui sono stati contagiati. È sorprendente, però, che sia stata proprio questa assunzione di libertà a ge-
nerare critiche da parte degli artisti, che spesso si sono lamentati del fatto che questi musei non sono funzionali alle loro opere, insomma alla loro libertà. Va sottolineato che spesso ciò è avvenuto sulla carta, prima che gli edifici venissero realizzati, perché ad esempio il Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank O. Gehry, icona massima di quanto andiamo dicendo, se all’esterno si presenta con forme futuriste, è bensì dotato di sale abbastanza tradizionali. Esempio diverso è quello del Maxxi di Zaha Hadid, con un esterno abbastanza ortogonale e un interno in cui domina la curva. Tuttavia, soprattutto da noi italiani questa dovrebbe essere vista come un’opportunità, perché se è vero che alcune tipologie di museo possono risultare poco funzionali all’allestimento di opere tradizionali, è anche vero che queste architetture potrebbero spingere alla commissione di opere ad hoc e quindi modificare la prospettiva dell’arte contemporanea. In certi casi, si creerebbero opere che sfidano il contenitore, cosa in cui gli italiani sono maestri. Per questo la risposta di Luciano Fabro alla mia domanda sulla questione, pubblicata su Flash Art, fu (cito a memoria): “Ma sai, noi artisti dell’Arte Povera siamo talmente abituati a lavorare in qualunque contesto che risolviamo anche il rapporto con tali architetture”. Da noi gli artisti lavoravano gomito a gomito con gli architetti, o si inserivano in architetture progettate da altri in modo esemplare, perché ciò costituiva una sfida a cercare di fare meglio, come dimostra la relazione del Baldacchino di San Pietro che Bernini inserisce una settantina d’anni dopo sotto la cupola di Michelangelo, accentando una sfida e creando una relazione a cui guardare. Perché la questione, a mio avviso, non è archistar sì o archistar no, ma quale architettura funzionale e simbolica l’architetto ci sa dare come testimonianza del tempo in cui viviamo.
ti al mondo. Con la rivoluzioni interne, che hanno toccato l’acme nella cacciata del potente e stimato capo curatore Paul Schimmel, seguita da dimissioni a catena di trustees del peso di John Baldessarri, Barbara Kruger, Catherine Opie, Ed Ruscha. Ma quello che emerge con sempre maggiore forza è il definirsi del ruolo del milionario mecenate Eli Broad come “dux” incontrastato dei musei californiani. Non è difficile infatti intravedere un suo ruolo anche in questa ultima novità: lui così legato a doppio filo tanto al MOCA - del quale è uno dei maggiori finanziatori, anche di recente con 30 milioni di dollari versati per cercare di risollevare un clima da smobilitazione - e così legato anche al LACMA, del quale è allo stesso modo trustee e benefattore, ma al cui nome ha anche legato il suo Broad Contemporary Art Museum. Il LACMA avrebbe messo sul piatto 100 milioni di dollari per acquisire proprietà a brand MOCA, sotto le cui insegne continuerebbe a operare anche come divisione, conservando il proprio nome. Ma da dove verrebbero questi 100 milioni? Massimo Mattioli
dell’Ermitage, che ne farà uno degli eventi clou delle celebrazioni per il proprio 250esimo anniversario: fu infatti fondato nel 1764 da Caterina la Grande per accogliere la sua collezione d’arte personale, per poi essere aperto al pubblico dal 1852. “Siamo entusiasti”, ha commentato Hedwig Fijen, direttore della Fondazione Manifesta, “all’idea che Manifesta sia ospitata dall’Ermitage. Una partnership senza precedenti fra la natura itinerante, la metodologia curatoriale innovativa e le pratiche artistiche sperimentali, e un museo storico così influente”. Ed entusiasta, andrebbe aggiunto, la fondazione sarà per aver trovato nella Russia forse l’unico Paese economicamente in grado di garantire la copertura dei costi organizzativi. Soddisfatto anche il direttore generale dell’Ermitage, Mikhail Piotrovsky: “Il museo potrà mettere in evidenza le sue tradizioni, che affondano le radici nell’epoca di Caterina la Grande ma si ricongiungono all’arte contemporanea”. L’ultima edizione di Manifesta, dal titolo The Deep of the Modern, si è svolta in Belgio fra giugno e settembre 2012: pur avendo ricevuto più critiche che elogi, ha attirato oltre 100mila visitatori.
costretto a pagare i danni dopo il clamoroso raid compiuto alla Galleria Zachęta nel 2001. “Volevo salvaguardare la dignità del nostro Santissimo Padre”, ha continuato a ribadire negli anni Tomczak, che aveva preso d’assalto l’installazione sotto Natale insieme alla collega di partito Halina Nowina-Konopka. Privo dell’immunità parlamentare dal 2008, il medico e politico polacco noto per le sue invettive antisemite dovrà forse cedere alla richiesta di risarcimento danni presentata dalla Procura di Varsavia. Intanto gli atti di vandalismo più clamorosi andati in scena alla Zachęta negli ultimi anni - incluso il teatrale assalto con sciabola da parte dell’illustre istrione Daniel Olbrychski all’opera The Nazis (2001) di Piotr Uklanski - sono stati oggetto recentemente di citazione e museificazione da parte della talentuosa Goshka Macuga, manco fossero colères alla Arman. Correva l’anno 2001, annus horribilis per quelli che volevano provocare in casa. Ne aveva fatto le spese anche la storica d’arte e curatrice Anda Rottenberg, omaggiata dalla Macuga con un ritratto alla Andrew Kreps Gallery. Tali incursioni vandalistiche, seguite da immancabili polemiche, avevano poi spinto la Rottenberg ingiuriata da Tomczak a dare le dimissioni dalla direzione della galleria varsaviana. Ad ogni modo, anche se l’assalitore - pardon, il “disinstallatore” - pagherà per il meteorite, i cocci non saranno i suoi… Giuseppe Sedia
www.lacma.org
Sarà a San Pietroburgo l’edizione 2014 di Manifesta. La Biennale itinerante sceglie il Museo dell’Ermitage, che festeggerà così il 250esimo anniversario Rotterdam, Lussemburgo, Lubiana, Francoforte, San Sebastian, Cipro (annullato), Trentino-Alto Adige, Murcia/Cartagena, Genk. E nel 2014 San Pietroburgo: prosegue nello spirito itinerante che ne costituisce la caratteristica fondante, la biennale Manifesta, che annuncia la perla russa del Mare del Nord come sede della sua decima edizione, nel 2014. A ospitare la rassegna sarà il Museo Statale
www.manifesta.org
“Liberare” Papa Wojtyla dal meteorite di Cattelan? Costa 10mila euro. Condannato in Polonia l’ex eurodeputato che prese d’assalto e danneggiò “La nona ora” Quanto costa aver liberato le gambe del manichino di cera di Giovanni Paolo II schiacciate dal meteorite dell’installazione La Nona Ora (1999) di Maurizio Cattelan? Circa 10mila euro. Sono trascorsi più di dodici anni e l’ex eurodeputato eletto con l’ultra-conservatrice e dissolta Lega delle famiglie polacche, Witold Tomczak, potrebbe essere
NEWS 21
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Sei motivi sei per fare una gita d’architettura a Mumbai.
anno iii
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numero 12
www.artribune.com direttore Massimiliano Tonelli direzione Marco Enrico Giacomelli (vice) Claudia Giraud Helga Marsala Massimo Mattioli Francesco Sala Valentina Tanni comunicazione e logistica Santa Nastro pubblicità Cristiana Margiacchi +39 393 6586637 adv@artribune.com redazione via Enrico Fermi 161 - 00146 Roma redazione@artribune.com progetto grafico Alessandro Naldi
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editore Artribune srl via Enrico Fermi 161 - 00146 Roma in copertina Serena Porrati, Insubria fotografia digitale (l’intervista a Porrati è a p. 78) in fondo in fondo Barbara Salvucci, Galla inchiostro di china e carta damascata Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 20 marzo 2013
imbattersi in falsi è sempre dietro l’angolo. Anche per questo esistono i
Fra dimore di 37mila metri quadri e sale da banchetti in stile coloniale.
cataloghi generali: per evitare le truffe. Sono recentissime le uscite che riguardano Castellani e Boetti, e ne parliamo sulle pagine di editoria.
Chiedersi qual è la direzione che sta prendendo l’India dal punto di vista dell’architettura è una domanda alla
quale non si può rispondere con semplicità. Ci vuole una guida. Noi abbiamo scelto Rahul Mehrotra.
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intervista con Massimiliano Gioni
Un’azienda, una fondazione, la moda, l’arte. È partito il progetto ZegnArt Public, prima tappa Mumbai. Noi c’eravamo, ma è Anna Zegna a raccontare com’è andata.
anacronismo, paradossale quanto si vuole, per decretare la fine dell’arte. Un’altra volta? Sì, e questa è la volta buona. Il colpevole è la Rete, anzi gli ignari e bulimici utilizzatori di new media.
Andrea Ilari. Sì, non è un nome di quelli che tutti conoscono. Ma è (anche) grazie a lui se hanno sequestrato 4mila falsi, se gli scavi clandestini diminuiscono, se i furti di beni culturali calano. Siamo
andati dai Carabinieri a
vedere come lavoro il Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale.
Dieci anni fa la curava Francesco Bonami, fra qualche settimana lo farà un suo degnissimo erede. Poteva non esserci su queste pagine una lunga
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sulla sua Biennale di Venezia?
Sono “medici della mente”, curano
l’intelletto con reading e mostre, viaggi e incontri.
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Nulla a che vedere con l’arteterapia. Si tratta invece dell’associazione al centro del focus. La parola a chi ha indovinato il Leone d’Oro alla scorsa Biennale di Architettura.
Joseph Beuys aveva un blog. Un
stampa CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - 25030 Erbusco (BS) direttore responsabile Marco Enrico Giacomelli
Che, per certi versi, somiglia sempre più alla quasi omofona Dubai.
In tempi di crisi, l’arte diventa un bene rifugio. Ma per questo genere di operazioni si punta su nomi consolidati. E il rischio di
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Cibo come vetro. No, troppo indigesto. Piuttosto, vetrai come chef, e viceversa. Perché il buonvivere non si nutre soltanto di portate, ma pure di… contenitori. Ancora una eccellenza che parla italiano, sebbene con accento spagnolo.
Certo, lo sappiamo che nessuno di voi comprerebbe un
presunto Chagall su eBay pagandolo meno
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di 500 dollari e sperando pure che abbia la cornice. Però ci sono venditori - o meglio, truffatori che fanno milioni di dollari in questo modo. Perché anche quelle aste online hanno il loro mercato…
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Ci sono guide dove si sconsiglia la visita di Napoli, o per lo meno di certe zone. Fra le quali, manco
fosse una megalopoli brasiliana, il centro storico. Noi, degni eredi del proverbiale Tommaso, siamo andati a verificare. E vi raccontiamo una realtà ben diversa, tanto da diventare l’ennesimo dei distretti da collezionare.
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Dopo la mega-inchiesta in più puntate che abbiamo dedicato ai Balcani, torniamo sul tema. Stavolta però con la macchina fotografica. E a finire al
centro dell’obiettivo è la capitale serba, nel reportage firmato Simona
Pampallona.
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Riciclare e produrre oggetti ecocompatibili. Fin qui, almeno in teoria, ci siamo. Ma si può fare un passo in più? Il design dice di sì, e
l’attenzione si sposta a monte, sulla progettazione. Senza scarti.
“È tutta colpa loro! Dei padri, dei nonni”. E così il presente viene
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sabotato chi lo dovrebbe vivere e plasmare. Fra De Sanctis
QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Martina Adami Arianna Apicella Valia Barriello Maria Cristina Bastante Elisabetta Biestro Ginevra Bria Christian Caliandro Simona Caraceni Fabio Castelli Marta Cereda Kari Conte Riccardo Conti Alfredo Cramerotti Matteo Cremonesi Claudio Cucco Denis Curti Giulio Dalvit Alessia Delisi Alessandro de’ Navasques Luca Diffuse Giacinto Di Pietrantonio Marcello Faletra Fabrizio Federici Alessandra Fina Simone Frangi
“Ognun per sé, Dio contro tutti”, recitava il titolo di un memorabile film di Werner Herzog. E invece - fatto strano, inedito - nella moda italiana si fronteggia la crisi facendo rete. E non parliamo di soggetti minori, ma delle eccellenze nostrane.
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di fotografia, del suo presente e del suo futuro. Tema ampio, quello del
talk show. E infatti proseguirà pure sul prossimo numero.
Ma che
c’azzecca - avrebbe detto il fu Tonino - Michelangelo Antonioni con Bruce Willis? E ci credereste che Al Pacino
ballava in locali equivoci con tanto di canotta attillata? Al cinema capita di tutto, anche che il protagonista si eclissi.
Antonella Palladino Simona Pampallona Luca Panaro Sonia Pedrazzini Raffaella Pellegrino Daniele Perra Giulia Pezzoli Gino Pisapia Federico Poletti Serena Porrati Aldo Premoli Luigi Prestinenza Puglisi Giovanna Procaccini Marc Prüst Domenico Quaranta Simone Rebora Stefano Riba Andrea Rodi Lia Rumma Federica Russo Pier Luigi Sacco Francesco Sala Barbara Salvucci Irene Sanesi Ilaria Schiaffini
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ed Egan, inpratica tenta ancora una volta di guardare avanti.
C’è l’artista e il curatore, il critico e il collezionista, il consulente e il direttore di museo. tutti a parlare
Giulia Galassi Martina Gambillara Marco Enrico Giacomelli Massimiliano Gioni Ferruccio Giromini Stella Kasian Martina Liverani Angela Madesani Zaira Magliozzi Pepi Marchetti Franchi Helga Marsala Alessandro Marzocchi Esther Mathis Peter Matthaes Massimo Mattioli Neve Mazzoleni Medicina Mentis Stefano Mirti Stefano Monti Giulia Mura Urbano Nannelli Santa Nastro Chiara Natali Michele Luca Nero Fay Nicholson
È piccola, è autonoma, è ricca, è frontaliera.
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E non è il Trentino. Si fa presto a dire Valle d’Aosta, ma per scoprirne chicche e segreti ci vuole uno dei percorsi apparecchiati da Santa Nastro. Alè, si parte.
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“C’è chi arriva e chi parte…”, cantavano Cochi e Renato. I
flussi migratori dei galleristi da e per l’Italia
sono un fenomeno assai interessate. Ma nessuno finora l’aveva studiato a fondo. Noi cominciamo con gli immigrati. Con interviste e l’immancabile infografica.
Giuseppe Sedia Cristiano Seganfreddo Marco Senaldi Fabio Severino Valentina Silvestrini Michele Smargiassi Maria Rosa Sossai Carlotta Susca Lorenzo Taiuti Valentina Tanni Cristiana Tejo Antonello Tolve Massimiliano Tonelli Michela Tornielli Clara Tosi Pamphili Roberta Valtorta Marta Veltri Silvio Wolf Paul Wombell Francesco Zanot Milena Zanotti Giulia Zappa Anna Zegna
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Prosegue il nostro viaggio lungo lo Stivale, per dare voce ai galleristi che hanno costruito la storia dell’arte contemporanea del nostro Paese. Questa volta è il turno di Lia Rumma e della parabola che unisce Amalfi, Salerno, Napoli, Milano e… Voghera.
Geologia e finanza, amiche per la pelle. No, non abbiamo esagerato con le libagioni, e nemmeno l’ha fatto Serena Porrati, l’ultimo dei talenti a rispondere alla chiamata del nostro Daniele Perra. Il punto è che “tutto è connesso”. E intanto ci regala una copertina spinosa.
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Nuova tripletta di statement per l’inchiesta
condotta da Alfredo Cramerotti sulla curatela contemporanea. Per ognuna delle professioniste coinvolte,
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la richiesta di scegliere tre parole chiave. E motivare la scelta stessa.
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Partire da Genova e raccogliere campioni di radici anzi, di pietre - fino in cima al Cervino. Anche
questa è fotografia contemporanea. Che diventa tutt’uno con l’installazione. Esther Mathis è il talento scovato da Angela Madesani per questo numero.
La continua, ossessiva insistenza sulla “peculiarità italiana”, sul nostro essere “unici” in tutto e per tutto, sempre e comunque diversi dagli altri (nella politica, nell’economia, nelle mutazioni sociali ma soprattutto in campo culturale) rappresenta forse, paradossalmente, l’ultima eredità del Rinascimento. Un’eredità pervertita e distorta, certo, ma pur sempre un’eredità. Inoltre, uno dei nostri vizi più diffusi e pervicaci è quello di pensare, a ogni generazione, di essere i primi italiani a fronteggiare i problemi che abbiamo davanti, e che tutte le colpe ricadano sulla generazione precedente. Se ne era già accorto Francesco Arcangeli quando avvisava i suoi studenti ‘ribelli’ del 1970: “E certo voi giovani che contestate o che avete contestato siete subito pronti, ingenuamente e in genere senza malignità, a dar colpa di questo alla generazione che vi precede […]. Non riflettete però, perché non ne avete coscienza, che l’immobilismo culturale o certe negatività o certe forme autoritarie che riscontrate in noi hanno, se volete essere seri, delle ben più antiche radici, e sono la conseguenza, non la causa, d’una antica estraniazione della vita italiana rispetto ai grandi fatti del mondo moderno”1.
problemi, le criticità, i paradossi, le contraddizioni e le paralisi tutte speciali, tutte particolari, possono essere fatte risalire indietro, indietro, e indietro. Giusto a titolo di Dunque i
Il presente come autosabotaggio Tutto va male, dalla società alla politica, dalla cultura all’economia. Ed è colpa della generazione che ci ha appena preceduti. È uno dei refrain più diffusi in Italia. Ma non lo è soltanto ora, succede da secoli. Prova ne sia quanto scriveva Francesco De Sanctis sul Seicento. E così il nostro Paese si continua a crogiolare nel sabotaggio di se stesso.
di christian caliandro
esempio, Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana (1870), riferendosi allo spirito del Seicento scriveva: “Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L’arte intisichisce, priva di un mondo libero intorno a sé”2. Del resto, è proprio tra secondo Cinquecento e Seicento che si avvia quel famoso “declino italiano”, tornato di gran moda negli ultimi anni e negli ultimi mesi. Anche qui, le radici affondano nei secoli, e non a Wall Street o negli Anni Settanta del Novecento. E ancora: “Questa è la vita morale, religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tornato in moda, favorito dagl’interessi, mantenuto nelle sue apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e rinnovato, non contrastato e non difeso, non realtà e non idealità, cioè a dire non praticato nella vita, e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, un’assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche, le quali, appunto perché mere forme o apparenze, erano pompose e teatrali. La passività dello spirito, naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria, sospettosa di ogni discussione, e di una vita interiore esaurita e paludata, teneva l’Italia estranea a tutto quel gran movimento d’idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin d’allora ella era tagliata fuori del mondo moderno, più simile a un museo che a società di uomini vivi”3. Nulla di familiare, in queste frasi? “Più simile a museo che a società di uomini vivi” è una descrizione perfetta anche per l’Italia degli ultimi decenni, e soprattutto di oggi: di “quel processo di autosabotaggio che è il presente italiano”, come scrive Giorgio Vasta4. Un museo tutto scorticato e rattoppato, in cui l’assurda e pericolosa condizione collettiva sembra essere quella del silenzio, della scomparsa, dell’eclisse: “Tacere, o meglio ammutolire, addestrarsi alla sparizione, sembra la colonna vertebrale delle generazioni tra i venti e i quarantacinque anni.”
(Auto)sabotaggio e sequestro sono le ideechiave che catturano l’immaginario condiviso da almeno due o tre generazioni - perseguitandolo e ossessionandolo come fantasmi attitudinali - sotto la pelle luccicante dell’infantilizza-
[1] F. Arcangeli, Dal Romanticismo all’Informale. Lezioni Accademiche 1970-71, Minerva, Bologna 2005, p. 22. [2] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Salani, Firenze 1965, pp. 509-510. [3] Ivi, p. 514. [4] G. Vasta, Le scritture che traboccano, in “minima&moralia”, 11 febbraio 2013.
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INPRATICA
zione coatta e della nostalgia per le cose inutili e di nessun valore: l’Italia dell’ultimo trentennio inaugura se stessa proprio con le due figure della costrizione in spazi claustrofobici, Aldo Moro (1978) e Alfredino (1981). Il loro impatto si riverbera lungo gli anni e i decenni, fino a informare di sé la nostra percezione dello spazio (italiano) e del tempo storico (italiano) in cui viviamo.
In Guardami, Jennifer Egan ha rivolto le proprie attenzioni allo sguardo prima che alla percezione del trascorrere degli anni (con cui ha costruito un rizoma malinconico sull’ineluttabilità della perdita nelle relazioni), e sullo sguardo intesse una riflessione sfaccettata, dai molteplici riverberi. Abbiamo Charlotte, la modella sfigurata e ricostruita chirurgicamente che ha perso l’identità derivatale dall’aspetto fisico, e con essa tutta la rete di relazioni legate al mondo della moda; Moose, che ha cambiato la propria percezione del mondo in seguito a una concatenazione di riflessioni derivanti dalla consapevolezza che l’introduzione di specchi e vetri ha stravolto arredamento e abbigliamento nel Medioevo; un detective, Antony Halliday, che ovviamente passa la propria vita a osservare gli altri; Charlotte (omonima), che insegna a suo fratello l’imperturbabilità del volto e guadagna sicurezza dall’assenza degli occhiali; Z./Aziz/Michael, terrorista mediorientale conquistato progressivamente dalla cultura made in Usa, e paradigmaticamente in viaggio verso Ovest, sempre più a Ovest, fino a far smarrire al lettore le proprie tracce mentre punta al miraggio cinematografico (ancora: visione!) di Los Angeles. Poi abbiamo la “stanza degli specchi”, metafora del successo, che si rivela - ovviamente - effimero. E la prefigurazione dei social network, che Gianluigi Ricuperati sottolinea nella sua recensione sulla Repubblica. Insomma: seppur con lungaggini a tratti intollerabili, un montaggio lento per almeno quattro quinti del libro, una struttura, in definitiva, che se creata in Italia sarebbe stata opportunamente “asciugata” dalla maggior parte degli editor,
i pregi di Guardami sono nel richiamo costante delle tematiche fra i vari personaggi; in quello che, in effetti, è un gioco di specchi. In cui la visibilità che nelle Lezioni americane di Italo Cal-
vino era trattata come facoltà dell’ingegno, capacità immaginativa più o meno scientifica, analitica o sintetica, infinitesimale o tendente all’infinito, è trattata come costruzione di superficie volta all’ipnosi dello spettatore: il dominio statunitense è quello dei cataloghi di moda di infimo ordine, il mondo del fashion è composizione di bellezze interscambiabili. E il racconto di una vita emblematica perché ordinaria o straordinaria è costruzione di immagini che funzionano, corredo di video che stravolgono la realtà a vantaggio della presenza di controfigure che bucano lo schermo. E se l’invasione di immagini è una violenza a cui si è assuefatti, ma non abbastanza da non riuscire, a tratti, ancora a rendersene conto, ecco che un’opera d’arte viva benché decadente (nella sua quotidiana mortalità e nel disfacimento proprio della vita) regala allo spettatore uno sguardo di rimando, la percezione di essere a propria volta visibile, punto di concentrazione tattile di una identità. Nella performance al MoMA, The Artist is Present, Marina Abramović restituisce all’osservatore lo sguardo: non è tanto l’artista presente a suscitare l’interesse delle masse appostate per quindici minuti non già di celebrità, quanto, forse, di eternità, così come non è la percezione di far parte di un’opera d’arte a dare a quelle masse l’impressione di essere centrali in un’opera al pari dell’opera stessa, che senza di loro non esisterebbe. Lo spettatore sente di essere guardato, di non essere più, appunto, solo spettatore, ma anche oggetto di attenzione e, in quanto tale, protagonista di un processo, non comprimario. Se di opera d’arte si tratti non sono in grado di giudicarlo, ma credo che sia quantomeno anche un’indagine sociologica o, meglio, che lo sia suo malgrado, forse. Lo spettatore riabilitato nella sua importanza identitaria, come Aziz che,
La visibilità da Egan ad Abramovic` Sebbene la qualità narrativa di Guardami sia nettamente inferiore a quella de Il tempo è un bastardo, nei suoi libri Jennifer Egan veicola una gran quantità di riflessioni penetranti. Ad esempio, la questione dei social network, come sottolinea Gianluigi Ricuperati. Ma viene anche da pensare allo spettatore nell’ultima performance di Marina Abramovic… `
di CARLOTTA SUSCA
da fruitore rancoroso della cultura occidentale, finisce per abbracciarla nel momento in cui gli è concesso di prenderne parte: e allora la
visione non è più una violenza ma, entrati nel meccanismo, si diventa parte della fascinazione, produttori di meraviglia (per citare ancora Ricuperati, il cui prossimo libro si intitola La produzione di meraviglia). È la seconda puntata della miniserie Black mirror a riassumere il modo in cui il sistema della visione sia in grado di blandire lo spettatore potenzialmente dissidente facendolo entrare nello spettacolo, disinnescandone il potenziale sovversivo. E se questo è stato compreso a fondo dalla Egan, non so quanto intenzionalmente la Abramović lo metta in atto, ma di sicuro contribuisce a focalizzare l’attuarsi del processo.
INPRATICA 27
IL FUTURO DELLA FOTOGRAFIA VOL. I
In che modo sta cambiando la fotografia? Quali nuovi scenari si stanno delineando in conseguenza dell’avvento delle nuove tecnologie e di un ecosistema visivo in continua mutazione? E come cambia il ruolo del fotografo in questo contesto? Questi i temi del talk show di questo numero (e del prossimo). Un argomento di grande attualità, sul quale abbiamo invitato a riflettere tante voci eccellenti. (a cura di Valentina Tanni)
FABIO CASTELLI
COLLEZIONISTA E FONDATORE DI MIA - MILAN IMAGE ART FAIR La fotografia sta attraversando un periodo di grandi cambiamenti. Le trasformazioni che hanno visto in pochi anni l’abbandono della tecnologia analogica a favore di quella digitale hanno mutato profondamente i modi di produzione e di fruizione dell’immagine fotografica, dell’informazione a essa connessa e degli altri ambiti legati alla ricerca formale e alla conseguente valenza artistica. Questo è un passaggio molto delicato in quanto, anche se l’immagine finale resta pur sempre una rappresentazione bidimensionale del mondo, il prelievo di realtà avviene, grazie al procedimento digitale, molto più rapidamente, immediatamente verificabile nell’esito finale e altrettanto velocemente trasmissibile. Inoltre la fase di postproduzione ha raggiunto livelli di intervento e manipolazione nemmeno immaginabili con il procedimento analogico. A questo si aggiunga il cambiamento nella fruizione: se prima era affidato ai tempi lenti delle pubblicazioni cartacee, ora ci si rivolge allo sconfinato e immediato medium del web. In una
situazione così radicalmente mutata, il ruolo del fotografo è dunque quello di continuare a fare il suo mestiere, ovvero documentare, scoprire nuovi linguaggi, sfruttando le nuove opportunità di produzione e diffusione che ha a disposizione.
DENIS CURTI
VICEPRESIDENTE DELLA FONDAZIONE FORMA La fotografia sta vivendo un momento di schizofrenia. Da una parte la crisi del “mestiere”, dall’altra il successo del linguaggio delle immagini. A questo si aggiunge un ritrovato interesse del mercato del collezionismo, che pare sempre più interessato alle produzioni fotografiche fine art. Le difficoltà del fotografo sono connesse alla crisi del mercato editoriale, soprattutto quello cartaceo. Diminuite le tirature e quasi scomparsa la
pubblicità, i giornali faticano a rifornirsi di immagini di qualità.
La funzione documentaria della fotografia, tuttavia, ha poco senso solo apparentemente. L’esperienza della “rivoluzione dei ciclamini” ha dimostrato che quella vicenda è stata narrata direttamente dai protagonisti e quindi raccontata in diretta, grazie alle tecnologie digitali. Il reportage resta però nelle mani dei fotografi professionisti: narratori che dichiarano il proprio punto di vista e sostituiscono “io ho visto” con “io ho capito e ti spiego come la penso”. Stesso sentimento per la dimensione della ricerca legata al mercato fine art. La consapevolezza di ciò che si produce fa la differenza. Non c’è più spazio per l’improvvisazione.
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talk show
LUCA PANARO
CRITICO, CURATORE E DOCENTE ALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BRERA La fotografia è in continua evoluzione ma credo non si possa ancora parlare di un enorme cambiamento rispetto al passato, quantomeno in termini culturali. Certo, l’avvento delle nuove tecnologie ha accelerato il processo di rinnovamento del linguaggio fotografico, ma i risultati di questa presunta svolta non sono ancora così evidenti nell’opera degli artisti. Siamo sulla soglia del futuro, stiamo
cioè toccando con un dito le nuove opportunità offerte dal mezzo ma non le abbiamo ancora afferrate. Per farlo bisogna prima capire le specificità del medium.
Oggi la fotografia deve tenere conto della possibile ibridazione con video e computer grafica, della relazione con linguaggi non visivi e della comune convivenza su piattaforme informatizzate. Risulta quindi anacronistico parlare ancora di “fotografo”, il ruolo dell’artista che utilizza questo linguaggio sta cambiando, la sua opera nasce dal metodo in uso alle scienze etno-antropologiche, non più dall’approccio giornalistico che ha dominato il secolo scorso.
FRANCESCO ZANOT
CRITICO FOTOGRAFICO E CURATORE La fotografia è cambiata e sta cambiando secondo un processo ibridativo che si estende perlomeno in tre direzioni. Si ibridano i generi fotografici, per cui i fotografi non si rifanno più a codici specifici legati al trattamento di un particolare soggetto, ma li mescolano e li combinano tra loro. La fotografia di ritratto, di architettura, di paesaggio e così via non esistono più come entità distinte, ma sono coinvolte in un processo di scambio e di avvicinamento. Il risultato è una sorta di esperanto
visivo che accomuna gran parte della produzione fotografica, ovvero quella che rientra nel sistema dell’arte e della ricerca.
In secondo luogo si ibridano le funzioni della fotografia. Immagini familiari, scientifiche, industriali migrano all’interno della produzione degli artisti, abbandonando la loro finalità originaria. Si tratta di un cambiamento che incide sul piano ambientale, vale a dire sul contesto di lettura delle immagini. Infine si ibrida il mezzo. Con il nuovo millennio l’obiettivo è stato innestato massicciamente sul corpo del telefono cellulare, integrandosi poi con una serie di altri dispositivi, dai computer alle consolle di gioco, che costituiscono di fatto degli ibridi fra una macchina fotografica e qualcos’altro. Il ruolo del fotografo cambia di conseguenza. Spesso i fotografi non guardano più attraverso un obiettivo, ma selezionano immagini preesistenti sulla pagina di un libro o sullo schermo del computer. La loro pratica si ibrida con quella di curatori, archivisti, redattori.
MICHELE SMARGIASSI
GIORNALISTA DE LA REPUBBLICA Il “secolo lungo” della fotografia, iniziato alla fine dell’Ottocento con la rivoluzione Kodak, si è chiuso agli inizi del millennio con l’effetto combinato della tecnologia digitale, che ha riportato nelle case il processo “confiscato” dai laboratori, e di Internet, che ha reso davvero “di massa” la fotografia (prima era di massa la pratica, ma ogni singola foto era accessibile a una cerchia ristretta di persone). Con la disseminazione degli apparecchi fotografanti, ormai uno per ogni essere umano, e con la condivisione istantanea, la bilancia del sistema fotografia s’è ribaltata: ora sono le pratiche, le estetiche,
le funzioni della condivisione a dettare le regole alla fotografia mediatizzata e perfino a quella d’autore. Dietro a tutto, la regia di un mercato potente, nascosto
dall’apparente gratuità e orizzontalità della Rete, che spinge verso l’omologazione. Se ci sono ancora fotografi non eterodiretti, è il momento di dimostrarlo. O avremo un’altra cosa al posto della fotografia.
ROBERTA VALTORTA
DIRETTORE SCIENTIFICO DEL MUSEO DI FOTOGRAFIA CONTEMPORANEA DI CINISELLO BALSAMO Credo che la fotografia contemporanea muti in più direzioni. La sparizione della professione del fotografo come figura specializzata e necessaria, man mano che un numero sempre più grande di persone accede all’utilizzo del mezzo fotografico (si pensi ai cosiddetti citizenphotographers); la trasformazione del fotografo in un operatore visivo in senso lato, capace di muoversi su più livelli su un’unica piattaforma tecnologica, dalla fotografia al video al graphic design; la perdita progressiva di fisicità dell’immagine fotografica, verso la dimensione virtuale, che sarà sempre più diffusa; la coincidenza tra produzione dell’immagine e distribuzione, provocata dalla Rete. Dopo molte fatiche, la fotografia si è pienamente collocata nel mercato dell’arte, bisognoso ormai di ogni tipo di merce artistica, ma le trasformazioni indotte dalla tecnologia e le spinte di una società che oggi è veramente società di massa, stanno cambiando l’idea stessa di opera, di artista, di pubblico, e credo che ancora una volta la fotografia si trovi al centro di questo enorme fenomeno.
MARC PRÜST
CONSULENTE FOTOGRAFICO E CURATORE Con centinaia di milioni di fotografie caricate ogni giorno su Facebook e sugli altri social media, com’è possibile oggi fare la differenza? Cosa rende le immagini di qualcuno diverse o di maggior valore rispetto a tutte le altre che vengono prodotte? Creare immagini di alta qualità non è abbastanza: chiunque abbia una buona macchinetta digitale e una memory card capiente può scattare qualche buona foto. Per i fotografi questo significa che non è soltanto la loro immagine a fare la differenza, ma anche e soprattutto il messaggio che vogliono trasmettere con essa. Per farsi notare, il fotografo deve usare la
propria qualità per raccontare storie che riescano a catturare il pubblico. Deve esprimere la propria visione sulla condizione umana attraverso il proprio lavoro. Deve avere una visione in grado di farlo spiccare tra la folla, una visione che viene condivisa attraverso la visualizzazione di una storia, che sia documentaria, commerciale o artistica.
ILARIA SCHIAFFINI
DOCENTE DI STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA ALL’UNIVERSITÀ LA SAPIENZA DI ROMA La tecnologia digitale ha riportato in primo piano il tema dell’autenticità della fotografia, a causa delle accresciute possibilità di manipolazione. Ciononostante continuiamo ad affidare a essa un valore probatorio unico. Il vero cambiamento consiste piuttosto nei nuovi usi dell’immagine numerica: ad esempio nell’immediatezza della sua condivisione in Rete, nel suo inserimento in un sistema di realtà virtuale, nell’apertura a un flusso creativo potenzialmente infinito di trasformazioni da parte dei navigatori. L’accessibilità e la pervasività della
tecnologia digitale sta determinando trasformazioni profonde anche nel nostro rapporto con la realtà, con il rischio, ad esempio, che uno scatto con lo smartphone
possa sostituire l’unicità e la spontaneità dell’esperienza individuale. Di fronte al rimescolamento dei confini tra autenticità e contraffazione, tra appropriazione e simulazione del reale, diventa fondamentale sviluppare senso critico e consapevolezza, che consentano di governare attivamente i nuovi orizzonti dischiusi dalla fotografia nell’età digitale.
PAUL WOMBELL
CRITICO E CURATORE. GUEST CURATOR DI LE MOIS DE LA PHOTO DI MONTRÉAL 2013 La macchina fotografica è uno strumento complesso, capace di trasformare lo spazio tridimensionale in una forma bidimensionale ridotta, controllando lo spazio, la luce e il tempo. Questo processo richiede la capacità di coordinare i diversi elementi meccanici che agiscono nella macchina fotografica per ottenere un’immagine riuscita. Ma se una volta il fotografo aveva il controllo di tutti i calcoli necessari per determinare l’esposizione finale, oggi le azioni necessarie per produrre un’immagine sono spesso automatizzate. Tuttavia, i fotografi considerano la tecnologia neutrale e danno per scontato che l’immagine finale sia l’aspetto più importante del processo fotografico. È in corso un cambiamento radicale nel rapporto tra la macchina fotografica e il corpo umano. Mentre gli esseri umani fanno sempre
più affidamento sulla tecnologia per estendere la propria visione, la macchina fotografica assume i comportamenti normalmente associati al corpo e finisce per funzionare più come un robot. Quest’area di interazione si chiama computational photography ed era già stata predetta dal film Blade Runner nel 1982, con la macchina fotografica Esper.
SILVIO WOLF
ARTISTA Il visibile è tutto mappato; l’intero pianeta è ricoperto da immagini: nulla è più rimasto da fotografare. Google ci indica che tutta la pelle del visibile è stata rappresentata, così come l’intera catena del Dna è ora scritta e codificata. Gli scienziati affermano che solo il 4% della materia esistente è visibile, quindi anche fotografabile, mentre il restante 96% è classificato in parte come Materia Oscura, in parte con l’enigmatico termine di Energia Oscura. Questi termini sembrano designare una realtà esistente ma non evidente ai mezzi basati sull’utilizzo della luce, forse neppure rappresentabile attraverso il pensiero che vi s’ispira.
