Ristretti Orizzonti Marassi
N° 2 Dicembre 2020 - Supplemento al N° 05/2020 di Ristretti Orizzonti
Adolescenza ieri e oggi di Antonio Alvaro, Carmelo Pascali, Amos Emiagwina, Bruno Trunfio, Talotta Giuseppe
C
hi meglio di noi può cogliere la differenza tra la società esterna, mondo in continuo esasperato movimento e la staticità del nostro essere rinchiusi qui dentro? Qui non regna il principio della perenne competitività, siamo privati dei ritmi frenetici del vita odierna, non siamo soggetti all’impazienza di dimostrare sempre di essere all’altezza, il tempo è estremamente dilatato e questo ci consente di fotografare diversamente la condizione adolescenziale, perciò pensiamo che ad oggi il mondo degli adulti e quello dei ragazzini viaggino su un doppio binario. “Quando io ero piccolo giocavo ai gladiatori, perché negli anni 60 c’erano pochi cinema e i film erano sempre gli stessi, improntati all’eroismo. Quando uscivamo dalla sala a noi piaceva sentirci come i personaggi dei film, eravamo gladiatori, guerrieri, eroi. Il più grande di noi non aveva più di dieci anni, difendevamo il nostro piccolo quartiere e lo chiamavamo il monte. Era un gruppo di edifici che sono stati bombardati durante la guerra, palazzi pericolanti e smembrati. Per dimostrare di essere dei gladiatori dovevamo salire fino sopra i terrazzi e scalare i muri alti tre o quattro piani, con il rischio di cadere o che ci crollasse tutto addosso. Inconsapevolmente rischiavamo la vita tutti i giorni per conquistare l’appartenenza al gruppo. Inoltre, facevamo tante guerre, a botte di pietre contro altri ragazzi dei quartieri vicini, spesso tornavamo a casa con la testa insanguinata e le no-
stre madri ci picchiavano con lo zoccolo di legno per farci smettere. Quando riuscivamo a prendere un componente del gruppo avversario, lo legavamo dentro a un palazzo diroccato e avremmo voluto lasciarlo lì tutta la notte, però nessuno rimaneva mai legato fino a tardi, perché i genitori dopo una certa ora li cercavano e noi gli dicevamo dove si trovavano. Del resto, quando loro prendevano uno di noi, ci imprigionavano chiudendoci dentro un cassone lungo due metri per due, ce n’erano a centinaia tra le baracche, erano quelli che i pescatori usavano per tenere i lori attrezzi. Questo era il nostro modo di vivere, con molte sfumature e varietà di giochi, di contatti e con tanti effettivi rischi, solo con l’intenzione di difendere un castello immaginario di palazzi. Adesso, si gioca tramite internet per un mi piace e si muore per mostra-
re di essere stupidi. Anche noi eravamo stupidi, ma non rischiavamo la vita per un mi piace”. (Carmelo) La differenza tra ieri e oggi è che allora c’era un condizione di riferimento, che contestualizzava le nostre azioni, ci identificavamo gli uni negli altri e questo ci aiutava a crescere grazie alle relazioni umane. Ad oggi, il contesto sociale si sposta sul palcoscenico virtuale e le azioni oltre ad essere inutili diventano eterne, mentre gli amici sono “effimeri” e spariscono con un click. Di conseguenza il rapporto umano non esiste, tra follower nessuno si accorge della mancanza dell’altro, mentre in passato gli amici si aiutavano, nel bene e nel male. La trasgressione che ricercavamo quando eravamo giovani era rubare una bicicletta, rubare al mercato la frutta, il rischio ci faceva salire l’adrenalina e ci sentivamo
euforici, ci esaltavamo l’uno con l’altro, ci mettevamo in competizione e il trasgredire le regole ci faceva sentire più forti, intanto le nostre personalità si costruivano a poco a poco. La vita era salvaguardata, avevamo rispetto per noi stessi e per gli altri, mentre adesso i valori sembrano sviliti e questo si riscontra nei giochi estremi, nel bullismo eccessivo, nelle vessazioni contro i più deboli. Ci domandiamo come sia possibile essere arrivati a tanto, di certo la responsabilità di questi cambiamenti non è da attribuire ai ragazzini. Con i computer c’è troppa libertà, prima uscivamo di sera, tornavamo a notte tarda, ma sempre i genitori avevano la possibilità di controllarci, di darci dei limiti. Adesso gli adolescenti sono abbandonati a loro stessi, in un oceano di assurdità virtuali, il pericolo si insinua tra le mura domestiche e gli adulti non conoscono i rischi reali e le sfide sempre peggiori con cui i figli si confrontano. Pensiamo che se i ragazzi crescessero in una certa maniera e non abbandonati a se stessi, sarebbe per loro meno difficile cadere in queste trappole. Tra i genitori non c’è più dialogo, sempre si parla con qualcuno che non è presente, ognuno col suo smartphone e con i figli si comunica ancora meno, questo porta all’abbandono, hanno tutto, ma a livello relazionale sono lasciati soli. Non possiamo perciò dare la colpa ai ragazzini che fanno stupidaggini, è il mondo che gli abbiamo preparato ad essere strano.
