SUZIE MOORE e il Sogno di una Notte di Inizio Estate di Anita Book (Chapter #3)

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Suzie Moore e il Sogno di una Notte di Inizio Estate una racconto di Anita Book

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Ai miei amati e sempre fedeli booklovers

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Il palco è a pochi metri di distanza dal bagnasciuga, una solida tavola di legno sostenuta da quattro piedi di legno anch’essi e sormontata da due americane, dove sono stati posizionati fari e lenti colorate per l’illuminazione. Suoneremo e canteremo con il mare alle nostre spalle e il cielo che pian piano imbrunisce ammantandosi di stelle. Sarà uno spettacolo da togliere il fiato. I primi sono i musicisti a provare i loro strumenti. Matteo monta la batteria, Enzo imbraccia la chitarra elettrica e l’accorda, Vittorio accenna col basso le note iniziali di qualche brano della scaletta. Alcune persone assistono interessate continuando a sorseggiare i loro cocktail. Quando tocca a me, mi tremano le gambe. Avanti Suzie, il concerto non è ancora cominciato! Mi sistemo al centro del palco e intono Soulless, una canzone scritta da Vittorio. La strofa esce fuori insicura, un po’ sussurrata, ma al ritornello prendo forza ed esplodo. Quando non c’è più niente da regolare, scendiamo e qualcuno mi rivolge dei complimenti ai quali rispondo con un sorriso appena accennato. Non sono allenata a sentirmi al centro dell’attenzione. Sono più una tipa da stare per i fatti miei. «Direi che siamo belli carichi, eh?» dice Matteo, galvanizzato. «Lo siamo sempre, noi» fa Vittorio. Il sole affonda oltre l’orizzonte irradiando il cielo con gli ultimi bagliori di luce rosata. Ammiro il mare, una tavola piatta e rilucente sorvegliata da una famiglia di gabbiani in volo, e all’improvviso vengo rapita da un flashback. Mio fratello Ian adorava il calore della sabbia sotto i piedi; ogni volta che nostro padre ci portava alla Virginia Beach si divertiva un mondo a correre sulla battigia e a scavare per stanare paguri e conchiglie. Distolgo lo sguardo. «Ehi… Tutto bene?». Enzo mi scruta apprensivo, una mano sulla mia spalla. A lui non sfugge niente. «Sì». Annuisco. «Stavo solo… contemplavo il panorama. Incantevole, vero?». Mantiene un’espressione scettica, ma poi dice: «Già, da favola».

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Ormai è scesa la sera e prima di salire sul palco resto ferma sulla riva per un po’, gli anfibi in mano e l’acqua che mi solletica i piedi, cercando di escludere il brusio delle voci alle mie spalle. Il lido pullula di gente che freme d’eccitazione e il cuore inizia a battermi forte. Inspiro ed espiro. Un’operazione molto complicata per chi è ansioso come me. Dovrei averci fatto il callo, eppure ogni volta è come se fosse la prima. «Ehi girl, guarda che ci siamo» dice una voce dietro di me. Mi volto. È Matteo. Ha un abbigliamento che spacca di brutto: canotta nera, pantaloni di pelle e collarino borchiato. «Sì, eccomi». Lo raggiungo, indosso gli anfibi ripulendomi dalla sabbia sotto i piedi e mi avvicino al palco. Accettiamo sempre inviti come questi. Gli eventi che ci permettono di far conoscere la nostra musica, di aggiungere sostenitori al nostro funclub e di racimolare qualche soldo sono la nostra priorità; e questo falò del solstizio d’estate rientra nella categoria. Il proprietario del lido ci presenta e quando saliamo sul palco veniamo accolti da una cascata di applausi. L’adrenalina cresce vertiginosamente. Matteo attacca con la batteria, seguito dalla chitarra elettrica di Enzo. Fasci di luci colorate mi schizzano negli occhi, abbagliandomi. Il mondo intero vibra di onde sonore che penetrano sotto pelle e iniettano nel sangue energia pura. L’aria pare scintillare. Assorbo ogni briciolo di questo flusso potente di caos e frenesia. La musica mi spedisce altrove. Sono io, Suzie, nel mio regno. Inizio a cantare. La voce aderisce a ogni nota; si ammorbidisce sui bassi e graffia sugli alti. I pensieri fuggono a quando ero una ragazzina e sognavo di lanciare il mio urlo di battaglia attraverso la musica; a quando mi esibii per la prima volta davanti ai volti sorpresi dei miei amici d’infanzia, in America, durante un concorso locale. Percepisco la rabbia sciogliersi in una lava bollente che mi brucia l’anima e si tramuta in

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esaltazione. Il pubblico si dimena, le mani sollevate in aria e le bocche spalancate a ripetere insieme a me il ritornello. Non mi sarei mai immaginata una reazione così positiva. A fine esecuzione, il sudore mi imperla il viso e non ho più fiato, ma la soddisfazione è impagabile. Gli applausi vanno avanti per quello che mi sembra un tempo infinito. Mi scambio una rapida occhiata con i miei amici e attacco il brano successivo. Adesso non mi ferma più nessuno.