Il cuore del problema è ora il Soggetto: colui che vede, come vede, e soprattutto cosa vede. A mio
avviso in fotografia il rapporto simbolico non è più tra l’immagine e il suo referente, ormai ridotto a un lontano rumore di fondo della visione retinica, piuttosto tra l’immagine e lo sguardo di chi, al suo cospetto, ne diviene parte attiva e consapevole: è nello sguardo il senso dell’essere. Il tempo presente della visione, l’hic et nunc in cui essa accade, offrono un nuovo orizzonte interpretativo al pensiero sulla fotografia.
talk show 29
TENACE BELGRADO Nonostante la mancanza di un vero e proprio sistema dell’arte - i musei scarseggiano e il mercato è quasi inesistente - Belgrado non smette di dimostrare la propria vitalità culturale. Gallerie, spazi non profit, collettivi artistici: sono tanti i movimenti “dal basso” che producono arte non-stop. Simona Pampallona, fotografa romana, è andata nella capitale serba per cercare di catturarne i fermenti.
Vero e proprio luogo simbolo del passato di queste terre, il Museo di Storia Jugoslava è un concentrato di memoria in forma di edificio. Situato vicino al centro storico e accanto alla tomba di Tito, il museo, aperto nel 1996, è frutto della fusione di più realtà (il Museo del 25 Maggio, il Museo Antico e la Casa dei Fiori). Nelle sue sale sono conservati oltre 200mila oggetti che raccontano cinquant’anni di storia jugoslava, in gran parte ricollegabili alla figura di Tito. Armi africane, sculture religiose indiane, pietre lunari, orologi, spade e costumi medioevali giapponesi: un insieme eterogeneo di artefatti che il capo di Stato jugoslavo mise insieme grazie ai regali ricevuti nei decenni dai “colleghi” in visita dalle più diverse parti del mondo.
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REPORTAGE
La Galerija U10 è stata fondata nel maggio 2012 per iniziativa di un artista, Nemanja Nikolic, con l’obiettivo di offrire un luogo sperimentale, aperto e di natura non commerciale in cui i giovani artisti (studenti o appena usciti dall’Accademia) potessero mostrare il proprio lavoro. Secondo le dichiarazioni del fondatore, la galleria sarà nomade e le sue attività “periodiche”, seguendo le opportunità e le necessità del momento. Nella foto, alcune opere presentate in una delle ultime mostre organizzate da U10: Exit through the glory hole, collettiva di artisti legati al mondo “street” (opere di EmaEmaEma, Weedzor, Fuck New Rave, Fat Kid Beny e Д.Л.Т)
REPORTAGE 33
Il palazzo noto come “Bigz” è stato progettato negli Anni Trenta dal celebre architetto Dragisa Brasovan e prende il nome dall’omonima casa editrice, che qui ha avuto la sua sede per decenni. Oggi la costruzione, fatiscente e invasa dai graffiti, è uno dei cuori pulsanti della vita artistica e musicale della città. Alcune piccole “quote” del palazzo sono state infatti affittate ad artisti di varia estrazione, trasformando il suo enorme interno in rovina in un luogo vitale e molto frequentato (non si tratta, come molti pensano, di un edificio occupato). All’interno del palazzo, 25mila mq situati nel quartiere periferico di Senjak, ci sono anche scuole, studi di architettura e diversi club. Il più famoso è lo scenografico Jazz Club Cekaonica, situato al 12esimo piano.
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REPORTAGE
Simonida Rajcevic è nata a Belgrado nel 1974 e da diversi anni insegna pittura all’Accademia. Il suo lavoro, notato da molti durante l’ultima edizione della Moscow Art Fair, è incentrato sul recupero del disegno come tecnica espressiva contemporanea. Ritenuta una delle artiste figurative più interessanti della sua generazione, ha uno stile che oscilla fra tendenze espressioniste e “bad painting” di matrice inglese, mescolate con un’attitudine postmoderna al remix di fonti e influenze. Le sue ultime opere sono grandi disegni a grafite realizzati su candide lenzuola.
REPORTAGE 35
INTIMO ÁLVARO SIZA Il progetto Álvaro Siza. Viagem Sem Programa, organizzato in collaborazione con la Fondazione Querini Stampalia di Venezia (che ne ha ospitato l’esposizione dal 27 agosto all’11 novembre 2012), nasce con l’intento di approfondire il lato più privato del portoghese, mettendo in relazione il mestiere dell’architetto con una personalissima visione dell’esistenza. Il percorso espositivo sottolinea la straordinaria memoria eidetica dell’architetto di Siza e prende le mosse dai suoi disegni (in prevalenza ritratti), realizzati in un arco temporale di sessant’anni e da lui stesso selezionati per il progetto. Si susseguono così, uno dopo l’altro, lungo un ideale percorso, sguardi e sogni, abitudini e rituali, ricordi e volti di sconosciuti e di tutti quegli amici incontrati in quello straordinario “viaggio senza programma” che è la vita. A corollario della collezione di disegni (53 stampe autenticate dall’autore, che insieme costituiscono un’opera inedita e unica) si aggiunge l’innovativo progetto editoriale, realizzato in collaborazione con Dumbo Design Studio, Favini - che ha fornito una nuova carta ecologica - e la casa editrice Red Publishig: ne fanno parte il libro dell’omonima mostra, tradotto in quattro lingue, una serie di strumenti (il kit di tre quaderni per schizzi e appunti e la cartella dei disegni), prodotti in una speciale edizione limitata, e la video-intervista ad Álvaro Siza. E proprio l’intervista, realizzata dai due curatori nell’estate del 2011 presso lo studio dell’architetto, al civico 53 di rua do Aleixo, costituisce un avvincente racconto in prima persona, in cui Siza parla della sua profonda relazione con il disegno, della sua infanzia, degli inizi della carriera e degli incontri più significativi della sua vita, che ne hanno influenzato le scelte. Suddiviso per capitoli tematici, il contributo video si arricchisce con le riprese delle principali architetture realizzate in Portogallo del maestro lusitano e con quelle dei luoghi frequentati in gioventù, quando, ancora studente all’Accademia di Belle Arti, sognava di fare lo scultore, disobbedendo ai desideri del padre. www.viagemsemprograma.com
IL VIAGGIO E L’INCONTRO di MEDICINA MENTIS
Hanno organizzato reading di Jack Hirschman, dopo aver incontrato il poeta della controcultura americana in un bar di San Francisco. Poi hanno convito Álvaro Siza a mostrare i suoi disegni più intimi, proprio nella città che in quei giorni gli avrebbe conferito il Leone d’Oro alla Carriera. Storia e progetti di un’associazione che ama affidarsi agli incontri.
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FOCUS
Ci sono incontri che lasciano il segno. Che restano lì, a lungo, in un luogo della mente, e tu vorresti condividere la magia di quella conoscenza con il maggior numero di persone possibile. Poi, finalmente, quel giorno arriva. Per l’associazione culturale Medicina Mentis è andata un po’ così. Nasce a Venezia alla fine del 2011, ma la scintilla iniziale viene da lontano e proprio da un incontro: quello con il grande architetto portoghese Álvaro Siza, nel 2005. A consolidare l’attività dell’associazione è stata la realizzazione del progetto espositivo a lui dedicato, Álvaro Siza. Viagem Sem Programa, evento collaterale all’ultima Biennale di Architettura di Venezia. Medicina Mentis, concepita come uno spazio aperto, luogo di incontro e confronto, prova a condividere e sostenere la cultura in ogni sua
espressione, attraverso iniziative diverse (mostre, incontri, progetti editoriali) che abbiano come comune denominatore la capacità “terapeutica” dell’arte, preziosa per la mente tormentata e talvolta assuefatta dell’homo urbanus. Le finalità e gli obiettivi che l’associazione si era posti con l’ambizioso progetto espositivo dedicato al maestro portoghese sono stati poi condivisi e sostenuti anche da importanti enti e autorevoli realtà aziendali. In principio c’era solo un’idea, quella di voler raccontare, attraverso i ritratti e i disegni di viaggio realizzati dal 1954 a oggi, il lato più intimo di Siza. Una buona dose d’incoscienza iniziale è stata poi accompagnata da numerosi eventi positivi, che hanno reso il progetto sempre più grande e impegnativo. Dopo il benestare di Siza, è cominciata infatti la parte più emozionante e faticosa del “viaggio sen-
La capacità “terapeutica” dell’arte, preziosa per la mente tormentata e talvolta assuefatta dell’homo urbanus
BALSAMO PER LA MENTE Il progetto dedicato ad Álvaro Siza, oltre ad aver richiesto molti mesi di lavoro, è stato concepito come evento itinerante. Numerosi musei e gallerie, sia in Italia che all’estero, dopo la chiusura della mostra a Venezia, hanno contattato l’associazione per esporre la collezione Viagem Sem Programa. Ovviamente, visto il momento di crisi generalizzata e la difficoltà nel reperire fondi, ci sono tutta una serie di valutazioni da fare prima di affrontare nuovi impegni, soprattutto per un’associazione completamente autofinanziata dai soci. Attualmente stiamo lavorando alla pubblicazione multilingue della video-intervista a Siza, realizzata in occasione della Biennale di Architettura. Ci sono poi altri ambiziosi progetti che hanno come filo conduttore quello di percorrere sentieri poco battuti o di raccontare storie di vita mettendo a confronto linguaggi diversi. Tra gli altri: la realizzazione di un docu-film in cui musica e poesia di denuncia si fondono insieme, per raccontare le trasformazioni politiche e sociali della nostra epoca; o ancora un progetto espositivo che affronterà il problema delle mafie, spingendosi in una zona di scontro tra la finzione e la realtà. Oltre ai progetti di respiro internazionale, ci interessa anche lavorare sul territorio. Stiamo infatti mettendo a punto un programma di corsi e workshop che, grazie all’ausilio di professionisti del settore, approfondiranno le tematiche legate alla comunicazione e al mondo delle arti visive. Data poi l’esperienza positiva nata dalla collaborazione con la Fondazione Querini Stampalia di Venezia, stiamo gettando le basi per definire nuove iniziative culturali con realtà che condividono scopi e finalità dell’associazione. www.medicinamentis.it
I COLPEVOLI
za programma” intrapreso dall’associazione: dalla notizia dell’approvazione del progetto da parte del comitato scientifico della Biennale come evento collaterale, fino all’assegnazione del Leone d’Oro alla Carriera al grande architetto. Gli incontri nel suo studio di Porto si sono fatti sempre più frequenti. Viaggi in aereo e lunghissimi itinerari in macchina, da un capo all’altro dell’Europa, per realizzare il videodocumentario a corredo dell’esposizione. E poi tante notti insonni, per reperire i fondi utili a completare l’allestimento, e accesi scambi di opinioni. I soci e i sostenitori di Medicina Mentis condividono la passione per l’arte, i viaggi, la fotografia e la musica. E sono tutti appassionati di storie insolite o poco “frequentate”. Come quella che ci ha portati, nel maggio del 2012, a organizzare un reading di poesie con Jack Hir-
schman, poeta della contro-cultura americana, incontrato per caso qualche anno prima in un bar, nel quartiere di North Beach, a San Francisco. Il viaggio rappresenta, in generale, un’essenziale fonte d’ispirazione, il miglior cibo per la mente e il momento perfetto per gli incontri più imprevedibili. Poter accedere all’archivio personale dell’architetto Siza e alle centinaia di disegni che raccontano e fermano i momenti di un’intera vita è stato, per Greta Ruffino e Raul Betti, curatori della mostra e soci di Medicina Mentis, un privilegio raro. Il fatto di poter passare del tempo con lui, restando catturati dalla sua voce e dai suoi racconti, mentre l’ennesima sigaretta si consumava tra le dita, è stato proprio come compiere un viaggio, tra saggezza e misura, tra importanti legami professionali e storie di amicizia.
Il viaggio rappresenta, in generale, un’essenziale fonte d’ispirazione, il miglior cibo per la mente
RAUL BETTI Dopo la laurea in Architettura allo Iuav di Venezia, entra a far parte dell’ufficio tecnico, marketing e pubblicità di un’azienda della grande distribuzione. Nel 2004 fonda un laboratorio creativo che si occupa di comunicazione integrata, retail design, progettazione di interni, lighting e packaging design. A seguito delle esperienze maturate, affronta tematiche di progetto con particolare attenzione alla commistione tra le differenti discipline, integrando tecnica ed estetica, funzione e qualità. Le specifiche competenze tecniche, legate allo sviluppo di conoscenze commerciali, gli consentono una visione ampia e strategica di tutte le fasi progettuali: dalla nascita allo sviluppo di un progetto, dalla diffusione di un prodotto, di un manufatto alla comunicazione integrata. Appassionato di fotografia, arte e viaggi, si è dedicato nel corso degli anni all’organizzazione e alla promozione di iniziative culturali ed eventi. GRETA RUFFINO Laureata in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Padova, da sempre coltiva la passione per la parola scritta e per il mondo della comunicazione visiva nelle sue espressioni più diverse. Ha ricoperto per dieci anni la funzione di corporate image manager presso un network internazionale di comunicazione e progettazione, dove si è occupata della gestione e del rafforzamento dell’immagine dell’agenzia verso l’esterno, in Italia e all’estero. Attualmente gestisce progetti di comunicazione e progetti editoriali legati all’architettura, al design, alla fotografia, segue l’ufficio stampa e l’organizzazione di eventi speciali e convegni, relazionandosi con interlocutori sia pubblici che privati e personalità del mondo della cultura e delle aziende. È docente di Packaging Design presso la Facoltà di Scienze dalla Comunicazione dell’Università IUSVE nelle sedi di Venezia e di Verona.
FOCUS 37
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BELLO E DANNATAMENTE BRAVO. GIONI E LE ANTICIPAZIONI SULLA BIENNALE
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“IO CHE HO VISTO NASCERE L’ARTE POVERA”. LIA RUMMA SI RACCONTA
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LA MODA E L’ARTE PUBBLICA. ANNA ZEGNA INTERVISTATA A MUMBAI
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STORIE DI GALLERISTI CHE HANNO SCELTO L’ITALIA. SENZA ESSERCI NATI
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NUCLEO TUTELA DEI CARABINIERI. LA CSI NOSTRANA
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LA CURATELA IN TRE PAROLE. ULTIMA PUNTATA DELL’INCHIESTA
a cura di valentina tanni
VIAGGIO AL CENTRO DELL’IMMAGINE GIONI RACCONTA LA SUA BIENNALE
C
ome sei venuto a conoscenza dell’opera di Marino Auriti, che dà il nome alla tua Biennale? L’opera di Auriti, il Palazzo Enciclopedico, è conservata al Folk Art Museum di New York, uno dei miei musei preferiti. È un luogo che ha avuto un percorso un po’ travagliato: una volta si trovava accanto al MoMA, ma poi ha dovuto chiudere per mancanza di fondi e ora è vicino a Lincoln Center. Si tratta di uno dei luoghi più interessanti per la raccolta di opere d’arte di outsider e autodidatti. Già da tempo includo nelle mie mostre figure un po’ eccentriche e il Folk Art Museum è un posto che mi ha sempre affascinato. Il tema della tua mostra presenta, almeno sulla carta, alcune suggestioni in comune con il Fare Mondi di Birnbaum. In che modo ci somiglia e in cosa si differenzia? Credo ci siano abbastanza elementi di netta discontinuità con il mio progetto. Il primo, più ovvio, è lo spettro storico del Palazzo Enciclope-
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ATTUALITà
dico. Non è una storia intesa come cronologia, ma abbraccia molto più tempo. Quando ho iniziato a lavorare alla mostra, ho pensato che l’opera più “vecchia” sarebbe stata il Libro Rosso di Carl Gustav Jung, ma in realtà ci sono anche opere di inizio Novecento e qualche scampolo di fine Ottocento. Daniel è un amico e per lui ho molto rispetto, ma mi sembra che il nostro lavoro sia molto diverso. Paradossalmente, anche se sono di una generazione di curatori che viene dopo quella di Bonami, di Obrist (che è poco più vecchio di me) e di Birnbaum, e anche se mi sono formato alla loro scuola, la Biennale a cui forse si può più avvicinare la mia è piuttosto quella di Jean Clair del 1995, se non altro nell’idea di costruire una mostra “storiografica”, all’interno della quale vengono
ospitati oggetti di varo tipo e non solo opere d’arte. Questa era stata la grande novità della mostra di Clair, ma stranamente è stata la meno recepita, e tutti ormai pensano a lui come a un conservatore. La Biennale di Venezia è stata per molto tempo il luogo dove presentare “il nuovo”. Da qualche anno, invece, e nel tuo progetto questa tendenza si delinea in maniera ancora più decisa, abbiamo visto mostre più riepilogative, didattiche, che cercano di stabilire connessioni tra epoche diverse e modi di fare arte anche lontani nel tempo. Qual è secondo te il ruolo della Biennale oggi? Il paradigma della Biennale come luogo del “nuovo”, quel tipo di Biennale che Peter Schjeldahl, il critico del New Yorker, ha battezzato criticamente come “festivalismo”,
L’altro giorno parlavo con Bonami e lui mi diceva: la tua è un’anti-biennale, perché somiglia più a un museo, e in un certo senso ha ragione
corrisponde a un momento storico preciso. Emerge negli Anni Novanta e prosegue anche durante questo inizio secolo, ma è soltanto una fase. Se ripensiamo alle Biennali degli Anni Settanta e Ottanta, notiamo che c’erano spesso retrospettive e materiali storici. La prima Biennale di Germano Celant, Ambiente Arte, del 1976, è una mostra che guarda alla tradizione dell’ambiente, partendo da Man Ray ed El Lissitsky fino ad arrivare all’arte di ambiente californiana. C’era un’idea di storia e di sincronia molto più stratificata e ricca. Questo elemento si è poi perso e abbiamo visto emergere l’idea della Biennale come luogo della novità. Non posso e non voglio fare il fustigatore del mercato, però credo che il risultato di questa tendenza abbia portato a una distorsione. Si è creata una situazione per cui è molto facile fare una mostra di artisti giovani, mentre è difficile trovare risorse per prendere in prestito una determinata opera invece che un’altra. Ho scelto di fare una mostra come il Palazzo Enciclopedico anche per op-
photo: ©Francesco Galli
Non una mostra d’arte ma di “cultura visiva”. Così Massimiliano Gioni descrive la sua Biennale, un progetto che affronta il tema dell’immaginazione e riporta in primo piano l’interiorità dell’artista e la sua capacità di produrre storie, forme, universi. Una Biennale che vuole somigliare più a un museo che a una fiera. Artribune ha intervistato l’ideatore del Palazzo Enciclopedico, che aprirà a Venezia il 1° giugno.
pormi a un certo tipo di pratica curatoriale, che considero esaurita. La Biennale, insomma, non deve somigliare ad Unlimited [sezione di grandi installazioni della fiera Art Basel, N.d.R]. L’altro giorno parlavo con Francesco Bonami e lui mi diceva: la tua è un’anti-biennale, perché somiglia più a un museo, e in un certo senso ha ragione. Nella tua Biennale c’è un’alta percentuale di artisti già deceduti… Io dico sempre che l’arte, quando è buona, non va a male. La questione del sovraccarico di immagini (quello che tu stesso hai definito “diluvio dell’informazione”) è una realtà con cui ogni artista contemporaneo deve confrontarsi. Quali sono le strategie che vedi adottare? Quali le modalità di reazione al nuovo ecosistema delle immagini? Una delle strategie consiste nel chiudere gli occhi. È una metafora che sarà simboleggiata dalla presenza della maschera di Breton, un calco del suo volto a occhi chiusi. Si trat-
ta, se vuoi, di un tentativo di difesa, ma quando chiudi gli occhi al mondo finisci per vedere che c’è tantissimo già dentro di te. Potrà sembrare un’ovvietà, ma ogni individuo produce milioni di immagini già all’interno della propria testa, e la mostra ci ricorda che questo succedeva anche prima che diventassimo una cultura così massicciamente iconografica. Un’altra strategia è quella adottata, ad esempio, da Tino Seghal: niente più riproduzioni. Si sceglie di non aggiungere oggetti al mondo. Susan Sontag la chiamava “ecologia delle immagini”.
mi a cui ho scritto, è un artista che fa pochissime mostre. Per un anno ci siamo inviati lettere, ma mi ha finalmente ammesso al suo cospetto solo due settimane fa. Quando sono andato da lui, mi ha fatto vedere il suo studio: un cubo perfetto 20x20 m, che a volte resta vuoto per anni mentre lui pensa, lavora, calcola, per arrivare magari ad allineare venti tubi di ottone. Per concepire quei tubi c’è bisogno però di un lungo processo di “rallentamento” dell’immagine che è estremamente interessante.
È una mostra che ha anche qualche momento di teatralità, ma più attraverso l’accumulo che attraverso il “botto”
Il percorso della tua mostra si conclude con Walter De Maria, che presenterà un’opera monumentale ma minimale, un’immagine di un’essenzialità estrema. Walter De Maria è stato uno dei pri-
C’è anche la volontà di rifiutare l’idea che l’arte sia necessariamente fatta di immagini forti o scioccanti? Sì, e in un questo senso la mostra va contro me stesso. È una mostra che ha anche qualche momento di teatralità, ma più attraverso l’accu-
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mulo che attraverso il “botto”. Sono curioso di vedere l’effetto che farà. Cosa intendi per “accumulo”? È una mostra fatta di tantissimi oggetti individuali. Oggetti discreti messi uno vicino all’altro. Di Yüksel Arslan, ad esempio, presentiamo cinquanta disegni; di Rudolf Steiner ne abbiamo quaranta. Ci sono grandi accumuli di oggetti singoli, e se vuoi anche simili. Sia che si tratti di artisti professionisti che di outsider, si può notare una certa “coazione a ripetere”. Nella tua mostra ci saranno anche artisti non professionisti. Questo interesse recente per l’arte degli “irregolari” somiglia un po’ al primitivismo del primo Novecento. Cosa attrae negli amatori? Forse la loro “purezza”? È vero che stiamo assistendo all’emergere di un certo feticismo dell’outsider, accompagnato da questo mito del “puro”. È una scelta che in un certo senso pulisce anche la coscienza al curatore, mettendolo al riparo da sospetti di mercantilismo.
ATTUALITà 41
L’AREA OCCUPATA DALLA BIENNALE
NUOVI PADIGLIONI NAZIONALI
(AL NETTO DI PADIGLIONI ED EVENTI COLLATERALI IN CITTÀ)
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76 65
Arsenale 46mila mq
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56
53
3 2005
4 2003
Giardini 50mila mq 10
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ORIGINE DEGLI ARTISTI INVITATI DA GIONI
2013
4 2011
5 2009
1 2007
(dati la Biennale di Venezia)
(PAESI CON ALMENO 4 PRESENZE - SI SEGNALA LA SPAGNA CON 0 ARTISTI)
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4 2001
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» VIAGGIO AL CENTRO DELL’IMMAGINE Questo però, secondo me, è l’aspetto più kitsch e più pericoloso, e cerco di evitarlo. La questione è tuttavia molto delicata. Mi sono interrogato a lungo sul tema nel progettare questa mostra, ma anche in passato; questo elemento c’era infatti anche nella Biennale di Gwangju e nella mostra che ho fatto l’anno scorso al New Museum, A Ghost in the Machine. Quello che cerco di fare, e ci ho messo un po’ a capire come farlo in maniera sistematica, è costruire mostre che non siano solo d’arte, ma di “cultura visiva”. In questo modo, se nella stessa esposizione hai Charles Ray e Morton Bartlett, non hai più il problema di determinare quale dei due è un artista e quale è “assimilato”. Allargando il quadro, in un certo senso anche Charles Ray diventa “sintomo” di una determinata temperie culturale. L’opera è allo stesso tempo opera d’arte e “reliquia” di una storia esistenziale. Il tutto viene collocato su un piano di riflessione sull’immagine e ci si sbarazza anche del problema del capolavoro. A me in fondo non interessa che tutte le opere esposte siano capolavori, mi interessa che chi visita la mostra possa riconoscere i diversi modi di confrontarsi con la produzione e il consumo di immagini.
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ATTUALITÀ
In che senso l’opera d’arte è un sintomo? Quando si visita il Metropolitan Museum, ci si confronta con una concezione di arte molto più ampia, una concezione che vede l’arte integrata nella cultura, anche in quella materiale. Succede così dai vasi greci fino all’Ottocento. Quando arriva il Novecento, e in particolare l’arte contemporanea, invece, nelle sale troviamo solo i quadri dei grandi maestri. Quadri bellissimi, ma in cui l’opera finisce per esaurirsi in una replica di se stessa. Lo spettatore vede Warhol e pensa: “Che bello!”. Ma Warhol non è bello in se stesso, è interessante perché testimonia un certo modo di consumare, percepire e distribuire le immagini. Se viene isolato non ha più senso, se non nella semplice meraviglia di dire “che bello!” o, peggio, il suo valore rischia di diventare esclusivamente quello economico. Con questo tipo di mostra vorrei, da una parte, uscire dalle equazioni capolavoro-tautologia di se stesso e
capolavoro-mercato; dall’altra, illustrare i tanti modi diversi di abitare la società dell’immagine. Ci sono altri curatori, della tua generazione o più giovani, che portano avanti un lavoro simile al tuo su questi temi? Prima lo si faceva in modo diverso, perché c’erano altri problemi. Mi è capitato di recente di parlarne con Hans-Ulrich Obrist. Gran parte delle sue mostre, ad esempio, sono “ricettari” (nel senso alto del termine), sono formule: la mostra in cui porti via tutto, o la mostra di partecipazione. Era un modo, non so nemmeno se conscio, di sgretolare l’idea dell’artista Anni Ottanta, del grande pittore con il grande ego. Si trattava di progetti più operativi, immateriali, che guardavano all’arte degli Anni Sessanta. Ma penso che esistano momenti di rottura generazionale. In questo momento mi chiedo se magari questa mostra sembrerà arrivare in ritardo; molti osservatori, ad esempio, ci hanno visto delle similitudini
Warhol non è bello in se stesso, è interessante perché testimonia un certo modo di consumare, percepire e distribuire le immagini
con l’ultima edizione di Documenta. Ma anche se a qualcuno potrà sembrare che arrivi dopo, questa Biennale è frutto di un lavoro che faccio da una decina d’anni almeno. Nelle mie mostre spesso l’opera d’arte è traccia di una storia, che si tratti di Ryan Trecartin o di Friedrich Schröder-Sonnenstern, le opere vengono inserite all’interno di un misto esistenziale di racconti, storie e modi. Hai risposto citando solo Obrist… Un altro curatore che lavora molto su strategie museali è Jens Hoffman. Non è molto diffuso, quindi, questo tipo di approccio? No, però è nell’aria, e il fatto che anche l’ultima Documenta avesse queste caratteristiche lo dimostra. Mi sono interrogato molto su questo: se fare una Biennale solo di possibilità e non di riflessione, ma io penso che (magari sono conservatore) quando lavori a una mostra che vedranno 500mila persone, non puoi pensare di proporre un percorso che non dica niente nel suo insieme. Io spero che la gente esca dalla mostra non soltanto dicendo “che bella quell’opera che ho fotografato con il telefonino”, ma anche pensando magari “perché ho in mano questo telefonino e cosa dice questo su me stesso”…
IN BIENNALE CI SARANNO… Hilma af Klint, Victor Alimpiev, Ellen Altfest, Paweł Althamer, Levi Fisher Ames, Yuri Ancarani, Carl Andre, Uri Aran, Yüksel Arslan, Ed Atkins, Marino Auriti, Enrico Baj, Mirosław Bałka, Phyllida Barlow, Morton Bartlett, Gianfranco Baruchello, Hans Bellmer, Neïl Beloufa, Graphic Works of Southeast Asia and Melanesia, Hugo A. Bernatzik Collection, Stefan Bertalan, Rossella Biscotti, Arthur Bispo do Rosário, John Bock, Frédéric Bruly Bouabré, Geta Bratescu, KP Brehmer, James Lee Byars, Roger Caillois, Varda Caivano, Vlassis Caniaris, James Castle, Alice Channer, George Condo, Aleister Crowley e Frieda Harris, Robert Crumb, Roberto Cuoghi, Enrico David, Tacita Dean, John De Andrea, Thierry De Cordier, Jos De Gruyter e Harald Thys, Walter De Maria, Simon Denny, Trisha Donnelly, Jimmie Durham, Harun Farocki, Peter Fischli & David Weiss, Linda Fregni Nagler, Peter Fritz, Aurélien Froment, Phyllis Galembo, Norbert Ghisoland, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Domenico Gnoli, Robert Gober, Tamar Guimarães e Kasper Akhøj, Guo Fengyi, João Maria Gusmão e Pedro Paiva, Wade Guyton, Haitian Vodou Flags, Duane Hanson, Sharon Hayes, Camille Henrot, Daniel Hesidence, Roger Hiorns, Channa Horwitz, Jessica Jackson Hutchins, René Iché, Hans Josephsoh, Kan Xuan, Bouchra Khalili, Ragnar Kjartansson, Eva Kotátková, Evgenij Kozlov, Emma Kunz, Maria Lassnig, Mark Leckey, Augustin Lesage, Lin Xue, Herbert List, José Antonio Suárez Londoño, Sarah Lucas, Helen Marten, Paul McCarthy, Steve McQueen, Prabhavathi Meppayil, Marisa Merz, Pierre Molinier, Matthew Monahan, Laurent Montaron, Melvin Moti, Matt Mullican, Ron Nagle, Bruce Nauman, Albert Oehlen, Shinro Ohtake, J.D. ‘Okhai Ojeikere, Henrik Olesen, John Outterbridg, Paño Drawings, Marco Paolini, Diego Perrone, Walter Pichler, Otto Piene, Eliot Porter, Imran Qureshi, Carol Rama, Charles Ray, James Richards, Achilles G. Rizzoli, Pamela Rosenkranz, Dieter Roth, Viviane Sassen, Shinichi Sawada, Hans Schärer, Karl Schenker, Michael Schmidt, Jean-Frédéric Schnyder, Friedrich SchröderSonnenstern, Tino Sehgal, Richard Serra, Shaker Gift Drawings, Jim Shaw, Cindy Sherman, Laurie Simmons e Allan McCollum, Drossos P. Skyllas, Harry Smith, Xul Solar, Christiana Soulou, Eduard Spelterini, Rudolf Steiner, Hito Steyerl, Papa Ibra Tall, Dorothea Tanning, Anonymous Tantric Paintings, Ryan Trecartin, Rosemarie Trockel, Andra Ursuta, Patrick Van Caeckenbergh, Stan VanDerBeek, Erik van Lieshout, Danh Vo, Eugene Von Bruenchenhein, Günter Weseler, Jack Whitten, Cathy Wilkes, Christopher Williams, Lynette Yiadom-Boakye, Kohei YoshiyUKi, Sergey Zarva, Anna Zemánková, Jakub Julian Ziółkowski, Artur Zmijewski
A proposito di telefonini, non pare ci sia molta tecnologia in mostra. Ci saranno Ryan Trecartin, Stan VanDerBeek, Mark Leckey. Leckey, secondo me è, insieme a Trecartin, l’artista che meglio parla della condizione digitale. Nel caso di Trecartin la condizione digitale è sapere tutto, contemporaneamente, al volume massimo, e questo in un certo senso dissolve l’individuo in una sorta di fantasma. Quella di Leckey invece è una riflessione sull’ontologia dell’immagine nell’era digitale. Poi c’è anche Helen Marten, che è di una generazione successiva a Leckey. Mark ha influenzato molto una nuova scena inglese, composta appunto dalla Martens, da James Richards, da Ed Atkins, tutti artisti che riflettono sulla condizione digitale e che saranno presenti in mostra. Poi c’è Simon Denny, che in un certo senso porta anche più in là la riflessione che faceva Seth Price sulla distribuzione delle immagini. Però non ci sono molte opere dove la tecnologia è presente come strumento. Sì, è vero. Ma è un po’ come la politica: l’arte che parla esplicitamente di politica spesso si esaurisce in illustrazione. Allo stesso modo, l’opera
che usa la tecnologia rischia di diventare obsoleta dopo pochissimo tempo. L’opera che parla della metafora della tecnologia, invece, è più interessante, e di quella ce n’è molta nella mostra. Il Palazzo Enciclopedico può essere considerato una specie di “archeologia di Internet”. È una mostra che, per parlare di oggi, dell’eccesso di immagini, del diluvio informativo, va a ricercare le origini di tutto questo. E magari queste radici le trova in Steiner piuttosto che nell’arte digitale.
nell’edizione precedente. Questa è stata la decisione più faticosa, perché molti compagni di strada e di visioni erano presenti nella scorsa edizione. Non ci sono eccezioni? Sì, c’è qualche piccola eccezione. Ci saranno Fischli e Weiss perché volevo omaggiare Weiss, e ci sarà Rosemarie Trockel perché è stata scelta da Cindy Sherman nella sezione curata da lei. E poi c’è Trisha Donnelly, che era presente nella scorsa edizione e abbiamo deciso di posizionare la stessa opera nello stesso punto. Ci piaceva l’idea di sfidare la convenzione per cui un’opera deve necessariamente “andare via” e non possa essere ancora lì due anni dopo. Per dimostrare che l’arte sfugge alle logiche dell’obsolescenza programmata. Per tornare ai padiglioni nazionali, sono molto curioso di vedere Jeremy Deller e sono felice anche che ci sia il Libano con Akram Zaatari e il Kosovo con Petrit Halilaj.
Quando lavori a una mostra che vedranno 500mila persone, non puoi pensare di proporre un percorso che non dica niente nel suo insieme
Parliamo dei padiglioni nazionali. Ce ne sono alcuni che sei ansioso di vedere o su cui hai avuto delle anteprime? Ci sono molti coetanei e amici nei padiglioni nazionali: Anri Sala, Mark Manders, Jeremy Deller, James Campbell. Ho scelto di adottare due scelte un po’ faticose durante la selezione degli artisti: nessun artista che fa un padiglione nazionale sarà nella mia mostra, eccezion fatta per Baruchello. E ho scelto di non chiamare nessun artista che era
Come descriveresti il tuo rapporto con il mercato? Jean Clair, nel suo Inverno della cultura, racconta di Roger Caillois che va in Corea a visitare l’inaugurazione del museo di storia, negli Anni Cinquanta, e vede il pubblico che davanti a una statua del Buddha si inginocchia. Tale è la forza di quell’immagine che i visitatori, invece di vederla come opera d’arte, la vedono come oggetto sacro anche all’interno di un museo. Jean Clair commenta dicendo che sarebbe incredibile se si potesse fare l’equivalente di quell’esperienza oggi: andare a vedere una mostra e percepire il carattere sacrale delle opere. Io non sono contro il mercato e non ho un atteggiamento luddista, perché bisogna essere anche pragmatici: la “professionalizzazione” dell’arte ci fa campare e ci dà un ruolo. Il problema sorge però se l’esperienza della mostra diventa chiedere il prezzo, sapere chi ha comprato una certa opera o sapere che la sua inclusione è determinata da varie strategie. A me piacerebbe che il pubblico, anche professionista, vedesse la mostra con uno sguardo diverso. Non dico come il coreano che si inginocchia di fronte al Buddha, ma senza preoccuparsi della quotazione delle opere.
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LIA RUMMA di francesco sala
IL DIRETTO NAPOLI-MILANO
I
l marito Marcello ha contribuito a “inventare” l’Arte Povera. Lia è stata comburente essenziale per lo sviluppo culturale di una Napoli oggi fortemente rimpianta; ha poi scelto Milano per continuare a fare arte, legando per sempre alla città il nome di Anselm Kiefer. Basta questo per dire, in sintesi, chi sia Lia Rumma? Io non so chi sia davvero Lia Rumma. Il mio è un percorso continuo, una ricerca costante; se devo rispondere su due piedi, posso dire che sì, Lia Rumma è una gallerista che ha cominciato la sua attività in Campania e poi ha aperto uno spazio a Milano [nella foto di Corinna Cappa]. Ma non è una risposta esaustiva... Partiamo dal principio, allora, e magari arriveremo a un ritratto più completo. Da dove arriva Lia Rumma? Da qui, da Milano. Si parla spesso di me come di una gallerista napoletana, ma in realtà ho origini lombarde: sono nata a Voghera e ho vissuto,
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fino ai dieci anni, prima a Milano e poi a Como. Per cui, quando ho deciso di aprire uno spazio in città non posso dire di essermi trasferita, ma di essere tornata; ho chiuso il cerchio della mia vita: sono nata qui, mi sono spostata e sono tornata. L’incontro con l’arte contemporanea, però, arriva al Sud... Vengo da una famiglia “classica”: mio padre era un appassionato latinista e dantista e naturalmente ha dato ai suoi figli una formazione sensibile a quel genere di cultura. L’incontro con mio marito Marcello - un destino! Il mio destino! – mi ha portata invece a vivere molto il presente. Ci appassionammo a ciò che succedeva, in arte, nella nostra contemporaneità: lui già a diciotto anni era un collezionista attento e molto acuto.