Non buttiamo anche il buono che il Covid ha provocato Mario Amato, Angelo Genito, Giuseppe Talotta, Bruno Trunfio
A
ll’inizio della pandemia abbiamo avuto la sensazione di un avvenimento apocalittico, quello che sembrava un allarmismo inutile per una semplice influenza è diventato in pochi giorni un evento mondiale, in grado di stravolgere tutti gli equilibri sociali, politici ed economici. Inizialmente le informazioni provenivano solo dai notiziari e dalla telefonata settimanale con i familiari, dopo circa quindici giorni, quando anche fuori la situazione iniziava a diventare preoccupante, la Direzione ci ha rassicurato sul fatto che erano state adottate misure preventive, in grado di salvaguardare la nostra salute. Per arrivare a questo sono stati necessariamente sospesi i colloqui con i familiari, insieme a tutte le attività scolastiche e trattamentali. Siamo rimasti ancora più soli. Dopo quasi un mese di chiusura totale verso il mondo esterno, le uniche persone con cui potevamo rapportarci, oltre a noi stessi, erano l’ispettore e il comandante che in quel periodo sono stati molto presenti e ci hanno sempre tenuti informati sull’andamento della situazione, fino a quando ci hanno comunicato che avremmo avuto la possibilità di effettuare una videochiamata alla settimana, della durata di un’ora e una telefonata di dieci minuti, un giorno sì e un
giorno no. A quel punto il nostro stato d’animo è migliorato e la preoccupazione per la salute dei nostri famigliari si è ridimensionata, ci aggiornavamo quasi quotidianamente sulle loro condizioni. Nel corso delle successive settimane si sono amplificati e moltiplicati gli strumenti di comunicazione verso il mondo esterno, nello specifico abbiamo avuto l’opportunità di coltivare in modo costante i nostri affetti. Di norma per chi abita lontano c’è la possibilità di incontrare i propri cari solo una volta al mese, quando va bene, o una volta all’anno in molti casi, sostenendo spese talvolta ingenti, senza parlare delle persone anziane che non si possono muovere. Genitori con cui non si aveva più un rapporto visivo da anni e con cui si parlava raramente, dato che le telefonate erano settimanali e brevi, in genere dedicate a mogli e figli. Con i nostri anziani in moltissimi casi il contatto era solo epistolare, per non parlare dei bambini troppo piccoli per affrontare lunghi viaggi, figli e nipoti che crescevano senza vedere il proprio padre, zio, nonno. Ed ecco la soluzione semplice, immediata, sicura e a costo quasi zero: la videochiamata e le telefonate infrasettimanali. La domanda è: doveva scatenarsi una pandemia per poter usufruire di tali semplici strumenti in grado di migliora-
re le condizioni della vita detentiva ed in particolare della sfera affettiva? Il poter parlare con i nostri figli e parenti più volte alla settimana ci ha consentito di monitorare l’andamento della vita familiare e di sentirci parte integrante della loro esistenza, questo ha di fatto alleggerito in molti casi le tensioni e ha aiutato a risolvere problematiche quotidiane. La vita carceraria ci è sembrata meno difficile, abbiamo vissuto in modo migliore e anche i nostri pensieri si sono trasformati positivamente, sono diventati meno cupi. L’atmosfera è divenuta più serena, anche i rapporti con le persone che lavorano qui dentro sono cambiati e finalmente, dopo anni, abbiamo respirato un’aria nuova.
Ad oggi la preoccupazione per il contagio si sta di nuovo diffondendo, mentre nelle settimane precedenti avevamo avuto la netta impressione che il virus stesse gradatamente sparendo. Si sono di nuovo accesi dibattiti tra di noi su ciò a cui potremmo andare incontro se la pandemia riprendesse la sua corsa, che comunque di fatto non si è mai definitivamente arrestata, ma la nostra preoccupazione maggiore è quella che le comunicazioni possano tornare all’origine: prima del paziente zero. Una tragedia, quattro ore di colloquio al mese senza l’utilizzo dei tanti amati mezzi tecnologici e quattro telefonate mensili, della durata di dieci minuti l’una.