INTRODUZIONE GENERALE
Obiettivi:
Gli obiettivi che intendo raggiungere in questo lavoro di tesi sono: -Accrescere il livello informativo dei patrimoni architettonici e dei beni culturali -Estendere l’efficacia comunicativa -Poter far comprendere la complessità di un manufatto architettonico a tutti
-Considerare il fruitore finale di un’architettura il vero protagonista -Creare nuovi punti di vista di fruizione dell’arte
Per fare questo è necessario essere protesi verso il futuro, abbracciare tutti quelli che possono essere i vantaggi del progresso da un punto di vista scientifico, tecnologico e divulgativo.
Ancor prima di addentrarci in quelli che sono i focus principali di questo lavoro di tesi e in quelli che sono i casi esemplificativi in grado di farne comprenderne i ragionamenti alle spalle, ci tengo a precisare il rapporto intrinseco che sussiste tra il contenitore e il contenuto, tra l’architettura e le opere al suo interno contenute.
Vanno intese come complementari e parlerò di digitalizzazione dell’arte riferendomi indistintamente a contenitore e contenuto. Il contenitore, dev’essere capace di mettersi in ombra rispetto agli oggetti che contiene, pur mantenendo lo stesso peso di quest’ultimi.
Creare un database, un archivio digitale, offre innumerevoli vantaggi. È un supporto notevole per lo studio di un determinato manufatto. Controllarlo e gestirlo da remoto, nonché poterci navigare all’interno, prendendo misure e osservando da vicino dettagli che neanche dal vivo si sarebbero potuti osservare, offre la possibilità di uno studio attento, di una possibile tutela del patrimonio.
Inoltre, considerando un’epoca dominata dalla comunicazione digitale, far veicolare l’arte mediante quest’ultima equivale a dire stare al passo con i tempi, accompagnare l’evoluzione.
CAPITOLO 2
Caso Studio: lo Scalone della Reggia di Portici
Costruzioni prestigiose e funzionali, esempi di architettura sfarzosa ed originale con giardini e oltre 120 ville si susseguono lungo il rettifilo costiero che da San Giovanni a Teduccio giunge quasi ai confini del cosiddetto ‘Miglio d’oro’, in cui si concentra la maggior parte della produzione architettonica delle Ville Vesuviane.
La storia dei centri vesuviani si intreccia progressivamente ed indissolubilmente a quella delle eruzioni. Se in epoca romana il processo di colonizzazione agricola conquista le pendici del Vulcano fino al versante settentrionale, con il 79 d.C. la lava trasformò quest’area in un fitto e rigoglioso bosco. Bisogna attendere il XIII secolo per vedere, grazie ad un più pungo periodo di quiete nell’attività del vulcano, il formarsi di alcuni casali nella fascia costiera che progressivaente si estendono lungo le pendici del Vesuvio dando inizio ad un’attiva opera di disboscamento. Nel 1535, il grande Carlo V, reduce dall’impresa di Tunisi, fu il primo a sostare in questi luoghi, nella villa di Leucopetra fatta costruire dal segretario del regno Bernando Maritrano intorno al 1530.
La grande eruzione del 1631 tuttavia aveva coperto di una spessa di lava vulcanica l’intera zona, aveva dissuaso dal costruire oltre ed il bisogno di case aperte sul mare si rivolse così alla costa di Posillipo. che per secoli fu il luogo di riposo e di villeggiatura prediletto dalla corte e dall’aristocrazia napoletana.
Solo nel corso del Seicento si assite ad un fenomeno “sociologicamnete e storicamente” rilevante, la comparsa, cioè, in campo economico e sociale, di un nuovo ceto, quella ‘nobiltà di toga’, composta da commercianti, banchieri e nuovi ricchi che ostentano la loro agiatezza ed il loro nuovo gusto dando un carattere sontuoso alle residenze che acquistano o che ristrutturano.
Un secolo dopo, nel 1707, il colonnello di cavalleria Emanuele Maurizio di Lorena, principe d’Elboeuf, occupò Napoli, aprendo il breve periodo del viceregno austriaco.
