Schegge della memoria

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Prima edizione: dicembre 2007 Š BEAT di Giovanni Brienza Via Sanremo, 182 – Potenza Stampato nel dicembre 2007 presso la Tipografia Graphis di Acerenza


Rina Petracca Altieri

SCHEGGE DELLA MEMORIA



Indice Unitre Laurea Nozze d’oro Italo Luciano Mamma Cicitta Tina Al mio papà Teresa Rosetta Rina 22 aprile 1934 Alla mia compagna di banco Il coro dell’Unitre Rimpianto Ugo Nostalgia di Aurelio Memorie Emozioni Ricordo Natale ‘99 Una voce nella notte Fragilità Abito azzurro Incanto Tristezza

7 9 11 13 15 18 22 26 29 33 37 41 46 51 53 56 60 63 66 69 73 75 77 79 80 82 83

UNA VITA PER L’ARTE

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Unitre Volti ridenti, occhi sfavillanti, or torna nostra antica giovinezza a regalar dimentichi entusiasmi, a ridestar la gioia del domani. Dov’è tristezza? Or non è più: nuovi s’aprono operosi orizzonti a ridar lena a membra martoriate dal passare instancabile del tempo e della vita. Che c’è? Che si fa? Dove si va? Tutto è un fermento. Si riallacciano legami appannati, si è pronti a fare un’accoglienza grata a quanti timidi muovono il primo passo verso l’ignoto mondo chiamato terza età. È tutto un canto, un dolce agitar di novelle opre ed anche se talora una pudica mano maschera al docente un leggero sbadiglio, ma che fa? Qualcosa nella mente e nell’anima rimane; una luce si è accesa per far lume: signori, siamo vivi, siamo qua, 7


comunicando agli altri quanto non è perduto della smemoratezza che talvolta va.

Potenza, 27 maggio 1997

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Laurea Fu ieri, solo ieri, che correvi, frugoletto mio rosso nel vestito, per sfuggire all’abbraccio di colei che, sconosciuta, allora pretendeva essere mamma tua tutta la vita. Ma braccia ben più salde ti serrarono per un destino che ci vide insieme, noi tre, per sempre, stretti in un legame, che nessun caso poté più spezzare. Ed è già oggi, quando innanzi a noi, con lo sguardo smarrito del cerbiatto che teme mille trappole invisibili, ti ripresenti dopo le battaglie superate con forza e tanto tatto, pur nell’indole fragile e sensibile. Or la vita si spiega a te dinanzi, colma ancora di dubbi ed incertezze, ma ricca dell’affetto dei tuoi cari e densa del bagaglio culturale che da sola hai raccolto in tanti anni d’intensa pena e laboriosi affanni. Eccoti, dottoressa del mio cuore, figlia adorata più che la mia vita, dolce e tenace insieme, a tender lieta 9


quelle braccine che negasti allora e che son forti tanto da pensare che sopra loro adesso, finalmente, io potrò riposare.

La tua mamma Potenza, 28 maggio 1997

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Nozze d’oro Abito corto, viola, di velluto, gambe svettanti e chioma folta e nera, canto spiegato per le strette scale, foste voi galeotti al nostro amore. Avevo quindici anni ed ero lieta di quello che la vita prospettava, ma un paio d’occhi fissi e penetranti bloccaron la mia ascesa inconsueta. Me li sentivo addosso dappertutto, pronti a parlarmi un lor linguaggio muto ed a trasmetter, come dei baleni, sensazioni a me ignote e tanto care. Ci trovammo così, come d’incanto, a cercare angolini compiacenti dove la timidezza fosse infranta e il groppo in gola si sciogliesse intanto. Ma venne, in un mattino ghiaccio e scuro, il triste giorno della tua partenza: eri solo un ragazzo, eppur la guerra richiese intera giovinezza tua. Il mio cuore si strinse in una morsa: sentivo non ti avrei mai più incontrato;

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mi ribellavo a quella legge amara d’uomo, che non t’aveva risparmiato. Quanti pianti, mio Dio, quante preghiere mi videro in ginocchio nelle chiese, specialmente del nostro San Michele, per invocare un cenno di sollievo! E gli anni corsero e passaron via lasciando me meschina nell’ignoto della tua sorte, che credevo ria, finché ricomparisti all’improvviso, col volto smunto e senza più un sorriso. Il resto è storia. Vinto ogni contrasto, salimmo quelle scale tanto sacre che ci portaron dritto sull’altare tremanti d’emozione e di timore. Ci prendemmo per mano e attraversammo una barriera lunga cinquant’anni. Or siam più curvi, grigi, con le rughe, ma le mani che allora noi intrecciammo sono ancora legate saldamente, con in più la ricchezza dell’amore di nostra figlia accanto.

Potenza, 29 maggio 1997

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Italo Ero lÏ, nella sala calda e amata a scrutare i tuoi gesti di pittore che sulla tela bianca e levigata tracciava intrichi densi di colore. La luce del meriggio dal balcone illuminava il tuo lavoro intenso, mentre i tuoi occhi concentrati e assorti sorvegliavano il tratto della mano. Il tuo passo felpato sul tappeto, or vicino, or lontano dal treppiede, segnava due striature parallele che accompagnavano il controllo attento delle figure che prendevan corpo svelando a chiare note la tua mente. Un arco bianco, con baleni ed ombre, ricordava uno scorcio rivissuto di Aleppo della Siria, nel tramonto di una giornata afosa dell’Oriente, da te rivisitato col pensiero dell’artista fotografo del mondo. Un volto dolce, dai grand’occhi tristi, ricoperto da un velo trasparente, destava sogni di paesi ignoti e misteriose alcove. 13


Pian piano il biancore del meriggio si stemperava nella calda luce del giorno che moriva e, indispettito, il braccio tuo dolente lentamente calava quando ancora la lena divampava dentro al petto ed un lampo di genio era negletto. Le mani intrise di tutti i colori lavoravano allora coi pennelli: tutto era ripulito ed approntato per l’indomani fervido e operoso che doveva dar lume a qualche squarcio, completare qua e là un particolare, riprender l’opra di ritocco e smalto. E solo allora ricordavi, a un tratto, quella bambina che non s’era mossa a lungo, nel timore riverente di arrecare disturbo al tuo comporre: e sorridevi, stanco, e domandavi il conforto di un suo parere ingenuo e spassionato che non sapea ingannarti o darti addosso, ma vedea tutto bello e indovinato e t’adorava come un dio creatore che le avea fatto dono di un’ora di letizia e di abbandono.

Potenza, 9 settembre 1997 – Notte (per il cugino Italo Squitieri) 14


Luciano Eravamo due corpi ed un cuor solo, battevano all’unisono i pensieri pur nella differenza sostanziale de1l’età, che vedeva te impegnato nei giochi giovanili e col pallone e me, quasi mammina, indaffarata a ripulir vestiti e calzature per rivederti bello la mattina. Ricordi quante botte ci siam date quando la nostra mamma, per un poco, cercava trovar pace nel lavoro sfuggendo ai tuoi capricci e alle tue fughe e ti spediva dall’amica Clelia, che l’eterna bacchetta tra le mani rendeva arcigna e fonte di timore? Le mie gambe portavano sovente le impronte dei tuoi piedi allor restii a proseguire nel cammin dolente che ti portava giù, nell’antro buio dove altri bimbi, già più di te domi, sedevan sugli scranni zitti e fermi, in attesa del tuo certo ritardo. Io rientravo in casa quasi lieta per aver vinto un’altra volta ancora la mia dura battaglia giornaliera; 15


ma, a ripensarci, quanto avevo torto perché il dovere mi aveva portata a divenir l’odiosa carceriera che t’aveva privato di quell’aria e di quel sole che tu allor volevi! Da quella scuola un giorno non tornasti: era un inverno freddo e pien di neve; l’ora solita ormai era scaduta, ma nessuno sapeva dir dov’eri. Mamma languiva, stesa sul divano, mentre fugaci immagini di morte tormentavano il cuore e la sua mente presagiva messaggi assai tremendi. Ad un tratto, correndo trafelata, una delle sartine sguinzagliate per la città, in cerca del disperso, portò l’annuncio atteso e pur temuto: tu eri in ospedale e non aggiunse ch’eri in salute e ben rifocillato. Qualcuno, di una villa ben lontana dal tuo percorso solito, t’avea scorto presso il cancello, solo e abbandonato dalla fanciulla poco intelligente cui l’imprudente e stanca tua insegnante t’avea affidato da condurre a casa.

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Lo spavento fu grande, ma ben presto notizie confortanti ci allietarono e tu fosti portato, in uno scialle, col volto acceso e coi capelli biondi che facean capolino sotto il basco.