Un collezionista che non si limitava a sostenere gli artisti comprando opere, ma costruendo occasioni di incontro e confronto. Benché giovanissimo, era già un protagonista, tant’è che nel ’68 ha firmato con Germano Celant la grande mostra ai cantieri di Amalfi che ha lanciato il movimento dell’Arte Povera, tra i più importanti eventi dell’arte italiana negli ultimi quarant’anni, e ha dato con quella mostra una dimensione assolutamente internazionale al movimento. Marcello fu il prezioso sponsor e organizzatore di Amalfi ’68 (allora avevamo davvero pochi soldi) ma furono invitati tutti quegli artisti quali Merz, Paolini, Zorio, Pistoletto ecc. che, nelle tre giornate di Amalfi, dettero vita a una delle più belle storie italiane della nostra contemporaneità. Una tre-giorni che
Ho chiuso il cerchio della mia vita: sono nata qui, mi sono spostata e sono tornata
oggi è ricordata in tutti i libri di storia dell’arte: erano stati invitati critici importanti e fatto un convegno di cui furono pubblicati gli atti. È stata la prima volta che gli artisti di quel gruppo hanno potuto confrontarsi direttamente con colleghi stranieri. È stata la prima volta che Richard Long è venuto in Italia. Che clima si respirava in quei giorni ad Amalfi? Non dico inconsapevolmente, ma sportivamente, allegramente - perché poi si chiacchierava, si giocava - in quel contesto abbiamo fatto la storia dell’arte italiana degli ultimi anni. Da quella esperienza come si arriva alla galleria? Nel ’69 Marcello inaugura la sua attività di editore, pubblicando siamo stati i primi a farlo in Italia - testi inediti di Marcel Duchamp: Marchand du sel, il mercante del sale. Era lui stesso, con tutto un gruppo di intellettuali che ruotavano attorno alla nostra casa di Salerno, dove il mio tavolo da pranzo era sempre
Se dovessimo stabilire una data e un luogo in cui ha inizio questa storia, diremmo Amalfi 1968. È lì e in quell’anno che l’Arte Povera mostra tutta la sua forza. A tirare le fila curatoriali c’è Germano Celant, ma tutto il resto lo fanno Marcello e Lia Rumma, giovani collezionisti appassionati d’arte contemporanea. Il resto è storia raccontata dalla viva voce di Lia in questa intervista, che segue quelle già pubblicate di Sperone, Mazzoli, Sargentini, Marconi e Tucci Russo.
imbandito, a dettare la linea editoriale: accoglievamo la migliore intellighenzia europea e internazionale. Basti pensare che Pistoletto scriveva, proprio a casa nostra, L’Uomo Nero. Ma ancora non siamo alla nascita della galleria... Marcello muore nel 1970, a 27 anni. Ecco: Lia Rumma si aggancia qui, viene da questa storia. Per necessità economica, non per scelta, ho fatto la gallerista: non volevo farlo, avrei voluto essere collezionista, protagonista in prima persona. Arriviamo allora a un nuovo spostamento: quello da Salerno a Napoli. In una città di provincia non potevo fare granché, è a Napoli che comincio la mia attività di gallerista. Con grandi contraddizioni, vivendo un po’ tra il voglio e il non voglio. Come in fondo ho sempre fatto, cedendo sempre infine a una passione più forte: perché ogni volta che ho pensato di astenermi dall’arte mi sono poi trovata invece a cercarla ancora più ostinatamente.
I primi passi della galleria sono stati nel segno dell’Arte Povera, seguendo il lavoro che era partito con Marcello ai tempi della straordinaria esperienza di Amalfi. Una linea che poi è stata mantenuta: Lia Rumma non ha seguito troppo l’oscillazione delle mode. Ho spesso fatto scelte molto anti-commerciali; ho avuto anche una profonda crisi sul mercato: per due anni ho smesso di lavorare quando, nel passaggio tra Anni Settanta e Ottanta, si è affacciata sulla scena la Transavanguardia.
cidere se abbracciare anche questa nuova corrente che portava moltissimi soldi ai galleristi, ma non ne sono stata capace. Insomma: a lei la Transavanguardia proprio non piace… Mi sembra presuntuoso da parte mia esprimere un giudizio sul movimento, lasciamo sia la storia a farlo. Sono rimasta fedele alle mie idee e agli artisti che amavo e in cui mi riconoscevo. Ho fatto questa scelta. E ho fatto la fame, in quel periodo. Ma ho preso le mie decisioni come sempre, sia nel bene sia nel male, con molta serenità e soprattutto con convinzione. Certo, mi sarebbe piaciuto fare un po’ più di soldi...
Sportivamente, allegramente in quel contesto abbiamo fatto la storia dell’arte italiana
Come ricorda il clima di quegli anni? Il confronto con gli artisti minimal e dell’Arte Povera era molto acceso. Io che avevo seguito una linea più sofisticata, concettuale, dovevo de-
Le sue scelte non seguiranno mode e tendenze, ma non pos-
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sono non dirsi eclettiche: è capitato nel corso degli anni che accogliesse e sostenesse artisti tra loro molto diversi, per sensibilità e percorso. Come riesce a dare unità a una visione così eterogenea dell’arte? Quando Joseph Kosuth vide che facevo Kiefer, quasi pianse: pensava fosse un tradimento dell’anima della galleria, del lavoro che avevo sempre fatto. Io gli ho risposto che esiste l’artista concettuale, non la gallerista concettuale: voglio essere libera di fare gli artisti che mi piacciono. Considero Kiefer un artista importante e dunque lo faccio, bene - anzi: meglio - se in contraddizione con te. Se ne è convinto? Lo ha fatto quando l’ho invitato a Milano per l’inaugurazione de I Sette Palazzi Celesti all’Hangar Bicocca: lui è venuto e mi ha detto che si trattava veramente di una grande cosa. E io: “Se lo pensi davvero, dillo a Kiefer, vieni che te lo presento”. Da lì sono diventati amici, la sera stessa erano insieme a ballare in discoteca.
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Io non so chi sia davvero Lia Rumma. Il mio è un percorso continuo, una ricerca costante
Ogni volta che ho pensato di astenermi dall’arte mi sono poi trovata invece a cercarla ancora più ostinatamente
Per necessità economica, non per scelta, ho fatto la gallerista:
non volevo farlo, avrei voluto essere collezionista
Milano mi preoccupa, non vedo grandi segni di rinnovamento; e forse, se la città avrà mai una ripresa,
questa si dovrà ai privati
L’incontro con mio marito Marcello - un destino! Il mio destino! – mi ha portata a vivere molto il presente
Ho visto tante gallerie, in giro per il mondo,
ma non ne ho mai trovata una che mi piacesse davvero
Siamo finiti, quasi naturalmente, da Napoli a Milano. Come è maturata la scelta di raddoppiare gli spazi e aprire una finestra al Nord? Gli artisti con cui oggi lavoro sono personalità di livello internazionale: come per ogni tipo di imprenditore, così anche per me Napoli non era abbastanza. Ho cercato un’altra città dove espandermi per rafforzare il mio lavoro, e non è detto che non ne cerchi ancora un’altra, se avrò voglia, se ce la farò ancora. Pensa a nuovi mercati? A Paesi emergenti? Non ho voglia di lunghe marce e di grandi voli: penso comunque di restare in Europa. Lo ritengo necessario: il periodo che stiamo vivendo è difficile, tragico. Non dico tanto economicamente, ma politicamente e culturalmente. Milano mi preoccupa, non vedo grandi segni di rinnovamento; e forse, se la città avrà mai una ripresa, questa si dovrà ai privati, a quello che potranno fare realtà come Prada o Feltrinelli, che stanno lavorando ai loro nuovi centri, ma non certo alle nostre istituzioni, il
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cui profilo mi sembra molto basso. Milano è una città interessante, ma in questo momento dorme, non risponde. Ed è grave che questo accada nella capitale economica d’Italia. Segni di risveglio sembrano arrivare, sempre su spontanee iniziative di privati, proprio dalla zona in cui ha scelto di aprire il nuovo spazio. Con l’operazione di Zona Ventura che arranca, possiamo parlare di Porta Garibaldi come di una nuova piattaforma per la cultura a Milano? Quando ho trovato questo spazio l’ho comprato in dieci giorni, non sapevo nemmeno in che zona fosse della città. Sono andata completamente a intuito, e non me ne pento. Vedo che questa zona comincia a essere guardata come quella giusta:
è a un passo dal centro, è viva; con il prossimo collegamento alla Linea 5 della metropolitana sarà raggiungibile ancora più comodamente. Si lavora benissimo qui, perché si può caricare e scaricare senza le limitazioni che incontri invece in pieno centro. E soprattutto è una zona tranquilla.
Ho spesso fatto scelte molto anticommerciali; ho avuto anche una profonda crisi sul mercato
Prima Lia Rumma, recentemente l’apertura di Peep-Hole negli spazi della Fonderia Battaglia: cosa manca a quest’area? Nulla! So che si stanno avvicinando anche altre gallerie: qui si può ancora lavorare bene, e i costi sono più abbordabili che altrove. Sto spingendo amici imprenditori ad aprire strutture di accoglienza, piccoli bed & breakfast che possano servire chi si sposta per lavoro: credo ce ne sia un gran bisogno a Milano e che questa sia la zona giu-
sta dove ospitare attività del genere. Un cantiere è già in attività, proprio a ridosso della galleria. E anche su questa operazione c’è il suo zampino... C’era questo lotto edificabile, ed ero terrorizzata che mi costruissero vicino un palazzaccio. Allora ho spinto mia sorella, che si occupa di design ma è anche imprenditore nel ramo immobiliare, a prendere in mano la situazione. Oggi stanno costruendo: io lì avrò un grosso deposito, una casa - così sarò vicina alla galleria ma ho anche convinto mia sorella a fare un bel box, completamente vetrato, dove esporre le sue creazioni nel campo del design. Un piccolo museo, insomma. Ma il progetto prevede anche l’apertura di un ristorante, un ulteriore contributo a rendere appetibile questa zona. Su via Stilicone trionfa, a prescindere da ciò che verrà, la mole della galleria. Quanto c’è di Lia Rumma in questo edificio? Ho visto tante gallerie, in giro per il mondo, ma non ne ho mai trovata una che mi piacesse davvero. Se en-
STORIA DI LIA, GALLERISTA PRODUCER Sono rimasta fedele alle mie idee e agli artisti che amavo e in cui mi riconoscevo. Ho fatto questa scelta. E ho fatto la fame
Quando ho trovato questo spazio, l’ho comprato in dieci giorni, non sapevo nemmeno in che zona fosse della città
Nella nostra casa di Salerno, dove il mio tavolo da pranzo era sempre imbandito, accoglievamo la migliore
intellighenzia europea e internazionale
Ho cercato un’altra città dove espandermi per rafforzare il mio lavoro, e non è detto che non ne cerchi ancora un’altra
tri in quelle americane, ad esempio, le trovi imponenti, con questo stuolo di segretarie schierate che mette quasi soggezione. Ecco, io non volevo questo. Per me, se entri in un luogo d’arte devi vedere l’arte, e così abbiamo fatto: la segreteria c’è anche nella mia galleria, ovviamente, ma è nascosta, non è aggressiva. Sono stata molto vicina ai progettisti, fino ad arrivare a vere e proprie battaglie, non solo verbali! Alla fine sono soddisfatta, e credo lo siano anche gli artisti che lavorano con me: amano questo ambiente che definirei classico. Perché, per quanto modernissimo, ha dimensioni non sproporzionate, contenute.
in progetti importanti, che hanno portato l’arte fuori dalla galleria e nel cuore delle sue città: pensiamo solo a Kentridge, in azione alla Scala e nella metropolitana di Napoli. Pensa di ripetere esperienze del genere? Vorrei creare un grosso evento in occasione di Expo 2015: sto pensando a quale contributo potrei dare a un appuntamento tanto importante. Ho avuto esperienze positive, in passato, nel rapporto con le istituzioni di Milano: ho lavorato molto bene con l’allora assessore alla cultura Finazzer Flory e con lo staff del PAC.
Quando Joseph Kosuth vide che facevo Kiefer, quasi pianse: pensava fosse un tradimento
Guardiamo al prossimo futuro, al di là del progetto di ampliare l’attività all’estero. Nel recente passato Lia Rumma è stata impegnata
Ora però il vento è cambiato. Quali rapporti ha con la nuova amministrazione? Al momento nessuno. Se non c’è una domanda… non c’è una risposta.
Nasce collezionista, cresce editrice, matura gallerista. Se solo avesse anche dipinto, Lia Rumma [nella foto di Luca Maria Castelli] avrebbe riunito in un’unica esperienza di vita tutte le gradazioni dell’arte, interpretando ogni ruolo possibile. Segue il marito Marcello nella straordinaria esperienza di Amalfi ’68 e lo accompagna nell’avventura di editore di libri d’arte e d’artista. Alla prematura morte del compagno, Lia Rumma sceglie di reinventarsi come gallerista: si trasferisce da Salerno a Napoli e nel 1971 apre un primo spazio espositivo in un ex garage nella zona di Parco Margherita; si inaugura con una personale di Joseph Kosuth e in brevissimo tempo la galleria diventa il punto di riferimento italiano per l’arte concettuale. Nel 1974 il trasloco in quella che diventerà la sede storica di via Vannella Gaetani, dove coabitano la dimensione della galleria e quella della residenza privata: ad aprire la nuova realtà è una personale di Douglas Huebler. Con l’esplosione della Transavanguardia Lia Rumma sale sull’Aventino: freddo il giudizio nei confronti della nuova corrente e negativo quello verso una critica e un mercato che sembrano invece impazzire per il ritorno alla pittura. Suona come gentilmente provocatoria, allora, la sospensione dell’attività della galleria tra la fine del 1978 e l’autunno del 1984: un periodo che non vede, naturalmente, l’addio di Lia all’arte. Come dimostra, nel 1979, la sua partecipazione ad Art Basel: nello stand nessuna opera, ma il messaggio “Non più mercante, ma collezionista di nuova cultura”. Praticamente una installazione. A metà Anni Ottanta, dunque, il grande ritorno: all’attività in galleria si affianca un intenso rapporto con le istituzioni della città partenopea, che vede Lia Rumma diventare figura di riferimento per la nascita di complessi progetti culturali. Risale al 1986 l’inizio della stretta collaborazione con il Museo di Capodimonte, fortemente voluto da Nicola Spinosa: è proprio Lia Rumma a firmare la curatela della grande retrospettiva su Gino De Dominicis e, nel 1988, quella della imponente personale di Kosuth; nel 1997 Lia porta, sempre a Capodimonte, Anselm Kiefer. Dopo aver momentaneamente lasciato, nel 1999 Lia Rumma raddoppia: una personale di Enrico Castellani inaugura, nello spazio di via Solferino, la vetrina milanese della galleria. Come accaduto a Napoli, anche all’ombra della madonnina si sviluppano sinergie con musei e istituzioni, lungo un binario che lega sempre più la galleria alla città: nel 2004 arriva l’installazione de I Sette Palazzi Celesti di Kiefer all’Hangar Bicocca. L’attività di Lia Rumma come producer prosegue lungo tutti gli Anni Zero: rende possibili le performance di Vanessa Beecroft in occasione del G8 di Genova (2001) e della Biennale di Venezia del 2007; porta al PAC la stessa Beecroft e Marina Abramovic. Produce per il San Carlo di Napoli l’allestimento dell’Elektra firmato da Kiefer e per la Scala quello de Il flauto magico secondo William Kentridge, che convince a intervenire anche alla stazione Toledo della metropolitana di Napoli. Subito eletta come una delle più belle d’Europa. Nel maggio del 2010 lo spostamento della galleria milanese da via Solferino al nuovo spazio realizzato appositamente in via Stilicone. www.liarumma.it
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di DANIELE PERRA
ZEGNA, L’INDIA E L’ARTE PUBBLICA I l gruppo Ermenegildo Zegna da anni è impegnato in progetti per la valorizzazione del territorio, come l’iniziativa della Fondazione Zegna All’Aperto (in programma, Marcello Maloberti con una performance conclusiva il 5 ottobre) o il neonato ZegnArt Public, progetto triennale su scala globale il cui primo appuntamento si è tenuto a Mumbai. Qui l’azienda ha prodotto un’opera di Reena Kallat [nella foto] che sarà donata alla città. I Paesi scelti sono l’India, la Turchia (appuntamento a settembre a Istanbul) e il Brasile. La critica più scontata è legata all’ambiguità che si crea tra l’obiettivo di conquistare nuovi mercati e l’uso di eventi d’arte come veicolo promozionale. Ma quando allo sviluppo commerciale di un gruppo si affiancano iniziative “genuine” di supporto culturale e scambio tra società, tale critica viene meno. Si potrebbe allora obiettare che in un Paese povero come l’India - il boom economico ha
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un andamento molto lento rispetto a realtà come la Cina - ci sarebbero tante altre aree d’intervento, ma rischieremmo di cadere nell’ipocrisia. L’arte contemporanea è ancora oggi un terreno élitario, anche nei Paesi industrializzati. Piuttosto sono la speculazione e la conquista aggressiva di nuove piazze per il mercato dell’arte a essere meccanismi aut o re f e re n z i a l i che non danno quasi mai vita a costruttivi dialoghi interculturali. Al Taj Mahal Palace di Mumbai abbiamo incontrato Anna Zegna per fare un primo bilancio del progetto ZegnArt Public.
ra sulla facciata del Dr. Bhau Daji Lad City Museum. L’attesa e il lavoro immenso che è stato fatto hanno dimostrato che questo non è solo un progetto visionario, ma è anche estremamente ben accolto dalla comunità di Mumbai e dal mondo dell’arte.
Nell’identità Perché Mumbai del progetto e nella come prima visione di ZegnArt c’è la tappa? l l’ i d e n t i t à parola dialogo. Dialogo tra Ne del progetto e culture, tra Paesi lontani nella visione di ZegnArt c’è la che condividono parola dialogo. valori Dialogo tra cultu-
Soddisfatta? È stata un’avventura straordinaria. Abbiamo finalmente visto la scultu-
re, tra Paesi lontani che condividono valori, ma che non sono ancora in contatto completamente. Mio fratello Gildo [Ceo del Gruppo, N.d.R.], che ha fortemente voluto questo progetto, ha identificato nell’India, nella Turchia e nel Brasile i primi Paesi che ci porteranno a fare questo percor-
so. Sono tre Paesi in tre continenti diversi, ognuno dei quali però ha caratteristiche di forte vitalità. E poiché noi sappiamo che l’arte è uno dei motori del cambiamento, quando si parla di ZegnArt Public pensiamo che sia straordinario consentire al Paese - attraverso un’istituzione pubblica di qualità - di creare un dialogo e di ragionare e riflettere su questo cambiamento. Ciò fa parte della visione di Zegna, di uno spirito pionieristico che ci ha sempre caratterizzato anche come imprenditori. È la bellezza d’imparare dal diverso. L’India è stata una sfida. Uno scenario molto interessante da cui partire. Reazione dei locali? Sicuramente di sorpresa. Sono abituati a vedere quel museo come qualcosa di lindo, perfetto. Trovarsi di fronte a questo elemento un po’ dissacrante sulla facciata è stata sicuramente una bella scommessa da parte della direttrice del museo.
HAMPI. LA CITTÀ DELLE ROVINE
Sono tanti i modi con cui un’azienda, nello specifico della moda, si avvicina all’arte. La formula della sponsorizzazione e del restauro non è più prerogativa dei gruppi bancari. La cosa si complica quando si opta per un ruolo più attivo, con dispendio di forze non solo economiche, ma organizzative e progettuali. E così c’è chi cerca nuove forme di dialogo col mondo dell’arte e con la società, come il gruppo Ermenegildo Zegna.
È un mattino di aprile 2011 a Hampi Bazar, un villaggio nello Stato del Karnataka, a 350 chilometri da Bangalore. Nell’agglomerato di costruzioni dall’aspetto scomposto, innalzato a ridosso del Tempio Virupaksha, si attende l’inizio della giornata: dopo un passaggio al sacro fiume Tungabhadra, tutti riprenderanno le consuete attività di accoglienza e ricezione della percentuale quotidiana del mezzo milione tra fedeli e turisti che ogni anno arrivano fin qui per pregare e scoprire le architetture dei palazzi dell’antica Vijayanagara. Già, perché Hampi Bazar è sorta tra le rovine di quella che, tra il XIV e il XVI secolo, fu la gloriosa capitale del regno di Vijayanagar, uno Stato alla cui storia e alla cui ricchezza pose fine nel 1565 un semestre di assedio portato avanti dall’alleanza dei cinque sultani del Deccan. A rendere memorabile quel risveglio di un anno e mezzo fa, una scoperta: sulle pareti esterne di abitazioni, ristoranti e botteghe, durante la notte sono comparse “X” colore rosso. Un atto intimidatorio? Una beffa? Le ruspe inviate dall’Autorità per la gestione e conservazione del patrimonio culturale indiano tradurranno in azione una decisione comunicata alla popolazione locale, secondo le cronache, in tempi rapidi e senza possibilità di confronto. Obiettivo: rimuovere ciò che è stato eretto, senza pianificazione, negli ultimi anni, delimitando la zona d’interesse storico-artistico e realizzando un’area archeologica fruibile a orari prefissati, non più in promiscuità con le attività commerciali e la vita quotidiana. A due anni dall’intervento, i residui di quel provvedimento restano la sola emergenza visibile di un tentativo di recupero ancora incompiuto. La scena suggerisce l’idea di un evento improvviso, certo di natura catastrofica, verificatosi poco prima: parti di insegne, terra, calcinacci, porzioni di lamiera formano una collina artificiale su cui affacciano le abitazioni rimaste intatte, sulla quale le vacche si avventurano in cerca di cibo. La maggior parte delle attività economiche hanno chiuso i battenti o ripiegato su aree periferiche, mentre un’umanità derelitta fa capolino tra le colonne di quello che doveva essere un lussureggiante mercato antico. Lungaggini burocratiche? Questioni di budget? Ci si domanda cosa abbia impedito almeno la rimozione dei detriti che oggi campeggiano esattamente lì dove un tempo risiedevano sotto altra forma, ovvero a due passi da uno dei templi più complessi (e visitati) del sud dell’India. A febbraio, la stampa indiana riportava la notizia di come fosse prossima l’erogazione di un risarcimento per quanti hanno perso la propria attività lavorativa, mentre per le famiglie rimaste senza abitazione sarebbero disponibili terreni fabbricabili a circa tre chilometri da Hampi. Ci si chiede cosa potrebbero diventare Hampi e il suo comprensorio nel giro di alcuni anni. Inserita nel 1986 tra i beni del Patrimonio Mondiale dell’Unesco (e definita nel 1999 “sito in pericolo”), ospita oltre 2.000 edifici e rappresenta una tappa immancabile di un itinerario nella zona meridionale del subcontinente. Oltre a racchiudere le testimonianze architettoniche di un irripetibile periodo della storia del Paese, ricade in un’area unica dal punto di vista naturalistico. Il granito è il principale materiale di costruzione di numerosi gruppi scultorei e di intere porzioni di edifici, dando vita a una continuità cromatica intervallata solo dalla puntiforme presenza delle palme. La casualità nella gestione delle aree più interessanti del sito, lasciata spesso al gusto personale degli autisti di autorisciò, sarà sostituita da un modello in grado di non compromettere l’autenticità del luogo? VALENTINA SILVESTRINI
Credo che la sorpresa sarà però alimentata dalla conoscenza. Quest’opera non è che l’inizio di un colloquio e di una relazione con la città. L’opera permette di interrogarsi sul passato, ma dà anche speranza di un impegno per il futuro. Braudel diceva che c’è la grande Storia ma c’è anche la piccola storia... e la piccola storia è formata dagli individui. Qual è stata la difficoltà maggiore? Una certa diffidenza che il progetto nascesse da un gruppo privato. Il timore che venisse accolto come una prevaricazione del privato su un’istituzione pubblica, che ha un board molto strutturato al quale partecipano membri di partito. La complessità è stata spiegare alla signora Mehta [direttrice del museo, N.d.R.] che la forza di Zegna è che famiglia e impresa sono la stessa cosa. Che i valori della Fondazione si ritrovano nel business e quindi che non avremmo gestito in maniera assolutamente diversa il progetto.
Quando i valori sono condivisi, la collaborazione diventa forte, perché a valere è la reciprocità. La Ermenegildo Zegna e la Fondazione Zegna sostengono l’arte e la cultura anche con attività filantropiche. Penso alla Panoramica a Trivero... Da qui a Mumbai, un bel salto! La bellezza di questo progetto è nella totale coerenza, cambia solo la scala. Auspicherei che in Italia si rivedesse la relazione tra pubblico e privato nella conservazione dell’arte e nella progettualità. Parlo di luoghi che potrebbero rinascere e vedere nuova vita grazie a nuove modalità di sfruttamento e utilizzo. Questi progetti non sono di breve ritorno, ma di lungo investimento. Tornan-
do a Trivero... Quest’anno Michelangelo Pistoletto compie 80 anni, e siccome suo papà lavorava già con mio nonno, abbiamo deciso di dedicargli un piccolo tributo in casa Zegna a Trivero con una mostra che inaugurerà il 12 maggio con tutte le tele che ha dipinto Ettore Olivero [padre di Michelangelo, N.d.R.] che documentano la costruzione della Panoramica Zegna.
Auspicherei che in Italia si rivedesse la relazione tra pubblico e privato nella conservazione dell’arte e nella progettualità
A settembre, poi, ZegnArt Public a Istanbul. Sarà tutto diverso, la città non ha un’istituzione paragonabile al tipo di museo con cui abbiamo collaborato a Mumbai e c’è una modalità diversa di lavorare. Il progetto sarà in collaborazione con la Istanbul Biennale.
Non pensa che il coronamento del progetto sia far sì che l’opera d’arte pubblica di volta in volta rimanga in modo permanente nella città scelta? Il concetto d’arte pubblica è assolutamente questo, lasciare una traccia permanente nella e per la città, ma non è sempre facile. Al museo abbiamo chiesto che nei prossimi dieci anni l’opera venga esposta un certo numero di volte, oltre al fatto che dovrà girare. La nostra intenzione è che l’opera sia permanente. Il contesto di volta in volta ci consentirà di capire la natura dell’opera e quindi se ciò è fattibile o meno. Per assicurare che l’installazione di Reena Kallat venga rimessa sulla facciata, abbiamo fatto un contratto per vent’anni, dando anche la somma di denaro necessaria per reinstallarla. Ci teniamo molto a che l’evento non sia effimero. www.zegnart.com
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di santa nastro
GALLERISTI IN & OUT GLI IMMIGRATI I l mercato in Italia langue. I collezionisti sono più cauti nel comprare. Oggi chi compra preferisce portarsi a casa nomi “estabilished”, magari morti, perché sono un investimento sicuro. Se comprano un emergente, lo fanno con il cuore. E l’Iva? Non ne parliamo. Questo 21% danneggia il mercato. E siamo tra i pochi in Europa a essere messi così. D’altra parte, le istituzioni non aiutano e ora, ora ci si sono messe pure le elezioni e la conseguente incertezza politica... Caro mio, che disastro! Quante volte, negli ultimi mesi, a una inaugurazione, a una cena, a un aperitivo d’arte abbiamo sentito queste (e altre) riflessioni? Tutto vero? Forse sì, forse no. Ma forse è anche vero che in Italia, come sempre, come in qualunque campo della vita sociale, culturale e politica, non c’è mai un’unica verità. Negare la crisi, dunque, sarebbe un errore, ma innalzarla a unico credo sarebbe altresì poco obiettivo. Nel nostro Paese, ad esempio, in tema di gallerie d’arte, ci sono stati quaranta operatori (forse di più) che solo nel
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2012 hanno chiuso i battenti, ci sono stati coloro che hanno deciso di andare all’estero (anche due volte: Mario Mazzoli ha aperto a Berlino e ora, la seconda sede, ad aprile la inaugura a Bruxelles), ma anche coloro che dal 2005 a oggi hanno voluto investire nelle nostre città - con una concentrazione più alta negli hub di Roma e Milano e una certa attenzione ai luoghi frequentati da un turismo di alto livello - e vivere qui. Questa inchiesta vuole capire perché si viene in Italia e perché si va via dall’Italia. Attraverso le parole di chi ha compiuto questa scelta. La parte del “veterano”, a una incollatura da Lorcan O’Neill, la fa Federico Luger, venezuelano d’origine ma nato in Italia, è ritornato nel 2002 e ha aperto la galleria nel 2005. La sua scelta, più che dettata
da una fredda strategia di mercato, aveva un che di necessario. Racconta, infatti, di essere uscito dal Venezuela “dopo le sommosse dell’11 aprile del 2002 a Caracas. Ero tra i manifestanti, tanti assassinati... tanti morti. Un inferno, per dirla in poche parole. È stato un giorno molto difficile. Ci sparavano. Dopo un colpo di Stato, un altro golpe. Sono fortunato a essere vivo. C’è gente che non crede alla fortuna. Io sì”. La scelta di diventare gallerista non è immediata. “A Caracas facevo l’artista e organizzavo molte mostre. Quando sono arrivato in Europa, non sapevo come cominciare. Così ho deciso di aprire uno spazio, forse il più modesto spazio d’arte a Milano finora mai visto. Ho aperto la partita Iva e ho subito iniziato a fare mostre e fiere. Mi sembrava più semplice interagire con il mondo da ‘questa parte’. Successivamente ho conosciuto Django Her-
Solo nel 2012, 40 gallerie hanno chiuso i battenti, ma c’è anche chi ha voluto investire nelle nostre città
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nandez e Igor Eskinja, che sono stati fondamentali per la galleria. Senza di loro sarebbe stato impossibile”. Per Nadia Stepanova di Glance (Torino) la scelta di aprire nel 2006 in Italia è stata piuttosto consequenziale: “Vivo in Italia dal 1993 ed era logico per me aprire la galleria qui e non altrove”, spiega. Entrambi hanno trascorso molto tempo in Italia, entrambi, pur essendo sostanzialmente contenti della loro esperienza, hanno cominciato però a buttare un occhio oltre confine. “La galleria la rifarei con più cervello e meno cuore... Comunque sono felicissimo del mio percorso: adesso ho 33 anni e penso di aver fatto una buona palestra nel mondo dell’arte”, spiega Luger. “Un altro spazio fuori dall’Italia? Magari un giorno, però non credo di poter tornare a Caracas”. Diversamente, la Stepanova guarda con ragioni anche pratiche a ciò che conosce meglio e che a suo parere sembra emergere in modalità interessanti. “Dal 2008 la congiuntura economica internazionale negativa ha penalizzato notevolmente il mercato dell’arte in Italia”, spiega. “Ma mentre nel 2011
Fare galleria in Italia è sempre più difficile? Parte su Artribune Magazine una inchiesta per raccontare cosa succede qui e cosa succede fuori. Interrogandone “all’inverso” i protagonisti. La prima puntata mette sotto la lente alcuni di coloro che hanno scelto di lasciare il proprio Paese per venire in Italia. Ecco cosa ne è emerso.
GLASGOW
GRAN BRETAGNA
FRUTTA
LONDRA
2012 Via della Vetrina 9 0668210988 info@fruttagallery.com www.fruttagallery.com
EDWARD CUTLER 2011 Via dell’Orso 12 02 39831032 gallery@edwardcutler.com www.edwardcutler.com
PARIGI
FRANCIA LIONE
LISSON
BLOO
U.S.A.
NEW YORK
GAGOSIAN
RUSSIA
2011 Via Zenale 3 02 89050608 milan@lissongallery.com www.lissongallery.com
2012 Via Tiburtina 149 06 93374150 infos@bloogallery.it www.bloogallery.it
MOSCA
LORCAN O’NEILL
GLANCE
2003 Via degli Orti d’Alibert 1 06 68892980 mail@lorcanoneill.com www.lorcanoneill.com
2007 Via Francesco Crispi 16 06 42086498 roma@gagosian.com www.gagosian.com
TORINO
2006 Via San Massimo 45 345 3364193 info@galleriaglance.com www.galleriaglance.com
MILANO
LOUISE ALEXANDER 2007 Via del Porto Vecchio 1 331 9630682 info@louise-alexander.com www.louise-alexander.com
ROMA PORTO CERVO
FEDERICO LUGER
VENEZUELA CARACAS
2005 Via Circo 1 0267391341 info@federicoluger.com www.federicoluger.com
ATTUALITÀ 53
LA CORAZZATA GAGOSIAN A ROMA Ha sedi a New York, Los Angeles, Londra, Parigi, Atene, Ginevra, Hong Kong e, last but not least, Roma. Larry Gagosian è sbarcato ufficialmente a Roma nel 2007 e ha trovato casa per la sua galleria in uno spazio spettacolare, adattato alla sua nuova funzione dal compianto Firouz Galdo. È con la direttrice di Gagosian Rome, Pepi Marchetti Franchi [nella foto di Guido Fuà], che abbiamo parlato dell’avventura capitolina.
nostro modus operandi e funziona a doppio binario. Ad esempio, la galleria di Roma ha organizzato la mostra di Giuseppe Penone a Londra e collaborato attivamente a quella di Lucio Fontana a New York.
Il 15 dicembre 2012 si sono celebrati i cinque anni dallo sbarco di Larry Gagosian a Roma. Diciamo subito ciò che mai avresti pensato sarebbe potuto andare per il verso giusto e invece ci è andato e, viceversa, ciò che avresti immaginato veder funzionare meglio. Cinque anni fa, sorprendendo un po’ tutti, Larry Gagosian inaugurava la sua scommessa su Roma seguendo un desiderio che coltivava già da qualche anno. Per quanto mi riguarda, cominciavo insieme a lui quest’avventura con enorme entusiasmo ma consapevole della grande sfida che avevamo davanti. Dopo cinque anni mi sembra un bel traguardo poter dire che questo progetto si è dimostrato rilevante e sostenibile. Sul fronte di quello che speravo funzionasse meglio, c’è il rapporto con le istituzioni, con le quali desidereremmo collaborare molto di più, come ci capita di fare all’estero.
Se dovessi raccontare la mostra che ti ha dato più soddisfazione, di quale parleresti? E perché? Vietato rispondere “la prossima”! È veramente difficile scegliere… Forse, se proprio devo citarne una, direi Walter De Maria, un artista che mi ha stregato fin dalle prime esperienze con le sue opere d’arte ambientale a New York e poi in New Mexico, con il quale non avrei mai sperato di lavorare da vicino.