Due anni dopo il principe, fidanzandosi con la figlia del duca di Salsa, acquisto un casino sul Granatello di Portici per il cui arredo cercava frammenti di marmo. Avuta
Istituto Geografico Militare, Archivio Carte Antiche. F. III, Edizione 1904. Collocazione 10-B-8
notizia che un contadino nello scavo di un pozzo aveva rinvenuto una grande quantità di marmi e, convinto che quel pozzo si trovasse su un antico edificio (in effetti l’edificio si trovava sui resti del teatro romano), il principe acquistò il suolo e continuò gli scavi, divenendo così il primo archeologo di ventura negli stretti cunicoli degli scavi di Ercolano. Ne trasse molti altri marmi, colonne e le famose sculture dette Erconalesi, che furono portate a Vienna e donate a Eugenio di Savoia.
Morto Eugenio di Savoia, le statue furono acquistate da Augusto II e fu la figlia di quest’ultimo, la regina Maria Amalia Cristina, dopo secoli di disastri ecologici, a vole-
de parco per le battute di caccia del re, divenne, secondo i desideri della regina, il museo delle antichità tratte dagli scavi ercolanesi, cominciati nell’ottobre 1738 e seguiti dieci anni dopo da quelli di Pompei. Sia per il valore socio-culturale che assume, sia per il ruolo architettonico ed urbanistico che svolge, il palazzo reale dà inizio ad una nuova era: nel sito si costruiscono diverse ville secondo una fitta successione lungo la strada regia, addensandosi maggiormente in prossimità della reggia, evidente polo di attrazione. La passione archeologica della regina, che la spingeva a lunghe permanenze nella residenza di Portici, e la fortuna ininterrotta degli scavi, indussero i nobili napoletano a costruire ville lungo la costa, dalle più sontuose alle più modeste, ma tutte espressione di un tempo che fu tra i più belli vissuti dalla società napoletana, quando si sperò che un principe illuminato e sua moglie potessero far avanzare Napoli verso i traguardi della civiltà.
In attesa del trasferimento, la giovane regina pensò di far sorgere in quel posto delizioso e così ricco di antiche sculture, una villa reale. L’ordine di iniziare i lavori fu dato da Carlo III agli architetti Medrano e Canevaro il 23 Agosto 1738. Il palazzo reale, suddiviso in due parti pressocchè simmetriche rispetto alla strada per le Calabrie e circondato da un gran-
La riscoperta di Pompei ed Ercolano, inoltre, con i loro edifici pubblici, gli ambienti urbani e le domus, interessò in modo particolare gli architetti ed i pittori vedutisti che del mondo antico potevano ora vedere, rilevare e disegnare ogni aspetto, dall’aulico al quotidiano, dal pubblico al privato.
In tutta Europa si diffonde, nella seconda metà del Settecento, la voglia e il desiderio di vedere la scoperta più sensazionale di tutti i tempi: Napoli diventa una delle mete del Grand Tour, che molti intellettuali d’oltrape intraprendono per completare la loro formazione; Carlo III fonda a Portici
Villa d’Elboeuf fu fatta costruire nel 1711 dal duca d’Elboeuf, su disegno di Ferdinando Sanfelice
la sede del Museo Ercolanese, chiama dalla Spagna Rocco Gioacchino de Alcubierre, un ingegnere che apre i cantieri e arricchisce la corte di statue e oggetti preziosi; Johann Joachim Whinckelmann diffonde con il suo epistolario il gusto per il mondo antico, rendendo famosa Pompei all’Europa.
Vincenzo
Aloja, incisione, Veduta presso Napoli, Portici e la Torre, presa dal piano di Sorrento.
G. Gravier (dis.) e G.Aloja (inc.) Veduta della real Villa di Portici come si vede dal mare, secolo XVIII. Napoli, museo San Martino
G. Carafa duca di Noja, Mappa Topografica della città di Napoli e dei suoi contorni, 1775. Napoli, Museo di San Martino
Fantasia figurativa e realtà architettonica: Tanto l’architettura più propriamente intesa, quanto la pittura, laddove risulta essere parte integrante dell’architettura delle ville, sono esemplificative sia del modo di organizzare lo spazio che del gusto dell’epoca. La decorazione settecentesca delle residenze vesuviane costituisce un caso eccezionale nella storia delle arti figurative a Napoli, sia per il particolare valore artistico sia per la novità di significato che esprime per l’architettura napoletana del tempo.