Potenza, 13 settembre 1997 – Notte (per il fratello Luciano Petracca)

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Mamma Ti vedo sempre china sul lavoro, intenta a ricavare dal tuo ingegno capi confezionati a perfezione per rivestir le membra appesantite di donne che attendevano impazienti di fare sfoggio con le amiche attente dei tuoi capolavori, che sovente mascheravan difetti ai possessori; ma spesso sul tuo tavol di fatica comparivano sete e taffetà per render più gentile ed invitante qualche bellezza della tua città. Erano le occasioni che più amavo perché, non vista, potevo ammirare la prova del vestito favoloso da sfoggiare a una prima o a una soirée. L’anima mia si apriva a sogni vaghi d’un avvenire ricco e sfavillante che mi avrebbe permesso, per incanto, d’indossare quegli abiti da sogno per danzare con baldi cavalieri al “Circolo lucano", pavesato di lampioncini e luci quasi a giorno. Tu cantavi al mattino di buon’ora, quando approntavi, con forbici e gesso, 18


i modelli da dare nelle mani delle apprendiste che arrivavan presto. Era quella, di tutta la giornata, l’ora più lieta, che ti permetteva di dare sfogo alla tua creazione più pura e intelligente, ricreando, quasi figura dalla molle cera, le linee del disegno modellato su un figurino mal raffigurato. Poi la scena cambiava: era un via vai di giovani signore per la prova, riti pazienti d’interpretazione per il capriccio d’una tua cliente che voleva mutare qualche piega. A lavoro ultimato, la consegna: tutto filava liscio e mai una volta il capo ormai completo ritornava per un ritocco od una lamentela. La casa tutta occorrea pel lavoro: in sala s’appressavan le ragazze, il salotto adibito per le attese, la camera per lunghe e spesse prove. Ed io, che avevo urgenza di studiare, mi rifugiavo nel bagnetto vuoto oppure, quando avaro un raggio mite 19


di sole m’invitava, sul tetto del palazzo sottostante. D’inverno poi, quando il rigor del clima ci raccoglieva tutte intorno al fuoco che ardeva nel braciere lucidato, le fervid’ore d’opra si arricchivan di racconti giocondi, barzellette e spesso di un rosario, recitato con spirito sereno e pien di fede. La maestra grintosa era ben ligia nel sorvegliar la linea di condotta delle belle sartine, che sovente suo fratello o i cugini sogguardavano senza avere un accesso confidente. Di quando in quando qualche ricorrenza permetteva uno svago assai innocente: era il tempo di facili sciarade e di carnevalate pazzerelle, quando quattro coriandoli e un biscotto davano gioia a qualche comunella. Le stanze allora risuonavan liete e i giovan di famiglia, finalmente, erano ammessi a prender confidenza con le più belle stelle del reame.

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Aurelio, ltalo, Ugo, lo zio Fulvio e qualche loro amico intraprendente irrompevano a far festa con noi. Mamma non sospendeva un sol momento la sorveglianza rigida e amorosa ed io, che d’anni allora ne aveo pochi, sgambettavo con tutti, ben accetta, al tempo del fox–trot e del charleston. Che bello poi quando per la quadriglia, comandata dal mio babbino caro, tutti si disponevan per coppiette sia per la promenade che pel changez. Cari ricordi d’una mamma cara, che, sotto la vernice assai severa, aveva un cuore d’oro e generoso che celava ad ognuno con pudore! Che vale aggiungere i ricordi tristi di giorni amari e ristrettezze varie? Tutto è trascorso, ma fa bene al cuore ricordar la letizia tanto cara di momenti sereni e pien di brama di amarsi tutti e non lasciarsi mai.

Potenza, 26 novembre 1997 – Notte

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Cicitta Ho sentito la voce tua tremante che mi chiamava “figlia" ultimamente, augurarmi salute e sorte buona per il mio onomastico recente, ripescato da ignote lontananze della tua mente e del tuo cuor fedele, che pure han cancellato la dipartita tanto dolorosa della tua amata sorellona Adele. Non ho ancora il coraggio d’incontrarti perché temo vederti stralunata e non trovarti dolce ed amorosa come per le mie visite passate. Eppure il tempo incalza ed or capisco che ogni istante tolto a questo abbraccio renderà assai più triste rivederti. Sei stata la mia fiaccola mai spenta: quando mamma Meluccia mi mandava a casa della nonna, per disfarsi della mia viva voce e del mio moto, eri tu che accudivi questa bimba, bisognosa d’amore e d’attenzione. Tu invariabilmente eri impegnata, eppure lietamente mi accoglievi 22


e t’accingevi, con amor paziente, ad acconciarmi i riccioli ribelli con l’olio “Venus" tolto di nascosto dal comodino dove lo zio Fulvio con malizia credeva aver riposto. E quando il tempo bello permetteva dipanar la matassa dei capelli a me che li arruffavo con le mani, trovavi sul balcone un angolino, nascosto da un gran vaso profumato di malvarosa dalla folta chioma, perché l’operazione richiedeva pazienza e discrezione lungamente. Allora mi cantavi la canzone del soldato che in patria avea lasciato la sua bella per correr, richiamato, ad una guerra che l’aveva colpito e inutilmente la giovane attendeva il suo ritorno. Dai miei occhi sgranati allor scorrevano abbondanti le lacrime e imploravo che tu smettessi quella nenia triste perché al mio cuoricino facea male. Allora ti affrettavi a rallegrarmi: con pentoline e mille carabattole strappate col baratto a un robivecchi, improvvisavi un pranzo in piena regola 23


per le bambole ch’eran sulla cassa, cui invitavo le piccole amiche, ch’eran solite farmi compagnia. D’estate poi raccoglievi noccioli di prugne e pesche, per farmi giocare nel vicolo fingendo di far festa, sul gradino di casa, con dolciumi che non eran né dolci né mangiabili. Eri tu la compagna preferita con cui passare le mie ore liete, specialmente al contatto del tepore dell’acqua preparata nel catino di rame per lavarmi in allegria. Le tue mani eran sempre delicate e la tua calda voce accompagnava ogni tuo gesto al tempo di una fiaba che mi portava altrove, in un castello lucente d’ori e splendide donzelle. Fosti tu a darmi il primo reggiseno, perché la pubertà era sopraggiunta, e la prima borsetta in pelle nera che s’apria come un libro e avea lo specchio. Allor c’era già Gery che ronzava a me d’intorno come l’ape al miele,

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ma io non dissi di quella passione che m’avea presa il cuore e la mia mente. Fosti la prima ad incontrarlo quando dal fronte ritornò con la ferita al piede zoppicante, e il tuo verdetto fu ch’era un parlatore assai loquace, che avea rapito il dono a un avvocato. Poi, quando la mia vita fu in pericolo e le telefonate susseguivansi per informarsi della mia salute, tu, disperata, non riuscisti ancora a dar risposta alle domande ansiose e fuggisti di casa, sulla soglia del portone d’accesso sulla strada, sperando dare pace alla tua doglia. Cicitta cara, giunta tanto avanti con gli anni ad un traguardo assai vicino, avrò saputo, almeno per tant’anni, darti una parte del tuo grande affetto e ricambiar l’amore che m’hai dato con la piena del mio cuore sensibile, che ha cercato mostrarti quanto grande fosse il bene che sempre io ho portato alla seconda mamma che vita mi ha donato?

Potenza, 6 dicembre 1997 – Notte (per la sua tata Vincenzina Lanza) 25


Tina Ti ricordo minuta e assai graziosa, quando improvvisa tu apparisti innanzi a noi ragazze, che alla fine dell’anno di scuola affrontavamo la fatica degli scrutini, con il cuore in gola. Il collegio era spoglio ed antiquato, ma i sussurri di tante giovinette rimandavan per l’aria lo stupore per quell’arrivo insolito e inatteso, che dava un colpo d’ala all’allegria. Ci chiedevamo chi tu fossi mai, con quell’aria spavalda e birichina, e perché mai fossi giunta tra noi sull’inizio d’estate, una mattina. Io fui più fortunata delle amiche, perché l’unica camerata disponibile era la mia, ove un lettino bianco a me d’accanto era rimasto libero e tu venisti a sistemarti celere, dandomi grande gioia e compagnia. Fu così che nel primo pomeriggio, dopo l’obbligatorio riposino, ci rintanammo a parlar fitto fitto nel vano del balcone assai discreto, per raccontarci intere le vicende. 26


E seppi ch’eri lì per affrontare, come noi, le fatiche studentesche, ma tu da privatista e noi da interne. In quel punto sbocciò quell’amicizia che non credevo sarebbe durata quanto l’intero arco della vita, pur con silenzi duraturi e alterni cui il lontano abitare ci costrinse. Dalla nebbia del tempo riaffiorano, quasi vestiti smessi da una panca, visioni antiche di rapidi incontri, pur sempre gai e carichi d’affetto. Ti rivedo davanti al grande specchio di casa mia, mentre provavi un abito sotto lo sguardo mite e sorridente della tua mamma e la supervisione del fratello Pasquale che, benevolo, accompagnava ed accudiva entrambe come tesori da non poter perdere. E ti rivedo ancora una mattina, quando felice uscivo da un emporio, col mio nuovo foulard nella borsetta, e tu vi stavi entrando, ma ambedue non avemmo altre gioie se non quella di ritrovarci e riabbracciarci, liete di poter dirci quanto ci accadeva della vita e dei sentimenti veri.