Oltre venti mostre in cinque anni sono un bel palmares. Lo staff è di buon livello? Sei riuscita a creartelo in questi anni? Assolutamente sì, sono stata molto fortunata ad aver trovato subito dei collaboratori con una marcia in più. Il nostro successo si fonda al 100% su un lavoro di squadra. Per realizzare una programmazione così intensa
Qual è stata la mostra più difficile da realizzare? Forse quella di Rachel Feinstein, perché l’uragano Sandy ci ha fatto rischiare di non ricevere le opere in tempo per l’inaugurazione.
e di alto livello, quanto conta la sinergia con le altre “filiali del gruppo” in giro per il mondo? Con quale altra la galleria di Roma interloquisce maggiormente? Ci consideriamo una galleria unica con sedi in otto città e un’unica scuderia. La sinergia tra le sedi è il
» GALLERISTI IN & OUT
avevamo visto i primi deboli segni di ripresa, nel 2012 il Governo Monti ha peggiorato drasticamente la situazione. In questo momento, se dovessi pensare di aprire una nuova galleria in Italia, non lo farei. Invece considero con molta attenzione l’apertura di un nuovo spazio a Mosca, la mia città natale, dove vedo che la situazione è migliore di quella italiana”. A Milano abbiamo scambiato due impressioni con Annette Hoffmann, international director di Lisson Gallery [nella foto grande, veduta della mostra di Spencer Finch], che così ci ha raccontato il “trasloco” in città nel 2011 e le sue motivazioni: “La decisione che ci ha portati a questo passo è stata ispirata da molteplici ragioni, come il legame particolarmente forte che la galleria ha stretto in oltre 45 anni di attività con importanti collezionisti e musei in Italia, e la particolare vicinanza della città alla Svizzera, alla Germania e alla Francia. Inoltre, Milano ha una dimensione europea ed è già palcoscenico internazionale per il design e la
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moda e si sta affacciando con sempre maggiore slancio sulla scena internazionale dell’arte contemporanea. È un progetto nel quale abbiamo creduto e ancora ci crediamo”. Concorda Edward Cutler, della galleria omonima, inaugurata anch’essa nel 2011, il quale parla di una città aperta, con la giusta atmosfera: “A Milano ho trovato le condizioni giuste per aprire la mia galleria, continuando a lavorare insieme a mio fratello John Martin a Londra e con Marc de Puechredon a Basilea. Devo ammettere, però, che non è certamente un posto semplice per condurre affari da straniero, specialmente quando sei abituato a lavorare a Londra. Molti italiani mi giudicano un pazzo per aver lasciato l’Inghilterra, ma credo che
Una realtà come quella di una galleria Gagosian deve pensare anche e soprattutto a far numeri e fatturato. Le date però ci raccontano di una galleria che è nata negli ultimi giorni del 2007, giusto qualche mese prima della deflagrazione di una profonda crisi finanziaria (e poi economica) nella quale ancora siamo fin troppo immersi. Come hai condotto la nave in mezzo a questi marosi? Non sarà mica che, per un soggetto come voi, la crisi ha anche portato qualche vantaggio? Senza nulla togliere all’importanza del ritorno economico, credo che il fatturato sia importante per noi come per chiunque altro voglia costruire un’impresa forte e duratura. Al contrario, potendo contare su delle “spalle grosse”, possiamo permetterci più spesso di fare scelte che non abbiano un preponderante o immediato risultato commerciale. Penso ad esempio alla mostra Made in Italy, con tanti prestiti non in vendita, e alla stessa galleria di
in Italia ci sia un ottimo pubblico e potenzialmente un ottimo mercato. Sono fermamente convinto che qui ci sia spazio per gallerie dal respiro internazionale”. Chiude il cerchio - insieme a Justine Verneret di Bloo Gallery - James Gardner di Frutta Gallery, arrivato nella Capitale dalla Scozia solo nel 2012 (dopo alcuni mesi di ricerca dello spazio) e dalle cui parole emerge grande entusiasmo per essere in un contesto “in cui l’arte contemporanea galleggia nel patrimonio storico in un modo che le è totalmente proprio. È impossibile paragonare Roma a qualsiasi altra città. Come qualsiasi altra città, ha una sua storia, ma probabilmente il fascino dell’arte qui emerge comparativamente molto di più rispetto a molti altri posti. Camminando per Roma
Ero tra i manifestanti, tanti assassinati... tanti morti. Un inferno, per dirla in poche parole
si respira tanta bella arte storica, che rende solo più interessante esaltare la presenza di quella contemporanea in città”. Ciò che emerge inoltre dalle loro dichiarazioni è l’alta qualità dell’identikit del collezionista italiano: colto, interessato, di buon gusto, presta grande attenzione a ciò che compra, ma lo fa con slancio e passione. Ed effettivamente questo corrisponde al vero. Quando in Italia i musei d’arte contemporanea erano solo una chimera, quando ancora non c’era nessun tessuto istituzionale che portasse avanti ricerche in progress, quando la “storicizzazione” avveniva con gran ritardo, in Italia erano i privati a mandare avanti la sperimentazione, dalle gallerie d’arte ai collezionisti. Ancora oggi alcune collezioni private costituiscono tra i racconti più esaustivi della storia dell’arte contemporanea. La Hoffmann, ad esempio, commentando i punti di forza del mercato nostrano, pone l’accento sul collezionismo e sulla comunità
Roma, non dettata da una scelta di mercato. Purtroppo, a parte l’averci dato la scusa per un rodaggio più tranquillo, la crisi non credo abbia portato alcun vantaggio. Ricordo comunque che nel 2009, quando a New York le vendite languivano, noi a Roma registravamo il tutto esaurito con Francesco Vezzoli! In generale, come galleria internazionale riusciamo forse a difenderci meglio, potendo beneficiare di orizzonti più globali. Come è cambiato il mercato italiano in questi cinque anni in cui l’hai osservato dall’interno? Credo sia diventato più maturo e abituato a standard internazionali, soprattutto dal punto di vista delle regole. E invece come è cambiata la città di Roma, sia come posto dove vivere che come posto dove lavorare, in questo lustro? Sostanzialmente non credo sia cambiata. D’altra parte, ho capito che il successo di Roma si fonda proprio sulla sua capacità di rimanere impermeabile a qualsiasi cambiamento! La galleria ha anche tentato, più volte, e pure riuscendoci, di uscire dai propri spazi e di proporre iniziative per la città e nella città. Ma sembra scontrandosi con le solite assurdità burocratiche. Ci racconti? Effettivamente è qualcosa che ci piacerebbe fare più spesso, ma le difficoltà burocratiche e organizzative sono un deterrente. L’installazione Room in Rome di Franz West, presentata per un mese a Piazza di Pietra nel 2010, si concretizzò alla fine di un tortuoso percorso. Franz è poi mancato un anno e mezzo dopo e credo che quello sia stato il suo ultimo progetto di arte pubblica. Sono fiera sia stato a Roma e credo gli abbia dato una grande soddisfazione.
che si è creata in città attorno alla galleria: “Lisson fonda su un punto essenziale la propria filosofia: la ricerca e la sperimentazione di percorsi sempre nuovi. L’apertura di Milano ha confermato questo spirito e la risposta che abbiamo avuto premia la decisione. In Italia c’è un collezionismo maturo, consapevole, appassionato e motivato, e la cosa che ci ha fatto più piacere è stato vedere che anche in un momento di grande difficoltà generalizzata perdura l’attenzione e l’interesse verso le proposte di qualità. Si compra quantitativamente meno, ma si compra qualità. Siamo anche felici”, continua, “che la nostra galleria sia stata sin da subito accolta nel tessuto culturale della città, al punto che da noi si viene anche solo per il piacere di vedere e respirare l’arte”. Un’esperienza diversa è invece quella di Louise Alexander Gallery di Porto Cervo, città che si rivolge a un pubblico abituato a confrontarsi con il settore del lusso e desideroso di aprirsi sempre di più ad iniziative di carattere culturale.
In che modo hai portato in una galleria privata, anzi nell’emblema intercontinentale delle gallerie private, il tuo approccio e la tua formazione museale? L’ambiente dove mi sono formata, il museo americano, ha una vocazione molto imprenditoriale seppure con un indirizzo non profit. Mi sembra in generale che questa esperienza mi aiuti molto nel rapporto con i diversi interlocutori, dagli artisti ai collezionisti ai curatori. Molti si aspettavano che, dopo l’arrivo di Gagosian, che suggellò un quinquennio d’oro per lo sviluppo dell’arte contemporanea a Roma iniziato nel 2002, sarebbero sbarcate in città molte altre gallerie private. Questo non è successo, a tuo avviso come mai? Perché continua a volerci una buona dose di coraggio! Parliamo dello spazio di questa galleria. Come nacque, assieme a Firouz Galdo, l’idea folle di realizzare una galleria d’arte ovale? Avevo chiesto a Firouz, conosciuto a New York poco prima di trasferirmi, di affiancarmi nella ricerca dello spazio e nella valutazione delle soluzioni che ci venivano proposte. Oltre a essere un architetto di eccezionale talento, Firouz aveva già allora dedicato una buona parte della sua vita professionale alle problematiche dedicate all’esposizione. A lui devo l’intuizione immediata e sicura che quello spazio, di cui - dopo le demolizioni appena avvenute - si vedeva solo un bizzarro accennato ovale, potesse diventare una galleria perfetta. Io dopo nove anni di Guggenheim mi chiedevo invece se le pareti curve non stessero diventando la mia persecuzione! La particolarità di questo spazio e le modalità con le quali Firouz lo ha trasformato in un palcoscenico straordinario, caratterizzato ma
“Abbiamo saputo”, ci spiega Frederic Arnal, “dell’esistenza del progetto Promenade du Port, concepito per fungere da hub per l’arte, il design, la cultura, il food e la moda, e abbiamo pensato che fosse una interessante opportunità parteciparvi. Il bello di essere a Porto Cervo è che è un ambiente ideale per incontrare i clienti. I rapporti si costruiscono in un’atmosfera rilassata e felice, nella quale presentare opere di artisti italiani e internazionali”. Ovviamente, non bisogna dimenticare che siamo nel mezzo di una delle più gravi crisi economiche della storia, da cui il nostro Paese non è certo immune. Quando chiediamo, a questo proposito, a monsieur Arnal quali sono i punti di forza e le criticità e come il contesto si sia sviluppato nel tempo, ci
flessibile, continuano a essere l’ingrediente fondamentale del nostro successo. Ma è vero che, per far “esercitare” mentalmente gli artisti su uno spazio così particolare, inviate loro in visione un plastico della galleria? Assolutamente sì. Qualche tempo fa sono passata a trovare Tatiana Trouvé e ne ho trovato uno in bella mostra nel suo studio. A proposito di artisti. Qual è il feeling che hanno sulla città di Roma solitamente? Prevale il fascino della storia della città o inficiano anche i problemi, l’incapacità di governare il territorio, la disorganizzazione, l’offerta culturale mal gestita e mal comunicata? Dalla disorganizzazione li proteggiamo noi, così sono liberi di innamorarsi della città, cosa che puntualmente fanno! Qual è invece il feeling di Larry Gagosian rispetto alla sua branca capitolina? Cosa dice, cosa ne pensa, quanto peso dà a questa avventura? La galleria di Roma nasce da un’idea di Larry ed è un progetto la cui concretizzazione gli ha dato notevoli soddisfazioni. Non per niente, tra i primi a esporre a Roma ci sono stati alcuni degli artisti che ammira di più, da Twombly a Serra, da Murakami a Cindy Sherman. Non possiamo che chiudere dando qualche anticipazione sulla programmazione. Dopo la mostra di un grande nome della pittura astratta, poco visto in Italia, Howard Hodgkin, sarà la volta di due degli artisti giovani della scena internazionale che riteniamo tra i più interessanti: Tatiana Trouvé e Thomas Houseago. MASSIMILIANO TONELLI
spiega che la situazione economica italiana ed europea ha creato di conseguenza una certa “instabilità nei consumi, con gli artisti italiani e francesi spesso noti solo nei loro Paesi di residenza. Il fatto che non siano noti a livello internazionale comporta dei limiti sia in termini di prezzo di mercato sia di pubblico. Grazie alla posizione della galleria e alla sua clientela internazionale, i nostri sforzi sono concentrati sul portare i nostri artisti alla ribalta del mercato dell’arte, accrescendo il loro status internazionale”. Diversamente Edward Cutler - pur non nascondendo le criticità, innanzitutto legate alla pressione fiscale sulle opere d’arte e all’Iva, che pone a suo parere l’Italia in una posizione di svantaggio rispetto a città come
L’Italia non è un posto semplice per condurre affari da straniero, specialmente quando sei abituato a lavorare a Londra
New York, Berlino, Londra, Parigi o Zurigo - pone al centro il tema generazionale, cruciale nel dibattito contemporaneo: “In Italia mancano creatività, ripresa e progresso perché i giovani tra i 20 e 30 anni sono esclusi dalle opportunità professionali. È malsano trattare i quarantenni come bambini e detesto che, a 31 anni, mi si continui a chiamare ‘giovanissimo’. L’esodo all’estero dei giovani comporta che il resto del mondo benefici del miglior talento italiano, con il risultato che qui il Paese stagna”. E prosegue: “Avverto, fra i miei coetanei e non, un sentimento di rassegnazione rispetto a ciò che potrebbe cambiare o migliorare. Ciò si riflette nella società italiana e soprattutto in quella misera soap opera senza fine che è la politica. Il piacere che traggo dal vivere in questo luogo così incredibilmente bello e ricco di storia, fra gente talentuosa ed entusiasta, conforta le numerose frustrazioni. È però evidente che qualcosa deve cambiare. Altrimenti l’Italia non rimarrà famosa che per le sue esportazioni. E il Bunga-Bunga”.
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oggetti rubati a giugno 2012
906
10.248 di cui 5.500 libri antichi
2007 2011
furti di beni culturali falsi sequestrati nel 2011
5.206
di francesco sala
di cui 3.987 settore contemporaneo
valore del patrimonio recuperato
2009 2011 216mld
MONZA (ART) POLICE DEPARTMENT D opo un quarto d’ora di dialogo serrato, non ha usato il termine ‘arte’ nemmeno una volta. E certo non per sbadataggine o superficialità. Per il capitano Andrea Ilari, responsabile per la Lombardia del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri, la parola d’ordine è infatti ‘mercato’. Il territorio in cui si trova a operare costituisce la più importante piazza italiana per la compravendita di opere d’arte, oltre a essere naturale testa di ponte per contatti con Svizzera e Francia: una pura questione statistica rende dunque Milano e dintorni una delle aree a maggiore concentrazione di illeciti. Sono la bellezza di 164 le falsificazioni scoperte nel solo 2012; 99 i furti, in netto calo rispetto ai 151 dell’anno precedente: merito di un’attività d’indagine molto più radicata di quanto non faccia pensare l’esiguo numero di effettivi a disposizione (appena una quindicina); ma an-
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che, confessa Ilari, lo stato di brusca frenata dovuto alla crisi. Perché se a languire è il mercato emerso, non va troppo meglio per quello illegale: appesantito, dalla metà del 2008, da un calo verticale della domanda. Ma non solo. Almeno in materia di tutela del patrimonio culturale, le spesso farraginose maglie della burocrazia italiana si rivelano efficienti ed efficaci: nel nostro Paese è più difficile delinquere. Soprattutto è meno semplice che altrove eludere i criteri, sempre più stretti, della tracciabilità: per le forze dell’ordine è indispensabile conoscere i diversi passaggi di proprietà di un’opera, così da accertare che non sia oggetto di fantasmagoriche emersioni o frutto di attività di
elusione ed evasione fiscale. Nel mirino non sono infatti solo i casi, peraltro mediaticamente eccitanti, che vedono l’opera come fine ultimo dell’attività illegale; ma anche, se non soprattutto, quelli che in cui ci si serve dell’arte come mezzo per commettere altro tipo di reato. Attenzione allora a furti e falsificazioni. Ma anche a compravendite irregolari, omesse dichiarazioni, riciclaggio di denaro. Come dimostrano i due importanti sequestri avvenuti, tra 2008 e 2009, a carico di affiliati a ‘ndrine attive al Nord. “Spesso gli scambi tra privati avvengono in modo che potremmo definire un po’ troppo smart”, spiega Ilari. “Questo è l’ambito in cui è più difficile muoversi: là dove, invece, il controllo degli opera-
Una pura questione statistica rende Milano e dintorni una delle aree a maggiore concentrazione di illeciti
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tori del settore è molto stretto, come pure l’attività di monitoraggio delle grandi collezioni pubbliche e private”. Gli standard di acquisizione, all’interno dei musei, sono tanto rigorosi da rendere decisamente difficile la comparsa di opere rubate; le banche dati in possesso dei Carabinieri del Nucleo di Tutela Beni Culturali, integrate con quelle raccolte dall’Interpol, contano su schede catalografiche di precisione assoluta: vere e proprie radiografie più che dettagli descrittivi, che rendono impossibile confondere un pezzo con un altro. La digitalizzazione dei repertori sta agevolando, e non poco, il lavoro: la CEI ha pressoché concluso, almeno in Lombardia, la descrizione completa dei suoi averi. Un processo che possiamo accostare alla macchiatura delle banconote nei casi dei colpi in banca: se un oggetto rubato è ben catalogato non può emergere, non è spendibile, restando confinato negli anfratti di un mercato nero sempre più ristretto.
TRA MUSEO E LABORATORIO. A CACCIA DI FALSI
dati Carabinieri – rielaborazione Fondazione Hruby
rinvenimenti dei volumi rubati
2009 2008 16.000
10.000
scavi clandestini
2007 76% 2009 Si muovono in borghese, presenza silenziosa ma efficace. Stanano ladri, falsari e truffatori. Sono i Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale. Dalla Villa Reale di Monza agiscono in tutta la Lombardia, piazza principale per il mercato italiano dell’arte. E dunque, inevitabilmente, per gli illeciti.
La vera minaccia, allora, arriva dalla fuga verso l’estero. Perché passata la frontiera, le situazioni cambiano: “L’esportazione illecita non è contemplata nel diritto anglosassone. E considerato che, con appena 2.000 dollari, è possibile aprire, in un qualsiasi paradiso fiscale, un trust al quale girare senza nessun controllo la titolarità dei propri beni, si capisce come la sparizione di opere d’arte sia un pericolo su cui non abbassare la guardia”. Nel rapporto con l’estero la voce ‘restituzioni’ merita un discorso a parte. L’Italia, Paese che rende il maltolto - vedi il caso dell’obelisco di Axum - è anche Paese che sa farsi risarcire: dopo la spinosa questione legata ai reperti di arte antica spuntati in modo disinvolto al Getty Museum, le cose
sono decisamente cambiate. L’Italia che sa fare, caso strano, massa critica, ha vinto battaglie importanti: la minaccia di bloccare i prestiti di altre opere e il grande polverone mediatico attorno a casi così clamorosi ci ha reso modello a cui guardano i legislatori di tutti gli altri Paesi del Mediterraneo. Una mazzata forse definitiva per il commercio illegale di reperti archeologici, già da tempo sparito sul mercato interno, fortemente ridimensionato anche alla voce export. Dove cresce, semmai, l’attenzione nei confronti dei beni librari: la vicenda, limite, dello smembramento della Biblioteca dei Girolamini rappresenta la punta dell’iceberg per un lucroso commercio bibliofilo.
Spesso gli scambi tra privati avvengono in modo che potremmo definire un po’ troppo smart
Gertrude era artista, e anche di buon livello, se è vero che negli Anni Trenta le venne chiesto di collaborare alla decorazione delle sale del Pergamon Museum. Gottfried, fisico talentuoso, nel dopoguerra mise la Siemens sulla giusta strada verso l’evoluzione dei chip. Ci sono arte e scienza nel Dna di Peter Matthaes [nella foto], che insieme alla sorella Patrizia conduce il museo inaugurato da Gottfried nel 1990, a un passo dal Castello Sforzesco di Milano. Museo d’Arte e Scienza, appunto, eclettica collezione che raccoglie alto antiquariato e pezzi di arte suntuaria in arrivo da ogni angolo del globo; e che si accompagna all’attività professionale di uno tra i primi soggetti privati, in Italia, a occuparsi di indagini spettrografiche per svelare la datazione di manufatti artistici. Abbiamo intervistato Matthaes per capire di cosa si occupa nello specifico. Quale tipo di manufatti esaminate? Negli ultimi anni è cambiato molto il profilo degli oggetti che ci vengono portati per essere esaminati. Siamo specializzati nella datazione del legno e abbiamo visto un netto calo nelle perizie sui mobili: si tratta di uno dei filoni dell’antiquariato che più ha sofferto. Semplice crisi economica o un più complesso mutamento nei gusti del collezionista? Le difficoltà economiche hanno cambiato la figura del collezionista: abbiamo assistito, a livello commerciale, a una replica di ciò che è accaduto in ambito sociale. Non esiste più la classe media, quella che poteva trovare accessibile l’acquisto di un mobile d’epoca: i ricchi restano, e con loro l’altissimo antiquariato, soprattutto rivolto alla gioielleria e agli oggetti di lusso. Meno legno, allora: cosa state seguendo con maggiore attenzione? Quello dell’avorio è un settore decisamente in crescita nel campo degli expertise. Non si tratta tanto di un’evoluzione del mercato, quanto del recepimento delle norme, a dire il vero non recentissime, che puniscono chi detiene manufatti posteriori al 1973. Riceviamo molte richieste di valutazione da parte di persone che ereditano oggetti o li hanno acquisiti in tempi non sospetti, e che oggi temono di possedere manufatti illeciti. Timori fondati? Il 40% degli oggetti che ci sottopongono risultano fasulli: da un lato si tratta di piccole tragedie per chi ha speso magari molto pensando di entrare in possesso di oggetti di alto valore. D’altro canto, altri tirano un sospiro di sollievo scoprendo di non avere in casa materiali frutto di bracconaggio o altre pratiche illegali. In materia d’arte vi capitano casi di rivelazioni scottanti? Opere di celebri maestri che si rivelano false, o al contrario tele ignote che si scopre essere in realtà pezzi da museo? Le nostre perizie sono squisitamente scientifiche, non si concludono mai con una ammissione di autenticità o meno dell’opera, semmai con una dichiarazione di “compatibilità” dei materiali usati con quelli coevi all’autore di cui si propone l’autentica. Ci è capitato spesso, ancora recentemente con un presunto van Gogh: la nostra analisi ha svelato che il quadro che ci hanno portato risale al periodo di attività dell’artista. Se però non abbiamo letto sui giornali che a Milano è spuntato fuori un van Gogh inedito, qualcosa è andato storto… Quando la scienza si ferma, cominciano i problemi: perché in questo, come in altri casi, entra in gioco la figura del critico d’arte, ma anche la posizione dei vari soggetti istituzionali - penso ad archivi, fondazioni e musei - che detengono la titolarità sulle attribuzioni di questo o quell’autore. Se a questo aggiungiamo la difficoltà, per un privato, di portare fuori dall’Italia un’opera per farla studiare e analizzare, la strada delle attribuzioni si fa decisamente in salita. www.museoartescienza.com
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a cura di ALFREDO CRAMEROTTI
LA CURATELA IN TRE MOSSE ANSWER TIME, III
KARI CONTE PARACURATORIALE
Uso questa parola come sostituto temporaneo finché non emergerà un termine migliore per descrivere il ruolo della paternità curatoriale di residenze, convegni, situazioni, pubblicazioni, performance e screening, che consiste in un lavoro dematerializzato. Nuovi istituzionalismi negli Anni Novanta hanno dato vita a modelli laboratoriali e think tank per la produzione e l’esposizione dell’arte, che hanno portato a un deciso incremento delle attività intraprese dai curatori oltre alle mostre. Ciò ha permesso una maggiore flessibilità per i curatori, che possono intraprendere un ampio spettro di attività al di là del tradizionale format dell’esposizione. Se il “fare mostre” rimane il mezzo principale per inserire le opere d’arte in contesti museali, man mano che si va avanti è possibile che altre attività costituiranno l’avanguardia del pensiero curatoriale, riducendo la mostra a evento ausiliario. Numerose discussioni visive interdisciplinari diventeranno il punto di partenza per la presentazione di progetti d’arte. Il risultato sarà vario e non è detto che la mostra riuscirà a mantenere il suo status quo. A questo proposito, le istituzioni dovrebbero essere fluide e abbastanza aperte in modo da adattare le proprie strutture ai bisogni dell’artista e da generare coinvolgimento sociale e produzione di significato. Si potrebbe pensare che le pratiche paracuratoriali in qualche modo non richiedano lo stesso tipo di formazione seria e di studio che serve per curare le mostre. Non sono d’accordo. Al momento, le attività paracuratoriali permettono un ambito di partecipazione più ampio per un pubblico che spesso diserta le esposizioni.
STORIOGRAFIA
Kari Conte è Director of Programs and Exhibitions all’ISCP International Studio & Curatorial Program di New York.
Altre attività costituiranno l’avanguardia del pensiero curatoriale, riducendo la mostra a evento ausiliario
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ATTUALITà
La storiografia, che qui forma una produttiva contraddizione con la mia precedente parola chiave, è di vitale importanza per il futuro della curatela, attraverso la scrittura della storia delle mostre. Rintracciando e facendo rivivere la documentazione di esposizioni del passato, la pratica curatoriale può evolversi. Un’analisi erudita delle mostre del passato potrebbe determinare cosa è urgente per il futuro. Al momento non c’è accordo sui criteri da adottare per le grandi esposizioni e soltanto pochi testi tracciano la loro evoluzione. In anni recenti i curatori hanno iniziato a scrivere la storia delle mostre e il futuro della curatela sta tutto in questa appassionata ri-valutazione del proprio passato. Le mostre sono effimere. Possiamo interagire con le esposizioni del passato soltanto attraverso immagini, testi e racconti, che generano un’idea frammentaria di come una mostra fosse allestita. Infatti, la maggior parte dei cataloghi, prodotti prima dell’inaugurazione, non includono fotografie dell’allestimento e così non ci resta che immaginare come le opere finali potessero apparire e come fossero inserite nello spazio espositivo. Harald Szeemann considera le mostre come archivi in trasformazione e così gli archivi delle esposizioni devono essere attivati in modo da poter scrivere una narrazione completa della storia dell’arte. Come si può fare esperienza di una mostra dopo la sua chiusura? Ci saranno più conferenze, pubblicazioni e ricostruzioni di mostre del passato.
EMBEDDED
Qual è la relazione fra un curatore e un luogo? Il mondo dell’arte si aspetta che i curatori siano itineranti, che si muovano da un posto all’altro in modo da poter comprendere a fondo e globalmente le pratiche artistiche contemporanee. Io immagino però che sempre più curatori investiranno nella costruzione di un rapporto significativo e a lungo termine con un luogo specifico, producendo nuove relazioni tra locale e globale. Salah Hassan ha recentemente affermato che gli artisti più interessanti vivono simultaneamente nel centro e nella periferia. Possiamo dire lo stesso per i curatori? Gli artisti lavorano sempre più spesso in contesti situation-based e i curatori vivranno e lavoreranno per lungo tempo nello stesso luogo, interagendo con le dinamiche locali a livelli più profondi. Questo genererà un potenziale sostanziale per la produzione culturale del futuro.
Terza tappa delle risposte sollecitate da Alfredo Cramerotti in merito al significato della curatela oggi. Unica richiesta: argomentare la propria posizione intorno a tre parole fondanti, tre concetti cardine. Così, dopo aver letto le proposte di Christine Eyene, Blanca de la Torre, Reloading Images, Saskia van der Kroef e Cathy Haynes, ora è il turno di Kari Conte, Fay Nicholson e Cristiana Tejo. Ultima puntata di una inchiesta iniziata sul numero 7 di Artribune Magazine e che potrebbe essere infinita. E che magari proseguirà online.
FAY NIChOLSON RELAZIONI
Curare genera relazioni. Stabilisce collegamenti fra oggetti, momenti e persone ed è un aspetto fondamentale della curatela. Una relazione è il significato che emerge dalla distanza o dalla prossimità tra due o più cose; qualcosa che risulta dalla loro (giustap)posizione. La relazione può essere passeggera o duratura, intenzionale o accidentale, armoniosa o problematica. Come curatore o come artista puoi posizionare un’immagine vicino a un’altra e una relazione tra le due si forma inevitabilmente. Mettiamo a confronto il loro aspetto e la loro origine; vengono unite in un determinato momento e contesto. La curatela riguarda anche le relazioni che stabilisci con le altre persone. La curatela è un lavoro di gruppo, presuppone il lavoro collaborativo e dipende da inviti, proposte, fiducia e rischio. Attraverso la curatela puoi generare negli artisti l’impulso alla creazione di qualcosa di nuovo, puoi iniziare dialoghi o mettere insieme persone con background differenti. Penso sia importante valorizzare la natura di queste relazioni e di questi scambi, essendo coscienti delle aspirazioni e intenzioni plurali che intervengono durante il making of di una mostra, di una pubblicazione o di un evento.
VINCOLI
Fay Nicholson è un’artista che cura anche mostre, progetti ed eventi. faynicolson.com
I vincoli sono inevitabili: lavoriamo sempre con (o contro) restrizioni di tempo, spazio o denaro. Mettono in evidenza l’aspetto più pragmatico della curatela, che non può essere ignorato. Ma, al di là di questa idea basilare legata agli aspetti pratici, mi piace pensare ai vincoli come a una strategia generativa per produrre qualcosa. Imponendoti dei vincoli, sei forzato a considerare l’economia e la qualità delle tue decisioni e a lavorare con i materiali e le situazioni in modi del tutto nuovi. Paradossalmente, i vincoli possono essere liberatori, spingendoti oltre la routine usuale. Quando organizzo una mostra o un evento, invito artisti per una commissione o quando produco io stessa un lavoro, mi piace stabilire dei limiti sin dall’inizio. Ad esempio: ho curato recentemente una mostra di video in loop per un progetto online chiamato RE-RUN. Abbiamo invitato gli artisti a fare video che fossero più brevi di un minuto, con l’obiettivo di mandarli in loop in modo continuo per 24 ore. Questo ha dato agli artisti una struttura centrale a cui aderire o reagire e il risultato è stato un fantastico ventaglio di risposte differenti.
SENSO
I vincoli possono essere liberatori, spingendoti
oltre la routine usuale
Ha senso? La curatela implica il dare un senso al materiale che si raccoglie, afferrare o plasmare un significato e comunicarlo ad altri. Trovare un senso si collega alla conoscenza, ai segni e ai sistemi: favorire la chiarezza e l’ordine logico piuttosto che il loop e il caos. Tuttavia, il non-senso ha parimenti valore e mi piace quando gli artisti e i curatori sono in grado di giocare con le strutture che definiscono la sfera sensibile. Quando dico “senso” mi riferisco anche ai sensi, alle nostre percezioni e alle nostre risposte al mondo tangibile. Mi piacciono le mostre che prendono in considerazione il modo in cui gli spettatori interagiscono con la materia a livello sensoriale, riconsiderando l’idea di spazio, dimensione o suono. Infine, senso si riferisce a una sensazione indefinita di intuizione o istinto. Anche se questo potrebbe sembrare al di fuori dalle definizioni tradizionali della curatela, credo che molto possa essere detto seguendo l’intuizione (un senso che si può sviluppare grazie alla combinazione di esperienza, gusto e caso). “Sentire” che qualcosa funzionerà o meno e fidarsi di questi istinti abbastanza da correre il rischio è una strategia potenzialmente molto interessante per generare risultati inaspettati.
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» LA CURATELA IN TRE MOSSE CRISTIANA TEJO RESILIENZA
La parola “resilienza” è apparsa per la prima volta nel dizionario inglese nel 1824 e da allora è stata utilizzata per lo più nel campo della fisica. Definisce la capacità di recupero di un corpo dopo una deformazione elastica. Tuttavia, il termine viene anche usato per descrivere la capacità di una persona di guarire o adattarsi in seguito a mutamenti drastici. I curatori che provengono da Paesi egemonici dovranno guardare sempre più ai colleghi che vivono in contesti in fase di sviluppo e imparare da loro come lavorare, pensare e agire in un mondo dominato da crisi, precarietà e instabilità. Una volta ho sentito dire da un collega che lavora a New York che quello dell’arte è un mondo sicuro. La cosa mi ha sorpresa perché in Brasile il mondo dell’arte non è affatto protetto né sicuro. I lavoratori dell’arte si confrontano con ogni genere di barriera, interruzione e minaccia. Ora che i tagli ai budget colpiscono in tutto il mondo, la capacità di adattamento sarà indispensabile. Un’altra causa di questo bisogno di resilienza è la velocità con cui le cose succedono oggi. La riflessione intellettuale ha bisogno di tempo e silenzio, ma i curatori devono produrre concetti e progetti per mostre e biennali in giro per il mondo. Non si tratta più soltanto di come affrontare il jet lag, i voli transoceanici e le coincidenze perse, quanto di negoziare il tempo e la qualità del pensiero in questo nuovo, avido mondo.
DIALOGO
Cristiana Tejo è una curatrice indipendente che vive a Recife, in Brasile.
Con la comparsa e il consolidamento di nuovi attori sulla scena internazionale, in Europa e negli Stati Uniti il potere è leggermente cambiato. L’Occidente deve confrontarsi con culture e modelli di business diversi e stabilire con essi un dialogo che rispetti la prospettiva dell’altro. Nel campo dell’arte, la speculazione sulla produzione di quei Paesi è enorme. Possiamo scorgere una partecipazione geografica un po’ più ampia degli artisti nelle biennali e nelle mostre internazionali, ma finora quei Paesi stanno di nuovo diventando una fonte di materia prima con nessuna possibilità di influenzare il mondo in cui la negoziazione avviene. Ad esempio, la partecipazione di curatori nati e residenti nei Paesi BRIC all’interno di eventi internazionali è ancora piuttosto ridotta. Potrebbe cambiare nel prossimo futuro, ma ci sono problemi all’orizzonte. Le istituzioni e i curatori affermati hanno davvero interesse a comprendere i contesti locali e i diversi ritmi e modi di fare le cose? Oppure il linguaggio sconosciuto verrà tradotto secondo la solita logica occidentale? Siamo davvero in grado di imparare gli uni dagli altri?
QUALITÀ
Avrà senso parlare di qualità in un mondo di velocità, superficialità
e polverizzazione?
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ATTUALITà
Cosa significherà la parola “qualità” in un mondo di produttori e non solo di consumatori d’arte? Il nuovo palcoscenico di Internet e l’ampliato accesso all’informazione e ai mezzi di produzione digitale hanno modificato il modo di fare, imparare e distribuire l’arte e messo alla prova i metodi con cui i curatori analizzano, selezionano e comunicano. L’era dell’abbondanza, dell’inclusività e dell’auto-formazione crea nuovi pubblici, che a volte non si limitano ad accettare il parere dell’esperto ma vogliono formarsi una propria opinione su un’opera d’arte e spesso mettono addirittura in dubbio la voce degli specialisti. Il termine “gatekeeper”, nato nel campo della comunicazione per definire la persona (l’editore, ad esempio) che è incaricata di selezionare le notizie più importanti, quelle che meritano di essere pubblicate, era fondamentale fino all’avvento di Internet 2.0. Oggi il processo di rendere pubbliche le notizie non passa esclusivamente dai professionisti della comunicazione e spesso i blog amatoriali vengono valorizzati più dei quotidiani affermati. Se volessimo usare il termine “gatekeeper” per definire il ruolo del curatore, il professionista incaricato di selezionare gli artisti più rilevanti e i lavori da esporre in una mostra, sentiremmo la stessa fragilità? Nonostante il processo di legittimazione si sia allargato a una varietà di modi e agenti, sembra che nella miriade vertiginosa di nomi e possibilità i curatori diventeranno anche più importanti per gettare luce su ciò che conta davvero. Ciò nonostante, una nuova sfida nasce da questa inedita babele: quale criterio adotteranno i curatori per le loro scelte? Avrà senso parlare di qualità in un mondo di velocità, superficialità e polverizzazione?
GLI ALLOCCHI DELLA RETE. STORIE DI TRUFFE TELEMATICHE 64.editoria IL CATALOGO È QUESTO. CASTELLANI E BOETTI IN DEFINITIVA 66.design UNDICESIMO COMANDAMENTO: NON SPRECARE 68.architettura MUMBAI TERRA DI STRIDORI. FRA EXTRALUSSO E BIDONVILLE 72.cinema MAMMA HO PERSO IL PROTAGONISTA. PANICO IN SALA 74.moda MILANO PIÙ FIRENZE PIÙ ROMA. LE LOBBY CHE CI PIACCIONO 76.new media ANCHE L’ARTE È LIQUIDA. ANZI, LIQUIDATA 78.talenti CORONA DI SPINE SU LANA. LE CONNESSIONI DI SERENA PORRATI 80.fotografia SVIZZERA FOTOGRAFICA. ESTHER MATHIS E IL SUO PORTFOLIO 82.buonvivere SOFFIARE L’ANTIPASTO, MOLARE IL PRIMO. CIBO E VETRO 84.percorsi UNA REGIONE PER QUATTRO STAGIONI. TOUR IN VAL D’AOSTA 62.mercato
Internet è un luogo pericoloso dal quale stare ben alla larga. Questa è più o meno la vulgata che ancora circola diffusamente in Italia, Paese dal digital divide spaventoso. Attenzione però: sarebbe puerile anche la posizione opposta. Perché in Rete, di bufale, ne girano parecchie. Ad esempio, su eBay, si può comprare uno Chagall a meno di 500 dollari…
COSE RISCHIOSE: ACQUISTARE ARTE SU EBAY di MARTINA GAMBILLARA
I falsi sono presenti sul mercato da sempre, ma fino all’era antecedente a Internet il fenomeno era per lo più locale. Ora, invece, è semplicissimo mettere online i propri “capolavori” e conquistare ignari compratori in tutto il mondo. Dora Maar, Marie-Therese Walter e molti altri famosi soggetti di Pablo Picasso sono disponibili su eBay a partire da $ 39, così come un “rare French pastel” di Marc Chagall a $455, o un’acquaforte di Rembrandt a $1.000. L’illusione di fare un ottimo affare fa cadere ogni giorno moltissimi collezionisti alle prime armi nei tranelli di venditori che spacciano opere false per autentiche e attribuite ai grandi maestri dell’arte. Un recente studio di statistica condotto dalla
George Washington University e dalla University of California ha stimato che ben il 91% dei disegni venduti su eBay sono falsi.
Oltre alle imitazioni vere e proprie, vendute come lavoro originale di un artista, i falsi possono assumere altre forme: ad esempio le riproduzioni non autorizzate che violano i diritti d’autore di un artista; oppure la riproduzione autorizzata, ma con la firma posticcia dell’artista, così da trasformare un poster in una edizione limitata. Queste opere sono spesso accompagnate da certificati di autenticità, che tuttavia sono anch’essi falsificabili. Le (presunte) opere d’arte in vendita su eBay si aggirano costantemente intorno al milione
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MERCATO
e mezzo di unità. Le norme contro la vendita di falsi esistono ma, data la vastità del fenomeno da tenere sotto controllo, è assai complicato riuscire a far rispettare le regole: il risultato è un mercato che di fatto non è regolamentato. Sono perciò numerosi gli episodi di vendita di falsi attraverso eBay. Negli Anni Novanta, a Seattle, Ken Fetterman e Kenneth Walton sono stati fra i primi a utilizzare la piattaforma per i loro traffici. Vennero scoperti dall’FBI nel 1998, quando riuscirono a far salire il prezzo di un falso Richard Diebenkorn acquistato in un negozio di cianfrusaglie a $8 fino a $135.805, anche grazie alle offerte “fantasma” di un complice. Da questa esperienza Walton ha tratto nel 2006 un libro intitolato Fake: Forgery, Lies, & eBay, disponibile naturalmente su eBay a $12. Nel 2008, quattro americani, due spagnoli e un italiano - pare una barzelletta d’altri tempi - sono stati accusati di produrre e vendere centinaia di stampe contraffatte in tutto il mondo, spacciate per opere di Picasso, Chagall, Miró e Dalí, vendute a $50.000 ciascuna attraverso eBay. Le copie erano state prodotte in Europa, soprattutto a Milano e Firenze, con la supervisione di Oswaldo Aulesti-Bach, Elio Bonfiglioli e Patrizia Soliani. Negli States, James Kennedy era responsabile della falsificazione delle firme, mentre Michael Zabrin si occupava dei certificati e della vendita online, insieme ad altri due dealer. Nel 2010 Zabrin ha ammesso di aver venduto i falsi su eBay, truffando oltre 250 persone e guadagnando più di un milione di dollari. La “tradizione” risale però ai primi Anni Settanta, quando Leon Amiel, uno dei maggiori editori statunitensi, iniziò a vendere ai mercanti stampe e litografie che firmava lui stesso e che spacciava per autentiche. Nel 1988 morì e le figlie portarono avanti il traffico, finché non vennero incriminate nel 1992 per truffa telefonica. Oltre
70mila stampe vennero distrutte, ma il nipote, Amiel Jr., era in possesso di centinaia di falsi che aveva venduto con la complicità di Zabrin su eBay.