Non è un caso che contemporaneamente ai risultati delle campagne di scavo condotte a Pompei e ad Ercolano, proprio in ambiente vesuviano troviamo esempi delle più recenti ricerche pittoriche che in deroga alla forte tradizione locale danno vita ad un fenomeno interessante e per molti versi originale.
Gli affreschi delle ville vesuviane, pur rientrando nella tipologia di quelle quadrature che raggiungono la massima perfezione nei cortili bolognesi o nei palazzo della Roma barocca, se ne differenziano notevolmente per una serie di aspetti: nelle ville vesuviane si tratta per lo più di dipinti che raffigurano prospettive architettoniche realizzate secondo uno spiccato gusto, tipico del Settecento, per la scenografia teatrale applicata alla decorazione pittorica, teso a determinare l’illusione di ambienti che si succedono all’infinito in un gioco di finte architetture spesso elaborato con estrema sapienza.
La decorazione settecentesca risulta parte integrante del disegno architettonico delle ville e ne determina il particolare valore artistico e la novità di significato per tutta
l’architettura napoletana del tempo; inoltre, essendo pensata e realizzata per una dimensione ludica e trasgressiva quale quella della residenza suburbana, presenta caratteri tali da permettere una migliore conoscenza di indirizzi ed aspetti delle esperienze figurative condotte dagli artisti napoletani nel Settecento.
Lo stile di questi affreschi riflette l’indirizzo rocaille della cultura figurativa napoletana alla fine del Settecento; esso si è spogliato di quelle inflessioni da oratoria celebrativa che avevano precedentemente caratterizzato la decorazione delle architetture napoletane, assumendo invece più libertà, fantasia e luce. Le composizioni si snodano, infatti, liberamente entro spazi infiniti e luminosi e contemporaneamente invadono volte e pareti; i colori hanno perso quella pesantezza tipica della produzione pittorica napoletana ed acquistano straordinaria delicatezza di toni ed insolita varietà di sfumature.
In questo vasto ed articolato panorama artistico s’inseriscono, con tutto il peso della loro autorità, le presenze operative di quelli che possono considerarsi tra i maggiori artisti-architetti italiani del tempo: Luigi Vanvitelli, ed insieme a lui Ferdinando Fuga e Domenico Antonio Vaccaro dominano la scena delle arti figurative e dell’architettura e con la loro poliedrica attività di architetti, scenografi e pittori contribuiscono ad inserire la decorazione in una “concezione del fatto creativo come globale unità della visione”. Infatti le loro soluzioni architettoniche ed urbanistiche, che possono considerarsi “un modo ‘vedutistico’ di
pensare lo spazio, di risolvere le architetture come termini entro cui passi o si rifletta un infinito, rappresentano anche i termini più validi attraverso i quali la loro presenza influì e condizionò la pittura decorativa a Napoli nella seconda metà del Settecento. È infatti inoppugnabile che i maggiori affreschi dipinti nelle chiese e nei palazzi napoletani in quegli anni non rientrano più nello spirito tradizionale della decorazione barocca: le fantasiose scenografie non sono più esempi effimeri di complicati virtuosismi, ma sono ora volte ad una suggestiva e quasi sperimentale verifica degli spazi infiniti, e ciò proprio come diretta conseguenza del legame più stretto che si stabilisce tra l’affresco decorativo, e gli altri elementi strutturali o accessori di un ambiente architettonico.
Emerge un nuovo modo di concepire la funzione ed i limiti strtutturali esterni e interni dei monumentali affreschi e delle immense tele destinate a decorare chiese e palazzi del napoletano che non sono più considerati come isolato strumento di fuga visiva degli spazi limitati di una costruzione, ma insieme ad essi concorrono ad una chiara presa di coscienza della realtà spaziale che, appunto, si configura nel suo continuo concatenarsi degli spazi interni con quelli esterni, questi ultimi intesi come reali sia nella loro entità fenomenica, sia quando nascono dalla finzione scenografica della pittura.