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La tua piccina, sorridente e bella, mi venne incontro un giorno pien di sole, staccando le sue mani paffutelle da quelle del papà, che la teneva. Seppi così che madre nel frattempo tu eri diventata e, per dovere del dì festivo, a casa eri a curare un buon pranzetto per accoglierli pronta al lor rientro. Piccole immagini di piccole donne che rammentano il ben voluto ed il presente in un momento della vita, quando c’è più passato che futuro!… Eppure possiam guardar serene all’uno e all’altro nella certezza di aver dato tanto ed aver ricevuto in par misura, sia tu nel tuo cantuccio, ch’io nel mio.

Potenza, 16 dicembre 1997 (per la cara amica Tina Lombardi Rizzitiello)

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Al mio papà Caro papà mio dolce, è forse un caso ch’io ti rammenti proprio questa notte, quando trascorsi son ventinov’anni da quel momento triste e devastante che ci strappo d’accanto quella donna ch’è stata la compagna tua fedele e la mia mamma cara e indispensabile? Eppur non è tristezza quel che provo, ma un affollar di sensazioni dolci che mi riportano al tuo caro abbraccio quand’ero piccolina e tanto lieta della nostra famiglia cosi allegra, cui sorridevan feste ed amicizie durate quanto il corso d’una vita. lo risento il calor della tua spalla cui appoggiavo la testina stanca quando mi sollevavi e mi stringevi per riportarmi a casa addormentata, dopo le corse ed i nasconderelli consumati tra i lunghi corridoi del Dopolavoro, dove i grandi avean danzato e conversato a lungo con tanta cortesia e un cerimoniale ora desueti, eppur tanto graditi alle signore, avvezze al baciamano e alle mille attenzioni mascoline. 29


Fu lì che vidi per la prima volta il tuo travestimento da attor giovane, povero in canna e con abiti stinti che creò dentro me paura e pena facendomi esclamar, tra tante lacrime, che il mio papà "non era un poverello"! E fu ancora colà che a Carnevale, ad una festa in maschera e coriandoli mi presentai sul palco, per mostrare il simbolo che io rappresentavo nell’abito prezioso in raso bianco che il sapiente pennello dell’artista di famiglia, quell’Italo Squitieri che tutti hanno ammirato per bravura, avea illustrato in macchine sfreccianti, intitolando l’opera e la bimba "Follia della velocità del Novecento". Gli occhi di tutti si appuntaron fissi su quella novità rappresentata, ma io rimasi spaventata a morte: mi rifugiai tra le tue calde braccia e nascosi il mio viso ed il mio pianto accanto al viso tuo, che m’incuorava a prender la medaglia, ch’era il premio alla prima bambina ch’avea vinto per la genialità ed il buon gusto.

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Or quel cimelio, che commemorava le nozze dei Savoia giovanissimi, fa bella mostra nel salotto buono in un astuccio di velluto rosso, a perenne ricordo di un momento di gioia e tema che mi vide avvinta a te che m’adoravi e ch’io adoravo. Quanta saggezza, quanta bonomia hanno aleggiato sempre sul tuo volto e con quanta pazienza sopportavi i ritardi del pranzo e l’affrettata preparazion di quella pasta al burro e di quella fettina arrosolata ch’erano il nostro cibo quotidiano, imposto dall’impegno assai pressante del lavoro di sarta della mamma! Tu non ti risentivi, non gridavi, non imponevi con la voce altera la legge del padrone, ma l’amore dettava ogni tuo gesto, ogni parola, e sapevi donarci l’allegria anche in momenti tristi e pien di pena. Come vorrei poterti avere ancora a me d’accanto, qui, per abbracciarti, come facevo allor, da bambinella, per sentire il profumo del tuo viso sempre sbarbato e riprovare ancora 31


il calore che dava al cuore mio l’affetto tuo si caro e protettivo da danni forza per amar la vita, accettando di essa ogni fatica!

Potenza, 7 febbraio 1998 – Notte

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Teresa Bella ragazza dai capelli fulvi e dai grand’occhi aperti su di un mondo che tu vedevi colorato in rosa attraverso una lente tua speciale, fatta d’ingenuità e misticismo, io ti ritrovo intatta a sessant’anni e passa da11’inizio nebuloso della nostra amicizia assai preziosa. Tra i banchi d’un’auletta molto buia, ti sogguardavo, per la simpatia che suscitavi in me, ma non osavo darti per prima la parola, avvinta ad una timidezza congeniale vuoi all’età e vuoi alla riluttanza di accettare un probabile rifiuto. Tu d’altro canto recitavi spesso, certo da inconscia, la tua bella parte di fanciulla studiosa e un po’ saccente che si eleva al di sopra della gente e non si degna dare confidenza a colei che, dal suo metro e quaranta, presumea divenire tua compagna. Tu sotto sotto ti sentivi attratta verso di me, forse perché ammiravi

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i miei neri capelli, che davvero erano uno spettacol da vedere. Fu la nostra carissima insegnante, quell’Edvige Speranza d’Italiano, che riunì le nostre sorti ignare, invitando mia madre a farmi andare per lo studio al collegio di Ferretti dove tu già eri ospite pagante. Scoprimmo allora quanto fosse bello potersi raccontare i propri sogni e ripetere insieme le lezioni per darsi forza e correggersi entrambe. Non eravamo poi così secchione da non ordire qualche marachella ai danni delle collegiali grandi che allor posavano a signorinelle. Quante battaglie abbiamo organizzato, con cuscini imbottiti con le piume, facendo svolazzare per la stanza e sulle nostre teste quei piumaggi ch’eran tracce di un’impertinenza vietata a ragazzine benpensanti! E quante merendine rubacchiate abbiam gustato tra un versetto e l’altro d’Iliade e d’Odissea o tra le norme 34


del verbo videor, che non volea proprio entrare nella testa a noi svagate! Poi la scena cambiò e fu la volta di trasferirsi dallo zio Michele, nell’oscura e assai scomoda stanzetta, dominata da un mucchio di “Riviste illustrate"sulle quali spendesti tant’ore per carpire le notizie che dal remoto mondo ti arrivavan, con il ritardo forse di qualch’anno. Mi fosti allora amica più di prima, divenendo per me la messaggera dell’amore sbocciato pel mio Gery e favorendo i miei segreti incontri con lui, che ti stimava e riveriva con inchini cortesi ed eleganti. Al mio rientro, timido e affannato, mi porgevi con garbo ed un sorriso la versione di greco o di latino, sulla quale tu sola avei sgobbato, ed io la ricopiavo per benino. Teresa cara, quando la grand’ombra discenderà su questa nostra vita, ritroverem la nostra fanciullezza, ci prenderem per mano e intrecceremo insieme ancora quei giochi interrotti 35


per andare colĂ , dove il Signore vorrĂ mandarci col suo grande amore.

Potenza, 1 marzo 1998 (per la cara compagna di scuola Teresa Bozza)

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Rosetta M’hai chiesto dirti Rosa e non Rosetta per cancellare dalla tua memoria ricordi poco lieti, assai legati a quel vezzeggiativo da bambina; ma mi parrebbe non aver più accanto la stessa mia compagna della scuola ch’ora rincontro con la stessa gioia, la stessa attesa d’una visitina dei tempi delle mie frequenti febbri di gola raffreddata o qualcosina. Mi ricompari innanzi sfavillante di tante cose viste e da narrare dei tuoi viaggi frequenti in quella Roma dove saresti andata ad abitare. Ed io vivevo coi tuoi occhi stessi le strade illuminate e le persone d’alto rango e cultura, che sovente andavi ad incontrare, col favore del tuo caro fratello, cui incipiente era l’ingresso in un segreto mondo di scrittori e poeti affascinanti. E ti rivedo col vestito rosso di pura seta, col fiocchetto al collo e con le bolle bianche, che a quel tempo era d’un lusso insolito e tu indossi 37


nella tua bella foto, che fa mostra nell’album dei miei più cari ricordi. Nell’angolino d’una bella stanza, velata da una tenda immacolata, c’impegnavamo con latino e greco e italiano su un tavolo Ottocento di sagoma rotonda ed intarsiato, finquando la stanchezza ci vinceva e vedevo apparire all’improvviso, come in magia, il mazzo delle carte sulle quali leggevi la mia sorte profetizzando tristi e lieti eventi, attenta a non calcare mai la mano per non offender le mie attese vane. Talvolta via Pretoria ci attendeva con le promesse di fatali incontri che colpissero il cuore ancora ingenuo con gli sguardi fuggevoli carpiti a qualche giovinetto intraprendente. Le foto delle attrici più avvincenti ammiccavan da quei manifestini di cui faceva incetta la domenica il terzo polo della nostra triade, per sognare nel chiuso della casa di assomigliare, per segreto incanto, almeno ad una delle tante stelle

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che davan lustro al cinema italiano, cui raramente potevamo accedere. Nere, ramate, bionde eran le chiome delle tre Grazie, cui avevamo imposto il nome allora in voga, da politica: Roma – Berlino – Tokyo ed ora ignoro qual posto a me toccasse nel terzetto. I riflessi dorati alla tua testa davano completezza d’un’immagine che richiamava il volto molto simile di Margareth, inglese principessa. Giustamente di questo andavi fiera e l’orgoglio aumentava quando un caso rinnovava per te l’accostamento, conferendoti un’aura nobiliare. Ma tutto questo smise all’improvviso, quando la Capitale ti travolse e Teresa tornò ai suoi trascorsi con i divieti soliti e scontati che strappavanle l’ore insiem passate. Or siamo ancora qui a volerci bene, noi due a rivederci molto spesso e la terza lontana, eppure vigile nel rinverdire quei ricordi adesso.