Pullulano i Picasso e i Dalí, ma gli artisti contemporanei non sono immuni dalla falsificazione. Jonathan Rayfern, 32enne ex studente d’arte alla Westminster University, ha copiato 11 opere di Tracey Emin vendendole tra il 2006 e il 2008 su eBay per un totale di £26.000. Rayfern era un assistente della Emin e aveva dunque potuto studiare da vicino il suo metodo di lavoro. Nel 2009 è stato arrestato e condannato a 16 mesi di carcere. Dal 2008 eBay ha modificato la policy sulla privacy, permettendo ai venditori di nascondere la propria identità. Ai tempi di Zarbin era invece ancora possibile rintracciare informazioni su chi proponeva l’affare. Con qualche ricerca, gli aspiranti acquirenti avrebbero scoperto che era già stato condannato per frode postale, furto al dettaglio e molestie telefoniche.
ASTA LA VISTA
di santa nastro
DI MANO IN MANO Una collezione d’arte rappresenta molto spesso una vita, quella di chi l’ha costruita: viaggi, scelte, amori, errori e vittorie. Alle volte accade, però, che casi del destino, desideri dei collezionisti di dedicarsi a un’arte differente, nobili cause, scelte successive “mettano all’asta” la collezione. Il caso più recente e raccontato - ed è a scopo filantropico - è quello della collezione Buhl, una eccezionale raccolta di “mani” riprese dall’obiettivo di molti tra i più eccellenti e celebri artisti e fotografi contemporanei, da Man Ray a Moholy-Nagy, da Stieglitz [nella foto: Hands and Thimble, 1919] a Georgia O’Keeffe, per una selezione raffinatissima e senza tempo, ulteriormente valorizzata dai musei che l’hanno esposta. Quattrocento i pezzi e 12,3 i milioni raccolti da Sotheby’s per una collezione che, nel suo insieme, rappresentava un’ossessione e un’opera d’arte essa stessa, con il suo percorso tematico così semplice eppur così concettuale, pensato dal finanziere americano, filantropo e visionario Henry Buhl. E che da oggi rivivrà attraverso l’energia dei singoli pezzi e della nobile causa che va a sostenere: la Buhl Foundation, based in Pittsburgh, si impegna nei quartieri a rischio, nella formazione e nell’offrire servizi ai cittadini più svantaggiati. Un altro caso recente è quello della collezione di monsieur e madame Riahi, andata in asta in due tranche da Christie’s, l’ultima lo scorso dicembre. Si tratta di una straordinaria selezione di mobili del XVIII secolo francesi raccolti dai due coniugi con passione e conoscenza. Londra è stato il teatro di una competizione che ha raccolto quasi 20 milioni di pound. L’oggetto più ambito non poteva che essere un secretaire giapponese di Bernard II van Risen Burgh: si favoleggia, infatti, che questo appartenesse a Madame de Pompadour, l’amante di Luigi XV. Quanto costa una favola? 5 milioni di dollari tondi tondi.
EMER-GENTE
di Martina Gambillara
LA CINA E IL DROIT DE SUITE Pare proprio che quello degli Stati Uniti rimarrà l’ultimo mercato dell’arte rilevante a non applicare il droit de suite, il diritto che consente all’autore di un’opera e ai suoi eredi di ricevere una percentuale del prezzo ottenuto per la (ri)vendita del suo lavoro. Anche la Cina si sta adoperando per introdurre questo diritto nel proprio mercato all’incanto, in un disegno di legge che è stato presentato al Consiglio di Stato lo scorso dicembre come parte della nuova legge sul copyright. Il diritto verrà applicato alle opere d’arte, fotografiche, letterarie e ai manoscritti musicali che vengono venduti in asta. Il disegno di legge non fornisce dettagli sul suo funzionamento e non indica la durata temporale del diritto tramandato ai discendenti dell’artista, anche se in Cina il copyright si estende fino ai cinquant’anni dalla morte. Una volta approvato dal Consiglio di Stato, il progetto di legge dovrà essere presentato anche al Congresso Nazionale del Popolo, la più alta istituzione statale e l’unica camera legislativa della Cina. Già si discute sulle ripercussioni che il provvedimento potrebbe avere su un mercato fiorente come quello cinese: anche se l’aumento del prezzo che questa percentuale porterebbe sul prezzo finale al compratore, paragonata alle commissioni di vendita delle case d’asta, sarà probabilmente irrisorio. Gli artisti cinesi del Novecento attivi in questi anni sul mercato all’incanto sono migliaia [nella foto, un’opera di Zhang Huan]. È difficile perciò stimare quale sarà l’impatto economico del diritto di seguito, che segna però un passo importante in un sistema poco regolamentato come quello cinese, dove l’introduzione dei diritti degli artisti rappresenta una svolta culturale del mercato.
MERCATO 63
Due grandi case editrici per l’opera di due grandi artisti del Novecento. Nel giro di pochi mesi, sono stati dati alle stampe due cofanetti importanti. Electa ha licenziato il secondo - dei quattro previsti - volume del Catalogo generale di Alighiero Boetti. Da parte sua, Skira ha risposto con due tomi di Catalogo ragionato del corpus artistico di Enrico Castellani.
BOETTI E CASTELLANI CATALOGATI di MARCO ENRICO GIACOMELLI
Non dev’essere affatto un’impresa semplice mettere mano all’opera completa di un artista prolifico e sfuggente come Alighiero Boetti. Basti pensare alla produzione delocalizzata in Afghanistan prima e in Pakistan poi. Una modalità produttiva che ha generato inevitabilmente la proliferazione di falsi, e uno dei
compiti più importanti di un catalogo generale è esattamente quello di porre un punto fermo - non critico, ovviamente - su un corpus artistico,
in maniera tale che qualunque artefatto non vi sia contemplato finisca immediatamente sotto l’occhio di una disamina puntigliosa. Perché, va da sé, anche un’opera catalogatoria del genere può farsi sfuggire qualcosa, ma ciò che non vi è compreso necessiterà di perizie oltremodo precise. E così, dopo un primo tomo licenziato nel 2009 e concentrato sulle opere del periodo 1961-1971, nel 2012 Electa ha pubblicato il secondo volume del Catalogo generale (pagg. 432, € 200), che prende in considerazioni gli anni 1972-1979. Alla direzione scientifica del progetto c’è sempre Jean-Christophe Ammann, la curatela è invece dell’Archivio Alighiero Boetti, con la supervisione di Annemarie Sauzeau e Arianna Mercanti. Il volume, rilegato e custodito in un cofanetto rosso, si apre con una discussione a più voci, con le parole dello stesso Ammann, dei consiglieri scientifici del Catalogo Achille Bonito Oliva, Laura Cherubini e Giorgio Verzotti (consiglio che conta anche una quarta persona, ossia Carolyn Christov-Bakargiev), nonché dell’antropologo Franco La Cecla. Un breve intervento di Annemarie Sauzeau sulla “maturità di Alighiero e
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EDITORIA
Boetti” precede le parole (e l’opera) che Giulio Paolini ha proferito durante la presentazione del primo tomo dell’opera. Infine, la versione inglese dei testi, e nel giro di una cinquantina di pagine si conclude l’introduzione. Tutto il resto sono opere, oltre 300 facciate fitte fitte di creazioni boettiane, riprodotte nella maggior parte dei casi a colori (ed è un dato atipico in questo genere di pubblicazioni). Si comincia con il numero d’inventario 393, la biro su carta Anni Settanta, e si chiude con la Mappa del 1979-83, identificata col numero 1234 e la cui ubicazione è al momento ignota. A Electa risponde Skira, che a dicembre del 2012 ha pubblicato un corposo cofanetto dedicato a Enrico Castellani e contenente due volumi con testi in italiano e inglese. Anche in questo caso, si segnala innanzitutto una atipicità. Infatti, il Catalogo ragionato 1955-2005 (pagg. 304+352, € 300) comprende un primo tomo interamente concentrato sul Percorso artistico di Castellani. In altre parole, una monografia contenente due ampi saggi a firma di Bruno Corà (Enrico Castellani: arte dal valore semantico del linguaggio) e Marco Meneguzzo (Fortuna di Castellani (ovvero come riannodare i fili della storia tra psicologia dell’artista e sociologia dell’arte)), seguiti dalla sezione Le opere, gli scritti 1958-2011, ove sono raccolti per l’appunto gli statement e le riflessioni dell’artista unitamente a numerose fotografie a colori delle sue opere e di allestimenti di mostre basilari nella sua carriera. Infine, a chiusura di questo primo volume, una biografia
per immagini, “moda” che sta prendendo piede nel mondo dell’arte e che permette di restituire un’immagine più consueta a figure che spesso hanno un’aura mitologica.
Il secondo volume rientra invece maggiormente nei canoni della catalogazione generale, con un minuzioso regesto delle opere realizzate nei primi cinquant’anni di attività dell’artista; opera condotta da Renata Wirz e Federico Sardella in collaborazione con l’Archivio Castellani. Doppia numerazione in questo caso, che affianca all’attuale quella assegnata dell’Archivio: un notevole supporto per i collezionisti, che d’ora in poi avranno quindi un doppio strumento di verifica dell’autenticità delle opere acquistate. Anche qui, citiamo l’apertura e la chiusura del lavoro catalografico (benché in questo caso non si possa intendere letteralmente la parola ‘chiusura’, visto che Castellani è tuttora vivente): si comincia dunque con un Senza titolo del 1955, un piccolo olio e gesso su tavola Unalit, e si conclude, almeno per il momento, con una Superficie bianca del 2005, opera catalogata con il numero 1103. Il costo di questo genere di libri è senz’altro giustificato dall’enorme lavoro che necessitano e dal numero di copie vendute piuttosto contenuto. Resta il fatto che si tratta di importi notevoli. In ogni caso, impossibile non possederli se si è collezionisti, appassionati, galleristi, studiosi dell’autore. Per tutti gli altri sono uno strumento di approfondimento magari occasionale. Per questa ragione, uno sforzo di acquisizione da parte delle biblioteche pubbliche, almeno quelle specializzate e/o universitarie, sarebbe auspicabile.
STRALCIO dI PROVA di MARCO ENRICO GIACOMELLI I PERICOLI DELL’ISPIRAZIONE Parigi, 1863-1891. Come a dire: l’arte allora contemporanea nel posto giusto al momento giusto. Ci sono tutti, o quasi, ma è Henri de Toulouse-Lautrec il coprotagonista, ad affiancare una delle poche figure non storiche in questo romanzo, Lucien Lessard (a dire il vero, un fornaio con quelle caratteristiche esisteva, ma passons). Il nobile frequentatore di bordelli funge da spalla nel dipanarsi della trama e, come ogni spalla che si rispetti, è fonte di umorismo graffiante e talora piacevolmente greve: “‘Voglio dipingere un pagliaccio che si scopa un gatto’. ‘Non credo vada bene neanche per le pareti dello Chat Noir’ disse Lucien. ‘Va bene, una ballerina. Un petit rat dell’opera, di quelli che Degas ritrae spesso’. ‘Con un pagliaccio?’. ‘No, che scopa un gatto. È un tema ricorrente, Lucien. Questo posto si chiama Il gatto nero’. ‘Sì, ma quando hai disegnato il manifesto del Moulin Rouge non ci hai messo un pagliaccio che si scopava un mulino a vento’”. Il thriller artistico intitolato Sacré Bleu (Elliot, pagg. 316, ¤ 18.50) è firmato da Christopher Moore, scrittore statunitense classe 1957, noto in particolare per un romanzo assai divertente, Il Vangelo secondo Biff, amico di infanzia di Gesù (2002; trad. it. 2008). Colto, documentato, scritto con cura per i dettagli e per la lingua, Sacré Bleu è però - malgrado le intenzioni dell’autore? - più un racconto storico che un plot intriso di suspense. Perché, in fondo, gli oscuri legami tra la fabbricazione del blu oltremare, un Colorista che vive da millenni e una Musa ispiratrice che parla come una scaricatrice di porto sono meno avvincenti delle continue pennellate - è il caso di dirlo - che Moore stende sulla tela di una Montmartre oramai mitica. Da non sottovalutare, infine, la valenza didattica di Sacré Bleu. Perché, fra una gag e un assassinio, lo scrittore americano infila considerazioni tutt’altro che scontate, soprattutto se consideriamo il pessimo livello d’istruzione artistica che si impartisce nelle nostre scuole. Ad esempio: “Probabilmente, in quel preciso istante, il maestro [Monet, N.d.R.] si trovava a Giverny o a Rouen davanti a una dozzina di tele montate su una dozzina di cavalletti, e si dedicava a ognuna mano a mano che la luce cambiava, ritraendo su tutte lo stesso soggetto dalla stessa angolazione. E se qualcuno pensava che stesse dipingendo dei covoni di fieno e una cattedrale, rischiava di passare per uno stupido agli occhi del pittore. ‘Dipingo momenti. Momenti di luce unici e irripetibili’ diceva”.
fEdEX
di MARCO ENRICO GIACOMELLI
RAFFINATEZZE GLOBALI Ancora prima di sfogliarne le pagine, il catalogo della mostra AnderSennoSogno di Luigi Ontani si riconosce per la dominante dorata. Fa da sfondo alla sovraccoperta, tinge il taglio delle pagine sui tre lati non brossurati. Rimossa la fascetta trasparente che chiude il volume, si comincia ad apprezzare ancora di più il prodotto uscito per i tipi di Boabooks: le alette della succitata sovraccoperta in cartoncino sono larghe quasi quanto le pagine del libro e contengono, disposto rispettivamente sui lati sinistro e destro, il testo di Matilde Amaturo, direttrice del Museo Andersen di Roma, che ospitava la mostra conclusasi lo scorso febbraio. Una maniera originale di sfruttare uno spazio solitamente dedicato a brevi cenni su autore e testo. E se già la solita sovraccoperta incuriosiva per il suo invito (in forma di forbici e linea tratteggiata) a ritagliare la circonvoluta scultura di Ontani ivi riprodotta, ora ci si accorge che ne contiene altre quattro, prive di alette ma ricche di immagini stampate sulla stessa carta a fondo oro e di buona grammatura. Insomma, ancora il libro non è stato aperto e già si nota il lavoro di fino fatto dall’artista, dal curatore Luca Lo Pinto, dal fotografo Matteo Alessandri, dal graphic designer Izet Sheshivari [sua la foto del libro] e da tutto lo staff della casa editrice ginevrina. All’interno, tre facciate per il bel testo di Lo Pinto (ElegiaElogiOntani) e poi un indice/didascalia pulito e sintetico, dove sono sufficienti numerazione, titolo e anno. Tutto il resto, circa 120 pagine per 32 euro, è dedicato all’immagine, con un netto predominio degli scatti dell’allestimento straordinario, in specie dove Ontani ha interagito con le opere del titolare del museo, innescando un dialogo stridente e gaudente fra marmi bianchi e accesi cromatismi. Con il fil rouge di un erotismo raffinato e colto, dove s’intrecciano lungo i secoli culture d’Oriente e d’Occidente. Nessuna sbavatura in mostra, nessuna sbavatura in catalogo.
EDITORIA 65
E se al posto del design fatto con materiali di scarto si pensasse a un design che di scarto non ne produce alcuno? Buone norme per una progettazione etica. Dall’esempio di Enzo Mari ai più recenti sviluppi dettati dalla stampa a controllo numerico.
DESIGN NO WASTE di valia barriello
Gli oggetti di design realizzati con i materiali di recupero non sono mai stati così di moda come in questi ultimi anni. Tutti quei prodotti che partono dal riutilizzo di scarti industriali o dal recupero di oggetti destinati alla discarica per arrivare a un oggetto finito rientrano a pieno titolo all’interno del filone eco e green design. Ecco allora che i flaconi in plastica dei detersivi si trasformano in vasi di fiori o virtuosi lampadari, i tappi in sughero abbandonano il modellismo per diventare comode poltrone, i bancali in legno e le cassette della frutta sono convertiti in ogni possibile complemento d’arredo, dal letto alla libreria. Questo encomiabile filone, ampiamente apprezzato e capillarmente diffuso, anche tra i non addetti ai lavori, ha tuttavia un limite, costituito dal percorso progettuale, che parte da un rifiuto convertito in un prodotto, dando per scontato che lo scarto in questione continui a esistere. Ma il progettista oggi non è
in grado di fare un passo in più e di avere una visione lungimirante che gli permetta di imprimere una svolta etica alla progettazione?
Dopo tutta la sensibilizzazione sull’argomento, perorata da artisti e progettisti, alcuni concetti sono dati per scontati, come l’utilizzo di materiali riciclabili ed ecosostenibili. Oltre alla scelta della materia prima, però, un buon designer deve affidarsi alla progettazione vera e propria come arma rivoluzionaria e ideare un oggetto che non produca scarto alcuno. Stiamo forse esagerando? Niente affatto, e alcuni esempi illustri dimostrano che questa strada può e deve essere percorsa. Si pensi ai 16 Animali di Enzo Mari, prodotti nel 1957. Il gioco ricava tutte le sue componenti da un unico pezzo di legno, senza produrre scarto. Probabilmente Mari avrà iniziato disegnando
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DESIGN
le sagome degli animali separatamente e si sarà accorto che, intagliando le singole figure da una lastra piana, avrebbe ottenuto più pezzi da buttare rispetto a pezzi utili; da lì l’intuizione di incastrare le sagome tra di loro. In questo caso, un’accortezza progettuale e il rispetto per la materia hanno portato il designer alla soluzione creativa di un gioco tuttora attuale. Mari non è stato l’unico che ha progettato sfruttando al 100% la materia prima di partenza. Angelo Mangiarotti nel 1987 dimostrò con un’opera scultorea, Cono cielo, che da un unico blocco in marmo di 250x100x350 centimetri si poteva ricavare un obelisco alto 11 metri. Chi oggi è riuscito a cogliere più di altri l’insegnamento dei maestri e a rendere proprio questo modus operandi, cercando anche di diffonderlo, è il designer Paolo Ulian. Progettista da sempre molto attento all’aspetto etico dei propri prodotti, lavorando a stretto contatto con gli artigiani e scegliendo con accortezza le materie prime, si è reso conto quas i subito del grande quantitativo di scarto prodotto da ogni lavorazione. Ulian ha iniziato a rispettare alcuni piccoli accorgimenti progettuali fin dall’ideazione degli oggetti: per la ciotola in terracotta Una seconda vita, ad esempio, la foratura del decoro è allo stesso tempo una linea guida per un’eventuale rottura, i cui i cocci possono essere riutilizzati come piccole ciotole. Ha poi proseguito con oggetti pensati proprio in quest’ottica “no waste”, come il vaso in marmo Vaso vago, intagliato da un’unica lastra in marmo, fino ad arrivare alla serie di tavoli Autarchico [2011, edizione limitata per Le Fablier, photo Jonata Xerra]. “Sono oggetti autarchici quelli che bastano a se stessi, oggetti in cui la parte negativa e la parte positiva coincidono perché non esiste più un pezzo buono e un pezzo da buttare, ma ci sono solo pezzi utili”: così Ulian spiega i tavoli in marmo in cui ha ricavato le gambe dalle incisioni dei decori del piano.
Molti di questi oggetti, che non producono alcun rifiuto, sono stati realizzati con macchine di taglio a controllo numerico o waterjet, utilizzate da tutti i Fab Lab e punta di diamante delle autoproduzioni 2.0. Lo scorso
Salone del Mobile ha decretato il successo e la consacrazione di questa filosofia di stampa, che consente ai progettisti di disegnare un oggetto a casa propria, inviare il file di taglio e vedere l’oggetto realizzato, dopo due ore, dall’altra parte del mondo. Ma in nessuna di queste esposizioni è stato messo in rilievo il problema degli scarti che queste lavorazioni possono generare e l’importanza di una progettazione oculata per evitarlo. Il mondo dell’eco e green design può compiere a questo punto un passo da gigante, invertendo il canonico percorso progettuale e pensando anche a ciò che non deve generare.
PICK-A-PACK
di SONIA PEDRAZZINI
THE AUGMENTED PACKAGING Il packaging di oggi non vuole solo stupire, vuole far ricredere. Non cerca risposte, pone domande. Non cerca consensi, li ha già trovati. Più che “contenere”, gli imballaggi del nostro tempo “estendono”, ampliano la percezione ed esaltano i sensi. Creativi visionari, innovative tecniche di stampa e aziende audaci realizzano packaging che sono i discendenti di una nuova Augmented Reality fatta di materiali inusuali, effetti ottici, rilievi, superfici 3D che balzano fuori dall’oggetto per far volare l’immaginazione, che - tra natura e artificio - sottintendono la presenza di una iper-realtà del quotidiano e proiettano, come un gioco elettronico, in uno spazio sempre più virtuale. Le tecnologie ormai lo consentono e il mercato lo richiede: il packaging “aumentato” è la nuova frontiera della comunicazione delle merci. La promessa esperienziale, l’escapismo, l’emozionalità è oggi il valore più apprezzato dai consumatori adrenalinici, sempre in cerca di novità e suggestioni e sempre in fuga da una realtà fatta di “troppo”. La musica di per sé è già un medium che aiuta a evadere; con il packaging giusto, poi, la magia è completa. È il caso di Watch the Throne, album di debutto della collaborazione tra i rapper Jay-Z e Kanye West. Il cofanetto deluxe, sorprendentemente tattile e visivo, è nato dalla collaborazione fra lo stesso Kanye West e Riccardo Tisci (direttore creativo di Givenchy) e alla sua realizzazione ha collaborato un team di importanti designer e produttori, tra cui l’art director Virgil Abloh e Todd Russell. La custodia, di uno sfacciato quanto affascinante color oro pallido, è realizzata in Mylar (nome commerciale del polietilene tereftalato) ed è stampata a rilievo con un decoro così esagerato, fastoso e allo stesso tempo futuristico da magnetizzare lo sguardo e catapultare l’immaginazione nei meandri della fantascienza, tra gli effetti speciali del mitico Tron o del più recente Avatar a tre dimensioni. Watch The Throne ha ricevuto la nomination ai Grammy 2011 come miglior packaging e nel 2012 ha vinto The Dieline Awards.Il futuro non è stato mai così vicino. watchthethrone.com
L’AzIENdA
di GIULIA ZAPPA
MUTINA. DESIGN D’AUTORE AL POTERE Patricia Urquiola, Roberto Dordoni, Raw Edges, Tokujin Yoshioka, Barber & Osgerby, Ronan & Erwan Bouroullec: empireo del design o sublime agiografia, scegliete un po’ voi. O, ancora, una scelta imprenditoriale irrevocabile: produrre solo design d’autore, che non è necessariamente un design firmato, quanto un design di ricerca. La differenza? Fosse la moda sarebbe Margiela, siccome è design parliamo di Mutina, realtà di punta del distretto emiliano della ceramica, dal 1996 orientata ad anticipare il gusto di clienti sofisticati con prodotti che fanno dell’innovazione formale e tecnologica non solo un imperativo etico, ma anche una nicchia di mercato fruttuosa. E se il rinnovamento di un genere si fa anche a partire dalla consapevolezza teorica e culturale - la cura del dettaglio professata da Mies, la pittura a campi di colore di Rothko, i lavori di Hiroshi Sugimoto - la pratica si concretizza in collezioni dal forte substrato materico, che spiccano per un decorativismo sobrio sempre ispirato da un concept. Come Déchirer, superfici che si impregnano di storia e memoria quasi si trattasse di fossili, o Pico, grandi lastre che traducono in rivestimenti la lezione sul calcestruzzo di Le Corbusier. Tutti prodotti, questi, che non sanno prescindere da un approccio sinestetico: se prima vediamo i colori non colori, giocati inevitabilmente sulle sfumature del neutro, dopo vogliamo toccare le piastrelle, percependone i rilievi delle texture, fino a scoprirne le inedite tridimensionalità. www.mutina.it
DESIGN 67
Contro ogni aspettativa, l’India non è la nuova Cina. Neanche lontanamente. Forti tradizioni radicate, assenza di confine pubblico-privato, rifiuto per le grandi visioni urbanistiche e una salda democrazia sono gli ingredienti base per capire la strada che, a fatica e non senza detrattori, sta intraprendendo una delle future potenze mondiali.
DOVE STA ANDANDO IL SUBCONTINENTE? di Zaira Magliozzi
Per capire cosa succede in India in questi anni di boom demografico - è il secondo Paese più popolato al mondo dopo la Cina e si stima la supererà nel prossimo ventennio - e di rapida ascesa nell’economia mondiale, il modo migliore è farsi guidare da chi, da oltre vent’anni, lavora in uno dei settori nodali dello sviluppo indiano. Rahul Mehrotra - reduce da una mostra all’Accademia Britannica di Roma [photo Adnan Goga] - è architetto e urbanista, il cui studio RMA Architects, fondato nel 1990, è di base a Mumbai. È docente presso la Graduate School of Design della Harvard University e direttore del Dipartimento di Pianificazione e Progettazione urbana, nonché membro del comitato direttivo, della Harvard’s South Asia Initiative. È suo il volume Architecture in India since 1990 edito dalla tedesca Hatje Cantz. E saranno suoi gli occhi attraverso i quali intraprendiamo, sotto una luce nuova, un viaggio da insider nella cultura architettonica indiana. La prima tappa, punto di partenza di ogni viaggio che si rispetti, passa per la società indiana. Un groviglio inestricabile, se non si hanno gli strumenti adatti. Città formale e informale sono un tutt’uno, difficile distinguerle nettamente. È qui che il ceto medio e quello povero si mescolano, mentre il ceto alto a pochi metri di distanza, si distacca nettamente aumentando un divario sempre più incolmabile. Una società basata su una crescita
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ARCHITETTURA
velocissima (la città di Mumbai è passata da poco più di 10 milioni di abitanti nei primi Anni Zero agli oltre 20 milioni del 2012) e su una democrazia consolidata. Ma anche su una concezione dello spazio pubblico come naturale estensione di quello privato. È normale, ad esempio, che durante il Ganesh Festival per 10 giorni una strada pubblica venga completamente occupata e trasformata, diventando il teatro delle celebrazioni religiose collettive. Come è normale che il 92% della popolazione crei da solo e in modo informale il proprio lavoro, occupando porzioni di città con strutture temporanee spesso fatiscenti. Realizzate nella totale assenza sia delle istituzioni che dei progettisti. Una netta minoranza, questa, circa uno ogni 500mila abitanti (in Italia sono più di due ogni 1.000). Ma è la nazione stessa a essere spaccata in due. Da un lato, forti pressioni capitalistiche premono per plasmare l’India sul modello cinese - uno sviluppo incontrollato di megalopoli uguali tra loro e New Town -, dall’altro le profonde radici democratiche e pluraliste suggeriscono di rallentare, riportando le persone e i loro problemi quotidiani al centro del dibattito. Ciò produce almeno due categorie di architetture: una che lavora su macroscala, con macrointerventi da migliaia di insediamenti; l’altra che si insinua nel tessuto, innestando piccoli e mirati progetti di qualità. Con l’inevitabile confusione di stili, linguaggi e approcci che ne deriva. E con la difficoltà di riuscire a
prestinenza.it
In questo quadro complesso e problematico, quale potrà essere il ruolo dell’architettura contemporanea in India? Secondo Mehrotra non si tratta più di avere sulle città “Grand Vision” ma “Grand Adjustment”. Di insinuarsi nelle trame intricate della società, prendendone in prestito abitudini e tradizioni per usarle in maniera organizzata e strategica, col fine di ottenere un miglioramento tangibile. Una professione, quella dell’architetto oggi in India, in crisi profonda, segnata dall’assenza di una committenza a cui riferirsi, ostacolata dalla società capitalista e da un governo centrale spesso disinteressato, che finisce col risultare molto lontana dai problemi delle persone comuni e dal suo obiettivo di migliorare la condizione della popolazione più povera. Perché, se è vero che il lavoro non manca nel ricco settore formale, questo non rappresenta che un decimo del totale e di certo non può essere preso a esempio. È grande la sfida per l’India di domani che, a proprie spese, dovrà trovare il proprio modello di sviluppo futuro. All’insegna di quel pluralismo dilagante che va tradotto in un’immagine coerente e sostenibile. Un’immagine senza eguali nel mondo.
ARCHITECTURE PLAYLIST
distinguere gli edifici storici da quelli appena realizzati in un pastiche eclettico, caotico e indistinto.
di Luigi Prestinenza Puglisi
astuti ESOTISMI DALl’india Studio Mumbai è stato fondato nel 1995 da Bijoy Jain per divenire presto famoso. Tra il 2007 e il 2008 è stato pubblicato dalle riviste britanniche Wallpaper, AD e The Architectural Review, dalla giapponese A+U e dall’italiana Domus, e sempre nel 2007 è stato invitato dal Victoria & Albert per una mostra dal titolo In Between Architecture. Un successo sancito nel 2011 da un numero monografico della rivista El Croquis, forse la più ambita pubblicazione per un collettivo di progettazione operante a livello internazionale. Qual è il segreto dello Studio Mumbai e del suo astuto fondatore? La retorica ambientalista e localista servita in chiave esotica, insieme alla capacità di produrre ottimi edifici che, invece e per fortuna, pescano a piene mani dalla tradizione architettonica occidentale e in particolare dalle migliori architetture dell’architettura organica, Frank Lloyd Wright in testa. Ecco come lo studio si presenta nel suo sito web: “Mumbai è una infrastruttura umana di esperti artigiani e architetti che progetta e costruisce direttamente”, “ispirata dalla realtà”, che mette insieme “abilità tradizionali e tecniche costruttive locali” e utilizza “materiali e intelligenze che nascono da risorse limitate”, naturalmente per “mettere in relazione l’architettura con il paesaggio”, mentre il lavoro è “il prodotto di un dialogo collettivo, una condivisione faccia a faccia per la conoscenza attraverso l’immaginazione, la giusta scala, la modestia”. A suggellare le affermazioni, che cercano di nascondere l’ovvia verità che l’esotico è sempre il frutto della globalizzazione e delle sue strategie di mercato, è il timbro, il logo dello studio, rosso con finta sbavatura d’inchiostro. Una ennesima reinterpretazione colta delle strategie comunicative messe a punto dai negozi di franchising che vendono prodotti bio o, se vogliamo essere meno ingenerosi, dell’approccio radical chic londinese oggi assorbito dai creativi politically correct. Un attento osservatore noterà infatti la cura con la quale Studio Mumbai diffonde le immagini del proprio lavoro, avvalendosi dell’aiuto dei più sofisticati fotografi internazionali, Hélène Binet in testa [nella foto, Palmyra House, 2007]. Cosa ci insegna il successo di Studio Mumbai? Che per affermarsi oggi gli architetti devono vendersi come anti-archistar, pitturarsi di verde, usare molto legno, predicare la slow way of living e inventarsi l’architettura vegetariana. Proporre insomma una modernità autocritica, magari con un occhio rivolto al passato, in perfetto stile post-Barilla. E, oltre a essere bravi, venire dalle nazioni emergenti, meglio se l’India o la Cina (l’ultimo Pritzker è andato al cinese Wu Shu, che lavora più o meno - ma con maggiore intelligenza teorica - con gli stessi temi). Il futuro? Beh, per un po’ è meglio non parlarne. Ripasserà, si spera, a fine crisi.
di LUCA DIFFUSE
Architettura delle ragazze Una playlist di ragazze. Perché l’isolamento dalle altre pratiche del progetto, che è la caratteristica particolare della ricerca italiana in architettura, porta con sé una malinconia particolare e sessuale. Sembra esserci spazio soltanto per uno stupido sentimento autoriale tutto maschile, che dà per scontata la distanza dalla grafica, dalla composizione tipografica, dalla scrittura creativa, dalla fotografia. È facile confermare questa attitudine come maschile, guardando allo spostamento di molte ragazze architetto verso zone professionali aderenti all’architettura e al design ma non così noiose, oppure non così occupate da sentimenti immaturi e negativi. Per questo numero, quindi, una prima playlist di ragazze, che verrà aumentata nel prossimo. Loro sono a livelli differenti, ma in genere davvero iniziali della carriera e sono impegnate in campi anche lontani. Ma hanno fatto o stanno per fare cose bellissime. Continuo a pensare che un progettista dovrebbe sentire - magari con leggerezza - il problema di disegnare qualcosa o costruire un approccio che possa piacere prima di tutto a loro. Sara Alberani [1], Emilia Gaglione [2 - nella foto], Giulia Milza [3], Maria Azzurra Rossi [4], Anita Silva [5]...
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Negli ultimi anni l’India è cresciuta economicamente in maniera esponenziale e la velocità in questo settore non sempre è un bene. Lo ha fatto a suo modo: spettacolarizzando l’architettura ed esibendo l’eccesso. Mumbai ne è l’espressione esemplare, coi suoi grattacieli vista oceano e gli edifici iconici. Si spera che questo entusiasmo non porti all’effetto Dubai e che i piccoli interventi culturalmente e architettonicamente interessanti possano diventare sempre più numerosi.