Gli autografi sono l’ultima cosa che mi sarei sognata. Una ragazzina chiede perfino una foto a Vittorio. «Complimenti!» gli dice stringendogli la mano. La bava alla bocca suggerisce un altro tipo di interessamento, non certo musicale. «Il nostro latin lover colpisce ancora» fa Matteo chiudendo la zip del suo borsone e sistemandoselo sulla spalla. «Dici che se mi metto a offrire drink a tutte le ragazze qui presenti flettendo i muscoli e sollevando le sopracciglia con fare seducente potrei riuscirci anche io?». «Tu non hai bisogno di sollevare le sopracciglia con fare seducente» gli dico con un sorriso. «Sei il batterista più sexy del mondo» sussurro un attimo dopo, al che ricambia anch’egli con un sorriso. «Ho dimenticato lo zaino nello scooter di Vi» lo informo. «Torno subito». Mi allontano, passando in mezzo a teli da mare stesi sulla sabbia e barche rovesciate dalla vernice spellata. La gente continua a ricoprirmi di elogi. Devo rallentare ogni due secondi per rispondere educatamente ai «Sei bravissima!» e ai «Il tuo è un talento fenomenale!». Tutto questo mi stordisce e a dimostrazione della cosa, vado a finire sopra un tizio di cui non mi ero proprio accorta. Qualcosa di freddo e bagnato mi scivola dentro il corsetto. Il suo succo all’ananas, l’odore è inconfondibile. «Merda». Abbasso lo sguardo per calcolare i danni. «Guarda qua che macello!». Una mano tesa entra nel mio campo visivo. Regge un fazzoletto di stoffa.

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Esito alcuni istanti, infine lo prendo. «Grazie» dico mentre cerco di ripulirmi invano. La macchia sul corsetto si allarga vistosamente. Non mi resta che pregare che l’afa l’asciughi. Mi è costato un mucchio di soldi. Restituisco il fazzoletto e alzo gli occhi. «Senti, sono mortificata, davvero, è che sono un po’ fuori e…». Le parole mi muoiono in bocca. L’uomo che mi sta di fronte mi fissa. Mi fissa con un sorriso strano. Sembra quasi che voglia dirmi qualcosa. Non si muove, non parla. Ha una in tasca, nell’altra regge il bicchiere con il succo rimasto. Mi si accappona la pelle. Poi, con estrema tranquillità, solleva il bicchiere e lo muove leggermente in avanti, come per un brindisi. Mi supera, la sua spalla sfiora la mia e un altro brivido mi corre lungo la spina dorsale. Si dilegua. Passa una manciata di secondi prima che riprenda possesso delle mie facoltà e inizi a guardarmi attorno per intercettarlo. Ma di lui non c’è più traccia; sembra che si sia polverizzato come per magia. La mia parte razionale mi dice che la sensazione di disagio è stata un scherzo giocato dalla stanchezza, ma il mio sesto senso cerca di convincermi del contrario. C’era qualcosa che non quadrava in quello sguardo e il suo sorriso sembrava che nascondesse un invito per un altro appuntamento. Ho bisogno di immettere aria nei polmoni. Inspiro a fondo. Non ricordo nemmeno cosa diavolo stessi facendo o dove stessi andando. Mi sento impazzire. «Suz!». Vittorio si fa largo tra la gente. «Eccoti. Non vieni di là?». «Sì, stavo…». Increspo la fronte, la confusione più totale. «Ho lasciato lo zaino con le mie cose nello scooter» dico alla fine. «Ah, okay. Ti accompagno» si propone. «Va bene» mormoro, continuando a guardarmi attorno. «Cerchi qualcuno?» indaga Vittorio. «C’era un tipo che…» inizio ma la frase sfuma nel silenzio. Non è il caso di parlargli dell’incontro con l’individuo dall’aria ambigua. Non voglio rovinarmi la serata. «Un tipo che?». Sospiro. «Niente, lascia perdere». Fa spallucce. «Vabbè». Camminiamo. «La gente ti adora» dice dopo un po’.

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Mi sistemo una ciocca dietro l’orecchio. «E tu quante mutandine hai dovuto firmare?». Non vuole essere un’offesa, e per fortuna non fraintende. Lo sa che anch’io mi diverto a punzecchiare il suo ego. Fa un sorriso malizioso. «Un bel po’». Infila le mani nelle tasche dei pantaloni. Dice: «Hai intenzione di tornare lì nei prossimi mesi? Per l’estate, intendo». Afferro immediatamente il senso della sua domanda. Conosco già la risposta. «No. Ci ho riflettuto a lungo e ho deciso che non sono ancora pronta». Annuisce. «E poi mi piace troppo questo posto. È qui la mia casa, ora». Ed è la verità. Si schiarisce la voce. «Sai, la settimana prossima facciamo una capatina al Bioparco. Avevo proposto il Pincio, ma sono stato battuto due contro uno. Non lo so… Tu sei dei nostri?». «Perché no» dico decisa. Sembra quasi sconcertato dalla mia risposta. «Wow! Bene. Grande». Apro il piccolo scomparto portabagagli e prendo il borsone; lo richiudo con un colpo secco e sorrido. «Allora» dico, «andiamo a divertirci?».

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