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Ad un’amica vera qual tu sei io voglio dedicare queste rime che, sebbene antiquate e poco serie, ridondano d’amore e nostalgia per un’età passata e pur presente in chi ha saputo vivere con slancio un affetto provato intensamente.

Potenza, 15 marzo 1998 – Domenica mattina (per la cara compagna di scuola Rosetta Russo)

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Rina Della nostra amicizia ancor rammento cose che sono note a noi soltanto e che l’oscura patina del tempo cancellerà, spegnendole per sempre. Forse ti sarà grato ch’io percorra con te la strada dei bei giorni andati, quando le nostre valli erano verdi e lucenti speranze ci eran date. Giungesti alla mia casa giovinetta, per apprendere l’arte del cucito: eri smarrita e davi l’impressione di chiederti che cosa ci facessi. I tuoi grand’occhi rimiravan tutto, nell’intento d’imprimer nella mente tutti gli oggetti e tutte le persone che vi abitavan, cui tu eri nuova; ma non fu lungo lo sbigottimento: noi ti adottammo con calor sincero e divenisti parte dell’intero universo di sarte e di maestra e di me, che vivevo insieme a loro le esperienze di vita e della scuola. Cosi iniziammo l’amoroso rito dei racconti più vari e più avvincenti 41


ch’io propinavo a voi ragazze, quando avevo appena visto in “Sala Roma" un film di quelli tragici e struggenti che inducevano al pianto e alla tristezza come quel mesto “Eterna giovinezza". Oppure, all’ora della colazione, arrivavan per tutti quei panini caldi e fragranti di forno odoroso e tonno, mortadella o salamini che mia mamma ordinava per donarvi sollievo e forze insieme al dur lavoro. Spesso le stanze risuonavan liete dei canti delle ultime canzoni che la radio effondeva a chiare note e noi ripetevamo a perfezione, qual più intonata, qual stonata appena. E cominciò per me una giostra nuova: tu mi ospitasti, con la tua famiglia affettuosa, carina ed accogliente, per farmi respirar l’aria tranquilla d’una casetta ch’era allor lontana dall’abitato della nostra gente. Potei conoscer Anna, Carmelina, la tua seconda madre e il caro padre, che mi offrivano quanto più potevan del lor semplice desco quotidiano. 42


lo apprezzavo ogni vostra attenzione e, nel desio di rendermi gradita, aiutavo Carmela nello studio e sistemavo la sua giacca bianca, tanto preziosa, ma che bisognava di qualche accorgimento per celare qualche trama sciupata. Allor cucii per lei delle taschine assai graziose, che la reser felice ed orgogliosa. Ella mi ricambiò con un sorriso, regalandomi due cuscini belli ch’ella stessa approntava nelle ore di calma e di riposo dei fratelli. Ricordo la gran pena che provavi per le attenzioni che la mamma tua le riservava come la più piccola, l’unica nata ancor dal ventre suo. E tu vivevi sempre con paura di commettere qualche marachella che suscitasse le sue ire ingiuste, con l’immancabil pena conseguente. E ti davi un daffare a ricoprire la voce della tua sorella Anna, che brontolando ed ammiccando spesso rivelava la propria insofferenza senza riserve e con molta imprudenza. 43


Poi questi momentacci trascorrevano e noi ragazze scendevamo allora a giocar presso la fontana, all’aria, od a correre tra i binari accanto della vicina Calabro–Lucana. Fu la tua casa che ci ospitò quando, l’8 settembre del ‘45, arrivaron le bombe su di noi dai pesanti aeroplani inglesi e americani, costringendoci a ripararci nella galleria 0 nel tunnel coperto dalla via. E fosti ancora tu, con Assuntina, a celare agli sguardi di mia nonna la visita segreta che mi fece · l’allora mio ragazzo, ormai marito, con le lacrime agli occhi, rivedendomi nel letto d’ospedale, dove avevano operato la mia appendicite. Ricordo il giorno che tu andasti sposa al tuo Michele, sempre tanto caro; la tu immagine bianca nello specchio cercava con gli occhioni il mio intervento perché togliessi la collana lucida che i parenti t’avevan posto addosso e tu disapprovavi, con buon gusto. E quando nacque il primo figlio tuo mamma mia fu vicina alla tua ambascia 44


e ritornò stravolta, raccontandomi che solo la tua forza e il tuo coraggio avean salvato il bimbo, condannato. Mia cara Rina, convien ch’io mi fermi. Mille ricordi ancor mi si affollano nel cuore e nella mente, ma a me basta che tu riviva nel segreto antro della memoria quanto abbiam vissuto insieme e con amore e lo conservi nel tuo scrigno privato con ardore.

Potenza, 18 marzo 1998 (per la cara amica Rina Trazzo Brienza)

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22 aprile 1934 Era un mattino chiaro e pien di sole. Avevo solo ott’anni e mi approntavo come di consueto, per la scuola, dove già frequentavo il terzo anno di quelle elementari che, in ossequio alla mamma del Duce, riportavan in alto, a grandi lettere, il suo nome: “Rosa Maltoni”, con palese ossequio al grande dittatore ed a colei che per suo vanto l’avea messo al mondo e che impartiva alle generazioni il nuovo verbo dell’educazione, con indiscussa veste di maestra. Appena sveglia, avevo provveduto all’acquisto del solito mio latte e del panino fresco da mangiare prima d’uscire dalla casa, sita in piazza Prefettura, in bella vista. E da sola approntavo le mie cose: una cartella di carton pressato con libro, quadernetti e portapenne, grembiule nero e collettino bianco, scarpette basse e calzettine chiare e quant’altro occorreva a una scolara.

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Non ero avvezza a tutte le attenzioni che le altre bambine ricevevano, perché sapevo bene che la mamma doveva riposare nella camera prima di metter mano al suo lavoro. Quand’ecco, all’improvviso, il suo richiamo, flebile, stento, mi raggiunse in sala, invocando il mio nome, per aiuto a qualche cosa ch’io non conoscevo. Corsi da lei senza interporre indugio con le gambette ch’eran sempre all’erta e la trovai distesa sul suo letto stremata, palliduccia e sudaticcia. Prese con forza la mia mano, stretta, e guardandomi fissa dentro agli occhi raccomandò che io corressi, rapida, dalla nonna Sofia, prima che ella raggiungesse la chiesa per la Messa quotidiana cui era sempre attenta. E le dicessi ch’ella immantinente, senza esitare e senza distrazioni, si recasse da lei, che l’aspettava per un’urgenza ch’era sopraggiunta e richiedeva il suo valido apporto d’aiuto ed esperienza assai provata.

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lo non attesi neppure un istante: pur ignara di quanto le accadeva, capii che mamma certo ben non stava e corsi via, per quelle scale note del Popolo, che mille volte al giorno percorrevo per le varie incombenze affidatemi da nonno Vincenzo che, quasi in gara con me stessa, mi dava sempre un termine preciso perché rientrassi entro quel breve lasso di tempo che impiegava la saliva ad asciugarsi a terra, a lui d’abbasso. Quella mattina poi non c’era il nonno a suscitare la mia corsa folle: c’era qualcosa in me che mi spingeva, che mi diceva di far presto e bene per incontrar la nonna sulle scale, prima che scomparisse nelle tenebre di Trinità, dov’ella si recava. L’incontrai ch’era giunta a metà strada, infilandosi un guanto in pelle nera e con la grande borsa che pendevale al fianco, per la consueta spesa. Le riferii il messaggio, trafelata, ma ella non raccolse 1’imperioso bisogno della sua presenza vigile:

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prese tempo dicendo che poi, dopo, sarebbe certamente stata a casa. Le parole di mamma rimbombavano nella mia testa, spaventata a morte dal rinvio annunciatomi ed allora, nonostante la mole sua imponente, cominciai a tirare la mia ava su, su, fin dove richiedevasi la sua presenza, ch’era ormai fatale. Sulla soglia del vano, dentro il quale la feci giunger col fiatone grosso, la sentii esclamar: “Madonna mia!” prima di chiudere il battente, forte, per impedirmi entrata e vista insieme. Ci fu fermento nelle nostre stanze: papà, qualche ragazza che correva avanti e indietro, portando dell’acqua calda, fasce pulite e panni bianchi e nessuno voleva dir cos’era. Fu lunga la mia attesa, ma alla fine potei entrare a rimirar, felice, quel bimbo rosa e biondo, sorridente, che riposava nel lettino bianco che tant’anni era stato solo mio e che adesso splendeva d’un velario calato per bellezza e per far ombra 49


al riposo del piccolo neonato, cui fui chiamata io a dare un nome ed, in ricordo di un bel film in voga, volli nomar Luciano, che a me parve bellissimo, elegante e un po’ vezzoso. Col tempo, appresi che la mia prontezza avea salvato il piccino nascente e, regalando a me il mio fratellino, m’aveva resa, quasi inconsciamente, la sua seconda, tenera mammina.