MUMBAI EffETTO DUBAI di FEdERICA RUssO
ANTILIA TOWER
È stata inaugurata il 12 gennaio 2013 l’abitazione più onerosa al mondo ed è naturalmente a Mumbai. Il grattacielo Antilia è l’umile dimora di Mukesh Ambani, uno degli uomini più ricchi del pianeta, ed è sito sulla Altamount Road, fra le superfici più costose sul pianeta. Quello che possiamo senza dubbio definire un castello contemporaneo conta una superficie di circa 37.000 mq (oltre la metà del Palazzo di Versailles), 600 persone in servizio permanente, 6 piani di parcheggio per 168 auto - tra le quali molte d’epoca -, 9 ascensori, spa, yoga centre, piscina, giardini, un teatro da 50 posti e addirittura una ice room. Un caso sicuramente interessante, considerato che tutto questo sfarzo si sviluppa in verticale e in una metropoli. Peccato però che, tra un eccesso e l’altro, l’architettura firmata Perkins & Will con Atlanta-based Hirsch Bender Associates passi in secondo piano, caratterizzata da uno scontato nastro che sale e si piega piano dopo piano senza picchi di entusiasmo né sorpresa. Project: Perkins & Will Year: 2013 Location: Cuff Parade Status: completed
NARIMAN POINT BUILDING
Era l’ultimo dei lotti edificabili sul waterfront di Nariman Point, la zona commerciale più fruttuosa dell’India. Ci poteva essere un’occasione commercialmente più ghiotta? Nel gennaio 2009 si è svolta la shilanyas, la cerimonia della posa della prima pietra, ma a distanza di quattro anni si aspetta ancora il completamento del progetto. Sono previsti 13 piani, costruiti in una prima fase, dove saranno situati uffici, un convention centre e alcuni servizi ospedalieri, e una torre di 35 piani destinata a residenze. Quest’ultima, da costruire in una seconda fase, aspetta ancora la concessione, e se l’ambizione avesse superato la realtà, ci ritroveremmo col primo corpo, dagli enormi archi ispirati all’architettura nautica, troppo basso e in vana attesa della sua slanciata vela. Project: Chapman Taylor Year: 2016 Location: Nariman Point Status: on going
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ARCHITETTURA
Mahalakshmi Byculla East
Agripada
Tardeo
Byculla
BOMBAY ARTS SOCIETY
Ancora una volta, un edificio iconico, ma in questo caso la Bombay Arts Society è un piccolo gioiello nel cuore di Mumbai. Una scultura più che un edificio, bianca, morbida e placida, che si incastra in soli 1.300 mq di lotto e sale per quattro piani, incastrando in curve sinuose funzioni pubbliche e private. La forma scaturisce dalla funzione e dalla necessità di separare ingressi e usi della zona pubblica, ospitante nei primi tre piani le gallerie, un auditorium, la caffetteria e gli spazi per gli artisti, e della zona privata, con al quarto piano gli uffici che si affacciano sull’oceano. Niente di invasivo o eccessivamente spettacolare, ma un’architettura piccola, interessante e ben fatta. Project: Sanjay Puri Architects Year: 2013 Location: Fort Status: completed
Kalbadevi
Dhobilatao
Fort
Nariman Point
THE TOTE
Già nel 2007 lo studio londineseindiano aveva realizzato a Mumbai il Blue Frog Acoustic Lounge, un ristorante noto per l’avvolgente superficie curva che divideva lo spazio conviviale. Nel 2009 è stato completato The Tote, una sala banchetti. Anche in questo caso la filosofia è simile: la consolidata conoscenza nella progettazione di interni londinese sposa il tradizionale amore per la convivialità indiana attraverso una soluzione che mette in scena uno spazio avvolgente ed eccentrico. In questo caso la preesistenza, uno storico edificio coloniale contornato da enormi alberi, ha dato l’input e l’intera superficie interna della sala banchetti, del wine bar e del ristorante sono stati avvolti proprio da alberi. La struttura in acciaio è anche la decorazione e la divisione organizzativa dello spazio, in un unico gesto pulito e semplice, forse un poco ridondante. Project: Serie Architects Year: 2009 Location: Mahalaxmi Status: completed
ASK FOUNDATION CONVENTION CENTER
Sarà completata nel 2015 l’enorme sfera di vetro che ospiterà il Mumbai University and ASK Foundation Convention Center. Il progetto nel campus, vicinissimo all’International Airport e si proporrà sfacciatamente come iconico gateway della città. 35.000 mq sotto questo cielo trasparente, che è stato dichiarato low energy facade, comprendono una grande hall a tutta altezza per convention, servizi sportivi, eventi, bar e ristoranti con vista a 360 gradi sul campus, e al piano superiore meeting room e uffici. Lo spettacolare tetto, protagonista dell’intervento, sarà sicuramente amato dagli abitanti e dagli studenti di Mumbai. Project: James Law Cybertecture Year: 2015 Location: Churchgate Status: on going
VISITOR CENTRE AT CSMVS
Il Visitor Centre all’ingresso del Chhatrati Shivaji Maharaj Vastu Sangrahalaya è un intervento di rara eleganza e modestia, comparato al resto dell’attività architettonica di Mumbai dell’ultimo periodo. Il progetto segue l’impronta della preesistente hall multifunzionale, sottolineandola attraverso gli alberi presenti sul lotto, che attraversano l’edificio trapassandone il tetto. La forma generale è semplice ma curvilinea, e ciò permette al rivestimento in metallo di restituire al visitatore l’immagine istituzionale del museo storico, distorcendolo in una nuova prospettiva. Un piccolo intervento che poteva lasciarsi andare alla dilagante spettacolarizzazione, data la sua funzione di accoglienza per uno dei più importanti musei della città, ma che invece ha scelto una sofisticata discrezione e un conscio ma creativo rispetto per il contesto storico. Project: RMA Architects Year: 2011 Location: Fort Status: completed
ARCH.ECO
di ELISABETTA BIESTRO
UN CORRIDOIO VERDE PER L’INDIA Ottobre 2012: le Nazioni Unite bocciano Mumbai, definendola una metropoli poco vivibile in termini di sostenibilità ambientale, emissioni di CO2, mobilità urbana e qualità della vita. Ma la città, capitale dello stato del Maharashtra, guarda al futuro attraverso il progetto di un corridoio industriale e tecnologico che la collegherà a Delhi, per una lunghezza complessiva di oltre 1.400 km. Un investimento quantificabile in 90 miliardi di dollari, fortemente sostenuto dal Giappone, che rivoluzionerà i collegamenti interni e l’economia locale dei sei stati coinvolti. Uno degli assi principali di intervento riguarda la realizzazione, e in parte il restyling, di 24 nuove “green cities”, città-satelliti ipertecnologiche e avanzate in termini di autosufficienza energetica, riciclaggio dei rifiuti e recupero idrico. Sette le città finora coinvolte nel progetto, che si concluderà nel 2017: prevede un ingente coinvolgimento di fondi giapponesi e tenderà anche ad alleggerire il sistema di trasporto pubblico congestionato di Mumbai, con conseguente miglioramento della qualità dell’aria. Nei prossimi anni la pianificazione territoriale indiana dovrà però risolvere anche problemi di ordine sociale ed economico: oltre la contrapposizione netta fra i numerosi green building presenti nella città di Mumbai rende ancora più macroscopica la presenza di Dharavi, una delle più grandi baraccopoli asiatiche, e di una risposta distorta all’emergenza abitativa quali sono i vertical slum, emblematici casi di appropriazione temporanea di spazi pubblici. Inoltre, oltre la metà delle persone che vivono in aree urbanizzate non dispone di una fonte sicura di reddito e la maggior parte dei fondi urbani è gestita da un’élite benestante, che tende a promuovere esclusivamente interventi strategici per pochi eletti.
ARCH.TIPS
di GIULIA MURA
E IL SARI VINCE Pare proprio che il 2013 sia iniziato sotto il segno delle donne in architettura: a dispetto delle statistiche, guadagnano posizioni, vincono premi, ricevono riconoscimenti. Anche in India, società nettamente patriarcale, dove a vincere è un giovane architetto di New Delhi, Amrita Ballal, partner dal 2005 dello studio SpaceMatters, riconosciuta tra le migliori firme in ascesa del Paese e appena ”incoronata” dall’Architect’s Journal come “Emerging Woman Architect of the Year”. Niente male, per una che ha a malapena trent’anni. Considerando inoltre che, dal 2012, è anche co-fondatrice di ARCHIlab - Action Research for Critical Habitat Innovation Laboratory, progetto di ricerca internazionale che si è occupato, fra gli altri, di creare una mappatura socio spaziale degli homeless di New Delhi. Un architetto impegnato, dunque, che sa coniugare progettazione urbana e interior design, attraverso una visione multidisciplinare che usa l’architettura tradizionale indiana, il valore dei luoghi e la saggezza delle genti come punto di partenza. Interessata al lato sociale ed ecologico dell’architettura, Amrita Ballal ha studiato prima alla School of Planning and Architecture di New Delhi, per poi traferirsi alla Norwegian University of Science and Technology, specializzandosi appunto in Urban Ecological Planning. Tuttora collabora con molte università perché, afferma, “la practice non è mai separata dalla research”. I suoi riferimenti femminili? Kazuyo Sejima, Maya Lin, Zaha Hadid, Anupama Kundoo, Didi Contractor. www.spacematters.in
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Un Al Pacino infiltrato nella comunità gay di New York è il protagonista del film Cruising di William Friedkin, distribuito nel 1980. Una pellicola e un personaggio esemplari per capire come il soggetto scompaia in certa cinematografia. Una dissoluzione del Sé che parte da Antonioni e arriva a Bruce Willis.
sulLA SCOMPARSA DEL PROTAGONISTA di Christian Caliandro
Cruising (1980) di William Friedkin è una di quelle opere che, anche a distanza di più di trent’anni, continua instancabilmente e incessantemente a interrogarci. Protagonista è Steve Burns (Al Pacino), mite poliziotto incaricato di infiltrarsi nella comunità omosessuale per scoprire l’assassino: Friedkin usa la struttura del thriller come un pretesto per indagare la dissoluzione interna del soggetto, e l’intero svolgersi del racconto coincide con questo percorso di disintegrazione personale. Tutto ruota attorno alla domanda chiave del capitano del dipartimento, posta nella scena iniziale: “Che ne diresti di scomparire?” gioca sul doppio senso di ‘cruising’ (‘pattugliare’ e ‘battere il marciapiede’), mentre ‘to disappear’ in gergo poliziesco sta per ‘infiltrarsi’. Il cruising in questione, dunque, è un movimento continuo da un’identità a un’altra, fino alla scissione e alla perdita del Sé. L’esplorazione sotto copertura della sottocultura gay di una New York oscura e minacciosa compiuta da Steve Burns (fino al punto estremo di confondersi completamente con essa) è emblematica di un percorso che parte da lontano e che investe la figura del personaggio nel romanzo e nel film del XX secolo.
Ciò a cui si assiste qui è, di fatto, la conclusione del processo evolutivo/involutivo - una progressiva rarefazione che è anche in fondo un’abdicazione - a cui è sottoposto il “personaggio-uomo” di cui parlava Giacomo Debenedetti negli Anni
Sessanta: “È dunque già cominciata, per il personaggio-uomo, una vita grama: lo si trova intatto solo nel punto in cui il
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circolo chiude il circolo e l’inizio coincide con la fine. Egli appare, gli viene imposto un nome e uno stato civile, poi si dissolve in una miriade di corpuscoli che lo fanno sloggiare dalla ribalta, è richiamato solo nel momento in cui serve a incollare i suoi minutissimi cocci”. E ancora: “Così, quando il romanziere impone un nome proprio ai suoi personaggi, sospettiamo l’arbitrio, che Robbe-Grillet cerca di sventare, battezzandoli con le lettere dell’alfabeto. E delle particelle il fisico conosce solo i nomi collettivi (pioni, positroni ecc.), ma non si sogna di distinguere con un appellativo specifico quel particolare pione o altro, che sta osservando nella camera a nebbia. […] L’unico rapporto diretto che possa istituire con loro è visivo, quando guarda o fotografa le scie del loro passaggio: anche lui, dove racconta o descrive, fa parte di una ‘école du regard’” (Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, 1965). Il tema centrale è dunque quello dello sguardo, della visione che sostituisce l’azione identificandosi con essa, come avviene regolarmente in periodi di accanito sperimentalismo manierista. Del resto questi autori (lo stesso Friedkin, ma anche Martin Scorsese, Michael Cimino, Brian De Palma o il Francis Ford Coppola de La conversazione, 1974) sono profondamente imbevuti di cultura cinematografica francese e italiana. Oltre che nella nouvelle vague e in quell’oggetto misterioso che è La Jetée (1962) di Chris Marker, questo stesso strano fenomeno di dissoluzione/ dissolvenza è infatti pienamente all’opera anche, ad esempio, in film come L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, che insegue l’equivalenza sostanziale, dal punto di vista sia formale che narrativo, tra personaggi umani ed elementi del paesaggio naturale e urbano. Quella
dell’“incomunicabilità” è innanzitutto una strategia descrittiva del protagonista che si dissolve, declinata in
opere che sono a tutti gli effetti “antiromanzi” cinematografici. Echi successivi e, per così dire, narrativamente “secolarizzati” di questa mutazione si potrebbero riconoscere nei personaggi “stupidi” e psicologicamente evanescenti di Quentin Tarantino (il pugile Butch in Pulp Fiction, 1994); nel James Cole de L’esercito delle dodici scimmie (Terry Gilliam 1995), irrisolto - perché impossibile - remake de La Jetée; o nel dottor Michael Crowe del Sesto senso (1999) e nell’Elijah Price di Unbreakable (2000) di M. Night Shyamalan. Tutti protagonisti, è bene sottolinearlo, incarnati da Bruce Willis, vera “persona” del personaggio che scompare, che evapora tra fine Anni Novanta e inizio Anni Zero. Ma questa è decisamente un’altra storia. .
L.I.P. - LOST in projection di Giulia Pezzoli PREMIUM RUSH Wilee (Joseph Gordon-Levitt), spericolato pony express di New York, viene chiamato dall’amica Nima per la consegna entro 90 minuti di un’importante lettera a un indirizzo di Chinatown. In apparenza nulla di strano per uno dei più veloci pony express della città, se non fosse che quella busta fa gola anche a un poliziotto corrotto e indebitato fino al collo (Michael Shannon), che non ha la minima intenzione di fargliela recapitare. Schiacciato dalle evidenti difficoltà, Wilee decide di abbandonare l’impresa, finché non viene a conoscenza del vero motivo per cui quella lettera deve assolutamente essere consegnata… Premium Rush o Senza Freni (nella banale traduzione italiana) è un film di pura adrenalina. Se cercate in questa pellicola una perfetta trama da thriller, non vi godrete a pieno lo spettacolo. È un film da gustare in totale leggerezza, grazie alla ricchezza di una produzione che, utilizzando effetti speciali digitali e abilissimi stuntman, si allontana dai movimenti e dai suoni di un canonico action movie per mettere in scena una serie infinita di spericolati inseguimenti che incollano lo spettatore allo schermo. Il protagonista Wilee, un fattorino fanatico e con un’inguaribile vocazione al rischio, cavalca una bici ultraleggera, monomarcia e senza freni per le strade affollate di una bellissima e frenetica New York. Accompagnato da una sexy fidanzata (una Dania Ramirez anche lei pony express) e da un pericoloso antagonista (un perfettamente schizoide e bipolare Michael Shannon), Wilee sfreccia senza sosta per i più impensati anfratti della Grande Mela, rincorso dal tempo e ostacolato in tutti i modi dal destino. Il regista David Koepp (già sceneggiatore di molti blockbuster, nonché collaboratore di Spielberg in diverse occasioni) riesce a mantenere un perfetto equilibrio tra serio e faceto, costruendo un prodotto che, pur avendo la pecca di una trama a tratti forzata, riesce a divertire e appassionare con leggerezza, presentando immagini nuove e spettacolari. USA, 2012 | azione | 91’ | regia: David Koepp Nel 2011 Joe Quirk ha intentato una causa per i diritti d’autore di una sceneggiatura basata sul suo romanzo The Ultimate Rush del 1998. Durante le riprese, Joseph Gordon-Levitt si è scontrato con un taxi mentre coreva a tutta velocità in bicicletta, incidente risolto con 31 punti di sutura al braccio.
SERIAL VIEWER
di FRANCESCO SALA
HELL ON WHEELS Prendi il sempiterno amore degli americani per il mito della frontiera, atavico attaccamento alle radici più profonde concesse dalla loro giovane Storia. Mettici personaggi costruiti splendidamente, un intreccio che sa annodare filoni paralleli mai banali, interpreti di profondo carisma e quel gusto mai sopito per l’eroe che si fa giustizia da solo: avrai il successo di Hell on wheels, l’inferno su ruote che da due stagioni trascina l’America nel crudo e irrisolto confronto con il proprio torbido passato. Thomas Durant, speculatore con infinito pelo sullo stomaco e capacità affabulatorie degne di un seggio in Senato, persegue con disinvolto ricorso all’illecito il sogno di battere la concorrenza e realizzare la First Transcontinental Railroad. Il cantiere della prima ferrovia coast to coast diventa una suburra viaggiante, città del vizio e della desolazione morale; un carrozzone variopinto di miserie umane accompagna, chilometro dopo chilometro, la posa dei binari: l’accampamento dove alloggiano gli operai è, in piccolo, allegoria della società del tempo. Tra saloon e prostitute, conflitti razziali, tensioni con i pellerossa e l’ammorbante cieca devozione a una chiesa settaria e dai toni millenaristici: il caravanserraglio è decisamente ben assortito, con gli eroi a macchiarsi di nefandezze intollerabili. A dominare, su tutto e tutti, la sete di giustizia di Cullen Bohannon: reduce confederato a caccia dei bruti unionisti che hanno massacrato la sua famiglia. Avete presente la mission di Russell Crowe ne Il Gladiatore? Siamo lì. In effetti Hell on wheels sa fare incetta di situazioni già viste: si passa dal deviato senso dell’etica e dell’onore di un Gangs of New York alle umide atmosfere senza speranza di The Road; il personaggio di Bohannon, ben cucito addosso a un laconico Anson Mount, è versione beona ed estremizzata del Kevin Costner di Balla coi Lupi. Ma l’amalgama funziona, il ritmo è alto, la ricostruzione storica eccezionalmente fedele. E la serie viaggia. La prima stagione, lanciata in patria nell’autunno 2011, ha raccolto con l’episodio pilota una cifra prossima ai 4 milioni e mezzo di spettatori: dopo The Walking Dead, si tratta dell’esordio migliore di sempre per un prodotto AMC, risultato decisamente al di sopra di ogni più rosea aspettativa. Un successo difficile da mantenere su livelli così alti: con la seconda stagione si viaggia attorno ai due milioni e mezzo di spettatori a episodio; una contrazione che non ha indotto AMC a sospendere la serie, confermata invece per una terza stagione. Alla quale si affaccia però orfana dei suoi creatori: i fratelli Joe e Tony Gayton, ideatori del progetto, mollano la squadra.
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Evoluzioni spontanee di un Paese ancora al primo posto nella stima mondiale della produzione di alto livello. Ma privo di ogni attenzione programmatica da parte della politica. E così Altaroma, Pitti Immagine e Camera della Moda di Milano cominciano a pensare da sé in termini di incontro e sinergia.
NUOVA GEOPOLITICA DELLA MODA ITALIAna di CLARA TOSI PAMPHILI
I cambiamenti politici, amministrativi, religiosi del nostro Paese non risparmiano nemmeno il mondo della moda: sono in scioglimento e ridefinizione sia Altaroma che la Camera della Moda di Milano. In questa situazione si delineano coalizioni e superamenti di confini territoriali di quelle realtà che fino ad ora hanno dialogato a distanza da Roma, Milano e Firenze: si cerca di parlare anche intorno a un tavolino, ci si sfida alimentando il confronto alla ricerca di nuovi orizzonti. L’edizione della scorsa Settimana della Moda a Milano ha visto l’ingresso di una nuova fiera portata da Pitti, Super, che presentava più o meno nuovi talenti, così come il White, storica fiera milanese, apriva la definitiva collaborazione con Altaroma per schierare altri nuovi talenti. Cambiamenti che esprimono soprattutto la volontà di
fronteggiare da soli la crisi, di reagire con i propri mezzi, dichiarando una totale assenza del supporto dello Stato. È stata Donatella Versace, seguita da altri autorevoli rappresentanti di
settore, a denunciare l’assenza di iniziative strutturali: ancora una volta non si considera la moda come un patrimonio indispensabile ma un bene superfluo; in nessun programma politico appaiono disegni di provvedimenti seri a tutela del made in Italy. La crisi ha toccato fortemente questo settore, che rappresenta la seconda voce di bilancio nazionale, ha penalizzato tutte le grandi e piccole industrie che vivono in Italia con vocazioni molto diverse, spesso originate dalla loro posizione geografica, per cui si può parlare di veri e propri distretti produttivi. Bisogna ricordare che nel panorama geopolitico del fashion l’Ita-
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lia non ha mai perso il primato del “ben fatto”, e che se la Francia è la nazione della couture, l’Inghilterra quella delle rotture coraggiose e il Belgio della sperimentazione, a noi spetta il primato della esecuzione artigianale di altissimo livello, che avvenga in fabbrica o in piccoli laboratori. L’Italia è il Paese della filiera produttiva completa: grazie a questo, vengono a realizzare qui i loro prodotti tutti i più importanti marchi del mondo, quelli che vogliono poter contare sulle competenze di chi materializza le loro idee, oltre che su una buona materia prima. I nostri artigiani ottimizzano spontaneamente i progetti di designer audaci, contribuiscono a inventare nuovi sistemi di tinture e assemblaggio, sperimentano sui pellami come sulle finiture galvaniche delle borse, realizzano pellicce e abiti come nessun altro sa fare. Oltre a produrre per gli altri, siamo noi stessi imprenditori: i grandi nomi dell’industria italiana contano più famiglie legate alla moda che a ogni altro comparto. Il lavoro di produzione ma soprattutto di promozione si sviluppa su tre poli, ben distinti nella gestione del made in Italy: Altaroma a Roma, Pitti Immagine a Firenze e Camera della Moda a Milano. Altaroma [nella foto di Luca Sorrentino, una immagine da Limited/Unlimited] è una società consortile per azioni partecipata da Camera di Commercio, Regione Lazio, Provincia e Comune di Roma, che scelgono i loro rappresentanti in un consiglio d’amministrazione guidato da un presidente affiancato da un presidente onorario. Centro propulsore della haute couture italiana e nuova piattaforma di lancio per i designer emergenti, Altaroma è sinonimo di tradizione e sperimentazione. Dalla promozione del made in Italy alla tutela dei valori artigianali che hanno reso Roma celebre nel mondo, l’intento programmatico di Altaroma si concretizza nella valorizzazione delle eccellenze fino alla neocouture, come definizione di un nuovo linguaggio, luogo d’incontro fra tradizione sartoriale, ricerca e avanguardia in uno scenario internazionale dove si fondono arte, moda e cultura. Pitti Immagine è un’impresa che opera prevalentemente su un sistema fieristico di alto livello basato sulla promozione dell’industria e del design della moda, ma che ha esteso la propria attività anche a settori come il cibo o i profumi. È stata la prima realtà a diffondere un concetto di cultura del prodotto, inserendo sempre mostre come eventi paralleli alle fiere, e curando l’immagine della fiera senza paura di dover limitare gli espositori che non fossero in linea con la propria filosofia. La Camera Sindacale della Moda Italiana fu concepita - a Roma, per poi spostarsi a Milano - come un’associazione apolitica, senza scopo di lucro. Le finalità sono di tutela, valorizzazione e disciplina degli interessi morali, artistici ed economici dell’attività professionale delle categorie dei molteplici settori legati alla moda, sia nei confronti delle istituzioni pubbliche che delle altre associazioni nazionali ed estere. Vede al suo interno i rappresentanti più forti del panorama nazionale della moda e non ha intromissioni politiche, per cui si muove con maggiore libertà imprenditoriale sul panorama internazionale.
Questi organismi stanno cercando di ridisegnare un’immagine che non riesce più a vivere sugli allori. Sarebbe fondamentale un contributo di pianificazione statale che desse la giusta forza a un mondo che non si limita a produrre abiti, ma che è entrato anche nella cultura e nei musei del nostro Paese. Ma questo, purtroppo, in Italia non dà alcuna garanzia di maggiori investimenti e provvedimenti.
fASHIONEW
di ALESSIO DE’ NAVASQUES
LA BORSA COME TEOREMA Concepite come un amuleto, un talismano, uno stargate per raggiungere un mondo diverso dal nostro: sono le borse disegnate da Simone Rainer. Frutto di complessi teoremi e proporzioni auree, cariche di significati esoterici, sono ormai veri e propri oggetti di culto per appassionati e addetti ai lavori. In un momento caratterizzato da grandi rivolgimenti politici, economici, sociali e religiosi, questi alchemici accessori sembrano essere davvero irresistibili e acquistare ancora più forza e significato. I Triangoli#1,, modello di maggior successo, sono stati indossati da trionfanti icone di moda e fashion victim di tutto il mondo alle ultime sfilate di Milano e Parigi. La borsa diventa così oggetto di studio scientifico, perfetta nelle sue forme e proporzioni in quanto essa stessa dimostrazione del teorema di Nigredo#1. L’idea della sua forma triangolare racchiude in sé la sintesi perfetta dell’avventura umana nel mondo delle idee, della materia, e simbolo di un viaggio alla ricerca di elevazione. Non a caso la pochette Nigredo#1 [nella foto] è la riproduzione in scala esageratamente grande dei tradizionali borselli portati dai fedeli in pellegrinaggio sulla via del Santuario di Santiago di Compostela. Le varianti sullo stesso modello sono rappresentate dai materiali, alcuni creati ad hoc per il progetto, altri trattati in maniera speciale: dalla pelle alla resina, per restituire l’effetto di una superficie viva e vibrante.
fASHIONOTES
di FEDERICO POLETTI
E IL MET CELEBRA IL PUNK Tra gli eventi più attesi del fashion curating, a maggio si tiene la tradizionale mostra/gala organizzata dal museo newyorchese per la raccolta fondi dell’Istituto del Costume. Tema di questa nuova mostra è il punk, che non rappresenta solo un trend ricorrente, ma anche uno spirito di ribellione e un modo di affrontare la vita che è particolarmente attuale: basti pensare alla vicenda delle tre esponenti delle Pussy Riot, gruppo femminista punk russo, condannate a tre anni di reclusione con l’accusa di “teppismo religioso”. In mostra al Metropolitan cento creazioni, con abiti punk originali dalla metà degli Anni Settanta che si contrappongono a quelli più recenti: un percorso multisensoriale con video e musiche, per mostrare come l’haute couture e il prêt-à-porter abbiano preso a prestito i simboli del punk, sostituendo quindi le paillette con spille da balia, le piume con lame di rasoio e le perline con le borchie. Particolare spazio avrà l’influenza di Malcolm McClaren e Vivienne Westwood con la loro boutique Seditionaries a Londra, per capire come i designer abbiano poi arricchito il linguaggio visivo del punk, originariamente articolato dal duo, attraverso la fusione tra il realismo sociale e l’espressione artistica. Forte la selezione dei fashion designer coinvolti: Miguel Adrover, Thom Browne, Hussein Chalayan, Giles Deacon, Christophe Decarnin (Balmain), Dior, Domenico Dolce e Stefano Gabbana (Dolce e Gabbana), John Galliano, Nicolas Ghesquière (Balenciaga), Alexandre Herchcovitch, Viktor Horsting e Rolf Snoeren (Viktor & Rolf), Marc Jacobs, Christopher Kane, Rei Kawakubo (Comme des Garçons [nella foto di Peter Lindbergh]), Karl Lagerfeld (Chanel), Helmut Lang, Martin Margiela, Alexander McQueen, Moschino, Kate e Laura Mulleavy (Rodarte), Miuccia Prada, Gareth Pugh, Zandra Rhodes, Jeremy Scott, Stephen Sprouse, Jun Takahashi (Undercover), Riccardo Tisci (Givenchy), Gianni Versace, Junya Watanabe e Yohji Yamamoto. Un progetto complesso, che contamina arte, musica, moda e società. Il gala di beneficienza sarà realizzato dal celebre fotografo Nick Knight, da Sam Gainsbury e da Gideon Ponte (scenografo e set designer dei film Buffalo 66 e American Psycho) con Raul Avila. Completa l’ambizioso progetto, la pubblicazione del volume Punk: Chaos to Couture curato da Andrew Bolton e ampiamente illustrato da foto d’epoca per una punk full immersion. Al MET scatta l’ora della ribellione. Una lezione anticonformista che dovremo forse ricordare nella nostra routine professionale e politica. www.metmuseum.org
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Non più protetta dalle pareti del museo o incorniciata dalle pagine di un catalogo, l’immagine artistica diventa un contenuto come tutti gli altri. Le opere d’arte vivono un’esistenza parallela sul web, dove si mescolano con il maelström della cultura visiva e vengono modificate e scambiate senza paura. Il risultato? Un nuovo pubblico e un nuovo ruolo per l’arte contemporanea. Tutto da studiare.
IL CONTRAPPASSO DELL’ARTE di valentina tanni
Al fatto che qualsiasi cosa - oggetto, materiale, idea - possa diventare arte siamo da tempo abituati. Gli artisti hanno rivendicato questo “diritto illimitato” di appropriazione circa un secolo fa, ottenendo un duplice risultato: da un lato la pratica artistica ha ampliato enormemente le proprie possibilità espressive, dall’altra si è vista costretta a dipendere sempre di più, per la sua comprensione, da elementi esterni all’opera (la didascalia e il contesto). Per distinguere l’opera d’arte dall’oggetto comune è necessario avere informazioni sulla sua provenienza, conoscere il suo autore o più semplicemente farne esperienza nel contesto appropriato (il museo, la galleria, la fiera). Da qualche anno, però, è in corso un processo del tutto inedito. Non è più solo l’arte ad appropriarsi di oggetti, idee ed elementi extra-artistici (pensiamo soprattutto al massiccio saccheggio di immagini e stilemi dalla cultura pop, dalla musica, dal cinema, dalla televisione), ma è divenuta essa stessa oggetto di pratiche appropriazioniste. Nel conte-
sto del web, infatti, dove i contenuti viaggiano spesso senza etichetta all’interno di un flusso frenetico fatto di download, editing e upload, le immagini artistiche non godono di nessuno status speciale: sono file come tutti gli altri, semplici pacchetti di codice binario. Non ci sono cornici a segnalarle, né mura museali in grado di proteggerle dalla contaminazione. Non c’è bisogno di frequentare luoghi specifici per vederle, di leggere determinate pubblicazioni o di essere membri del sempre più anacronistico e ristretto “mondo dell’arte”. L’immagine di un’opera può apparire in qualsiasi pagina web, pubblicata accanto ai materiali più eterogenei: foto personali, gif animate, video di gattini, strisce umoristiche o schermate di
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Marc Mc Evoy - New Lyrics for Old Songs - Tumblr blog - markmcevoy.tumblr.com
film e videogiochi. Non solo: l’immagine può comparire nella sua forma originale o in una versione più o meno modificata. Le foto vengono editate, remixate insieme ad altre, commentate con didascalie o fumetti, utilizzate come materiali di partenza per nuove creazioni e infine re-inserite nel circuito comunicativo. Diventano contenuti virali, si trasformano in memi, vengono postate sui social network e usate come immagini del profilo, sfondi del desktop o del cellulare. Da un lato, questo ci porta a postulare l’esistenza di un nuovo tipo di spettatore per l’arte, un pubblico casuale e non necessariamente informato, che si “imbatte” nelle opere durante le sue sessioni di internet surfing e non è in grado di distinguerle da tutte le altre immagini. Dall’altro, questo nuovo scenario costringe a una riflessione sul ruolo dell’arte contemporanea, divenuta - come ha scritto di recente il critico David Joselit nel suo libro After Art - uno strumento di costruzione dell’immaginario in mezzo a tanti altri: “In un mondo pieno di industrie dell’intrattenimento altamente sofisticate, come i videogiochi, siti web come Youtube e Vimeo, cellulari e tablet che funzionano da piattaforme multimediali mobili, film e televisione, per non parlare dell’aumentata possibilità che hanno le persone di viaggiare, che genera una tendenza a proiettare il desiderio di esperienze ‘esotiche’ su culture straniere, l’arte è solo uno dei tanti modi di produrre realtà alternative”.
Immagine tra le immagini, l’arte viene riassorbita nel maelström della cultura visiva, finendo per subire, da parte di una massa di anonimi creatori, il medesimo trattamento che lei stessa ha introdotto e praticato per decenni: un trattamento
fatto di appropriazione, remix, détournement, costruzione di immagini surreali, uso del nonsense e dell’ironia come veicoli di risveglio dell’immaginazione e delle coscienze, elogio del fallimento (che oggi, al tempo della Rete, si chiama epic fail), giustapposizione di immagini e testi di diversa provenienza. Su Internet, molte pratiche una volta esclusive - e distintive - dell’arte contemporanea sono ormai completamente assorbite nella quotidianità. Compresa la secolare tensione verso l’inclusione del pubblico nell’opera che ha contraddistinto la ricerca artistica per secoli e che è culminata nell’ondata della cosiddetta “arte relazionale”, non a caso approdata nelle mostre e nei libri di teoria alla metà degli Anni Novanta, proprio mentre i primi modem raggiungevano le scrivanie, aprendo una reale possibilità di interazione globale. Mettendo il pubblico, o meglio, l’ex-pubblico (quello che il teorico e giornalista americano Jay Rosen ha efficacemente definito “the people formerly known as the audience”) in una posizione dalla quale poter finalmente “rispondere” al bombardamento informativo. Dandogli gli strumenti per dismettere l’atteggiamento forzatamente passivo indotto dai media di tipo broadcast (tv e radio) e tornare a partecipare attivamente alla costruzione collettiva della cultura.
LABORATORI
di DOMENICO QUARANTA
ARTE DIGITALE: ORA C’È HOLO Evidentemente ce n’era bisogno. Difficile spiegare altrimenti il fatto che un progetto editoriale, oggetto di una campagna di crowdfunding su Kickstarter, alla fine della raccolta fondi abbia superato e doppiato l’obiettivo, fissato inizialmente a 35mila dollari. Concepito da CreativeApplications.net, uno dei blog di riferimento sulle arti digitali, Holo Magazine sarà una rivista patinata di grande qualità, che cercherà di offrire quello che un team di blogger d’eccezione sa bene essere impossibile online: approfondimento, storie che siano il frutto di mesi di ricerca e di incontri con gli artisti nei loro studi e laboratori, ottima documentazione fotografica. L’obiettivo dichiarato è “mappare un territorio eccitante che non ha più bisogno di notizie più veloci, ma di un’analisi più approfondita”, attraverso un prodotto editoriale che si servirà dei tempi lunghi della carta per portare sui nostri scaffali progetti spesso effimeri nella forma, ma non nei contenuti. Senza abdicare alla naturale trasversalità della ricerca artistica sulle nuove tecnologie, Holo promette di raccontare storie di artisti, designer e creatori di tool per altri artisti: spiccano, nel primo numero, i nomi di artisti come Semiconductor e Zimoun, ma anche dell’architetto Philip Beesley e dei creatori di Touchdesigner, il software utilizzato, tra gli altri, da Carsten Nicolai per Unidisplay, l’installazione proposta di recente all’Hangar Bicocca. A tutto ciò si affiancheranno approfondimenti trasversali su pratiche emergenti, come le tecnologie wereable o il video mapping. Con le sue 200 pagine e le sue due uscite annuali, Holo promette di essere più che un magazine: un coffee table book e un modo per consegnare a una maggiore durata i ritmi frenetici della ricerca sul digitale. holo-magazine.com
SURfING BITS
di MATTEO CREMONESI
L’ARTISTA CHE SFIDÒ GOOGLE Dire che Google è come un oracolo è diventato un luogo comune. Il più famoso e utilizzato fra i motori di ricerca, infatti, è diventato lo strumento per eccellenza, in grado di rispondere a qualsiasi tipo di domanda. A testimoniarlo è ad esempio l’abitudine piuttosto diffusa tra i neofiti di iniziare una ricerca ponendo una domanda, anziché inserire le parole chiave più adatte a definire l’ambito tematico per il quale si stanno cercando informazioni. Altrettanto diffusa è l’idea secondo cui, se qualcosa non si trova su Google, allora significa che non esiste. In realtà, Google non solo non è in grado di rispondere a domande dirette, ma non è nemmeno onnisciente. Per quanto sia sempre meno frequente, può capitare che il motore di ricerca non sia in grado di trovare alcun risultato legato alle keyword utilizzate, mostrando una pagina bianca accompagnata magari da qualche suggerimento per affinare la ricerca. Ed è qui che in suo aiuto arriva Justin Kemp con il suo lavoro Adding to the Internet. L’artista statunitense usa lo strumento di ricerca per immagini inserendo improbabili combinazioni di parole chiave, combinazioni per le quali Google non è in grado di fornire risultati. Successivamente, queste frasi vengono tradotte in un’opera composta assemblando gli oggetti così come vengono descritti dalle keyword (che saranno anche il titolo del lavoro). Una volta realizzata l’opera, Kemp la fotografa per poi caricarla online: l’immagine è stata quindi effettivamente “aggiunta a Internet”, in attesa di essere indicizzata dai motori di ricerca. L’intera operazione può essere letta in più modi: un banale quanto indispensabile servizio offerto alla comunità di internauti, il cui scopo non è altro che andare a riempire il vuoto riscontrato dall’artista, ma anche una critica, espressa con geniale ironia, alla presunta infallibilità di Google. www.justinkemp.com
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Ha un’attrazione per gli opposti: da un lato la passione per la tecnologia, dall’altro un attaccamento alla natura, al rurale che sfocia nel primordiale. A influenzarla l’adolescenza trascorsa in campagna sul Ticino. Dopo gli studi a Brera, ha intrapreso una serie di viaggi che l’hanno portata a frequentare un master al Central Saint Martins di Londra. Qui, per il suo ultimo progetto alla British Library, è riuscita a mettere in relazione discipline disparate come la geologia e la finanza. Perché nella realtà, “niente è poi così definitivamente diviso”.
SERENA PORRATI di DANIELE PERRA
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti? Austerlitz di Sebald, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis e Critica e clinica di Deleuze. Leggo spesso pezzi di Metafore della Visione di Stan Brakhage: è un eccellente compagno di viaggio. Musica: di recente ascolto molto i Fall.
Artisti guida? Apprezzo l’arte quando mi disorienta, più che guidare. Quando dischiude universi e visioni lontanissime da me, ma per assurdo familiari. È riduttivo fare un elenco, a volte mi dimentico i nomi, a volte sono artisti sconosciuti o lavori specifici.
I luoghi che ti affascinano. Quelli poco definibili, i posti ai quali ti abitui, che impari a guardare. I campi incolti o le strade di campagna adiacenti alle strade trafficate, i boschi residui dove aspettano le prostitute. Mi piacciono i paesaggi discordanti come via Padova a Milano, da cui nei giorni limpidi si vedono le montagne innevate. Forse mi affascina semplicemente tutto ciò che è ibrido e periferico. Adoro Los Angeles.
Hai partecipato a tanti workshop con personalità molto diverse, dal teorico Lev Manovich negli Stati Uniti all’artista Liliana Moro al Corso della Ratti… Le professionalità nel mondo dell’arte e della ricerca fanno un lavoro che è una forma di vita e di pensiero: questa è la cosa più potente in un workshop, al di là dell’argomento di cui si parla o intorno al quale si lavora.
Le pellicole più amate. This is a history of New York di Jem Cohen, Dog Star Man di Stan Brakhage, Deserto Rosso e Zabriskie Point di Antonioni, Anna di Grifi, La Soufrière di Werner Herzog, Sans Soleil di Chris Marker e i documentari di Wiseman. The Turin Horse di Béla Tarr, America Oggi di Robert Altman, The Wicker Man di Robin Hardy e Walkabout di Nicolas Roeg. Adoro l’esattezza formale dei film di Maya Derain. L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi è stato uno dei miei primi film preferiti.