Si delinea così nel corso del Settecento un ‘filo sottile’ che parte dalla fantasia figurativa spaziale ed arriva fino alla realtà concreta dell’architettura di cui possono essere considerati esempio tangibile gli schizzi
e i disegni degli artisti-architetti dell’epoca. Nel XVIII secolo, infatti, lo spostamento degli artisti e la circolazione dei disegni autografi o usciti dal laboratorio di un grande maestro si ampliano notevolmente; il prestigio e l’autorità artistica conferita al disegnatore dell’opera cartacea sono ormai riconosciuti indipendentemente da ogni considerazione costruttiva; l’arte del disegno, tradizionalmente considerato come attività meccanica diviene uno dei settori obbligati delle attività d’insegnamento delle Accademie del Settecento e naturalmente anche in quella napoletana.
Un percorso figurativo estremamente affascinante è quello che si snoda lungo il ‘Miglio d’Oro’: esso esprime appieno la rinnovata cultura napoletana del Settecento ricca di allegorie, metafore e invenzioni in grado di destare meraviglia e stupore; l’imitazione della natura e del suo ordine viene abbandonata per lasciar spazio all’illusione, alla finzione e al ‘mirabile artificio’ di un’architettura virtuale che diventano i mezzi per proporre con l’arte una seconda realtà.
Pittori d’architettura o meglio pittori-architetti operano nell’area vesuviana nella seconda metà del Settecento e tramite la loro capacità creativa e la forza dell’immaginazione riescono a trasfromare pareti, soffitti e volte delle residenze suburbane in suggestivi palcoscenici che avvolgono lo spettatore con fantastiche costruzioni virtuali.
Questo percorso figurativo è leggibile attraverso un itinerario che vede come tappe principali le tre ville vesuviane: la Reggia di Portici, la Villa Campolieto ad Ercolano e la Villa del Cardinale a Torre del Greco; esse presentano uno o più ambienti decorati con ‘quadrature’ che riflettono questa particolare tendenza figurativa.
Queste splendide architetture contengono al loro interno altrettante architetture dipinte in cui si legge un lessico apparentemente simile per i temi e gli argomenti trattati, ma declinato in forme diverse a seconda della sensibilità personale dei diversi artisti che vi operano.
È da ritenere molto probabile che il tipo d’intervento decorativo realizzato nella Villa Reale di Portici sia servito d’esempio anche per affrescare gli interni di numerose altre residenze vesuviane, secondo una tipica tendenza della nobiltà napoletana ad adeguarsi agli orientamenti ed alle scelte di gusto della Corte.
Napoli e chiamato come aiuto dal Righini, suo concittadino e scenografo del Teatro San Carlo.
Ben presto egli sostituì il maestro, divenendo scenografo del San Carlo e del Teatrino di Corte, affermandosi soprattutto come ideatore di scenografie teatrali oltre che come abile quadraturista.
Fu per queste sue doti di scenografo che venne incaricato della decorazione dell’atrio della Villa di Portici, la cui ridotta ampiezza mal si addiceva alla destinazione dell’edificio e quindi bisognava dare al visitatore l’illusione di uno spazio più ampio di quello reale con l’uso di finte architetture in prospettiva che dilatano lo spazio oltre misura, accompagnando il visitatore in una sorta di fantasmagorica spazialità ove si oltrepassa il limite tra reale e virtuale.
L’atrio con il relativo scalone fu decorato tra il 1748 e il 1750.
Le pareti sono dipinte con architetture in prospettiva raffiguranti un complesso edificio barocco che illusionisticamente ripropone un sistema di scale e balaustre come continuità della scala costruita; sulla volta è invece rappresentata una cupola con finestroni, lacunari e robusti costoloni ad opaion con lanterna che richiama chiaramente la cupola di Andrea Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma. Autore di queste decorazioni è Vincenzo Re, pittore nativo di Parma trasferitosi a