Potenza, 26 marzo 1998 – mattina (per il 64° compleanno del fratello Luciano: 22.4.1998)

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Alla mia compagna di banco La tua voce squillante, questa sera, mi ha riportato antiche lontananze ch’eran sopite, ma non certo spente in due cuori fanciulli ritrovati. D’improvviso, qual tuono in ciel sereno, la tua pena s’è aperta a me dinanzi e ti ho rivista quando, quindicenne, t’accingevi alle prove della scuola ed un tremore interno e mal celato faceati divenir pallida e incerta. Allor ti rincuoravo col sorriso e m ‘apprestavo a darti l’imbeccata dal primo banco, dove sedevamo, proprio accanto alla cattedra modesta cui la voce imperiosa del docente t’ordinava appressarti, a dare un saggio della preparazione assai recente e di quella remota, con perizia. Or son chiamata a un rinnovato ruolo d’amica e di compagna assai fedele che, quasi con la magica bacchetta, arrechi un po’ d’azzurro nel grigiore d ‘una vita angustiata e sconfortata.

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Rosetta cara, tu che sei sì pura da conservare intatta la tua anima, pensi davvero ch’io ti possa dare quella tranquillità che più non hai e che ricerchi invano da molt’anni che t’han provata in numerosi affanni? Avessi quel potere! Allor farei ancor volente da suggeritrice per indicarti il corso più felice da seguir nelle prove che t’attendono. Or non basta più il banco, non lo studio, ma se l’affetto serve per lenire, il mio è qui pronto a farti rinverdire, a darti il plauso che da me tu attendi, come di nuovo quindi cenni fossimo e belle e misteriose ore ci aspettino.

Potenza, 30 maggio 1998 – Notte (per la cara amica Rosetta Casalini)

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Il coro dell’Unitre Le guardo e non mi sembran più le stesse: son loro le mie allieve tanto care che seguon con pazienza ed attenzione gl’imbonimenti propinati e offerti da professori dotti ed amorosi, con l’intento lodevol di trasmettere qualche elemento della loro cultura? Le guardo e le ritrovo assai mutate: una luce brillante c’è negli occhi e qualche mano trema per timore d’errare una battuta o intonazione e sfigurare nell’insiem canoro cui a lungo han penato per riuscire. Son bellissime, nella lor tenuta d’abito lungo, nero, sobrio e fine che nel ricamo trasparente e austero lascia passare appena un po’ il biancore di braccia avvezze ad ore di fatica e di teneri abbracci maritali. In fondo, nel bell’abito di gala, spiccano le figure altere e attente di quei pochi signori che han trovato il coraggio di unire le lor voci a quelle femminili, che son tante.

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Su tutti spicca alta la figura del tenore dai toni travolgenti, cui sono destinati, per la bravura, i brani ch’entusiasmano la gente. Dietro il leggio, ai piedi della scala, la maestra sorveglia, dirigendo con gesto ora solenne or più addolcito l’entrata successiva dei gruppetti che cantan da soprano o da contralto e fan da contrappunto o da falsetto. Occhi vivaci e intelligenti, dolci, ora timida eppur severa insieme, la Signora Colombo mette in luce la sua provata maestria docente, sia nell’arte del canto che nell’altra di donar grazia e senso alla scena con l’eleganza del suo portamento e con tolette svolazzanti e lustre. Gli astanti son travolti dalla gioia ed io stessa, in sordina, la mia voce unisco al coro che, nel suo crescendo, ci trasporta in un’aura sì irreale. Applausi, elogi, fiori ed entusiasmo accompagnan gli accenti terminali e si vorrebbe udirli ancora e ancora, fino all’“a solo” del bravo soprano 54


che con esperta mano ed abil opra ha dato vita ad un tale miracolo.

Potenza, 3 giugno 1998 Saggio finale dell’anno accademico 1997–98

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Rimpianto L’ore trascorron lente e solitarie. Il brusio dalla strada più non giunge e tutto è calma a me dintorno, e pace. Il cuore mio non coglie alcun conforto da tanta ritrovata acquiescenza della natura e della lunga striscia d’asfalto, quasi priva di motori, puntellata qua e là da qualche luce che occhieggia tra le cime delle fronde. Gery riposa alfine, dopo un giorno trascorso in un travaglio soffocante d’indicibile caldo e d’oppressione. Rosa è lontana, ma l’avrò più mai a me vicina a sussurrar segreti e tesser sogni e chimerici incanti? Vuoto si para a me dinanzi il tempo e tremo un avvenire incerto e buio, laddove m’attendevo lietamente trascorrer gli anni al tenero calore della figliola e del marito accanto. E mi sovviene una lontana estate, quando a quattordici anni mi recai 56


nella città dei Sassi, dai miei zii e dai cugini, che cotanto amai. Gli zoccoli pesanti dei cavalli risuonavano presto sul selciato portando alle campagne i contadini per la pesante e lunga lor giornata. Mi sentivo cullar da quelle ruote di carri trainati stancamente e, pur destata da un profondo sonno, mi riaddormivo col seren conforto delle mie care cuginette al fianco. Non s’eran deste per l’usato suono cui s’erano avvezzate da tant’anni e che sereno e calma dava loro quando l’alba a venire era lontana. Al risveglio, immancabile il sorriso della dolce zia Tina era lì pronto, mentre porgeva a me con tanto amore un buon caffè bollente col buongiorno e il bacio sulla fronte. Walter veniva fuor dalla sua stanza con capelli arruffati ed il pigiama stazzonato dal caldo e dal sudore; zio Mario scalpitava per la spesa, che andava fatta presto, prima ancora 57


che il caldo gli togliesse la possanza e la voglia di un carico pesante. Tutti eravamo lieti e prontamente s’organizzavan l’opre per il giorno e si pianificavan le serate. 10 con la mia pazienza certosina ripiegavo le tele in bella vista riponendole nella cassa buona per il corredo della prima figlia, cui era imposto il nome Wanda e ch’io ammiravo pel canto suo soave di soprano leggero ed elegante. Wilma e Willy completavano inoltre il quartetto inventato da zio Mario per l’originalità dell’iniziale che dovea aver sapore d’esotismo e di raffinatezza senza pari. Le scale del portone erano a noi la scena per i canti e storielline da offrire agli abitanti del palazzo come prova d’assaggio per futuri palcoscenici che già nella mente sognavam di calcare con successo. La sera poi, quando il riposo ambito giungeva con un fresco assai gradito, 58


le sedie della casa prendean posto sul marciapiede, per discorsi ameni e qualche salterello con la corda. O mio passato tanto caro e amato ed antiche sembianze ormai perdute, mi rimane di tutti un gran rimpianto per quell’età sì semplice e gioiosa che non ritorna, ma è segnata a fuoco nel mio cuore nostalgico e voglioso di ricrear quell’aura sì affettuosa che mi avvolgea nel suo magico ammanto.

Potenza, 27 luglio1998 – ore 3,36 (in ricordo della famiglia di zio Mario Petracca)

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Ugo Hai compiuto propri’oggi novant’anni e ti ha meravigliato non udire la voce mia serena, che augurava a te la lunga vita e l’ironia con cui guardi te stesso e il mondo intero. Il telefono, tardi, ti ha portato il ricordo di chi ti ha sempre amato quale cugino caro, ma bizzoso, di buona compagnia, però iroso. Quante volte ho penato nel timore di un tuo ritardo al pranzo quasi pronto cui di ridire certo non mancavi, nonostante l’impegno assai profuso da mio marito, che ti accontentava! E quanti pasti furono disdetti all’ultimo minuto, quando ormai la pazienza del cuoco era allo stremo ed i pretesti tutti noti e usati! Or che ti aggiri solo per la casa, col fedele bastone che ti aiuta nel passo claudicante per la scesa sugli sci che a Cortina avei ripreso, con chi lamenti la pastina scotta o il troppo o il poco sale, mentre allunghi 60


con acqua minerale il vil calore che riscalda il palato oppur la lingua? Grande è la casa vuota in cui tu vivi in una Roma che per te è distante e il tuo tempo trascorri tra le carte che immagino confuse a te dintorno, mentre ricerchi un foglio interessante ch’era lì proprio solo qualche istante prima che ne sentissi la bisogna; oppure prendi un quadro ritrovato all’improvviso, come per miracolo, e, portandolo presso del balcone, nella luce più adatta, lo rimiri e rammenti con tenero cipiglio il giorno e l’ora dell’ispirazione che aveva spinto quella mano esperta del pittore sicuro a dargli vita, con i colori giusti, equilibrati, ch’esprimessero il meglio della scena. E ti soffermi a lungo a contemplare il paesaggio ch’or ti sembra assai più indovinato del momento stesso in cui Italo tuo l’avea creato. Poi lo riponi in un posto sicuro per poterlo riprendere al più presto e per rivalutarlo a un compratore che verrà di li a poco, ad un dipresso. 61


Ma tra libri, giornali, memoriali raccolti con pazienza certosina da chi ha lasciato a te le sue vestigia, sarà facile ancora ripescare quell’opera testé da te apprezzata e nascosta con cura e con amore per un uso che sia davver migliore? Or la memoria tua, tutta compresa nel rendere concreto un grande impegno preso con tuo fratello, per dar luce ad un ambizioso suo disegno, è tutta intenta nell’adempimento dell’autobiografia del grande artista cui l’editore ha dato compimento rispettando la voce dell’autore che volle nominarla, pel futuro, "Il cavallo di Metaponto", sicuro che il tuo amore per lui avrebbe vinto creando l’opra cui lui affidava se stesso forse più che ad un dipinto.