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TALENTI
Hai un’attrazione per gli opposti. Tecnologia da un lato, natura dall’altro. Pensando che in realtà niente è poi così definitivamente diviso, le nostre categorie, i nostri opposti sono strutture che ci imponiamo per cercare di dare un senso alla realtà o a quello che facciamo e conosciamo. È un problema linguistico, e m’interessa capire come superarlo. Non hai una formazione scientifica, ma il tuo approccio è molto analitico. Mi piace inventare dispositivi di visione per interpretare lo spazio o gli
Se siete abbastanza vicini per vedere, siete troppo vicini per evitarla - 2011 - lambda print
oggetti che mi circondano. Così è nato Patterns of Decay and Dissolution, “scomposizione filmica” della struttura decadente di una pianta. È un accanimento analitico su un soggetto non scientifico, irrilevante. È questa scientificità istintiva che m’interessa. Il lavoro Se siete abbastanza vicini per vedere, siete troppo vicini per evitarla è nato da una visione illogica della realtà, è un intervento nel paesaggio che crea una sensazione di mistero e distacco. È un segno alieno in un luogo pubblico, ma lontano da zone abitate. Si rivolge anche a spettatori non umani. Chissà se il coleottero acquatico ha notato qualcosa di diverso nella sua pozzanghera. Hai realizzato una serie di film adottando un approccio a metà fra l’antropologo, l’etologo e il documentarista. Al centro: il paesaggio, il mondo animale e l’intervento dell’uomo, anche se la sua presenza sullo schermo è limitata. Sì, nel film Inexpressible Island ad esempio ho assemblato oggetti sparsi che alludevano alla natura senza essere naturali, cioè prodotti dall’uomo. È diventato un collage di rappresentazioni. Non c’è mai l’uomo e non c’è mai la natura, c’è gran parte di ciò che gestisce e organizza questo dualismo. Fai entrare la natura anche nella sfera sessuale. Penso a Snow Balls, un quaderno sul quale inviti le persone a descrivere il paesaggio in cui hanno fatto sesso all’aperto. Il sesso è una pratica che ancora ci accomuna agli animali. Mi piace credere che la percezione del paesaggio in questi racconti sveli qualcosa di altrettanto antico e primordiale. Per il tuo ultimo progetto alla British Library hai realizzato una serie di fotografie, mettendo in relazione geologia e finanza. È un archivio fotografico delle pietre che rivestono gli edifici delle banche di Londra. Le pietre conferiscono un’idea di solidità e forza a qualcosa che solido e stabile non è. La serie gioca su questo “travestimento”. Svela l’architettura del pensiero. Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero? È scattata alle porte di Milano, in un bosco abbattuto per lasciare spazio a una strada. Era principalmente composto da robinie, alberi dalle spine robuste e a volte velenose. È una protezione primordiale e ridicola, irrimediabilmente inerme.
now
di antonello tolve
VOICE GALLERY MARRAKECH
Un ambiente unico e spazioso, aperto e accurato. La Voice Gallery di Rocco Orlacchio al numero 366 di Z.I. Sidi Ghanem, nei pressi della Route de Safi, dall’ottobre 2011 propone un programma teso a costruire ponti, a erigere impalcature tra mondi e culture di differente estrazione e natura. “Le ragioni per cui ho scelto Marrakech”, avvisa Orlacchio, “sono strettamente connesse alla mia idea di arte, a ciò che l’arte deve essere, a ciò che l’arte deve trasmettere”. L’arte per lui “è una finestra sul mondo che non ha bisogno di ingannare con la seduzione delle immagini”. È uno spazio che “deve testimoniare la gravitas”, che deve porsi “contro la superficialità della nostra epoca” e diventare così un “riferimento per il prossimo futuro”. Dopo un evento iniziale organizzato in occasione della seconda edizione della Marrakech Art Fair e una serie di mostre - Through the Words, Heart of Africa, All the Others in Me, Où allons nous? e la recente Mother loves you ne sono alcune - la galleria ha avviato un processo di congiunzione estetica tra il modello occidentale e quello arabo per edificare passerelle riflessive su due radici culturali luminose. Con i suoi 200 mq la Voice Gallery apre infatti un discorso che, se da una parte stabilisce contatti indispensabili con il sistema dell’arte internazionale, dall’altra radica il proprio sguardo sul panorama culturale del Marocco contemporaneo per promuoverne le ultime generazioni creative. Accanto a una serie di artisti europei, balcanici e sudamericani – Mariangela Levita, Bianco-Valente, Julia Krahn, Maria José Arjona, Mihael Milunovic e Owanto – Orlacchio ha avviato, sin dal principio, una ricerca che punta l’indice sull’orizzonte creativo africano. Hicham Berrada, Mohamed Arejdal e Younes Baba-Ali, assieme a Barthélémy Toguo, rappresentano appieno questo suo investimento di energie sull’arte araba. Questo colpo d’occhio che mira a conoscere ed esplorare le altrui civiltà per creare dialoghi, confronti, partecipazioni, intenti comuni. À la recherche d’une ambiance perdue, la mostra in corso fino al 15 maggio, che vede come protagonisti Mohamed Arejdal e Younes Baba-Ali, evidenzia questa intenzione. Questo desiderio di esplorare la complessità del policentrismo planetario per analizzare, via via, i territori del multiculturalismo e la condivisione degli spazi, le soglie postidentitarie attuali, il concetto di post-etnia e quello, altrettanto centrale, di pluralità. 366, Z.I. SiDi Ghanem - Marrakech +212 524336770 info@voicegallery.net - www.voicegallery.net
ultime da viafarini docva
a cura di SIMONE FRANGI
ANDREA MAGARAGGIA Nato a Vicenza nel 1984, vive a Milano
IRINA KHOLODNAYA Nata a Voronezh nel 1985, vive a Roma e Bologna
TONY FIORENTINO Nato a Barletta nel 1987, vive a Milano e Londra
Come se i materiali avessero qualità emotive, tropismi e potenziali immaginativi. Quella di Magaraggia è una pratica di interazioni, incontri temporanei e dialoghi tra consistenze diverse e spesso lontane. Sottoponendo gli elementi della scultura a processi talvolta violenti talvolta gentili, i lavori di Magaraggia nascono come forme in sospensione o derive trattenute.
Un lavoro ramificato nei suoi esiti, pluridirezionale ma forte di una matrice coerente e stabilizzata. Densa di appigli biografici e omaggi teorici ed estetici che filtrano in maniera non letterale negli impianti installativi e relazionali. Con l’aiuto metodico di codici, sistemi di traduzione e griglie di lettura, Kholodnaya metabolizza in maniera per nulla pretenziosa retaggi formalisti, eredità culturali e studi archetipologici.
Si può essere incisivi pur muovendosi nell’impercepito. Si può essere assertivi pur appoggiandosi sulle emergenze del quotidiano. Tony Fiorentino costruisce con lentezza e costanza una poetica del gesto e dell’esecuzione, fatta di un performativo discreto, di azioni furtive alla Jiri Kovanda, ma anche di progettualità massicce, cariche di simbologie e valenze critiche. Con un passato da scultore, che si trova ora a dare spesso forma all’immateriale.
Angolo di esitazione, 2012 alluminio, poliuretano
LIV, 2010 tre teli di organza
Try an im/possible connection, 2009-2012 fotografia in bianco e nero
TALENTI 79
Esther Mathis a cura di ANGELA MADESANI
Esther Mathis è nata nel 1985 a Winterthur, nella cosiddetta Svizzera tedesca. Nel 2008 si è diplomata in Fotografia all’Istituto Europeo di Design a Milano. Attualmente sta frequentando un master in Fine Arts alla Zürcher Hochschule der Künste di Zurigo. Attraverso la fotografia, il video, le installazioni, Mathis cerca di archiviare dei momenti, che si tratti della nebbia o dell’arcobaleno. I suoi sono tentativi di registrazione di frangenti spazio temporali. Nei suoi lavori, protagonista è la leggerezza, densa di significato, della quale tanto bene ha scritto Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, l’essenza dei fenomeni, esistenziali, naturali, ma anche scientifici. La scienza, che si tratti della neurologia o della fisica, è, infatti, uno dei suoi interessi precipui. Nel lavoro di Mathis, inoltre, si avverte un tentativo tassonomico, catalogatorio, proprio di molta cultura iconografica e non solo di origine tedesca, teso in primo luogo a conoscere il proprio ambiente circostante. www.esthermathis.com
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FOTOGRAFIA
in alto Höhe über Meer 2012 installazione in cinque parti sx: pietra campionata a 1.000m s.l.m, radice campionata a 1.000m., colore anilina, vetro, asta in argento; cm 10x5x8 dx: pietra campionata a 0m s.l.m, radice campionata a 0m s.l.m., colore anilina, vetro, asta in argento; cm 10x5x8 in basso sx: vergissmeinnicht (Q=-2.26 x 106 x m) 2011 stampa a pigmenti su hahnemühle cm 82x100 (parte di un dittico) dx: Höhe über Meer 2012 documentazione della raccolta dei campioni, partendo da Genova fino in cima al Cervino
FOTOGRAFIA 81
Di cibo si parla oramai in ogni forma possibile: sulle riviste e sui blog, sui siti specializzati e sui magazine generalisti (oltre che su quelli d’arte!). Ma va da sé che non può mancare il momento in cui il dire lascia il posto al fare. Qui però non parliamo del cucinare né del degustare. Ma del confronto fra vetrai e chef. A livello altissimo. È una storia che inizia a Barcellona e finisce a Bolzano.
fra il dire e il fare... di MARTINA LIVERANI
Il cibo è spettacolarizzato, discusso, fotografato come mai prima d’ora. Un argomento di conversazione, di confronto, un modo per realizzare se stessi. Ma non è del cibo parlato che ci occuperemo, piuttosto di come il cibo sia uno stimolo per il fare. Spostiamoci dal mondo dello show a quello dei maker. I produttori. Quelli che, con mani e cervello, progettano cose. Di vetro, ad esempio. Spostiamoci dunque a Bolzano, anzi no, prima andiamo a Barcellona a incontrare Xavi Vega nell’atelier che divide con Ester Luesma. Da anni il duo è impegnato nella sperimentazione e produzione
di contenitori in vetro per la tavola. Di recente l’atelier ha sviluppato un progetto in stretta collaborazione con gli chef di ristoranti spagnoli e internazionali, tra cui El Bulli di Ferran Adrià,
l’El Celler de Can Roca, il Mugaritz, il Diverxo, il Sant Celoni, il Koy Shunka, il Dos Palillos e il Tickets (forse il tapas bar più famoso del mondo). Il progetto si chiama 55bcn e ha dato origine a una serie di pezzi utilizzati nei ristoranti coinvolti. Piatti, contenitori, oggetti di
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BUONVIVERE
CONCIERGE
di MARIA CRISTINA BASTANTE
SALOTTO BERLINESE design che ospitano l’idea creativa dello chef, contaminandosi a vicenda nel pensiero [nella foto, Cloves Miramar]. Xavi Vega collabora anche con Vetroricerca Glas&Modern di Bolzano, la scuola con la quale porta avanti un percorso che, sulla base del successo ottenuto in Spagna, intende proporre in chiave innovativa ricette tradizionali presentate in speciali e originali contenitori di vetro capaci di esaltarne l’estetica, ma anche il gusto, e offrire ai comparti coinvolti nuove opportunità di sviluppo. Stuzzichini che sembrano palline da golf, assaggini di minestre, gelati salati, piccoli pani di forma sorprendente: è la sfida che da anni coinvolge l’atelier Luesma Vega, impegnato a trovare soluzioni per soddisfare le esigenze dei più grandi chef spagnoli e a offrire forme e idee capaci di esaltare l’esperienza sensoriale, valorizzando in modo originale aromi e sapori. Così succede che nei laboratori di Vetroricerca, sotto la guida di Alessandro Cuccato, i
vetrai diventano chef e gli chef vetrai, con esercitazioni in cui il cibo e il vetro, contenuto e contenitore, l’uno sparring partner dell’altro, si contaminano a vicenda. Con la collaborazione della
Scuola Provinciale Alberghiera Cesare Ritz, le professionalità di cuochi e vetrai si scambiano il ruolo per creare piccoli progetti. Questo è il concetto di fare applicato al cibo: fare un progetto, fare un oggetto, fare un’opportunità di lavoro. Restiamo un attimo ancora a Bolzano, in questa scuola del vetro che del fare è un laboratorio permanente. Dall’esigenza di approfondire, sperimentare, accrescere e trasmettere quell’insieme di conoscenze, di possibilità, di saperi e magia che circonda questo affascinante materiale, Vetroricerca tenta costantemente di realizzare un percorso alternativo e sperimentale all’insegnamento delle discipline legate alla lavorazione artistica del vetro. L’obiettivo è ampliare le possibilità espressive della materia, contaminando i generi e sviluppando nell’allievo un approccio rispettoso, ma al tempo stesso disincantato, al materiale stesso. La radice profonda dell’identità di Vetroricerca, e tutto il progetto didattico, si basa sull’idea di lavoro attorno all’oggetto creativo visto come elemento trasversale e unificante le differenti discipline trattate. È il senso del fare.
Prima di tutto il nome, Das Stue: si chiama così il nuovo design hotel che ha inaugurato a Berlino lo scorso 18 dicembre. Siamo nella zona del Tiergarten, adiacente al celebre zoo - a cui si accede direttamente dalla splendida terrazza - nello storico distretto diplomatico della città. Nella parola ‘Stue’ c’è già, programmatico, il concept dell’albergo. In danese significa ‘salotto’ e va intesa nell’accezione - passateci il gioco di parole - più salottiera possibile: intellettuale, sofisticata, ironica. Immaginate, dunque, l’atmosfera di un elegante society drama. Innestato nel monumentale edificio dell’ex ambasciata danese, Das Stue è stato progettato dallo studio Axthelm Architects, che ha giocato con la struttura austera degli Anni Venti: all’ingresso ci accoglie una doppia scalinata e un coccodrillo con le fauci aperte, reception e concierge arretrate, quasi intime, perché la grandeur è negli spazi comuni del lounge bar, dei ristoranti (5 e The Casual, con ai fornelli lo chef spagnolo Paco Pérez) e della terrazza. 80 stanze (con cinque suite), più il Bel Etage, il piano nobile, fresco di inaugurazione, con altre quattro suite che - se occorre - possono unirsi, creando un appartamento unico e spettacolare di 392 mq. Gli interni li ha curati Patricia Urquiola, alle prese con una originale declinazione del tema animalier, che fa capolino qui e lì, fra le tappezzerie e gli animali delicatissimi di Benedetta Mori Ubaldini. Urquiola ha anche firmato gli spazi intimi della biblioteca, con una selezione di patinati volumi Taschen e una piccola collezione vintage di fotografia.
Das Stue Drakestraße 1 - Berlino +49 (0)30 3117220 stay@das-stue.com www.das-stue.com prezzi da 162 a 657 euro
SERVIzIO AGGIUNTIVO
DI MASSIMILIANO TONELLI
PALERMO. BUONE PRATICHE, SOPRATTUTTO BUONE “Cardi e broccoli in pastella”, “arrosticini di manzo, maiale e verdure con salsa al rosmarino con patate e sfincione” e ancora “pasta mantecata con cozze, fave secche, pancetta e prezzemolo”. Beh, cosa vi dicono questi piatti? Esatto, Sicilia. Ed è proprio questo l’esperimento che la Galleria d’Arte Moderna di Palermo ha compiuto per il suo settore food affidandosi al Ristorante Santandrea, che dai vicoli del centro storico, proprio alla Vucciria, ha aperto volentieri la sua filiale nel non distante complesso monumentale di Sant’Anna all’insegna della tradizione e di una agile carta low cost che sta avvicinando molti gourmet e amanti del mangiare-al-museo. Gestita, come la casa madre di via Sant’Andrea, dalla famiglia Bissio, la caffetteria della GAM giorno dopo giorno acquisisce centralità nelle scelte dei palermitani anche grazie alla serrata programmazione di eventi, serate, degustazioni, presentazioni. Un vero e proprio palinsesto che non limita il ruolo della caffetteria in banale area di somministrazione. E, per la verità, non la limita neppure al classico compito di “caffetteria” museale. Il “posticino incantevole” (così alcuni clienti l’hanno recentemente battezzata su Facebook) è infatti un ristorante a tutti gli effetti. Dedicato alla tradizione della Trinacria in un contesto contemporaneo e adattissimo a organizzare eventi. Una buona pratica nel cuore di Palermo, e i pranzi domenicali al museo stanno diventando un cult...
Via Sant’Anna 21 - Palermo 091 8431605 / 340 1137864 caffetteria@galleriadartemodernapalermo.it
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Una camminata per i sentieri della Val d’Aosta alla ricerca di mostre d’arte, siti archeologici, forti, castelli e ristoranti gourmet. Sotto l’egida dei ricordi di Stendhal e non senza una fuga in Francia. Per scoprire, dove meno te l’aspetti, un angolo di contemporaneità.
vie DI MONTAGNA di santa nastro
L’ALLOGGIO Hotel Mont-Blanc Loc. La Croisette 36 0165 864111 www.hotelmontblanc.it
IL MUSEO Castello Gamba Loc. Cret de Breil 0166 563252 www.castellogamba.vda.it
il relax Terme di Saint-Vincent 0166 511223 www.termedisaintvincent.it
châtillon la salle
saint-vincent
verrès taninges
IL PARCO Certosa di Mélan Mélan +33 (0)4 50342505 IL RISTORANTE Barrel 30 Via Barrel 30 0125 929376 barrel30@gmail.com
LA LETTERATURA Marie-Henri Beyle Lo racconta nella sua autobiografia, Vita di Henry Brulard, il suo battesimo del fuoco, avvenuto proprio al Forte di Bard quando era al seguito di Napoleone. Si parla di Stendhal.
bard
la mostra fino al 5 maggio Wildlife Photographer of the Year Forte 0125 833811 www.fortedibard.it
Non solo piste innevate e ciaspolate. La più piccola Regione d’Italia, tra la Francia, la Svizzera e il Piemonte, sta lavorando per integrare alle proprie proposte in termini di turismo già note una serie di iniziative a carattere culturale. Perciò non avrete difficoltà a costruire un percorso che non sia soltanto di relax, scegliendo questo territorio ricco di castelli e passeggiate meravigliose, magari partendo da una manifestazione. Noi abbiamo scelto un luogo che è anche un museo e uno splendido borgo, ricco di affascinanti scorci e di storia: Bard. Il suo forte, da sempre teatro di importanti manifestazioni e iniziative d’arte e cultura contemporanea, ospita fino al 5 maggio Wildlife Photographer of the Year, un’anteprima per l’Italia che permette di conoscere le cento immagini premiate da uno dei più importanti concorsi di fotografia al mondo, in partnership con il Natural History Museum di Londra e BBC Wildlife Magazine. Il Forte di Bard è, inoltre, un museo: molto interessante è il percorso interattivo delle Prigioni, che racconta la storia del forte stesso, ma anche la vita degli abitanti del borgo, guidandovi dalle segrete agli spalti, da cui occhieggiano i cannoni.
Ed è qui che Stendhal, ancora giovanissimo e a seguito dell’amato Napoleone, riceve in battaglia il suo battesimo del fuoco. Ne dirà più
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PERCORSI
MO(N)STRE approfonditamente nella sua autobiografia dal titolo Vita di Henry Brulard, in cui descriverà tutta l’emozione, unita allo spavento, di trovarsi nella tempesta, “tra le colonne dell’armata” del grande imperatore. Finita la visita vi consigliamo di prendere l’auto per recarvi nella non troppo lontana Verrès, dall’omonimo castello, dove il più established ristorante Chez Pierre ha aperto la “divisione giovane”, la Brasserie Barrel 30 (dal nome della strada in cui è situata). Il servizio è cordiale e veloce, l’ambiente informale è l’ideale per un pranzo e una cena, ma anche per un semplice aperitivo, la carta dei vini è ottima. Noi abbiamo gradito soprattutto la Pierrade fai da te, con la piastra portatile al vostro tavolo sulla quale cuocere da soli le verdure e gli straccetti di manzo, ma in generale il menù, sia che scegliate la selezione di bontà locali, sia che decidiate di darvi a invenzioni più fusion, dà soddisfazioni. E per dormire? Passando da Saint-Vincent, dove da pochi mesi hanno riaperto i battenti le terme, con percorsi caldi e freddi innovativi e un bel design affacciato sul Monte Rosa, il consiglio è di fermarsi nei pressi di Courmayeur, a La Salle, dove trova sede l’Hotel MontBlanc, un cinque stelle di montagna in pietra e legno, con ottimo centro benessere e la cucina dello chef pluripremiato Fabio Barbaglini. E se di relax non ne potete più e desiderate a tutti i costi rimettervi in marcia a caccia di arte contemporanea, senza però abbandonare i vostri sentieri, vi consigliamo - invitandovi a visitare prima Aosta, con la sua area archeologica che comprende un’area megalitica, un teatro romano, una villa romana e un criptoportico forense [nella foto in basso] ben conservati - di spingervi nella non troppo lontana Taninges, passando il confine francese. A
solo un’ora di distanza dal Monte Bianco, troverete un curiosissimo parco all’aperto di scultura monumentale contemporanea, sconosciuto ai più ma con una storia affascinante. L’antica Certosa di
Mélan, infatti, fondata verso la fine del XIII secolo da Béatrix de Faucigny, fu una delle più importanti sedi dedicate all’ordine religioso. Il corso della storia ne ha fatto un seminario, un orfanotrofio, un luogo governativo, fino alla trasformazione nel 2002 in polo dipartimentale per l’arte contemporanea. Con la sua architettura attraversata da influenze tardogotiche e da pitture del XV secolo e con un meraviglioso parco che la circonda, è la casa delle opere scultoree di artisti francofoni quali Alain Sagaert, Baud-Perrier, Broissand, Gerntein, Kouassi, Terrier e Toutain. Non manca, tutto l’anno, una programmazione di mostre temporanee. Da non perdere.
di FABRIZIO FEDERICI
LE VETTE DELL’ARTE Cime aguzze, paesini, sport, abbondanti libagioni: fra le tante immagini che evoca la montagna, l’arte non figura certo ai primi posti. Ma siamo in Italia, dove l’arte “infesta” persino gli angoli più sperduti. E allora occorre rimettere ordine nella classifica. Il discorso vale anche per le Alpi, che pure nella loro asperità sembrerebbero terreno di coltura poco favorevole alle testimonianze artistiche. E invece, lungo tutto l’arco alpino, si dispiega una meravigliosa galleria di capolavori e di luoghi carichi di storia, impressionante per la completezza con cui tutti i periodi, dalla preistoria all’età contemporanea, sono rappresentati. Creazioni in cui dialogano culture figurative e architettoniche diverse, in cui si mescolano elementi che provengono dai due versanti della catena; più che barriera o, per dirla con Petrarca, “schermo […] tra noi et la tedesca rabbia”, le Alpi sembrano avere paradossalmente agevolato l’incontro. Le valli sono state i crogiuoli in cui non solo sono stati recepiti e fusi gli stimoli esterni, ma in cui sono stati elaborati nuovi linguaggi ed espressioni originali, che da lì hanno intrapreso il cammino alla volta di pianure e città, secondo dinamiche che ci restituiscono un quadro sorprendente della “geografia artistica” delle diverse epoche. Qualche “pezzo” dello sterminato museo alpino? Le rovine romane di Aosta, il raffinatissimo gotico delle sale affrescate nei castelli e delle oreficerie (al quale fu dedicata, nel 2002, una bella e ampia mostra tridentina, Il Gotico nelle Alpi 1350-1450), per il Rinascimento la stupefacente parata di statue bronzee del sepolcro di Massimiliano I nella Hofkirche di Innsbruck (sia consentito un piccolo sconfinamento!). E al già lungo elenco si continuano ad aggiungere luoghi che fanno delle Alpi un osservatorio privilegiato per conoscere la produzione artistica novecentesca e contemporanea: dal celebrato Mart al Museion bolzanino, all’ultimo nato, il Castello Gamba [nella foto], non lontano da Aosta.
L’ALTRO TURISMO
di STEFANO MONTI
VALLE D’AOSTA: SCENDE IN PISTA LA CULTURA La Valle d’Aosta è cultura. Una delle Regioni più rinomate per il turismo invernale, ammirata per la sua natura incontaminata e per le sue vette innevate, reinterpreta se stessa scegliendo la cultura come chiave di sviluppo del proprio territorio. In un periodo di crisi economica, in cui la cultura è stato uno dei primi settori che ha risentito dei tagli alla spesa pubblica, la Valle d’Aosta ha fatto una scelta controtendenza. Ha scelto di “restituire” alla comunità locale e ai numerosi turisti la più ampia accessibilità possibile al patrimonio culturale, operando straordinari interventi di recupero di monumenti simbolo, come il Teatro Romano di Aosta, e valorizzando castelli, dimore storiche e siti archeologici. “Restitution”, ovvero la filosofia che guida la politica valdostana, non è tuttavia solo riscoperta delle memorie di un’antica identità; è anche una ricca offerta di proposte culturali innovative e di qualità capaci di attirare l’attenzione della comunità locale e dei turisti tutto l’anno. Mostre con nomi di rilievo, quali Giorgio de Chirico e Wassily Kandinsky, affiancate dalle esposizioni di artisti locali, hanno riscosso grande successo durante il periodo estivo. La recente inaugurazione del Castello Gamba di Châtillon, una nuova realtà museale dedicata all’arte moderna e contemporanea, è stata accompagnata dalla scelta di esporre prestigiose collezioni e da una ricca proposta di attività didattiche per avvicinare la comunità all’arte. Si è inoltre appena conclusa la prima edizione di SVEART - Premio Biennale di Arte Europea, che ha visto convogliare nel cuore della Valle d’Aosta, a Saint-Vincent, 50 giovani artisti provenienti da 25 Stati europei, selezionati dalle rispettive Accademie di Belle Arti. Un evento unico in Europa sulla nuova arte e sui nuovi artisti emergenti, che ha visto la Regione al centro di un processo di scambio e di libera circolazione di idee e talenti. Storia, arte, cultura e tradizioni locali declinate in un paesaggio ameno e ricco di testimonianze di un’antica identità tutta da riscoprire: sono l’investimento per il futuro della Valle d’Aosta. Passato e presente, internazionale e locale sono i continui piani su cui si muovono manifestazioni artistiche uniche, capaci di attrarre nuovi flussi turistici e riattivare l’economia locale.
PERCORSI 85
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Il capoluogo partenopeo è in pieno sommovimento. Vero, c’è stato il al Museo Madre - con la direzione di Andrea Viliani - e stazioni della centro storico a vedere cosa sta succedendo. Fra megagallerie
napoli centro stori 1. Teatro Bellini
Dalla sua fondazione nel 1864 (in una sede poco distante e distrutta da un incendio), il Bellini ha avuto una vita travagliata. La sua ennesima rinascita risale all’autunno del 1988, e da allora quello che è il teatro stabile di Napoli vanta una programmazione di alto livello. In queste settimane vanno in scena classici come Pirandello e Shakespeare, ma anche Antonio Rezza e Flavia Mastrella. E l’ambiente vale la visita. via conte di ruvo 14 www.teatrobellini.it
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DISTRETTI
2. La stanza del gusto
L’avventura della Stanza del gusto inizia nel 1996. Dopo 17 anni è diventato un luogo articolato per sbizzarrirsi in veste di gourmet. In primis nel ristorante, magari optando per una selezione di pane cunzato in una delle tante varianti “d’autore”. E poi c’è il cheesbar, dove acquistare ed eventualmente consumare sul posto. Parola d’ordine in ogni caso: chilometro zero, filiera corta e materie prime eccellenti. via santa maria di costantinopoli 100 www.lastanzadelgusto.com
3. Fondazione Morra
Ha sede a Palazzo Ruffo di Bagnara la fondazione di Giuseppe Morra, nata nel 1992 ed erede naturale dello Studio omonimo, la cui attività risale al 1974. Centro espositivo e di documentazione, ha legato il proprio nome in particolare a due grandi artisti: il recentemente scomparso Shozo Shimamoto e Hermann Nitsch. Il museo dedicato e intitolato a quest’ultimo sta a pochi passi dalla fondazione piazza dante 89 www.fondazionemorra.org
4. Palazzo Petrucci
Siamo al top gastronomico del distretto, perché lo chef Lino Scarallo e il patron Edoardo Trotta si fregiano di una stella Michelin dal 2009. Locale piccolo e minimal, cinque portate per un menu che varia seguendo stagioni e pescato. C’è anche la possibilità di seguire lo chef in cucina in determinati orari, la prenotazione online, il wi-fi in sala… Insomma, tutto a puntino, e con piatti memorabili, dai ravioli al coniglio. piazza san domenico maggiore 4 palazzopetrucci.it
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terribile rogo alla Città della Scienza di Bagnoli, ma anche un nuovo corso metropolitana straordinarie. E il settore privato non è da meno. Andiamo in ristoranti stellati e nuovi art hotel.
co, da vivere 24for7 5. Scaturchio
Di eccellenza in eccellenza. Questa pasticceria è nata nel 1905 e da allora mantiene un livello tale che si rischia il coma glicemico. Qui si trovano i grandi classici come pastiera, babà e sfogliatella. Ma anche invenzioni targate Francesco Scaturchio (si parla degli Anni Sessanta del XIX secolo), come il ministeriale, medaglione di cioccolato dal ripieno cremoso. A coronamento, la sezione “Gli Innovativi” e l’angolo gastronomia. piazza san domenico maggiore 19 www.scaturchio.it
6. Alfonso Artiaco La sua esperienza galleristica inizia nel 1986 a Pozzuoli, poi il trasferimento a Napoli, in piazza dei Martiri, nel 2003. Infine il grande salto, nel novembre dello scorso anno, quando Alfonso Artiaco inaugura la nuova megasede in pieno centro storico, a Palazzo de Sangro di Vietri. Ben dieci le sale, per una superficie di 600 mq, con annesso appartamento/residenza, proprio al piano di sopra. piazzetta nilo 7 www.alfonsoartiaco.com
7. Librarterìa
A questo indirizzo, fino all’estate 2010 aveva sede una libreria specializzata in architettura. Quelli di Librarterìa hanno preso il testimone e, nei 25 mq del negozio, hanno ampliato l’offerta ai settori adiacenti: arte, design, grafica. Non contenti, hanno animato - fino a dicembre scorso, poi una pausa che ci auguriamo sia breve - un blog, naturalmente a carattere editoriale. A una giornata così mancava giusto un libro. via diodato lioy 11 librarteria.org
8. Culture Hotel
È la novità del distretto, perché in effetti, dopo un tour così articolato, dove ci si poteva riposare? L’idea è venuta a Memmo Grilli, patron della galleria e casa d’aste Blindarte: un art hotel in pieno centro storico. A firmarne il progetto è Alberto Sifola e la presenza dell’arte è disseminata ovunque, dalle zone comuni alle stanze. Un quattro stelle che mancava in zona, e che è pure un progetto artistico itinerante. via monteoliveto 16 centrostorico.culturehotel.it
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Ossessione Richter1
Ana Mendieta: omnia vincit amor2
Gli spazi di via Modane ospitano circa 150 opere che rendono un esaustivo omaggio a uno degli aspetti meno noti della produzione di Gerhard Richter (Dresda, 1932) - le stampe, le edizioni fotografiche e quelle dei dipinti, i multipli, i libri e i poster d’artista - e lo fa appoggiandosi alla dedizione di un singolo collezionista. Thomas Olbricht è tanto protagonista di questo evento quanto Richter, di cui ha seguito la produzione per un quarto di secolo e di cui possiede, oltre ad alcuni dipinti, ogni singola edizione che il tedesco abbia mai prodotto dal 1965 al gennaio di quest’anno. Olbricht ha rimarcato quanto per lui, in qualità di collezionista tout court, il fascino delle edizioni di Richter risieda nella possibilità di essere raccolte tutte in una singola collezione, cosa inimmaginabile per i dipinti, in quanto opere uniche. “Chi colleziona francobolli”, ha raccontato, “sa che può completare un lavoro e immediatamente, di fronte alle edizioni, mi sono reso conto che si trattava di una produzione artistica che potevo raccogliere interamente. fino al 21 aprile Dato che devo averle tutte, ho comprato anche a cura di Wolfgang Schoppmann l’ultima, realizzata all’inizio di quest’anno, e Hubertus Butin che Richter ha portato con sé a Torino”. L’artiFONDAZIONE SANDRETTO sta tedesco, infatti, solitamente schivo e reVia Modane 16 - Torino ticente all’idea di prendere parte alle proprie 011 3797600 mostre, si è presentato alla Fondazione Saninfo@fondsrr.org www.fondsrr.org dretto il giorno precedente l’inaugurazione, forse proprio per completare la rassegna - e la collezione di Olbricht - con l’ultima edizione. Da un punto di vista più prettamente artistico, le opere in mostra a Torino hanno il pregio di evidenziare due aspetti fondamentali nel lavoro di Richter, esaltandone uno e sminuendone l’altro. Hubertus Butin, co-curatore della mostra, ha precisato quanto sia raro che un contemporaneo arrivi a essere apprezzato da un pubblico così vasto, non composto dai soli appassionati, come è capitato per l’artista tedesco. Questo è dovuto al fatto che, pur procedendo a partire da un impianto fortemente concettuale e teorico, in particolare tornando sulla questione di cosa sia un’immagine, grazie a una sorprendente maestria tecnica, Richter crea dipinti immediatamente fruibili e facilmente apprezzabili. Nelle edizioni, mentre l’aspetto concettuale rimane forte, l’immediatezza estetica, nella maggior parte dei casi, viene messa in secondo piano, facendo sì che all’esaustività della mostra non si accompagni la dirompenza visiva che era propria della recente retrospettiva che ha avuto tanto successo alla Tate Modern e al Pompidou.
Cominciamo dal titolo della mostra, She got love, tratto dal video in super 8 Senza titolo – Scrittura di sangue di Ana Mendieta (L’Havana, 1948 -1985). Ebbene, cosa accomuna l’amore al sangue? Quale corrispondenza tra le opere di una personale che mette in scena il tormento del corpo, e per la quale veniamo avvertiti da un cartello posto in ingresso che “le immagini della mostra possono turbare la sensibilità dei visitatori”? La risposta si rivela alla fine del percorso espositivo: in realtà, sebbene le tematiche dure insite in molti lavori della Mendieta (la violenza, la morte, lo sradicamento, ma anche l’identità, la vita, il rigenerarsi, l’amore), la maniera di narrare è lieve e si riflette nei media utilizzati, tra i quali privilegiato è il sangue, simbolo di morte ma al contempo fluido vitale, al quale si giustappongono piume, fiori, sabbia, cortecce, polvere da sparo, fango, rocce, foglie, cera, emblemi della natura vivificatrice. Il messaggio è di speranza, di vita che si perpetua in un ciclo eterno e di un’energia universale che, fino al 5 maggio con le parole della Mendieta, “scorre attraverso a cura di Beatrice Merz ogni elemento, dall’insetto all’uomo, dall’uomo al e Olga Gambari Catalogo Skira fantasma, dal fantasma alla pianta, dalla pianta CASTELLO DI RIVOLI alla galassia”. Piazza Mafalda di Savoia - Rivoli La mostra si snoda entro lo spazio stretto e pro011 9565222 fondo della Manica Lunga, che l’occhio può www.castellodirivoli.com cogliere nella sua interezza prospettica. È la direttrice del Museo, Beatrice Merz, che motiva la natura dell’allestimento: “L’intento era di connettere le opere e lo spazio liberamente, senza creare segmenti minori che avrebbero frantumato tale dialogo. Il risultato è che non vi è un percorso prestabilito, ma una serie di rimandi e rispecchiamenti ininterrotti tra le opere”. A parete sono appesi i lavori di misura ridotta, perlopiù fotografie, ma anche la produzione grafica, intervallati da video allestiti su basamenti e altri, di formato maggiore, sospesi nello spazio. I video delle performance sono realizzate in pellicola Super 8 e sostanziate in scatti fotografici di 35 mm. I video sospesi sono veri e propri “focus” che contrappuntano i gruppi tematici: dalla sperimentazione sul corpo sino alla sezione centrale, dove il corpo è immerso negli elementi naturali di acqua, terra, fuoco, per giungere ai lavori legati alle tracce della terra natia. Il percorso ha inizio nel 1972, fondato sulla corporeità dell’artista, prosegue nelle “siluetas”, che dal 1975 mettono in scena un corpo solo evocato, e termina negli Anni Ottanta, quasi un’eco di corporeità ricomposto nella natura.