23 agosto 1998 – Notte (per il cugino Ugo Squitieri)

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Nostalgia di Aurelio La sabbia tripolina ti ricopre ormai da tempo, ma lo spirto tuo aleggia al soffiar rapido del vento, all’aura calda del sole africano e nelle notti fredde. Eppure ancora lo sento a me d’accanto, come allora quando cantavi a me le dolci nenie perché mi addormentassi, mentre lieve della tua mano il tocco dolcemente cullava il mio lettino. La mia mamma in soggiorno curava il suo lavoro. Dopo un buon tratto s’affacciava, piano, per spiare il mio sonno e la tua veglia. Quando nella penombra distingueva le due teste poggiate sul cuscino, trovava te dormiente e me ben desta che, col ditino sulle labbra, a lei facevo cenno di tacere, al fine di tutelare il tuo dolce riposo. Mi risuona assai spesso nella mente e nelle orecchie quel motivo amato, soffuso di una tal malinconia da indurmi quasi al pianto, che ispirato t’era da un’operetta molto nota: ... “Bambolina per amor il tuo nido fa!”... 63


Lo ripetevi spesso sussurrando ed io partivo sul cavallo alato della mia fantasia, via per un mondo dove tutto era tenue e delicato. Con un volo negli anni mi rivedo sul tavolo di sala in casa tua, seduta come bambola, a dividere con te ed i tuoi cari un mandarino dando uno spicchio a tutti, lietamente, per accorgermi poi che proprio vuote eran rimaste alfin le mie manine; ma con sorrisi teneri e commossi tutti tornavan quegli spicchi dati ed io, felice e imbarazzata insieme, sentivo d’esser ricca e molto amata. Talvolta lì, su quello stesso tavolo, accennavo passetti d’una danza o una canzone lieta e birichina appresa con sveltezza la mattina. I vostri visi, tutti a me dintorno, sembravano ammirati e lieti assai e le mani battevano entusiaste tra i vostri elogi che m’incoraggiavan. Un giorno poi per l’Africa partisti (che rimandato a noi più non t’avrebbe!..), ma spesso ritornavi a visitarci, colmo di doni e di racconti arcani 64


accompagnati dalle note tristi dell’ultima canzone parigina che dalla tromba di un vecchio grammofono portava a noi la voce assai squillante della negretta Baker Josephine. Chissà se un tempo ancor c’incontreremo per ricantare insieme quelle nenie e risentir nel cuore quel legame di tenera armonia che ci avvinceva! Anche se quelle date son lontane, io le rivivo come il dì presente, sperando che il ricordo non sia vano e mi regali di potere ancora riabbracciare il mio caro parente.

Potenza, 31 ottobre 1998 (a ricordo del cugino Aurelio Squitieri)

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Memorie Caro compagno della verde etade, sedevi nella fila a me d’accanto ad un sol banco indietro ed io potevo, senza voltare il capo, percepire l’irrequietezza tua e il desiderio d’evadere da quegli angusti muri che soffocavan giovinezza tua. Avevi gli occhi vispi e birichini, pronti a carpire l’attimo fuggente del docente distratto, per ordire o qualche marachella o impertinenza che ravvivasse l’atmosfera tetra di latino, italiano oppur di greco. Eri bello, scattante e consapevole d’esercitare un fascino speciale sulle compagne timide e ritrose che fingevan trovarti un po’ antipatico. Spesso qualche biglietto assai confuso portavati notizie di quel dato che dalla mente tua era fuggito per la risoluzion di matematica, oppure qualche pezzettino appena d’una torta arrivava di soppiatto a placare il languor che ci prendeva a mezza mattinata “all’intrasatto”. 66


Non so per qual motivo ci perdemmo nella strada maestra del sapere, che diede a entrambi l’onere e l’onore d’essere io docente e tu dottore. Ti rividi già grande, con famiglia, accanto alletto della tua mammina che soffriva in silenzio e con dolcezza, confortata e curata dalla Tina. Ti ritrovai pimpante e ancor piacente, capace di narrare con ardore i tiri architettati alla tua nonna per spillarle danaro e darle in cambio una cambiale “a vista” con la firma ineccepibile da universitario. Ti ho incontrato poi quando per caso, preside fui della tua Carolina, e già scartoffie e faticosi impegni avean steso la patina del tempo sulle nostre sembianze e sui capelli. L’amicizia rimase sempre intatta e genuina e candida la gioia di rivedersi e potersi narrare gli anni trascorsi e le care memorie. Or che la vita ci ha portati avanti con l’età e con quella illusione 67


che ci accompagna (...amica assai fedele!) d’essere ancora intatti, pari a un giorno di gioventù trascorsa troppo in fretta, io ti rivedo sempre a me dinanzi come quando il futuro era lontano e l’avvenire colmo di speranze da scoprire e da vivere in letizia. Da un cuor che non cancella i suoi ricordi accetta questo tenero pensiero e conservalo in cuore con affetto, come tornati fossimo a quel tempo di gran spensieratezza e di diletto.

Potenza, 26 novembre 1998 – Notte (per il caro amico Antonio Lombardi)

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Emozioni Piccina mia, or ora ho terminato di penare e di piangere una storia, che la televisione ha programmato, di violenze gratuite sopportate da bimbe belle, ingenue e delicate che nulla al mondo mai avean commesso, ma percosse e insultate erano spesso, finendo col sentirsi responsabili di colpe inesistenti e meritevoli pertanto d’esser perseguite da sorte ria e persone ingannevoli. Quanto spietata m’è apparsa colei che interrogava una giovane vittima, quasi incurante delle calde lacrime che dagli occhioni suoi neri e sbarrati colavano copiose e miserevoli! Questa narrava d’aver sopportato percosse quotidiane inflitte a lei da un barbaro patrigno, cui la madre molto timidamente ribellavasi, vuoi per sottomissione che timore di non aver alcuno protettore. Schiaffi, calci, cinghiate e scudisciate aveano tolto a quella fanciullezza

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il senso della vita e del diritto d’esser lieta e giocosa coi suoi simili. Allora, da quattordicenne, fuggì da quell’inferno senza tregua, rifugiandosi, paga, tra le braccia di un giovane che davale conforto con 1’illusione di un porto sicuro cui approdare dopo tanti torti. Si ritrovò tradita e tra le braccia stringeva una bambina appena nata, da lui avuta all’età solamente di quindici anni, pochi e tormentati. Recuperò il rapporto con la madre, che sola era rimasta, con il figlio del malvagio marito, ormai scomparso. Temeva ripercorrere la strada che già era stata della mamma sua e rifarsi dell’odio accumulato vessando la sua piccola mal nata. Le fu fortuna incontrar le persone che la guidaron su un nuovo cammino, facendole trovare quell’amore che sembrava in lei spento dal destino. Così, dopo diciotto mesi appena di psicoterapia, era sbocciata 70


dall’alma triste una nuova persona, tesa a protegger la sua creatura e pronta a darle appoggio e forza insieme e la felicità a lei negata. La mia pena conforme era alla sua e mi portava, un’altra volta ancora, a rivangare quelle sofferenze nascoste nel profondo del tuo cuore, che tu ricacci in gola ogniqualvolta un ricordo, un bagliore ricompaiono dalla tua infanzia cupa e senza gioia, rimasta per me ignota e che tuttora non ho il coraggio d’indagare a fondo per la paura di poter svegliare un dolore che sento ti perseguita e che ho cercato sempre di placare con tanta tenerezza e tanto amore. Quando queste mie righe leggerai, pensa che io son pronta ad appoggiarti in qualunque maniera tu vorrai, se appena pensi di poter salvarti dall’oppression che sempre ti tormenta e dal senso di colpa che t’affligge per colpe che non hai, ma altri t’inflissero rendendoti insicura e con quell’ansia di doverti “comprare” in qualche modo l’affetto ed il diritto alla letizia.

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Bambina mia, sei cara, dolce, amata da me, dal babbo e da quanti ti notano, non perché “amore” tu 1’hai guadagnato, ma perché pura e limpida tu sei qual acqua di sorgente che a noi porta sol ristoro, conforto e forza assai.

Potenza, 13 gennaio 1999 – ore 23.30 all’adorata figlia Rosa Maria

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Ricordo Teresa, col rosario tra le mani, voltavasi a mirar 1’ingresso a scuola perché il suo fratellin non arrivava e di chiudere il vano era già l’ora. Quasi attratta dall’umile orazione, la scolaresca tutta bisbigliava e molti sguardi rimiravan fuori vedendo che il più discolo tardava. Quand’eccolo arrivar, lieto e sornione, con l’aria assai spavalda e certo ignara della pena a noi tutti procurata; e non si sogna di prendere posto, ma, con fare ammiccante a questo e a quello, le lunghe gambe porta un poco in giro per la piccola aula troppo angusta. Inizia la prim’ora di lezione e Michele ci guarda un po’ smarrito, quasi a chiedere amore e comprensione perché il dì precedente avea finito col chiudere i suoi libri e andare a spasso fidando nella sorte e nei compagni che non potean negargli l’imbeccata. Così, tra giorni chiari e giorni bui, trascorreva il terz’anno di liceo 73


e ci portava ad un traguardo ignoto oltre il quale la vita ci aspettava. Cinquantacinque anni son trascorsi e tu solo da poco hai ormai varcato la gran soglia dell’ombra, per attendere tutti gli amici tuoi e riformare con lor la stessa classe della scuola. Per me l’oggi è ancor ieri e benedico la sorte che ha concesso a me d’avere davanti agli occhi la spensieratezza d’un ragazzo carino e bricconcello che sapea dare e chiedere conforto con sguardo sorridente e simpatia.

Potenza, 14 maggio 1999 (per il caro compagno di 3° liceo Michele Bozza)

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Natale ‘99 Quel Bimbo, che ha donato la sua vita perché la nostra fosse casta e pura, ritorna ancor quest’anno m mezzo a noi col messaggio d’amore e di perdono. Riporta ai nostri cuor l’antica gioia, quando l’attendevamo con tant’ansia e allestivamo, al suon di ciaramelle, la mangiatoia per il suo riposo. Modeste eran le luci che splendean nell’arco del presepe preparato, ma ai nostri occhi usi alla penombra apparivan fiammanti e rilucenti. Timorosi ed attenti occhi di bimbi non perdeano un sol gesto di quel rito e le lor bianche voci ripetevan le nenie, apprese da un racconto avito. Le mani del mio babbo, delicate, ritoccavano l’opera ultimata: la pastorella, il gregge, la casetta erano posti in luoghi più adeguati, per dare loro almeno la certezza di non cadere dalla cartapesta.

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Rami verdi raccolti il giorno prima incrociavan le fronde in un’arcata che richiudeva, con malizia artata, un verde prato di muschio raffermo. Un rosso drappo ricopriva infine le gambe al tavol preso alla bisogna ed un bell’angel bianco e un po’ dorato indicava la strada con bel garbo. Gli zampognari, accorsi alla chiamata, di note dolci e arcane ci allietavan e qualche lacrimuccia sulle gote mostrava chiaramente l’emozione. Or le case risplendono di luci, alberi enormi fanno di sé mostra, sfavillano di scatole lucenti e di fiocchi le sale apparecchiate, ma la gioia serena di quei cuori che soffrivano per il Bambinello, costretto a ricoprirsi d’umil panni, è appannata da un’ansia assai vorace del regalo richiesto ed ottenuto, del videogioco e dell’arma segreta, mentre in un angol, triste e già reietto, il presepe richiude le sue ali che han potuto librarsi un sol momento.

Potenza, 16 dicembre 1999 76


Una voce nella notte Una voce nella notte, calda, carezzevole, invitante, risveglia sogni sopiti di fanciulla: strade, polvere, sole, spazi, stelle, ampiezze, montagne, luna, libertà, lontananze. Armonie soffuse, immagini sognate, sogni perduti riaprono il mio cuore alla poesia, all’amore, all’alba sfioccata di sole, al tramonto che muore. Mi elevo in sfere dorate, incontaminate, dove il corpo è leggero e l’anima lieve s’immerge incantata. La vita risorge, ritrova ritmi perduti, melodie appassite testé rifiorite per un vago futuro dove il tempo rinasce.

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Un’ala è spuntata per un rapido volo verso un domani nuovo, che rivive il passato con passo felpato, quasi in timore che il sogno svapori, svanisca, ahimè, intanto e spenga l’incanto d’una notte d’estate.

Serriere, 1 luglio 2001

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Fragilità Parole, parole, parole si affollano nella mente. Svolazzano, si scompigliano in vacui suoni, si perdono; poi tornano a frullar come farfalle, ad intrecciar le loro carole sì da formare un lieve, magico serto. Un pensiero prende forma e senso, una frase… e l’uomo non è più solo: può leggere sé stesso e capirsi.

Serriere, 1 luglio 2001

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Abito azzurro Ti ho visto penzolare dalla gruccia nel negozietto carico di orpelli. Occhieggiavi tra gli altri tuoi compagni per invitarmi a volgerti i miei occhi. Azzurro mare con la bianca spuma sembrava il tuo colore e m’invitavi a provar su di me l’effetto vero che non potea mancar di farmi altera. Ti presi, t’indossai, m’innamorai all’istante di te ti volli mio… ed or ti sfoggio priva d’ogni orgoglio perché l’effetto non è più quel ch’io 80


aveo previsto al tuo primo contatto e l’illusion d’una sirena in mare se n’è volata dalla mente mia.

Serriere, 13 luglio 2001

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Incanto È tutto verde intorno a me e l’azzurro è il mare giù, nel luccichio della luce del sole che inghirlanda di mille faci la natura intorno. Gli occhi s’abbaglian di un bagliore nuovo e cercano riparo nella mano quasi visiera al lucore d’un simil splendore. L’ora è serena e molce l’anima stanca di pensieri e di parole Il tempo è fermo, non scorre col ritmo di sempre e mi regala un attimo infinito di dolcezza e di tregua.

Serriere, 27 agosto 2001

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Tristezza Dove son più la gioia, l’entusiasmo, l’attesa che colmavano i giorni miei passati? C’è vuoto nel mio cuore e a me dintorno e l’avvenire è triste e desolato. Quando il mio letto accoglie le membra per dar loro il riposo e la quiete, il panico mi assale ed il tremore pel morbo che può togliermi il compagno della mia vita intera e dell’amore. La figlioletta m’ama ed è contenta d’udir la voce mia e del suo babbo, ma può una lontananza così grande esser colmata da un suono soltanto? Non sento più quel palpito di vita che m’ha fatto affrontar mille perigli, superandoli tutti con orgoglio, in attesa di nuovi e duri scogli. Ora m’attende sol l’ultimo passo, che mi dà pena e tormento pesanti, pensando al buio dietro di quel sasso che sempre toglierammi il dì dinanzi. 83


Come sarà l’addio da questa terra e dai miei cari che non vedrò mai? Vorrei la mano della mamma mia che si allungasse per accompagnarmi e non farmi sentir sola e sperduta quando sarà il momento d’incontrarla!

Potenza, 2 luglio 2002

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UNA VITA PER L’ARTE - ITALO SQUITIERI (Potenza, 1907 - Cortina d’Ampezzo, 1994)

Mi aggiro per la casa e mi soffermo, col cuore traboccante di nostalgia, a rimirare le tele che il mio amato cugino Italo Squitieri ha dipinto con occhi trasognati e mano ferma e sicura. Lo rivedo accanto a me, proprio qui, nel soggiorno, quando, contemplando le sue opere, mi confidava che era la sua più grande consolazione sapere che un giorno, al tempo della sua dipartita, ci sarebbero stati nuovi occhi, nuove menti a penetrare lo spirito della sua creazione, a bearsi di quelle immagini che avrebbero prolungato e fissato per sempre il momento del suo passaggio. Ci sedevamo a tavola per cena e l’onda dei suoi ricordi, fluendo dalla sua voce dolce e suadente, ci trasportava con lui in luoghi or vicini e noti, or lontani, or lontanissimi, ma pur vivi per noi come avessimo vissuto insieme le sue esperienze. Un amore sviscerato per la “sua” Potenza traspariva da ogni parola, da ogni gesto, da un termine dialettale ormai desueto, dalla colorita descrizione di personaggi cari alla sua fanciullezza: lo stesso amore lucano che, insieme con una memoria vigile ed un’anima da artista, trapela nei suoi ritratti e nelle sue composizioni. Figure e luoghi della nostra terra, ormai remoti o scomparsi dalla memoria degli uomini, dominano la sua pittura con le loro caratteristiche più salienti: la donna aviglianese col 85


tipico copricapo di seta pensante bordata di ricami, fissato ad un legnetto e ripiegato dietro le spalle in pieghe rigide e ben stirate; le paesane alla fontana che, mentre la rocca si riempie con compiacente chiocciolio, si scambiano confidenze e pettegolezzi dell’ultim’ora; il pastore che, dopo aver munto la sua vacca, risale stancamente la scala della stalla, curvo sotto il peso del secchio colmo di latte; il vagabondo lacero che si piega sulle deboli ginocchia per porgere al suo cane, unico e fido compagno, le briciole di uno stento pasto. La passione per la pittura, la ricerca del bello, l’amore per la natura, il bisogno di affinare la tecnica e trovare una personale forma di espressione lo vedono a Pavia, allievo della scuola d’arte diretta da Giorgio Kiernek, poi a Brera e quindi a Parigi, negli studi dei più noti pittori di Montparnasse; a Roma, sulle scalinate di Trinità dei Monti ed in via Margutta, sempre in compagnia della cassetta dei colori, della matita e della tavolozza, per annotare una fugace illuminazione, uno squarcio di cielo rosseggiante al tramonto, le movenze leggiadre di una fanciulla, da riprendere e sviluppare nel chiuso della sua stanza. Ugo Moretti annota nella sua introduzione alla monografia “Squitieri”: “…si guarda intorno con occhi lavati: nella confusione dei mediocri scopre il gigante. Un uomo solitario e ardente, un altro esule da una terra povera come la sua, Mario Sironi… da Sironi accetta la direzione dello stile, rifiuta la meta dei contenuti”. Baalbek, Aleppo, Beirut, Tripoli di Siria lo accolgono nelle calde notti estive e nelle assolate strade fiancheggiate da misteriose e tipiche costruzioni, cui le appannate grate fan da scudo ad esistenze segrete ed inaccessibili. 86