Andrea Rodi
Milena Zanotti
Quando un gatto è una scultura3
Comprare parole invisibili e irrivelabili, adottare una mucca, farsi tatuare frasi senza (apparente) senso, diventare proprietari di un logo da applicare sulla tuta di un pilota di Formula 1, passando tra forme di parmigiafino al 16 aprile no, domini web, celebrità hollywoFRANCO NOERO odiane e polli arrosto. Così Darren Bader (Bridgeport, Via Giulia di Barolo 16d - Torino 1978; vive a New York) si presenta alla sua prima mostra italiana, che coincide con l’ultima nella Fetta di Polenta 011 882208 prima del trasferimento della Galleria Noero in zona Auinfo@franconoero.com rora. Enfant prodige (o terrible) dell’arte americana (ma www.franconoero.com con scappatelle tra Londra e Tokyo), definito dal mitico Jerry Saltz capofila del “late-late-late post-Conceptual Relational Aesthetics”, Bader lavora con la potenzialità più assoluta dell’arte, quella di generare verità attraverso la parola. Perché, in fondo, credere che un gatto vivo sia una scultura non è poi così diverso dal votare Beppe Grillo. Stefano Riba
Come un tarassaco soffiato5
Silvia Bächli (Baden, 1956) potrebbe sembrare un’artista astratta, ma la gestualità delle sue linee tirate fino alla massima estensione del braccio e i suoi soffusi riferimenti alla realtà, la pongono in un limbo espresfino al 4 maggio sivo, da cui riesce a uscire con RAFFAELLA CORTESE la forza gentile di un linguaggio Via Stradella 7 e 1 - Milano delicatamente ordinato, che ammorbidisce, in un pro02 2043555 ficuo dialogo, i tubi a vista e il razionalismo dello spainfo@galleriaraffaellacortese.com zio seminterrato di Raffaella Cortese. I colori tenui, da www.galleriaraffaellacortese.com dietro il vetro, abbracciano le ombre dei visitatori, che vi si riflettono come grigi e languidi acquerelli, mentre nell’altro spazio su strada della galleria, l’installazione fotografica che, su una struttura lineare, ripercorre un viaggio dell’artista con il compagno in Islanda, è pervasa dalla stessa discreta poesia del “linguaggio dei fiori e delle cose mute”, che sembra caratterizzare la realtà sfumata, quasi fané, delle opere su carta. Giulio Dalvit
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RECENSIONI
Ricucire la guerra, dorare la morte4
Nessuna performance cruenta, ma Franko B (Milano, 1960; vive a Londra) sa bene che il sangue può essere evocato senza essere rappresentato. Le grandi tele che trovano casa nel salotto incantato di Antonio Marras fino al 7 aprile parlano di ferite, di guerra e di potere. a cura di Francesca Alfano Ricamate con doppio filo di cotone Miglietti rosso, le giubbe ornate di medaglie divengono elemento NONOSTANTE MARRAS identitario dei giovani soldati, estrapolati da conflitti diverVia Cola di Rienzo 8 - Milano si, sottratti alla guerra e portati alla tela. Non è più il corpo 02 89075001 a essere trafitto, ma il tessuto bianco, su cui si sono cucite le info@antoniomarras.it sagome. La solitudine dei militari dai volti imberbi è sanata www.antoniomarras.it solo in Kiss n. 1, nell’intreccio di un bacio. Riproponendo e approfondendo una tipologia di lavori che era stata presentata nella retrospettiva al PAC del 2010, l’artista ha dorato oggetti e animali imbalsamati, memento mori efficaci, che ricordano come anche Re Mida abbia rischiato di morire di fame. Marta Cereda
Le traiettorie perverse di Dasha Shishkin6
È la linea la protagonista delle opere di Dasha Shishkin (Mosca, 1977; vive a New York). Quella blu, rapida e nervosa, ironica e provocante, che caratterizza il suo disegnare e che divide in due gli spazi bianchissimi della Giò Marconi. Forti campiture di colore piatGIÒ MARCONI to, evidenti tracce di Matisse e degli espressionisti tedeschi, Via Tadino 15 - Milano e la passione per le stampe giapponesi: questi gli ingredienti 02 29404373 che danno vita a lavori di grande formato su tela e su fogli info@giomarconi.com di poliestere, oltre che a piccoli disegni su carta. A popolarli www.giomarconi.com una serie di ibridi umanoidi, impegnati non di rado in una compulsiva messa in scena di grotteschi e surreali giochi della carne. Realizzate mescolando acrilico, pastello, inchiostro e grafite, le opere di Shishkin sembrano quasi chiedere allo spettatore di attivare l’immaginazione, intrecciando storie e costruendo, tra i numerosi personaggi da lei creati, ogni possibile relazione. Alessia Delisi
All’Hangar, cinema e videoarte thai7
Così è (se vi pare)8
Dal 2004 il nome di Apichatpong Weerasethakul (Bangkok, 1970) fa insistentemente capolino nei più importanti festival di cinema, con una pellicola che ancora oggi appare come un originalissimo manifesto artistico: Sud Pralad, noto col titolo Tropical Malady. Brani di realtà, animismo, incursioni pop asiatiche ed erotismo sono alcuni dei colori di un film che palesò il ruolo fondamentale del regista nella scena contemporanea. Il percorso artistico di Weerasethakul alterna ai lungometraggi la realizzazione di video pensati specificamente per i luoghi dell’arte (come all’ultima Documenta), senza mostrare alcuna cesura tra sala cinematografica e museo, anzi espandendo le possibilità del suo cinema in prodotti fuori-formato, che ispessiscono e mantengono aperti i suoi lavori filmici. Il progetto Primitive, dopo i precedenti passaggi a New York e Monaco, giunge all’Hangar Bicocca come la prima vera mostra dedicata in Italia al talento di Weerasethakul e offre l’occasione di indagare in profondità tutti i temi e i toni fino al 28 aprile del regista tailandese. a cura di Andrea Lissoni HANGAR BICOCCA L’esperienza di Primitive è simile a quella di un sogno: Via Chiese 2 - Milano non ci sono vere e proprie linee guida o percorsi nar02 66111573 rativi da seguire. Nel buio del grande spazio il visitainfo@hangarbicocca.org tore assiste allo scorrere di immagini che testimoniano www.hangarbicocca.org un progressivo passaggio dalla luce del giorno al buio delle sequenze notturne. All’ingresso, come in un invito simbolico, troviamo la sequenza diurna carica di vita e di tai-pop di I’m Still Breathing, che introduce nel cuore di un percorso espositivo costellato da lavori che rivelano la sorprendente intrusione del fantastico nel reale, attraverso la coesistenza di elementi visivi, sonori ed emozionali che scardinano il quotidiano apparente, aprendo a scenari inattesi. In ciascun lavoro, come Making of the Spaceship, il mondo rurale tailandese viene evocato rileggendone e reinventandone alcuni tratti legati alla tradizione, alla storia e alla spiritualità, ipotizzando derive talvolta sovrannaturali o fantascientifiche, senza purtuttavia mai attingere ai cliché del genere occidentale. Primitive, che è anche il titolo della doppia installazione “fulcro” dell’intera mostra, è il perfetto esempio della sintesi di elementi opposti: nuovo e primitivo, interno ed esterno, giorno e notte, rumore e silenzio, sogno e veglia, natura e cultura. Tutto in Weerasethakul sembra indicare, come in un saggio di Arjun Appadurai, quanto il lavoro dell’immaginazione sia parte costitutiva della soggettività contemporanea e Primitive, in questo senso, ne rappresenta un lucidissimo esempio.
“Non chiedetemi perché”, sembra affermare l’intervento espositivo di Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973; vive a Parigi), pensato e realizzato nell’ultimo anno appositamente per lo Spazio Zero della GAMeC. L’invito rivolto alla fruizione di una mostra a mente sgombra da pregiudizi è di prepararsi a un’esperienza percettiva e sensoriale più che cognitiva, anche se, ovviamente, in seconda battuta la ragione viene chiamata a riflettere e a cercare un perché. L’installazione è un’esplosione di colori dalle pareti al pavimento: Grande viola (2012) e Verde acido (2012) accolgono lo spettatore e lo accompagnano nel percorso espositivo, avvolgendolo in ampi panneggi di tessuto vellutato e imbottito. Al muro dominano tre altorilievi dai colori terrosi: dall’ocra al nero fumo alla terra di Siena bruciata. Sono calchi in resina colorata effettuati su assemblaggi di vari materiali; si riconoscono il legno, la plastilina, oggetti d’uso comune come lampade e piccole sculture a forma di lumaca o di foglia. Inglobato nel corpo fino al 5 maggio delle singole opere, si srotola un nastro di materia a cura di Alessandro Rabottini plastica che va a comporre parole distorte come GAMEC grandi captcha da interpretare. Testi e titoli coinciVia San Tomaso 53 - Bergamo dono: Proteggi Giuseppe, Mister Mother, Irò irò irò, 035 270272 info@gamec.it tutti del 2012. Chiudono il percorso espositivo due www.gamec.it piccoli bassorilievi senza titolo, anch’essi calchi di sculture-matrice, ma stavolta sono fusioni di alluminio e bronzo. Lo spazio avvolgente realizzato dall’artista all’interno della project room ha qualcosa di materno, soffice e comodo, così come gli altorilievi realizzati in resina che, se da un lato restituiscono bene le differenze epidermiche dei singoli materiali, rendono anche il tutto più morbido e caldo a livello tattile. L’atto della presa di distanza che la realizzazione del calco di una scultura consente, comporta un allontanamento dalla realtà rispetto all’assemblaggio reale, che invece viene distrutto. È un successivo passaggio-filtro nella realizzazione del lavoro che, se in prima battuta “raffredda” i materiali originari, in seguito esalta l’oggettualizzazione dell’opera finita, come monoblocco materico, come totem di significati. Il tutto è messo in atto in uno spazio in cui persino il rumore dei passi risulta ovattato, per avvicinarsi quanto più possibile a un’esperienza percettiva più che cognitiva, in cui i sensi siano stimolati più della ragione, in cui godere di un attimo pieno, di un tempo sospeso, reso con una valenza fortemente estetica.
Riccardo Conti
Giovanna Procaccini
Otra Mirada9
Lo spazio nel mezzo10
Qual è l’opinione latina di cui Francesca Minini si fa portavoce con questa mostra difficilmente classificabile all’interno di un’unica corrente visiva? Forse si tratta delle tessere del puzzle di Wilfredo Prieto, capaci da sole di evocare soprusi e violazioni, repressioni ed egemonie politiche e FRANCESCA MININI culturali. O forse dell’installazione di Antonio Vega MaVia Massimiano 25 - Milano cotela, che costringe lo spettatore desideroso di guadagnare 02 26924671 la comprensione di un oscuro codice ad assumere una poinfo@francescaminini.it sizione di preghiera. Oppure, ancora, dei vetri sovrapposti www.francescaminini.it di Jose Dávila che, come voci dissonanti, si moltiplicano nella sala. Ma l’opinione latina è anche quella dei piccoli resti di passato collezionati da Gabriel de la Mora; è l’opinione espressa dal gioco di parole da Jorge Pedro Núñez, dal nostalgico e ironico slideshow di Amalia Pica, dalla natura scintillante evocata di Thiago Rocha Pitta e dai lavori di Martin Soto Climent.
A qualche settimana dalla chiusura della doppia personale di due grandi fotografe come la Battaglia e la Woodman, il programma di celebrazione dei quarant’anni di attività (19732013) della Galleria Massimo Minini di Brescia prosegue esponendo un’altra MASSIMO MININI coppia eccellente di artisti: Ettore Spalletti (Cappelle sul Via Apollonio 68 - Brescia Tavo, 1940) e Sol LeWitt (Hartford, 1928 - New York, 030 383034 2007). Gli spazi semi-ipogei della galleria sembrano un info@galleriaminini.it pianeta in penombra. L’elegante percorso si sviluppa occuwww.galleriaminini.it pando tanto il centro delle sale quanto le loro pareti, controbilanciando la perfetta assenza di sovrapposizione tra i due artisti. Mentre i dipinti di Spalletti e i suoi solidi adagiano la freddezza delle superfici alle luci dei neon, i grandi poligoni dalle cromie calde di LeWitt spandono sotto la luce diretta dei faretti, creando corrispondenze visive inaspettate.
Alessia Delisi
Ginevra Bria
Burri e vent’anni di cellotex11
Un numero alto di lavori di Alberto Burri (Città di Castello, 1915 - Nizza, 1995) in tempi recenti è difficile vederlo. A Verona sono esposte opere al nero che segnano un passaggio importante per Burri, quello che lo porta a cura di Bruno Corà all’astrattismo e lo legano alla scelta di GALLERIA DELLO SCUDO un materiale che gli sarà congeniale e che userà spesso, il Via Scudo di Francia 2 - Verona cellotex, un’amalgama di segatura e colla pressate insieme. 045 590144 I “capitoli” in cui sono suddivisi i quadri sono sei e si coinfo@galleriadelloscudo.com mincia con il Nero, realizzato nel 1972, e il quadro d’inizio www.galleriadelloscudo.com della prima sezione, La notte della pittura, che dà lo spunto tematico alla mostra. Monotex, Annotarsi 2, Assegai, la sezione che raccoglie i quadri realizzati fra il 1987 e il 1992 nei suoi soggiorni a Los Angeles, e Mixoblack sono gli altri capitoli che si susseguono in galleria. Nella sezione Annotarsi 2 sono esposti due quadri, Cellotex (1992) di grandi dimensioni, che erano parte dei sedici presentati alla Biennale di Venezia nel 1988. Claudio Cucco
La rievocazione della pittura12
Die Verwindung, titolo heideggeriano della personale di Nicola Samorì (Forlì, 1977; vive a Bagnacavallo), indica un tradimento della tradizione, quello compiuto sulle tele, ora slabbrate, ora pastose, in una sorta di GALLERIA MAZZOLI distruzione formale fra omaggio e Via Nazario Sauro 62 - Modena demistificazione. Ecco comparire, 059 243455 dietro il colore che si disfa, le figure di Rembrandt, Goya, Caravaggio, numi tutelari trattati alla pari di un tavolo opeinfo@galleriamazzoli.com ratorio, dove sezionare, sperimentare; un procedimento che www.galleriamazzoli.com richiama la pittura di Francis Bacon. Ma la stessa volontà di recupero di queste immagini tradizionali permette la pratica del ricordo, l’allontanamento dal museo e l’inserimento nel flusso del contemporaneo. Meglio la profanazione di queste dame secentesche, di questi Salomoni e Sebastiani, che l’abbandono indiscriminato nei polverosi archivi del museo, l’indifferenza della società attuale che condanna all’oblio gran parte della nostra storia. Alessandro Marzocchi
RECENSIONI 89
Assaggiando il Mart13
Ripartire dallo scheletro del mondo14
Vi siete mai soffermati a scrutare un kiwi prima di addentarne la polpa succosa? Avete mai assaporato un frutto o una verdura prima con gli occhi e con la mente? Avete mai pensato che ogni cibo ha un colore, una forma, una funzione ma può assumerne infinite altre, quando se ne intenda l’intima essenza e la si pieghi a svariate necessità e ai capricci estetici più estremi? Il pane, si sa, come la pasta, ha sempre assunto aspetti insoliti e, ad oggi, un panificio e una boutique vantano lo stesso potenziale di soddisfazione della clientela, sempre esigente. La geometria della lasagna, però, la sua paziente costruzione, strato su strato, a ben pensarci è tutt’altro che banale. Come il sugo si insinui tra le sfoglie di pasta all’uovo, contrapponendo la sua più o meno marcata fluidità e il suo colore alla apparente rigidità della costruzione, fosse anche scivolandone maliziosamente fuori, in forma di goccia, è ancora un’altra storia. Il cibo è qualcosa di intimamente legato alla sopravvivenza, è atavico e universale ma, nel suo essere indispensabile, può evolversi da mero bisogno alle funzioni e soluzioni più raffinate e fino al 2 giugno stravaganti, nelle quali la transazione a oggetto d’uso a cura di Beppe Finessi quotidiano lo rende in certo modo eterno, fruibile in MART un tempo più lungo del metterlo in bocca, masticarlo, Corso Bettini 43 - Rovereto ingoiarlo e, in un certo senso, annientarlo. La colla0464 438887 info@mart.trento.it na di patatine (le “rustiche”) e il bracciale di scampi www.mart.trento.it insegnano. Accostamenti di colori, frattali, studio di geometrie in forme che, nella sua semplicità, anche la verdura più banale offre, sono prêt-à-porter. Basta guardare, osservare, ri-pensare, trasformare. Il cibo si può colare, aprire, sezionare, grattugiare, seccare, spezzettare, scaldare e modellare, misurare, scomporre, ritagliare, travasare, incollare: muniti di ago e filo da ricamo possiamo anche improvvisare un uovo all’occhio di bue su una fetta di pancarrè (vera). Cibo e futuro: l’ambiente è in pericolo, qualcosa dovrà cambiare. E qualcosa si modificherà se, rispettando la massima sempre valida del creativo cambiamento di prospettiva, sapremo individuare anche in un insetto o in creature che generalmente istigano il nostro più spontaneo ribrezzo fonti di sostentamento alternativo, senza tanti preconcetti. Potrà la tradizione culinaria italiana accogliere tra le sue secolari e invidiatissime braccia una tale sfida? Anche l’usare il riso per costruire una poltrona potrà evitare il disboscamento delle foreste. Certo, a discapito di una certa comodità.
Mondo Uomo Dio. All’incrocio di dilemmi esistenziali si pone “faccia a faccia”, antologica di Mario Ceroli (Castelfrentano; 1938) presentata al Mambo di Bologna. A introdurla è l’immagine immortalata da Aurelio Amendola dell’artista disteso sulla sua Primavera, un parallelepipedo racchiuso e ordinato di fusti di legno. È un uomo vitruviano che ha però gli occhi rivolti verso l’alto. Proiettandosi al di là della materia, dà avvio al dialogo metafisico su cui si regge la mostra. Volontà raziocinante dell’uomo e infinito che sfugge. All’interno di un museo-cattedrale si dispiega un confronto tra le opere più sui temi che sulla cronologia. Nessuna monumentalità ieratica neanche nelle installazioni ambientali che invadono la Sala delle Ciminiere. Uno spirito performativo e dinamico connota infatti la produzione principale di Ceroli. Il saper rappresentare come nessun altro la massa che avanza in un unico blocco, attraverso una riduzione capace di spogliare l’idea dalle sue incarnazioni individualizzate. La forza che emerge dall’avanzare della massa in Cina, la moltitudine di fragili bandiere piantate nella sabbia ordinate secondo i 365 giorni dell’anno in Progetto per la pace, il tumulfino al 1o aprile to della guerra nella celebre Battaglia, in cui la a cura di Gianfranco Maraniello prospettiva rinascimentale è citata dalla griglia MAMBO Via Don Minzoni 14 - Bologna di tavole: il tutto è frutto di una volontà di ri051 6496611 durre in termini razionali qualcosa che va oltre info@mambo-bologna.org i limiti umani. Immagini potenti che saturano www.mambo-bologna.org lo spazio. Il leitmotiv del ritorno all’archetipo parte dalle sagome per muoversi all’interno di quel mondo di prime rappresentazioni condivise che ha a che fare con l’inconscio collettivo junghiano. A cavallo tra Pop Art e Arte Povera con un anticipo sulla Minimal Art, Ceroli non è l’unico a essere stato colpito da queste suggestioni. I gesti tipici di Sergio Lombardo e le sagome di metacrilato di Gino Marotta ne sono ulteriori interpretazioni. Archetipi del mondo appaiono Mappatondo e Mappacubo, 1966 posti a confronto con i recenti quadri-mappe, profusione di un cromatismo a lungo respinto. Dagli scheletri del mondo i vuoti prendono vita sulle pareti in Planisfero e Mappamondo, 2010 come terre emerse e mari. La mostra prosegue tra assenza ed esplosione di colore. Le terre colorate de Le bandiere di tutto il mondo riducono il colore allo stato primario precedente la percezione. Partito dalla materia per toccare il cielo, il percorso si conclude con la griglia di scale. Una sola di vetro diviene simbolo di questo dialogo metafisico su origine e direzione.
Giulia Galassi
Antonella Palladino
Enfants terribles nell’era dell’omologazione15
I quattro discorsi si sviluppano in autonomia, ma su due linee principali: l’ironica ammissione e la viscerale protesta. Sulla prima linea si dispongono nero/Alessandro Neretti e Gaetano Cunsolo: un’erezione fino al 13 aprile di donut ad aprire la mostra e un a cura di Pietro Gaglianò bambinesco ribellismo per (non) chiuderla. Il primo BIAGIOTTI PROGETTO ARTE documenta la corruzione di un immaginario collettivo, Via delle Belle Donne 39r - Firenze nell’ostentazione delle sue banalità; il secondo irride i 055 214757 simboli del militarismo. Al piano superiore, il video galleria@florenceartbiagiotti.com di Silvia Giambrone indaga il rapporto tra amoroso www.artbiagiotti.com controllo e violenza censoria: un gioco intimo e brutale che conduce, scese le scale, all’infiorescenza di un urlo muto. E più sotto ancora, negli scantinati, Sergio Racanati riunisce i reperti della sua “rivoluzione permanente”: dalle piazze del mondo agli asettici spazi espositivi, dove l’affermazione dei valori (Luxury) ne rivela l’asfissiante dittatura. Simone Rebora
Viaggio alla scoperta del passato17
“Da sempre ho dovuto vivere fra due mondi diversi”: così Flavio Favelli (Firenze, 1967; vive a Savigno) scrive in occasione della mostra personale da S.A.L.E.S, la terza in pochi anni. Favelli presenta le nuove opere e racconta la sua storia - una storia piena di contraddizioni, dubbi e rotture - cofino al 6 aprile minciata con un’infanzia un po’ pop S.A.L.E.S. e un po’ borghese. L’artista raccoglie e seleziona gli oggetti Via dei Querceti 4/5 - Roma più diversi, come una collezione di ceramiche antiche, vec06 77591122 chi mobili, disegni o lattine che poi trasforma in un grande info@galleriasales.it collage ed espone al pubblico. Come un collezionista pieno www.galleriasales.it di ricordi, Favelli si circonda di cose e ricostruisce il suo passato. Nel ‘75 l’artista fa il suo primo viaggio a Roma e con il padre, di nascosto dalla madre, dormono all’Hotel San Giorgio, da cui il titolo della mostra. Quel viaggio è oggi un nuovo punto di partenza per ritrovare nella memoria l’esperienza autentica di una vita intera. Michela Tornielli
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RECENSIONI
Gli sguardi transitori di Beninati16
Manfredi Beninati (Palermo, 1970) si rivolge alla quotidianità, alla cultura, al mondo infantile e onirico. Lo fa arricchendo le sue opere con riferimenti artistici e letterari, inserendo esseri immaginari e svariati mezzi di trasporto, metafora del viaggio nelle fino al 1o aprile sue molteplici declinazioni. L’evaneLORCAN O’NEILL scenza e la liquidità di questi oli su tela, alcuni realizzati Via Orti d’Alibert 1e - Roma con l’aiuto di bambini, mettono in risalto la luminosità dei 06 68892980 colori e la transitorietà dei soggetti, recuperati da un monmail@lorcanoneill.com do in bilico tra realtà e fantasia. La combinazione tra sguarwww.lorcanoneill.com do cinematografico e pittura rivela l’esperienza di Beninati come assistente alla regia ed emerge negli esiti formali delicati, velati di un’insolita malinconia e nelle tenui cromie che aprono spazi sfuggenti. Beninati mixa immagini e linguaggi: in mostra anche un’installazione che dà il nome alla personale e che porta nella dimensione effimera che caratterizza l’esposizione. Chiara Natali
Una mostra di “misura”18
A tre anni dalla personale d’esordio presso Z2o, Michele Guido (Aradeo, 1976; vive a Milano) presenta _02.02.13_garden project. L’esposizione mette in evidenza le relazioni esistenti tra natura e architettura, tra storia dell’arte e matematica, in un gioco continuo e misurato di reZ2O gole e immagini. Apre la mostra Lotus Garden project #05 Via della Vetrina 21 - Roma _RaphaelUrbinas 1504_2011, opera scultorea che nasce dal 06 70452261 rapporto tra le nervature della foglia di loto e la personale rilettura che fa Guido del tempio dipinto da Raffaello ne info@z2ogalleria.it Lo Sposalizio della Vergine, con ovvi riferimenti al tempietto www.z2ogalleria.it di S. Pietro in Montorio. Il certamen tra natura e architettura si disputa ora nelle due installazioni site-specific che occupano le volte e le pareti della galleria, sviluppando le relazioni tra la pianta centrale del tempietto, la sezione del frutto di loto e le sezioni delle piante della famiglia dell’euphorbia. Gino Pisapia
Incontri (non troppo) inattesi19
Boetti il romano20
Lo avevamo lasciato ad Amsterdam, direttore artistico della nuovissima Binnenkant21 Foundation. Ora Lorenzo Bruni torna a far tappa in Italia, per curare il secondo progetto dello SPE - Spazio Performatico ed Espositivo), presso la Tenuta dello Scompiglio. Otto gli artisti coinvolti, che partecipano con una media di due o tre opere ciascuno: un percorso denso ma mai sovraffollato, attento a sfruttare ogni minimo stimolo ambientale, e che in linea perfetta con la tematica scelta (“la scoperta del paesaggio e il ruolo dell’osservatore”), si espande ben oltre i limiti dell’edificio. Punto di partenza è addirittura la Stazione ferroviaria di Lucca, al cui esterno è esposto l’enorme billboard di Giovanni Ozzola: il suo intervento è una riflessione sul ruolo della fotografia nel mondo contemporaneo, mutata da rappresentazione del reale a vera e autonoma “presenza” al suo interno. Sul mezzo fotografico torna anche Eugenia Vanni, che ci rivela il doppio inganno della percezione: dapprima quel telo ritratto in paesaggi “da cartolina” ci viene offerto in sostanza povera, fino al 28 aprile concreta; poi la sua naturale bianchezza ci è depria cura di Lorenzo Bruni TENUTA DELLO SCOMPIGLIO vata, perché effetto anch’essa di sovraesposizione Via di Vorno 67 - Lucca fotografica. Allo stesso modo Studio ++ riflettono info@delloscompiglio.org sul paradosso di un’immagine sovraesposta (il Vatiwww.delloscompiglio.org cano), approcciata con immediatezza assoluta (impressione stenopeica), ma infine distanziata ed estraniata (la fonte dell’impressione è una webcam; il risultato è chiuso in un nero raccoglitore). Lontananza e frantumazione sono alla base anche del lavoro di Yuki Ichihashi, che però se ne serve per trasmetterci la necessità di un incontro con l’ignoto. E se Jacopo Miliani indaga proprio i simboli e gli archetipi della natura incontaminata, ce li offre attraverso fili spinati e danze rituali, nel blur di consumati tubi catodici. Ancora più ambigua risulta allora l’operazione di Moira Ricci, che ci fa toccare con mano le più indistinte paure ataviche, tramite un attento lavoro di falsificazione documentaria. E mentre Francesca Banchelli invita a rompere i confini tra documentazione ed esperienza, coinvolgendo lo spettatore in una manifestazione “contro il sole”, Simone Ialongo pianifica su cartina il suo contro-viaggio della speranza (da Pantelleria alla Tunisia), con tanto di biglietti di prenotazione per i visitatori in sala.
È una mostra gioiello quella che il Maxxi dedica ad Alighero Boetti (Torino, 1940 - Roma, 1994). Poche ma preziose scelte che racchiudono la poetica di una vita e che provano (riuscendoci o no?) a rispondere alla grande mostra Game Plan che ha girato tra Tate London, MoMA New York e Reina Sofia Madrid. Un percorso, quello di Boetti, che ha mantenuto, nel suo dualismo, nella sua pluralità di intenti, una forte coerenza, scandita passo dopo passo da riflessioni, viaggi, colori, raccolte di ricordi, tempo inglobato, pensato e osservato. Quando giunge a Roma ha lasciato dietro sé la sua Torino, l’Afghanistan e ormai in parte l’Arte Povera. Roma è per lui una meta inesplorata, luogo di confronto, di scambio e ricambio di culture in continuo fermento, che assorbe e manifesta. Francesco Clemente e Luigi Ontani suoi compagni, ed esposti al suo fianco in questa occasione, anzi esposti proprio all’inizio del percorso, sono il termine di confronto più vicino, lo specchio all’interno del quale si riflette l’arte di Boetti e il mutamento determinato dall’impatto con la città. Roma è un percorso nuovo, che offre gli spunti e fino al 6 ottobre i mezzi per liberarsi da schemi e condizionamenti, a cura di Luigia Lonardelli MAXXI il nuovo pretesto per creare le sue geografie. BoetVia Guido Reni 4a - Roma ti lancia se stesso verso una sperimentazione che 06 3225178 produce un’esplosione di colori e concetti sempre info@fondazionemaxxi.it meno poveristi. Il linguaggio assume nuove forme, www.fondazionemaxxi.it si trasforma in segno visivo, ed è qui che si accentua in lui l’idea di serialità e pluralismo. Ed è ancora qui che l’opera diventa il mezzo di manifestazione di un meccanismo di pensiero che si esplica attraverso l’immagine. La sperimentazione, dunque, trova esiti del tutto nuovi all’interno della sua produzione. Il percorso espositivo definito all’interno del Maxxi si fa portavoce di un rapporto inedito fra Boetti e la Capitale, fra Boetti e quella giovane generazione di artisti con i quali prende avvio un nuovo modo di fare arte. Di quell’arte di Boetti che diventa pioneristica sono testimoni opere come Itervallo del 1969 esposta a When Attitudes Become Forms e le poesie con il Sufi Berang esposte alla mostra del 1985 al Pompidou di Parigi e protagoniste in mostra di una sala mozzafiato, Les Magiciens de la Terre. Tappe importanti che fanno di Boetti la voce dell’Oriente. Una mostra che coincide, finalmente, con l’intitolazione della piazza del museo a suo nome.
Simone Rebora
Alessandra Fina
L’astrattismo ragionato di Howard Hodgkin21
Dopo ventuno anni, Howard Hodgkin (Londra, 1932) torna a Roma. Gesti decisi e marcati sulla tela, cromie ampie e complesse, assenza di contrasti, dinamismo caratterizzano questa nuova serie di lavori. La pittura investe il supporto e si espande oltre la cornice. Ogni elemento diventa parte funziofino al 4 maggio nale dell’opera. La poetica dell’artista GAGOSIAN GALLERY è multiforme e articolata: se da una parte pende verso la Via Francesco Crispi 16 - Roma spontaneità, dall’altra medita sulla riflessione che lo porta 06 42086498 a lunghi processi di esecuzione, che possono durare anni, roma@gagosian.com a dispetto del carattere estemporaneo che traspare da molti www.gagosian.com lavori. Nei suoi dipinti si innesca sempre un processo creativo che coinvolge mano, occhio e memoria sensibile. Anche quando il soggetto non è ben definito, l’unico elemento di chiarezza diventa il titolo, che getta uno spiraglio di luce in un meraviglioso universo di contaminazione. Oltre i confini. Michele Luca Nero
Estetiche frammentarie23
Il lavoro di Luca Trevisani (Verona, 1979, vive a Milano e Berlino) si concentra sulla composizione e trasformazione della materia, forma mutevole assoggettata a processi vitali ed energetici. L’opera d’arte è sintesi di processi per sua stessa natura: ecco fino al 15 aprile allora che tempo, sedimentazione, a cura di Claudia Gioia metamorfosi, organicità diventano VALENTINA BONOMO lettere di un alfabeto che attinge a fonti inesauribili e disparate. In mostra opere scultoree e stampe su carta Via del Portico d’Ottavia 13 - Roma e alluminio: in Marmomarmelade, le superfici di gesso 06 6832766 diventano taglienti gusci di uova. Le trame materiche info@galleriabonomo.com dei cladodi di alluminio e i contrasti cromatici di Senza www.galleriabonomo.com Titolo evocano sapori e visioni di vita e nutrimento. La cera è struttura e materia, plasmata e modellabile in Un Posto Per Ogni Cosa e Ogni Cosa Dove Vuole Stare, le stampe fotografiche Placet experiri (flogisto) sono visioni ologrammatiche di forme quasi pittoriche. Marta Veltri
Pascali, oggi come ieri22
I bachi da setola, opera emblematica di Pino Pascali (Bari, 1935 - Roma, 1968), fecero il loro esordio a L’Attico nel 1968. Da allora hanno girato per quasi 45 anni in gallerie e musei di mezzo mondo, diffondendo il verbo dell’Arte Povera. Oggi, dopo la tappa alla Fondazione Pino Pascali L’ATTICO a Polignano a Mare, i bachi, riporVia del Paradiso 41 - Roma tati alla luce, si ordinano nella galleria romana secondo 06 6869846 l’allestimento originario, completo del “bozzolo”, replica info@fabiosargentini.it del lavoro con cui l’artista pugliese ravvivò le pareti immawww.fabiosargentini.it colate della sala in occasione della prima mostra. A confermare l’indole performativa di Pascali, SKMP2, “reportage ironico-visuale” girato da Luca Patella. Come ha scritto Maurizio Calvesi: “A trentotto anni dalla sua scomparsa, la figura di Pino Pascali è ancora straordinariamente viva, al punto da continuare a competere nell’agone dell’attualità con i giovani di oggi, e facendo mostra, nel confronto, della sua “marcia in più”. Stella Kasian
Artisti e trasformazione24
Le opere esposte nella collettiva di T293 nascono per subire modificazioni successive all’atto della creazione e sono identità evolute o evolutive, superfici che riflettono l’intento di un processo che muta attraverso lo sviscefino al 25 maggio ramento delle forme e dei materiali. Il Good Luck and Safe Journey distacco della tela dal telaio originario e l’acquisizione di un T293 nuovo supporto, più grande o più piccolo, costituisce la sostanziale rielaborazione di Julia Rommel. Federico MadVia Tribunali 293 - Napoli dalozzo propone strutture urbane riverniciate nelle quali 081 295882 traspaiono colori che sono reduci dall’imbiancatura e che, info@t293.it inequivocabilmente, si ripresenteranno. Le installazioni di www.t293.it Sam Falls, ideate per subire i raggi del sole e trasformarsi parzialmente, esibiranno poi il contrasto fra la parte integra e quella deteriorata. I tre giovani artisti dialogano tra loro sull’ineluttabile futuro e l’innegabile influenza di fattori esterni. Arianna Apicella
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testo di marco senaldi illustrazione di barbara salvucci
Piove, governo ladro... 94
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si diceva una volta. A quell’epoca l’accusa, e anche l’accusato, erano più facili da individuare: anche se pioveva (un evento a quei bei tempi ancora del tutto “naturale”) la colpa era comunque del governo, perché il governo aveva sempre la colpa, dalle scuole umide agli scioperi selvaggi, dalla guerra nel Vietnam alla nube tossica. Ma, per quanto fosse una battuta, c’era del vero nell’accusa: “Il governo, col suo immobilismo, il suo classismo e la sua corruzione, ci deruba della nostra sicurezza o dei nostri soldi anche quando piove”; anche un avvenimento di cui in apparenza non era responsabile, in realtà lo vedeva colpevole in prima persona. Oggi, che il governo è veramente ladro – e i nostri governatori si comprano coi soldi della comunità le creme per il contorno occhi o le vacanze ai Caraibi –, oggi, soprattutto, in cui le sciagure dovute al maltempo (da Genova a Messina passando per Sarno) sono sempre di più la conseguenza evidente del malgoverno territoriale, la frase stranamente non si usa più, fa vintage e si cita solo in forma parodistica. La ragione? Semplice: non è più una boutade perché, da osservazione paradossale, è diventata una constatazione talmente “vera” da risultare banale. Ma oggi c’è di più; anzi, molto di più. Infatti, per non farsi sorprendere dalle accuse di inefficienza, impreparazione o negligenza anche nei confronti di possibili calamità naturali, i governanti sono corsi ai ripari preventivamente. Se negli ultimi anni una superficiale spruzzata di neve bastava per “mettere in ginocchio la città”, oggi si sguinzagliano i professionisti del meteo per sapere in anticipo che cosa potrà accadere in futuro. Il sogno di ogni re, imperatore o anche semplice governatore – poter leggere in anticipo i giornali del giorno dopo, sapere prima che cosa succederà, prendere le contromisure e quindi avere un successo strepitoso – sembra ormai cosa fatta. Purtroppo, però, un simile paradossale risultato non si può ottenere senza altrettanto paradossali conseguenze. Tutto questo è divenuto molto chiaro la sera del 10 febbraio 2013,
in fondo in fondo
quando i telegiornali nazionali hanno dato la notizia della imminente nevicata che si sarebbe abbattuta sull’Italia del nord tra la notte e le prime ore del giorno seguente. Con una tempestività davvero inusitata, i media hanno iniziato a “funzionare a rovescio”: invece di riportare le notizie di eventi già accaduti (il prevedibile caos cittadino, i disagi, gli incidenti, i ritardi ecc.), hanno lanciato un allarme preventivo avvertendo tutti che, a causa di una nevicata ancora in fieri, quegli stessi eventi “erano in procinto di verificarsi”. In altre parole, i media (la televisione in primis, ma non solo) hanno sì “previsto” ciò che stava per accadere ma, facendolo “vedere prima”, lo hanno anche implicitamente “aiutato ad accadere”. I disagi annunciati (concorsi rimandati, danni e ritardi) che avrebbero potuto avvenire (ma forse anche no) sono stati “costretti” ad avere luogo. La forma visiva di questa costrizione è particolarmente interessante: la sera del 10 febbraio, infatti, il telegiornale di Rai 1, per supportare visivamente la “notizia futura” della nevicata, ha scelto di mandare in onda non un collegamento con una sala della Protezione Civile o con un laboratorio meteorologico, ma direttamente le immagini di una copiosa nevicata su Milano, senza alcuna indicazione che si trattava, con ogni evidenza, di immagini di repertorio, relative alle nevicate dei mesi precedenti. Per tutti coloro che non erano a Milano, dunque (ma forse anche per loro?), lì nevicava già: come nel film di Renoir Accadde domani, stavamo vedendo il telegiornale del giorno successivo, ma grazie alle immagini dell’anno prima! E allora? L’annuncio neve è stato un gesto di coscienzioso civismo o di dissennato allarmismo? Non lo sapremo mai: gli eventi che si sono svolti il giorno 11 febbraio, infatti, come in un esperimento di fisica quantistica, sono stati in qualche misura “determinati” dal fatto stesso di essere pre-visti. Perfino la nevicata come tale, infatti, da evento “naturale” è divenuta (almeno in parte) un evento “mediatico”… “Piove, governo ladro” è davvero solo un ricordo. Ormai dovremmo dire: “Nevica, governo mediale”.