Lo spirito inquieto dell’artista non desiste per questo dal suo proposito: egli riesce a varcare quelle soglie vietate, a trascorrere sotto arcate ombrose, per fissare sulla tela volti delicati di donne velate, scorci invitanti, giardini lussureggianti in un cortile celato alla vista dei passanti. La guerra, col suo rombo di cannoni, lo vede in brillante divisa da ufficiale di artiglieria, a Bra. E Potenza riapre le sue braccia al figliuol prodigo, che scorazza sulle sue montagne e per le valli con nuove apparecchiature: sono trespoli e metri e binocoli, utili a tracciare la carta topografica del paese per la casa editrice De Agostini di Novara, da trasmettere al Governo impegnato in operazioni tattiche. Poi la vita lo ritrova sulle Dolomiti: il biancore delle nevi, la cui ebbrezza ha già sperimentato sulle piste della Sellata e di Roccaraso, lo incapsula in un abbraccio abbagliante e pone un punto fermo al suo vagabondare. È solo, ma si sente padrone del mondo. Cerca una casetta dove sviluppare il suo genio e rendere inviolabili se sue folgorazioni: sono ore ed ore di lavoro dinanzi al cavalletto, dimentico delle più elementari necessità. I morsi della fame lo richiamavano alla realtà, ma perché perder tempo a preparare il pranzo, quando ci sono tante immagini da vivificare, tante bellezze da imprigionare? È bene mettere in un pentolone una buona quantità di fagioli a borbottare pian piano, fino alla cottura, per star tranquilli qualche giorno. “Ormai saranno pronti, andiamo a vedere!”. Quale spavento invade Italo quando, alla resa dei conti, si accorge di non possedere tanti

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recipienti quanti ne occorrerebbero per contenere l’enorme quantità di legumi, che hanno invaso la casa! Cortina d’Ampezzo diventa allora la sua seconda patria e la mano instancabile trasferisce sulla tela la maestosità delle cime di Lavaredo, che si stagliano eterne contro un cielo terso ed azzurro o plumbeo e minaccioso, la poesia dei tabià dal tetto spiovente ed innevato e dal legno corroso e tarlato dal tempo, cui fanno compagnia un alberello sparuto ed un cavallo alla pastura. Inizia la danza dei grandi amici che fanno coro alla sua esistenza: Ernest Hemingway, cui sono dedicati un ineguagliabile ritratto ed un’intensa raffigurazione de “Il vecchio e il mare”, lo vorrebbe con sé a Cuba, per proseguire il rito delle grandi bevute, dei canti di montagna e del lavoro solitario. Partendo, porta via due paesaggi alpestri che gli faranno compagnia fino alla fine, sul camino della villa di Finca Vigía. Indro Montanelli lo invita a scegliere per lui e per la moglie Colette Rosselli la residenza invernale, che avrà un finestrone a giorno affacciato su un paesaggio stupendo e due comode poltrone ai lati, ricoperte da una morbida e calda pelliccia. La marchesa Dianella Selvatico Estense, poetessa, scrittrice e traduttrice di fama internazionale, intreccia con lui quel dialogo culturale e fraterno che durerà ininterrotto per tutta la vita. E la pittura si rinnova, si fa “materia”, secondo una definizione a lui cara: le rocce, le superfici scabre e porose lo attraggono irresistibilmente ed egli ne fa cornice ed incastro, entro cui un improvviso ed inatteso “Paesaggio mediterraneo” dai colori caldi e smaglianti richiama all’amore per la terra del Sud, o il volto immaginario e ieratico di “Esara da Metaponto” dallo sguardo cupo e 88


profondo parla un linguaggio arcano, o in cui racchiudere un “Paese giorno e notte” ispiratogli dalla incisiva poesia di Mario Trufelli. La sua febbrile attività e la fama sempre crescente lo portano ad allestire mostre qua e là per l’Italia. Le tele più valide ed apprezzate prendono la via dell’esilio: in Cina, Giappone, America, Australia ed in vari Paesi europei le più prestigiose collezioni pubbliche e private si arricchiscono delle sue opere. Critici d’arte e scrittori famosi recensiscono la sua monografia pubblicata dalle Edizioni Mediterranee di Roma nel 1971: Ugo Moretti, Giuseppe Berto, Indro Montanelli, Dianella Selvatico Estense mettono a nudo la sensibilità, il tatto, la raffinatezza, l’indipendenza dell’uomo e dell’artista. Il ciclo “Il potere”, realizzato nell’arco 1973-1979 e presentato nel 1980 alla Villa dei Dogi Contarini a Piazzola sul Brenta, quindi a Palazzo Barberini di Roma nel 1982, alla Maison des Arts di Strasburgo ed alla Galleria Schumann di Zurigo nel 1983, illustra in ventisei dipinti (cui più tardi viene aggiunto il ventisettesimo), con ironia ed acuto senso di osservazione, le varie forme di potere della civiltà contemporanea: “Capitani d’industria”, il Clero, il Sesso, la Stampa, Forza Armata, la Giustizia, il Petrolio, Televisione, la Storia, Ideologie, l’Oro, l’Automobile, le Religioni, i Sindacati, Uomini di scienza, la Mafia, la Pubblicità, gli Intellettuali, l’Arte, il Totalitarismo, la Macchina, i Diplomatici, i Politici, Cinema, Terrorismo, il Presidente. Ad esso è dedicata la pubblicazione dallo stesso titolo, di Italo Carlo Sesti, edita nel 1980 da “Studio 23 – Cortina”, sotto l’egida della Regione Basilicata, con scritti di Alberto Bertuzzi, Renato 89


Civello, Giancarlo Iosimi, Domenico Iavarone, Mario Portalupi, Paolo Rizzi, Camillo Semenzati. La “Scena illustrata” gli dedica un intero inserto, commovente per intuizione e profondità d’interpretazione. Italo è ormai consacrato “Maestro” e il Bolaffi pubblica le sue quotazioni. Viene dato alle stampe a più riprese un calendario che riproduce le sue opere più significative, dove ogni tono, ogni sfumatura, ogni contrasto reca tracce evidenti dei suoi viaggi: in Spagna, in Tailandia, in Corsica, sulle sponde africane e nelle splendide isole del Mediterraneo. Eppure, come scrive Ugo Moretti, “… non è possibile scindere la pittura di Squitieri dalla sua origine lucana, che è la determinante della sua personalità”. Il 1983 lo rivede a Potenza in una splendente mostra presso la Galleria Galasso “Il segno”. Ed io, che lo avevo visto nascere pittore, lo ritrovo arricchito, sicuro, folgorante nelle sue “teste” misteriose e altere, nei tratti rubati ai bassorilievi di Petra, nelle chiese toscane avvolte in una luce dorata. Il Comune della nostra Città acquista il quadro “Interrogativo di una finestra” da consegnare al Presidente Pertini in occasione della visita potentina. Nell’ombra, sempre presente e sempre pronto a prevenire o soddisfare ogni sua necessità, il fratello Ugo, il suo “alter ego”, che condivide con lui ogni attimo della sua esistenza, gli alti e bassi di una carriera vissuta con passione e amata fino al sacrificio. Altre mostre, altri incontri lo riportano tra noi.

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La città di Melfi, in una memorabile serata organizzata dal Rotary Club, gli dedica una targa coniata apposta per lui. Gli amici antichi e recenti lo abbracciano, lo festeggiano, gli fanno corona. Il tempo passa e lo trova piÚ stanco e piÚ provato, ma no fiaccato nello spirito. La sua gioia di vivere si manifesta in una esplosione di luce e colori, in un ringiovanimento della sua ispirazione: sono finestre calcinate ed imposte divelte, rese luminose e colorite da gerani, verbene, ciclamini sbocciati in vecchi barattoli arrugginiti o in ciotole sbrecciate, sono il ritorno della primavera, di quella primavera lontana rivissuta dagli occhi di un vecchio fanciullo che è trascorso, lasciandosi dietro una scia di tenerezza e di amore.

Potenza, maggio 1998

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